LIBRO SECONDO

CAPITOLO DECIMO

In principio, nella matrice stranamente regolare e fredda in cui galleggiava, Egtverchi ebbe coscienza soltanto del suo nome. Lo portava in sé, ereditato, impresso in una spira di DNA, su uno dei suoi geni; un po’ più oltre, sullo stesso cromosoma, il cromosoma X, un altro gene portava il nome di suo padre, Chtexa. E questo era tutto. Nel momento in cui aveva cominciato la sua vita autonoma come zigote o uovo fertilizzato, ciò era stato scritto in lettere di cromatina: il nome era Egtverchi, la sua razza lithiana, il sesso maschile, la sua ereditarietà continua attraverso i secoli lithiani, fino al giorno in cui il mondo di Lithia aveva avuto inizio. Egli non aveva bisogno di comprendere tutto questo; era implicito.

Ma faceva buio, freddo, e c’era troppa uniformità nell’interno della matrice. Minuscolo come un grano di polline, Egtverchi andava alla deriva nel liquido che lo sosteneva, da una all’altra di quelle pareti dolcemente curve e innaturalmente lisce, non ancora conscio, ma consapevole costantemente, chimicamente, di non essere nel marsupio materno. Nessuno dei suoi geni portava il nome di sua madre, ma egli sapeva (non col cervello, perché non lo aveva ancora, ma attraversò una specie di sensazione, di repulsione, puramente chimica, di chi era figlio, a quale razza apparteneva e dove sarebbe dovuto essere: non lì.

E così cresceva, e andava alla deriva, cercando, ad ogni suo rifluire, di attaccarsi alle pareti fredde e lisce della sacca materna, che senza posa lo respingevano. Giunto allo stadio di gastrula, questo riflesso di volersi fissare scomparve, ed egli lo dimenticò del tutto. Si accontentava ora di galleggiare, e di sapere soltanto ciò che sapeva già all’inizio: la sua razza era Lithiana, il suo sesso maschile, il suo nome Egtverchi, suo padre Chtexa, la sua vita doveva cominciare; e la sua nascita sarebbe stata amara e buia come l’interno di un’anfora.

Poi si formò la sua notocorda e le sue cellule nervose si aggrovigliarono in un piccolo nodo, a una delle estremità. Ora aveva una parte anteriore e una parte posteriore, oltre che un nome. Aveva anche un cervello, ed era pesce adesso, poco più d’una larva, che girava e rigirava nel freddo seno di quel mare.

Un mare senza luce e senza onde, ma agitato comunque da un certo movimento, dal lento turbine delle correnti di convezione. E a volte, inoltre, qualcosa lo agitava che non era una corrente: qualcosa che lo forzava ad andare contro il fondo, o contro le pareti. Egli non conosceva il nome di questa forza (come pesce, non conosceva nulla: si limitava a muoversi in cerchio, con la irrimediabilità della sua fame), ma la combatteva ugualmente, come avrebbe combattuto il freddo e il caldo. Nella sua testa, immediatamente davanti alle branchie, c’era una sensibilità che lo avvertiva di dove si trovasse l’«alto». E che gli diceva che un pesce, nel suo ambiente naturale, possiede una massa e un’inerzia, ma non ha un peso. Le sporadiche onde di gravità (o di accelerazione) che lo schiacciavano in quell’acqua senza luce non facevano parte del mondo dei suoi istinti, e quando esse terminavano, egli si trovava spesso a nuotare disperatamente sulla propria schiena.

Poi venne il momento in cui non ci fu più nutrimento, in quel piccolo mare; ma il tempo e i calcoli di suo padre gli furono favorevoli. Proprio in quel momento, la forza peso ritornò, più forte di quanto non fosse mai stata prima, ed egli fu costretto a un lungo periodo di ristagno assoluto, durante il quale non fece altro che battere l’acqua sul fondo dell’urna, con movimenti lenti, esausti.

Quella fase alla fine cessò, e poi il piccolo mare cominciò a muoversi a strappi da un lato all’altro, in su e in giù, avanti e indietro. Egtverchi ora aveva le dimensioni di una larva d’anguilla. Sotto gli ossi pettorali si svilupparono due piccole sacche, che non erano collegate a nessun altro sistema del corpo, ma rapidamente si arricchivano di capillari. Non c’era, in quelle sacche, altro che un po’ d’azoto gassoso, appena quel tanto sufficiente a uguagliare la pressione. Col tempo, si sarebbero trasformate in polmoni rudimentali.

Poi fu la luce.

Innanzi tutto, il coperchio del mondo fu tolto. Gli occhi di Egtverchi non avrebbero potuto in nessun modo mettersi a fuoco su un oggetto, in quello stadio, e, come qualsiasi creatura evoluta, egli era soggetto alla legge neo-lamarckiana che dice che anche una facoltà completamente ereditaria si svilupperà male, se si forma senza avere avuto alcuna occasione di funzionare. Dotato, come Lithiano, di una sensibilità specifica alle variazioni delle pressioni ambientali, la lunga oscurità gli aveva causato minori danni potenziali di quelli che avrebbe causato, senza dubbio, ad altre creature: a una creatura terrestre, per esempio; ciò non di meno, ne avrebbe subito a suo tempo le conseguenze. In quel momento, tutto quello che poteva sentire era il fatto che nella direzione ascendente (stabile e costante, ora) c’era della luce.

Salì verso di essa, rimescolando con le pinne pettorali i tiepidi vortici dell’acqua.


Padre Ramon Ruiz-Sanchez, già del Perù, già di Lithia, e sempre membro della Compagnia di Gesù, provava, guardando i rapidi movimenti di quella piccola creatura, un bizzarro miscuglio d’emozioni. Non poteva evitare di sentire per quella piccola lucertola serpeggiante la pietà che provava per ogni creatura vivente, insieme con un’estasi estetica davanti alla sicurezza rapida e imprevedibile dei suoi movimenti. Tuttavia, quell’animaletto era lithiano…

Aveva avuto più tempo di quanto gliene occorresse per esplorare la nera tenebra vuota su cui si trovava. Ruiz-Sanchez non aveva mai sottovalutato il potere di cui era ancora dotato il Male: potere rimastogli — e la Chiesa era concorde su questo punto — anche dopo la sua caduta da presso il Trono dell’Altissimo. Come Gesuita, Ruiz-Sanchez aveva esaminato e discusso troppi casi di coscienza per dubitare ancora della potenza e della sottigliezza del Maligno. Ma che tra i suoi poteri l’Avversario contasse anche quello del creare, questo non gli era mai venuto in mente… prima di Lithia. Era un potere che doveva essere riservato a Dio e a Dio soltanto. Pensare che potesse esservi più di un demiurgo era un’eresia totale e, per di più, un’eresia antica.

Comunque fosse, era così, eresia o no. La totalità di Lithia e, in particolar modo, l’intera sua specie dominante, quella specie razionale e meravigliosa che erano i Lithiani, era stata creata dal Maligno, allo scopo di offrire agli uomini una tentazione nuova, specificamente intellettuale, scaturita come Minerva dal cervello di Giove. A causa di quella nascita, innaturale come quella narrata dal mito, coloro che potevano ammettere, anche per un solo istante, che un altro potere, oltre a quello di Dio, potesse creare, si sarebbero portati simbolicamente la mano alla fronte; ne sarebbe seguito un acuto, lancinante dolore nel cranio della teologia; un’emicrania morale; addirittura un’esplosione cosmologica, perché Minerva richiama sempre Marte, sulla Terra come — Ruiz-Sanchez ricordò con dolore — come in cielo.

Dopotutto, egli c’era stato, e sapeva.

Ma tutto ciò poteva attendere ancora un po’. L’essenziale, per il momento, era che quella piccola creatura, inoffensiva come un’anguilla di dieci centimetri, fosse ancora in vita e, a quanto sembrava, in buona salute. Ruiz-Sanchez, preso un recipiente pieno d’acqua e formicolante di migliaia di Cladocera e ciclopi allevati in coltura, ne versò quasi la metà nell’urna dai colori sottilmente brillanti. Immediatamente, il giovane Lithiano sprofondò nell’oscurità, all’inseguimento dei microscopici crostacei. L’appetito, rifletté il sacerdote, è un universale indicatore di buona salute.

— Guardatelo, che fame ha! — disse una voce dolce dietro le sue spalle. Egli alzò lo sguardo e sorrise. Quelle parole erano state pronunciate da Liu Meid, capo del laboratorio dell’ONU, alla quale il piccolo Lithiano era stato affidato per molti mesi a venire. Piccola, bruna, con un’aria di calma quasi infantile, la donna fissava l’interno del vaso, aspettando che la piccola sagoma riapparisse.

— Siete sicuro che non gli faranno male? — domandò.

— Spero di no — rispose Ruiz-Sanchez. — Sono crostacei della Terra, d’accordo, ma il metabolismo lithiano è straordinariamente analogo al nostro. Anche il pigmento del sangue è analogo all’emoglobina, anche se il suo metallo base, ovviamente, non è il ferro. Il loro plancton include forme molto simili ai ciclopi e alle pulci d’acqua. No, se è sopravvissuto al viaggio oso dire che le nostre ulteriori attenzioni non lo uccideranno.

— Il viaggio? — disse Liu lentamente. — Come avrebbe potuto nuocergli?

— Non potrei dire esattamente. Chtexa, suo padre, ce lo ha dato chiuso in quest’anfora, già sigillata. Non abbiamo avuto modo di sapere quali precauzioni avesse preso per proteggere suo figlio dalle varie tensioni del volo spaziale. E non abbiamo osato aprire il vaso per guardare: se c’era una cosa di cui eravamo sicuri, è che Chtexa non poteva avere sigillato il vaso senza le sue buone ragioni; dopo tutto, conosce la fisiologia della sua razza meglio di ognuno di noi, compreso me e il dottor Michelis.

— È a questo che pensavo — disse Liu.

— Lo so. Ma vedete, Liu, Chtexa non conosce il volo spaziale. Oh, conosce le normali tensioni del volo in aereo: i Lithiani hanno aerei a reazione. Ma era la superpropulsione Haertel che mi preoccupava. Ricorderete i fantastici effetti temporali che Garrard dovette subire durante il primo volo ad Alpha centauri. Non avrei potuto spiegare le equazioni di Haertel a Chtexa neppure se ne avessi avuto il tempo. Sono conoscenze che per i Lithiani devono rimanere segrete; inoltre, Chtexa non avrebbe potuto capirle, perché la matematica lithiana ignora i numeri transfiniti. E il tempo è un fattore della massima importanza, nella gestazione lithiana.

— Perché? — domandò Liu, spingendo lo sguardo nell’interno del vaso, con un sorriso istintivo.

La domanda toccava un nervo che in Ruiz-Sanchez era rimasto esposto per molto tempo. — Perché — rispose scegliendo con cura le parole, — in loro la ricapitolazione fisica avviene esternamente al corpo materno. Ecco perché questa creatura è attualmente un pesce; da adulto, sarà un rettile, sebbene con sistema circolatorio pteropside e altre numerose caratteristiche non appartenenti ai rettili. Le femmine Lithiane depongono le uova in mare…

— Ma nell’anfora c’è acqua dolce!

— No, è acqua di mare. I mari di Lithia sono meno salati dei nostri. Schiudendosi, l’uovo dà alla luce una creatura pisciforme, come questa che vedete qui; poi il pesce sviluppa polmoni e le maree lo gettano sulla spiaggia. Li sentivo latrare a Xoredeshch Sfath: latravano per tutta la notte, cacciando l’aria dai polmoni e sviluppando così la muscolatura del diaframma.

Inaspettatamente, rabbrividì. Il ricordo del suono era di gran lunga più sconvolgente di quel che non fosse stato il suono medesimo. A quell’epoca, egli non sapeva di cosa si trattasse… cioè, no, sapeva di cosa si trattava, ma non ne conosceva il significato.

— Finalmente i dipnoi sviluppano le gambe e perdono la coda, come i girini, ed entrano nelle foreste lithiane come veri anfibi. Dopo qualche tempo, il sistema respiratorio cessa di dipendere parzialmente dalla pelle, così che essi non hanno più bisogno di restare in prossimità dell’acqua. Infine divengono veri adulti, vale a dire un tipo di rettile molto progredito, marsupiale, bipede, omeostatico e dotato di grande intelligenza. I nuovi adulti escono dalla giungla e sono pronti a ricevere la loro educazione nelle città.

Liu respirò profondamente. — Meraviglioso — mormorò.

— Proprio così — rispose il sacerdote, cupo. — Anche i nostri figli passano per gli stessi stadi, o quasi, nel seno materno, ma sono protetti dall’inizio alla fine del processo; i figli dei Lithiani devono invece accettare la sfida dell’ecologia posseduta dal pianeta. Ecco perché temevo l’iperpropulsione Haertel. Abbiamo isolato il vaso nei riguardi dei campi di forza, come meglio siamo stati capaci, ma in un processo di maturazione così legato alle apparenze dell’evoluzione, un rallentamento dei tempi potrebbe essere nocivo. Nel caso di Garrard, il suo tempo si rallentò a un’ora al secondo, poi accelerò a un secondo all’ora, poi tornò a rallentare e così via, secondo un andamento sinusoidale. Se ci fosse stata una perdita di isolamento, al figlio di Chtexa sarebbe potuto succedere qualcosa di simile, con conseguenze imprevedibili. Evidentemente non c’è stata nessuna perdita di isolamento, ma io ero preoccupato.

La ragazza pensò alle parole di Ruiz-Sanchez. Egli stesso, per evitare di pensarci (poiché, a forza di pensarci sopra, era caduto a spirale in una completa, insuperabile impasse) la guardò mentre meditava. Era sempre riposante osservarla, e Ruiz aveva bisogno di riposo. Gli sembrava di non aver più avuto tregua dall’istante in cui era svenuto tra le braccia di Agronski, sulla soglia della casa di Xoredeshch Sfath.

Liu era nata e cresciuta nello stato della Più Grande New York. Il complimento più cordiale che Sanchez potesse farle era dirle che nessuno avrebbe potuto indovinarlo. Da buon peruviano, il Gesuita detestava quella megalopoli popolata da diciannove milioni di abitanti con una veemenza che egli sarebbe stato il primo a definire non cristiana. Liu non aveva nulla in sé di trepidante o di frenetico. Era calma, posata, serena, dolce; il suo riserbo era impenetrabile, senza che per questo ella fosse fredda o inibita; le sue reazioni a qualsiasi cosa che entrasse in contatto con lei dirette e semplici come quelle di un gattino; il suo atteggiamento davanti agli uomini, virtualmente fiducioso, e non per ingenuità, ma per la sua certezza che la propria essenza era tanto inviolabile da impedire a chicchessia di volerla violare.

Questi furono i termini astratti che si presentarono per primi alla mente di Ruiz-Sanchez, ma subito un altro pensiero lo rattristò. Esattamente come nessuno avrebbe potuto crederla newyorkese (il suo accento non tradiva nessuno degli otto dialetti, ormai reciprocamente incomprensibili, che si parlavano nella città, e nessuno, in particolare, avrebbe indovinato che i suoi genitori parlavano soltanto bronxiano), così nessuno avrebbe mai detto a prima vista che era un tecnico di laboratorio.

Sebbene non fosse un ordine di idee che Ruiz-Sanchez amasse seguire, si trattava di un fatto troppo evidente per ignorarlo. Liu era delicata e intensamente femminile come una geisha. Si vestiva sempre con una modestia squisita, non quel genere di modestia che vuol nascondere, ma quello che consiste nel portare abiti femminili che non hanno vergogna di quel che mostrano, senza tuttavia mettere nulla in evidenza. Sotto quei colori delicati, Liu era una Venere Callipigia con un lento, distratto sorriso, inesplicabilmente inconsapevole del fatto che ci si aspettava che lei (né tantomeno altri), in ossequio alla leggenda e alla propria natura, tributasse incessantemente onori alla solida curva dei lombi.

E a questo punto era meglio smettere. La piccola anguilla, che dava la caccia ai crostacei d’acqua dolce nell’urna di porcellana poneva già abbastanza problemi, alcuni dei quali sarebbero divenuti anche problemi di Liu. Era meglio non complicare il compito di Liu con delle speculazioni non belle, anche se queste non venivano comunicate con altro che uno sguardo incuriosito. Ruiz-Sanchez era abbastanza sicuro di sapersi tenere entro il cammino a lui ordinato, ma non era corretto gravare questa dolce, gentile ragazza con un sospetto che essa non avrebbe saputo come affrontare.

Il Gesuita si girò con un movimento brusco, dirigendosi verso la grande parete trasparente del laboratorio che, dall’alto dei suoi trentaquattro piani, dominava la città. Non si trattava di un’altezza eccezionale, ma per Ruiz-Sanchez era più che sufficiente. La rombante, torrida megalopoli coi suoi diciannove milioni di anime lo disgustava, come sempre, o forse anche più del solito, dopo la lunga permanenza nelle calme vie di Xoredeshch Sfath. Ma almeno egli poteva consolarsi pensando che non avrebbe dovuto trascorrervi tutto il resto della sua vita.

In un certo senso, lo Stato di Manhattan non era che un relitto, non solo politicamente, ma anche fisicamente. Quel che se ne vedeva di lassù sembrava un enorme fantasma dalle molte teste. I grattacieli in rovina erano praticamente vuoti ventiquattr’ore su ventiquattro. In ogni istante del giorno e della notte, la quasi totalità della popolazione dello stato (e di ogni altra città-stato del globo) era nel sottosuolo.

La zona sotterranea era autosufficiente. Aveva le sue proprie fonti di energia termonucleare, le sue colture idroponiche, le sue migliaia di chilometri di tubature illuminate, di plastica, nelle quali alghe in sospensione correvano in abbondanza e proliferavano senza posa; scorte alimentari e farmaceutiche per decine di anni erano ammassate in frigoriferi; e inoltre, la città sotterranea aveva un impianto idrico del tutto indipendente, capace di recuperare l’umidità atmosferica e perfino l’acqua delle fognature, e prese d’aria capaci di distruggere gas venefici, virus, pulviscolo radioattivo. Le città-stato erano ugualmente indipendenti da ogni governo centrale, ognuna essendo posta sotto l’egemonia di un’Autorità Strategica, modellata sulle antiche autorità portuali del secolo precedente, dalle quali infatti discendevano in linea diretta.

La frammentazione della Terra era stata il risultato finale della corsa internazionale al cosiddetto Rifugio degli anni compresi tra il 1960 e il 1985. La corsa alle bombe a fissione, cominciata nel 1945, era praticamente finita cinque anni dopo; la corsa alle bombe a fusione e quella ai missili balistici intercontinentali avevano chiesto ognuna altri cinque anni.

La corsa ai Rifugi aveva richiesto di più, non perché fosse stato necessario, per condurla a buon fine, acquisire nuove cognizioni tecniche o scientifiche, ma per l’ampiezza del programma di costruzioni che essa implicava. Per difensiva che fosse potuta apparire a prima vista, la corsa ai Rifugi aveva assunto tutte le caratteristiche di una classica corsa agli armamenti: ogni nazione rimasta indietro rappresentava un invito all’aggressione. C’era stata una differenza, tuttavia. La corsa ai Rifugi era stata intrapresa perché ci si rendeva conto che la minaccia d’una guerra nucleare era non solo imminente, ma trascendente; la guerra poteva scatenarsi in qualunque momento; il fatto che non avvenisse significava che si sarebbe dovuti vivere con quella minaccia sul capo per almeno un secolo, se non per cinque. Così che questa corsa era stata non soltanto frenetica, ma a lunga scadenza…

E come tutte le corse agli armamenti, alla fine, s’era distrutta da sé, questa volta, perché quelli che l’avevano pianificata, l’avevano pianificata per un tempo troppo lungo. L’economia Rifugio era diffusa per tutto il mondo ora, ma la corsa non s’era ancora conclusa quando avevano cominciato ad apparire segni palesi che la gente non si sarebbe affatto rassegnata a vivere a lungo sotto quel regime: non per cinque secoli, ma nemmeno per uno. Donde i Tumulti di Corridoio del 1993, primi sintomi significativi, a cui molti altri ne dovevano seguire.

I tumulti avevano offerto alle Nazioni Unite la scusa che occorreva loro per creare finalmente un autentico governo sovranazionale: uno stato planetario retto da una mano di ferro. I tumulti avevano offerto la scusa, e l’economia Rifugio, con la sua frammentazione neo-ellenica del potere politico, aveva dato all’ONU i mezzi.

Teoricamente, ciò avrebbe dovuto risolvere ogni cosa. Una guerra nucleare non era più concepibile fra gli Stati membri; la minaccia era stata stornata… ma come smantellare un’economia Rifugio? Un’economia la cui costruzione era costata venticinque miliardi di dollari all’anno, per venticinque anni? Un’economia sprofondata ora nel seno della Terra, in miliardi di tonnellate di cemento e acciaio, alla profondità di quasi due chilometri? Questo non poteva essere disfatto; il pianeta sarebbe stato ormai un mausoleo per i vivi fino a quando la Terra stessa fosse perita: tombe, tombe, tombe…

La parola risuonò confusamente nelle orecchie di Ruiz-Sanchez, lontana. Il basso rombare infrasonico della città sepolta faceva tremare i vetri davanti a lui. Mescolato con esso c’era un allarmante rumore di macina, che non posava mai e gli pareva più forte di quanto non fosse mai stato in precedenza: come il rumore di una palla di cannone che gira su una pista di legno.

— Spaventevole, non è vero? — disse la voce di Michelis alle sue spalle. Il Gesuita lanciò un’occhiata stupita alla massiccia figura del chimico: stupita non perché non l’avesse udito entrare, ma perché Michelis gli rivolgeva nuovamente la parola.

— Infatti — rispose. — E mi fa piacere che lo abbiate notato anche voi. Temevo che potesse essere una forma d’ipersensibilità da parte mia, dopo una così lunga assenza…

— Può darsi benissimo che la vera ragione sia questa — commentò Michelis in tono grave. — Sono stato assente anch’io per molto tempo.

Il prete scosse il capo.

— No, non si tratta d’ipersensibilità — disse — ma di un disagio reale. Queste sono condizioni intollerabili in cui far vivere la gente. E non si tratta soltanto di costringere le popolazioni a vivere novanta giorni su cento in fondo a un pozzo, ma del fatto, in realtà, che non c’è giorno in cui non si viva nella certezza di essere sull’orlo dell’annientamento. Abbiamo abituato i loro genitori a pensare in questi termini, a vivere nella paura, diversamente non si sarebbero mai trovate imposte sufficienti per pagare la costruzione dei rifugi, e naturalmente i figli sono stati allevati in questa paura. È inumano.

— Lo è poi davvero? — disse Michelis, dubbioso. — Per non so quanti secoli, l’umanità ha vissuto ossessionata dalla paura… fino a Pasteur, per esempio. Quanto tempo è passato da allora?

— È stato intorno al 1860 — rispose Ruiz-Sanchez. — Ma è molto diverso ora. Le pestilenze erano capricciose, v’era sempre una certa quantità di gente che aveva probabilità di sopravvivere; ma le bombe a fusione non risparmiano nessuno, sono universali. — Rabbrividì involontariamente. — E le abbiamo davanti a noi. Poco fa, mi sono colto a pensare che la minaccia sotto cui viviamo è non soltanto imminente, ma trascendente; la morte, nell’èra prescientifica, era imminente e immanente insieme, incombeva ed era implicita in ognuno, ma non era mai trascendente. In quel tempo, Dio solo era interno, esterno e trascendente insieme, e questa era la speranza della gente, allora. Oggi, invece di questa speranza, abbiamo dato al mondo la Morte.

— Scusatemi — disse il chimico, la cui faccia ossuta s’era fatta più dura del marmo. — Sapete che non posso discutere con voi in questo campo, Ramon. Sono già stato battuto una volta. E una volta mi basta.

Si voltò: Liu, che stava facendo un esperimento e offriva alla luce tutta una serie di provette, osservava Michelis di sotto le palpebre abbassate. Quando lo sguardo di Ruiz-Sanchez si posò su di lei, ella distolse prontamente gli occhi. Il Gesuita non capì se Liu si fosse accorta di essere stata sorpresa; ma le provette tintinnarono più del solito, quando lei le rimise nella rastrelliera.

— Scusatemi — disse. — Liu, vi presento il dottor Michelis, uno dei miei compagni su Lithia. Mike, vi presento la dottoressa Liu Meid, che si prenderà cura del figlio di Chtexa per un periodo indefinito, più o meno sotto la mia supervisione. Liu è uno dei migliori xenobiologi del mondo.

— Molto lieto — disse Michelis gravemente. — Dunque sarete voi e il Padre a fungere da genitori adottivi del nostro piccolo ospite lithiano. È una responsabilità molto pesante per una giovane donna, oso dire.

Il Gesuita provò la tentazione (assolutamente non cristiana) di dare all’allampanato chimico un calcio negli stinchi; ma nella voce di Michelis non pareva esserci coscientemente alcuna malizia.

La ragazza si limitò ad abbassare gli occhi e a trarre profondamente il respiro, mormorando con voce quasi inaudibile: — Ah-so-deska.

Michelis alzò le sopracciglia, ma dopo un attimo fu chiaro che Liu non intendeva dire altro, almeno questa volta. Un po’ imbarazzato, Michelis si rivolse al prete e si accorse che aveva ancora sulle labbra l’ombra di un sorriso.

— Dunque, sono «tutto piedi» — disse Michelis con un sorriso colpevole. — Ma temo di non avere il tempo di migliorare la mia educazione, almeno per qualche tempo. Ci sono numerose cose da concludere. Ramon, fra quanto tempo potrete affidare il figlio di Chtexa alle cure della dottoressa Meid? Ci è stato chiesto di redigere una versione ufficiale non segreta, del nostro rapporto su Lithia…

— Noi?

— Sì, voi e io.

— E Cleaver e Agronski?

— Cleaver non c’è — spiegò Michelis. — Non so nemmeno dove sia andato a finire. E per qualche ragione misteriosa non sembra che Agronski sia desiderato; forse, non ha sufficienti titoli accademici che accompagnano il suo nome. Si tratta del «Journal of Interstellar Research», e sapete quanto siano schizzinosi… sono dei parvenu in fatto di prestigio scientifico, cosa questa che li rende più accademici degli stessi accademici. Ma credo che valga la pena di fare questo lavoro, non fosse altro che per divulgare qualcuno dei nostri dati. Potrete trovare il tempo di farlo?

— Credo di sì — rispose il Gesuita. — Purché mi sia consentito di inserire questo lavoro fra la nascita definitiva del figlio di Chtexa e il mio pellegrinaggio.

Michelis inarcò nuovamente le sopracciglia: — Già, questo è un Anno Santo, no?

— Appunto — disse Ruiz-Sanchez.

— Oh, credo proprio che riusciremo a farcela — disse Michelis. — Ma… scusate la mia indiscrezione, Ramon, ma non mi sembrate un uomo che abbia urgente bisogno del grande perdono. Ciò forse significa che avete cambiato idea nei riguardi di Lithia?

— No, non ho cambiato idea — rispose Ruiz-Sanchez a bassa voce. — Abbiamo tutti bisogno del grande perdono, Mike. Ma non è per questo che vado a Roma.

— Allora…?

— Prevedo che dovrò esservi giudicato per eresia.

CAPITOLO UNDICESIMO

Una vaga luce pioveva sulla zona acquitrinosa in cui giaceva Egtverchi, in un punto ad oriente dell’Eden, ma il giorno e la notte non erano ancora stati creati e non c’erano ancora né vento né onde a sospingerlo, mentre espelleva, con latrati, l’acqua dai polmoni e urlava nell’aria rovente. Pieno di speranza, agitò le membra spuntategli di recente ed ebbe una sensazione di movimento; ma non c’era luogo ove andare, non c’era nulla da cui fuggire. La luce, invariabile e grigia, assomigliava in modo rassicurante a un cielo perpetuamente coperto, ma Qualcuno aveva trascurato di dargli quel periodo regolare di tenebra e di nulla in cui l’animale, rafforzandosi dopo i suoi insuccessi, cerca nelle profondità del suo Io la gioia sufficiente ad accogliere un altro giorno nuovo.

«Gli animali non hanno anima», aveva detto Cartesio, gettando un gatto dalla finestra per dimostrare, se non il suo assunto, la sua fede, almeno, in esso. Il timido genio del razionalismo meccanicistico, che sapeva bene gettare gatti dalla finestra, ma non sapeva affatto barcamenarsi coi Papi, non aveva mai visto un vero automa, così che non s’era mai accorto che all’animale non l’anima manca, ma la mente. Una calcolatrice elettronica che possa in due secondi e mezzo soddisfare i parametri delle equazioni di Haertel per tutti i valori possibili è intellettualmente un genio, ma per quel che riguarda le emozioni è uno zero, anche a paragone di un gatto.

Esattamente come l’animale che, incapace di pensare, reagisce alle esperienze di ogni istante con la pienezza di emozioni immediatamente accusate (e immediatamente dimenticate) da tutto il suo corpo, ha bisogno di quella morte temporanea che è la notte per prolungare la sua esistenza, l’animale neonato ha bisogno delle battaglie della giornata per divenire l’adulto sonnolento e fiducioso a cui lo destinano i suoi geni; e anche in ciò Qualcuno aveva negletto Egtverchi. Alla fanghiglia era stata aggiunta una certa quantità di sapone, accuratamente dosata, in modo da consentirgli di dimenarsi sul pavimento della sua gabbia, ma non di progredire abbastanza da urtare la testa contro le pareti di essa. Ciò gli salvava la testa, ma rendeva inutili i muscoli delle sue zampe. Quando il suo periodo di gracidii fu terminato ed egli divenne un animale saltatore, si poté constatare che non saltava molto bene.

Ma anche questo, in un certo senso, era stato previsto. Non esisteva cosa alcuna, in questa sua infanzia, da cui avesse bisogno di fuggire a grandi balzi terrorizzati, né v’era luogo in cui un breve salto potesse portarlo. Anche il più lieve balzo finiva sempre con un urto invisibile, seguito da una scivolata alla quale nessun istinto lo aveva mai preparato: essa risultava sempre innocua, ma nessuno dei suoi riflessi lo aiutava a rialzarsi con eleganza. Del resto, un animale che ha sempre la coda dolorante non può essere certo elegante, indipendentemente dai suoi istinti.

Alla fine, dimenticò del tutto come saltare e si limitò a restarsene accoccolato in un angolo, aspettando la trasformazione successiva, e lanciando occhiate cupe alle teste che cominciavano ad affollarsi intorno a lui, nelle sue ore di veglia. Quando poté rendersi conto del fatto che quegli osservatori erano vivi come lui, ma molto più grandi, i suoi istinti erano talmente intorpiditi che ne risultò solo una vaga inquietudine, incapace di qualunque azione.

La nuova metamorfosi fece di lui un animale in grado di camminare, dalle gambe gracili e fiacche, dalla testa troppo grossa, inetta a valutare le distanze. Fu a questo punto che Qualcuno provvide a farlo trasferire nel terrario.

Qui finalmente gli ormoni della sua adolescenza si svegliarono e cominciarono a scorrergli nel sangue. Le risposte appropriate a un mondo come quella minuscola giungla erano state iscritte imperativamente su ognuno dei suoi cromosomi; e qui, tutto ad un tratto, egli si sentì quasi a casa sua. Cominciò a camminare sulle gambe malferme nella verzura del terrario, con un surrogato di gioia, cercando qualche cosa da fuggire qualche cosa da combattere, qualche cosa da mangiare, qualche cosa da imparare. Tuttavia, alla lunga, fu molto se poté trovare un angolo per dormire, che, nel terrario, la notte era più sconosciuta che mai.

Fu sempre là che per la prima volta divenne consapevole di certe differenze tra le creature che lo osservavano e talvolta lo molestavano. Due di esse erano quasi sempre visibili, separatamente o insieme; erano quelle che lo molestavano, anche se non sempre si trattava di maltrattamenti, che talvolta questi esseri, con le loro cocenti punture e le loro mani maldestre, gli davano da mangiare qualche cosa che egli non aveva assaporato o gli facevano qualche altra cosa che gli piaceva e lo infastidiva insieme. Non riusciva a comprendere quella situazione, ma essa non gli era gradita.

Dopo qualche tempo, si sottrasse alla vista di tutti gli osservatori, eccettuati quei due (quando non si sottraeva anche a questi, dato che passava il suo tempo a dormire). Quando ne aveva bisogno, chiamava: «Szan-cetz». (Non poteva dire «Liu»: la sua lingua legata al mesenterio e il suo palato quasi fesso ancora non potevano dominare una combinazione così ardua di liquide: doveva attendere di essere adulto per cose del genere.)

Poi cessò di chiamare e prese l’abitudine di restarsene apaticamente acquattato presso lo stagno al centro della giungla in miniatura. L’ultima sera della sua esistenza di lucertola, nel porre la protuberante scatola cranica nella cavità muscosa dove faceva più buio, sentì nel sangue che all’indomani, quando si fosse destato al suo destino di creatura pensante, sarebbe stato vecchio di quell’età che è la maledizione di coloro i quali non sono mai stati giovani un solo istante. Domani, sarebbe stato una creatura pensante, ma quella sera la stanchezza era in lui…

E poi si svegliò; e il mondo com’era cambiato! Le porte molteplici che pongono in comunicazione i sensi con l’anima s’erano chiuse; improvvisamente, il mondo era diventato una cosa astratta. Egli aveva compiuto il passaggio dall’animale all’automa, che tanti guai aveva destato, ad oriente dell’Eden, nel 4004 a.C.

Non era un uomo, ma avrebbe dovuto lo stesso dare il suo tributo per il pedaggio di quel ponte. A partire da quel momento, nessuno più sarebbe stato in grado di indovinare che cosa egli sentisse nella sua anima animale, lui stesso meno d’ogni altro.


— Chi sa a che cosa pensa? — domandò Liu perplessa, fissando la testa enorme, grave, del Lithiano, che si chinava verso di loro dall’altro lato della porta di piroceram trasparente. Egtverchi (egli aveva detto loro il suo nome prestissimo) poteva sentirla, anche se il laboratorio era diviso in due; ma non disse nulla. Finora s’era mostrato tutt’altro che ciarliero, sebbene lettore vorace.

Ruiz-Sanchez non rispose, anche se il giovane Lithiano, alto quasi tre metri, destava in lui un sentimento di perplessità e di timore: lo stesso sentimento che egli, Ruiz-Sanchez, destava in Liu… ma il Gesuita riteneva che le sue ragioni d’allarme nei riguardi del Lithiano fossero più importanti! Lanciò un’occhiata in direzione di Michelis.

Il chimico finse di ignorare entrambi. Ruiz-Sanchez poteva capire tutto ciò, almeno per quel che lo riguardava: il loro tentativo di redigere in comune un rapporto imparziale sulla spedizione di Lithia per il «J.I.R.» s’era rivelato disastroso per le relazioni, già tese, fra i due scienziati. Ma quella stessa tensione, come il Gesuita poteva vedere, addolorava Liu senza ch’ella stessa se ne accorgesse; e questo, lui non poteva ammetterlo. Liu non c’entrava, era innocente. Fece un tentativo disperato per attirare l’attenzione di Michelis…

— Attualmente, è nel suo periodo di apprendimento — disse, — e passa necessariamente la maggior parte del tempo ad ascoltare. Bisogna un po’ rifarsi alla famosa leggenda del bambino lupo che, allevato da animali, giunge a un dato momento nelle città senza conoscere il linguaggio degli uomini, ma con questa differenza: che i Lithiani non imparano la loro lingua durante l’infanzia, e quindi non hanno nessun «blocco» che impedisca loro di impararla agli inizi della vita adulta. Ecco perché Egtverchi ha bisogno di ascoltare continuamente (i nostri bambini lupo, nella maggioranza dei casi, invece non imparano a parlare). E infatti egli ci sta ascoltando anche in questo momento.

— Ma perché non risponde alle nostre domande? — domandò Liu turbata, evitando di guardare direttamente Michelis.

— Perché, secondo il suo punto di vista, non ha ancora niente da dirci — disse Ruiz. — E ai suoi occhi non abbiamo l’autorità necessaria per rivolgergli delle domande. Qualunque Lithiano adulto potrebbe interrogarlo, ma a quanto pare noi non ne abbiamo i requisiti; e quella che Mike chiama «parentela adottiva» non significa nulla per una creatura adattata a un’infanzia solitaria.

Michelis non disse nulla.

— Prima, almeno, ci chiamava — riprese Liu in tono triste. — Cioè, almeno chiamava voi.

— La cosa è diversa. Prima si trattava di una reazione di piacere; non aveva nulla a che vedere con l’autorità o con l’affetto. Se prendiamo un gatto, o anche un topo, e gli impiantiamo un elettrodo nel setto o nel nucleo caudato, in modo che possa stimolare elettricamente il proprio cervello col semplice atto di premere una leva, allora possiamo addestrarlo a fare qualsiasi cosa (tra quelle che può fare, beninteso) in cambio della sola ricompensa di quella piccola scossa nel cervello. Nello stesso modo, un gatto, un ratto da laboratorio, un cane, imparano a rispondere al proprio nome, o a fare qualche azione, per ottenere piacere. Ma non possiamo aspettarci che l’animale ci rivolga la parola o risponda alle nostre domande soltanto per il fatto che può fare certe azioni sotto stimolo.

— Non ho mai studiato questi antichi esperimenti sul cervello — disse Liu. — Mi paiono una cosa orribile.

— Anche a me — rispose Ruiz. — È un antico filone di ricerche che, per chissà quale motivo, si è interrotto. Non ho capito perché i nostri megalomani non l’abbiano mai applicato agli esseri umani. Una dittatura basata su questo principio potrebbe davvero durare mille anni. Comunque, la cosa non ha niente a che vedere con ciò che mi chiedevate di Egtverchi: quando sarà maturo per parlare, Egtverchi parlerà. Frattanto, non abbiamo la statura necessaria, per costringerlo a rispondere alle nostre domande. Per ottenere questo, dovremmo essere degli adulti Lithiani, altri quattro metri.

Gli occhi di Egtverchi si ricoprirono della loro membrana, poi, bruscamente, il Lithiano giunse le mani.

— Voi siete già troppo alti per me — disse con la sua voce rauca, attraverso l’altoparlante.

Colta da una gioia improvvisa, Lìu batté le mani.

— Avete visto, Ramon? Avete visto? Egtverchi, che cosa vuoi dire? Spiegaci che cosa hai voluto dire.

Egtverchi mormorò a titolo sperimentale:

— Liu, Liu, Liu…

— Sì, proprio così, Egtverchi. Continua, continua… che cosa volevi dire? Spiegaci che cosa volevi dire.

— Liu…

Egtverchi parve aver perso interesse a proseguire. Ogni colore era scomparso dai suoi bargigli. Riprese il suo atteggiamento di statua.

In quell’istante, Michelis emise un colossale sbuffo di disprezzo. Liu si volse di scatto, e così pure Ruiz, anche senza averne avuto l’intenzione.

Ma era troppo tardi. Il massiccio chimico della Nuova Inghilterra aveva già voltato loro la schiena, come disgustato con se stesso per avere interrotto il proprio silenzio. Lentamente, anche Liu si volse dall’altra parte, forse soltanto per nascondere il proprio viso a tutti, compreso Egtverchi. Ruiz venne lasciato solo, al vertice di quel tetraedro di disinteresse.

— Sarà davvero una bella esibizione, per un aspirante cittadino delle Nazioni Unite — disse improvvisamente Michelis, in tono di amarezza, senza voltarsi. — Suppongo che era quanto vi aspettavate chiedendomi di venire qui. Che cosa vi ha indotto a parlarmi dei grandi progressi che avrebbe fatto? Da come parlavate, a questo punto dovrebbe già essere in grado di enunciare complicati teoremi matematici.

— Il tempo — disse Egtverchi, — è una funzione del cambiamento, e il cambiamento è l’espressione della validità relativa di due proposizioni, una delle quali contiene un tempo t e l’altra un tempo t primo, che differiscono tra loro soltanto per il fatto che l’una contiene la coordinata t e l’altra la coordinata t primo.

— Giustissimo — disse freddamente Michelis, volgendo lo sguardo verso la testa massiccia di Egtverchi. — Ma so benissimo da dove viene tutta questa farina. Se sai fare soltanto il pappagallo, ti ci vorrà ben altro per diventare un cittadino della nostra cultura, mi puoi credere.

— Chi siete? — domandò Egtverchi.

— Il tuo garante, e che Dio mi aiuti — disse Michelis. — Ho un certo nome e una discreta riputazione e posso garantirti che se vuoi avere diritto di cittadinanza su questo pianeta, Egtverchi, dovrai fare qualcosa di meglio che cercar di passare per Bertrand Russell o per Shakespeare.

— Non credo che possa capire questi concetti — intervenne Ruiz. — Abbiamo tentato di spiegargli la proposta di naturalizzazione, ma non ha dato minimamente a vedere che avesse capito. Ha appena finito di leggere i Principia, così che non c’è nulla di assurdo nel fatto che si verifichi un certo «feed-back», come si dice in cibernetica: un certo ritorno di informazione. È una cosa che gli capita di tanto in tanto.

— In un «feedback» di primo grado — mormorò Egtverchi con voce sonnolenta — se le connessioni sono invertite, la minima perturbazione si aggraverà da sé. In un «feedback» di secondo grado, un’uscita dai limiti normali provocherà variazioni fortuite nella rete, le quali cesseranno solo quando il sistema sarà ridivenuto stabile.

— Gran Dio! — gridò selvaggiamente Michelis. — Dove sei andato a prendere questa roba? Basta! Se credi di darmela a intendere per un solo istante…

Egtverchi chiuse gli occhi e tacque. Michelis urlò di nuovo:

— Insomma, vuoi o non vuoi parlare?

Senza aprire gli occhi, Egtverchi riprese: — Conseguentemente, il sistema potrà sviluppare funzioni vicarie, se alcune delle sue parti siano andate distrutte.

E tacque di nuovo. S’era addormentato.

Anche ora, gli capitava molto spesso di addormentarsi.

— Reazione di fuga — spiegò dolcemente Ruiz. — Ha creduto che lo minacciaste.

— Mike — disse Liu, con una specie di gravità disperata, — che cosa avete intenzione di fare? Non vi risponderà mai, soprattutto se gli parlerete con quel tono. Malgrado il suo aspetto, è ancora un cucciolo, un bambino. È chiaro che impara tutte queste cose automaticamente e che ogni tanto gli capita di ripeterle, quando gli sembrano appropriate, ma se continuiamo a interrogarlo non sa come proseguire. Abbiate un po’ di fiducia in lui! Dopo tutto, non è stato lui a chiedervi di far venire il comitato per la naturalizzazione.

— E a me, perché non date un po’ di fiducia? — disse Michelis con aria infelice. Poi divenne pallido. È così Liu.

Ruiz lanciò un’occhiata sul Lithiano addormentato, e, accertatosi che Egtverchi dormiva davvero, premette il pulsante che faceva calare la cortina metallica davanti alla porta trasparente. Fino all’ultimo, videro che Egtverchi rimaneva immobile. Ora si erano isolati, lontano da lui; Ruiz non sapeva se la cosa avesse importanza per il Lithiano, ma aveva i suoi dubbi sull’innocenza delle risposte di Egtverchi. In verità, non aveva fatto altro che pronunciare una frase enigmatica, rivolgere una semplice domanda, ripetere alcuni brani delle sue letture, eppure, chissà come, ogni cosa da lui fatta aveva contribuito a peggiorare i loro rapporti.

— Perché avete fatto questo? — volle sapere Liu.

— Per alleggerire un po’ l’atmosfera — disse Ruiz, tranquillamente. — Del resto, dorme; e poi non abbiamo niente da dire a Egtverchi. E forse Egtverchi non è ancora giunto a poter parlare con noi. Ma noi… noi dobbiamo parlare un po’ fra noi, non è vero, Mike?

— Possibile che abbiate ancora voglia di parlare, Ramon? — disse Michelis, che sembrava aver ritrovato il suo tono normale.

— Predicare è la mia vocazione — disse Ruiz. — Se questa mia vocazione dovesse trasformarsi in vizio, non è certo qui che conto di fare il mio atto di contrizione. Il fatto è, Liu, che quasi tutti i nostri guai derivano dalla divergenza di opinioni di cui credo di avervi parlato: Mike e io non siamo affatto d’accordo sul problema che Lithia pone alla razza umana; non siamo, anzi, nemmeno d’accordo sul fatto se Lithia ponga o non ponga un problema filosofico. Secondo me, questo pianeta è una bomba a scoppio ritardato. Mike trova la mia idea assurda. Inoltre, egli ritiene che un articolo generale destinato al pubblico scientifico non rappresenti il mezzo ideale per agitare problemi del genere, soprattutto quando questi siano stati posti ufficialmente e non ci si sia ancora pronunciati in merito. Ecco le ragioni profonde per le quali ci mostriamo i denti in questo momento, senza che, apparentemente, ci siano ragioni per farlo.

— Che argomento gelido, per fare una polemica! — disse Liu. — Gli uomini sono così esasperanti. Che importanza può avere, in questo momento, un simile problema?

— Non posso dirvelo — rispose Ruiz, desolato. — Non posso scendere a particolari: tutta la questione è un segreto di Stato. Mike ritiene che, in generale, il tipo di problemi che volevo discutere, sia già morto e sepolto.

— Ma noi vogliamo solo sapere quale sorte sia riservata a Egtverchi — ribatté Liu. — Il gruppo di studiosi dell’ONU deve essere già in viaggio. E voi due passate il vostro tempo a spaccare capelli in quattro, quando, fra una mezz’ora al massimo, quella che sarà in gioco sarà la vita di un… di un essere umano, non vedo come potermi esprimere diversamente?

— Liu — disse dolcemente Ruiz, — scusatemi, ma siete così intimamente convinta che Egtverchi sia proprio quello che voi intendete per essere umano: uno hnau, una’anima razionale? La sua conversazione, forse lo suggerisce? Voi stessa vi siete lamentata del fatto che non risponde alle domande, e che spesso ciò che dice pare assurdo. Ho parlato con dei Lithiani adulti, ho conosciuto bene il padre di Egtverchi; ebbene, Egtverchi non assomiglia molto ai Lithiani, ancor meno a un essere umano. Che si sia verifícato in queste ultime ore qualche evento che abbia avuto il potere di farvi cambiare idea?

— Oh, no! — rispose fervidamente Liu tendendo le mani verso il Gesuita. — Ramon, voi l’avete inteso parlare come l’ho inteso io… insieme ci siamo presi cura di lui… e sapete bene che è più che un semplice animale! Riesce a essere molto intelligente, quando vuole!

— Avete ragione, quando dite che lo spaccare i capelli in quattro è completamente fuori luogo — disse Michelis, voltandosi a guardare Liu con occhi scuri, stranamente addolorati. — Ma io non riesco a farmi ascoltare da Ramon. Egli si chiude sempre più in un suo sofisticato tormento teologico personale. Sono desolato che Egtverchi non sia così evoluto come avevo sperato, ma ho sempre preveduto che più si fosse avvicinato alla piena maturità della sua intelligenza, più ci avrebbe procurato guai seri.

«E le informazioni non mi vengono soltanto da Ramon. Ho esaminato personalmente i risultati dei "test" progressivi d’intelligenza. O testimoniano qualche cosa di fenomenale, o noi non abbiamo nessun mezzo sicuro per misurare l’intelligenza di Egtverchi. Che, in definitiva, è più o meno la stessa cosa. Se i test dicono il vero, che sarà di Egtverchi, quando avrà raggiunto la sua maturità? Egli è il prodotto di una civiltà non umana e per soprammercato si rivela un genio… e la sua condizione legale attuale è quella di un animale da zoo. O, peggio, è soltanto una cavia: è questo che la maggioranza del pubblico tende a considerarlo. Ai Lithiani non piacerà tutto ciò, e quel che più conta, al pubblico non piacerà tutto ciò quando avrà conosciuto i fatti.

«È per questo che fin dal principio ho sollevato tutta questa faccenda della naturalizzazione. Non vedo altra alternativa: dobbiamo restituirgli la libertà.»

Rimase in silenzio un istante, poi continuò, quasi con la sua antica cortesia:

— Forse sono un ingenuo. Non sono un biologo, e neppure un esperto in test psicologici. Ma pensavo che Egtverchi, ormai, fosse pronto; invece non lo è, e così, credo, Ramon l’avrà vinta per getto della spugna. La commissione lo esaminerà come è ora, e i risultati, ovviamente, non possono essere positivi.

Questa era anche, esattamente, l’opinione di Ruiz-Sanchez, il quale, tuttavia, non l’avrebbe certamente formulata così.

— Mi rattristerà molto vederlo andare, se deciderà di lasciarci — disse Liu, distrattamente. Era chiaro, tuttavia, che non pensava affatto a Egtverchi. — Mike, so che avete ragione; anch’io, in definitiva, non vedo altra soluzione: Egtverchi deve essere messo in libertà. È davvero intelligente: di questo non c’è dubbio. Ora che ci penso, anche il suo silenzio non è la reazione naturale di un animale, privo di risorse interiori. Padre, non possiamo fare nulla?

Ruiz alzò le spalle: non aveva nulla da dire. La reazione di Michelis alle ripetizioni e all’irresponsabilità di Egtverchi, naturalmente, erano esagerate, rispetto alla realtà della situazione, ed erano nate soprattutto dalla sua delusione per il risultato equivoco della spedizione su Lithia; amava le soluzioni chiaramente delineate, ed evidentemente pensava di avere trovato un ottimo strumento nella richiesta della cittadinanza. Ma c’era altro: in parte, naturalmente, collegato al legame, ancora non ammesso, che si stava formando tra il chimico e la ragazza. In quella singola parola, «Padre», Liu aveva eliminato il sacerdote dai genitori adottivi di Egtverchi e si era tradita a Mike.

E ciò che rimaneva da dire non avrebbe trovato orecchie disposte ad ascoltarlo. Michelis lo aveva già respinto definendolo un «sofisticato tormento teologico», esclusivo di Ruiz e privo di importanza al di là del prete. E ciò che veniva respinto da Michelis, presto avrebbe cessato di esistere agli occhi di Liu, se già non era cancellato.

No, non poteva davvero fare più nulla per Egtverchi. L’Avversario proteggeva con tutte le vecchie, potenti armi della divisione il figlio che aveva generato: era già troppo tardi. Michelis non conosceva l’abilità degli esaminatori del comitato di naturalizzazione dell’ONU, quando si trattava di scoprire l’intelligenza e la desiderabilità di un candidato, anche dietro la più spessa cortina fumogena dell’alienazione linguistica e culturale, e a qualsiasi età dopo che si era instaurata la malattia chiamata «favella». E non comprendeva le pressioni a cui era stata sottoposta la commissione perché chiudesse tutta la questione di Lithia mediante un fait accompli. Gli esaminatori avrebbero studiato Egtverchi per un’ora al massimo, dopo di che…

Dopo di che Ruiz-Sanchez sarebbe rimasto solo, senza il minimo alleato. Pareva che la stessa volontà di Dio comandasse che egli fosse spogliato di tutto, e che si presentasse davanti alla Porta Santa a mani vuote… privo perfino del conforto di Giobbe: sì, privo perfino del peso della fede.

Perché Egtverchi avrebbe certamente superato l’esame. Era già virtualmente in libertà… e molto più vicino ad essere un cittadino rispettabile di quanto non lo fosse lo stesso Ruiz-Sanchez.

CAPITOLO DODICESIMO

Fu nella residenza sotterranea di Lucien le Comte des Bois d’Averoigne che fu data la festa in onore dell’ingresso nel mondo di Egrverchi, evento che complicò in modo notevole la vita già istericamente agitata di Aristide, maestro di cerimonie della Contessa. Ordinariamente, una festa del genere non avrebbe offerto nessuna difficoltà oltre ai semplici problemi tecnici che gli erano familiari e portavano il personale a quel culmine di frenesia che egli considerava il massimo di efficienza; ma dover preventivare la presenza addizionale di un mostro alto tre metri costituiva un affronto alla sua coscienza come al suo senso artistico.

Aristide, nato Michele di Giovanni al tempo del barbaro contadiname di una Sicilia pre-rifugio, era un drammaturgo che conosceva bene il complesso palcoscenico su cui doveva lavorare. La dimora newyorkese del Conte si componeva di parecchi piani sotterranei. La parte di essa in cui si dava la festa spuntava di tutto un piano sopra la superficie di Manhattan, quasi che la parte sepolta della città stesse uscendo dalla tana del suo letargo o non avesse ancora finito di scavarla per sprofondarvi. La costruzione, aveva scoperto Aristide, era stata in origine una rimessa tramviaria, un brutto e squallido edificio di mattoni rossi costruito nel 1887, quando i tram erano la più moderna e promettente innovazione in materia di comunicazioni urbane. I binari, con il solco nel mezzo, giacevano ancora nel pavimento asfaltato, con soltanto una patina superficiale di ruggine: l’acciaio non si arrugginisce molto, in meno di due secoli. Al centro del piano terreno si trovava un enorme ascensore a vapore di vecchio tipo, con una gabbia di ferro battuto, che un tempo serviva a calare le vetture nel sottosuolo per essere tenute in riserva. Tanto a livello del suolo quanto più in basso, le rotaie correvano in tutte le direzioni e i loro scambi complicati finivano sempre per portare ai segmenti di binari entro l’immensa cabina dell’ascensore. Aristide, dapprima stupito alla scoperta di quella rete sotterranea, aveva prontamente imparato a utilizzarla nel modo migliore.

I ricevimenti della Contessa, grazie alla genialità di Aristide, erano ora limitati nella loro fase più convenzionale ai tre piani superiori; ma Aristide aveva impiantato un piccolo treno composto di quattordici vagoncini a due poltrone, il quale serpeggiava placidamente sulle rotaie tramviarie, raccogliendo come passeggeri coloro che erano già annoiati di sole ciarle e bevande, e spingendosi con un rombo leggero fino all’ascensore, per essere calato giù — tra sibili acuti e una gran nuvola di vapore, che la Contessa era molto sofistica quanto all’apparente autenticità delle sue anticaglie — al piano inferiore, dove presumibilmente succedevano cose più interessanti.

Come drammaturgo, Aristide inoltre conosceva bene il suo pubblico: rientrava nei suoi doveri far sì che tutto ciò che accadeva da basso fosse più interessante di ciò che s’era visto in alto. E conosceva anche le sue dramatis personae: la sapeva più lunga infatti, sugli ospiti abituali della Contessa, di quanto ne sapessero loro stessi, e gran parte di ciò che sapeva sarebbe stato di natura nettamente deleteria, s’egli fosse stato un tipo ciarliero. Ma Aristide era un artista; ignorava la corruzione, il cui stesso concetto era per lui impensabile come quello del plagio (eccetto che il plagio da se stesso, che è il modo con cui si superano le cadute d’ispirazione). Infine, sempre come artista, egli conosceva bene la sua padrona; la conosceva al punto di poter giudicare quante feste dovessero passare prima che gli fosse possibile rischiar di ripetere un Effetto, una Scena, una Sensazione.

Ma che cosa poteva fare un uomo con un rettile-canguro alto tre metri e cinquanta?


Dal luogo dove stava, un recesso discreto a colonnato nell’atrio del pianterreno, Aristide osservava i primi invitati avviarsi verso la sala del cocktail ufficiale, uno dei suoi anacronismi favoriti, che la Contessa sembrava disposta a permettergli di ripetere ogni anno. Richiedeva poche preparazioni: soltanto intrugli assurdi e pressoché letali, ma richiedeva che ospiti e personale indossassero costumi ridicoli. Però, il curioso rigore dei costumi faceva un simpatico contrasto con l’alleggerimento della psiche indotto dai liquori.

Era ancora presto perché vi fosse molta gente: c’era la Senatrice Sharon, che agitava gaiamente le sopracciglia enormi a salutare gli altri invitati, rifiutando ogni bibita con ostentazione, sapendo che il suo buon amico Aristide aveva riunito per lei, al piano di sotto, cinque robusti giovani che lei non aveva ancora mai visto; c’era poi il Principe William d’East Orange, un giovane la cui disgrazia era di non avere vizi e che tornava sempre a prendere il trenino serpeggiante nella speranza ogni volta di scoprirne uno che gli andasse a genio; al suo fianco, stava il dottor Samuel P. Shovel, medico, uomo gioviale, dalle guance rubizze e i capelli candidi, gran sacerdote di psiconetologia, «La Nuova Scienza dell’Inconscio», uno dei beniamini di Aristide, in ragione della semplicità dei suoi gusti: il dottor Shovel, infatti, non desiderava niente di più complicato del dare un buon pizzicotto nelle parti molli.

Faulkner, il maggiordomo capo, si avvicinò rigidamente ad Aristide. Faulkner regnava sul personale della Contessa come un despota orientale, ma non contava più niente appena Aristide era presente.

— Devo far servire gli embrioni al vino? — domandò Faulkner.

— Non siate così cieco e sciocco — disse Aristide. Aveva appreso le sue prime nozioni d’inglese da telefim sentimentali a tre dimensioni, cosa che dava alla sua conversazione ordinaria toni decisamente bizzarri; lui se ne rendeva pienamente conto, del resto, e ne faceva una delle sue armi principali per manovrare i tirapiedi, che non sapevano mai se li insolentisse per puro sport o perché realmente arrabbiato. — Scendete al piano inferiore, Faulkner. Sa avrò bisogno di voi, cosa che non credo, vi chiamerò.

Faulkner fece un lieve inchino e scomparve. Lievemente seccato per l’interruzione, Aristide riprese la sua ispezione dei primi arrivati.

C’era, naturalmente, anche la Contessa, che per il momento non gli poneva nessun problema. Il suo trucco dorato era ancora intatto, e i gioielli mobili, dalle grotticelle che Stefano era riuscito a creare nei suoi capelli, ammiccavano coi loro occhi di diamanti. C’erano poi i padrini dell’ingresso del mostro lithiano in società, il dottor Michelis e la dottoressa Meid; costoro rischiavano forse di presentare problemi particolarissimi, perché su di loro Aristide non era riuscito a saperne abbastanza per conoscere quali loro gusti personali avrebbero amato vedere soddisfatti ai piani inferiori. Eppure quei due erano gli ospiti chiave: la loro importanza era seconda soltanto alla impossibile creatura stessa. E a questo proposito c’era nell’aria un potenziale esplosivo, come Aristide sapeva con fatale certezza, dato che la impossibile creatura era in ritardo d’oltre un’ora; e la Contessa aveva fatto sapere a tutti i suoi invitati, oltre ad Aristide, che il Lithiano sarebbe stato l’ospite d’onore: metà degli invitati erano venuti soltanto per vedere lui.

In quel momento nella sala c’era solo un funzionario dell’ONU, il quale aveva in testa uno stranissimo cappello: una specie di casco da automobilista, largamente munito di apparecchi di comunicazione e d’altri aggeggi indefinibili, tra cui occhiali da sommozzatore capaci di oscurarsi per diventare uno schermo televisivo tridimensionale in miniatura, e un certo dottor Martin Agronski, che Aristide non riusciva a dimensionare e considerava pertanto con l’intenso sospetto che riservava alle persone di cui non poteva indovinare le debolezze. Il volto di Agronski era petulante almeno quanto quello del Principe d’East Orange, ma poiché era molto più anziano, era difficile che fosse là per le stesse ragioni. Del resto, aveva qualche cosa a che fare con l’ospite d’onore, cosa che indisponeva ancor più Aristide. Agronski sembrava conoscere Michelis, ma per ragioni inesplicabili sembrava evitarlo ad ogni occasione; dedicava la maggior parte del suo tempo a sorbire uno dei punch più forti che Aristide avesse fatto preparare, con la tetra determinazione di un non bevitore che crede di poter acquisire un contegno perfetto intossicando la propria timidezza. Chissà se una donna…?

Aristide fece un segno piegando il dito levato. Il suo assistente sgattaiolò fuori da dietro una decorazione floreale, la testa inclinata dall’abitudine delle riverenze, soffocando perfino il suono dei suoi passi felpati in omaggio all’arrivo del trenino in stazione; nello stridore dei freni, tese l’orecchio verso la bocca di Aristide.

— Osservate quell’individuo — disse Aristide senza muovere le labbra, indicando Agronski con una mossa impercettibile dell’anca. — Fra mezz’ora sarà completamente ubriaco. Portatelo fuori prima che crolli, ma che non lasci assolutamente la casa. Può darsi che la padrona lo cerchi più tardi. Sarà meglio trasportarlo nella camera di riposo e fargli un’iniezione appena cominci a muoversi.

L’assistente fece un cenno di assenso e si allontanò trotterellando, piegato quasi in due. Aristide parlava ancora in buon inglese corrente, commerciale; buon segno, finché durava…

Aristide riprese a osservare gli ospiti. Erano lievemente aumentati da qualche minuto a quella parte; ma egli ritenne più importante studiare le reazioni della Contessa all’assenza dell’ospite d’onore. Per il momento lo stesso Aristide non correva pericolo alcuno, sebbene potesse già indovinare l’irritazione in certe allusioni della Contessa. Fino a quel momento, tuttavia, s’era limitata a lanciare le sue frecciate contro i padrini del mostro, il dottor Michelis e la dottoressa Meid, che sembravano entrambi molto imbarazzati a rispondere.

Michelis continuava a ripetere, con una cortesia sempre più seccata a misura che la pazienza gli sfuggiva:

— Madame, ignoro assolutamente quando verrà. Non so nemmeno dove abiti. Ha promesso di venire. Il fatto che sia in ritardo non mi stupisce, ma non dubito che finirà per arrivare.

La Contessa si allontanò, ancheggiando con petulanza. Cominciava il pericolo, per Aristide: la Contessa non aveva mezzi di pressione sui padrini del mostro, quale che fosse la loro ignoranza della situazione. In virtù di chissà quale dote ereditaria, Lucien le Comte des Bois d’Averoigne, Procuratore di Canarsie, aveva avuto l’accortezza di ripartire giudiziosamente il suo denaro: ne dava il novantotto per cento alla moglie e utilizzava il restante due per cento per scomparire quasi tutto l’anno. Si diceva perfino che si dedicasse a ricerche scientifiche, sebbene nessuno sapesse in quale campo; certo, non poteva essere né la psiconetologia né l’ufonica, altrimenti la Contessa lo avrebbe saputo, dato che entrambe le scienze erano di moda. E, senza il Conte, la Contessa sarebbe stata una nullità, sostenuta soltanto dal denaro; se la creatura lithiana non fosse venuta, la Contessa non avrebbe potuto fare altro contro i suoi padrini che togliere i loro nomi dalla lista degli invitati alla prossima festa (cosa che comunque avrebbe fatto in qualsiasi caso). Invece, eran molte le cose che poteva fare ad Aristide. Licenziarlo non poteva, naturalmente (egli conservava con la massima cura certi particolari incartamenti a difesa di questa eventualità), ma poteva rendergli la vita professionalmente molto difficile. Chiamò con un cenno il suo secondo.

— Riserverete alla Senatrice Sharon il canapè delle emozioni appena ci saranno altre dieci persone in questo piano — ordinò seccamente. — Non mi piace l’aria che tira, Appena gli invitati saranno abbastanza numerosi, dovremo farli salire sui convogli in miniatura; la Sharon non è il capro espiatorio ideale per questo genere di cose, ma dovrà rassegnarsi. Seguite il mio consiglio, Cyril, o rimpiangerete il giorno in cui siete nato.

— Ai vostri comandi, Maestro — disse rispettosamente l’uomo, che non si era mai chiamato Cyril.


Michelis dapprima non aveva quasi badato al trenino, se non come a una cosa curiosa, ma esso era diventato più chiassoso con il passar del tempo. Pareva compiere il suo percorso in cinque minuti, ma Michelis finì per accorgersi che in realtà c’erano tre convogli; il primo caricava passeggeri di quel piano; il secondo riportava gruppi di persone dal piano inferiore, scaricando adepti straordinariamente esilarati tra gli ultimi arrivati (i quali stavano attenti a conservare il contegno serio e compito); e il terzo treno, generalmente vuoto data l’ora poco avanzata, riportava dal secondo piano sotterraneo gaudenti dagli occhi vitrei, che i domestici della Contessa facevano efficientemente dirottare lungo una sorta di pensilina coperta, bene in disparte dall’ingresso principale e accuratamente nascosta agli sguardi dei futuri candidati ai livelli inferiori. Quindi il ciclo ricominciava.

Michelis aveva tutte le intenzioni di starsene lontano dal trenino. Non gli piaceva fare il diplomatico, soprattutto ora che tutta la sua diplomazia non serviva a nulla, e inoltre era abituato a star solo, e i ricevimenti gli davano fastidio: perfino quelli piccoli, per non parlare di quelli grandi come questo. Dopo qualche tempo, però, cominciò a stancarsi di ripetere la solita scusa per Egtverchi, e si accorse che il salone da cocktail a pianterreno era quasi vuoto: in effetti la sua presenza e quella di Liu costringevano la loro ospite a fermarsi contro la propria volontà.

Quando Liu si accorse che il trenino non solo faceva il giro di quel piano, ma scendeva nel sottosuolo, Michelis non ebbe più scuse per rimanerne lontano. L’ascensore rapì tutto il resto degli ultimi arrivati, lasciandosi dietro soltanto i domestici e qualche attaché scientifico sbalordito, che probabilmente s’era sbagliato di ricevimento. Michelis cercò con lo sguardo Agronski, la cui presenza lo aveva stupito, ma il geologo era scomparso.

In treno, tutti urlarono d’allegria e di finto terrore, quando l’ascensore a vapore cominciò a trasportare il convoglio verso il piano inferiore, sprofondando nella nera tenebra e in un’umidità che sapeva di ruggine. Quindi le grandi porte si spalancarono bruscamente davanti a loro e il treno si mosse per uscire facendo una brusca virata sulle rotaie. Il suo muso a forma di spazzaneve si spinse subito poi attraverso una serie di doppie porte volanti, sprofondò i passeggeri in tenebre ancora più nere, e si fermò del tutto con un sussulto stridulo.

Nell’oscurità si levò un fuoco di fila di acute risate isteriche lanciate dalle donne, e di più gravi urla maschili.

— Oh, non ne posso più!

— Henry, sei tu?

— Lasciami, brutta sozza.

— Come mi gira la testa!

— Attenzione, questo treno del diavolo si rimette in moto.

— Scendi dal mio piede, figlio d’un cane.

— Ehi, dico, voi non siete mio marito!

— Oh, signora mia, e neppure lo vorrei essere.

— Quella donna farebbe meglio a piantarla.

Quindi le voci furono soffocate dall’urlo di una sirena, così prolungato e assordante che le orecchie di Michelis continuarono a ronzare anche dopo che il suono aveva superato i limiti estremi dell’audibilità. Poi un gran gemere di macchinari, una pallida luce violetta…

Il trenino stava ora serpeggiando nel vuoto, non sostenuto da niente. Stelle multicolori, ma fioche, turbinavano un po’ da per tutto, sorgendo da una parte del treno, passandovi sopra e poi tramontando sotto di esso, con un periodo di soli dieci secondi, da un «orizzonte» all’altro. Si udirono altre urla e altre risate, insieme con una specie di cigolio frenetico, poi la sirena ululò di nuovo, prima debolmente, poi trasformandosi in un sibilo penetrante, che echeggiava dentro la scatola cranica, prima di morire a poco a poco verso gli infrasuoni.

Liu si aggrappò al braccio di Michelis, ma lui non poteva fare altro che attaccarsi come un disperato alla sua poltrona. Ogni cellula del cervello gli lampeggiava d’allarme, ma era come paralizzato, in preda alla vertigine…

Delle luci.

L’universo si ristabilizzò immediatamente. Il piccolo treno riposava sornione sui suoi binari sostenuti da supporti a mensola. Non si era mai mosso. Nel fondo di un immenso imbuto, invitati coi capelli in disordine guardavano i passeggeri del trenino, quasi accecati, e li prendevano in giro sguaiatamente. Le «stelle» non erano state altro che macchie di pittura fluorescente, illuminate da lampade a raggi ultravioletti. L’illusione di roteare nel vuoto era stata indotta dalla sirena, che aveva turbato i canali semicircolari: l’orecchio interno che dà il senso dell’equilibrio.

— Tutti a terra! — gridò una voce maschia, possente.

Michelis guardò in basso, cautamente; gli girava ancora un po’ il capo. Chi aveva urlato l’ordine era un uomo con un gualcito abito da sera e dei capelli rosso fuoco; le sue spalle prepotenti avevano fatto scoppiare una delle cuciture della giacchetta. — Dovrete prendere il treno successivo: questa è la regola.

Michelis pensò di rifiutarsi; poi cambiò idea. Probabilmente, saltare giù dal vagoncino era meno rischioso che non il battersi con due persone che s’erano già guadagnate il diritto di «uscita» sulla sua poltrona e quella di Liu. Ogni luogo ha le sue regole di condotta. Una scaletta fu loro tesa, e Michelis, quando giunse il loro turno, aiutò Liu a scendere.

— Non fare opposizione — disse a bassa voce. — Se la piattaforma si mette a muoversi, cerca di mantenere l’equilibrio. Hai un accendino? Eccoti il mio. Se qualcuno ti si avvicina troppo, dagli un calcio, ma non avere paura per i macchinari: sembrano in perfetta efficienza.

Lo erano, ma Liu era atterrita e Michelis nutriva sentimenti omicidi quando finalmente giunse il treno successivo per portarli via; fu lieto di non avere sollevato discussioni con il suo predecessore: se qualcuno si fosse rifiutato di cedergli il posto, Michelis sarebbe stato capace di torcergli il collo.

La doccia di profumo che lo inzuppò quando il convoglio penetrò nella sala successiva non migliorò precisamente il suo umore, ma almeno la sala non richiedeva una partecipazione attiva. La sala consisteva in un bel giardino di nobili proporzioni, fatto di vetro soffiato in ogni tinta possibile, nel centro del quale modelli giavanesi viventi posavano per dei diorami d’una lussuria appena velata; benché le situazioni evocate fossero drammatiche all’estremo, i modelli, eccettuata la respirazione appena percettibile, non muovevano un muscolo; erano altrettanto immobili quanto il fogliame di vetro. Con grande sorpresa di Michelis, che al di fuori delle scienze non aveva praticamente nessun senso estetico, Liu guardava quelle scene immobili con una specie di approvazione grave e contenuta.

— È un’arte assai difficile, suggerire la danza senza movimento — mormorò improvvisamente la donna, come se avesse letto nel suo pensiero. — Difficile col pennello, ma quasi impossibile col corpo. Credo di conoscere l’artista che ha ideato tutto ciò. Sì, non può essere che lui…

Il chimico la fissò come se la vedesse per la prima volta e dall’onda di gelosia che lo sommerse seppe di amarla.

— Chi? — domandò con voce roca.

— Tsien-Hi, non c’è dubbio. L’ultimo dei classici. Lo credevo morto, ma questa non può essere una copia.

Davanti alla porta d’uscita, il trenino si soffermò per un istante: quanto bastava perché due modelli, che nonostante il pudore dei loro movimenti parevano oscenamente vivi, ponessero loro in mano un ventaglio coperto di disegni a china, fatti col pennellino. Dopo una sola occhiata, Michelis si ficcò in tasca il suo, timoroso di ammettere la proprietà di quell’oggetto mediante un gesto così impegnativo come quello di buttarlo via: ma Liu indicò in silenzio un ideogramma e piegò il proprio ventaglio con grande rispetto. — Sì — disse. — È proprio lui. Questi sono gli schizzi originali. Non avevo mai creduto di poterne possedere uno…

Il trenino si lanciò bruscamente in avanti. Il giardino svanì, ed essi si trovarono immersi in un caos vago e colorato, di emozioni incomprensibili. Non c’era nulla da vedere, da ascoltare o da toccare, e tuttavia Michelis si scoprì toccato fino al profondo dell’anima, e poi colpito ancora e ancora. Lanciò un grido, e udì confusamente di non essere il solo che gridava. Lottò per conservare il dominio di se stesso, ma non riuscì a riprenderlo, e… no, ra l’aveva quasi ripreso… Se soltanto fosse riuscito a pensare per un istante…

Ci riuscì, per un istante, e comprese cosa stava succedendo. La nuova cella era un lungo corridoio, diviso in quindici scomparti da pareti di aria in movimento. Entro ciascuno degli scomparti aleggiava fumo colorato, contenente un qualche gas che doveva colpire direttamente l’ipotalamo. Michelis riconobbe alcuni di quei gas: erano dei rozzi composti allucinogeni, inventati nel periodo d’oro dei tranquillanti, il secolo scorso. Sotto le ondate di paura, esaltazione religiosa, coraggio folle, brama di potere, e altre emozioni innominabili indotte da quei gas, provò una cupa rabbia intellettuale verso un modo così rozzo di pasticciare con i farmaci psicotropici al solo scopo di provare delle momentanee «esperienze»; tuttavia sapeva che quel tipo di stimolanti mentali non era affatto raro, nella civiltà del Rifugio. Quei fumi godevano della fama di non dare un’intossicazione permanente (e in effetti non la davano, per la maggior parte), ma tendevano certamente a ingenerare un’abitudine: anziché una necessità, facevano sorgere nel consumatore una dipendenza volontaria, che è una cosa molto diversa, ma che non è necessariamente meno pericolosa.

Una cortina nebbiosa e rosata, all’estremità del corridoio, risultò essere antiserotonina pura e concentrata: un vero atarassante, che spogliò la sua mente di ogni emozione, ad eccezione di una vaga soddisfazione generica per tutte le cose dell’universo. Ciò che dev’essere è già stabilito… tutto va per il meglio… c’è pace in ogni cosa…

In questo stato di condiscendenza acritica, i passeggeri del trenino furono sottoposti a una lunga serie di burle complicate ed atroci, disposte una dopo l’altra come in una catena di montaggio. L’ultima beffa consisteva in una ricreazione tridimensionale di un campo di concentramento del secolo precedente: lo scenografo, con arte diabolica, aveva disposto le cose in modo che coloro che erano nel trenino credessero di dovere essere i prossimi a finire nel forno. Quando la porta della fornace si chiuse alle loro spalle, scese su di loro un soffio di ossigeno puro, che ebbe il potere di schiarire la mente; tremanti d’orrore al pensiero di ciò che erano stati pronti ad accettare con gioia, i passeggeri vennero fatti scendere dal treno per unirsi a un gruppo di ex vittime, che ora si stavano sganasciando dalle risate.

L’unico desiderio di Michelis era quello di fuggire (soprattutto, non aveva alcuna intenzione di rimanere lì a prendersi beffe del prossimo carico di passeggeri sbalorditi) ma era troppo esausto per allontanarsi dall’anfiteatro, e Liu non riusciva a muovere un passo. Dovettero quindi rimanere seduti laggiù e attendere di essersi ripresi.

E furono fortunati ad averlo fatto. Mentre stavano centellinando le loro bevande (Michelis aveva nutrito turpi sospetti sul liquore ambrato che era contenuto nel suo bicchiere, ma la sostanza si rivelò non essere altro che dell’onesto brandy, molto gradito) il treno successivo fu salutato da un rombo scrosciante di applausi, mentre tutti si alzavano in piedi.

Egtverchi era arrivato.


C’era una vera turba ora nella sala da cocktail a pianterreno, ma Aristide era tutt’altro che felice; e tra il personale, varie teste erano già cadute. Aristide aveva in sé come un sesto senso, delicatissimo, che non mancava mai di avvertirlo quando una festa cominciava a inacidire, ed era già da molto che quel sesto senso aveva acceso il rosso del segnale d’allarme. L’arrivo dell’ospite d’onore, in particolare, era stato un fiasco enorme. Non erano presenti né la Contessa, né i padrini del mostro, né uno degli ospiti realmente importanti che erano stati invitati espressamente per l’ospite d’onore, e l’ospite d’onore stesso aveva costretto Aristide a far vedere, davanti a tutto il personale, di essere in preda al terrore.

Aristide si vergognava atrocemente della sua paura, ma ormai non c’era più nulla da fare. Lo avevano avvertito, sì, che si trattava di un mostro, ma non di un mostro simile: una creatura di oltre tre metri e cinquanta, un rettile che camminava più come un uomo che come un canguro, con enormi mascelle zannute sorridenti, bargigli che cambiavano continuamente di colore, mani che sembravano capaci di sminuzzare chicchessia come un pollo, una coda ondeggiante che continuava a spazzar via i vassoi dalle tavole e soprattutto una risata a raglio d’asino e una possente voce da tenore che parlava inglese con una perfezione così fredda e puntigliosa da far sì che Aristide si sentisse uno zotico siciliano appena sbarcato in panni d’emigrante. E all’ingresso del mostro, c’era stato il solo Aristide per dargli il benvenuto…

Un treno giunse sferragliando davanti alla camera di riposo, ma prima che si fermasse, la senatrice Sharon saltò fuori dalla stanza, tutta eccitata, tra uno sfarfallio di ciglia. — Ma guarda quello! — esclamò, stimolata dal quintuplice soccorso che Aristide le aveva fatto coscienziosamente trovare. — Guarda com’è mascolino!

E ciò costituiva un secondo fallimento per Aristide. Uno degli ordini fissi della Contessa era quello di dare alla senatrice il suo divertimento e poi di farla subito riportare al Rifugio, prima che il ricevimento vero e proprio cominciasse. Altrimenti la senatrice avrebbe passato il resto della notte a imporre chiassosamente la sua presenza e a cercare di sedurre ogni celebrità. Se la senatrice Sharon non scompariva all’inizio della serata, soddisfatta di ciò che aveva già incontrato, finiva col far scoppiare qualche scandalo.

Il treno vuoto entrò lentamente nella sala, invitante. Il mostro lithiano lo vide e il suo sorriso si accentuò.

— Ho sempre desiderato essere macchinista di treno — disse in un inglese bizzarro, ma nello stesso tempo più preciso di quel che Aristide poteva sperar di parlare in vita sua. — Così, voi siete il maestro di cerimonie. Buon uomo, ho portato due, tre, vari ospiti di mio gusto. Dov’è la nostra padrona di casa?

Aristide con aria impotente indicò a caso una direzione e l’altissimo rettile, con un gracchiamento di soddisfazione, salì sulla prima vettura del trenino. S’era appena seduto che la banda si precipitò ad ammucchiarsi dietro di lui. Il treno si avviò con un sobbalzo, dirigendosi verso l’ascensore, che subito poi cominciò a sprofondare fra grandi getti di vapore.

Era fatta. Aristide aveva lasciato che l’ingresso solenne del mostro facesse cilecca. E se anche aveva dei dubbi in merito, si dissiparono presto: non più di dieci minuti dopo, l’espressione sarcastica di Faulkner lo snobbava inequivocabilmente. Ecco che ci si guadagna ad essere un artista fedele alla sua padrona, si disse amaramente. Il giorno dopo, si sarebbe considerato fortunato se lo avessero preso come sguattero in una mensa collettiva, incartamenti ricattatori o no. E tutto questo perché? Perché non aveva saputo prevedere con esattezza l’arrivo di una creatura che non era nemmeno nata sulla Terra.

Si avviò con passo deciso, tragico, verso la sala di riposo, pestando i piedi e dando vigorose gomitate a quegli assistenti che avevano l’ingenuità di farsi trovare sulla sua strada. Non poté pensare ad altro che a soprintendere personalmente alla ripresa fisica di un certo dottor Martin Agronski, lo sconosciuto invitato che sembrava vagamente connesso al Lithiano. Ma non si faceva illusioni. Il giorno dopo, il celebrato Aristide, factotum artistico della Contessa des Bois d’Averoigne, avrebbe potuto ringraziare Dio e baciare in terra se si fosse trovato nei panni di Michele di Giovanni, oriundo delle malariche piane di Sicilia.


Michelis si pentì di avere preso il trenino non appena capì la costituzione del piano sotterraneo, perché comprese di non poter vedere l’arrivo di Egtverchi. Fondamentalmente, il piano era diviso, mediante pareti a prova di suono, in vari piccoli gruppi: alcuni erano solo leggermente più brilli e disinibiti del ricevimento ufficiale, ma gli altri si davano a tutto uno spettro di attività frenetiche. Lui e Liu compirono il giro completo prima che riuscisse a escogitare il modo per scendere dal treno; ogni volta che si sentiva pronto a tentare la discesa, il treno cominciava ad accelerare in modo imprevedibile, a scatti, dando l’impressione di un ottovolante nel cuore della notte.

Comunque, poterono vedere l’unico arrivo che contava. Egtverchi, quando il trenino si fermò, dopo essere emerso dall’ultimo bagno di gas profumanti, apparve ritto nella vettura di testa, da cui discese coi propri mezzi. Nelle cinque vetture alle sue spalle, essi pure in piedi, stavano dieci giovanotti quasi identici, indossanti uniformi nere e verde lucertola, con bottoni d’argento, con le braccia incrociate sul petto, impassibili e severi, gli occhi fissi davanti a sé.

— Ossequi — disse Egtverchi, con una profonda riverenza, che le sue braccia sauriane, piccole e sproporzionate, rendevano comica e insieme insolente. — Contessa, sono felice di fare la vostra conoscenza. Siete protetta da molti cattivi odori, ma li ho dominati tutti.

La folla applaudì. La risposta della Contessa si perse nel baccano, ma evidentemente lei gli aveva ricordato di essere per natura immune ai fumi e sentori che invece disturbavano i Terrestri, perché Egtverchi ribatté vivacemente, con voce contrariata:

— M’aspettavo una risposta del genere, e mi spiace di avere colto nel segno. Per il puro tutte le cose sono pure… Avete mai visto giovani più solidi e incrollabili? — Indicò con un gesto i suoi dieci seguaci. — Ma naturalmente ho barato. Ho tappato loro le nari con dei filtri, così come Ulisse riempì di cera le orecchie dei suoi marinai, perché non udissero il canto delle sirene. I miei uomini non temono nulla; credono che io sia un genio.

Con aria da cospiratore, il lithiano materializzò un fischietto d’argento, e ne trasse una nota acuta e gorgheggiante, del tutto in contrasto col gesto che l’aveva preceduta. I dieci giovani guerrieri immediatamente crollarono. Tutta la prima fila della folla poté toccare col piede i loro corpi inerti, affronto che essi subirono con torpida indifferenza.

— Ubriachi fradici — disse Egtverchi con un tono di paterna disapprovazione. — Inevitabile. In realtà non ho tappato loro le nari per nulla. Mi sono limitato a impedire alla loro formazione reticolare di comunicare al cervello i fumi della Contessa, fino al mio segnale. Ora essi hanno avuto tutte le allucinazioni d’un colpo; non è un peccato? Madame, abbiate la bontà di farli portare via, tanta dissolutezza m’imbarazza. Dovrò instaurare una disciplina ferrea.

La Contessa batté le mani. — Aristide! Aristide! — Manipolò la minuscola radiotrasmittente nascosta fra i suoi capelli, ma non ottenne risposta. La sua espressione bruscamente passò dalla gioia infantile a un furore puerile.

— Dove s’è cacciato quel sudicio bifolco…

Michelis, esasperato, riuscì ad aprirsi la strada fino a entrare nel campo visivo di Egtverchi.

— Si può sapere dove diavolo credi di essere? — gli disse con voce rauca.

— Oh, buona sera, Mike. Sono stato invitato a una festa, esattamente come te. Buona sera, cara Liu. Contessa, conoscete i miei genitori adottivi? Sì, non c’è dubbio che li conosciate…

— Certo — disse la Contessa, voltando con ostentazione le nude spalle a Liu e Michelis e guardando di sotto le palpebre dorate la testa torreggiante di Egtverchi, perpetuamente sorridente. — Passiamo nella sala accanto… c’è più spazio e vi staremo più tranquilli. Ne abbiamo abbastanza di questi trenini e dei loro viaggiatori. Dopo il vostro, i loro arrivi parranno tutti uguali.

— Io coltivo l’unico — disse Egtverchi, — ma devo avere Mike e Liu al mio fianco, Contessa. Sono l’unico rettile dell’universo con genitori mammiferi e li adoro. Mi domando se ciò non sia un peccato. Non è interessante?

Le palpebre dorate si abbassarono. Erano anni da che i maestri delle cerimonie della Contessa non la ponevano in presenza di un peccato così interessante che ella stessa potesse sperimentarlo, invece di farne approfittare gli invitati; e questo, tutti lo sapevano. La Contessa, si disse Michelis, aveva tutta l’aria di fiutarne uno, e poiché era donna di poca immaginazione, Michelis non ebbe dubbi su quale potesse essere. Malgrado il suo aspetto e la sua pelle di sauro, Egtverchi aveva qualcosa d’intensamente, indiscutibilmente mascolino.

E anche d’intensamente puerile. Che la combinazione fosse capace di vincere la ripugnanza che la gente avrebbe dovuto provare davanti al suo aspetto incontestabilmente di rettile, era già stato dimostrato in occasione della sua prima intervista alla televisione. I suoi commenti perversi e subdoli sugli eventi e le usanze terrestri erano stati sbalorditivi, e si poteva prevedere che per la fine di quella settimana tutta l’intelligenza del mondo avrebbe incensato il suo nuovo idolo. Ma nessuno avrebbe potuto prevedere la valanga di lettere di bambini, di genitori e di donne sole che gli si era rovesciata addosso.

Commentatore ormai di notizie alla televisione, Egtverchi era il primo oratore televisivo che avesse un pubblico composto per metà di intellettuali disingannati e per metà di bambini entusiasti. Era un fenomeno senza precedenti, almeno nel secolo presente.

Inoltre, Egtverchi era accompagnato ovunque andasse da un gruppo di seguaci largamente squilibrati (sebbene la composizione esatta di questo seguito non fosse stata ancora analizzata pubblicamente dalla rete televisiva tridimensionale per la quale parlava). I corpi inerti dei suoi dieci adepti venivano in quel momento portati via dai domestici della Contessa, e Michelis li seguiva curiosamente con lo sguardo. Le uniformi erano suggestive, ma suggestive di che? Potevano essere benissimo dei semplici travestimenti, ideati soltanto per quella festa; se i dieci giovanotti crollati al suono del fischietto argenteo di Egtverchi fossero stati fisicamente dissimili, l’effetto sarebbe stato meno profondo, come Egtverchi di sicuro sapeva. E tuttavia il concetto d’uniforme era estraneo alla psicologia lithiana, mentre sulla Terra era profondamente significativo… ed Egtverchi la sapeva già più lunga sulla Terra della maggioranza dei terrestri.

Degli squilibrati in uniforme, i quali ritenevano Egtverchi un genio incapace di sbagliarsi: che cosa poteva significare tutto ciò?

Se Egtverchi fosse stato un uomo, la risposta sarebbe stata evidente. Ma egli non era un uomo, era un musico che suonava sull’uomo come su un organo. La struttura delle sue composizioni non sarebbe apparsa chiaramente se non dopo un lungo periodo di tempo, ammesso che si trattasse d’una struttura; poteva anche darsi che Egtverchi improvvisasse, almeno per il momento: supposizione già impressionante di per sé.

E tutto questo era avvenuto nel giro di un solo mese, dopo la naturalizzazione di Egtverchi. La naturalizzazione stessa era stata una piacevole sorpresa. Michelis, tuttavia, non era molto sicuro delle proprie opinioni sulle altre sorprese che le erano poi succedute; per quelle che senza dubbio sarebbero venute in futuro, era decisamente allarmato.

— Ho approfondito questo problema della parentela — Egtverchi stava ora dicendo. — So chi è mio padre, beninteso (noi lo sappiamo sempre al momento di nascere), ma presso i Lithiani il concetto di parentela è molto diverso dal vostro, che è tutto un insieme di incongruenze.

— In che senso? — domandò la Contessa, piuttosto distratta.

— Nel senso che parrebbe fondato su un certo rispetto per il bambino, su un atteggiamento quanto mai paziente e protettivo nei riguardi del suo benessere fisico e mentale. Mentre poi lo fate vivere in queste enormi caverne, completamente tagliato fuori da ogni contatto col mondo naturale; e gli insegnate ad aver paura della morte, cosa che ovviamente lo rende un tantino squilibrato, dato che non c’è nulla che si possa fare contro la morte. È come se insegnaste ai bambini ad avere paura della seconda legge della termodinamica, solo perché la materia vivente sembra non voler tener conto della degradazione dell’energia per un breve periodo di tempo. Quanto debbono detestarvi!

— Dubito che sappiano della mia esistenza — disse freddamente la Contessa, che non aveva mai avuto figli.

— Oh, essi detestano i loro genitori innanzi tutto — disse Egtverchi, — ma resta loro sempre odio sufficiente per ogni altro adulto del vostro pianeta. E me lo scrivono nelle loro lettere. Non hanno mai avuto nessuno a cui dirlo prima, mentre in me vedono qualcuno che non è responsabile dei loro tormenti, ma anzi critica tutto ciò ed è un tipo piuttosto buffo e inoffensivo che non li tradirà.

— Tu esageri — disse Michelis a disagio.

— Oh, no, Mike. Ho già impedito il verificarsi di parecchi omicidi. Uno di questi bambini, un piccino di non più di cinque anni, aveva un piano straordinariamente ingegnoso, più o meno ispirato al sistema di eliminazione delle immondizie. Egli era pronto a sbarazzarsi della madre, del padre e del fratello quattordicenne; e tutta la faccenda sarebbe stata attribuita a un errore di calcolo negli impianti sanitari della città. Davvero incredibile che un piccino di quell’età abbia potuto immaginare un piano così sottile! Ma sono convinto che avrebbe funzionato: queste vostre città Rifugio sono talmente complesse che basta un errore insignificante perché si trasformino in ordigni mortali. Non mi credi, Mike? Posso mostrarti la lettera.

— No — rispose Michelis lentamente, — ti credo.

Gli occhi di Egtverchi furono velati per un attimo dalla membrana nittitante.

— Un giorno, lascerò che uno di questi piani giunga fino alle sue ultime conseguenze — disse. — Magari a titolo di dimostrazione. Qualcosa del genere sembra esser già nell’aria.

Michelis non dubitò neppure per un istante che Egtverchi non fosse disposto a farlo, né che i risultati non fossero conformi alle sue previsioni. La gente non ricordava mai con troppa chiarezza la propria infanzia per prendere sul serio le rabbie e le frustrazioni che agitavano i bambini: e tanto più piccolo era il bambino, tanto più debole era il suo Super-io, tanto meno capace di tenere a freno le emozioni. Sembrava più che probabile che un essere come Egtverchi potesse attingere a quell’universo sotterraneo di furore impotente con maggior facilità ed efficacia di qualunque psicologo terrestre, per abile che fosse.

Ed era proprio da lì, che occorreva attingere, se si sperava di porre qualche rimedio. Portare alla luce quel mondo di conflitti attraverso l’analisi psichica degli adulti serviva contro la nevrosi, ma quel metodo non si era mai rivelato efficace contro le psicosi; queste dovevano essere curate farmacologicamente, regolarizzando il metabolismo della serotonina mediante atarassici, i discendenti diretti dei gas e dei profumi esilaranti della Contessa. Aveva un certo effetto, sì, ma più che di una cura si trattava di un palliativo, come somministrare insulina o prodotti a base di zolfo colloidale a un diabetico. Il danno organico era già stato fatto. Nella sostanza devastata del cervello, i circuiti fondamentali di riverberazione, una volta messi in movimento, potevano essere interrotti, ma non mai sconnessi, se non ad opera della chirurgia distruttiva, metodo barbaro abbandonato ormai da oltre un secolo.

Il guaio era che tutto ciò coincideva con alcuni aspetti preoccupanti che Michelis aveva scoperto nell’economia Rifugio, dopo il suo ritorno da Lithia. Essendo nato in quell’economia, Michelis l’aveva sempre considerata più o meno una realtà a cui non si poteva sfuggire; questo, almeno, era ciò che gli diceva la memoria. Forse, al tempo della sua infanzia, le cose erano state realmente diverse, e forse un po’ meno cupe; o forse era soltanto un’illusione ispiratagli dal silenzioso censore della sua mente. Ma gli sembrava che la gente allora accettasse le caverne e i corridoi senza fine, nella speranza che la prossima generazione non sarebbe più vissuta nel timore e avrebbe conosciuto un’esistenza migliore: un raggio di sole, un po’ di pioggia, una foglia che cade…

Dalla sua infanzia, però, le restrizioni sulla vita in superficie si erano notevolmente allentate: nessuno ormai credeva più alla possibilità di una guerra nucleare, dato che la corsa ai Rifugi aveva portato la situazione a un vicolo cieco, ma in una certa misura l’atmosfera psichica invece di migliorare non aveva fatto che peggiorare. Il numero delle bande giovanili che infuriavano per i corridoi s’era accresciuto del quattrocento per cento, nel periodo in cui Michelis era stato lontano dal sistema solare; l’ONU spendeva ora più di cento milioni di dollari all’anno per il mantenimento di centri di ricreazione e rieducazione per adolescenti, ma questi centri venivano sistematicamente disertati, mentre le bande continuavano a moltiplicarsi. Le ultime misure prese contro di esse erano chiaramente punitive: un massiccio aumento nel costo dell’assicurazione (obbligatoria) sugli scooter elettrici, veicoli apparentemente innocui, lenti, di cui i teppisti usavano servirsi, prima, per facili reati come lo scippo, e poi per imprese più complesse e deleterie, come le massicce incursioni sui magazzini del cibo, le distillerie industriali, i negozi. Infine, il meccanismo che aveva fatto scattare le altissime tariffe assicurative era stata la nuova abitudine di allenarsi alle corse nei condotti per l’aerazione.

Alla luce di ciò che aveva appena detto Egtverchi, diventava facile capire l’esistenza di queste bande ferocemente delinquenziali. Anche se nessuno credeva più alla possibilità di una guerra atomica, nessuno credeva nemmeno a un completo ritorno della vita in superficie. I miliardi di tonnellate di cemento e acciaio dei Rifugi erano chiaramente lì per restarci. Gli adulti, ormai, non avevano più speranze per i figli, tanto meno per se stessi. Mentre Michelis era stato lontano, nell’Eden di Lithia, sulla Terra il numero di crimini commessi senza motivo — crimini commessi soltanto per ottenere una distrazione dalla vita opprimente dei corridoi — avevano superato la somma di tutti gli altri reati messi insieme. Soltanto la settimana precedente, qualche stupido della Commissione Pubblica dell’ONU aveva proposto di mettere dei tranquillanti nell’acqua potabile. L’Organizzazione Mondiale della Sanità l’aveva fatto espellere nel giro di ventiquattr’ore (se si fosse seguito il suggerimento, i crimini di quel genere sarebbero subito raddoppiati, perché l’uso dei tranquillanti avrebbe ulteriormente allentato i legami di responsabilità avvertiti dalla popolazione) ma il suggerimento era trapelato, e aveva fatto una pessima impressione sulla pubblica opinione.

E l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva ragione di preoccuparsene. La sua ultima inchiesta demografica, sotto la denominazione «Pazzia», aveva rivelato un totale di trentacinque milioni di schizofrenici paranoici precoci, riconosciuti come tali e non ricoverati, ognuno dei quali avrebbe dovuto essere sottoposto immediatamente alle cure del caso, se non che, così facendo, l’economia Rifugio avrebbe subito una diminuzione di mano d’opera più grave di quella che qualunque guerra della storia avesse mai inflitto all’umanità. Ognuno di quei trentacinque milioni d’individui rappresentava un pericolo serio per i suoi vicini e i suoi compagni di lavoro, ma l’economia Rifugio era troppo complicata per poterne fare a meno: per non parlare, poi, dei casi non diagnosticati, ambulatoriali, che probabilmente erano il doppio. Era chiaro che l’economia Rifugio non poteva continuare ancora un pezzo e che era ormai alla vigilia del crollo psicotico…

Con Egtverchi come medico curante?

Assurdo. Ma chi altro?

— Siete terribilmente di malumore, questa sera — la Contessa si stava lamentando. — Siete capace di divertire solo dei ragazzi?

— No, soltanto me stesso — si affrettò a rispondere Egtverchi. — Perché, naturalmente, sono anch’io un ragazzo. Vedete, dunque: non solo ho per genitori dei mammiferi, ma sono lo zio di me stesso, visto che gli umoristi per ragazzi della televisione sono sempre gli zii di tutti. Non mi apprezzate secondo i miei meriti, Contessa; di minuto in minuto divento sempre più interessante, ma voi non ve ne accorgete. Potrei trasformarmi in vostra madre e voi non fareste altro che sbadigliare.

— Vi siete già trasformato in mia madre — rispose la Contessa, con un’occhiata di sfida viperina. — Avete perfino le sue gote e gli stessi denti, insopportabilmente regolari. La voce anche! Mio Dio… Diventate qualcun altro, vi prego, purché non sia Lucien!

— Mi tramuterei nel Conte, se potessi — disse Egtverchi, con quello che a Michelis parve un rammarico sincero — ma non ho nessuna affinità per le trasformazione affini; non capisco ancora nemmeno le teorie di Haertel. Domani, forse?

— Mio Dio! — disse ancora la Contessa. — Mi domando come mi sia venuta l’idea d’invitarvi. Siete più noioso di quanto si possa sopportare. Non so perché vi sto ancora ad ascoltare. Ormai dovrei averne capito l’inutilità.

Tra lo stupore generale, Egtverchi improvvisamente si mise a cantare con una voce limpida e acuta di soprano: — Dolce Susanna… - Per un attimo Michelis ebbe la impressione che la voce venisse da qualcun altro; ma istantaneamente la Contessa si precipitò su Egtverchi, il volto sfigurato dall’ira.

— Smettete immediatamente! — disse con una voce più nuda e dura d’una ferita. Sotto la doratura del trucco, la sua espressione era irriconoscibile.

— Ma certo — rispose Egtverchi, soave. — Vedete bene che non sono vostra madre, dopo tutto. Conviene essere prudenti prima di fare certe accuse.

— Lurido demonio ricoperto di scaglie!

— Vi prego, Contessa; io ho le scaglie, voi un seno. È la natura che ci ha fatti così. Mi avevate chiesto di divertirvi; ho creduto che la mia canzoncina potesse riuscirvi gradita.

Dove avete sentito quella canzone?

— In nessun luogo. L’ho ricomposta. Ho potuto vedere nei vostri occhi che siete normanna di nascita.

— Ma come hai fatto? — domandò Michelis, incuriosito suo malgrado. Era la prima volta che rilevava qualità musicali in Egtverchi.

— Attraverso i suoi geni, Mike — disse il Lithiano. La sua analitica mente lithiana aveva subito identificato la sostanza più che il senso della domanda. — È in questo modo che conosco il mio nome e quello di mio padre; E-G-T-V-E-R-C-H-I è lo schema genetico di uno dei miei cromosomi; gli alleli G, V, e I mi vengono, naturalmente, da mia madre; la mia corteccia cerebrale ha diretto accesso sensitivo alla mia composizione genetica. Noi vediamo la linea atavica ovunque volgiamo lo sguardo, così come voi vedete i colori: è uno degli spettri del mondo reale. I nostri antenati hanno selezionato questo senso in noi; non fareste male a imitarli. Può essere utile sapere chi sia un individuo ancor prima che abbia aperto bocca.

Michelis si sentì scosso da un brivido. Si chiese se Chtexa avesse menzionato questo fatto a Ruiz-Sanchez. No, probabilmente; una scoperta così affascinante per un biologo avrebbe certamente spinto il Gesuita a parlarne. Ad ogni modo, era troppo tardi per chiederglielo, perché ormai era in viaggio per Roma; Cleaver era ancor più lontano; e, quanto ad Agronski, non era in grado di saper nulla.

— Oh, ma noioso, noioso, noioso — disse la Contessa. Era tornata padrona di se stessa.

— Certo, per coloro che lo sono — rispose Egtverchi col suo eterno sorriso che riusciva quasi sempre a rendere inoffensive le sue parole. — Ma mi ero proposto di divertirvi, e non avete apprezzato il mio spirito. Però spetta anche a voi di divertirmi, sapete; sono ospite qui. Che cosa avete per esempio nel vostro sottosuolo? Andiamo a vedere. Dove sono i miei soldati da week-end? Qualcuno li svegli; abbiamo una spedizione da fare.

La folla degli invitati era stata ad ascoltare avidamente, felice di vedere la Contessa vacillare sotto gli attacchi ripetuti del Lithiano. Quend’ella chinò il torreggiante e dorato trofeo del capo, facendo strada verso i binali del trenino, acclamazioni confuse fecero tremare le pareti della sala. Liu si ritrasse a cercar rifugio contro Michelis, che le cinse con un braccio la vita.

— Mike, non andiamoci — mormorò lei. — Torniamo a casa. Ne ho avuto abbastanza.

CAPITOLO TREDICESIMO

Dal diario di Egtverchi: «13 giugno. 13° settimana di cittadinanza. Questa settimana sono rimasto a casa. Gli ascensori della Terra non si fermano mai al mio piano. Devo scoprirne il motivo. Questa gente ha sempre un motivo per tutto quello che fa.»

Fu nella settimana in cui Egtverchi non parlò alla radiotelevisione che Agronski scoprì bruscamente di non sapere più la propria identità. Anche se a quell’epoca non ne aveva riconosciuto la natura, i primi sintomi premonitori della malattia s’erano manifestati in occasione della conferenza a quattro, a Xoredeshch Sfath, quando aveva cominciato a rendersi conto del fatto che non sapeva minimamente di che stessero parlando Mike, il Padre e Cleaver. Dopo un poco, gli era parso che nemmeno loro ne sapessero niente; i nastri sottili di logica e d’emozione con cui si ostinavano ad ornare l’umida atmosfera di Lithia sembravano non essere più appesi a nulla e nemmeno sfiorare terreno alcuno su cui gli esseri umani ch’egli conosceva avessero posato mai il piede.

Poi, ritornato sulla Terra, s’era appena irritato quando il «Journal of Interstellar Research» aveva trascurato di invitarlo a partecipare alla preparazione dell’articolo preliminare su Lithia. L’avventura lithiana aveva cominciato ad apparirgli remota, come un sogno, ed egli già sapeva che tra loro non avevano altro da dirsi, su quell’argomento, che avesse un senso comprensibile a tutti.

E questo era poco male, ma fino a quel momento nulla poteva spiegare quella sensazione di disperazione senza fondo, di solitudine e di disgusto che si era abbattuta su di lui quando aveva scoperto quella cosa apparentemente insignificante in sé: che il suo programma favorito televisivo non sarebbe stato trasmesso quella sera. A parte questa particolarità, tutto sembrava andare per il meglio. Egli era stato invitato a passare un anno presso l’istituto sismologico di Fordham, in ragione dei suoi lavori precedenti sulle onde gravitazionali (le scosse dovute alle maree e i moti sismici veri e propri) e il suo arrivo era stato accolto con rispetto ed entusiasmo da parte dei Gesuiti che dirigevano il dipartimento scientifico della grande università. Il suo appartamento, nel padiglione degli studenti di scienze, non aveva nulla di monastico, anzi era quasi lussuoso per un uomo solo, ed era stata messa a sua disposizione tutta l’apparecchiatura strumentale che un geologo in simili circostanze possa sognare; era virtualmente libero dall’obbligo di tenere lezioni; si era fatto vari amici fra i neolaureati che gli erano stati assegnati come assistenti. Ciò nonostante, quella sera, mentre fissava sullo schermo il programma che si trasmetteva in sostituzione di quello di Egtverchi…

Retrospettivamente, ognuno dei passi che lo avevano portato verso l’abisso sembrava irrevocabile, e nello stesso tempo ognuno di essi era stato così insignificante! Era stato così felice all’idea di ritornare sulla Terra, e non per qualche suo aspetto particolare, ma per ritrovare la vista confortante delle cose familiari. Ma, tornato sulla Terra, non aveva trovato proprio nessun conforto nel rivedere le antiche cose familiari: anzi, parevano piuttosto squallide. Lo attribuì al fatto di essere stato libero, anzi, di essere stato quasi solo, su un pianeta pressoché spopolato; era prevedibile che ci sarebbe stata una certa scossa, nel riadattarsi a vivere la vita di una talpa tra milioni di talpe.

E invece non c’era stata nessuna scossa. Invece, c’era stata una stranissima mancanza di ogni tipo di sensazione, come se le cose familiari non avessero più avuto il potere di richiamare la sua attenzione. Mentre i giorni passavano, quel torpore intellettuale ed emotivo s’era accentuato, fino a divenire una specie di vertigine, come se egli fosse sul punto di precipitare senza veder nulla a cui aggrapparsi.

Ad un certo punto di questo processo, egli aveva cominciato ad ascoltare le trasmissioni di Egtverchi: per semplice curiosità, gli pareva, entro i limiti in cui si può ricordare una cosa tanto lontana nel tempo. In quelle trasmissioni c’era qualcosa che gli era utile, anche se non avrebbe saputo dire che cosa. Come minimo, a volte Egtverchi lo divertiva. A volte la creatura gli ricordava in modo oscuro che su Lithia, per quanto egli fosse stato lontano dal modo di pensare e dagli scopi degli altri membri della commissione, egli era quasi unico; la cosa era confortante, pur trattandosi di un conforto molto esiguo. E a volte, durante gli attacci più feroci di Egtverchi contro la Terra che era familiare ad Agronski, provava un certo moto di piacere, come se Egtverchi fosse stato qualcuno che si vendicava per lui di nemici nascosti e sconosciuti. Ma la maggior parte delle volte, Egtverchi non riusciva a penetrare l’opaca atmosfera malsana che si era stretta intorno a lui; le trasmissioni erano semplicemente un’abitudine.

Intanto, sempre più spesso si accorgeva di non capire che cosa stessero facendo i suoi colleghi, o, in quei pochi casi in cui lo capiva, gli pareva che si trattasse di qualcosa di assolutamente banale; perché la gente si incatenava a certe assurde routine? Dove volevano andare, di così importante? L’aria di preoccupazione sicura e opaca con cui il troglodita medio si recava al lavoro, passava le ore di lavoro, e tornava nuovamente al proprio angolo nella sua zona bersaglio, gli sarebbe parsa tragica, se gli attori non fossero stati degli zeri così assoluti; la totale immersione delle persone che credevano importanti se stesse o il proprio lavoro gli sarebbe parsa assurda se egli avesse potuto trovare al mondo qualcosa che fosse degno della sua attenzione, ma ormai il sapore si stava allontanando da ogni cosa. Perfino le bistecche, da lui tanto desiderate quando era su Lithia, ormai erano soltanto una delle tante cose da fare: un esercizio di coltello, forchetta, denti e di riposo pomeridiano.

A volte, in brevi guizzi istantanei, gli capitava di invidiare gli scienziati Gesuiti. Essi credevano sempre all’importanza della geologia: un’illusione che ad Agronski pareva appartenere al lontano passato, anche se erano trascorse soltanto poche settimane. Anche la loro religione sembrava costituire per loro una fonte continua di eccitazione intellettuale, soprattutto durante quello, che era l’Anno Santo. Le sue conversazioni con Ruiz-Sanchez, due anni prima, gli avevano insegnato che l’ordine dei Gesuiti è la corteccia cerebrale della Chiesa, che a loro erano affidati i più complessi problemi di morale, di teologia e d’organizzazione. In particolare, ricordava, i Gesuiti avevano la responsabilità di soppesare i problemi politici e di fare le loro raccomandazioni a Roma. E a Fordham, Agronski aveva saputo che quell’anno sarebbe venuta la soluzione, per proclamazione del Santo Padre, d’una delle grandi questioni dogmatiche del Cattolicesimo; paragonabile al dogma dell’Assunzione di Maria Vergine, proclamato un secolo prima; discussioni appassionate, di cui aveva sentito dei frammenti nel refettorio, gli avevano consentito di concludere che i Gesuiti avevano già esposto il loro punto di vista; quella che restava ancora da discutere era la decisione più probabile che Papa Adriano avrebbe definitivamente preso. Il fatto che vi fossero ancora dei dubbi lo sorprese un poco, finché alcuni brani di conversazione, colti in refettorio, gli fecero capire che le decisioni dell’Ordine non erano assolutamente vincolanti. Ad esempio, i Gesuiti dell’epoca si erano vigorosamente opposti alla dottrina dell’Assunzione, nonostante il fatto che fosse una chiara preferenza personale del Papa; il dogma era stato proclamato: la decisione presa in San Pietro era inappellabile.

Nel mondo, apprese Agronski nella sua generale nausea, non c’era nulla che fosse altrettanto certo. Alla fine, i suoi colleghi di Fordham gli parvero altrettanto remoti quanto lo era stato, su Lithia, Ruiz-Sanchez. Nel 2050 la Chiesa Cattolica Romana era sempre la quarta del pianeta come numero di fedeli: dopo Isiam, Buddismo, e le sette Hindi. Dopo il Cattolicesimo veniva il numero confuso delle chiese protestanti, che poteva forse superare i cattolici se si incameravano in esso tutti coloro che nel mondo non avevano una fede ben definita; ed era probabile che agnostici, atei e altri senza interessi, presi come gruppo separato, fossero numerosi almeno come gli ebrei, e forse anche di più. Quanto allo stesso Agronski, egli non apparteneva a nessuno di questi gruppi: si stava allontanando alla deriva; stava lentamente cominciando a dubitare dell’esistenza dell’universo fenomenico stesso, e non poteva indursi a speculare su una cosa, probabilmente irreale, fino a convincersi che aveva importanza l’organizzazione intellettuale che gli veniva imposta sopra, Alto Anglicana o Logico Positivista che fosse. Quando una persona non prova più interesse per le bistecche, che gli importa del modo in cui sono state fatte crescere, macellate, cucinate e servite?

Ora, l’invito alla festa in onore di Egtverchi era quasi riuscito a forare la densa nebbia ch’era calata come una pesante cortina fra lui e il resto del Creato. Aveva creduto che la vista di un Lithiano vivo avrebbe fatto qualche cosa, sebbene non sapesse precisamente che cosa. Senza contare che aveva una gran voglia di rivedere Mike e il Padre, memore di essere stato un tempo loro amico. Ma il Padre era partito e Mike di quanti anni luce s’era allontanato, ora che aveva stretto relazione con una donna (e di tutte le insignificanti ossessioni dell’umanità, Agronski era oggi deciso ad evitare soprattutto la tirannia del sesso). Quanto allo stesso Egtverchi, non si rivelava che una caricatura terrestre e inquietante di ciò che Agronski ricordava dei Lithiani. Disgustato di sé e degli altri, Agronski aveva badato bene a tenersi in disparte dal resto della compagnia e così facendo s’era ubriacato senza rendersene conto. Non ricordava altri particolari del ricevimento, salvo il fatto di fare a pugni con qualcuno in una ampia sala scura, circondata da travi metalliche: come essere all’interno della Torre Eiffel a mezzanotte. Questo ricordo pareva comprendere delle inesplicabili nubi di vapore, e delle scosse che intensificavano la sua nausea, come se lui e il suo anonimo avversario fossero stati calati nell’inferno mediante un pistone idraulico lungo mille chilometri.

Quando s’era svegliato verso mezzodì del giorno dopo, la sua vertigine era aumentata di mille volte, insieme con l’orribile sensazione d’essere destinato a un olocausto, e il peggior mal di testa che ricordasse dal giorno in cui, al primo anno d’università, s’era ubriacato di sherry. Gli ci vollero due giorni per liberarsi dei postumi di tanta intossicazione, ma le sensazioni sgradevoli persistettero. Non poteva sopportare il cibo, le parole sulla carta non avevano senso, non poteva fare un passo dalla sua poltrona senza chiedersi se al passo successivo il mondo non rischiava di capovolgersi o scomparire. Nulla più aveva colore, volume, massa o struttura: le proprietà secondarie delle cose, che avevano continuato a sfuggire dal suo mondo fin da quell’episodio su Lithia, ormai erano fuggite del tutto, e le qualità primarie le stavano seguendo velocemente.

La fine era chiara e prevedibile. Non sarebbe rimasto altro che il minuscolo plesso di abitudini acquisite, al centro del quale sarebbe vissuta quell’entità fuggevole, misteriosa, che era il suo Io. Quando una di queste abitudini lo portò davanti al televisore, facendogli girare la manopola, era troppo tardi per salvare qualcosa. Non c’era più nessuno nell’universo, tranne lui, più nessuno e più niente.

Salvo che, quando lo schermo s’illuminò ed egli non vide apparire Egtverchi, si accorse che perfino quell’Io non aveva più nome. Entro il sottile involucro di una rinunciataria coscienza di sé, non restava altro che un vuoto, così vuoto come un vaso capovolto.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Ruiz-Sanchez si lasciò cadere in grembo la sottile lettera giunta con la posta aerea, e guardò senza vedere fuori del finestrino del rapido. Il treno aveva lasciato Napoli da un’ora e si trovava a mezza strada da Roma, ma Ruiz non aveva visto nulla di quel paesaggio che per tutta la vita aveva desiderato di conoscere. Ora aveva mal di capo. La scrittura di Michelis era quasi illeggibile. Il chimico doveva aver scritto quella lettera nelle peggiori circostanze che si potessero immaginare.

E dopo che l’emozione aveva peggiorato la calligrafia di Michelis, la fotocopiatrice l’aveva ridotta di dimensioni per farla stare su un singolo foglio di carta ultra-leggera per la posta via missile, e soltanto un uomo che conoscesse quella calligrafia come un assiriologo conosce il cuneiforme poteva sperare di decifrare quelle zampe di gallina.

Dopo qualche istante, Ruiz-Sanchez riprese a leggere da dove si era interrotto. Michelis diceva:


«È per questo che non ho assistito al crollo completo che è poi seguito. Sono ancora in dubbio quanto all’intera responsabilità di Egtverchi: forse i fumi esilaranti della Contessa hanno colpito anche lui, o lo hanno più o meno alterato, poiché il suo metabolismo, tutto sommato, non può essere del tutto differente dal nostro; ma naturalmente voi siete più in grado di me di valutare la cosa. Forse le mie illazioni non hanno alcun fondamento.

«Comunque, non ne so di più sulle devastazioni commesse nei piani inferiori di quel che abbiano detto i giornali. Qualora non li aveste letti, eccovi l’accaduto: Egtverchi e i suoi bravacci, bruscamente spazientiti, sia perché il trenino non avanzava con la velocità che essi avrebbero preferito, sia perché le attrazioni che si potevano vedere da esso non bastavano loro, sono partiti per una spedizione privata, non esitando ad abbattere le pareti divisorie tra le varie stanze, quando non riuscivano ad entrarvi in altro modo. Egtverchi, sebbene ancora abbastanza debole per un Lithiano, è tuttavia altissimo e le pareti divisorie non sembrano avere rappresentato per lui un problema.

«Ciò che è accaduto in seguito è piuttosto confuso e dipende molto dal giornalista di cui ci si fida di più. In base all’idea che ho potuto farmi fra tanti resoconti contraddittori, pare che Egtverchi non abbia fatto male a nessuno e che, se i suoi scherani si sono abbandonati ad atti di violenza, se ne sono prese nella misura in cui ne hanno date. Uno di loro è morto. Vittima principale dell’episodio è la Contessa, completamente rovinata. Alcune delle stanze in cui Egtverchi s’era introdotto e che non si trovavano sul percorso del trenino, ospitavano personaggi d’altro bordo. Essi sono stati scoperti nelle situazioni poco onorevoli previste per loro dai procuratori di gioia della Contessa. Quelli non ancora rovinati dallo scandalo sono decisi a vendicarsi sulla casa d’Averoigne.

«Impossibile naturalmente attaccare il Conte che non era informato di nulla. (A proposito, avete letto l’ultimo articolo di "H.O. Petard"? Molto notevole: grazie a una modifica alle equazioni di Haertel egli dimostra che è possibile vedere aggirando il normale spaziotempo, oltre che viaggiare. Teoricamente si potrebbe fotografare una stella e ottenere un’immagine contemporanea, non vecchia di molti anni luce. Un altro colpo alle teorie del povero vecchio Einstein.) Ma non è già più Procuratore di Canarsie, e se non strapperà in tempo i suoi quattrini dalle mani della Contessa finirà per ritrovarsi nei panni comuni di un troglodita medio. E per il momento nessuno sa dove si trovi e a meno che non abbia già letto i giornali è ormai troppo tardi perché egli possa intraprendere un’azione decisiva. In ogni caso, che egli agisca o non agisca, la Contessa resterà "persona non grata" nel suo ambiente fino al suo ultimo giorno di vita.

«Anche ora, sono incapace di decidere se Egtverchi abbia agito intenzionalmente o se tutto ciò non sia stato che un incidente causato da un eccesso d’impulsività. Egli annuncia che la settimana prossima risponderà agli attacchi dei giornali parlando alla televisione (questa settimana nessuno può vederlo, per ragioni che egli si rifiuta di render note) ma non vedo che cosa potrà dire che gli faccia recuperare una frazione minima della benevolenza di cui godeva prima della festa. È già parzialmente convinto che le leggi terrestri non sono che capricci istituzionalizzati, e il suo pubblico è composto per buona metà di bambini!

«Vorrei che foste il tipo d’uomo solito dire: "Ve l’avevo detto!" Avrei almeno la malinconica consolazione di assentire. Ma è troppo tardi ormai, per tutto questo. Se avete un po’ di tempo libero, scrivetemi, vi prego, per consigliarmi e inviate una lettera espresso. Siamo nei guai fino al collo.

Mike


«P.S. Liu e io ci siamo sposati ieri. Prima di quanto avessimo deciso, ma entrambi abbiamo sentito una inspiegabile necessità di far presto, un’urgenza disperata. Come se qualche evento d’importanza cruciale stesse per verificarsi. Penso che qualcosa infatti stia per accadere. Ma che cosa? Scrivetemi, vi prego. M.»


Ruiz-Sanchez emise un gemito involontario, attirando su di sé gli sguardi distratti dei suoi compagni di viaggio: un polacco con una giubba di pelle di montone, che aveva passato la totalità del viaggio a divorare un formaggio mostruoso e graveolente, un barbuto vedantista hollywoodiano in sandali e tunica di iuta, le cui occupazioni a Roma in un Anno Santo sembravano almeno problematiche.

Il Gesuita chiuse gli occhi per non vederli. Il sole splendeva con un fulgore quasi intollerabile. E dire che Mike perfino la mattina delle nozze non aveva cessato di pensare a quei problemi! Non c’era da stupire che la sua lettera fosse così difficile a leggersi. Riaprì gli occhi: per un attimo vide un boschetto d’olivi fuggire dietro le colline di terra bruciata che si stagliavano sul cielo di un azzurro incredibilmente luminoso. Poi bruscamente, le colline si ammassarono per incombere sopra di lbro, e poi con un fischio il treno si avventò entro una galleria.

Ruiz riprese le lettera, ma le zampe di gallina si confusero penosamente e una fitta improvvisa gli attraversò l’occhio sinistro. Dio Onnipotente, che stesse per divenir cieco? Ma no, che assurdità! Non aveva altro che un po’ di stanchezza agli occhi. Il dolore era dovuto a un’infiammazione del seno sfenoidale sinistro, disturbo che l’aveva colpito fin dalla partenza da Lima per l’umido Nordamerica, e che si era aggravato durante la permanenza su Lithia.

Il suo guaio era la lettera di Michelis, questo era chiaro. Era inutile cercare di accusare gli occhi o la sinusite, che soltanto sostituivano quelle mani che non portavano neppure l’anfora in cui Egtverchi era stato portato al mondo. Nulla rimaneva del suo dono, se non la lettera.

E che risposta poteva dare?

Be’, soltanto ciò che Michelis, ovviamente, stava cominciando a capire da solo: che il motivo della popolarità e del comportamento di Egtverchi risiedevano nel fatto che il Lithiano era mentalmente ed emotivamente un disadattato grave. Era stato privato della normale educazione lithiana, che gli avrebbe insegnato come sia importante sopravvivere in una società essenzialmente predace. Quanto alle norme e alle credenze della Terra, non le aveva assimilate che a metà, e poi Michelis lo aveva costretto a passare direttamente dallo stato di scolaro a quello di cittadino. Ora che aveva avuto occasione di vedere con quale ipocrisia alcune di quelle norme fossero rispettate, esse, per la mentalità rigorosamente logica del Lithiano, non potevano rappresentare nulla di più d’una specie di gioco. (Anche il concetto di gioco era una sua acquisizione terrestre; su Lithia il concetto non esisteva.) Ma non aveva nessun codice morale lithiano su cui ripiegare come alternativa o rifugio, dato ch’era totalmente ignaro della civiltà lithiana, così come era ignaro dei mari, delle savane e delle giungle di Lithia.

Insomma, un bambino lupo.

Il rapido sbucò dalla galleria con la stessa violenza con cui vi era entrato; e di nuovo il bagliore del sole costrinse il Gesuita a chiudere gli occhi. Quando li riaprì, ne fu compensato dalla vista di un’estesa vigna a terrazza. Il treno doveva essere ora nei paraggi di Terracina. Tra breve, con un po’ di fortuna, Ruiz avrebbe potuto vedere il monte Circeo; ma per il momento, quelli che lo interessavano erano i vigneti.

Da quel che aveva potuto osservare finora, le regioni italiane erano molto meno interrate del resto del mondo, e gli italiani passavano in superficie una gran parte della loro esistenza. In complesso, questa situazione era stata causata dalla povertà: nel suo insieme, l’Italia non era stata abbastanza ricca per partecipare alla corsa ai Rifugi su una scala pari a quella degli Stati Uniti. C’era tuttavia un enorme Rifugio a Napoli, e quello che si stendeva nel sottosuolo di Roma era il quarto del mondo; se questo era stato scavato, lo si doveva ai fondi pervenuti da tutto il mondo occidentale, oltre che a una mano d’opera volontaria, soprattutto dopo che i primi scavi profondi avevano rivelato incredibili ricchezze archeologiche.

In parte era anche ostinazione. La popolazione italiana, la quale non aveva conosciuto altra vita che al sole e per il sole, non s’era mai convinta della necessità di trasformarsi in un popolo di talpe. E ciò aveva fatto sì che di tutte le nazioni facenti parte del Rifugio (da cui erano esclusi soltanto i paesi irrimediabilmente depressi o scarsamente popolati) l’Italia fosse la meno compiutamente interrata.

Roma doveva essere dunque la più sana, e di gran lunga, tra le capitali del mondo. Eventualità, pensò ad un tratto Ruiz-Sanchez, che nessuno avrebbe previsto, trattandosi di un complesso fondato nel 753 a.C. da un bambino lupo.

Che ciò fosse soprattutto vero per il Vaticano, il Gesuita non ne aveva mai dubitato, ma la Città del Vaticano non era Roma. Questa riflessione gli ricordò che egli doveva essere ricevuto il giorno dopo in udienza speciale dal Santo Padre, avanti la cerimonia del bacio dell’anello: prima delle dieci, dunque, e probabilmente verso le sette del mattino, dato che il Santo Padre era molto mattutino e in un anno come quello Santo doveva dare udienze quasi ventiquattr’ore su ventiquattro. Ruiz aveva avuto quasi un mese per prepararsi, perché l’ordine gli era giunto a poca distanza da quello del Collegio, di presentarsi all’Inquisizione; ma si sentiva meno preparato che mai. Si chiese da quanto tempo un Papa non esaminasse personalmente un Gesuita caduto in una palese eresia, e che cosa avesse potuto dire il reo; senza dubbio la trascrizione era conservata nel Vaticano, così com’era stata scritta da qualche cerimoniere papale (assiduo come sempre nel suo dovere verso la storia, come tutti i suoi predecessori) ma Ruiz non avrebbe certamente avuto il tempo di leggerla.

D’altra parte c’erano in serbo per lui abbastanza noie da tenerlo più che occupato. Il problema di orientarsi per la città non era dei minori, tanto per cominciare, e poi c’era quello dell’alloggio. Nessuna delle case religiose lo avrebbe accolto — la voce s’era diffusa — e le sue magre risorse non gli permettevano di scendere a un albergo, anche se (nel caso le cose volgessero al peggio) aveva riservato una camera in uno degli alberghi più cari: forse gli avrebbero consentito di dormire in un ripostiglio… La sola alternativa accettabile era quella di trovare una pensione, impresa tutt’altro che facile, dato che quella trovatagli dall’agenzia era troppo lontana da San Pietro. L’agenzia non aveva potuto far altro che consigliargli di dormire nel Rifugio, soluzione che lui era stato contrario ad adottare. «Dopo tutto — gli aveva detto in tono aggressivo l’impiegato dell’Agenzia, — è un Anno Santo!» Un po’ come se avesse detto: «Non sapete che siamo in guerra?».

Aveva ragione, l’impiegato. Si era in guerra, infatti. Il Nemico si trovava a cinquant’anni luce e nello stesso tempo era alle porte.

Qualcosa lo indusse a guardare la data sulla lettera di Michelis: risaliva, scoprì con stupore e inquietudine, a due settimane prima. Ma il timbro postale era in data odierna, la lettera era stata imbucata infatti soltanto sei ore prima, in tempo per il missile dell’alba in partenza per Napoli. Michelis doveva averla tenuta in tasca per molto tempo; o vi aveva apportato delle aggiunte? Ma la riproduzione fotografica e la riduzione, insieme con l’affaticamento degli occhi di Ruiz, non permettevano di scorgere la differenza.

Dopo un’istante, Ruiz capì tutto il significato di quel ritardo: la risposta di Egtverchi ai giornalisti era stata diffusa dalla televisione già da una settimana e il suo programma stava per essere diffuso di nuovo quella sera!

Il programma di Egtverchi era trasmesso alle tre del mattino, ora di Roma; Ruiz si sarebbe levato prima ancora del Pontefice medesimo. Anzi, pensò tristemente, non avrebbe dormito affatto, quella notte.


Il rapido entrò nella Stazione Termini con cinque minuti d’anticipo. Ruiz non ebbe difficoltà a trovare un facchino, gli diede la mancia universale di mille lire per portare le sue due valigie, e gli fornì alcune istruzioni. L’italiano del sacerdote era sufficiente, ma piuttosto fuori dell’ordinario; il facchino sorrideva deliziato ogni volta che Ruiz apriva la bocca. L’aveva imparato leggendo, in parte Dante, in parte libretti d’opera, e se anche il suo accento era difettoso, in compenso le sue frasi erano molto fiorite: non poteva chiedere dove fosse il fruttivendolo senza dare l’impressione di volersi gettare nel Tevere se non avesse ottenuto la risposta. — Che albergo? — chiedeva il fattorino ogni tre paròle di Ruiz. — Che albergo?

Comunque, sempre meglio che l’atteggiamento dei francesi, incontrato da Ruiz nel corso di un viaggio a Parigi, quindici anni prima. Ricordava ancora un tassista che si era rifiutato di comprendere la sua richiesta di essere portato al Continental Hotel finché egli non ne aveva scritto il nome su un biglietto, dopo di che l’autista aveva detto, fingendo un’improvvisa comprensione: «Ah, ah? Lee Con-ti-nen-TAL?». Aveva poi scoperto che questo atteggiamento era quasi universale in Francia; i francesi volevano far sapere al forestiero che senza un accento perfetto si è totalmente incomprensibili.

Gli italiani, a quanto pareva, preferivano venire incontro al forestiero a metà strada. Il facchino sorrise alla prosa fiorita di Ruiz, ma lo condusse subito a un’edicola di giornalaio, dove egli poté comprare un settimanale nel quale la proporzione di testo che affiancava le fotografie prometteva un sufficiente resoconto di ciò che Egtverchi aveva detto la settimana prima; poi il facchino lo condusse esattamente all’indirizzo che Ruiz gli aveva chiesto. Ruiz gli raddoppiò subito la mancia : una guida così rapida poteva venire utile, ora che il tempo era poco; forse avrebbe nuovamente incontrato l’uomo.

Il facchino l’aveva condotto alla Casa del Passeggero, che godeva fama di essere la migliore istituzione del suo genere in Italia, la qual cosa, come poi scoprì Ruiz, voleva dire che era la migliore del mondo, perché non ci sono in nessun’altra parte del mondo degli istituti esattamente uguali agli alberghi diurni italiani. Là egli poté lasciare i bagagli, leggere la sua rivista e mangiare qualcosa al caffè, farsi tagliare i capelli e lustrare le scarpe, fare un bagno mentre i suoi abiti venivano stirati, e poi cominciare la lunga serie di telefonate che, sperava, gli avrebbero permesso di passare la notte in un letto: preferibilmente lì vicino, ma comunque in qualsiasi posto di Roma che non fosse il Rifugio.

Sorbendo il caffè, nella poltrona del barbiere, e perfino nella vasca da bagno, aveva avuto il tempo di leggere e rileggere il resoconto della trasmissione televisiva di Egtverchi. Il giornalista italiano non riportava esattamente le parole, per ovvie ragioni (Egtverchi aveva parlato per tredici minuti: il resoconto stenografico avrebbe occupato un’intera pagina) ma aveva riassunto tutti i punti salienti della conversazione del Lithiano, senza trascurare un solo concetto, tanto che Ruiz-Sanchez ne rimase impressionato.

Evidentemente, per la sua risposta, Egtverchi aveva raccolto diverse notizie così come gli erano arrivate via radio e senza un criterio preciso; e se n’era servito per lanciare un brillante attacco estemporaneo alla presunzione e alla simulata moralità dei Terrestri. Il filo conduttore era stato riassunto dal giornalista italiano nella frase dell’Inferno dantesco: «Perché mi scerpi? Non hai tu spirto di pietade alcuno?», nel grido cioè dei Suicidi, che possono parlare solo quando le Arpie li straziano e il sangue scorre. Il tutto rappresentava un’accusa massiccia che, senza giustificare minimamente la condotta di Egtverchi, volgeva in ridicolo il fatto che potesse esistere uomo talmente senza macchia da avere il diritto di scagliare la prima pietra. Evidentemente, il Lithiano aveva assimilato da cima a fondo la violenta opera di Schopenhauer Norme per la discussione.

Il giornale italiano informava inoltre il suo pubblico che quando la compagnia televisiva aveva creduto opportuno sospendere le trasmissioni del signor Egtverchi, ne era stata impedita da una valanga di telefonate, telegrammi e radiogrammi. Ormai la compagnia televisiva, incoraggiata dalla ditta Bifalco, che finanziava il programma televisivo di Egtverchi, diffondeva quasi ogni ora informazione statistiche, comprovanti che le trasmissioni del Lithiano rappresentavano chiaramente un successo spettacolare. «Il signor Egtverchi — continuava il giornale italiano, — è ormai divenuto il collaboratore più prezioso che esista al mondo. Nessuno più dubita ora che il Lithiano verrà incoraggiato a mostrare ancor più chiaramente quegli aspetti del suo personaggio pubblico per i quali era stato prima condannato. Insomma, questa creatura extraterrestre è divenuta di colpo un’autentica miniera d’oro.»

L’articolo era insieme ben scritto ed eccessivamente acceso (combinazione caratteristica di Roma), ma Ruiz, non avendo il testo della trasmissione, doveva prenderlo così com’era. Tuttavia, sia i sunti del giornalista che la passione del suo linguaggio parevano giustificati: anzi, forse l’uomo aveva minimizzato la situazione.

Ma, almeno a Ruiz, parve di sentire direttamente la voce di Egtverchi. L’accento era familiare e perfetto. E la trasmissione era stata rivolta a un pubblico composto per metà di bambini! Era mai esistito veramente, si chiese il Gesuita, un individuo preciso, chiamato Egtverchi? Se sì, era posseduto dal demonio, ma Ruiz non poté crederlo. Non c’era mai stato un vero Egtverchi che il diavolo potesse possedere. Era da cima a fondo il prodotto dell’immaginazione dell’Avversario, come lo era stato Chtexa, come lo era stato l’intero pianeta di Lithia. Già nel simulacro di Egtverchi Egli aveva abbandonato ogni sottigliezza, già osava mostrarsi nudo; sostenendo menzogne, creando discordia, seminando malanni, corrompendo l’infanzia, uccidendo l’amore, sollevando eserciti…

E tutto ciò durante un Anno Santo!

Ruiz-Sanchez rimase come di pietra, con una mano infilata per metà nella tasca della giacca estiva, lo sguardo alzato al soffitto della stanza. Doveva ancora fare due telefonate, nessuna delle quali al generale del suo Ordine, ma ora aveva cambiato idea.

Era stato incapace, per tutto questo tempo, di interpretare quei segni evidenti… o era invece mentecatto come gli eretici hanno fama di essere? Sì, capace di scorgere un Dies irae nel vapore di un bagno pubblico? Armageddon in TV? L’abisso che si spalanca per far uscire un pagliaccio che diverta i bambini?

Non sapeva. Era sicuro soltanto che per quella notte non avrebbe avuto bisogno di un letto; era di pietre che aveva bisogno. Uscì dalla Casa del Passeggero il più rapidamente possibile, lasciandosi dietro tutto quello che possedeva; trovò da solo la strada. La guida indicava una chiesa su un lato di Piazza della Repubblica, presso le Terme di Diocleziano.

La guida non s’era sbagliata, infatti. Eccola là, la chiesa: Santa Maria degli Angeli. Non si fermò sotto il portico a rinfrescarsi, sebbene il sole del tardo pomeriggio scottasse quasi come quello di mezzogiorno. Domani avrebbe fatto molto più caldo… irrimediabilmente più caldo. Varcò in fretta il portale.

Dentro, nella fredda penombra, s’inginocchiò e, in preda a un terrore glaciale, pregò.

Ma, in fin dei conti, poi non gli parve che la preghiera l’avesse molto sollevato.

CAPITOLO QUINDICESIMO

Tutt’intorno a Michelis la giungla sorgeva rappresa in un tumulto di immobilità. Filtrandovi attraverso, la luce indecisa del giorno si tingeva d’un verde cupo e là dove i raggi luminosi colpivano una superficie riflettente, sembravano più penetrarla che esserne riflessi, estendendo la giungla, mediante un’inversione delle immagini, in ogni direzione dell’universo. L’illusione era resa doppiamente reale dalla calma assoluta, priva d’ogni alito di vento.

Il solo che sembrasse muoversi era Egtverchi; sebbene la sua figura apparisse rimpicciolita come dalla lontananza, egli era tuttavia in scala con la giungla e i suoi gesti sembravano renderlo quasi più reale della scena. Si sarebbe detto che volesse attirare verso di sé Michelis, fuor dell’immobilità della giungla.

Solo la sua voce strideva; era al normale volume di conversazione, e dunque era troppo forte per le sue dimensioni e per quelle dell’ambiente; sembrava infatti così forte che Michelis, assordato, udì appena le ultime parole di Egtverchi. Solo quando questo, inchinatosi ironicamente, scomparve, e la sua voce svanì lasciandosi dietro solo l’onnipresente ronzio degli insetti, solo allora Michelis ne afferrò il significato.

Rimase seduto dove si trovava, stordito. Lasciò passare almeno trenta secondi di pubblicità per i Prodotti Alimentari Bifalco, la ditta che offriva al pubblico le conferenze di Egtverchi, prima di pensare a girare la manopola dell’apparecchio. Gli elettroni in movimento nel complesso fosforescente dello schermo ritornarono agli atomi dai quali erano stati allontanati dal minuscolo scansore de Broglie inserito nello schermo. Gli atomi ripresero le loro identità chimiche, le molecole si raffreddarono e lo schermo ridiventò una riproduzione immobile del quadro di Paul Klee, Capriccio di febbraio. Il principio, Michelis se ne ricordava, era stato concepito come conseguenza del primo articolo che il Conte d’Averoigne aveva fatto pubblicare sotto il nome di «Petard», quando, a diciassette anni, s’era interessato per la prima e l’ultima volta di matematica applicata.

— Che cosa ha voluto dire? — domandò debolmente Liu. — Non riesco più a capirlo. La chiama una dimostrazione, ma che cosa spera di dimostrare in questo modo? È puerile.

— Sì — disse Michelis. Per il momento non fu capace di pensare ad altro da dire. Aveva bisogno di riprendersi; perdeva il suo sangue freddo sempre più facilmente, da qualche tempo. Era una delle ragioni che lo avevano indotto ad affrettare il matrimonio con Liu: aveva bisogno della calma della donna, perché la sua stava scomparendo.

Ma in quel momento nemmeno la presenza di Liu sembrava giovargli. Perfino il loro appartamento, che in un primo tempo gli aveva dato tanta soddisfazione, gli sembrava ora una specie di trappola. Era un appartamento situato in uno degli ultimi piani di un grattacielo praticamente abbandonato, situato in fondo all’East Side di Manhattan. In origine, Liu aveva avuto un appartamentino nello stesso edificio, e Michelis, una volta abituatosi all’idea, aveva fatto installare entrambi nell’attuale appartamento, facendo leva nei luoghi opportuni. Non era usuale, non era neppure una cosa alla moda, ed erano stati avvertiti ufficialmente che una simile residenza veniva considerata pericolosa: di tanto in tanto, le bande di delinquenti minorili compivano delle incursioni negli edifici di superficie. Ma a quanto pareva non era più una cosa illegale, se una persona aveva il denaro necessario per vivere in quel modo negli slum.

Avendo ormai a disposizione uno spazio maggiore, l’artista che in Liu si nascondeva sotto l’aspetto della scienziata, aveva dato libero corso alla fantasia. Su tavolini minuscoli, si vedevano giardini giapponesi, con autentici alberi Ming e cedri nani. All’altezza dell’occhio, cassette di fiori facevano completamente il giro della stanza, avvolte da un intrico d’edera: vi crescevano piante della gomma, filodendri, zebrine pendule e altre specie rampicanti, con o senza fiori; dietro ogni cassetta, degli specchi salivano fino al soffitto, interrotti soltanto dalla raffinata serenità della riproduzione di Klee, che mascherava il televisore a 3D.

Il quadro, fatto quasi completamente di angoli staccati e di glifi che assomigliavano ai simboli della matematica, era un’oasi asciutta che era costata a Liu un supplemento di prezzo: le «coperture» di serie degli apparecchi televisivi erano prevalentemente van Gogh. Poiché i tubi per l’illuminazione erano nascosti dietro i vasi, la stanza dava un’impressione di esuberanza extraterrestre tenuta sotto controllo solo grazie ai massimi sforzi.

— Ho capito che cosa volesse dire — osservò finalmente Michelis. — Ma non so bene come esprimerlo. Lasciami pensarci un minuto: perché intanto non prepari la cena? Sarà meglio mangiare un po’ prestino, dato che potremmo avere visite, stasera.

— Visite? Ma… D’accordo, Mike.

Michelis si diresse fino alla parete di vetro e guardò nell’interno della veranda. C’erano tutte le piante da fiori di Liu, un vero giardino, che doveva restare separato dall’appartamento, perché Liu non soltanto era una giardiniera appassionata, ma allevava anche api. Ce n’era infatti una colonia, che produceva miele d’una specie singolare, esotica, grazie alla varietà di fiori che Liu aveva messo a loro disposizione. Era un miele straordinario, sempre diverso, a volte troppo amaro per mangiarlo, salvo che a minuscoli assaggi, in punta di coltello, come senape cinese, a volte contenente un forte tocco di oppio a causa dei papaveri ibridi che dondolavano come una squadra di soldati al limitare della veranda, a volte dolce da nauseare e insipido finché, con qualche sua piccola alchimia, Liu lo trasformava in un liquore che montava alla testa come il soffio del Giardino di Allah. Le api che lo facevano erano delle mostruosità tetraploidi, grosse come colibrì, con un carattere altrettanto irascibile quanto quello al quale si stava avvicinando lo stesso Michelis; ne sarebbero bastate cinque o sei per uccidere un uomo. Fortunatamente, volavano male in mezzo al vento che spirava sempre a quell’altezza, e potevano alimentarsi soltanto nel giardino di Liu: altrimenti non le sarebbe stato permesso di tenerle in un giardino pensile, aperto, in mezzo alla città. Michelis, in un primo tempo, si era molto allarmato per la presenza delle api, ma poi aveva finito per lasciarsi affascinare dalla loro intelligenza, che era straordinaria come la loro dimensione e la loro ferocia.

— Accidenti! — disse improvvisamente Liu.

— Che c’è?

— Ancora frittatine. È la seconda volta questa settimana che sbaglio numero nell’ordinare il pasto.

Tanto l’imprecazione quanto l’errore erano due cose eccezionali, da parte di Liu. Michelis ne provò come un rimorso, un miscuglio di pietà e di senso di colpa. Liu stava cambiando; non era mai stata così distratta, prima. Che ne fosse lui il responsabile?

— Oh, va bene lo stesso. Non importa. Mangiamo.

— Come vuoi.

Mangiarono in silenzio. Michelis sentiva che Liu avrebbe voluto fargli delle domande. Il chimico non avrebbe mai dovuto immischiare sua moglie in tutto quell’imbroglio. D’altra parte, sarebbe stato impossibile. Liu era implicata nella faccenda di Egtverchi quanto lui. E Michelis non sapeva più che pensare; le parole di Egtverchi lo avevano sconvolto al punto di renderlo incapace di pensiero logico. Sarebbe ricaduto nel brutto compromesso abituale, che consisteva nel non dire niente a Liu. No, anche questo stava ormai diventando impossibile.

Eppure la sciocchezza compiuta dal Lithiano era stata piuttosto grossolana: puerile, come aveva detto Liu. Egtverchi era stato spinto a sorpassare ogni misura, a mostrarsi riottoso, irresponsabile, e l’aveva fatto fino in fondo. Non solo aveva esplicitamente dichiarato il suo disprezzo per ogni istituzione e costumanza stabilite, ma aveva anche invitato il suo pubblico a mostrare lo stesso disprezzo. Verso la fine della sua trasmissione, poi, aveva perfino insegnato al pubblico come fare: tutti dovevano inviare lettere anonime ingiuriose alla ditta che pagava le sue trasmissioni.

— Basterà una cartolina postale — aveva detto con dolcezza, le grandi mandibole sorridenti. — Purché la missiva sia caustica, ferisca. Se non riuscite a mandar giù quella specie di cemento in polvere che vi vendono per fare la frittata, scrivetelo. Se invece vi va a genio, ma la nostra pubblicità vi fa venire il voltastomaco, dichiaratelo, e senza peli sulla lingua, mi raccomando. Se mi detestate, dite anche questo alla Bifalco, sempre senza ritegno. Vi leggerò le cinque lettere più sgradevoli nel corso della mia prossima trasmissione, fra una settimana. E ricordatevi, non firmate col vostro nome; se proprio vorrete firmare, usate il mio. Buonasera.

La frittatina aveva un sapore di straccio per la polvere.

— Ti dirò quello che penso — disse improvvisamente Michelis, a bassa voce. — A mio avviso, Egtverchi tenta di sollevare la folla. Ti ricordi di quei ragazzi in uniforme? Ora ha abbandonato quel sistema, oppure lo nasconde, perché pensa che la sua nuova idea sia migliore. Ha un pubblico di circa sessantacinque milioni di spettatori, metà dei quali forse sono adulti. Di questi, un’altra buona metà è costituita di individui più o meno mentecatti, ed è proprio su questo che lui ora conta. Intende trasformare quei milioni di individui in vere e proprie squadre di linciaggio.

— Ma perché, Mike? — comandò Liu. — A che cosa gli servono?

— Non lo so, ed è proprio questo che mi rende perplesso. Non è il potere che lui cerca… Forse vuole solo distruggere. Un complicato atto di vendetta.

— Vendetta!

— Cerco d’indovinare. I suoi motivi sfuggono forse più a me che a te.

— Ma vendetta contro chi? — disse Liu con voce tranquilla.

— Contro di noi. Per averne fatto un simile spostato.

— Capisco — disse Liu. Poi chinò il capo sul piatto, ancora intatto, e cominciò a piangere in silenzio. In quel momento, Michelis avrebbe ucciso volentieri Egtverchi, o se stesso.

Il Klee fece udire il suo carillon armonioso. Michelis alzò gli occhi a guardarlo con amara rassegnazione.

— I nostri visitatori — disse. E premette il pulsante del telefono.

Il Klee si velò e, dalla parete, il presidente della commissione di naturalizzazione che aveva esaminato Egtverchi lo guardò interrogativamente da sotto il suo casco complicato.

— Salite — disse Michelis. — Vi stavamo aspettando.


L’uomo dell’ONU passò qualche tempo a visitare l’appartamento e ad emettere esclamazioni sul buon gusto di Liu, ma fu chiaro che si trattava di una sorta di cerimonia. Pronunciata l’ultima frase di prammatica, cambiò bruscamente tono; le api stesse avevano sentito qualcosa di ostile, in quell’uomo; egli s’era appena messo a osservarle da dietro il vetro che gli insetti s’erano precipitati su i lui, cozzando contro il vetro con le teste dagli occhi sporgenti, globulari. E per tutta la conversazione che seguì, Michelis poté udirle cozzare tenaci contro la parete trasparente con un ronzio di ali furibonde.

— Abbiamo ricevuto più di diecimila cartoline e telegrammi nella mezz’ora seguita alla trasmissione di Egtverchi — disse l’uomo dell’ONU. — La prima analisi è sufficiente a farci capire la dimensione del fenomeno che ci sta di fronte, ed è per questo che sono venuto da voi. Nella settimana che seguirà, noi calcoliamo di ricevere oltre due milioni di missive…

— Chi è questo «noi»? — domandò Michelis. E Liu aggiunse: — Non mi pare una grande cifra.

— «Noi» si riferisce alla rete televisiva. E la cifra è piuttosto ingente, dato che siamo quasi anonimi per la massa del pubblico. La Bifalco riceverà più di sette milioni e mezzo di tali messaggi.

— E sono così brutti? — chiese Liu, alzando le sopracciglia.

— Sono i peggiori che possano venire trasmessi dalla posta — disse l’uomo dell’ONU. — Confesso di non avere mai visto niente di simile, e dire che sono all’ufficiò relazioni pubbliche della televisione da undici anni… questo incarico presso l’ONU è a part-time. Metà dei messaggi sono delle espressioni di odio velenoso e incontrollato: odio patologico. Ne ho alcuni esempi con me, ma non ho portato i peggiori. Di solito non mostro ai profani le lettere che riescono a spaventare me.

Mostratemene uno — disse Michelis.

L’uomo dell’ONU, in silenzio, gli passò una fotocopia. Michelis la lesse. Poi la restituì.

— Siete più refrattario di quanto non pensiate — disse. — Io non lo avrei mostrato a nessuno, salvo, forse che a un ricercatore sulle malattie mentali.

L’uomo dell’ONU sorrise per la prima volta, e li osservò entrambi con con occhi vivaci e intelligenti. Chissà come, pareva stesse valutandoli, non individualmente, ma come coppia. Michelis ebbe l’impressione che la sua privacy venisse in qualche modo violata, ma nel comportamento dell’uomo non c’era nulla di offensivo.

— Neppure alla dottoressa Meid? — chiese l’uomo dell’ONU.

— A nessuno — rispose Michelis, irritato.

— D’accordo. Comunque, ripeto che non l’ho scelta deliberatamente per la sua forza d’urto. Posso assicurarvi che questa lettera è un’espressione di stima e simpatia, a paragone di altre che ci sono arrivate. Questo Serpente ha un pubblico di squilibrati e intende servirsene. Ecco perché sono venuto a trovarvi. Noi pensiamo che voi sappiate forse a quale scopo intenda servirsene.

— A nessuno scopo, se voi stessi foste capaci di conservare il controllo della vostra rete televisiva — rispose Michelis. — Perché non eliminate il programma? Se vi sta avvelenando la società, non avete altra scelta.

— Quel che è veleno per uno è guadagno per l’altro — rispose l’uomo dell’ONU. — Quelli della Bifalco non vedono la cosa nello stesso modo in cui la vediamo noi. Anche loro hanno il loro reparto di analisi della risposta del pubblico, e sanno bene quanto noi che riceveranno più di sette milioni e mezzo di cartoline postali ingiuriose nel corso della settimana. Ma la cosa li delizia. Sono soddisfattissimi. Pensano che servirà a far comprare i loro prodotti. Probabilmente assegneranno al Serpente un’intera mezz’ora di trasmissione, pagata totalmente da loro, se le risposte arriveranno come previsto… e vi garantisco che arriveranno.

— Perché non abolite direttamente gli interventi di Egtverchi, vietandogli di apparire? — chiese Liu.

— La concessione ci obbliga a rispettare il diritto della libertà di parola, così, fino a quando la Bifalco investirà quattrini nella rubrica di Egtverchi, noi dovremo continuare la trasmissione. In fondo, il principio non è sbagliato. In passato ci sono stati alcuni casi che minacciavano di far sorgere guai, ma in ogni caso li abbiamo lasciati parlare, e alla fine il pubblico si è stancato. Però, allora, il pubblico era diverso: era la totalità degli spettatori, che in maggioranza è sana di mente. Il Serpente, invece, ha un pubblico selezionato, e questo suo pubblico non è affatto sano di mente. Questa volta… per la prima volta… pensiamo di interferire nella situazione. È per questo che siamo venuti da voi.

— Non posso aiutarvi in nulla.

— Sì, lo potete e ci aiuterete, dottor Michelis. Parlo in questo momento in nome della rete televisiva e in nome dell’ONU. La rete televisiva vorrebbe interrompere le emissioni di Egtverchi e l’ONU da parte sua fiuta nell’aria qualche cosa che potrebbe rivelarsi peggio ancora dei famosi tumulti di Corridoio del 1993. Siete stato voi a far da padrino al Serpente ed è stata vostra moglie ad allevarlo. Voi lo conoscete meglio di chiunque altro. Dovrete dunque fornirci contro di lui le armi che ci occorrono. In base alla legge di naturalizzazione, siete responsabile dei suoi atti. Non è una legge che tiriamo in ballo facilmente, ma questa volta intendiamo farlo. Decidetevi in fretta, perché dobbiamo sbarazzarci di lui prima della prossima trasmissione.

— E se non avessimo nulla da suggerirvi? — disse Michelis, gelido.

— Dichiareremmo che il Serpente è minorenne e che voi siete i suoi tutori — disse l’uomo dell’ONU. — Cosa che non è affatto una soluzione, dal nostro punto di vista, ma che rischia d’essere molto sgradevole per voi. Nel vostro stesso interesse, fareste bene a trovare una soluzione. Spiacente di essere portatore di così brutte notizie, ma sono cose che capitano. Buonanotte e grazie.

Uscì. Rimasti soli, Michelis e Liu si guardarono sgomenti.

— Non è più possibile, ormai, tenerlo sotto tutela — bisbigliò Liu.

— Be’ — disse seccamente Michelis — parlavamo di avere un figlio…

— Mike!

— Scusa — disse. — Quel figlio di un cane dell’ONU! È stato lui a concedere la naturalizzazione, e ora ci butta tutto sulle spalle. Devono essere veramente in condizioni disperate. E noi che faremo? Non ne ho la minima idea.

Liu disse, dopo un istante di esitazione: — Mike, noi non sappiamo abbastanza per trovare qualcosa di utile nel giro di una sola settimana. A meno di non riuscire a metterci in contatto col Padre…

— Se potessimo — disse Michelis a bassa voce. — Ma a che servirebbe? L’ONU non gli darebbe retta… lo hanno già bell’e scavalcato.

— Come? Che cosa vuoi dire?

— Che hanno preso de facto una decisione in favore di Cleaver. Non sarà proclamata prima che la Chiesa abbia sconfessato Ramon, ma la cosa è già in atto. Lo sapevo già prima che lui partisse per Roma ma non ho avuto il coraggio di dirglielo. Lithia è stata chiusa. L’ONU ha intenzione di utilizzare quel pianeta per lo studio dell’immagazzinamento dell’energia nucleare: non esattamente quella che era l’idea originaria di Cleaver, ma qualcosa di molto simile.

Liu rimase a lungo in silenzio. Infine si alzò e andò avanti al vetro dove le api continuavano a cozzare ronzando.

— E Cleaver lo sa? — domandò, sempre di spalle al marito.

— Oh, sì, lo sa. È a lui che sono affidate le operazioni. Doveva sbarcare a Xoredeshch Sfath ieri. Ho cercato di avvertirne indirettamente Ramon, per questo avevo disposto quella faccenda della collaborazione al «Journal», ma Ruiz-Sanchez non ha afferrato nessuna delle mie allusioni. Ed io non me la sentivo di dirgli freddamente che la sua causa era perduta prima ancora che lo si fosse ascoltato.

— È terribile — disse lentamente Liu. — Perché aspettano che Ramon sia ufficialmente scomunicato per annunciare la notizia? Che differenza può esserci?

— Perché la decisione non è onesta, ecco tutto — disse Michelis, quasi con ferocia. — Che si sia o no d’accordo con gli argomenti teologici di Ramon, decidere in favore di Cleaver è una sporca azione, indifendibile se non come abuso di potere. Lo sanno perfettamente, e prima o poi dovranno pur rivelare all’opinione pubblica quali fossero gli argomenti contro. Ma per quel giorno, vogliono che gli argomenti di Ramon siano stati già screditati dalla Chiesa.

— E Cleaver, che cosa sta facendo esattamente?

— Esattamente, non saprei. Ma credo che stia costruendo un enorme generatore Nernst nel continente australe, presso Gleshchtehk Sfath, per produrre energia, così che questa parte almeno del sogno di Cleaver è già realizzata. In seguito, cercheranno di utilizzare l’energia greggia, così com’è prodotta, invece di degradarla e di buttarne via il 95 per cento sotto forma di calore. Non so come Cleaver si proponga di farlo, ma immagino che comincerà con una modificazione dell’effetto Nernst stesso: il principio della «bottiglia magnetica». Farà bene ad essere molto prudente. — Tacque per un istante. — Credo che ne avrei parlato a Ramon, se mi avesse fatto qualche domanda. Ma non mi ha chiesto nulla, e io non gli ho detto nulla. E ora mi sento un vigliacco.

A queste parole Liu si voltò bruscamente e venne a sedersi sul bracciolo della poltrona di Michelis.

— Era la sola cosa che tu potessi fare, Mike — gli disse. — Non è una viltà rifiutarsi di togliere a un uomo la speranza, penso.

— Forse no — disse Michelis, prendendole una mano con gratitudine. — Ma il risultato di tutto questo è che Ruiz-Sanchez non può più aiutarci, ora. Grazie a me, non sa nemmeno che Cleaver è tornato su Lithia.

CAPITOLO SEDICESIMO

Era sorta da poco l’alba quando Ruiz-Sanchez s’avviò nell’amplissimo cerchio della Piazza San Pietro, verso la cupola maestosa della Basilica stessa. Malgrado l’ora mattutina, la piazza formicolava di pellegrini, e la cupola sembrava sorgere corrucciata dalla foresta di colonne come la fronte stessa di Dio.

Il Gesuita passò davanti alle guardie svizzere vestite delle loro uniformi pittoresche e varcò la porta di bronzo. Si fermò un istante, per mormorare, con un fervore inatteso, le preghiere per il Santo Padre, prescritte per l’Anno Santo. Dinanzi a lui si elevava il Palazzo Apostolico; Ruiz-Sanchez si stupì che un edificio così pieno di marmo riuscisse ugualmente a parere così spazioso; comunque, ora non aveva tempo per altre preghiere.

A destra della prima porta, un uomo era seduto a un tavolo.

— Ho ricevuto l’ordine di presentarmi a un’udienza speciale presso il Santo Padre.

— Il Signore vi ha benedetto. L’ufficio del maggiordomo è al primo piano a sinistra. No, un momento… udienza speciale, avete detto? Posso vedere la vostra lettera, per cortesia?

Ruiz-Sanchez gliela porse.

— Benissimo. Comunque, dovrete sempre vedere il maggiordomo. Le udienze speciali hanno luogo nella Sala del Trono; vi indicherà la strada.

La sala del Trono! Più che mai, Ruiz-Sanchez si sentiva a disagio. Era là che il Santo Padre riceveva i capi di Stato e i membri del Collegio dei Cardinali. Non era certo quello il luogo in cui ricevere un Gesuita eretico, di basso rango…

— La Sala del Trono — disse il maggiordomo. — È la prima porta nell’ala dei ricevimenti. Vi auguro ogni bene, Padre. Pregate per me.

Adriano VIII era un uomo imponente, norvegese di nascita, la cui barba ricciuta era stata soltanto segnata di qualche filo grigio alla data della sua elezione. Ora era bianca, naturalmente, ma per tutto il resto il trascorrere del tempo non pareva averlo toccato; anzi, pareva leggermente più giovane che in fotografia o in televisione, perché la fotografia tendeva ad accentuare le rughe del suo viso largo e massiccio.

Ruiz-Sanchez fu talmente impressionato dalla sua imponenza da non badare quasi alla preziosità delle sue vesti ufficiali. Inutile dire che non c’era nulla di latino nelle sembianze o nel temperamento del Santo Padre. Durante la sua ascesa alla sedia gestatoria s’era fatto la reputazione di cattolico con una passione quasi luterana per i meandri più sottili della teologia morale; c’era in lui qualcosa di Kierkegaard e anche qualcosa del Grande Inquisitore. Dopo la sua elezione, aveva stupito tutti per l’interessamento che manifestava verso la politica temporale, sebbene la caratteristica freddezza della speculazione teologica nordica continuasse a colorire tutto quanto dicesse o facesse. La scelta del nome di un imperatore romano era perfettamente adatta a lui, comprese Ruiz-Sanchez: ecco un volto che poteva figurare bene su una moneta imperiale, nonostante la benevolenza che ne temperava il rigore.

Per tutta l’udienza, il Pontefice rimase in piedi, guardando dall’alto Ruiz-Sanchez con un’espressione che parve a questo fin dal principio composta per nove decimi di franca curiosità.

— Delle migliaia di pellegrini che sono qui attualmente, nessuno forse ha più di voi bisogno della nostra indulgenza — cominciò in inglese. Accanto a loro ronzava un registratore; Adriano era un archivista convinto, e un rigoroso difensore della lettera del testo. — Tuttavia, nutriamo scarse speranze che riusciate a ottenerla. Ci sembra incredibile che proprio un Gesuita, di tutti i nostri pastori, possa essere caduto nel manicheismo. Gli errori di questa eresia sono insegnati particolarmente proprio in quel collegio.

— Santità, l’evidenza…

Adriano alzò la mano.

— Non perdiamo tempo. Ci siamo già informati delle vostre opinioni e dei vostri ragionamenti. Siete sottile, Padre, ma avete commesso una grave omissione. Desideriamo tuttavia rimandare questo argomento. Parlateci innanzi tutto di questa creatura, Egtverchi, non come un emissario del Diavolo, ma come lo vedreste se fosse umano.

Ruiz-Sanchez si accigliò. C’era qualcosa, nella parola «emissario» che colpiva qualche debolezza dentro di lui, come un dovere dimenticato finché non era troppo tardi per rispettarlo. La sensazione era uguale a quella che aveva animato un incubo ridicolo e ricorrente dei suoi giorni di università, in cui sognava di non superare l’esame di laurea perché si era dimenticato di frequentare il corso di latino. E tuttavia non riusciva a individuare esattamente la natura di quella sensazione.

— Ci sono molti modi per descriverlo, Santità — disse. — È quel tipo di personalità che lo scrittore del ventesimo secolo Colin Wilson chiamò un outsider, e allo stesso tipo di personalità appartengono coloro sui quali esercita il suo ascendente. È un predicatore senza fede, un intelletto senza cultura, un cercatore senza meta. Credo che abbia una coscienza, nel senso che noi diamo a questa parola; in questo differisce profondamente dal resto della sua razza, come in molte altre cose. Ha l’aria d’interessarsi profondamente ai problemi morali, ma professa un disprezzo assoluto per ogni morale tradizionale, ivi compreso il genere di automatismo morale razionalizzato che predomina su Lithia.

— E ciò fa vibrare qualche corda profonda nel suo pubblico?

— Non può esservi dubbio alcuno quanto a questo, Santità. Resta da vedere quale possa essere l’estensione della sua popolarità. Ha tentato un esperimento concepito con estrema scaltrezza, la notte scorsa, ovviamente inteso a verifícare proprio questo punto; dovremmo sapere tra breve l’entità numerica delle risposte che ha ottenuto. Ma sembra già palese che egli esercita un fascino su tutte quelle persone che si sentono avulse, emotivamente e intellettualmente, dalla nostra società e dalle sue principali tradizioni culturali.

— Ben detto — approvò Papa Adriano, con grande sorpresa di Ruiz-Sanchez. — Siamo alla vigilia di eventi imprevedibili, questo è certo; secondo certi segni premonitori, questo potrebbe essere l’anno. Abbiamo ordinato all’Inquisizione di mettere da parte per il momento le sue campane, i suoi libri e i suoi ceri; riteniamo che questo genere d’azione sarebbe di un’estrema imprudenza.

Ruiz-Sanchez era sbalordito. Nessun processo… niente scomunica? Il modo in cui gli eventi cominciavano a incalzare intorno a lui gli ricordava le piogge insistenti di Xoredeshch Sfath.

— Perché, Santità? — domandò con voce fiacca.

— Noi pensiamo che voi siate l’uomo destinato da Nostro Signore a portare le armi di San Michele — disse il Papa, soppesando ogni parola.

— Io, Vostra Santità? Un eretico?

— Noè, ricorderete, non era perfetto — rispose Papa Adriano con l’ombra di un sorriso. — Era soltanto un uomo cui fu concessa una seconda possibilità. E Goethe, che fu egli stesso un eretico, e non piccolo, riformulò la leggenda di Faust nello stesso modo: la redenzione è sempre il punto cruciale del grande dramma, e ad essa si deve giungere dopo un cammino d’errore. Inoltre, Padre, considerate per un istante il carattere unico di questo caso di eresia. La comparsa di un manicheo isolato in pieno secolo ventunesimo, non è, forse, o un anacronismo senza importanza, o un segno grave?

Tacque per un istante, accarezzando il suo rosario.

— Naturalmente — riprese, — sarà necessario che vi purifichiate. È la ragione per la quale vi abbiamo fatto venire. Pensiamo, esattamente come voi, che l’Avversario sia lo spirito animatore dietro tutta questa crisi lithiana; ma non riteniamo necessario negare il dogma per questo. Tutto s’impernia su questo problema della forza creatrice. Diteci, Padre: quando vi siete convinto per la prima volta che tutto l’insieme di Lithia non era che un’emissione diabolica, che cosa avete fatto in proposito?

— Ma, Vostra Santità, non ho fatto che quanto è stato registrato. Non ho potuto immaginare altro.

— Così che non vi è venuto in mente che le manifestazioni del Maligno si possono scacciare, e che il Signore ha rimesso questo potere nelle vostre mani?

Ruiz-Sanchez si sentiva vuoto d’ogni emozione, ora. — Si possono scacciare… Forse, Vostra Santità, mi sono condotto stupidamente. Mi sento sciocco. Ma per quel che ne so io, sono più di due secoli che la Chiesa ha abbandonato la pratica dell’esorcismo. Mi è stato insegnato che la meteorologia ha ormai preso il posto degli «spiriti e delle potenze dell’aria» e che la neurofisiologia ha sostituito l’ossessione. Non mi è mai venuta alla mente tale pratica.

— L’esorcismo non è mai stato abbandonato: tutt’al più sconsigliato — disse Adriano. — Ne è stata limitata la pratica, come avete fatto notare, e la Chiesa ha desiderato prevenire l’abuso da parte dei preti di campagna ignoranti, che nuocevano alla reputazione della Chiesa cercando di scacciare i demoni dal corpo di vacche malate e di capre e gatti che godevano una salute eccellente. Ma per il momento non è di animali malati, né di meteorologia, né di malattie mentali che voglio parlare, Padre…

— Allora… La Santità Vostra vuol dire realmente che… che avrei dovuto esorcizzare un pianeta intero?

— Perché no? — rispose il Papa. — Naturalmente, il fatto che in quel periodo voi vi siate trovato sul pianeta deve avervi impedito, inconsciamente, di pensarci. Noi siamo convinti che il Signore avrebbe provveduto a voi… in Cielo senza dubbio, e forse anche con aiuti temporali. Era in ogni caso la sola soluzione al vostro dilemma. Se l’esorcismo non avesse avuto esito, allora avreste potuto avere qualche scusa per cadere in eresia. Ma certo dovrebbe essere più facile credere a un’allucinazione su scala planetaria, di cui sappiamo l’Avversario largamente capace, che all’eresia del potere creatore di Satana!

Il Gesuita chinò il capo. Si sentiva affranto dalla propria ignoranza. Aveva passato tutte le sue ore libere su Lithia nello studio di un libro che secondo tutte le apparenze era stato ispirato dall’Avversario medesimo, e non aveva visto nulla che contasse, nulla di rilievo in quelle 628 pagine di ciarle demoniache…

— Non è troppo tardi per tentare — disse Adriano, quasi dolcemente. — È la sola via che vi resti. — Bruscamente, il suo viso ridivenne severo, marmoreo. — Come abbiamo fatto osservare all’Inquisizione, la vostra scomunica è automatica. Non ha bisogno di essere sanzionata per divenire effettiva, e per ragioni tanto politiche quanto spirituali, non riteniamo opportuno sanzionarla per il momento. Frattanto, dovreste lasciare Roma. Ci asteniamo dall’impartirvi la nostra benedizione e la nostra indulgenza, dottor Ruiz-Sanchez. Questo Anno Santo è per voi un anno di battaglia, col mondo come ricompensa. Quando avrete vinto la battaglia, potrete ritornare a noi… non prima. Addio.


Il dottor Ramon Ruiz-Sanchez, ormai semplice laico, e condannato, lasciò Roma in aereo la sera stessa per New York. Il diluvio di eventi si accresceva intorno a lui, sempre più precipitoso; il tempo di costruire l’arca era quasi venuto. Tuttavia, mentre le acque salivano e incessantemente le parole «sono stati rimessi nelle tue mani» attraversavano le stanche distese del suo cervello, non era ai milioni di esseri formicolanti nello Stato Rifugio che pensava, ma a Chtexa. E il pensiero che un esorcismo potesse riuscire a dissolvere interamente quella grave creatura insieme con tutta la sua razza e la sua civiltà, facendole rientrare nel Grande Nulla come se non fossero mai nate, era uno strazio indicibile per lui.

Nelle tue mani… Nelle tue mani…

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Le cifre parlavano chiaro. Si sapeva ora se non l’identità almeno il numero di coloro che avevano scelto Egtverchi come simbolo ed esponente del loro malcontento. Ed erano cifre sbalorditive. A quanto sembrava, più d’un terzo della società del ventunesimo secolo odiava dal fondo della sua anima collettiva quella stessa società.

Ruiz-Sanchez si chiese improvvisamente se (ammesso che fosse stato possibile un simile sondaggio d’opinione) nei secoli passati la proporzione fosse sempre stata la stessa.

— Credete che parlare a Egtverchi potrebbe servire a qualcosa? — Ruiz-Sanchez domandò a Michelis. Dopo le più vivaci proteste, aveva finito per accettare di vivere nell’appartamento di Michelis.

— Be’ — disse Michelis, — io non ho ottenuto niente, a parlare con lui. Con voi, la cosa potrebbe essere differente, anche se, francamente, Ramon, sono incline a dubitarne. È tanto più difficile ragionare con lui in quanto egli stesso non sembra trarre nessuna soddisfazione da tutta la faccenda.

— Egtverchi conosce meglio di noi il suo pubblico — disse Liu. — E più il numero dei suoi ascoltatori aumenta, più amaro diventa lui. Credo che gli ricordino costantemente il fatto che egli non potrà mai essere pienamente accettato sulla Terra, non potrà mai sentirsi pienamente a casa propria. Si è accorto che le sue parole interessano soltanto alle persone che come lui non si sentono a loro agio su questo pianeta. Questa diagnosi non è vera, ovviamente, ma Egtverchi la ritiene vera.

— Be’, è abbastanza vera che sarà difficile convincerlo che non sia vera — disse Ruiz-Sanchez, tristemente.

Spostò la sedia in modo da non dover vedere le api di Liu, che lavoravano alacremente nelle zone illuminate della veranda. In un altro momento non sarebbe stato capace di distogliere lo sguardo da quello spettacolo, ma ora non poteva permettersi di venire distratto.

— Senza contare — aggiunse Ramon, — che lui si rende perfettamente conto del fatto che non saprà mai che cosa voglia dire essere lithiano, malgrado la sua apparenza e i suoi caratteri ereditarii. Chtexa forse potrebbe dargliene un’idea più o meno vaga, se soltanto potessero incontrarsi… Ma no, non parlano nemmeno la stessa lingua.

— Egtverchi ha studiato il Lithiano — disse Michelis, — ma è anche vero che lo parlo molto meglio io, figurarsi. Ha letto soltanto la vostra grammatica (gli altri documenti sono ancora un segreto) e non ha avuto nessuno con cui parlare. Quando parla, cigola come una cerniera arrugginita. Però, Ramon, voi potreste fargli da interprete.

— Sì, certo, ma è materialmente impossibile. Anche se ne avessimo i mezzi, non avremmo il tempo di far venire Chtexa qui.

— Non volevo dir questo. Pensavo al CirCon, la nuova radio che «aggira il continuum», scoperta dal Conte d’Averoigne. Non so esattamente come funzioni, ma l’Albero Messaggero ha una grandissima potenza d’emissione; è possibile che d’Averoigne riesca a captarlo. Nel quale caso potreste parlare con Chtexa.

— Se credete, possiamo sempre tentare — disse il Gesuita. Rimase poi in silenzio per qualche tempo, pensando alle domande che doveva ancora rivolgere a Michelis. L’aspetto del chimico lo preoccupava, sembrava invecchiato. I suoi lineamenti erano tirati e sotto gli occhi aveva cerchi profondi, lividi. Anche Liu era mutata molto, e in peggio. Si sentiva fra i due coniugi una certa tensione, come se non fossero riusciti a trovare l’uno nell’altro conforto sufficiente per far fronte alla tensione del mondo che li circondava. — È possibile — riprese a bassa voce, — che Agronski sappia qualche cosa di utile.

— Forse — disse Michelis. — L’ho visto solo una volta, a una festa. La stessa in cui Egtverchi sollevò tutto quello scandalo. Agronski aveva uno strano modo di fare, quella sera. Ci evitava, non solo: finse addirittura di non vederci. Se ne stava seduto per conto suo, a bere come una spugna. Molto insolito da parte sua, direi.

— Come mai era venuto a quella festa?

— Oh, è un fanatico di Egtverchi.

— Proprio Agronski? Come fate a saperlo?

— Egtverchi se ne vanta esplicitamente. Ha perfino detto che conta d’avere presto dalla sua tutti i membri della Commissione. — Michelis fece una smorfia. — A giudicare da come Agronski si comporta, non potrà essere della minima utilità né a Egtverchi né a nessuno.

— Ed ecco un’altra anima ancora sulla via della dannazione — osservò tristemente il Gesuita. — Avrei dovuto immaginarlo. La vita di Agronski ha già così poco senso che non ci vorrà molto prima che Egtverchi gli tolga ogni contatto con la realtà. È sempre così che opera il Maligno: vuota gli esseri della loro sostanza.

— Non so se si debba accusare Egtverchi — disse Michelis, con voce cupa. — Salvo che come sintomo. La Terra è piena di schizofrenici. Se Agronski aveva delle tendenze verso la schizofrenia… ed è chiaro che ne aveva… allora è stato sufficiente riportarlo qui perché la tendenza desse i suoi frutti.

— A me — disse Liu, — ha dato invece un’altra impressione. Per quel poco che lo ho visto, e da quanto mi hai detto tu, mi pareva una persona spaventosamente normale: perfino disarmata, se vogliamo. Non capisco come possa essersi dedicato a qualcosa fino al punto d’impazzire, o come la tentazione abbia potuto farlo precipitare nel vuoto teologico di cui parlate voi, Ramon.

— Sotto questo spetto, Liu, siamo tutti molto simili — disse Ruiz-Sanchez, desolato. — E da quanto mi dice Mike, penso che ormai sia troppo tardi per poter fare qualcosa per Agronski. Ed egli è soltanto… soltanto un esempio di ciò che sta accadendo dappertutto, al suono della voce di Egtverchi.

— Comunque — disse Michelis, — è un errore pensare alla schizofrenia come a una malattia della ragione. All’epoca in cui si cominciava a studiarla, gli inglesi la chiamavano «malattia dei camionisti». Quando colpisce gli intellettuali, si hanno dei risultati spettacolari soltanto per il fatto che gli intellettuali possono descrivere ciò che provano: van Gogh, Lawrence, Nietzsche, Wilson… è una lista lunga, ma non è nulla a confronto di quella delle persone ordinarie che l’hanno avuta. E la proporzione è di cinquanta persone normali per un intellettuale. Agronski è soltanto il consueto tipo di vittima.

— Che ne è stato di quella minaccia di cui parlavate? — disse Ruiz-Sanchez. — Egtverchi è riapparso sugli schermi ieri sera senza essere stato affidato a voi. Quel vostro amico dell’ONU col copricapo strano faceva minacce a vanvera?

— Credo che possa essere una delle risposte — disse Michelis, speranzoso. — Non ci ha più detto niente, e quindi posso fare soltanto delle supposizioni, ma penso che il vostro arrivo li abbia sconcertati. Si aspettavano che vi espellessero pubblicamente dall’Ordine… e il fatto che questo non sia accaduto ha rovinato il loro piano di annunciare la decisione su Lithia. Probabilmente, adesso attendono di vedere quale sarà la vostra prossima mossa.

— Lo attendo anch’io — disse Ruiz-Sanchez, cupo. — Forse non farò nulla, e questo sarà probabilmente ciò che li metterà maggiormente nella confusione. Credo che abbiano le mani legate. Egtverchi ha pronunciato il nome dei prodotti Bifalco soltanto quella famosa volta, ma sono convinto che ne faccia vendere a magazzini interi: perciò i suoi patrocinatori non saranno disposti a farlo smettere. E non vedo in che modo la Commissione Comunicazioni dell’ONU possa farlo. — Fece una secca risata. — Comunque, per decenni hanno cercato di favorire l’indipendenza del giornalismo televisivo… ed Egtverchi costituisce certamente un passo da gigante in questa direzione.

— Per il momento — disse Michelis — Egtverchi rischia di essere accusato di fomentare rivolte su scala mondiale.

— Ch’io sappia, non ha fomentato nessuna rivolta — ribatté Ruiz-Sanchez. — I tumulti di San Francisco sono scoppiati spontaneamente, per quanto se ne è saputo. E ho notato, dalle fotografie, che non c’era nessuno di quei suoi seguaci in uniforme.

— Ma ha lodato i rivoltosi e s’è preso giuoco della polizia — osservò Liu. — È come se avesse sollevato la folla egli stesso.

— Be’ — disse Michelis, — non è la stessa cosa che incitare. Capisco cosa intende dire Ramon. Egtverchi è abbastanza intelligente da non compiere nulla che possa portarlo in giudizio… e un falso arresto sarebbe una cosa pericolosissima: l’ONU finirebbe con l’incitare essa stessa alla rivolta.

— D’altra parte, che cosa potrebbero fargli, se la sua colpevolezza fosse dimostrata? — disse Ruiz-Sanchez. — È, sì, cittadino della Terra, ma le sue necessità non sono le nostre: imprigionandolo anche solo per trenta giorni rischierebbero di ucciderlo. Suppongo che potrebbero rimandarlo su Lithia, ma come dichiararlo indesiderabile senza ammettere che Lithia è come un paese straniero? Per il momento, Lithia è un protettorato, avente diritto di ammissione all’ONU come Stato membro.

— Ormai l’ammissione può scordarsela — disse Michelis. — La cosa equivarrebbe ad accantonare il piano di Cleaver.

Ancora una volta Ruiz-Sanchez sentì la stessa fitta al cuore che aveva provato quando Michelis gli aveva parlato del successo di Cleaver.

— A proposito, a che punto sono arrivati col loro piano? — domandò.

— Tutto quello che so è che gli hanno spedito quantità enormi di materiali e di attrezzature. Un altro carico partirà tra quindici giorni. Sembra che Cleaver sia in procinto di fare un esperimento cruciale, quando avrà a disposizione tutti i materiali. Fra poco tempo, quindi: le nuove astronavi coprono l’intero percorso in meno di un mese.

— Tradito ancora una volta! — disse amaramente il Gesuita.

— Non c’è nulla che possiate fare, Ramon? — domandò Liu.

— Farò da interprete a Egtverchi, se il vostro progetto si realizzerà.

— Sì, ma io…

— So cosa intendete dire — rispose Ruiz. — Sì, c’è una cosa decisiva che posso fare. E che forse servirà. Anzi, in realtà si tratta di una cosa che devo fare… — Li guardò con occhi che non vedevano. Il ronzio delle api, così reminiscente del brusio delle giungle di Lithia, lo ossessionava. — Ma non so se la farò — concluse.


Michelis riuscì a muovere le montagne. Era già formidabile in condizioni normali, ma quando era disperato e vedeva una possibile via d’uscita, nessun bulldozer era altrettanto implacabile nell’aprire una breccia.

Lucien le Comte des Bois d’Averoigne, ex Procuratore di Canarsie, ma sempre membro della confraternita della scienza, ricevette nel suo ritiro canadese Ruiz-Sanchez, Michelis, Liu ed Egtverchi, con la massima cordialità, senza accigliarsi nemmeno alla vista della figura sardonicamente silenziosa di Egtverchi, al quale strinse la mano come a un vecchio amico.

Il conte era un uomo massiccio, di alta statura, sulla sessantina. Aveva stomaco protuberante, ed era tutto scuro: aveva capelli scuri, indossava abiti scuri, era fortemente abbronzato e fumava un lungo sigaro scuro.

La stanza in cui li ricevette (Ruiz-Sanchez, Michelis, Liu ed Egtverchi) era una curiosa miscela di salotto e di laboratorio. C’erano caminetto, arredamento rustico, fucili appesi al muro, una testa d’alce imbalsamata, e una massa stupefacente di fili e macchinari elettronici.

— Non sono affatto sicuro che ci riusciremo — disse. — Tutto quello che ho qui è ancora nella fase sperimentale. Sono anni che non prendo in mano un amperometro o un saldatore, così è possibile che in tutto questo intrico di fili ci sia in qualche punto una saldatura imperfetta… ma non era lavoro che potessi affidare a un tecnico.

Li invitò a sedersi, mentre lui procedeva alle ultime regolazioni. Egtverchi rimase in piedi in fondo alla stanza, in penombra.

— Naturalmente, non potremo avere immagini — riprese il conte. — Il gigantesco transistor che mi avete descritto non emette sulla banda necessaria. Ma se siamo fortunati, avremo dei suoni… Oh!

Un altoparlante seminascosto in un intrico di fili crepitò, poi fece udire sibili lontani, ma coordinati. A Ruiz-Sanchez parevano soltanto disturbi di trasmissione, ma il conte disse: — Sto captando qualche cosa in questa banda di frequenze. Non m’aspettavo di arrivarci così presto. Comunque, non ci capisco nulla.

Anche Ruiz-Sanchez non ci capiva nulla, ma in pochi istanti superò lo stupore.

— Sono forse segnali che l’Albero emette in questo momento? — domandò, con una punta d’incredulità nella voce.

— Lo spero — rispose seccamente il conte. — Ho passato tutta la giornata a impiantare degli schermi contro le interferenze.

Il rispetto del biologo per il matematico sfiorava il timore riverente. Pensare che quel caos di fili di rame, di piccole prese nere, di oggetti rossi e marrone simili a petardi, di condensatori variabili, di massicce bobine, di tremolanti quadri indicatori, pensare che tutto ciò si spingeva direttamente attraverso il sub-etere per quasi cinquanta anni luce di spaziotempo a spiare le pulsazioni della massa cristallina sepolta sotto Xoredeshch Sfath…

— Non potreste sintonizzarvi meglio? — domandò alla fine. — Credo che si tratti delle pulsazioni che i Lithiani utilizzano per le rotte dei loro aerei e delle loro navi. Dovrebbe esserci una banda audio…

Salvo che quella banda di frequenza, rammentò, non poteva essere una banda «audio». Nessuno mai parlava direttamente all’Albero Messaggero, ma solo al singolo Lithiano che se ne stava ritto al centro della sala dell’Albero. Come quel Lithiano riuscisse a trasformare in onde radio la sostanza di quei messaggi non era mai stato spiegato a nessun terrestre.

E tuttavia, a un tratto, ci fu una voce.

— … possente collegamento con l’Albero — disse la voce in limpido, freddo lithiano. — Con chi sono collegato? Mi sentite? Non comprendo la direzione dalla quale proviene la vostra onda portante. Parrebbe dall’interno dell’Albero, il che è impossibile. Potete sentirmi?

Silenziosamente, il conte mise un microfono in mano al Gesuita. Questo si accorse di essere tutto un tremito.

— Vi sentiamo — disse in lithiano, con voce incerta. — Noi siamo sulla Terra. Potete udirmi?

— Distintamente — rispose la voce. — Ci risulta che ciò che dite è impossibile. È vero comunque che non sempre ciò che dite è esatto, come abbiamo potuto constatare. Che cosa volete?

— Vorrei parlare a Chtexa — disse Ruiz-Sanchez. — Parla Ruiz-Sanchez, che si trovava a Xoredeshch Sfath l’anno scorso.

— Possiamo chiamarlo — disse la voce fredda e distante. Poi: — Sempre che lui desideri parlare con voi.

— Ditegli che anche suo figlio Egtverchi desidera parlargli.

— Ah — fece la voce dopo una lunga pausa. — Verrà senza dubbio, allora. Ma non potrete parlare a lungo su questa lunghezza d’onda. La direzione da cui proviene mette a repentaglio il mio equilibrio mentale. Potreste ricevere un segnale modulato dal suono, se riuscissimo a emetterne uno?

Michelis mormorò una richiesta di spiegazioni al conte, che assentì, indicando l’altoparlante.

— È con questo sistema che vi riceviamo — disse Ruiz. — E voi come trasmettete?

— Non posso spiegarvelo. Non posso ora parlarvi più a lungo, diversamente ne riceverò grave danno. Chtexa è stato chiamato.

La voce tacque e seguì un lungo silenzio. Ruiz-Sanchez si asciugò la fronte ricoperta di sudore col dorso della mano.

— Telepatia? — mormorò Michelis alle sue spalle. — No, corrisponde a qualche parte dello spettro elettromagnetico. Ma quale? Quante cose ignoriamo di quell’Albero!

Il conte fece un cenno d’assenso, malinconicamente, gli occhi fissi sui quadranti indicatori, i quali non parevano indicargli nulla ch’egli già non sapesse.

— Ruiz-Sanchez — disse l’altoparlante. Ramon sussultò. Era la voce di Chtexa, chiara e forte.

Ruiz fece un cenno verso il fondo della stanza ed Egtverchi venne avanti lentamente. C’era quasi dell’insolenza in quel suo modo di avanzare.

— Sono Ruiz-Sanchez — disse Ruiz. — Vi parlo dalla Terra: un nostro scienziato ha inventato un nuovo mezzo di comunicazione. Ho bisogno del vostro aiuto, Chtexa.

— Sarò lieto di fare tutto quanto sarà in mio potere. Mi è dispiaciuto non vedervi tornare qui con l’altro terrestre. Il vostro ex compagno, invece, non è stato affatto il benvenuto. Lui e i suoi amici hanno raso al suolo una delle nostre più belle foreste, presso Gleshchtehk Sfath, e costruito degli edifici orribili, proprio qui, nel cuore della città.

— È dispiaciuto anche a me — rispose Ruiz. La risposta era poco adeguata, ma spiegare quale fosse la vera era impossibile, e anche illegale. — Spero di poter venire un giorno. Ma ora vi ho chiamato in rapporto a vostro figlio.

Ci fu una breve interruzione, durante la quale l’altoparlante emise una serie di rumori molto anomali, irriconoscibili. Evidentemente il circuito audio dei Lithiani aveva captato dei rumori di fondo, provenienti dall’interno dell’Albero o dai suoi dintorni. La trasmissione era sorprendentemente chiara: pareva impossibile che l’Albero distasse da loro cinquanta anni luce.

— Egtverchi deve essere adulto, ormai — disse la voce di Chtexa. — E ha visto tutte le meraviglie del vostro mondo. È lì con voi?

— Sì. Ma non parla la vostra lingua, Chtexa. Tenterò di farvi da interprete — disse Ruiz-Sanchez, che aveva i sudori freddi.

— Questo è strano — osservò Chtexa. — Ma posso sempre sentire la sua voce, almeno. Domandategli quando conta di ritornare alla sua casa. Avrà molte cose da dirci.

— Io non ho casa che possa dir mia — osservò Egtverchi con indifferenza, quando Ruiz gli ebbe tradotto la domanda.

— Non posso dirgli una cosa come questa, Egtverchi. Cerca di rispondere qualche cosa d’intelligibile, in nome del Cielo. Devi la tua esistenza a Chtexa, lo sai.

— Può darsi che un giorno vada su Lithia — disse Egtverchi, gli occhi velati a tratti dalla membrana nittitante. — Ma non ho fretta. C’è ancora molto da fare sulla Terra.

— L’ho udito — disse Chtexa. — La sua voce è acuta; non è così alto come i suoi caratteri ereditari esigerebbero, a meno che non sia malato. Che cosa ha risposto?

Ruiz-Sanchez si limitò a tradurre alla lettera dall’inglese in lithiano. Non c’era tempo di riformulare la frase.

— Ha dunque cose importanti a cui provvedere — disse Chtexa. — È buono e generoso da parte della Terra. Mio figlio fa bene a non affrettarsi. Che cosa fa?

— Semino la discordia — rispose Egtverchi, dilatando il suo sorriso. Ruiz non poté tradurre la parola, dato che non esisteva il concetto corrispondente in lithiano. Dovette ricorrere a tre lunghe frasi per dare a Chtexa una vaga idea della risposta.

— Oh, ma allora è malato — osservò Chtexa. — Avreste dovuto dirmelo, Ruiz-Sanchez. Dovete rimandarcelo. Non siete in grado di curarlo in modo adeguato.

— Non è malato e non vuole abbandonare la Terra — rispose Ruiz prudentemente. — È cittadino della Terra e non possiamo andare contro la sua volontà. Ecco perché vi ho chiamato. Egli rappresenta una preoccupazione per noi, Chtexa. Ci fa del male. Avevo sperato che voi poteste ricondurlo alla ragione, noi non possiamo far nulla.

Si udirono alcune interferenze, una specie di sibilo metallico; poi scomparvero di colpo.

— Non è normale né naturale — disse Chtexa. — Voi non riconoscete la sua malattia. Nemmeno io posso diagnosticarla, ma non sono medico. Dovete mandarlo qui. M’accorgo che ho commesso un errore dandovelo. Ditegli che gli ordiniamo di ritornare in nome della Legge del Tutto.

— Non ho mai sentito parlare della Legge del Tutto — disse Egtverchi, quando queste parole gli furono tradotte. — Dubito perfino della sua esistenza. Sono io che mi faccio le mie leggi. Ditegli che mi fa pensare a Lithia come a un mondo terribilmente noioso e che se continua farò un punto d’onore per me non porvi mai piede.

— Per tutti i diavoli, Egtverchi… — intervenne Michelis con uno scoppio di voce.

— Zitto, Mike! Egtverchi, finora sei stato disposto a collaborare; almeno sei venuto con noi fin qua. Lo hai forse fatto per il gusto di offendere tuo padre, di sfidarlo? Chtexa è molto più saggio di te; perché non la smetti di comportarti come un cucciolo e non gli dai retta?

— Perché ho deciso di non dargli retta — rispose Egtverchi. — E non sarà con le moine che mi farete cambiare idea. Non sono stato io a scegliere di nascere lithiano, non ho scelto nemmeno di vivere sulla Terra, e ora che sono libero intendo prendere io le mie decisioni, senza doverne render conto a nessuno.

— Allora perché sei venuto qui?

— Sebbene non ci sia nessuna ragion perché debba spiegarlo, ve lo dirò lo stesso. Sono venuto qui per sentire la voce di mio padre. Ora, l’ho sentita. Non comprendo quello che dice e ciò che voi traducete non sembra molto sensato. Ecco tutto. Ora ditegli addio da parte mia, e che non desidero più parlargli…

— Che cosa dice? — domandò la voce di Chtexa.

— Che non riconosce la Legge del Tutto e non vuole ritornare su Lithia — rispose Ruiz nel microfono divenuto viscido nella sua palma sudata. — Mi ha incaricato anche di dirvi addio.

— Addio, dunque — disse Chtexa. — E addio anche a voi, Ruiz-Sanchez. Ho commesso un errore e ciò mi colma di tristezza; ma è troppo tardi. Può darsi che non vi parli mai più, nemmeno attraverso il vostro meraviglioso apparecchio.

Dietro la voce, il sibilo bizzarro e crepitante salì fino a diventare un urlo selvaggio, ringhioso, che durò per quasi un minuto. Ruiz-Sanchez attese di potersi fare udire di nuovo.

— Perché, Chtexa? — domandò con voce arrochita. — L’errore è di tutt’e due. Sono sempre vostro amico e vi auguro ogni bene.

— Anch’io vi sono amico e vi auguro ogni bene — rispose la voce di Chtexa. — Ma probabilmente non ci parleremo più. Non sentite le seghe elettriche?

Ecco dunque la causa di quei rumori!

— Sì. Sì, le sento.

— Il vostro amico Xlevher — disse Chtexa pronunciando il nome alla lithiana, — sta abbattendo l’Albero Messaggero.


Nell’appartamento di Michelis l’atmosfera era plumbea. A misura che si avvicinava l’ora della trasmissione di Egtverchi la loro analisi della impotenza dell’ONU si rivelava sempre più esatta. Egtverchi non si era mostrato apertamente trionfante, anche se varie interviste gliene avevano offerto l’occasione; ma aveva fatto indovinare l’esistenza di piani vasti e inquietanti, che forse sarebbero già passati all’attuazione alla data della trasmissione.

Benché non avesse nessuna voglia di ascoltare la trasmissione, Ruiz-Sanchez sapeva che gli sarebbe stato impossibile evitarla: non poteva restare nell’ignoranza dei nuovi fatti che essa avrebbe potuto portare. Nulla di quanto aveva saputo gli era stato utile, fino a questo momento, ma c’era sempre una piccola possibilità che saltasse fuori qualcosa di interessante.

E poi, c’era il problema di Cleaver e dei suoi compagni. Per ignobili che fossero, erano pur sempre degli esseri umani. Se Ramon doveva ricorrere alle misure ordinate dal Santo Padre e se esse si rivelavano efficaci, egli avrebbe distrutto più che una collezione di allucinazioni affascinanti. Avrebbe condannato più di un essere umano non solo a una morte istantanea, ma probabilmente alla dannazione eterna. Ruiz non riteneva che la mano di Dio si sarebbe tesa a risparmiare individui come Cleaver; d’altra parte, era anche convinto che non spettasse alla mano sua, di Ruiz-Sanchez, condannare degli uomini a morte, e per di più a una morte senza assoluzione. Ruiz stesso era già dannato… ma non per omicidio.

A Tannhäuser, era stato detto che la sua salvezza era altrettanto impossibile quanto la fioritura del bastone da pellegrino che stringeva nella mano. E la salvezza di Ruiz-Sanchez era altrettanto impossibile quanto la benedizione di un omicidio.

Tuttavia, il Santo Padre era stato esplicito: aveva detto che quella era la sola strada che rimanesse per Ruiz-Sanchez… e per il mondo. Il Pontefice condivideva la certezza di Ruiz-Sanchez, che il mondo era alla vigilia di Armageddon. Aggiungendo che Ruiz-Sanchez era il solo che potesse impedire tutto ciò. Quella che li separava non era che una differenza dottrinaria, e nelle questioni di dottrina il Papa non poteva sbagliare…

Ma se era possibile che il dogma dell’infertilità di Satana fosse sbagliato, allora era possibile che fosse sbagliato anche il dogma dell’infallibilità papale. Dopo tutto, si trattava di una proclamazione recente: molti Papi, nella storia, ne avevano fatto a meno.

Le eresie, pensò Ruiz-Sanchez (non per la prima volta), crescono a matasse. È impossibile tirare solo un filo: toccane uno, e tutta la massa comincia a caderti addosso.

Io credo, o Signore; aiutami nel mio dubbio. Ma era inutile. Era come pregare la schiena di Dio.

Alcuni colpi furono battuti alla porta.

— Venite, Ramon? — chiamò la voce stanca di Michelis. — Egtverchi va in onda fra due minuti.

— Subito, Mike.

Presero posto davanti al Klee. In attesa di che? Non poteva essere che una proclamazione di guerra totale; ma ignoravano che forma avrebbe assunto.

— Buonasera — disse cordialmente Egtverchi. — Non ci sarà notiziario, questa sera. Invece di commentare notizie, ne creeremo noi stessi. È arrivato il momento, la cosa è ormai chiara, per la gente che non «fa notizia»… la gente infelice che vi guarda con occhi addolorati dalle foto dei giornali… di gettare via la propria infelicità. Questa sera mi rivolgo a tutti voi perché vogliate dimostrare il vostro disprezzo agli ipocriti che sono i vostri padroni e mostrare la forza totale che avete di liberarvi di loro.

«Ecco un messaggio per loro. Dite loro questo: "Le vostre bestie da soma, signori, sono grandi."

«Io sarò il primo a farlo. A partire da questa sera, rinuncio alla mia qualità di cittadino delle Nazioni Unite e al mio giuramento di fedeltà allo Stato Rifugio. Da questo momento sono cittadino…»

Michelis balzò in piedi, urlando.

«Cittadino di un paese le cui sole frontiere sono i limiti della mia mente. Non so quali siano questi limiti e forse non lo saprò mai, ma dedicherò la mia vita a cercarli, nel modo che vorrò e in nessun altro, quale che sia.

«Voi dovrete fare altrettanto. Distruggete le vostre carte d’identità. Se vi chiedono il vostro numero, dite di non averlo mai avuto. Non riempite più un formulario, un modulo, in vita vostra. Quando le sirene urleranno, restate alla superficie. Seminate per le nuove messi, abbandonate i corridoi del Rifugio. Non commettete violenze, ma rifiutate soltanto di obbedire. Nessuno ha il diritto di esercitare la minima costrizione su di voi, in quanto non cittadini. La passività è l’arma più efficace. Rinunciate, resistete, negate!

«Cominciate fin da questo momento, tra mezz’ora sareste sopraffatti. Quando…»

Una suoneria insistente ricoprì la voce di Egtverchi e per un istante un disegno a scacchiera a motivi neri e rossi si sovrappose alla sua sagoma: era una chiamata con priorità assoluta dell’ONU.

Quindi, sotto il casco complicato, la faccia dell’uomo dell’ONU apparve.

— Dottor Michelis — disse esultante. — Ci è cascato. Ha fatto quello che ci aspettavamo facesse. Si è dato la zappa sui piedi. Come non cittadino è già nelle nostre mani. Venite qui. Abbiamo bisogno di voi immediatamente, prima che egli abbia finito la sua trasmissione. Anche la dottoressa Meid.

— A far che?

— A firmare una dichiarazione di non opposizione. Siete entrambi in arresto per essere in possesso di un animale nocivo… una semplice formalità, non preoccupatevi. Abbiamo intenzione di mettere il signor Egtverchi in gabbia per tutto il resto della sua vita… una gabbia a prova di suono.

— Voi state commettendo un grosso errore — disse, calmo, Ruiz-Sanchez.

Il volto dell’uomo dell’ONU, maschera trionfale dagli occhi fiammeggianti, si girò verso di lui.

— Non ho chiesto il vostro parere, caro signore — rispose in tono di gelido disprezzo. — A quanto so, non avete più nulla a che vedere in questo affare. Se cercherete d’immischiarvi, avrete delle grosse noie. Dottor Michelis! Signora Michelis! Dobbiamo proprio venire a prendervi?

— Veniamo — rispose Michelis in tono glaciale, e spense l’apparecchio, senza aspettare che l’uomo dell’ONU chiudesse la comunicazione.

— Crede che dobbiamo farlo, Ramon? — chiese. — Altrimenti non ci muoveremo da qui, e che vada al diavolo l’uomo dell’ONU. Oppure vi porteremo con noi, se volete venire.

— No, no — disse Ruiz-Sanchez. — Andate. Una vostra opposizione non servirebbe a nulla, salvo che a mettervi nei guai. Tuttavia, fatemi un favore.

— Certo. Di che si tratta?

— Non indugiate per le vie — raccomandò Ruiz ai due coniugi. — Quando sarete negli uffici dell’ONU, chiedete protezione. In quanto cittadini in stato d’arresto, avete il diritto di essere detenuti.

Michelis e Liu lo guardarono sgomenti. Poi, a un tratto, la comprensione apparve sul volto di Michelis.

— Credete che le cose si mettano così male? — domandò.

— Sì. Mi promettete di fare come ho detto?

Michelis guardò la moglie, poi accennò di sì col capo. I due uscirono.

Il crollo dello Stato Rifugio era cominciato.

CAPITOLO DICIOTTESIMO

Per tre giorni consecutivi il gran Mostro Caos si scatenò ruggendo. Ruiz-Sanchez poté seguirne la folle corsa fin dal principio, davanti al televisore di Michelis. A volte gli sarebbe piaciuto guardare dal balcone della veranda, ma il ruggito della folla, i colpi d’arma da fuoco, le esplosioni, i fischi della polizia, le sirene, avevano inferocito le api; in tali condizioni, Ruiz non si sarebbe fidato nemmeno della tuta protettiva di Liu, anche se fosse stata abbastanza grande per lui.

Sebbene i battaglioni dell’ONU avessero fatto un tentativo massiccio e bene organizzato per impadronirsi di Egtverchi direttamente nella stazione trasmittente, Egtverchi non c’era. In realtà non c’era mai stato: i segnali audio, video e 3D erano stati inviati alla stazione mediante cavo coassiale, da un luogo imprecisato. I collegamenti necessari erano stati effettuati all’ultimo momento, quando ormai era chiaro che Egtverchi non si sarebbe presentato alla stazione, da un tecnico che aveva volontariamente fornito il vero ritratto della situazione: una pedina da sacrificare nella partita di Egtverchi. La rete televisiva aveva immediatamente trasmesso un avviso ai funzionari dell’ONU interessati, ma un’altra pedina votata al sacrificio aveva fatto ritardare la comunicazione.

Era occorsa buona parte della notte per farsi dire dal tecnico televisivo la località in cui aveva sede lo studio di Egtverchi (la pedina situata agli uffici dell’ONU, com’era prevedibile, non lo conosceva), e ormai, com’era prevedibile, Egtverchi non si trovava più laggiù. E ormai, inoltre, la notizia del tentativo di arresto e del suo insuccesso era stata diffusa in tutti i Rifugi.

Ma neppure queste poche notizie giunsero subito a Ruiz-Sanchez: egli venne a conoscerle soltanto qualche tempo dopo, perché i tumulti nelle strade cominciarono immediatamente dopo il primo annuncio. Dapprima i tumulti furono degli avvenimenti isolati, sorti qui e là senza uno schema preciso, come se le strade si stessero riempiendo gradualmente di persone scosse e inferocite, ma che non sapevano bene né i motivi del chiasso né le cose da farsi. Poi ci fu un cambiamento improvviso nella qualità del chiasso, e Ruiz-Sanchez capì che la folla aveva fatto il passo che separa la manifestazione pacifica del tumulto sfrenato. Le grida, in verità, erano già al massimo dell’intensità, ma improvvisamente si trasformarono in un ruggito uniforme e spaventoso, simile alla gigantesca voce di un singolo animale.

Ruiz-Sanchez non aveva modo di sapere che cosa avesse operato la trasformazione, e probabilmente la folla stessa lo ignorava. Ma ora cominciavano gli spari: pochi, all’inizio, ma basta un singolo sparo per dare l’impressione di una scarica di fucileria, se prima non ce ne sono stati. Una parte del ruggito si staccò dal clamore generale e assunse un tono cupo e ancor più spaventoso: quando il pavimento tremò leggermente sotto i suoi piedi, Ruiz ne comprese il significato.

Un tentacolo della Bestia si era spinto all’interno dell’edificio. Ruiz-Sanchez comprese che era quanto ci si doveva aspettare. Vivere al di sopra del livello del suolo era ancora sostanzialmente un privilegio, riservato a quei funzionari dell’ONU che sapevano come ottenerne il permesso (autorizzazioni complicate, sottoposte a una lunga trafila burocratica) e che inoltre avevano un reddito sufficiente a permettersi una sistemazione così fuori del normale; era la versione stile ventunesimo secolo della villa in campagna: «Ecco, è qui che vivono quelli là…».

Ruiz-Sanchez si affrettò a controllare la porta d’ingresso. Aveva una serratura robusta: un rimasuglio degli ultimi periodi della corsa al Rifugio, quando i grandi grattacieli incustoditi erano divenuti il bersaglio naturale dei ladri. La serratura non veniva usata da decenni: Ruiz-Sanchez tornò a usarla.

Appena in tempo. Ci fu un chiasso spaventoso nel corridoio, quasi davanti alla porta, quando parte della folla vi traboccò, proveniente dalle scale antincendio. La folla aveva evitato gli ascensori per istinto: erano troppo lenti per la sua ferocia, troppo stretti per la sua assenza di leggi, troppo meccanici per uomini che ormai lasciavano ai muscoli le loro facoltà di raziocinio.

Qualcuno afferrò la maniglia della porta e la scosse violentemente.

— Chiusa! — esclamò una voce.

— Buttiamola giù. Spostatevi.

La porta tremò, ma non fece fatica a resistere. Si udì un altro tonfo, più forte, come se parecchi uomini vi si fossero gettati contro, tutti insieme; Ruiz-Sanchez sentì che qualcuno si lamentava di essersi fatto male nell’urto. Poi dei colpi più secchi, come delle mazzate.

— Apri, bastardo! Apri, schifoso puzzone del governo, altrimenti ti bruciamo vivo.

La minaccia parve stupire tutti, compreso colui che l’aveva pronunciata. Si sentì borbottare qualcuno. Poi un altro disse con voce rauca: — Sì, d’accordo, ma bisogna trovare della carta o qualcosa di simile.

Ruiz-Sanchez pensò confusamente a cercare un recipiente e a riempirlo d’acqua, anche se non vedeva alcun modo in cui il fuoco sarebbe potuto penetrare all’interno dell’appartamento: la porta non aveva finestrelle, e la soglia faceva buona tenuta. Tuttavia, nello stesso istante, un grido risuonato più avanti, nel corridoio, fece accorrere tutti. I rumori successivi spiegarono la cosa: o avevano trovato un appartamento disabitato, con la porta aperta, oppure ne avevano trovato uno abitato, chiuso in modo inefficiente, e momentaneamente privo dei proprietari. Sì, la seconda ipotesi era giusta: l’appartamento era occupato; Ruiz-Sanchez sentì rumore di finestre e di vasellame che andavano in frantumi.

Poi, con un brivido di terrore, gli parve che le voci provenissero da un punto alle sue spalle. Si girò, ma nell’appartamento non pareva esserci nessuno; le voci provenivano dalla veranda allestita a serra, ma era chiaro che anche laggiù non poteva, esserci nessuno.

— Cristo! Guarda questo bastardo, si è fatto mettere i vetri su tutto il balcone. Ci ha fatto un porco giardino.

— Giù nel Rifugio non ci permettono di avere nessun giardino, quei bastardi!

— E sappiamo tutti chi paga per queste cose. Noi paghiamo.

Allora comprese che si trovavano sul balcone dell’appartamento confinante con il suo. Provò un sollievo totalmente irrazionale. Il fatto che fosse irrazionale venne confermato dalle parole che udì subito dopo:

— Portate un po’ di quella roba che bruciava. No, qualcosa di più pesante. Qualcosa da gettare, stronzi che non siete altro.

— Possiamo passare da qui?

— Basterebbe avere una scala…

— Sì, ma se scivoli c’è un bel salto!

La gamba di una sedia infranse i vetri della serra. Poi fu seguita da un pesante vaso.

Le api si precipitarono verso l’esterno. Ruiz-Sanchez non s’era mai reso conto, fino a quel momento, di quanto fossero numerose: la veranda n’era diventata tutta nera. Per un attimo lo sciame rimase librato nell’aria, come incerto. Avrebbe trovato quasi subito le brecce nei vetri, in qualsiasi caso, ma le persone ch’erano sull’altro balcone (e che, senza dubbio, non avevano capito cos’era successo) fornirono ai grossi insetti il miglior suggerimento. Qualcosa di piccolo e pesante, probabilmente un pezzo di qualche impianto idraulico, infranse un altro vetro e piombò nel bel mezzo dello sciame. Ronzando come un antico aeroplano, le api uscirono dal nuovo varco.

Un istante di silenzio mortale, quindi un urlo d’agonia e di orrore che contorse i visceri a Ruiz-Sanchez. S’erano messi a urlare tutti insieme. In un lampo, Ruiz ne vide uno saltare nel vuoto, agitando le braccia, con il volto e il petto ricoperti di quei terribili corpicini pelosi, neri e oro. Dei passi risuonarono correndo davanti alla porta, qualcuno cadde. Il sordo ronzio sonoro si aprì la via al loro inseguimento nei corridoi.

Dal basso salirono altre grida. Gli enormi insetti non potevano volare via, ma ormai erano liberi nell’interno dell’edificio. Alcuni di essi, anzi, avrebbero potuto raggiungere la strada, percorrendo tutto il pozzetto delle scale.

Dopo un po’, non si udirono più rumori umani, ma soltanto il ronzio degli insetti. Da dietro la porta d’ingresso, qualcuno gemette, poi tacque.

Ruiz-Sanchez sapeva quale fosse il suo dovere. Si recò in cucina a vomitare, poi prese la tuta protettiva di Liu e riuscì a infilarsela.

Non era più un sacerdote; anzi, non era più neppure un cattolico. La Grazia gli era stata tolta. Ma ogni persona ha il dovere di amministrare l’Estrema Unzione se ne conosce le formula, come è dovere di ogni persona amministrare il Battesimo se ne conosce il rito. Ciò che poi sarebbe avvenuto dell’anima così assistita, una volta che essa si fosse dipartita dalla carne, sarebbe stato deciso dal Signore Iddio, il Quale decide di ogni cosa; ma Egli ha comandato che nessuna anima si presenti davanti a Lui senza Assoluzione.

L’uomo davanti alla porta era già morto. Ruiz-Sanchez si fece per abitudine il segno della Croce e si allontanò dal morto, distogliendo lo sguardo. Un uomo che muore a causa di un massiccio shock istaminico non è bello a vedersi.

L’appartamento vicino era stato coscienziosamente svaligiato. Vi giacevano tre corpi, che non avevano più bisogno di aiuto alcuno. Ma la porta della cucina era chiusa; se uno di quegli uomini avesse avuto la presenza di spirito di barricarvisi prima che lo sciame delle api vi penetrasse, sarebbe forse riuscito a uccidere le poche api entrate con lui…

Come per confermare le sue supposizioni, un gemito risuonò dietro la porta. Ruiz cercò di aprirla, ma era chiusa parzialmente da una catena. Riuscì a dischiuderla d’una trentina di centimetri e s’infilò nell’apertura.

Il corpo che si torceva sul pavimento, la pelle incredibilmente gonfia e tesa, già quasi nera, gli occhi resi vitrei dalla sofferenza, era quello di Agronski.

Ma il geologo non riconobbe Ruiz. Non c’era più una mente dietro quegli occhi. Ruiz cadde in ginocchio, impacciato dalla tuta troppo stretta per lui. Udì la propria voce mormorare le preci rituali, ma non riusciva a capire le parole latine più di Agronski.

Non poteva essere una semplice coincidenza. Lui era entrato là per dare la Grazia, ammesso che un uomo come lui potesse ancora farlo. Davanti a lui giaceva il più innocente dei quattro membri della Commissione lithiana, fulminato là dove Ruiz-Sanchez non poteva fare a meno di trovarlo. Era il Dio di Giobbe che regnava sul mondo in quel periodo, non il Dio del Salmista o di Gesù. Il viso girato verso Ruiz era quello del Dio geloso, del Dio vendicatore, il Dio che aveva creato l’Inferno ancor prima di creare l’uomo, perché sapeva che questo ne avrebbe avuto bisogno. La terribile verità che Dante aveva cantato… E nel volto annerito, dalla lingua enfiata, che si torceva presso il suo ginocchio, Ruiz vide che Dante aveva avuto ragione, come ogni cattolico che abbia letto la Divina Commedia sa nel profondo del cuore.

C’è un demonolatra in libertà per il mondo. Sarà privato dalla Grazia e poi chiamato a somministrare l’Estrema Unzione a un suo amico. A questo segno, ch’egli si riconosca per quello che è.

Pochi istanti dopo, Agronski era morto, soffocato dalla sua stessa lingua.

Ma rimaneva ancora qualcosa da fare. Adesso era necessario rendere sicuro l’appartamento di Mike: uccidere le api che eventualmente fossero riuscite a penetrarvi, assicurarsi che lo sciame fuggito morisse. Non era difficile. Ruiz-Sanchez si limitò a coprire con dei fogli di carta i fori nel vetro. Le api potevano nutrirsi soltanto nel giardino di Liu: sarebbero tornate entro poco tempo, e, non potendo entrare, sarebbero morte d’inedia nel giro di un’ora o poco più. Un’ape non è una macchina volante molto efficiente: si mantiene nell’aria consumando energia… vale a dire, mediante la forza bruta. Un calabrone imprigionato in un vaso può morire in mezza giornata, e i mostri tetraploidi di Liu sarebbero morti ancor prima, vittime della propria libertà.

Durante tutto questo spiacevole lavoro, la televisione continuò a trasmettere. Il terrore non era soltanto locale: questo era chiaro. I tumulti di corridoio del 1993 non erano stati che una fiammella, confronto alle attuali sommosse.

Quattro zone erano completamente isolate. I teppisti in uniforme di Egtverchi, comparsi improvvisamente in forze, si erano impadroniti dei loro centri di controllo. In questo momento tenevano in ostaggio circa venticinque milioni di persone, chiedendo in cambio il salvacondotto per Egtverchi. Dei venticinque milioni di persone, pressappoco cinque si prestavano attivamente. Negli altri centri la violenza non era altrettanto sistematica (alcune delle ondate di distrazione dovevano essere state progettate con cura, anche soltanto per il fatto che si erano usati degli esplosivi: ma lo schema complessivo non appariva concertato). Tuttavia, nessun caso poteva venire definito come «resistenza passiva» o «opposizione non violenta».

Disgustato, afflitto, e dannato, Ruiz-Sanchez rimase ad attendere nell’appartamento giungla dei Michelis, come se una parte di Lithia lo avesse seguito fin lì e l’avesse avviluppato.


Dopo i primi tre giorni, il furore popolare si era sufficientemente placato da permettere a Michelis e Liu di ritornare a casa a bordo di un’autoblindo dell’ONU. Erano pallidi e sconvolti (come del resto pensava di essere lo stesso Ruiz); avevano dormito ancor meno di lui. Decise subito di non fare parola di ciò che era successo ad Agronski: almeno quell’orrore poteva venire loro risparmiato. Non c’era modo, invece, di evitare di spiegare cosa fosse successo alle api.

La debole scrollata di spalle di Liu fu più dura da sopportare che non la sorte di Agronski.

— L’hanno trovato? — chiese Ruiz-Sanchez, con voce roca.

— Stavamo per chiedervelo — disse Michelis. L’alto chimico riuscì a scorgersi nel riflesso di uno specchio, e fece una smorfia. — Uh, che barba lunga! All’ONU avevano troppe cose da fare per raccontarci qualcosa, salvo che a pezzetti. Pensavamo che aveste potuto ascoltare qualche notiziario.

— No, niente. I vigilantes di Detroit si sono arresi, almeno a quanto dicevano poco fa.

— Sì, e così pure i rivoltosi di Smolensk; dovrebbero dare l’annuncio tra un’ora. Non ho mai creduto che sarebbero riusciti ad averla vinta. Non possono certamente conoscere il sistema dei corridoi meglio delle autorità locali. A Smolensk li hanno presi usando il sistema antincendi. Hanno tolto i rifornimenti d’ossigeno alla zona da loro occupata, senza che se ne accorgessero. Due di loro non si sono ripresi.

Ruiz-Sanchez si fece automaticamente il segno della Croce. Dalla parete, il quadro di Klee mormorò qualcosa a bassa voce; era rimasto acceso senza interruzione fin dall’annuncio di Egtverchi.

— Non so neppure io se desidero ascoltare quel maledetto apparecchio — disse Michelis, acido. Però aumentò il volume.

In sostanza, non c’erano notizie nuove. I tumulti si stavano spegnendo progressivamente, anche se in alcuni Rifugi continuavano con la violenza dei giorni precedenti. Venne dato l’annuncio di ciò che era successo a Smolensk, senza fornire dettagli. Egtverchi non era stato ancora trovato, ma le autorità dell’ONU confidavano di poter risolvere il caso «entro breve tempo».

— «Entro breve tempo», figuriamoci — disse Michelis. — Non sanno letteralmente che pesci pigliare. Pensavano di poterlo prendere il mattino successivo, quando hanno trovato una traccia che conduceva a un nascondiglio dove Egtverchi s’era ritirato con l’intenzione di orchestrare le sommosse. Ma non l’hanno trovato neppure lì: evidentemente era fuggito in tutta fretta, alcune ore prima. E nessuno, nella sua organizzazione, sapeva dove si sarebbe recato: supponevano ch’egli fosse in quel suo ritiro, e quando hanno saputo che non era laggiù, sono caduti nella più profonda delusione.

— La qual cosa significa che è in fuga — commentò Ruiz-Sanchez.

— Già, suppongo che ciò possa darci un po’ di conforto — disse Michelis. — Ma dove potrebbe fuggire, senza venire riconosciuto? Non può mettersi a caracollare per le strade, né prendere un trasporto pubblico. Occorre un’organizzazione, per spedire segretamente qualcosa di così fuori del normale… e l’organizzazione di Egtverchi non ne sa più che l’ONU. — Spense il televisore con un gesto violento.

Liu si volse verso Ruiz-Sanchez. Sotto la patina di stanchezza, la sua espressione era piena di stupore.

— Allora, la cosa non è finita? — domandò, disperata.

— Niente affatto — disse Ruiz-Sanchez. — Ma forse è terminata la fase violenta. Se Egtverchi non comparirà entro qualche giorno, dovrò concluderne che sia morto. È impossibile che nessuno lo scorga, se è ancora in circolazione. Naturalmente, la sua morte non risolverebbe nessuno dei nostri gravi problemi, ma almeno ci toglierebbe una spada dalla testa.

Ma anche questo, riconobbe in silenzio, era parlare a vanvera. E poi, si può uccidere un’allucinazione?

— Be’, spero che l’ONU abbia imparato la lezione — disse Michelis. — Su Egtverchi, bisogna ammettere una cosa: ha fatto esplodere in pubblico tutta l’irrequietezza che covava sotto le ceneri da anni. E sotto il conformismo, anche. Adesso occorre prendere dei provvedimenti: magari prendere in mano un martello noi stessi, e fare a pezzi l’intero sistema dei Rifugi per poi dare inizio a qualcosa di nuovo. Non costerà più di quello che costerebbe riparare tutti i anni. Una cosa è certa: l’ONU non riuscirà a spegnere una cosa di questa dimensione con delle belle frasi. Dovrà fare qualcosa.

Il Klee fece sentire il suo carillon.

— Non ho voglia di rispondere — disse Michelis, serrando i denti. — Ne ho abbastanza.

— Faremmo meglio a rispondere, Mike — disse Liu. — Potrebbero essere… notizie.

— Notizie! — disse Michelis, come se fosse una parolaccia. Ma si lasciò convincere. Sotto la loro stanchezza, Ruiz-Sanchez pensò di poter scorgere qualcosa di simile a un ritorno di calore tra loro, come se, durante i tre giorni, fosse stata messa alla prova qualche profondità che prima non avevano mai raggiunto. Questo piccolo segno di qualcosa di buono lo stupì. Ch’egli cominciasse, come tutti i demonolatri, a provar piacere dal prevalere del male, o dalla sua attesa?

La chiamata veniva dall’uomo dell’ONU. Aveva un’aria molto strana, sotto quel suo bizzarro copricapo, e teneva piegata la testa, come per cogliere meglio le parole. Bruscamente, in modo accecante, Ruiz-Sanchez associò il cappello all’atteggiamento dell’uomo, e comprese che cosa fosse: una protesi acustica, molto elaborata. L’uomo dell’ONU era sordo, e, come molti sordi, si vergognava di esserlo. Il resto dell’apparecchio serviva a nascondere la propria natura.

— Dottor Michelis, dottoressa Meid, dottor Ruiz-Sanchez — disse, — non so da dove cominciare. Vogliate accettare le mie scuse più sincere per il mio modo di fare scortese e sciocco. Mio Dio, quanto ci siamo sbagliati! Siete voi che trionfate adesso! E abbiamo terribilmente bisogno di voi, se accettate di farci questo favore. E se non accettate, non potrò biasimarvi.

— Niente più minacce? — disse Michelis, con rancore.

— No, niente minacce, ma infinite scuse. Si tratta di un favore, che vi chiede il Consiglio di Sicurezza. — Sul suo viso comparve una smorfia improvvisa, che svanì subito. — Mi… Mi sono offerto come volontario per rivolgervi questa preghiera. Abbiamo bisogno di voi, subito, sulla Luna.

— Sulla Luna? E perché?

— Abbiamo trovato Egtverchi.

— Impossibile — disse Ruiz, più seccamente di quanto avrebbe voluto. — Non avrebbe mai potuto ottenere il passaggio fin là. È forse morto?

— No, non è morto. E non è sulla Luna… non volevo intendere questo.

— Ma allora dov’è, in nome di Dio?

— A bordo di un’astronave in rotta per Lithia.


Il viaggio alla Luna per razzo traghetto fu lungo, penoso e scomodo. Poiché era il solo percorso su cui non si potesse usare la superpropulsione Haertel (sulle brevi distanze un’astronave con propulsione Haertel sarebbe andata al di là della meta) quel tragitto non aveva beneficiato di nessun vero miglioramento tecnico dai tempi dei vecchi razzi di von Braun. Fu solo dopo essere passato dal razzo al trattore lunare che doveva portarli all’osservatorio del conte di Averoigne, che Ruiz-Sanchez riuscì a mettere insieme i vari pezzi della storia.

Quando Egtverchi era stato trovato a bordo d’una delle navi che portavano a Cleaver le ultime parti del suo equipaggiamento, l’astronave aveva lasciato la Terra già da due giorni. Il Lithiano era mezzo morto. In un ultimo sforzo disperato, s’era imballato da sé in una cassa, che aveva indirizzato a Cleaver, con le scritte «FRAGILE, RADIOATTIVO, NON CAPOVOLGERE» e spedito per via normale all’astroporto. Anche un Lithiano doveva patire i disagi di un simile trattamento, ed Egtverchi, oltre a essere piuttosto minuto per la sua razza, era già in fuga da varie ore al momento della spedizione.

L’astronave aveva anche a bordo un prototipo trasportabile del CirCon di Petard; e fin dalla prima prova dell’apparecchio il capitano aveva potuto comunicare al conte di avere un clandestino a bordo. Il conte ne aveva informato l’ONU per via radio. Egtverchi era stato messo ai ferri, ma sembrava allegro e in buona salute. Poiché era impossibile all’apparecchio tornare indietro, l’ONU, in definitiva, gli stava facendo un favore, a una velocità molto superiore a quella della luce.

Ruiz-Sanchez provò un’ombra di pietà per quell’essere nato esule e che trasportavano ora, chiuso come una belva tra le sbarre d’una gabbia, in attesa di sbarcarlo nel suo mondo natio, di cui non conosceva nemmeno la lingua. Ma quando l’uomo dell’ONU cominciò a far loro delle domande (occorreva un’attendibile previsione delle prossime mosse di Egtverchi) la pietà lasciò il posto alle ipotesi concrete. Era giusto e doveroso avere pietà dei bambini, ma Ruiz-Sanchez cominciava a convincersi che gli adulti, di solito, si meritano le sciagure in cui incorrono.

Il trauma che una creatura come Egtverchi avrebbe causato in una società stabile come quella di Lithia sarebbe stato esplosivo. Sulla Terra, almeno, Egtverchi era stato una sorta di mostro, di fenomeno da baraccone; su Lithia, invece, sarebbe stato considerato un altro Lithiano. E la Terra aveva avuto esperienze molteplici, in ogni epoca della sua storia, di quel genere di falsi profeti; ma un simile evento non si era mai verificato su Lithia. Egtverchi avrebbe fatto marcire quel giardino paradisiaco fino alle radici, per rifarlo a sua propria immagine, trasformando il pianeta in quell’ipotetico nemico contro cui Cleaver stava costruendo il suo arsenale!

Eppure, qualcosa di simile era accaduto anche sulla Terra, quando essa era ancora un giardino senza variazioni. Forse (O felix culpa!) succedeva sempre così, itutti i mondi. Forse l’Albero della Conoscenza del Bene e del Male era come l’Yggdrasil delle leggende della terra natale di Papa Adriano, che affondava le radici nel pavimento dell’universo e che sui rami portava i pianeti: chi assaggerà i frutti dell’uno potrà assaggiare quelli dell’altro…

No, questo non doveva succedere. Lithia come Giardino contraffatto era già abbastanza pericolosa; ma Lithia trasformata in una città di Dite grande come un pianeta era una minaccia per i Cieli stessi.


L’osservatorio del conte d’Averoigne era stato eretto dall’ONU, in base alle sue direttive, al centro del cratere Stadius. Quell’antico, vastissimo cratere, agli inizi della sua storia era stato ricoperto e parzialmente calcinato dai flutti di lava che avevano costituito il Mare Imbrium. Quel che restava dei suoi bordi serviva al conte e ai suoi assistenti da bastione difensivo contro le meteoriti durante le «piogge»; tuttavia questo bastione restava al di sotto dell’orizzonte, cosa che permetteva al conte di puntare il suo telescopio in tutte le direzioni.

D’Averoigne non era diverso dalla volta precedente in cui lo avevano incontrato, ad eccezione del fatto che indossava una tuta scura invece di un abito scuro, e parve contento di rivederli. Ruiz sospettò che dovesse sentirsi a volte terribilmente solo, così estraniato sulla Luna dalla sua famiglia e dall’umanità intera.

— Ho una sorpresa per voi — disse loro. — Abbiamo terminato il nuovo telescopio: 200 metri di diametro, il complesso lenticolare composto di foglie di sodio. Sorge sul Monte Piton, poche centinaia di chilometri a nord. I cavi di collegamento ci sono stati portati ieri; ho passato tutta la notte a verificare i miei circuiti. Adesso hanno un aspetto più elegante della scorsa volta.

L’oggetto che ora il conte mostrava loro era una semplice cassa di smalto nero, grande quanto un magnetofono, e più o meno con lo stesso numero di manopole.

— Naturalmente, è più facile a farsi, ciò che intendiamo fare ora, che non captare un impulso da un trasmettitore che non è attrezzato con CirCon — ammise il conte. — Ma i risultati sono altrettanto soddisfacenti. Guardate.

Con un gesto drammatico, premette un pulsante. Sul grande schermo teso sulla parete opposta della sala osservatorio, un grande pianeta galleggiava nello spazio, circondato di nubi.

— Mio Dio! — mormorò Michelis. — Ma quello è… Lithia, non è vero, conte d’Averoigne?

— Vi prego: qui sono il dottor Petard. Sì, è Lithia. Il suo sole è visibile dalla Luna un po’ più di dodici giorni al mese. Sebbene lontano cinquanta anni luce, lo vediamo a una distanza apparente di circa trecentomila chilometri, un po’ meno di quella che divide la Terra dalla Luna. È notevole la quantità di luce che si può ottenere con un paraboloide di sodio di duecento metri e la totale mancanza di atmosfera. Ovviamente, se ci fosse un’atmosfera, non potremmo neppure avere la superficie riflettente… la gravità stessa, qui, è quasi troppa.

— Incredibile — mormorò Liu.

— E non è che il principio. Abbiamo abbracciato non solo lo spazio, ma anche il tempo. Il pianeta che abbiamo sotto gli occhi è Lithia quale è in questo momento stesso, e non Lithia qual era cinquant’anni fa.

— Complimenti — disse Michelis, impressionato. — Naturalmente, la difficoltà maggiore dev’essere stata la realizzazione pratica… ma mi pare che siate riuscito a completare l’installazione in un tempo record.

— Già, lo penso anch’io — disse il Conte, togliendosi di bocca il sigaro e mettendosi a rimirarlo con compiacenza.

— Potremmo dunque assistere all’arrivo dell’astronave di Egtverchi? — domandò l’uomo dell’ONU.

— No, temo — rispose il Conte. — Secondo gli orari che mi avete fornito, l’atterraggio dovrebbe essere avvenuto ieri e io non posso fare andare avanti e indietro il mio apparecchio sullo spettro temporale. Le equazioni lo costringono alla simultaneità, e la simultaneità è quello che ottengo. Ecco tutto.

Il tono della sua voce cambiò bruscamente. Il cambiamento lo trasformò, da un uomo grassoccio deliziato del suo giocattolo nuovo, nel filosofo e matematico Henri Petard più di qualsiasi sua affermazione.

— Vi ho invitati a tenere la vostra conferenza qui — disse, — perché desideravo che foste tutti testimoni d’un evento che spero proprio non abbia a verificarsi… Mi spiego subito:

«Sono stato pregato recentemente di verificare il ragionamento su cui si basa il dottor Cleaver per tentare l’esperimento che dovrebbe aver luogo oggi. Questo esperimento è un tentativo d’immagazzinare la totalità dell’energia liberata da un generatore Nernst durante un periodo di circa novanta secondi, grazie a un’applicazione speciale di quello che si chiama "effetto compressione".

«Ho trovato un errore nei ragionamenti di Cleaver, un errore abbastanza grave anche se non visibile immediatamente. Dato che il lithio-6 è onnipresente sul pianeta in osservazione, ogni sbaglio rischia di provocare una catastrofe totale. Ho mandato a Cleaver, per CirCon, un messaggio urgente che è stato registrato su magnetofono nell’astronave che è atterrata ieri. Avrei voluto usare l’Albero, ma, ovviamente, esso è stato abbattuto; comunque, dubito che Cleaver avrebbe accettato un messaggio da un Lithiano. Il comandante dell’astronave mi ha promesso di consegnare ad ogni costo il mio messaggio a Cleaver ancora prima del carico. Ma conosco l’incredibile cocciutaggine di Cleaver. Non è così?

— Sì — rispose Ruiz. — Dio sa quanto sia cocciuto.

— Bene, noi siamo pronti — disse ora il sedicente dottor Petard. — I miei strumenti possono registrare l’evento. Preghiamo non ce ne sia bisogno.

Il Conte era un cattolico passato all’ateismo. Il suo «preghiamo» era un’abitudine. Ma Ruiz-Sanchez non sarebbe riuscito a pregare per una simile cosa più del Conte stesso… e non poteva più lasciare al caso la decisione. La spada di San Michele era stata posta nelle sue mani in modo così evidente che anche uno sciocco avrebbe potuto vederlo.

Il Santo Padre aveva saputo che le cose sarebbero andate così. Aveva preparato tutto con l’abilità di un Disraeli. Escludendo la scomunica ufficiale, Adriano VIII aveva lasciato a Ruiz la possibilità di utilizzare, tra i doni della Grazia, l’unico che fosse adatto alla presente situazione.

E forse aveva capito, anche, che il tempo che Ruiz-Sanchez aveva dedicato al caso di coscienza, elaborato e capricciosamente iper-complicato, del romanzo di Joyce era tempo perso; un caso molto più semplice, una situazione tra. le più classiche era molto più pertinente, ma Ruiz-Sanchez non era riuscito a ravvisarla. Era il caso del bambino malato, e delle preghiere per la sua guarigione.

Al giorno d’oggi, la maggior parte dei bambini malati guariva in un giorno o poco più, grazie a un’iniezione di spettrosigmina o di qualche farmaco simile, anche se era giunto alle soglie del coma. Domanda: La preghiera è stata inutile, ed è stata la scienza temporale ad operare la guarigione?

Risposta: No, perché la preghiera è sempre ascoltata, e nessun uomo può scegliere per Dio i mezzi ch’Egli userà per esaudirla. Certamente un miracolo come un antibiotico capace di salvare una vita non è indegno della liberalità di Dio.

E la stessa risposta valeva anche per l’enigma del Grande Nulla. L’Avversario non crea se non nel senso che vuole sempre il male e fa sempre il bene. Non può arrogarsi nessun credito a causa della scienza temporale; non può nemmeno affermare con verità che un successo della scienza temporale sia uno scacco per la preghiera. In questa cosa, come in ogni altra, è costretto a mentire.

E là, su Lithia, c’era Cleaver, agente del Grande Nulla, condannato allo scacco; l’impresa stessa a cui stava ponendo mano per il servizio dell’Avversario era in procinto di distruggere tutta la sua opera. Il bastone di Tannhäuser era fiorito: «Questi sono i frutti caduti dall’albero della scienza del bene e del male.»

Ma anche mentre Ruiz-Sanchez si alzava, con sulle labbra le fiammeggianti parole di Gregorio VIII, egli esitò ancora. E se si fosse sbagliato, dopo tutto? Se Lithia fosse stata veramente il Paradiso Terrestre e il Lithiano cresciuto sulla Terra proprio il Serpente ad esso destinato?

La voce del Grande Nulla, che mormorava le sue ultime menzogne. Ruiz-Sanchez alzò la mano. La sua voce tremante echeggiò nell’oscura caverna dell’osservatorio:

— Io, sacerdote di Cristo, ordino a voi, spiriti malvagi, che agitate queste nuvole…

— Che cosa? Per carità, state zitto — disse l’uomo dell’ONU, irritato. Gli altri lo stavano fissando sbalorditi, e negli occhi di Liu si leggeva lo sgomento. Solo lo sguardo del conte era consapevole e solenne.

— … di ritirarvi da esse e disperdervi in luoghi selvatici e deserti, onde non possiate più nuocere né agli uomini né agli animali, né alle piante né a cosa alcuna che sia stata concepita per il servizio dell’uomo.

«E tu, Grande Nulla, stupido e lubrico, tu, Scrofa Stercorata, nero spìrito del Tartaro, io ti scaglio, o Porcarie Pedicose, nell’infernale cucina.

«Per l’Apocalisse di Gesù Cristo, che il Signore ha inviato ai Suoi servi per far loro conoscere le cose che stanno per essere; e che Egli ha significato, inviando il Suo Angelo; io ti esorcizzo, Angelo della Perversità:

«Per i sette candelieri d’oro e per quello che è come il Figlio dell’Uomo, ritto in mezzo ai candelieri; per la sua voce, come la voce di molte acque; per le sue parole "Ecco, son vivo, io ch’ero morto; e vivrò sempre e sempre; e ho le chiavi della morte e dell’Inferno"; io ti dico, Angelo della Perdizione: Via, VIA, VIA!»

L’eco delle sue parole risuonò ancora lungamente, prima di spegnersi. Poi il silenzio lunare rifluì nella sala, interrotto soltanto dal respiro dei presenti e da un rumore come di pompe ansimanti, chi sa dove, nel sottosuolo.

E lentamente, senza il minimo suono, il pianeta circondato di nuvole, sullo schermo, si colorò di bianco. Le nubi, gli oceani, i continenti si confusero in una luminosità d’un biancore abbagliante, che parve irraggiare dallo schermo come il raggio di luce d’un riflettore e penetrare i loro volti esangui fino all’osso.

Lentamente, lentissimamente, tutto si confuse: le foreste echeggianti, la casa in porcellana di Chtexa, i latranti dipnoidi, il tronco mozzo dell’Albero Messaggero, gli allosauri selvaggi, il grande cuore pulsante del Lago di Sangue, la città dei vasai, i calamari volanti, il coccodrillo lithiano dal procedere sinuoso, le alte e nobili creature pensanti e il mistero e la bellezza che le circondavano. Bruscamente, l’intera Lithia cominciò a gonfiarsi, a dilatarsi come un pallone…

Il conte cercò di spegnere lo schermo, ma era troppo tardi. Prima che egli avesse potuto toccare la piccola cassa di smalto nero, tutto il circuito saltò con uno scoppiettio di fusibili. La luce intollerabile svanì all’istante; lo schermo divenne nero e l’universo con esso.

Erano là, accecati, sbalorditi.

— Un errore nell’Equazione Sedici — disse il conte nell’oscurità fittissima, con voce stentata.

No, pensò Ruiz-Sanchez, no. Un esempio di preghiera esaudita. Egli aveva voluto servirsi di Lithia per difendere la Fede, e ciò gli era stato concesso. Cleaver aveva voluto fare di quel pianeta un laboratorio per la creazione di bombe a fusione, e il suo desiderio era stato soddisfatto pienamente e all’istante. Michelis non aveva visto in Lithia che una profezia dell’infallibilità dell’amore umano ed era stato legato su quel letto di tortura fin da quel momento. Quanto ad Agronski… Agronski non aveva voluto che cambiasse nulla ed ormai era lui a non essere più nulla, un nulla immutabile.

Nell’oscurità s’udì un lungo singhiozzo. Per un istante, Ruiz pensò che fosse Liu. Ma non era Liu: era Mike.

— Quando potremo vedere di nuovo — disse la voce del conte, — propongo che, infilatici gli scafandri, si esca tutti. C’è una nova da osservare.

Non era che una manovra diversiva da parte del conte… un atto di bontà. Sapeva bene che quella nova non poteva essere visibile a occhio nudo fino al prossimo Anno Santo, di là a cinquant’anni; e sapeva che essi lo sapevano.

Tuttavia, quando il Padre Ramon Ruiz-Sanchez, già Chierico Regolare della Compagnia di Gesù, poté vedere ancora, gli altri lo avevano lasciato solo col suo Dio e il suo dolore.

Appendice. Il pianeta Lithia

Lithia è il secondo pianeta della stella di tipo Sole Alpha arietis, nella costellazione dell’Ariete, e dista dal Sole approssimativamente 50 anni luce. (Il valore precedente, 40 anni luce, spesso citato nella letteratura scientifica, derivava dall’applicazione della cosiddetta costante cosmologica.)

Ruota intorno al suo primario a una distanza media di 178.000.000 km, e il suo anno dura approssimativamente 380 giorni terrestri. L’orbita è ellittica, con un’eccentricità di 0,51, cosicché l’asse principale dell’ellisse è circa del 5 per cento più lungo dell’altro.

L’asse del pianeta è sostanzialmente perpendicolare all’orbita, e il pianeta ruota intorno al proprio asse con un giorno di circa 20 ore terrestri. Perciò l’anno lithiano è costituito di 456 giorni lithiani. L’eccentricità dell’orbita produce stagioni miti, con lunghi inverni relativamente più freddi, e brevi, calde estati.

Il pianeta ha una sola luna, con diametro di 2060 km, che ruota intorno al suo primario a una distanza di 535.000 km, dodici volte ogni anno lithiano.

I pianeti esterni del sistema non sono ancora stati esplorati.

Lithia ha un diametro di 14.148 km, e la gravità, alla superficie, è 0,82 volte quella terrestre. La bassa gravità del pianeta si spiega con la sua densità, relativamente bassa, che a sua volta deriva dalla composizione. Quando il pianeta si formò, alla sua formazione prese parte una percentuale di elementi pesanti (con numero atomico superiore al 20) molto inferiore che nel caso della Terra. Inoltre, gli elementi con numero atomico dispari che vi compaiono in buona quantità sono soltanto idrogeno, azoto, sodio e cloro. Il potassio è piuttosto raro, e gli elementi dispari pesanti (oro, argento, rame) vi compaiono soltanto in quantità elementari, e sempre sotto forma di composti chimici. In realtà, l’unico metallo che si trova allo stato di elemento sul pianeta è il ferro di qualche meteorite.

Il nucleo metallico del pianeta è considerevolmente più piccolo di quello della Terra, e lo strato basaltico è corrispondentemente più spesso. I continenti, come sulla Terra, sono costituiti fondamentalmente di granito, su cui giace uno strato di sedimenti.

La scarsità di potassio ha portato a una geologia estremamente statica. La radioattività naturale del potassio-40 è la massima fonte del calore interno della Terra, e il contenuto di potassio-40 di Lithia è meno di un decimo di quello terrestre. Di conseguenza, l’interno del pianeta è molto più freddo, l’attività vulcanica è rara, e le rivoluzioni geologiche ancora più rare. Il pianeta pare essersi definitivamente assestato in un periodo agli inizi della sua vita, e da allora non gli è successo nulla di veramente spettacolare. La maggior parte di questa storia geologica priva di avvenimenti importanti può essere soltanto oggetto di congetture, perché la scarsità di elementi radioattivi comporta gravi difficoltà nella datazione degli strati.

L’atmosfera è pressappoco simile a quella della Terra. La pressione atmosferica è 815,3 mm-Hg a livello del mare, e la composizione dell’aria secca è la seguente:


Azoto 66,26% in volume

Ossigeno 31,27% in volume

Argo ecc. 2,16% in volume

CO2 0,31% in volume


La concentrazione di anidride carbonica, relativamente alta (la pressione parziale è circa 11 volte quella dello stesso gas nell’atmosfera terrestre) porta a un clima di tipo serra, con differenze di temperatura relativamente piccole dal polo all’equatore. La temperatura media estiva al polo è circa 30° C, all’equatore circa 38° C, mentre le temperature invernali sono inferiori ad esse di circa 15 gradi. L’umidità è generalmente molto elevata; è presente una forte foschia; la pioggia è quasi ininterrotta.

Ci sono stati pochi cambiamenti nel clima del pianeta negli ultimi 700 milioni di anni. Poiché l’attività vulcanica è scarsa, il contenuto di anidride carbonica dell’atmosfera non sale apprezzabilmente per tale causa, e la quantità assorbita dai processi di fotosintesi della rigogliosa vegetazione del pianeta viene compensato dalla rapida ossidazione dei vegetali morti, prodotta dall’alta temperatura, dall’elevata umidità e dal notevole contenuto di ossigeno dell’atmosfera. In effetti, il clima del pianeta è in equilibrio da più di 500 milioni di anni.

Come il clima, così è in equilibrio da 500 milioni di anni la geografia del pianeta. Ci sono tre continenti: il più grande è il continente australe, il quale si estende, pressappoco, da 15 a 60 gradi Sud, e occupa circa due terzi della circonferenza del pianeta. I due continenti boreali hanno forma all’incirca quadrata, e la loro estensione è simile. Si estendono da 10 a circa 70° N; da est a ovest, ciascuno di essi misura circa 80 gradi. Il primo è situato a nord dell’estremità occidentale del continente australe, l’altro all’estremità orientale. Sull’altra faccia del pianeta c’è un arcipelago di grandi isole, vaste come Inghilterra e Irlanda, che si stendono da 20 a 10° S dell’Equatore. I mari, o oceani, sono dunque cinque: i due mari polari; il mare equatoriale che separa il continente australe dai due continenti boreali; il mare centrale, tra questi due, che unisce il mare equatoriale col mare polare del nord; e l’oceano principale, che si stende da un polo all’altro. Questo è interrotto soltanto dall’arcipelago, e la sua larghezza è un terzo della circonferenza del pianeta.

Il continente australe ha soltanto una bassa catena montana (vetta più alta: 2263 metri) che corre parallelamente alla sua costa meridionale e che frena i forti venti del sud. Il continente di nordovest ha due catene: una parallela al mare occidentale, una a quello orientale; i venti polari possono correre liberamente, e danno a questo continente un clima più variabile di quello del continente australe. Il continente di nordest ha una piccola catena lungo la costa meridionale. Le isole dell’arcipelago hanno poche alture, e hanno un clima di tipo oceanico. I venti sono molto simili a quelli della Terra, ma hanno velocità minore, a causa della minor differenza di temperatura tra le varie parti del pianeta. Il mare equatoriale è quasi privo di venti.

Ad eccezione delle poche catene montuose, i continenti sono prevalentemente piani, soprattutto nei pressi delle coste, e i fiumi hanno il tipico decorso a meandri, fiancheggiato da paludi e da basse pianure che vengono inondate per chilometri ad ogni primavera.

Ci sono maree, più basse di quelle della Terra, che producono apprezzabili correnti di marea nel mare equatoriale. Poiché il terreno è molto piatto, eccetto dove le catene montane sorgono dal mare, lunghi bassifondi separano le spiagge dal mare aperto.

L’acqua è simile a quella dei mari terrestri, ma molto meno salata. La vita lithiana cominciò nel mare, e la sua evoluzione ha attraversato delle tappe molto simili a quelle della vita terrestre. C’è una ricca varietà di vita marina microscopica, con tipi che ricordano la forme delle alghe e delle spugne; inoltre ci sono molte forme simili ai crostacei e ai molluschi. Questi sono molto evoluti e ben diversificati, soprattutto le forme mobili. Forme di vita a noi familiari, simili ai pesci, dominano i mari di Lithia come quelli della Terra.

Le odierne piante della terraferma lithiana hanno un aspetto familiare per un osservatore terrestre, anche se un po’ bizzarro. Non ci sono piante esattamente identiche alle loro controparti terrestri, ma molte piante di Lithia ricordano per qualche aspetto determinate piante della Terra. Il loro aspetto più strano è il fatto che le foreste sono costituite da specie di piante molto diverse. Alberi con fiori e senza, palme e pini, felci arboree, cespugli ed erbe, crescono tutti insieme e in straordinario accordo. Poiché Lithia non ha mai avuto un periodo glaciale, le sue foreste, di regola, appartengono a questo tipo misto, invece di appartenere al tipo uniforme che predomina sulla Terra.

In generale la vegetazione è lussureggiante e le foreste sono delle tipiche foreste da clima piovoso. Ci sono molte varietà di piante velenose, compresi vari tuberi apparentemente commestibili. Le loro radici assomigliano alle patate terrestri, ma producono in grande quantità alcaloidi estremamente tossici, la cui formula chimica non è ancora stata determinata. Vari tipi di arbusti posseggono spine impregnate di glucosidi estremamente irritanti per la pelle dei vertebrati.

Sulle pianure predominano le erbe, che nelle paludi lasciano il posto a una vegetazione adatta a terreni umidi. Vi sono pochissime aree desertiche; le montagne stesse sono lisce e arrotondate, e coperte di erbe e cespugli. Viste dallo spazio, le zone continentali di Lithia hanno un aspetto completamente verde. Rocce nude si trovano soltanto nelle valli dove la corrente ha messo a nudo l’arenaria e il calcare, e nelle estrusioni ignee, dove si trova selce, quarzo e quarzite. L’ossidiana è rara, ovviamente, perché l’attività vulcanica è scarsa. In alcune valli si trova argilla, con un buon contenuto di alluminio, e il rutilio (biossido di titanio) è abbastanza comune. Non ci sono depositi di minerale ferroso, e l’ematite è sconosciuta sul pianeta.

Le forme animali che vivono sulla terraferma comprendono ordini simili a quelli terrestri. C’è una grande varietà di artropodi, compresi insetti (a otto zampe) di ogni dimensione, tra cui una pseudo libellula con due paia di ali e apertura alare di 86,5 cm (massimo registrato). Questa specie si alimenta esclusivamente di altre forme insettoidi, ma esistono specie molto dannose per gli animali superiori. La puntura di queste specie è pericolosa (il veleno è di solito un alcaloide) e una specie di insetti può spruzzare un getto di gas velenoso (acido cianidrico, a quanto pare) in quantità sufficiente a immobilizzare un animale di media taglia. Questi insetti hanno una natura sociale, come le formiche, e vivono in colonie che vengono abitualmente evitate dagli animali insettivori.

Inoltre, ci sono molti anfibi: piccole forme simili alle salamandre, con tre dita per arto invece delle cinque che sono caratteristiche dei vertebrati di terraferma della Terra. Costituiscono una classe molto importante, e alcune specie sono grandi come un cane san Bernardo. Tuttavia, eccetto poche forme piccole e di scarsa importanza, gli anfibi sono confinati agli acquitrini del basso corso dei fiumi, e il resto della terraferma è dominato da una classe che assomiglia ai rettili terrestri. Tra di essi c’è la specie dominante: un animale, grande, molto intelligente, con deambulazione bipede ed eretta, equilibrata da una coda pesante e rigida.

Due gruppi di rettili sono ritornati all’ambiente marino e competono con i pesci per il predominio in quell’habitat. Un gruppo ha adottato una forma completamente affusolata, e, a guardarlo esternamente, pare un qualsiasi pesce di dieci metri di lunghezza. Tuttavia la sua coda è orizzontale, e un esame della struttura interna mostra la sua origine. È la specie più veloce delle acque di Lithia, e la sua velocità sfiora gli 80 nodi quando è eccitato (e lo è quasi sempre, perché la sua fame è insaziabile). L’altro gruppo di rettili ritornati all’acqua assomiglia ai coccodrilli, ed è adatto tanto al mare aperto quanto alle paludi di fango, anche se non è molto veloce in nessuna delle due condizioni.

Vari generi di rettili si sono adattati all’ambiente aereo, a somiglianza di ciò che fecero gli pteranodonti terrestri. Il più grande ha un’apertura alare di circa tre metri, ma la sua struttura è molto leggera. Fa il nido sugli scogli a picco sul mare della costa meridionale del continente di nordest, e si ciba di pesci e dei cefalopodi volanti che cattura al di sopra dell’acqua. Questo rettile volante ha un buon assortimento di denti aguzzi e rivolti all’indietro, posti su un lungo becco. Un’altra specie di rettile volante è molto interessante, perché ha sviluppato qualcosa di molto simile alle penne, disposte sulla schiena come una sorta di criniera policroma. Queste penne compaiono soltanto nel rettile adulto; i giovani sono nudi.

Circa 100 milioni di anni fa, i rettili di terraferma furono spazzati via, quasi completamente, da una delle più piccole specie della famiglia, che adottò il metodo più comodo per guadagnarsi la vita: mangiare le uova dei cugini più grandi. Le forme più grandi sparirono quasi completamente, e quelle sopravvissute (come ad esempio l’allosauro lithiano) sono oggi rare come l’elefante terrestre (rispetto, ad esempio, alle molte forme di proboscidati che esistevano nel Pleistocene). Le forme più piccole sono sopravvissute meglio, ma non sono più abbondanti come un tempo.

La specie dominante rappresenta un’eccezione. La femmina di questa specie ha una sacca addominale in cui porta le uova fino alla loro schiusa. Questo animale è alto 3,70 metri all’attaccatura della cresta, e la forma della sua testa è adatta alla visione bifocale. Una delle tre dita dell’arto superiore (arto manipolatore, esente da compiti di locomozione) costituisce un pollice opponibile.


FINE
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