LIBRO PRIMO

CAPITOLO PRIMO

Nonostante che fosse di pietra, la porta d’ingresso sbatté con violenza. Quel rumore sordo era il segno distintivo di Cleaver: non esisteva porta così pesante, così complicata da chiudere, così ben bilanciata sui cardini da impedirgli di chiuderla, ogni volta, con un fracasso apocalittico. E nell’intero universo non c’era pianeta che possedesse un’atmosfera abbastanza densa e greve di vapori da attutire quel rimbombo: neppure Lithia.

Padre Ramon Ruiz-Sanchez, già del Perù, e sempre Chierico Regolare della Compagnia di Gesù, Sacerdote professo dei quattro voti, continuò a leggere. In ogni caso, sarebbe occorso un certo periodo di tempo perché Paul Cleaver, nonostante la sua impazienza, riuscisse a sfilarsi di dosso la tuta da giungla, e il problema era tuttora aperto. Era un problema vecchio di un secolo, proposto originariamente nel lontano 1939, ma la Chiesa non lo aveva mai risolto. Ed era diabolicamente complicato (l’avverbio «diabolicamente» era ufficiale, scelto con deliberata intenzione perché venisse preso alla lettera). Quanto al romanzo che aveva posto il problema, esso era all’Index expurgatorius, e il Padre Ruiz-Sanchez vi aveva accesso spirituale soltanto in virtù del suo Ordine.

Voltò la pagina senza prestare orecchio ai brontolii e al rumore di stivali che provenivano dall’ingresso. Il testo continuava indefatigabilmente, una pagina dopo l’altra, e si faceva più intricato, più perverso, più insolubile ad ogni parola:

«… Magravius minaccia di far molestare Anita da Sulla, selvaggio ortodosso (e capo di una banda di dodici mercenari, i Sullivani), che desidera procurare Felicia a Gregorius, Leo, Vitellius e Macdugalius, quattro sterratori, se essa non si concederà a lui e se, inoltre, non ingannerà Honuphrius compiendo i suoi doveri coniugali quand’egli li esiga. Anita, che asserisce di avere scoperto tentazioni incestuose in Jeremias ed Eugenius…»

Ecco, aveva di nuovo perso il filo. Jeremias ed Eugenius erano…? Oh, certo, i «filadelfiani» o amanti fraterni (e qui, senza dubbio, doveva celarsi un altro crimine) citati all’inizio, consanguinei di infimo grado di Felicia e Honuphrius… e questi era chiaramente il principale fellone e marito di Anita. Magravius, che pareva nutrire ammirazione nei riguardi di Honuphrius, era stato indotto dallo schiavo Mauritius a far pressioni su Anita: probabilmente sotto l’egida dello stesso Honuphrius. La cosa, tuttavia, era giunta ad Anita per il tramite della sua cameriera Fortissa, che era — o un tempo era stata — sposata civilmente con Mauritius e gli aveva dato dei figli… insomma, tutta la storia doveva venire valutata con la cautela più scrupolosa. E la confessione iniziale di Honuphrius era stata resa sotto tortura: volontariamente accettata, certo, ma pur sempre tortura. Il rapporto tra Fortissa e Mauritius, poi, lasciava ancor più adito al dubbio, e in verità era soltanto una supposizione del commentatore, Padre Ware…

— Ramon, per favore, mi date una mano? — gridò a un tratto Cleaver. — Mi si è inceppata la chiusura, e poi… non mi sento bene.

Il biologo gesuita si alzò, preoccupato, e mise via il libro. Una tale richiesta, da parte di Cleaver, non aveva precedenti. Il fisico sedeva su un «puf» di vimini intrecciati, imbottito di un muschio che ricordava il comune sfagno, che faticava a reggere il suo peso. Si era già sfilato la parte superiore della tuta da giungla in fibra di vetro, ed era pallido in viso e madido di sudore, anche se si era già tolto il casco. Con le dita tozze e malsicure dava secchi strattoni a una chiusura lampo che non voleva scorrere.

— Paul, perché non avete detto subito che non vi sentivate bene? Lasciate fare a me; riuscirete soltanto a peggiorare il guaio. Che cosa è accaduto?

— Non saprei dire esattamente — rispose Paul Cleaver, col fiato grosso e staccando le dita dalla lampo. Ruiz-Sanchez, inginocchiato accanto a lui, tentò di inserire di nuovo la linguetta metallica nella scanalatura dentellata. — Sono andato a fare un giro esplorativo nella giungla, per vedere se fosse possibile trovare qualche giacimento di pegmatite. È da un pezzo che sto pensando che un impianto pilota, qui, per la produzione di tritio, potrebbe dare un rendimento colossale.

— Dio non voglia — mormorò Ruiz-Sanchez.

— Eh? Ad ogni modo, non ho trovato nulla. Qualche lucertolone, delle cavallette, come al solito. Poi, improvvisamente, ho urtato una pianta, che assomigliava un po’ a un ananasso, e una delle spine mi ha perforato la tuta, pungendomi. Per il momento non m’è parsa una cosa grave, ma ora…

— Non per nulla portiamo queste tute. Vediamo un po’. Ecco, alzate le gambe e vi aiuterò a togliere gli stivali. Dove vi siete… Oh, certo, non ha un bell’aspetto, ve lo concedo. Altri sintomi?

— Mi sento la bocca secca — si lagnò Cleaver.

— Apritela — ordinò il Gesuita. Quando Cleaver obbedì, risultò che l’aver parlato di bocca secca era stato da parte sua un deliberato tentativo di minimizzare la situazione. La mucosa della bocca era quasi interamente coperta di ulcere poco belle a vedersi e senza dubbio quanto mai dolorose, dai contorni così precisi da sembrare che fossero state ritagliate con un coltellino.

Ma Ruiz-Sanchez non fece commenti, e atteggiò il volto a un’espressione di disinteresse. Se il fisico desiderava minimizzare la gravità delle sue condizioni, Ruiz-Sanchez non ci trovava nulla da ridire. Un pianeta straniero non è il luogo più indicato per privare un uomo delle sue difese psicologiche.

— Andiamo al laboratorio — disse. — Avete la bocca un po’ infiammata.

Cleaver si alzò, malfermo sulle gambe, e seguì il Gesuita nel laboratorio. Ruiz-Sanchez fece prelievi su parecchie ulcere, li mise su un vetrino da microscopio e li sottopose alla colorazione Gram. La colorazione richiedeva un certo tempo, ed egli lo occupò eseguendo il complicato rituale di disporre lo specchietto del microscopio in modo che ricevesse luce, dalla finestra, da una brillante nube bianca. Quando il timer dell’apparecchio emise un ronzio per avvisarlo che il processo di colorazione era terminato, egli sciacquò il vetrino, lo asciugò alla fiamma e lo dispose sotto la lente.

Come in parte temeva, non vide quasi nessuno dei diversi bacilli e spirocheti della normale, terrestre angina di Vincent, che il quadro clinico suggeriva e che egli avrebbe potuto guarire in ventiquattr’ore con una pastiglia di spettrosigmina. La flora buccale di Cleaver era normale, anche se troppo abbondante a causa dell’estensione del tessuto esposto: la «carne viva» delle ulcerazioni.

— Ora vi farò un’iniezione — disse Ruiz-Sanchez. — Dopo farete bene ad andarvene a letto.

— Ma neanche per sogno — protestò Cleaver. — Il lavoro che mi resta da fare è dieci volte superiore a quello che posso sperare di fare senza ulteriori intralci.

— Certo — ammise Ruiz-Sanchez. — Le malattie sono sempre un fastidio. Comunque, perché preoccuparvi se perdete un giorno o due, visto che, in qualsiasi caso, non riuscirete mai a finire?

— Che cosa mi sono buscato? — chiese Cleaver, con aria allarmata.

— Non vi siete buscato nulla — rispose Ruiz-Sanchez, quasi con rincrescimento. — Vale a dire che non avete infezioni. Ma il vostro «ananas» vi ha fatto un brutto tiro. In massima parte, le piante di questa famiglia, su Lithia, hanno spini o foglie ricoperte di polisaccaridi che per noi sono veleni. Il particolare glucoside in cui vi siete imbattuto oggi era probabilmente il veleno della scilla, o qualcosa di analogo. I sintomi assomigliano a quelli dell’angina di Vincent, ma sono più difficili a curarsi.

— E quanto durerà questa storia? — domandò Cleaver. Aveva sempre l’aria polemica, ma stava sulla difensiva, ora.

— Parecchi giorni almeno, il tempo necessario al vostro organismo a elaborare la sua stessa immunità. L’iniezione che sto per farvi è una globulina gamma, specifica contro la scilla, e modererà i sintomi fino a quando avrete acquisito una quantità sufficiente di anticorpi di vostra propria creazione. Ma nel processo, vi si svilupperà un febbrone da cavallo, Paul, e io dovrò imbottirvi di antipiretici, dato che anche poche linee di febbre sono molto pericolose in questo clima.

— Lo so — disse Cleaver, raddolcito. — Più cose imparo di questo maledetto pianeta e meno sono disposto a votare «sì» quando verrà il momento. Bene, portate dunque la vostra siringa… e la vostra aspirina. Immagino che dovrei essere contento che non si tratti d’infezione, diversamente i Serpenti mi riempirebbero di antibiotici.

— Poco probabile. Non dubito che i Lithiani abbiano un centinaio almeno di farmaci che, in futuro, potranno servirci… ecco fatto, potete rilassarvi… ma prima dovremo studiare la loro farmacologia bene a fondo. Bene, Paul, distendetevi sulla vostra amaca, ora. Fra una decina di minuti, vi augurerete di non essere mai esistito, ve lo garantisco.

Cleaver sorrise. La sua faccia grondante sudore, sotto la massa paglierina di capelli biondi, esprimeva, nonostante la malattia, forza e potenza. Si levò ritto e cominciò a rimboccarsi la manica.

— E non ci sono dubbi su quale sarà il vostro voto, vero? — disse. — Voi amate questo pianeta, non è vero, Ramon? Da quel che ne so io, è un vero paradiso per un biologo — osservò.

— Sì, l’amo — disse il prete, sorridendo a sua volta. Seguì l’altro nella stanzetta che serviva a entrambi da camera da letto. Finestra a parte, assomigliava in tutto e per tutto all’interno di una brocca. I muri, incurvati e continui, erano fatti d’una specie di ceramica, che non trasudava mai l’umidità, ma non sembrava mai nemmeno asciutta del tutto. Le amache pendevano da uncini che sporgevano dalla parete e che parevano farne parte integrante, come se fossero stati messi in forno insieme con il resto della casa. — Mi piacerebbe che la dottoressa Meid potesse vederlo. Ne sarebbe ancor più deliziata di me.

— Non ho molta fiducia nelle donne scienziate — disse Cleaver in tono irritato. — Mescolano e confondono le emozioni con le ipotesi. Meid… che specie di donna è, comunque?

— Giapponese. Il primo nome della dottoressa è Liu… la sua famiglia segue l’uso occidentale di mettere per ultimo il nome di famiglia.

— Ah — fece Cleaver, perdendo interesse alla cosa. — Stavamo parlando di Lithia.

— Sì, ma non dovete dimenticare che Lithia è il mio primo pianeta extra-solare — disse Ruiz-Sanchez. — Credo che troverei affascinante qualsiasi nuovo mondo abitabile. L’infinita varietà e mutevolezza delle forme di vita e la particolare intelligenza implicita di ognuna di esse… Tutto ciò è sbalorditivo e affascinante nello stesso tempo.

— E perché questo non dovrebbe essere sufficiente? Che bisogno avete di unire un’idea di Dio a tutto ciò? È assurdo.

— Anzi, è proprio ciò che dà un senso a tutto il resto. Scienza e religione non si escludono a vicenda. Se ponete in primo piano il pensiero scientifico, escludendo la fede, se ammettete solo ciò che è provato, allora vi resta appena una serie di gesti vuoti. Per me, la biologia è un atto di fede, perché so che tutte le creature sono opera di Dio, so che ogni nuovo pianeta, con tutte le sue manifestazioni, è un’affermazione della potenza di Dio.

— Siete un uomo che ha dedicato la sua vita a una causa — disse Cleaver. — Benissimo. Lo sono anch’io. Ma io, invece, dico: «Alla maggior gloria dell’uomo.»

Si distese pesantemente sull’amaca. In capo a un certo intervallo, Ruiz-Sanchez si prese la libertà di alzargli e sistemargli sull’amaca l’altro piede, che Cleaver sembrava aver completamente dimenticato. Cleaver non se ne accorse. La reazione era già in atto.

— Esattamente così — disse Ruiz-Sanchez. — Solo che avete detto la prima metà soltanto: la seconda metà continua: «… e a maggior gloria di Dio.»

— Oh, Padre, risparmiatemi i vostri sermoni — sbuffò Cleaver, ma si riprese subito: — Scusatemi, Padre, ma il fatto è che per un fisico questo pianeta è un vero inferno… Dovreste darmi quell’aspirina, ho un gran freddo.

— Certo, Paul.

Ruiz-Sanchez si diresse in laboratorio, dove preparò una pasta di barbiturato salicilico in uno dei superbi mortai lithiani; compresse poi la pasta in modo da formare una serie di pillole. (Non era possibile conservare quelle compresse nell’umida atmosfera di Lithia, erano troppo igroscopiche.) Peccato non poter stampigliare su ciascuna compressa la scritta «Bayer» prima che si indurisse… se Cleaver riteneva che l’aspirina fosse la sua panacea universale, sarebbe stato meglio lasciargli credere che fossero davvero compresse di aspirina… ma, ovviamente, non aveva uno stampo a disposizione. Portò infine a Cleaver due di quelle pillole, con un bicchiere e una caraffa d’acqua filtrata secondo il metodo Berkefeld.

Il massiccio corpo di Cleaver era già annientato dal sonno; ma il Gesuita lo svegliò, più o meno. In grazia di questa lieve seccatura, Cleaver avrebbe dormito più a lungo e si sarebbe svegliato più avanti sulla via della guarigione. In realtà, il fisico quasi non si accorse di ingollare le due pillole, e in breve riprese a respirare in modo pesante e irregolare.

Allora Ruiz-Sanchez ritornò nella stanza principale, sedette e si mise a esaminare la tuta da giungla. Non fu difficile trovare la lacerazione prodotta dallo spino e constatare che la riparazione sarebbe stata cosa di poco conto. Molto più difficile sarebbe stato correggere la convinzione di Cleaver che le difese biologiche di un terrestre su Lithia fossero invulnerabili, e che si poteva andare a sbattere senza danno sulle piante spinose. Ruiz-Sanchez si chiese se gli altri due membri del Comitato d’Indagine su Lithia l’avessero già capito.

Cleaver, parlando del vegetale che l’aveva messo a letto, l’aveva definito un «ananasso». Qualsiasi biologo avrebbe potuto dirgli che anche sulla Terra l’ananasso è una pianta assai prolifica e pericolosa, e che il fatto che sia commestibile è soltanto un caso accidentale: fortunato, certo, ma irrilevante. Nelle Hawaii, come Ruiz-Sanchez ricordava bene, la foresta tropicale era insuperabile per chi non indossasse calzoni robusti e stivali. E anche nelle piantagioni, gli ananassi, strettamente vicini tra loro e molto robusti, potevano fare a pezzi le gambe di un uomo che non fosse adeguatamente difeso.

Ruiz-Sanchez rivoltò la tuta. La chiusura lampo che Cleaver aveva inceppato era fatta di una sostanza plastica, nelle molecole della quale erano incorporati radicali di diverse sostanze terrestri fungicide, in particolare il veleno protoplasmico detto thiolutina. I microrganismi lithiani non la aggredivano, certo, ma le complesse molecole dalla plastica stessa avevano la tendenza, a causa dell’umidità e del calore lithiani, a subire una polimerizzazione più o meno spontanea. E così quel giorno un dente della chiusura si era trasformato in qualcosa che assomigliava a un grano di «pop-corn».

L’aria si era fatta oscura. A un tratto s’udì un lievo scoppio soffocato, e la stanza s’illuminò di fiammelle d’un giallo tenue, provenienti da recessi posti in tutte le pareti. Il combustibile era un gas naturale, di cui Lithia possedeva riserve inesauribili, costantemente rinnovate. Le fiamme si accendevano al contatto di un catalizzatore, a misura che il gas usciva dal sistema. Una reticella di calce, montata su un semplice dispositivo a ruota e cremagliera di vetro refrattario, poteva essere introdotta nella fiamma per produrre una luce più intensa e brillante; ma al Gesuita non dispiaceva quella luce gialla, che del resto gli stessi Lithiani preferivano, e usava la luce alla calce soltanto in laboratorio.

Per certi usi, naturalmente, i Terrestri avevano bisogno dell’elettricità, e a questo scopo s’erano dovuti portare il loro generatore. I Lithiani erano molto più progrediti nell’elettrostatica dei Terrestri, ma in compenso ignoravano quasi tutto dell’elettrodinamica. Avevano scoperto il magnetismo soltanto pochi anni avanti l’arrivo del Comitato, dato che le calamite naturali erano sconosciute sul pianeta. Avevano osservato questo fenomeno per la prima volta non nel ferro, non possedendone quasi, ma nell’ossigeno liquido, sostanza molto difficile a utilizzarsi nella costruzione di un generatore!

I risultati, nelle applicazioni della civiltà lithiana, erano peculiari, agli occhi di un Terrestre. Quegli esseri simili a rettili alti quattro metri, o quasi, avevano costruito numerosi generatori elettrostatici di grandi dimensioni, e miriadi di piccoli, ma non avevano nulla che assomigliasse da vicino o da lontano a un telefono. Sapevano molte cose, dal punto di vista pratico, sull’elettrolisi, ma trasportare una corrente a grande distanza (anche un chilometro e mezzo) sembrava loro un vero prodigio tecnico. Non avevano motori elettrici, secondo l’accezione terrestre, ma erano capaci di eseguire voli intercontinentali con apparecchi a reazione azionati dall’elettricità statica. Cleaver sosteneva di capire come fosse possibile realizzare na simile impresa, ma Ruiz-Sanchez non lo capiva davvero, e dopo la descrizione fattagli da Cleaver (plasma elettroionici riscaldati da induzione a radio-frequenza) si era accorto di essere più all’oscuro di prima.

Possedevano una rete meravigliosa di radiotrasmittenti, che, tra l’altro, forniva al pianeta intero un sistema di navigazione «viva» imperniato (e qui stava forse la prova più impressionante del genio lithiano per il paradosso) su di un albero. Tuttavia, non erano mai riusciti a produrre una normale valvola termoionica, e la loro teoria atomica non andava più in là di quel che fosse stata la teoria atomica di Democrito!

Questi paradossi naturalmente si spiegavano in parte con la mancanza su Lithia di certe materie. Come ogni altra grande massa in rotazione, Lithia aveva un suo campo magnetico, ma un pianeta quasi del tutto privo di ferro non offre ai suoi abitanti le migliori condizioni per giungere alla scoperta del magnetismo. La radioattività era praticamente sconosciuta su Lithia fino all’arrivo dei terrestri, cosa che spiegava la pochezza delle sue teorie atomiche. Come i Greci, i Lithiani avevano scoperto che la frizione di un pezzo di seta contro un altro di vetro produce una specie di energia o carica, e la frizione della seta con l’ambra un’altra. A partire da questo punto, erano arrivati ai generatori Van de Graaf, all’elettrochimica e al motore a reazione basato sull’elettricità statica, ma senza materiali adatti erano stati incapaci di creare accumulatori al piombo, o di far più che studiare l’elettricità in movimento.

Nei campi in cui avevano beneficiato di indizi sufficienti avevano compiuto enormi progressi. Malgrado la costante nebulosità del cielo e la continua acquerugiola, la loro astronomia descrittiva era notevole, grazie alla presenza di una piccola luna che aveva attirato la loro attenzione verso lo spazio. Ciò a sua volta aveva permesso di fare progressi considerevoli nel campo dell’ottica e, per conseguenza, di acquistare una prodigiosa specializzazione nell’arte di lavorare il vetro. La loro chimica aveva tratto pieno vantaggio tanto dagli oceani quanto dalle giungle. Dagli oceani estraevano prodotti vari, come l’agar, lo iodio, sali metallici e numerose forme di sostanze commestibili. Le giungle, poi, fornivano quasi ogni altra cosa di cui abbisognassero: resine, caucciù, legname d’ogni grado di durezza, oli commestibili e industriali, grassi vegetali, corde e altre fibre, noci e frutti d’ogni genere, tannino, tinture, medicamenti, sughero, carta. Il solo prodotto della foresta che essi non utilizzassero era la selvaggina, e per ragioni difficili a comprendersi. A Padre Ruiz-Sanchez, il motivo era parso essere religioso, ma i Lithiani non avevano religione alcuna e si nutrivano di numerose creature marine senza il minimo scrupolo di coscienza.

Con un sospiro, il Gesuita si lasciò cadere la tuta sulle ginocchia, sebbene il dente dalla forma di pop-corn non avesse ancora ritrovato, dopo un certo lavoro di forbici, il suo aspetto primitivo. Fuori, nell’oscurità densa di umidità, Lithia dava il suo concerto notturno. Era un brusio vivo, fresco, insolito, che occupava quasi tutto lo spettro sonoro che un Terrestre potesse udire. Proveniva dalle miriadi d’insetti del pianeta. Molti di questi emettevano suoni trillanti, armoniosi, un po’ come il cinguettio degli uccelli. Cosa fortunata, in un certo senso, dato che su Lithia non esistevano uccelli.

Ruiz-Sanchez si chiese se il Paradiso Terrestre non avesse echeggiato di suoni come quelli, prima che lo spirito del male si diffondesse sul mondo. In verità, il suo Perù natio non cantava una simile canzone…

I dubbi di coscienza: questo era, in definitiva, il suo vero lavoro, più che non i labirinti della biologia sistematica, che già erano intricati in modo quasi insolubile sulla Terra, ancor prima che fosse giunto il volo interstellare ad aggiungere con ogni nuovo pianeta un nuovo strato di labirinti, e una nuova dimensione di labirinti con ogni nuova stella. Sì, era interessante sapere che i Lithiani erano bipedi discendenti da una specie affine ai rettili terrestri, muniti di marsupi e di un sistema circolatorio pteropside; ma era vitale che avessero dubbi di coscienza, sempre che ne avessero.

Il suo sguardo cadde sul calendario. Era un calendario «artistico» che Cleaver aveva tratto dal suo bagaglio appena arrivato su Lithia; e la ragazza seminuda che lo illustrava era divenuta pudica senza averne l’intenzione, sotto le grandi macchie di umidità arancione. Segnava la data del 19 aprile 2049. Quasi Pasqua… e ciò costituiva il modo più adatto per ricordargli come, rispetto alla vita interiore, il corpo fosse soltanto un abito. Ma per Ruiz-Sanchez, personalmente, anche l’anno era altrettanto importante perché l’anno successivo, il 2050, sarebbe stato un Anno Santo.

La Chiesa aveva ristabilito l’antico costume (riconosciuto per la prima volta ufficialmente nel 1300 dal pontefice Bonifacio III) di proclamare il Grande Perdono una volta ogni mezzo secolo. Se Ruiz-Sanchez non avesse potuto trovarsi a Roma l’anno seguente, quando si fosse aperta la Sacra Porta, non l’avrebbe vista aprirsi mai più in vita sua.

Sbrigati, sbrigati! gli mormorava all’orecchio un suo demonietto personale. O si trattava della voce della sua coscienza? Erano dunque così pesanti i suoi peccati (peccati ch’egli ancora non conosceva) da condurlo al mortale bisogno del pellegrinaggio? O si trattava, viceversa, di una tentazione, veniale, a peccare d’orgoglio?

Fosse come fosse, non poteva affrettare troppo il suo lavoro. Era venuto con gli altri tre uomini su Lithia per stabilire se il pianeta fosse adatto come scalo della Terra, senza il rischio di effetti dannosi tanto per i terrestri quanto per i Lithiani. Gli altri tre membri della Commissione erano fondamentalmente degli scienziati, come lo era Ruiz-Sanchez; ma lui sapeva che in definitiva la sua decisione sarebbe dipesa più dalla sua coscienza che dalle classificazioni biologiche.

E, come la creazione, la coscienza non può fare le cose in fretta.

Non la si può nemmeno pianificare in base a orari e progetti.

Abbassò lo sguardo sulla tuta ancora da riparare, con aria turbata, e rimase così fino al momento in cui udì Cleaver gemere fioco. Poi si alzò e lasciò la stanza alle fiammelle sulla parete, che sibilavano piano.

CAPITOLO SECONDO

Dalla finestra, ovale, posta sulla facciata della casa dove Cleaver e Ruiz-Sanchez erano sistemati, si vedeva il terreno allontanarsi digradando con insidiosa dolcezza verso la linea indistinta della costa meridionale della Baia Inferiore, compresa nel Golfo di Sfath. Come quasi tutte le linee costiere di Lithia, il terreno era costituito in massima parte da acquitrini salmastri. Con l’alta marea la pianura era ricoperta fino a mezza via dalla casa da circa un metro d’acqua. A marea bassa, come quella sera, la sinfonia della giungla era accresciuta dai lugubri latrati di una sorta di pesci polmonati o dipnoi, spesso a gruppi d’una ventina per volta. Occasionalmente quando la piccola luna appariva piena nel cielo e le luci della città erano particolarmente fulgide, si poteva vedere la sagoma saltellante di qualche anfibio o il procedere sinuoso di un coccodrillo lithiano all’inseguimento di una preda più veloce di lui, ma che nondimeno sarebbe riuscito a catturare, prima o poi.

Più lontano (e di solito invisibile, anche durante il giorno, a causa della foschia dilagante) c’era l’altra costa della Baia Inferiore, che cominciava essa pure con pianure paludose, per poi continuare, al di là degli acquitrini, con la giungla che si spingeva a settentrione per centinaia e centinaia di chilometri, fino al mare equatoriale.

Dietro la casa, e visibile dalla finestra della camera da letto, si stendeva il resto della città, Xoredeshch Sfath, capitale del grande continente australe. Come la maggior parte delle città lithiane, la sua caratteristica che più colpiva un terrestre, era che essa pareva, per così dire, non esserci affatto. Le dimore lithiane erano basse e costruite con la terra ricavata dagli scavi per le fondamenta, così che sembravano essere tutt’uno col terreno circostante, anche agli occhi di un attento osservatore.

Molti degli edifici più antichi avevano forma rettangolare, ed erano costruiti in blocchi di terra pressata, senza calce. Con il passare dei decenni, i blocchi si assestavano e indurivano, e infine era più semplice lasciare inoccupato un edificio che più nessuno voleva, anziché demolirlo. Una delle prime disillusioni dei terrestri su Lithia era nata quando Agronski si era incautamente offerto di radere al suolo un tale edificio col TDX: un esplosivo polarizzato rispetto alla forza di gravità, sconosciuto ai Lithiani, che aveva la proprietà di esplodere lungo un piano orizzontale e che tagliava i profilati d’acciaio come burro. Il magazzino in questione, però, era grande, munito di pareti assai spesse, e aveva tre secoli lithiani (312 anni terrestri). L’esplosione si era svolta con uno schianto che aveva assai turbato i Lithiani, ma una volta spentasi l’eco, il magazzino era ancora in piedi, intatto.

Gli edifici più nuovi erano più appariscenti quando splendeva il sole: soltanto negli ultimi cinquant’anni i Lithiani avevano preso ad applicare all’edilizia le loro vastissime conoscenze sulla lavorazione delle sostanze ceramiche. Le nuove case assumevano migliaia di forme fantastiche — quasi biologiche, veniva voglia di dire — le quali, pur non essendo del tutto amorfe, non erano neppure uguali ad altre forme conosciute; ricordavano forse le costruzioni di sogno del pittore terrestre Dali, fatte con materiali come i fagioli bolliti. Ciascuna era unica, secondo il gusto del proprietario, eppure tutte partecipavano alle caratteristiche della comunità della terra dove erano nate. Anche queste case si confondevano perfettamente con il fondale del terreno e della giungla, ma molte di esse erano smaltate, e luccicavano in modo quasi accecante, per brevi momenti, nelle giornate di sole, quando la luce e l’angolo d’osservazione erano esattamente allineati. Queste macchie ondeggianti di luce, viste dall’alto, avevano indicato ai terrestri dove cercare la vita intelligente nascosta nella sterminata giungla lithiana. (Quanto al fatto che vi fosse vita intelligente sul pianeta, nessuno ne aveva mai dubitato; i tremendi impulsi radio emanati dal pianeta lo rivelavano anche a distanze astronomiche.)

Dalla finestra della camera da letto, Ruiz-Sanchez lanciò un’occhiata verso la città, almeno per la decimillesima volta, mentre si avvicinava all’amaca di Cleaver. Xoredeshch Sfath era per lui una cosa viva: non assumeva mai due volte lo stesso aspetto. La trovava stranamente affascinante. E singolarmente diversa: le città della Terra erano molto diverse tra loro, certo, ma nessuna di esse le assomigliava.

Ruiz-Sanchez esaminò il polso e la respirazione di Cleaver: tutt’e due erano troppo accelerati, anche per Lithia, dove l’alto tenore di anidride carbonica elevava l’acidità del sangue dei terrestri e stimolava i loro riflessi respiratorii. Il Gesuita ritenne comunque che Cleaver non corresse gravi pericoli finché il suo consumo d’ossigeno fosse rimasto all’attuale livello. Per il momento dormiva profondamente, anche se non pacificamente, e non gli avrebbe fatto male essere lasciato solo per un po’.

Certo che se un allosauro selvaggio avesse fatto irruzione nella città… ma era un’eventualità così inverosimile come quella di un elefante in libertà nel centro di Nuova Delhi. Una cosa che poteva accadere, ma che non accadeva mai. E non c’erano, su Lithia, altri animali pericolosi capaci di penetrare in una casa, se questa era chiusa. Nemmeno i ratti (o per meglio dire quegli innumerevoli esseri simili ai Monotremi che ne erano l’equivalente lithiano) potevano infestare quelle case dalle pareti di porcellana.

Ruiz-Sanchez cambiò la caraffa d’acqua fresca nella piccola nicchia presso l’amaca e, tornato nel vestibolo, calzò stivali, impermeabile e cappello da pioggia. Quando aprì la porta di pietra, i rumori notturni di Lithia gli vennero incontro insieme con una folata d’aria marina impregnata di quel caratteristico odore di alogeni che viene detto «odore salmastro». Cadeva una lievissima pioggia, che determinava degli aloni intorno alle luci di Xoredeshch Sfath. In lontananza, sul mare, si vedeva un’altra luce: in movimento, questa. Con ogni probabilità era il battello a ruote che faceva rotta, lungo la costa, per Yllith, l’enorme isola che si stendeva attraverso tutta la Baia Superiore e separava il Golfo di Sfath dal mare equatoriale.

Fuori, Ruiz-Sanchez girò la ruota che sbarrava dall’esterno la porta, facendo uscire delle spranghe su tutta la sua periferia. Poi, trattosi dalla tasca dell’impermeabile un pezzo di gesso, tracciò sulla tavoletta adibita a quell’uso i simboli lithiani che significavano: «Malato in casa». Sarebbe bastato. Chiunque lo avesse desiderato, poteva aprire la porta, semplicemente girando la ruota (i Lithiani non avevano il concetto delle chiavi e delle serrature) ma i Lithiani erano anche creature supremamente sociali, che rispettavano le loro convenzioni come rispettavano le leggi naturali.

Dopo di che, Ruiz-Sanchez si diresse verso il centro della città e l’Albero Messaggero. L’asfalto della strada rispecchiava le luci gialle delle case e quelle bianche dei lampioni, posti a intervalli regolari. Ogni tanto incontrava un Lithiano alto quattro metri, simile a un canguro, e tra di loro correvano sguardi di reciproca curiosità, ma non c’erano molti Lithiani fuori di casa a quell’ora: la sera amavano starsene in casa, dediti ad attività la cui natura sfuggiva al Gesuita. Talvolta li scorgeva, ora isolati, ora a gruppi, muoversi dietro le finestre ovali delle case davanti alle quali stava passando. Alcuni avevano tutta l’aria di parlare.

Di che mai potevano parlare?

Era un quesito interessante. I Lithiani ignoravano il delitto, i giornali, non avevano sistemi di comunicazione fra le case, né arti nettamente differenziate dalle loro industrie, né partiti politici; erano loro parimenti sconosciuti pubblici divertimenti, nazioni, giuochi; non avevano religione, sport, culti, celebrazioni varie. Ciò nonostante non potevano trascorrere ogni minuto della loro vita a scambiarsi cognizioni, a parlare di filosofia e di storia o a fare progetti per l’avvenire! O forse sì? Forse, pensò d’improvviso Ruiz-Sanchez, una volta entrati in quelle loro case simili a vasi di porcellana, i Lithiani piombavano nell’inerzia, come tante acciughe in barile! Ma, proprio mentre formulava questo pensiero, il sacerdote superò un’altra casa, e vide le loro figure muoversi avanti e indietro…

Un refolo di vento gli cosparse il volto di goccioline fredde. Automaticamente, affrettò il passo. Se quella notte ci fosse stato vento, numerosi messaggi sarebbero giunti e partiti dall’Albero Messaggero. Questo ora torreggiava su di lui; era una specie di sequoia gigante, ritta presso l’imboccatura della valle del fiume Sfath, la valle che attraverso numerosi meandri si spingeva fin nel cuore del continente, là dove il Lango di Sangue, o Gleshchtehk Sfath, rigurgitava i suoi torrenti massicci.

Sotto la pressione dei venti che soffiavano lungo la valle, l’Albero si piegava e ondeggiava, appena un po’, ma quel poco bastava. Ad ogni movimento, il sistema delle sue radici, che si estendevano sotto l’intera città, esercitava trazioni e distorsioni nel massiccio cristallino, ormai sepolto, su cui era stata fondata la città, così addietro nella preistoria lithiana come lo era sulla Terra la fondazione di Roma. Ad ognuna di queste pressioni, il massiccio sepolto rispondeva con una vasta pulsazione cardiaca di onde radio: pulsazione intercettabile non solo su Lithia, ma anche a grande distanza nello spazio. I quattro membri del Comitato avevano avvertito le pulsazioni a bordo della loro astronave, quando Alpha arietis, il sole di Lithia, non era ancora che un minuscolo punto di luce, e si erano guardati l’un l’altro, smarrendosi nelle congetture più svariate.

Quelle pulsazioni, tuttavia, non erano altro che rumore. Come i Lithiani riuscissero a modularle per trasmettere messaggi (e non solo messaggi, ma anche la straordinaria rete di navigazione, insieme con un sistema di segnalazione del tempo su scala planetaria e molte altre cose) era un problema così lontano dalla comprensione di Ruiz-Sanchez come poteva esserlo la teoria delle trasformazioni affini insegnata dalla matematica superiore, anche se Cleaver diceva che si trattava di cosa straordinariamente semplice, una volta che la si fosse capita. Aveva a che fare con la fisica dei semiconduttori e dello stato solido: due campi in cui (sempre a quanto affermava Cleaver) i Lithiani erano molto più progrediti dei Terrestri.

Per un’improvvisa associazione d’idee che lo sorprese per un momento, gli venne in mente l’attuale massimo esponente terrestre della teoria delle trasformazioni affini, un uomo che firmava le sue relazioni «H.O. Petard», anche se il suo vero nome (appena più verisimile, del resto) era Lucien Le Comte des Bois d’Averoigne. Ruiz-Sanchez si accorse subito che quell’associazione d’idee non era poi così fortuita come gli era parso dato che Le Comte era un clamoroso esempio dell’alienazione quasi totale della fisica moderna dalle abituali esperienze fisiche dell’umanità. Il suo titolo non era realmente una patente di nobiltà, ma semplicemente una parte del suo nome, conservatosi nella sua famiglia anche molto tempo dopo che il sistema politico che aveva concesso il titolo era scomparso dalla faccia della terra, vittima della divisione del pianeta fra le varie economie dei Rifugi. E il nome stesso rifletteva più onore che il titolo, poiché il conte aveva pretese a una grandeur ereditaria che risaliva fino all’Inghilterra del tredicesimo secolo e a quel Lucien Wycham che era stato autore del Libro di Magie.

Certo, un’eredità legata ad alte cariche ecclesiastiche, ma il moderno Lucien — un cattolico passato all’ateismo — era anche una figura politica, almeno entro i limiti in cui l’economia dei Rifugi offriva rifugio a questo genere di figure; egli aveva l’ulteriore titolo di Procuratore di Canarsie: anche questo un titolo che, a capo di una brevissima riflessione, si rivelava essere un’assurdità, ma che nondimeno lo gratificava di una sua piccola rendita sotto forma di dispensa dal lavoro quotidiano. Il pianeta Terra, affetto da divisioni intestine e profondamente interratosi, era pieno di diciture come questa, incollate su grandi somme di denaro che non sapevano dove andare, ora che la speculazione era morta e il possesso di loro azioni era l’unico modo con cui un cittadino ordinario poteva esercitare un controllo sulle riserve in cui viveva. I detentori di grandi fortune rimasti non avevano altri sbocchi se non quello di consumarle in modi appariscenti, sprecandole su una tale scala di grandezza che lo stesso Veblen non avrebbe saputo trovarne un’altra, ad essa pari, nel passato. Se infatti questi grandi proprietari avessero cercato di esercitare una qualche influenza sull’andamento dell’economia, la loro classe sarebbe stata immediatamente abbattuta: se non dagli azionisti, allora dai cupi difensori delle ormai indifendibili città Rifugio.

Con tutto ciò, non che il conte fosse una sorta di parassita ozioso. Negli ultimi tempi, aveva fatto parlare di sé per certi suoi interventi esoterici nelle equazioni di Haertel: quella descrizione del continuo spazio-temporale che, mangiandosi la contrazione Lorentz-Fitzgerald esattamente come Einstein si era mangiato Newton (cioè, in un boccone) aveva reso possibile il volo intersiderale. Ruiz-Sanchez non ne aveva mai capito una parola, ma, si disse con un sorriso, senza dubbio doveva trattarsi di una cosa semplicissima, appena uno l’avesse capita.

Quasi ogni conoscenza, dopo tutto, rientrava in questa categoria. O era semplicissima appena la si fosse capita, o apparteneva alla fantasia. Da buon Gesuita (Gesuita anche qui, a cinquanta anni luce da Roma) Ruiz-Sanchez sapeva sulla conoscenza qualcosa che Lucien Le Comte des Bois d’Averoigne aveva dimenticato e che Cleaver non avrebbe imparato mai: che ogni conoscenza passa per due fasi: l’annunciazione, quando da semplice rumore essa si trasforma in fatto, e la disintegrazione, quand’essa si trasforma di nuovo in rumore. Il processo che portava dall’una all’altra fase consisteva in una creazione di distinzioni sempre più sottili; l’esito, in una serie infinita di catastrofi per le successive teorie che si andavano formulando.

Il residuo era la fede.


Ritto come un uovo sull’estremità più grossa, l’alto salone dal tetto a cupola, ricavato dalla base stessa dell’Albero Messaggero, ronzava di vita, quando Ruiz-Sanchez vi entrò. Sarebbe stato difficile, tuttavia, immaginare qualcosa di più lontano da un normale ufficio postale terrestre.

Intorno alla circonferenza della base dell’uovo si notava un continuo andirivieni di altissime figure: i Lithiani entravano e uscivano dai numerosi accessi privi di porte, cambiando posto in quel turbine di movimento come elettroni passanti da un’orbita all’altra. Malgrado il numero, le loro voci erano così sommesse che il prete poteva sentire, frammisto al loro mormorio, il fruscio del vento fra i rami dell’Albero a grande altezza sopra il suo capo.

La faccia interna di quell’anello di sagome semoventi era limitata da una specie di rampa di legno nero, polito, ricavata nel tronco stesso dell’Albero. Dall’altra parte di questa divisione, che ricordava irresistibilmente a Ruiz-Sanchez la divisione d’Encke negli anelli di Saturno, una cerchia minuscola di Lithiani riceveva e distribuiva i messaggi, con calma, senza interrompersi un istante, senza mai commettere un errore (almeno, a giudicare dal modo in cui l’altra cerchia continuava nel suo moto) e senza visibile sforzo, affidandosi unicamente alla memoria. Ogni tanto, uno di questi specialisti lasciava la sua cerchia e si avvicinava a uno dei tavoli sparsi sul pavimento in leggero pendio, per conferire col suo occupante. Poi ritornava alla rampa nera. Talvolta invece restava al tavolo, il cui occupante andava in sua vece alla rampa.

Il pavimento era in pendio, così da formare una specie d’imbuto, e in fondo all’imbuto se ne stava ritto un vecchio Lithiano, isolato, le mani tenute a coppa sulle anse auricolari, immediatamente dietro le grandi mascelle, gli occhi ricoperti dalla loro sottile membrana, specie di palpebra nittitante, con esposte soltanto le fosse nasali e quelle post-nasali, sensibili al calore. Il vecchio non parlava a nessuno e nessuno lo consultava, ma la sua immobilità assoluta era evidentemente la sola ragione dei torrenti e contro-torrenti di individui che affluivano lungo l’anello esterno.

Ruiz-Sanchez si fermò, stupefatto. Non era mai venuto prima d’ora all’Albero Messaggero (comunicare con Michelis e Agronski, i due altri Terrestri su Lithia, era stato fino a quel momento uno dei compiti di Cleaver) e si accorse di non avere la più pallida idea di quel che dovesse fare. La scena che si svolgeva sotto i suoi occhi faceva pensare più all’interno di una Borsa che a un centro di comunicazioni. Pareva incredibile che un così gran numero di Lithiani potesse avere messaggi personali urgenti da trasmettere ogni qual volta il vento soffiava; eppure pareva altrettanto improbabile che i Lithiani, con la loro economia stabile, basata sull’abbondanza, avessero qualcosa di equivalente a una Borsa per lo scambio di merci o di titoli azionari.

Non sembrava esservi altra soluzione che spingersi avanti, cercar di raggiungere la rampa di legno nero, e pregare uno dei Lithiani che si trovavano dall’altra parte di cercar di mettersi in comunicazione con Agronski o Michelis. Tutt’al più, si disse, potevano rifiutarsi di aiutarlo; oppure poteva non riuscire ad avere la comunicazione. Trasse un profondo respiro.

In quell’istante, il suo braccio sinistro fu preso nella stretta d’una mano salda a quattro dita, che gli teneva senza difficoltà tutto il braccio, dal gomito alla spalla. Per la sorpresa, emise tutto il respiro che aveva appena accumulato, poi si volse e vide la testa altissima di un Lithiano, china sollecitamente su di lui. Sotto la lunga bocca a forma di tagliola, i bargigli della creatura avevano una tinta acquamarina delicata e curiosa, in contrario con la cresta vestigiale, che era d’uno zaffiro argenteo, percorso da vene fuchsia.

— Voi siete Ruiz-Sanchez — disse il Lithiano nella sua lingua, in cui il nome del Gesuita, a differenza dei suoi compagni, si pronunciava abbastanza facilmente. — Vi ho riconosciuto dalla tonaca.

Ma era stato un puro caso. Ogni terrestre uscito sotto la pioggia con indosso l’impermeabile sarebbe stato preso per Ruiz-Sanchez, perché il sacerdote era l’unico terrestre che dava l’impressione, ai Lithiani, di indossare lo stesso tipo di abito in casa e fuori.

— Infatti, lo sono — rispose Ruiz-Sanchez con una punta d’apprensione.

— Io sono Chtexa, il metallurgista venuto recentemente a consultarvi su problemi di chimica, di medicina, e sulla vostra missione qui, oltre ad altre cose di minor importanza.

— Oh, sì. Sì, naturalmente. Avrei dovuto riconoscervi dalla cresta.

— Troppo onore. Non vi abbiamo mai visto qui, in precedenza. Desiderate parlare con l’Albero?

— Sì — rispose il Gesuita, con gratitudine. — In effetti sono nuovo a queste cose. Potreste dirmi quello che devo fare?

— Volentieri, ma non vi servirebbe a niente — rispose Chtexa, piegando il capo in modo che le sue pupille d’un nero inchiostro si trovassero a fissare direttamente gli occhi di Ruiz-Sanchez. — Occorre avere praticato il rito, che è molto complesso, fino a che non sia diventato un’abitudine. Noi ci siamo cresciuti in mezzo, ai nostri riti, ma io temo che vi manchi la coordinazione necessaria ad eseguirlo al primo tentativo. Se posso, in vece vostra, trasmettere il vostro messaggio…

— Ve ne sarei obbligatissimo. È per i nostri colleghi Agronski e Michelis. Si trovano a Xoredeshch Gton, sul continente nord-orientale, a circa 32 gradi Est, 32 gradi Nord…

— Sì, è il secondo segno di riferimento topografico allo sbocco dei piccoli Laghi, è la città dei vasai, la conosco bene. E che cosa volete comunicare?

— Che devono raggiungerci immediatamente qui, a Xoredeshch Sfath. E che il nostro soggiorno a Lithia è quasi terminato.

— Sebbene sia per me, questa, una notizia spiacevole, la trasmetterò ugualmente — disse Chtexa.

Il Lithiano con un balzo si mescolò al turbine di visitatori, lasciandosi dietro Ruiz-Sanchez, a congratularsi con la sua previdenza che lo aveva indotto a studiare il difficilissimo linguaggio Lithiano. Due dei quattro membri della Commissione avevano rivelato una lamentevole mancanza d’interesse per quella lingua parlata in tutto il pianeta. «Che imparino loro l’inglese» era stato il commento inconsapevolmente classico di Cleaver. Ruiz-Sanchez era stato poco favorevole ad approvare questo punto di vista in quanto la sua lingua materna era lo spagnolo, e in quanto delle cinque lingue straniere che parlava correntemente, l’Alto Tedesco Occidentale era quella che preferiva.

Quanto ad Agronski, il suo atteggiamento era stato sensibilmente più sofisticato. Non che, aveva detto, il Lithiano fosse troppo difficile a pronunciarsi — non era certo più difficile del russo o dell’arabo — ma, in fin dei conti, «è impossibile afferrare i concetti che si nascondono dietro una lingua realmente estranea. Almeno nel poco tempo che dobbiamo passare qui.»

A questi due punti di vista Michelis non aveva mosso nessuna obiezione, ma, con tutta semplicità, s’era messo a studiare la lingua, per imparare almeno a leggerla; e se fosse riuscito poi a parlarla, non ne sarebbe rimasto sorpreso, e tanto meno i suoi colleghi. Era lo stile inconfondibile di Michelis, empirico e nello stesso tempo approfondito. Per quanto riguardava gli altri due modi di affrontare la questione, Ruiz-Sanchez, in cuor suo, pensava che fosse quasi un delitto permettere che degli uomini inviati su un nuovo pianeta per stabilire un primo contatto lasciassero la Terra con degli atteggiamenti mentali così campanilistici. Per comprendere una nuova civiltà, il linguaggio è l’essenziale: se non si comincia dalla lingua, Dio solo sa dove si potrebbe cominciare.

Quanto poi alla predilezione di Cleaver di chiamare i Lithiani «Serpenti», l’opinione che ne aveva Ruiz-Sanchez era tale che l’avrebbe rivelata, e a stento, solo al suo lontano confessore.

Alla luce, poi, di quel che accadeva sotto i suoi occhi in quel salone a forma d’uovo, che poteva pensare Ruiz-Sanchez della condotta di Cleaver nella sua qualità di responsabile delle comunicazioni in seno al Comitato? Egli non aveva potuto certo né trasmettere né ricevere messaggio alcuno tramite l’Albero, come invece aveva dichiarato di aver fatto. Probabilmente non si era mai avvicinato all’Albero più di quanto non si fosse avvicinato, ora, lo stesso Ruiz-Sanchez.

Naturalmente era ovvio che fosse stato in contatto con Agronski e Michelis con qualche mezzo, ma doveva essere stato un mezzo privato: un apparecchio radio trasmittente nascosto nei suoi bagagli, o… ma no, questo non era possibile. Sebbene fosse tutt’altro che un fisico, Ruiz-Sanchez respinse immediatamente questa soluzione; aveva pur sempre un’idea, anche se vaga, delle difficoltà che si sarebbero incontrate utilizzando una radio portatile in un mondo come Lithia, spazzato ininterrottamente su tutte le lunghezze d’onda dalle tremende pulsazioni che l’Albero strappava al massiccio cristallino. Il problema cominciava a preoccuparlo seriamente.

E a un tratto Chtexa fu di ritorno, riconoscibile più che per qualche particolarità anatomica (i suoi bargigli, ora, avevano la stessa tinta scarlatta di quasi tutti gli altri Lithiani della folla) per il fatto che si precipitava sul terrestre.

— Ho inviato il vostro messaggio — disse subito. — È stato registrato a Xoredeshch Gton. Ma gli altri terrestri non ci sono più. Non sono più nella città da parecchi giorni.

Era impossibile. Non più tardi del giorno prima, Cleaver aveva detto di aver parlato con Michelis.

— Ne siete sicuro? — domandò prudentemente.

— Sicurissimo. La casa che abbiamo dato loro è vuota. Le molte cose che essi vi hanno portato non ci sono più. — La grande creatura fece con la mano a quattro dita un gesto come di scusa, prima di soggiungere: — Penso che questa sia una risposta sgradevole per voi. Mi dolgo di dovervela portare. Le parole che mi rivolgeste la prima volta che ci incontrammo erano piene di buone notizie.

— Grazie. Ma non preoccupatevi — disse Ruiz-Sanchez. — Nessuno può tenere responsabile di una risposta il latore della stessa.

— Anche il latore ha le sue responsabilità, almeno, questo è il nostro costume — disse Chtexa. — Nessun atto è interamente libero. E secondo il nostro punto di vista, voi avete perduto qualcosa, a causa della mia comunicazione. Le vostre parole sul ferro si sono rivelate piene d’informazioni preziose. Sarei estremamente lieto di potervi mostrare il modo in cui abbiamo saputo servircene, dato soprattutto che in cambio vi ho portato una cattiva notizia. Se voleste dividere la mia casa questa sera, senza pregiudizio per il vostro lavoro, potrei parlarvi dell’argomento. È possibile?

Ruiz-Sanchez soffocò la sua improvvisa eccitazione. Ecco la prima occasione, finalmente, di vedere qualcosa della vita privata dei Lithiani e attraverso di essa, forse, di avere qualche indizio della vita morale, della parte che Dio aveva assegnato ai Lithiani nell’eterno dramma del male e del bene, in passato e nei tempi a venire. Fino a quando egli non avesse saputo qualcosa di ciò, avrebbe potuto pensare che i Lithiani nel loro Paradiso Terrestre fossero buoni solo d’una bontà spuria: solamente basati sulla ragione, solamente delle macchine pensanti costituite di materia organica, tanti ULTIMAC forniti di coda… e privi di anima.

Restava tuttavia il triste fatto di aver lasciato, solo in casa, un uomo malato. Non c’erano molte probabilità che Cleaver si svegliasse prima del mattino seguente: gli aveva somministrato quasi quindici miligrammi di sedativo per ogni chilo di peso del suo corpo. Ma i malati, come i bambini, hanno reazioni che sfidano ogni regola. Se la massiccia carcassa di Cleaver avesse respinto quella dose, in forza di qualche crisi anafilattica impossibile a dominarsi in una fase così precoce della malattia, avrebbe necessitato di un’assistenza immediata. O almeno avrebbe sentito il bisogno di udire il suono di una voce umana, su quel pianeta che egli detestava e che lo aveva colpito quasi senza accorgersi della sua esistenza.

Tuttavia, il pericolo che Cleaver correva non era grave. Certamente non aveva bisogno di un’assistenza ininterrotta, un minuto dopo l’altro. E in fin dei conti, Cleaver non era un bambino, ma un pezzo d’uomo forte e robusto, e che non disdegnava di mostrarsi tale.

Inoltre, esisteva anche una cosa chiamata eccesso di devozione: una forma di orgoglio che colpiva i pii, e la Chiesa aveva scoperto da molto tempo che era assai difficile farne loro comprendere la natura. Nel caso peggiore, questo eccesso di devozione produceva i santi da ospedale, la cui attrazione per le cose più fastidiose e nocive richiama alla mente la venerazione tributata da talune sette Hindi agli insetti e ad altre repellenti forme di vita… o gli stiliti alla maniera di san Simone, i quali — pur essendo, senza dubbio, accetti a Dio — hanno fatto per secoli una pessima pubblicità alla Chiesa. E, in verità, Cleaver si era davvero meritato il genere di devozione che Ruiz-Sanchez si era proposto di dedicargli, almeno fino al presente momento, occupandosi di lui in quanto creatura di Dio… o, con maggior precisione, in quanto creatura che partecipava del divino?

Davanti a sé, egli aveva un intero pianeta, un intero popolo, no, meglio ancora, un intero problema teologico, una soluzione imminente al vasto e tragico enigma del peccato originale! Che dono da portare ai piedi del Santo Padre in occasione di un Giubileo, un dono infinitamente più grande, più solenne di quel che fosse stata la proclamazione della conquista dell’Everest per l’incoronazione di Elisabetta II d’Inghilterra!

Sempre che, naturalmente, questo fosse il risultato definitivo dello studio di Lithia. Sul pianeta non mancavano indizi secondo cui qualcosa di molto diverso, e temibile più d’ogni altra cosa, sarebbe potuto emergere dalle prolungate meditazioni di Ruiz-Sanchez. Nemmeno la preghiera aveva ancora avuto il potere di risolvere questo dubbio. Ma aveva il diritto, lui, di sacrificare una tale possibilità per amore di Cleaver?

Tutta una vita di meditazione su tali casi di coscienza aveva abituato Ruiz-Sanchez, al pari di molti altri brillanti membri del suo ordine, ad aprirsi rapidamente la via verso una decisione, tra i più complessi labirinti etici. Tutti i cattolici devono essere dedicati alla propria missione; ma un Gesuita deve essere, anche, agile.

— Grazie — disse con voce malferma. — Sarò molto lieto di dividere la vostra casa.

CAPITOLO TERZO

(Una voce): - Cleaver? Cleaver! Sveglia, pigrone. Cleaver! Cosa diavolo avete combitato in tutto questo tempo?

Cleaver emise un gemito e tentò di voltarsi. Al suo primo movimento, il mondo cominciò a dondolare in modo lento, nauseante. Ardeva dalla febbre. Gli pareva di avere la bocca piena di pece rovente.

— Cleaver, svegliati! Sono io, Agronski. Dov’è il Padre? Ma che cosa è successo? Perché non abbiamo più avuto vostre notizie? Attento, stai per…

L’avvertimento arrivò troppo tardi e, del resto, Cleaver non avrebbe potuto capirlo. Aveva dormito profondamente e non aveva nessuna idea della sua posizione nello spazio e nel tempo. Al movimento convulso che egli aveva fatto per sottrarsi a quella voce che gli trafiggeva l’udito, l’amaca aveva descritto un arco di 90 gradi, scodellandolo sul pavimento.

Colpì il suolo con violenza, e si prese la maggior parte del colpo sulla spalla sinistra, ma fu molto se Cleaver si accorse di qualche cosa. I suoi piedi, che non facevano ancora parte integrante del corpo, rimasero in aria, impigliati nelle maglie dell’amaca.

— Ma che diavolo?…

Udì uno scalpiccio breve, simile a un rumore di gusci di noce che cadessero su di un tetto, e poi il tonfo di qualcosa che colpiva il pavimento accanto alla sua testa.

— Cleaver, stai male? Resta fermo per un momento, giusto il tempo di liberarti i piedi. Mike… puoi accendere la luce, per favore? C’è qualcosa che non va in questa casa.

Un istante dopo, i muri si misero a brillare d’una luce giallastra, che fu in breve sostituita dalla luce bianca e cruda delle reticelle. Cleaver si coprì gli occhi con un braccio, ma inutilmente: era troppo faticoso. Il volto grassoccio e ansioso di Agronski comparve librandosi direttamente su di lui, come un pallone frenato. Cleaver non riuscì a vedere Michelis, e in quel momento la cosa non gli dispiacque. La presenza di Agronski era già abbastanza difficile a capirsi.

— Si può… sapere… che accidente… — cominciò, ma in quel momento sentì che le labbra gli si screpolavano dolorosamente agli angoli, come se fossero state incollate insieme mentre dormiva. Non aveva alcuna idea del tempo che era trascorso.

Agronski parve capire la domanda incompiuta.

— Siamo venuti dai Laghi in elicottero — disse. — Eravamo preoccupati del vostro silenzio, e abbiamo pensato che sarebbe stato meglio rientrare coi nostri mezzi, piuttosto che tornare con uno dei voli delle linee regolari, mettendo così sull’avviso i Lithiani… nel caso che qui fosse accaduto qualcosa di spiacevole.

— Piantala di frastornarlo — intervenne Michelis, apparendo improvvisamente, sulla soglia. — Lo vedi anche tu, che si è preso una malattia. Non mi piace rallegrarmi dei mali altrui, ma preferisco questo che l’ipotesi dei Lithiani.

Il chimico, alto e dal mento sporgente, aiutò Agronski a rimettere in piedi Cleaver. Questi tentò, malgrado il dolore, di aprire la bocca. Non ne uscì che una specie di gracidio roco.

— Non parlare — gli disse Michelis, con dolcezza. — Rimettiamo nell’amaca. Vorrei sapere dove è andato a finire il Padre. È il solo, qui, che possa occuparsi di un malato.

— Scommetto che è morto — esclamò Agronski con uno scoppio di voce, un’espressione di allarme sul volto. — Sarebbe qui di sicuro, se potesse. Deve essere un male contagioso, Mike.

— Peccato, non ho portato i miei guanti sterilizzati — disse Michelis seccamente. — Cerca di stare fermo, Cleaver, o ti prendo a scapaccioni. Agronski, hai fatto cadere la sua bottiglia d’acqua, farai bene ad andare a prendergliene un’altra perché ne ha bisogno. E guarda se il Padre non ha lasciato per caso nel laboratorio qualcosa che assomigli a una medicina.

Agronski uscì dal campo visivo di Cleaver e, con sua grande esasperazione, Michelis fece altrettanto. Irrigidendo tutti i suoi muscoli contro il dolore, Cleaver dischiuse le labbra ancora una volta:

— Mike…

Subito, Michelis ricomparve. Teneva tra pollice e indice un batuffolo di cotone, umido di qualche soluzione, e con questo pulì delicatamente labbra e mento di Cleaver.

— Non ti agitare. Agronski è andato a prenderti da bere. Tra poco potrai parlare. Non avere fretta.

Cleaver si rilassò un poco. Lui aveva fiducia in Michelis, ma essere costretto a lasciarsi curare come un bambino era più di quanto potesse sopportare, e due lagrime di rabbia impotente gli scorsero lentamente sulle guance. Michelis gliele asciugò con un gesto rapido, quasi distratto.

Agronski ritornò portando alcune pillole nel palmo della mano.

— Ho trovato queste — disse. — Ce ne sono delle altre in laboratorio e la pressa per pillole del Padre è ancora fuori. Ci sono anche il mortaio e il pestello, ma sono stati puliti.

— Va bene, proviamo con queste — disse Michelis. — Hai visto nient’altro?

— No. C’è però una siringa a bollire nello sterilizzatore, se ciò può rivelarti qualcosa.

Michelis sbottò in un’imprecazione breve e concisa.

— Può rivelarmi che ci deve essere la giusta antitossina in qualche angolo di questa baracca — aggiunse. — Ma, a meno che Ramon non abbia lasciato delle istruzioni, non sarà facile trovare quale sia.

Parlando, sollevò la testa di Cleaver e gli introdusse le pastiglie in bocca, sulla lingua. L’acqua che seguì le pillole era fredda al primo contatto, ma una frazione di secondo più tardi fu come fuoco liquido. Cleaver boccheggiò, e nello stesso tempo Michelis gli strinse le narici. Le pillole furono inghiottite d’un colpo.

— Nessuna traccia del Padre?

— No, nessuna, Mike. Tutto è in ordine e il suo corredo è al suo posto. Le due tute da giungla sono nell’armadio.

— Forse è andato da qualcuno — disse Michelis con aria pensosa. — Chissà quanti Lithiani ha fatto in tempo a conoscere ormai. Li aveva in simpatia.

— Con un malato da curare? No, non è da lui, Mike. Ma forse è semplicemente uscito per qualche commissione, contando di rientrare al più presto…

— Sì, e l’hanno mangiato gli orchi, perché si è dimenticato di battere per tre volte il piede in terra prima di attraversare un ponte.

— Bravo, bravo: scherzaci sopra…

— No, credimi, non sto affatto scherzando. È proprio il tipo di stupidaggine che può causare la morte di un individuo in una cultura diversa dalla sua. Però non riesco a immaginare che una cosa simile succeda proprio a Ramon.

Mike…

Michelis fece un passo e si chinò su Cleaver. Il suo volto, visto dal malato attraverso un velo di lacrime, pareva galleggiare alla deriva, staccato da tutto. Disse:

— Bene, Paul, raccontaci che cosa è successo. Ti stiamo ascoltando.

Ma era troppo tardi. La doppia dose di sedativo aveva sopraffatto Cleaver. Poté soltanto scuotere il capo, e quel movimento fece allontanare il volto di Michelis in un turbine di aloni iridati.


Ma, fatto strano, non si addormentò del tutto. Aveva già avuto quasi una normale notte di sonno, e cominciava la giornata in forza e salute. La conversazione degli altri due membri del Comitato e l’ossessiva consapevolezza della sua necessità di parlare loro prima che Ruiz-Sanchez ritornasse, contribuivano a mantenerlo, se non sveglio del tutto, almeno in uno stato di leggera trance. Inoltre, la presenza nel suo organismo di trenta grani di acido acetilsalicilico aveva notevolmente aumentato il suo consumo di ossigeno, cosa che determinava in lui non soltanto una sensazione di vertigine, ma anche una specie di precaria eccitazione emotiva. Il fatto che il combustibile che veniva bruciato per conservare quello stato di eccitazione fosse in parte il substrato proteico delle sue stesse cellule gli era ignoto, ma se anche lo avesse saputo la cosa non l’avrebbe certamente allarmato, nello stato in cui era.

Le voci continuavano a giungergli, e ad esse erano frammisti brandelli di sogni, così vicini alla superficie della sua coscienza da parere stranamente reali e nello stesso tempo assurdi e deprimenti. Negli intervalli semicoscienti egli faceva enormi quantità di progetti, tutti semplici e grandiosi a un tempo, per assumere il comando della spedizione, per comunicare con le autorità terrestri, per consegnare documenti segreti comprovanti che Lithia era inabitabile, per scavare una galleria sotto il Messico fino al Perù, per fare esplodere Lithia mediante una sola possente fusione di tutti i suoi atomi leggeri in un solo ed unico atomo di Cleaverium, l’elemento originario da cui era nato l’universo e il cui simbolo era alpha con zero…

Agronski: — Mike, vieni qui a vedere, tu che sai leggere il lithiano. Ci sono dei simboli sulla tavoletta dei messaggi, presso la porta.

(Dei passi.)

Michelis: — Dice che in questa casa c’è un malato. I segni non sono così disinvolti e abili da essere stati fatti da. un indigeno. Gli ideogrammi sono difficili a tracciarsi rapidamente, se non si ha molta pratica. Deve essere stato Ramon a scriverli.

Agronski: — Se almeno potessimo sapere dove è andato. Strano che non abbiamo visto il messaggio quando siamo arrivati.

Michelis: — Non ci vedo nulla di strano. Era buio, e non lo cercavamo.

(Passi. La porta che si chiude, senza sbattere. Rumore di passi. Scricchiolio di sedili.)

Agroski: — Be’, bisognerà cominciare a pensare al nostro rapporto. A meno che queste maledette giornate di venti ore non mi abbiano confuso del tutto, la nostra permanenza qui volge alla fine. Sei sempre dell’opinione di aprire il pianeta?

Michelis: — Sì. Non ho ancora visto nulla per convincermi che ci sia su Lithia il minimo pericolo per noi. Eccettuato forse la malattia di Cleaver, ma non credo che il Padre lo avrebbe lasciato solo, se fosse veramente grave. E non vedo come i terrestri potrebbero nuocere a questa società lithiana: troppo stabile, economicamente, emotivamente e sotto ogni altro aspetto.

(«Pericolo, pericolo» diceva qualcuno nel sogno di Cleaver. «Esploderà. È tutto un complotto clericale.» Poi tornò parzialmente desto, e si accorse di quanto gli facesse male la bocca.)

Agronski: — Secondo te, perché questi due buffoni non ci hanno mai chiamato?

Michelis: — Non ne ho la minima idea. E non voglio farmela se non quando avremo parlato con Ramon. O quando Paul non sia in grado di mettersi a sedere e di accorgersi della nostra presenza.

Agronski: — Non mi piace l’aria che tira, Mike. Questa città si trova esattamente nel cuore della rete di comunicazione di tutto il pianeta: è proprio per questo che l’abbiamo scelta, per tutti i diavoli! E ciò nonostante, nemmeno una parola, Cleaver malato, il Padre scomparso… Il fatto è che ci sono un mucchio di cose che non sappiamo ancora di Lithia, questo è quanto.

Michelis: — Anche del Brasile centrale c’è un mucchio di cose che tuttora non sappiamo, per non parlare di Marte o della Luna.

Agronski: — Nulla d’essenziale, Mike. Quello che sappiamo della periferia del Brasile ci dà tutte le informazioni che ci occorrono sull’interno… perfino informazioni sui pesci che mangiano la gente, come diavolo si chiamato, i pirana. Ma per Lithia è diverso. Non sappiamo se le informazioni periferiche che possediamo siano pertinenti, o se si tratti di osservazioni accidentali. Qualche cosa di enorme potrebbe essere nascosto sotto la superficie, senza che noi si possa scoprirlo.

Michelis: — Agronski, piantala di parlare come il supplemento domenicale di un quotidiano. Sottovaluti la tua stessa intelligenza. Quale specie di enorme segreto potrebbe esserci? Che i Lithiani sono antropofagi? Che sono capi di bestiame riservato ai pasti di divinità ignote, viventi nella giungla? O che siano invece super-esseri sotto mentite spoglie, capaci di far compiere voltafaccia alle anime, lavare i cervelli, fermare i cuori, congelare il sangue, strappare le viscere? Nello stesso istante in cui tenti di dare corpo a un’ipotesi del genere, non puoi fare a meno di respingerla in quanto assurda: è una paura che può allarmarti soltanto in astratto. Non c’è bisogno neppure di esaminarla, né di studiare un piano per affrontarla se dovesse risultare vera.

Agronski: — D’accordo, ma per il momento preferisco lasciare in sospeso il mio giudizio. Se risulterà che tutto è a posto, qui, e intendo alludere a Cleaver e al Padre, probabilmente mi schiererò dalla tua parte. Non ho nessuna ragione valida per votare contro questo pianeta, lo ammetto.

Michelis: — Meglio così. Sono certo che Ramon è favorevole all’apertura del pianeta, così che il nostro voto sarà unanime. Non vedo quali obiezioni potrebbe sollevare Cleaver.

(Cleaver stava testimoniando davanti a un tribunale riunito nella sala dell’Assemblea Generale dell’ONU a New York, con un dito puntato drammaticamente, ma con più rammarico che trionfo, su Ramon Ruiz-Sanchez, della Compagnia di Gesù. Al suono del suo nome, il sogno svanì ed egli si accorse che c’era un po’ più di luce nella stanza. L’alba, o per meglio dire il succedaneo umido e grigiastro che ne faceva le veci su Lithia, stava sorgendo. Si chiese che cosa avesse potuto dire alla corte dell’ONU. I suoi argomenti erano stati decisivi e convincenti, abbastanza buoni da poter venire usati anche da sveglio; ma non riusciva a ricordarne una sola parola. Gliene restava soltanto una sensazione, quasi il gusto delle parole, ma nulla della loro sostanza.)

Agronski: — Si sta facendo giorno. Faremmo meglio a piantarla lì.

Michelis: — Hai assicurato l’elicottero? Mi par di ricordare che il vento, qui, è molto più forte che non sia nel nord.

Agronski: — Sì, e l’ho anche riparato sotto il copertone. Non ci resta altro che appendere le nostre amache…

(Un suono.)

Michelis: — Sssh! Che cos’è stato?

Agronski: — Eh?

Michelis: — Ascolta.

(Dei passi. Fiochi, ma Cleaver li conosceva. Costrinse i suoi occhi a restare aperti, ma non c’era altro da vedere che il soffitto. Il suo colore uguale e la movenza dolce in cui s’incurvava a formare una cupola di nulla, lo fecero subito, una volta ancora, sprofondare nelle nebbie del trance.)

Agronski: — Sta venendo qualcuno.

(Uno scalpiccio.)

Agronski: — È il Padre. Mike, guarda di qua, lo vedrai subito. Ha l’aria normale. Trascina un po’ i piedi, forse, ma chi non lo farebbe, dopo aver passato tutta una notte fuori di casa a far bisboccia?

Michelis: — Forse sarà meglio andargli incontro sulla porta, piuttosto che saltargli addosso dopo che sia entrato. Dopo tutto, non ci aspetta. Penserò io alle amache.

Agronski: — Hai ragione, Mike.

(Dei passi che si allontanano da Cleaver. Un rumore di pietra che sfiora pietra: la ruota della porta che gira.)

Agronski: — Ben tornato, Padre! Siamo appena arrivati e… Gran Dio, che cosa è successo? Siete ammalato anche voi, Padre? C’è forse qualche cosa che… Mike, Mike! Vieni a darmi una mano…

(Qualcuno stava correndo. Cleaver ordinò ai muscoli del collo di sollevare la testa, ma essi rifiutarono di obbedire. La sua nuca sembrava voler sprofondare sempre di più nel duro cuscino dell’amaca. Dopo una breve agonia senza fine, gridò:)

Cleaver: — Mike!

Agronski: — Mike!

(Con un sospiro rantolante, Cleaver, infine, perse la sua lunga battaglia. Si era addormentato.)

CAPITOLO QUARTO

Appena entrato nella casa di Chtexa, Ruiz-Sanchez osservò l’anticamera dalle pareti lievemente fosforescenti con un senso quasi intollerabile d’impazienza, sebbene fosse incapace di dire che cosa aveva sperato di vedere. La casa si presentava in tutto e per tutto come la sua, come in verità era prevedibile: tutto l’arredamento, a «casa», era lithiano, eccetto naturalmente il laboratorio e poche altre diavolerie terrestri.

— Abbiamo laminato numerose meteore metalliche, prese nei nostri musei, e le abbiamo battute come avevate consigliato — Chtexa gli stava dicendo, mentre si liberava dell’impermeabile e degli stivali. — Come avevate previsto, si sono rivelate intensamente magnetiche. Attualmente, abbiamo mobilitato tutto il nostro pianeta per la raccolta di questi meteoriti di ferro e nichel e il loro invio qui, ai nostri laboratori elettrici, indipendentemente dal posto in cui sono stati trovati. Il personale del nostro osservatorio astronomico cerca di predire eventuali cadute di stelle cadenti. Purtroppo, le meteore sono rare sul nostro mondo. Secondo i nostri astronomi, noi non abbiamo mai subito le «piogge» che voi dite siano frequenti sul vostro pianeta d’origine.

— Già, avrei dovuto prevederlo — disse Ruiz-Sanchez, seguendo il Lithiano nella stanza principale. Anche questa non aveva niente d’eccezionale, e nella stanza non c’erano altri Lithiani.

— Oh, interessante. Perché?

— Perché nel nostro Sistema abbiamo una specie di gigantesca macina: un’intera cintura, composta di migliaia di piccoli pianeti, che descrivono un’orbita là dove ci saremmo aspettati di trovare un solo pianeta di normali dimensioni.

— «Ci saremmo aspettati?»In base forse alla legge armonica? — domandò Chtexa, sedendosi e indicando un altro puf al suo ospite. — Ci siamo spesso chiesti se esistessero veramente relazioni del genere.

— Anche noi. Ma in questo caso non c’era pianeta. I minuscoli asteroidi entrano di continuo in collisione, donde le nostre piogge di meteore.

— È difficile capire come un equilibrio così instabile abbia potuto prodursi. Avete una spiegazione?

— Nessuna veramente valida — rispose Ruiz-Sanchez. — Presso i nostri scienziati, c’è chi ritiene che esistesse veramente, lungo l’orbita degli asteroidi, un pianeta di massa considerevole, milioni di anni fa, che esplose per qualche ignoto motivo. Una catastrofe del genere accadde già a un satellite del nostro sistema, con la formazione di un grande anello dei suoi residui intorno al primario. Altri pensano che quando si formò il nostro sistema solare, le materie prime di quello che sarebbe potuto diventare un pianeta non riuscirono mai a condensarsi in un solo corpo celeste. Le due ipotesi hanno entrambe numerosi punti deboli, ma ognuna colma certe lacune dell’altra, così che forse tutt’e due hanno un fondamento di verità.

Gli occhi di Chtexa si velarono di quell’inquietante sfarfallio interno caratteristico dei Lithiani quando erano profondamente pensosi.

— Non mi pare che ci sia il modo di verificare nessuna di queste due risposte — disse alla fine. — Secondo la nostra logica, l’assenza di tali possibilità di prova rende il problema privo di senso in partenza.

— È una norma di logica che ha molti seguaci sulla Terra. Il mio collega dottor Cleaver l’approverebbe.

Ruiz-Sanchez sorrise. Aveva faticato duramente, e per lungo tempo, allo scopo di apprendere il linguaggio lithiano, e il fatto di avere riconosciuto e compreso un’affermazione così astratta come quella fatta or ora da Chtexa era una vittoria di ordine superiore a quella di una mera acquisizione di un gran numero di vocaboli.

— Immagino, comunque, che incontriate notevoli difficoltà nella raccolta di questi meteoriti — disse. — Avete offerto degli incentivi?

— Oh, certo. Tutti si rendono conto dell’importanza del progetto, e siamo tutti desiderosi di attuarlo nel modo migliore.

Non era esattamente la risposta che il prete avrebbe voluto. Cercò nella memoria l’equivalente lithiano di «ricompensa», ma non trovò null’altro all’infuori del termine che aveva già usato: «incentivi». Si accorse di non conoscere nemmeno il vocabolo lithiano per «avidità». Evidentemente, offrire ai Lithiani cento dollari per ogni meteorite consegnato sarebbe servito solo a renderli perplessi. Meglio provare un’altra via.

— Dato che la caduta potenziale di meteore è così ridotta — disse allora, — è poco probabile che riusciate ad ammassare la quantità di metallo di cui avreste bisogno per uno studio approfondito, anche se conduceste le ricerche più accurate, collaborando tutti. Inoltre, una grande percentuale dei vostri reperti sarà di aeroliti più rocciosi che metallici. Quello che vi occorre, è un altro metodo di ricerca del ferro.

— Lo sappiamo anche noi — rispose Chtexa in tono di rammarico, — ma non siamo stati capaci di immaginarne un altro.

— Se almeno aveste un mezzo per concentrare le tracce di metallo che esistono attualmente sul vostro pianeta… I nostri metodi di fusione non vi servirebbero, dato che non avete giacimenti di greggio. Chtexa, perché non cercare coi batteri che fissano il ferro?

— Ma ne esistono? — osservò Chtexa chinando il capo da una parte con aria dubbiosa.

— Non saprei. Domandatelo ai vostri batteriologi. Se avete qui dei batteri appartenenti al genere che noi chiamiamo Leptothrix, è probabile che un tipo di essi appartenga a una specie fissatrice di ferro. Durante i milioni di anni in cui la vita si è sviluppata su questo pianeta, è impossibile che una mutazione del genere non si sia prodotta; probabilmente si sarà verificata fin dagli inizi della vita su Lithia.

— Ma perché non ce ne saremmo accorti? Abbiamo fatto più ricerche nel campo della batteriologia, forse, che in qualunque altro campo.

— Perché non sapete — disse candidamente Ruiz-Sanchez, — in quale direzione spingere le vostre ricerche, e perché tale specie di batteri sarebbe su questo pianeta rara come il ferro stesso. Sulla Terra, poiché abbiamo ferro in abbondanza, il nostro Leptothrix ochracea ha trovato molte occasioni di moltiplicarsi. Nei nostri giacimenti di minerale greggio troviamo i loro residui fossili a miliardi. Si è perfino pensato che fossero stati i batteri a creare i giacimenti, ma io ne ho sempre dubitato. Essi traggono la loro energia dall’ossidazione del ferro ferroso in ferro ferrico, ma è una trasformazione, questa, che può prodursi anche spontaneamente, quando il potenziale di ossido-riduzione e l’acidità della soluzione siano nell’esatta misura, e ognuna di queste due condizioni può essere influenzata dai normali batteri della decomposizione. Sul nostro pianeta il batterio si è sviluppato nei giacimenti perché questi erano di ferro, e non il contrario… ma su Lithia dovrete seguire il procedimento inverso.

— Procederemo immediatamente all’attuazione di un piano per l’esame di campioni di terreno — disse Chtexa, i cui bargigli s’erano tinti d’una delicata sfumatura orchidea. — I nostri centri di ricerche antibiotiche analizzano ogni mese campioni di terreni a migliaia, nella speranza di scoprire nuovi micro-organismi suscettibili di utilizzazione terapeutica. Se questi batterii che fissano il ferro esistono davvero, non c’è dubbio che finiremo per trovarli.

— Devono esistere. Avete un qualche batterio, anaerobio obbligato, che concentri lo zolfo?

— Sì, certo.

— Vedete, dunque — disse il Gesuita, rialzando la schiena con aria soddisfatta, e incrociando le mani su un ginocchio, — se avete zolfo in abbondanza, per questo solo fatto avete il batterio. Fatemi sapere, vi prego, quando avrete trovato il batterio che fissa il ferro. Vorrei farne una coltura e portarla con me sulla Terra, quando me ne dovrò andare. Conosco due certi scienziati della Terra… e intendo sbattergli questa coltura sul muso!

Il Lithiano s’irrigidì e sporse in avanti il capo, perplesso.

— Scusate — Ruiz-Sanchez si affrettò a dire. — Ho tradotto alla lettera una frase idiomatica della mia lingua che denota sentimenti di aggressività. Non intendevo descrivere un piano d’azione da realizzare concretamente.

— Credo di capire — disse Chtexa, e Ruiz-Sanchez si chiese se davvero potesse capire. Nonostante le ricchezze del lithiano, egli non aveva mai trovato in quella lingua nulla che potesse lontanamente assomigliare a una metafora. Inoltre, i Lithiani non avevano né poesia né altre forme d’arte creativa.

— Saremmo davvero lieti — continuò Chtexa, — di farvi dono dei risultati di questo programma, e voi ci rendereste un grande onore, accettandoli. Un problema, invero, delle scienze sociali che da tempo si è presentato a noi è quello di come adeguatamente onorare gli innovatori. Se consideriamo quanto cambino la nostra vita le idee nuove, temiamo sempre di non saper contraccambiare in ugual misura, e ci è dunque di grande aiuto sapere se l’innovatore stesso abbia dei desideri che la società possa esaudire.

A tutta prima, Ruiz-Sanchez credette di non avere capito bene questa affermazione. Poi, dopo essersela ripetuta mentalmente, non capì bene se potesse sinceramente approvare un tale atteggiamento, pur trattandosi di un atteggiamento ammirevole. Se le avesse pronunciate un terrestre, quelle parole avrebbero assunto un tono falso e pomposo, ma era evidente che Chtexa aveva parlato in tutta sincerità.

Probabilmente era un bene che si avvicinasse il momento in cui il Comitato scientifico doveva stendere il suo rapporto su Lithia. Da qualche tempo, Ruiz-Sanchez cominciava a ritenere di non poter più resistere a quel perenne buon senso sereno, a quella calma sanità, a quell’equilibrio mentale che non si smentivano mai. E tutto ciò — gli ricordava un allarmante pensiero, che nasceva da qualche luogo accanto al suo cuore — non derivava né da precetti d’una religione, né dalla fede, ma soltanto dalla ragione. I Lithiani non conoscevano Dio. Pensavano e agivano in modo virtuoso solo perché era ragionevole, efficiente e naturale comportarsi così. Non sembravano aver bisogno d’altro.

Non capitava mai loro di avere pensieri cupi, notturni? Era possibile che esistesse nell’universo una creatura ragionevole che non fosse mai paralizzata, neppure per un istante, dal problema improvviso, dal terrore di scorgere, nascosta dietro il velo, l’assurdità dell’azione, la cecità del sapere, la sterile futilità d’essere addirittura nato? «Soltanto su queste salde fondamenta di disperazione irrimediabile — un tempo aveva scritto un famoso ateo, — si riuscirà poi a edificare con sicurezza la dimora dello spirito.»

O era possibile che i Lithiani, se pensavano e agivano così, era perché non essendo nati dall’uomo e dunque non avendo mai lasciato il giardino dell’Eden nel quale vivevano, non conoscevano l’atroce fardello del peccato originale? Il fatto che Lithia non avesse mai conosciuto periodi glaciali e che il suo clima non subisse variazioni da settecento milioni di anni, era una realtà geologica che nessun teologo attento poteva permettersi di trascurare. Era forse possibile che, liberi da questo fardello, essi fossero anche liberi dalla maledizione di Adamo?

E se lo erano, potevano gli uomini vivere in mezzo a loro?

— Vorrei farvi qualche domanda, Chtexa — disse il sacerdote, dopo un istante. — Voi non avete alcun debito nei miei riguardi… è nostra abitudine ritenere che ogni conoscenza sia proprietà di tutti… ma c’è una difficile decisione che noi quattro terrestri dovremo prendere fra non molto. Voi sapete quale decisione sia. Ora, non penso che noi si conosca abbastanza Lithia per poter prendere una decisione del genere nel modo più giusto.

— Allora è naturale che dobbiate fare delle domande — rispose Chtexa, immediatamente. — Risponderò a tutte le vostre domande meglio che potrò.

— Bene, dunque, comincerò con questa domanda: conoscete voi Lithiani la morte? So che possedete questa parola, ma forse ha per voi un significato diverso da quello che ha per noi.

— Significa cessare di trasformarsi e tornare a soltanto esistere — disse Chtexa. — Una macchina esiste, ma solo un essere vivo, come un albero, progredisce secondo una linea di equilibri instabili. Quando il progredire cessa, l’entità è morta.

— E a voi che cosa avviene?

— Ciò che ho detto avviene a tutti. Anche le grandi piante, come l’Albero Messaggero, muoiono prima o poi. Non avviene la stessa cosa sulla Terra?

— Oh, sì, certo — disse Ruiz-Sanchez. — Per ragioni che sarebbe troppo lungo spiegare, m’era venuta l’idea che aveste potuto evitare un simile male.

— Dal nostro punto di vista, non è affatto un male — osservò Chtexa. — Lithia vive solo perché la morte esiste. La morte di certe piante ci fornisce gas e petrolio. La morte di certe creature è sempre necessaria alla vita di altre. I batteri devono morire e si deve impedire di vivere ai virus, se si vogliono guarire i malati. Noi stessi moriamo semplicemente per far posto agli altri, almeno fino al giorno in cui potremo rallentare il ritmo con cui vengono al mondo i nuovi individui; ma per il momento questa è ancora una cosa impossibile.

— Impossibile, ma desiderabile ai vostri occhi?

— Desiderabile, certo. Il nostro mondo è ricco, ma non inesauribile. E altri pianeti, ci avete insegnato, hanno già i loro abitanti. Così che non possiamo sperare di spargerci su altri mondi, quanto il nostro sarà sovrappopolato.

— Nulla mai è veramente esauribile — commentò Ruiz-Sanchez bruscamente, fissando con fronte aggrottata quel pavimento color dell’iride. — Varie migliaia di anni della nostra storia ce lo hanno provato.

— Ma esauribile in quale senso? — domandò Chtexa. — Vi concedo che ogni sassolino, ogni goccia d’acqua, ogni particella di terreno possono essere esplorati senza fine. Le quantità di informazioni che si possono trarre da essi sono letteralmente infinite. Ma un dato terreno può essere esausto di nitrati, per esempio: è difficile, ma se lo si è coltivato male, può accadere. O prendiamo il ferro, di cui parlavamo prima. Permettere alla nostra economia di sviluppare una domanda di ferro che eccedesse la quantità totale delle riserve di Lithia… che le eccedesse più di quanto non possa contribuire ad accrescerle la caduta di meteore o l’importazione… sarebbe pura follia. Non è più una questione di informazioni, ma di sapere se le informazioni siano o non siano utilizzabili. Se non lo sono, non serve a nulla che le informazioni stesse siano inesauribili.

— Potreste certamente tirare avanti col pochissimo ferro che avete attualmente, se doveste farlo — ammise Ruiz-Sanchez. — Le vostre macchine di legno sono abbastanza precise da soddisfare qualunque ingegnere. Molti di essi, anzi, forse non ricordano che anche noi abbiamo usato per moltissimo tempo una tecnica analoga: io stesso ne ho un esempio nella mia abitazione. È un apparecchio per misurare il tempo, chiamato orologio a cucú: è fatto completamente di legno, eccetto i contrappesi, e ha quasi duecento anni, eppure è ancora accurato al cento per cento. Anzi, se è solo per questo, fino a qualche generazione fa, sulla Terra, si continuava a costruire navi di legno, anche dopo che si era giunti alla costruzione di navi di ferro.

— Il legno è un materiale eccellente per la maggior parte degli usi — confermò Chtexa. — Il suo solo inconveniente, a confronto della ceramica o del ferro, è che è troppo ineguale. Bisogna conoscere il legno straordinariamente bene per prevedere le sue caratteristiche, da un albero all’altro. Ma, ovviamente, le parti più complesse si possono far crescere all’interno di stampi adatti; la pressione di crescita all’interno dello stampo diventa così elevata che la parte che ne risulta è assai densa. Le parti più grandi possono venir segate dai tronchi con arenaria a grana grossa, e poi rifinite con ardesia. Noi troviamo che il legno è un materiale gradevolissimo a lavorarsi.

Ruiz-Sanchez si sentì, e non avrebbe saputo dirne il perché, colto da un po’ di vergogna. Era una versione ingrandita della vergogna che aveva sempre provato, a casa sua, nei riguardi del vecchio orologio a cucú della Foresta Nera. Gli orologi elettrici sparsi per la sua hacienda nei pressi di Lima avrebbero dovuto saper fare il suo stesso lavoro, silenziosamente, con precisione e occupando meno spazio, ma le considerazioni che avevano presieduto alla loro fabbricazione erano state commerciali, oltre che tecniche. Il risultato era che in maggior parte essi funzionavano con un leggero mormorio asmatico e gemevano sommessamente e lugubremente a intervalli irregolari. Erano tutti forniti di un «design» alla moda, ed erano tutti sovradimensionati e bruttissimi. Non ce n’era uno che indicasse l’ora esatta, e molti di essi, per il fatto d’essere azionati da motori a velocità di rotazione costante, che facevano agire dei meccanismi semplicissimi, non si potevano mai regolare, essendo stati consegnati dalla fabbrica con queste imprecisioni congenite, non riparabili.

E intanto il ligneo orologio a cucii, nel suo cantuccio, faceva sentire il suo regolare ticchettio. Una quaglia usciva da una delle portine ogni quarto d’ora, e vi avvisava della cosa; allo scoccare dell’ora uscivano prima la quaglia, poi il cucii, e una campanella suonava un istante prima di ciascun richiamo del cuculo. Per quell’orologio, mezzogiorno e mezzanotte non erano semplicemente ore del giorno, ma vere e proprie creazioni. Non restava mai indietro più d’un minuto al mese, e tutto questo costava soltanto la fatica di far risalire i tre pesi che lo azionavano, ogni sera prima di andare a letto.

L’uomo che aveva fabbricato quell’orologio era morto molto tempo prima che Ruiz-Sanchez fosse nato. Invece, il prete avrebbe dovuto acquistare e buttar via nel corso della sua esistenza una decina di orologi elettrici a buon mercato, secondo l’intenzione dei loro fabbricanti; quegli orologi discendevano in linea retta dall’economia dell’«invecchiamento pianificato», quella passione dello sciupio che s’era impossessata delle Americhe nella seconda metà del secolo scorso.

— Ne sono più che convinto — disse umilmente. — Ma avrei ancora una domanda da farvi, se me lo consentite. Fa sempre parte, a dir la verità, della precedente; vi avevo chiesto se voi Lithiani morite; ora vorrei chiedervi come nascete. Vedo molti adulti per le vostre strade e talvolta nelle case, anche se mi par di capire che voi, Chtexa, vivete da solo, ma non ho mai visto un bambino. Potreste dirmene la ragione? A meno che non sia lecito parlare di questo argomento…

— Oh, ma perché? Non possono esserci argomenti proibiti — rispose Chtexa. — Le nostre compagne, come sapete, credo, posseggono tasche addominali, in cui portano le uova. Fu una mutazione fortunata per noi, perché ci sono su questo pianeta molte specie di creature viventi che depredano i nidi.

— Anche noi abbiamo sulla Terra animali che hanno questi organi a forma di tasca, ma sono vivipari.

— Le nostre uova sono deposte nella tasca una volta all’anno — disse Chtexa. — È allora che le femmine della specie lasciano le loro case per andare alla ricerca dell’individuo che, scelto da loro, fecondi le loro uova. Io non ho compagna perché finora non sono stato designato in prima scelta da nessuna femmina; sarò però eletto in occasione del Secondo Matrimonio, cioè domani.

— Vedo — disse prudentemente Ruiz-Sanchez. — E come avviene la scelta? È determinata dall’emozione o dalla ragione soltanto?

— Alla lunga, le due cose ne fanno una sola — disse Chtexa. — I nostri antenati non hanno abbandonato al caso le nostre necessità genetiche. L’emozione da noi non va più contro alle nostre conoscenze d’eugenetica. Non lo potrebbe, dato che l’emozione stessa è stata modificata (mediante una selezione opportuna, mirante a rendere dominante questo comportamento) in modo da rispettare queste conoscenze.

«Alla fine della stagione viene il giorno della Migrazione, quanto tutte le uova sono fertilizzate e sono pronte a schiudersi. Quel giorno, e voi non sarete più qui a vederlo, temo, poiché la data prevista della vostra partenza lo precede di poco, tutta la nostra popolazione si recherà in riva al mare. Là, mentre i maschi fanno anello per proteggerle dai predatori, le femmine si recano dove l’acqua è alta, e nascono i piccoli.»

— Nel mare? — domandò debolmente Ruiz-Sanchez.

— Sì, in mare. Quindi ritorniamo tutti alle nostre faccende, fino alla nuova stagione d’accoppiamento.

— Ma… e i neonati?

— Oh, si prendono cura di sé stessi, se possono. Naturalmente, molti di loro soccombono, in particolare sotto i denti del nostro vorace fratello, il grande pesce lucertola, che noi, per questa ragione, uccidiamo tutte le volte che possiamo. Ma la grande maggioranza torna a riva, quando sia venuto il momento.

— La maggioranza torna a riva? Non capisco, Chtexa. Come avviene che non anneghino nascendo? E se ritornano, perché non se ne vede mai nessuno?

— Ma voi li avete visti certamente — disse Chtexa. — E spesso li avete uditi. Possibile che voi stessi non… Ma già: siete mammiferi, è qui che sta la difficoltà. Voi conservate la prole nel nido, la tenete presso di voi, conoscete i vostri figli ed essi conoscono i loro genitori.

— Sì — disse Ruiz-Sanchez. — Noi conosciamo i nostri figli, ed essi conoscono i propri genitori.

— Questo non è invece possibile, presso di noi — disse Chtexa. — Venite con me, ve ne mostrerò la ragione.

Chtexa si alzò e fece strada, fino alla porta. Il prete lo seguì, la mente rapita in un turbine di supposizioni.

Il Lithiano aprì la porta e Ruiz-Sanchez vide con una scossa che la notte era quasi trascorsa: ad ovest un vago chiarore appariva già nel cielo nuvoloso.

La giungla echeggiava sempre della sua sinfonia di gridi e di canti molteplici. S’udì un sibilo acuto, penetrante e l’ombra di uno pterodonte si librò sulla città verso il mare. Al largo, sul mare, un grumo indistinto che poteva essere soltanto uno dei calamari volanti di Lithia ruppe la superficie delle acque e aleggiò basso al di sopra delle onde oleose per una sessantina di metri prima di tuffarsi nuovamente nell’acqua. Dagli acquitrini della riva giunse un rauco latrato.

— Là — disse Chtexa con voce sommessa. — Avete udito?

La creatura smarrita, o un’altra della sua specie — sarebbe stato impossibile dirlo — emise di nuovo un gracidio indignato.

— È duro per loro, in un primo tempo — disse Chtexa, — ma in realtà quasi tutti i pericoli sono passati. Sono giunti a riva.

— Chtexa — disse Ruiz-Sanchez, — volete dire che i vostri figli… sono i pesci polmonati?

— Sì — rispose il Lithiano, — quelli sono i nostri figli.

CAPITOLO QUINTO

In ultima analisi era stato il latrare lancinante dei pesci polmonati che aveva fatto incespicare Ruiz-Sanchez quando Agronski era venuto ad aprirgli la porta. Inoltre, bisognava tener conto della stanchezza provocata dall’ora tarda e del duplice colpo datogli dalla malattia e dalla conseguente scoperta della menzogna di Cleaver. Avevano contribuito infine il senso di colpa sempre più accentuato, nei riguardi di Cleaver, risvegliatosi in Ruiz-Sanchez durante il ritorno a casa, sotto il cielo che si faceva sempre più chiaro, e lo shock della scoperta che Agronski e Michelis erano arrivati durante la notte, mentre lui trascurava il dovere per soddisfare la curiosità.

Ma soprattutto erano stati i clamori animaleschi dei figli dei Lithiani che avevano assediato ogni sua cittadella mentale per tutto il percorso dalla casa di Chtexa alla sua.

Quella debolezza improvvisa, tuttavia, durò solo un istante. Egli riprese faticosamente il controllo di sé, per scoprire che Michelis e Agronski lo avevano issato su una sedia del laboratorio e cercavano di spogliarlo dell’impermeabile senza farlo cadere e senza svegliarlo: problema topologico così delicato come potrebbe essere quello di togliere a un individuo la camicia senza sfilargli prima la giubba. Con un gesto affaticato, Ruiz-Sanchez sfilò lui stesso il braccio da una manica e alzò gli occhi su Michelis.

— Buongiorno, Mike. Scusate se non vi ho accolto come meritavate.

— Non dite sciocchezze — rispose Michelis. — E poi, non dovete parlare ora. Ho già passato quasi tutta la notte a cercar di calmare Cleaver per farlo addormentare. Ora non fatemi ricominciare, vi prego, Ramon.

— Non abbiate paura: non sono ammalato, ma solo un po’ stanco e snervato.

— Ma che cos’ha Cleaver? — domandò Agronski. Michelis fece come per zittirlo.

— No, no, Mike, è una giusta domanda — disse il Gesuita. — Io non ho nulla, vi assicuro. Quanto a Paul, ha un avvelenamento da glucosidi: si è punto con una spina, questo pomeriggio. Anzi, ieri pomeriggio, sarebbe più giusto dire. In che condizioni era, quando siete arrivati?

— Stava male — disse Michelis. — Dato che voi non c’eravate, noi non sapevamo cosa fare. Poi abbiamo deciso di dargli due delle pillole che avevate lasciato in laboratorio.

— Gli avete dato… — Ruiz-Sanchez cercò faticosamente di alzarsi in piedi.

— Già, come avete detto, non sapevate cos’altro fare. Tuttavia, adesso la dose che ha preso è troppo forte. Penso che sia meglio andare a dargli un’occhiata…

— Per favore, Ramon, rimanete a sedere — disse Michelis, in un tono gentile, ma che indicava ch’egli si aspettava di veder rispettata la richiesta. Oscuramente lieto di essere costretto a cedere all’implacabilità (seppure a fin di bene) dell’altro, il sacerdote si lasciò respingere sullo sgabello. Si sfilò gli stivali.

— Mike — chiese stancamente, — chi è il sacerdote, qui dentro, voi o io? Comunque, sono sicuro che avete fatto un buon lavoro. Vi ha dato l’impressione di essere in pericolo?

— Be’, ha un aspetto infame. Ma ha avuto sufficiente forza da restare sveglio per la maggior parte della notte. Si è addormentato che non è molto.

— Bene. Lasciamolo dormire. Domani, però, temo che dovremo alimentarlo per endovena. In questo clima non si può abusare impunemente dei salicilati. — Sospirò. — Comunque, dato che dormiamo nella stessa camera, ci sarò io, se dovesse sopraggiungere una crisi. Bene. Possiamo rimandare a domani eventuali altre domande?

— Se non ci sono altri guai, qui, possiamo rimandare senz’altro.

— Oh — disse Ruiz-Sanchez — per questo, ci sono molti altri guai, purtroppo!

— L’avrei giurato! — esclamò Agronski. — Che t’avevo detto, eh, Mike?

— C’è qualche pericolo che ci minaccia?

— No, Mike, non c’è nessun pericolo per noi, ve lo posso garantire. Non c’è nulla che non possa attendere che ci siamo riposati tutti. E voi due avete l’aria di aver bisogno di riposarvi almeno quanto me.

— Siamo molto stanchi — ammise Michelis.

— Ma perché non vi siete mai messi in comunicazione con noi? — domandò Agronski in tono aggressivo. — Ci avete fatto passare una paura terribile, Padre. Se davvero c’è qualche cosa che non va, avreste dovuto…

— Vi dico che non c’è nessun pericolo immediato — ripeté pazientemente il Gesuita. — Perché poi non vi abbiamo mai chiamati, questo lo ignoro quanto voi. Fino a ieri sera ero convinto che fossimo regolarmente in contatto con voi. Era Paul che se ne occupava, e sembrava che se la cavasse senza difficoltà. Ho scoperto che ha trascurato di mantenersi in comunicazione con voi solo dopo che si era ammalato.

— Dunque, bisognerà aspettare che si sia rimesso — disse Michelis. — Per l’amor di Dio, andiamo a dormire, ora. Pilotare quella farfalla per quattromila chilometri di banchi di nebbia non è stato affatto uno scherzo; anch’io mi stenderò con piacere sulla… Ma, Ramon…

— Ditemi, Mike.

— Voglio dire che questa situazione mi piace ancor meno che ad Agronski. Domani dobbiamo fare i bagagli, e svolgere le faccende del Comitato. Abbiamo soltanto un paio di giorni di tempo per prendere la nostra decisione, prima che l’astronave venga a portarci via da Lithia, finalmente, e per allora dovremo sapere tutto quello che occorre sapere, compreso quello che dovremo dire nel nostro rapporto alla Terra.

— Sì — disse Ruiz-Sanchez. — Proprio come dite voi, Mike… per l’amor di Dio.


Il Gesuita biologo si svegliò per primo: e in effetti, di loro quattro, era colui che fisicamente si era meno affaticato. Era già il crepuscolo, un crepuscolo nuvoloso, quando, sceso dalla sua amaca, si avvicinò in punta di piedi a Cleaver, per dargli un’occhiata.

Il fisico era in coma. Il suo volto, d’un grigio terreo, sembrava essersi raggrinzito. Era tempo di rettificare l’abuso a cui era stato sottoposto, clinicamente parlando. Fortunatamente, polso e respirazione erano ridiventati quasi normali.

Ruiz-Sanchez si recò nel laboratorio, dove preparò una soluzione nutriente di fruttosio da somministrare per via endovenosa. Intanto, con un barattolo di uova in polvere, preparò una specie di soufflé e lo mise, coperto, in fondo al piccolo forno: doveva servire da colazione agli altri tre.

Nella camera del dormiente, montò il piccolo apparato per l’ipodermoclisi. Cleaver non si mosse nemmeno quando l’ago gli penetrò nella vena, immediatamente sopra l’incavo del gomito. Ruiz-Sanchez fissò il tubicino al braccio con del cerotto, controllò il flusso che usciva dalla bottiglia rovesciata, quindi tornò nel laboratorio. Là, arrampicatosi sullo sgabello davanti al microscopio, rimase in una specie di intorpidito non essere, mentre, fuori, un’altra notte calava. Era ancora stanco delle emozioni del giorno precedente, ma ora, almeno, poteva rimanere sveglio senza dover continuamente lottare con se stesso. Il soufflé si gonfiava lentamente, nel forno, e dopo qualche minuto un vago e sottile profumo indicò che cominciava ad arrosolarsi sulla parte superiore.

Fuori, improvvisamente, la pioggia cominciò a cadere a rovesci; poi con la stessa subitaneità, spiovve. La breve e calda estate lithiana volgeva al suo termine; l’inverno sarebbe stato lungo e dolce; la temperatura, a quella latitudine, non scendeva mai sotto i 20 gradi centigradi. Perfino ai poli, la temperatura invernale si manteneva al di sopra dello zero, con una media abituale d’una quindicina di gradi.

— È la colazione che manda questo profumino?

— Sì, Mike, nel forno. Ancora pochi minuti.

— Bene.

Michelis scomparve di nuovo. Sull’orlo del suo tavolo di lavoro, Ruiz-Sanchez scorse il volume azzurro cupo, dal titolo dorato, che aveva portato seco fin là dalla lontana Terra. Quasi automaticamente lo trasse a sé e, quasi automaticamente, il libro si aprì a pagina 573. Almeno, con quel volume, aveva qualcosa a cui pensare che non lo. riguardava direttamente.

L’ultima volta che aveva lasciato il testo, era stato quando Anita «cedeva alla lussuria di Honuphrius per placare la barbarie di Sulla e il mercenarismo dei dodici Sullivani e (come aveva suggerito Gilbert fin dal principio) per salvare la purezza di Felicia a favore di Magravius…» Ora, vediamo, un po’, come si poteva considerare Felicia ancora pura? … Ah… «quando ella fosse stata convertita da Michele dopo la morte di Gillia». Ora tutto si spiegava, dato che Felicia non s’era resa colpevole originariamente che di semplici infedeltà. «Ma essa teme che, concedendogli di far valere i suoi diritti coniugali, essa stessa possa destare una condotta reprensibile tra Eugenius e Jeremias. Michele, che in precedenza aveva traviato Anita, la dispensa dal cedere a Honuphrius»… sì, la cosa aveva senso, perché anche Michele aveva fatto dei progetti su Eugenius. «Anita ne è turbata, ma Michele decide che salverà la sua causa per portarla l’indomani a Guglielmo, anche se essa dovesse commettere una pia frode durante una confricazione che, per esperienza, lei sa (secondo Wadding) non approderà a nulla.»

Bene. Tutto ciò andava benissimo. Il romanzo ora, e per la prima volta, sembrava assumere forma e coerenza; l’autore evidentemente aveva saputo con la massima esattezza quello che stava facendo, ad ogni passo della narrazione. Ruiz-Sanchez si disse che non gli sarebbe piaciuto conoscere quella famiglia immaginaria, nascosta dietro gli pseudonimi latini, e ancor meno gli sarebbe piaciuto esserne il confessore.

Sì, il racconto stava in piedi, appena si fosse considerato senza passione ognuno dei personaggi — che del resto erano immaginari: personaggi di un romanzo — o l’autore, il quale, per grande che fosse il suo talento, il più grande certo che mai si fosse dedicato alla narrativa di lingua inglese e forse di ogni altra lingua al mondo, doveva tuttavia essere commiserato almeno quanto la più bassa vittima del Maligno. Appena lo si fosse considerato, cioè, dalla prospettiva di una sorta di grigio crepuscolo emotivo, in cui ogni cosa, compresa tutta l’incrostazione di commenti che si erano accumulati sul testo a partire da quando era apparso, all’inizio del Novecento, poteva venire osservata sotto questa luce.

— È pronto, Padre?

— A giudicare dall’odore, direi di sì, Agronski. Perché non lo tirate fuori dal forno e non vi servite?

— Grazie. Posso darne a Cleaver?

— No. Gli ho fatto un’ipodermoclisi.

— Vedo.

A meno che la sua impressione di avere finalmente capito il problema si dovesse rivelare, ancora una volta, per un’illusione, egli era adesso pronto per la domanda fondamentale, imbarazzante, che turbava profondamente l’Ordine e la Chiesa da tanti decenni. La rilesse attentamente. Chiedeva:

«Ha costui l’egemonia e lei si sottometterà?»

Con stupore, si accorse ora, per la prima volta, che si trattava di due domande distinte, nonostante l’omissione di una virgola tra l’una e l’altra. Occorrevano dunque due risposte. Honuphrius aveva l’egemonia? Sì, certo, perché Michele, il solo membro di tutto il complesso che fin dal principio fosse stato dotato del potere della grazia, era stato clamorosamente compromesso. Di conseguenza, Honuphrius, indipendentemente dal fatto che tutti i suoi peccati stessero per emergere in pubblico oppure fossero soltanto delle chiacchiere, non poteva venire spodestato dei suoi diritti da nessuno.

Ma Anita doveva sottomettersi? No, certo no. Michele aveva perduto il diritto di darla o di riservarla in qualunque maniera; così che Anita non poteva essere guidata né dal vicario, né da alcun altro, in fin dei conti, che non fosse la sua coscienza, che, date le gravi accuse portate contro Honuphrius, non avrebbe potuto portarla ad altro che a ripudiarlo. Quanto al pentimento di Sulla e alla conversione di Felicia, non avevano significato alcuno, dopo che la defezione di Michele aveva privato questi due — e ciascun altro — d’ogni tutela spirituale.

Così che la risposta non aveva mai cessato di essere evidente: essa era, Sì, e No.

E tutto questo era sempre dipeso da una virgola messa al posto giusto. Uno scherzo di scrittore. La dimostrazione del fatto che il più grande romanziere di tutti i tempi aveva speso diciassette anni a scrivere un libro il cui problema centrale era rappresentato dalla posizione di una virgola. Così l’Avversario dissimula la sua vacuità, e svuota i propri seguaci.

Il Gesuita richiuse il volume con un brivido e abbassò gli occhi sul tavolo. Si sentiva ancora molto stanco, ma nel profondo del suo intimo s’agitava un lieve sentimento di soddisfazione che lui non poteva sopprimere. Nell’eterna lotta, l’Avversario aveva conosciuto una nuova sconfitta.

Mentre guardava intorpidito fuori dalla finestra il buio e la pioggia, vide una testa, poi delle spalle scultoree passare nel tetraedro tronco di luce gialla proiettato nella pioggia attraverso il vetro. Era Chtexa, che si allontanava.

Improvvisamente, Ruiz-Sanchez ricordò che nessuno si era ricordato di togliere dalla tavoletta l’annuncio della malattia: Chtexa, se era venuto per qualche motivo importante, si era allontanato senza ragione. Ruiz-Sanchez si alzò, e presa una bottiglia vuota, batté con essa sui vetri della finestra.

Chtexa si volse a guardare attraverso cateratte di pioggia, gli occhi protetti da una sottile membrana trasparente. Ruiz-Sanchez, fattogli cenno di ritornare, corsa ad aprire.

Nel forno, la sua porzione di sufflé cominciò a bruciarsi lentamente.

I colpi battuti contro i vetri avevano fatto accorrere Michelis e Agronski. Il Lithiano guardò i tre terrestri con aria grave, mentre le gocce di pioggia scorrevano come olio sulle minuscole scaglie prismatiche della sua pelle flessibile.

— Non sapevo che ci fosse un malato, qui — disse. — Sono venuto perché il vostro fratello Ruiz-Sanchez ha lasciato la mia dimora questa mattina senza il regalo che speravo di potergli consegnare. Me ne andrò subito, se dovessi turbare la vostra intimità.

— Non la turbate minimamente — disse Ruíz-Sanchez. — E la malattia che ha colpito il nostro compagno è un’intossicazione, non è contagiosa. Confidiamo che si risolva senza danno per lui. Questi sono i miei amici venuti dal nord, Michelis e Agronski.

— Sono felice di conoscerli. Vedo che il messaggio non è dunque stato inutile.

— Di che messaggio parlate? — domandò Michelis in un lithiano corretto, ma esitante.

— Ho inviato un messaggio dietro preghiera del vostro collega Ruiz-Sanchez, ieri sera. A Xoredeshch Gton m’è stato detto eravate partiti.

— Esatto — disse Michelis. — Ramon che cosa è successo? Mi pare che ci abbiate detto che era Paul a incaricarsi di trasmettere i messaggi. E mi pare di avere capito che non sapevate come farlo, quando Paul si è ammalato.

— Sì, non lo sapevo allora e non lo so ora. Ho chiesto a Chtexa di trasmettervi un messaggio al posto mio. E Chtexa stava dicendo proprio questo, Mike. Michelis alzò lo sguardo per fissare il Lithiano.

— Che cosa diceva il messaggio? — chiese.

— Vi pregava di tornare a Xoredeshch Sfath al più presto. Vi ricordava inoltre che la vostra missione qui volge alla fine.

— Che cosa ha detto? — chiese Agronski. Aveva cercato di seguire la conversazione, ma capiva poco il lithiano, ed evidentemente le poche parole che era riuscito ad afferrare non avevano fatto altro che dare esca alle sue paure, sempre pronte ad esplodere. — Mike, traduci, per favore.

Michelis tradusse, in fretta. Poi disse:

— Ramon, veramente non avevate altro da dirci, soprattutto dopo avere scoperto quello che avevate scoperto? Anche noi, dopotutto, sapevamo che il momento della partenza si avvicinava. Siamo capaci anche noi di tenere un calendario…

— Certo, Mike. Ma non sapevo che messaggi avevate ricevuto in precedenza, se poi ne avevate davvero ricevuto. Per quanto ne sapevo io, Cleaver poteva essere stato in contatto con voi in qualche altro modo, privatamente. La prima cosa che mi è venuta in mente era una ricetrasmittente, nascosta nei suoi bagagli, ma poi ho pensato he poteva avervi inviato dei dispacci per mezzo delle linee aeree regolari; sarebbe stato più comodo. C’era la possibilità che vi avesse comunicato che intendevamo fermarci sul pianeta anche dopo lo scadere del periodo di permanenza ufficiale. Oppure poteva avervi detto che ero stato ucciso, e che lui svolgeva indagini per trovare il criminale. Poteva avervi detto qualsiasi cosa. Dovevo essere sicuro, meglio che potevo, che voi sareste arrivati qui nonostante ciò che egli aveva, o non aveva, detto.

«E quando sono giunto al locale centro di comunicazione, ho dovuto cambiare sull’istante tutto il contenuto del messaggio, essendomi accorto che non avrei potuto comunicare con voi direttamente, né inviarvi un messaggio dettagliato che non corresse il rischio di venire alterato dal doppio passaggio, prima in una lingua straniera, poi in una mente aliena. Ogni comunicazione radio in partenza da Xoredeshch Sfath passa per l’Albero, e se non lo vedete non potete avere idea di ciò che un terrestre dovrebbe affrontare per trasmettere un messaggio, per quanto elementare esso sia.»

— È vero? — Michelis chiese a Chtexa.

— Vero? — ripeté il Lithiano. I suoi bargigli erano tutti coperti di macchiette per la. confusione; anche se Ruiz-Sanchez e Michelis avevano parlato in lithiano, varie parole da loro usate, come ad esempio «criminale», non esistevano assolutamente in quella lingua, e così erano state infilate nel discorso, in fretta, in inglese. — Vero? Non so. Volete dire se è valido? Dovete giudicarlo voi.

— Ma è accurato, signore?

— È accurato — disse Chtexa, — fin dove posso comprenderlo.

— Bene, allora — continuò Ruiz-Sanchez, un po’ piccato suo malgrado, — capite dunque perché, quando Chtexa è comparso provvidenzialmente, all’interno dell’Albero, e mi ha riconosciuto e si è offerto di farmi da intermediario, non ho potuto affidargli se non l’essenziale di quanto intendevo dirvi. Non avevo speranza di riuscire a spiegargli tutti i dettagli, e non potevo sperare che i dettagli vi arrivassero senza distorsioni, dopo essere passati attraverso almeno due intermediari lithiani. Tutto ciò che potevo fare era di gridare a voi due, con tutta la forza possibile, di tornare alla data stabilita… e sperare che voi capiste.

— L’ora presente è un’ora di turbamento, che è come una malattia che colpisce la casa — disse a questo punto Chtexa. — Non posso restare. Preferisco essere solo, quando sono turbato, e non potrei esigere questo se imponessi ora la mia presenza ad altri che sono turbati. Ritornerò a consegnare il mio regalo in un momento migliore.

Varcò la soglia senza un gesto d’addio, ma lasciandosi dietro le spalle una inconfondibile impressione di cortesia. Impotente, quasi disperato, il prete lo guardò scomparire. I Lithiani sembravano sempre comprendere l’essenza medesima delle situazioni; non erano mai, diversamente dai Terrestri, colti dalla minima ombra di dubbio. Non avevano pensieri oscuri, notturni, loro.

E del resto, perché avrebbero dovuto averne? Si trovavano, se Ruiz-Sanchez vedeva giusto, sotto la tutela della Seconda Autorità dell’Universo: sotto la sua tutela diretta, senza la mediazione di Chiese, senza conflitti interpretativi. Il fatto stesso che non fossero mai tormentati dall’indecisione dimostrava che i Lithiani erano le creature di questa Autorità. Ai figli di Dio soltanto è stato dato il beneficio del libero arbitrio, ed essi soltanto sono dunque soggetti al dubbio e all’esitazione.

Tuttavia, se gli fosse stato possibile, il Gesuita avrebbe trattenuto Chtexa. In una discussione concisa è utile avere dalla propria parte la pura ragione, anche se una tale alleata rischia di colpirvi al cuore, se ci si affida ad essa troppo a lungo.

— Rientriamo dentro e chiariamo la cosa — disse Michelis, chiudendo la porta ed avviandosi verso la camera posta sul davanti della casa. Lo disse in lithiano, e, accortosene, girò la testa verso la direzione in cui si stava allontanando Chtexa, fece un sorriso obliquo, poi tornò alla lingua inglese. — Abbiamo fatto bene a dormire un po’, ma abbiamo così poco tempo davanti a noi, adesso, che sarà difficile arrivare a una decisione ufficiale prima dell’arrivo dell’astronave.

— Non possiamo procedere con le formalità — osservò Agronski, anche se, insieme con Ruiz-Sanchez, seguì Michelis con buona obbedienza. — Come possiamo fare qualcosa di adeguato senza prima avere sentito ciò che deve dire Cleaver? In un lavoro come questo, l’opinione di ciascuno è molto importante.

— Vero — disse Michelis. — E la situazione, a me, garba ancor meno che a voi… mi pare d’averlo già detto. Ma non vedo altra scelta. Che cosa ne pensate, Ramon?

— Preferirei anch’io attendere — disse Ruiz-Sanchez con franchezza. — Qualunque cosa io possa dire ora, per parlare realisticamente, è piuttosto compromessa ai vostri occhi. E non ditemi che avete piena fiducia nella mia integrità, perché risponderei che abbiamo piena fiducia anche in Cleaver. Ora, tentar di conservare ad entrambi la fiducia finirebbe col toglierla a tutt’e due.

— Ramon, voi avete un modo sgradevole di esprimere ad alta voce ciò che tutti stiamo pensando — disse Michelis, con un vago sorriso. — Ma vedete, forse, un’altra soluzione?

— Nessuna. Il tempo è contro di noi, quindi siamo costretti a cominciare senza Cleaver.

No, non lo farete!

La voce che veniva dalla porta della camera da letto era a un tempo esitante e indurita dalla debolezza.

Gli altri sussultarono. Cleaver s’inquadrava sulla soglia, reggendosi con le due mani allo stipite. Il prete poté vedere i segni sul braccio, là dove si era strappato i cerotti che tenevano fermo il tubicino dell’endovenosa. Nel punto in cui l’ago era stato inserito, un ematoma bluastro si gonfiava lentamente sotto la pelle grigia.

CAPITOLO SESTO

Un silenzio.

— Paul, tu devi essere impazzito — disse Michelis a un tratto, quasi con rabbia. — Torna subito nella tua amaca, prima che la tua condizione peggiori! Non ti rendi conto che sei ammalato gravemente?

— Meno di quel che sembro — rispose Cleaver. — Anzi, non mi sento male per niente. La bocca è quasi guarita e credo di non avere più febbre. E che mi venga un accidente se questa commissione farà un solo passo avanti senza di me! Non ne ha il potere, e io mi appellerò contro qualsiasi decisione… qualsiasi decisione, e spero che voialtri ascoltiate… che verrà presa senza di me.

La commissione ascoltava; il magnetofono funzionava già e i nastri inalterabili scorrevano nelle loro bobine suggellate. I due uomini si volsero esitanti verso Ruiz-Sanchez.

— Che ne pensate, Ramon? — chiese Michelis con una smorfia. Spense il registratore usando la propria chiavetta. — Non è pericoloso per lui alzarsi così presto?

Il Gesuita s’era avvicinato al fisico e gli stava esaminando la bocca. Le ulcere erano quasi scomparse e un tessuto cicatrizzante granuloso si stava formando sulle poche rimaste. Gli occhi di Cleaver erano ancora lievemente iniettati, cosa che indicava come la intossicazione non fosse ancora del tutto scomparsa, ma eccettuati questi due segni, gli effetti dell’accidentale inoculazione di scilla non erano più visibili. Cleaver aveva un aspetto orribile, certo, ma questo era inevitabile, in un uomo che, fino a poco prima, era malato, e il cui organismo aveva continuato a bruciare per più di una giornata le proprie proteine. Quanto all’ematoma, una compressa fredda sarebbe bastata a debellarlo.

— Se vuole mettersi in pericolo da sé, credo che abbia il diritto di farlo, almeno indirettamente — disse il Gesuita. — Paul, la prima cosa che ora dovrete fare sarà di sedervi, mettervi qualche cosa addosso e una coperta sulle gambe. Quindi mangerete un poco, anzi vi preparerò io stesso qualche cosa… La vostra guarigione è stata rapida in modo prodigioso, ma adesso costituite un facile bersaglio per ogni infezione, durante la convalescenza.

— Accetto il compromesso — rispose prontamente Cleaver. — Non ho nessuna intenzione di recitare la parte dell’eroe, ma voglio essere sentito anch’io. Aiutatemi a raggiungere uno sgabello. Mi tremano ancora le gambe.

Ci volle una mezz’ora a Ruiz-Sanchez per somministrare a Cleaver le cure che riteneva necessarie. Cleaver sembrava trarre una specie di malizioso piacere. Quando finalmente ebbe nella destra una tazza di gchteht, una specie d’erba locale analoga al tè, e così deliziosa che in breve sarebbe divenuta un importante articolo d’esportazione, disse: — Siamo a posto. Mike, rimetti il magnetofono in funzione, e procediamo.

— Ne sei certo? — chiese Michelis.

— Al cento per cento. Gira quella maledetta chiave.

Michelis girò la chiavetta, la tolse e se la mise in tasca. Da quel momento, ogni loro parola sarebbe stata registrata.

— Dunque, Paul — disse Michelis, — hai fatto il diavolo a quattro per essere presente: segno che vuoi parlare e che hai qualche cosa da dirci. Si può sapere dunque perché non hai mai comunicato con noi?

— Non volevo farlo.

— Un momento, Paul — disse Agronski. — Non dimenticare che le tue parole sono registrate, non dire perciò la prima stupidaggine che ti passi per il capo. Può darsi che le tue facoltà di giudizio non siano ancora perfette, anche se le tue corde vocali lo sono. Il tuo silenzio era dovuto forse al fatto che non eri capace di far funzionare il sistema di comunicazione locale, l’Albero Messaggero, o comunque si chiami?

— Non si tratta di questo — rispose Cleaver. — Grazie, Agronski, ma non ho bisogno della balia asciutta che mi spiani la strada o mi fabbrichi degli alibi. So benissimo che ciò che ho fatto è scorretto e riprovevole, e so anche che è troppo tardi ormai per qualunque alibi. La mia sola probabilità di conservare il segreto era di mantenere un controllo perfetto di ciò che facevo. Naturalmente, mi sono giuocato quella sola probabilità andando a finire contro quel maledetto ananas. Me ne sono reso conto la notte scorsa, mentre lottavo come un pazzo per cercare di parlarvi prima che tornasse il Padre e mi sono accorto che non ci sarei riuscito.

— Hai l’aria di prendere la situazione abbastanza con calma — osservò Michelis.

— Che vuoi, mi sento un po’ rammollito. Ma sono un realista. Quello che ad ogni modo vorrei farvi capire, Mike, è che avevo delle ottime ragioni per condurmi come mi sono condotto, e non dubito che sarete d’accordo con me quando vi avrò esposto queste ragioni.

— Va bene, Paul. Comincia, allora — disse Michelis.

Cleaver prese una posizione più comoda e sovrappose le mani sotto le pieghe della coperta che lo avvolgeva. Aveva un’aria quasi ieratica. Senza dubbio la situazione lo divertiva.

— Innanzi tutto, non vi ho chiamati perché non volevo chiamarvi — disse. — Avrei potuto risolvere facilmente il problema dell’Albero, facendo quello che ha fatto il Padre, vale a dire chiedendo ai Serpenti di trasmettere i miei messaggi. Naturalmente, io non parlo il serpentiano, ma il Padre lo parla, e bene, e non avrei dovuto fare altro che metterlo a parte delle mie difficoltà. Senza contare che sarei potuto venire io stesso a capo dell’Albero. Conosco già tutti gli aspetti tecnici della questione. Capirai anche tu, Mike, quando vedrai l’Albero. Essenzialmente, è un transistor a giunzione semplice, il cui semiconduttore è un immenso blocco di cristallo sepolto sotto le sue radici; questo cristallo è piezoelettrico ed emette nello spettro delle radiofrequenze ogni qualvolta è toccato dalle radici. È una cosa fantastica, non c’è in tutta la Galassia una diavoleria simile, ci scommetto.

«Ma quello che volevo era creare una soluzione di continuità fra il nostro gruppo e il vostro. Volevo che ignoraste completamente tutto quanto avveniva su questo continente. Volevo farvi pensare al peggio e farvelo attribuire ai Serpenti, se possibile. Quando foste tornati qui, se mai foste tornati, mi sarebbe stato facile dimostrarvi che, se non mi ero mai fatto vivo, era stata colpa dei Serpenti, che non mi avevano permesso di comunicare. Anzi, avevo diversi altri piani già pronti, miranti allo stesso scopo, ma non è il caso che adesso mi metta a riferirveli nei particolari; inoltre, sarebbe inutile, visto che non sono approdati a nulla. Ma sono certo che sarei riuscito a convincervi, a dispetto di qualsiasi asserzione del Padre mirante a dimostrare il contrario.

— Sei proprio sicuro di non desiderare che spenga il registratore? — chiese Michelis, con calma.

— Oh, butta via quella maledetta chiave, per favore, e stammi ad ascoltare. Dal mio punto di vista, è stato un brutto smacco finire contro un ananasso proprio all’ultimo momento. Ha dato al Padre la possibilità di scoprire che avevo qualcosa da nascondere. Sono pronto a scommettere che se non fosse successo, egli non si sarebbe accorto di nulla prima del vostro arrivo, e quando se ne fosse accorto sarebbe stato troppo tardi.

— Non mi sarei probabilmente accorto di nulla, è vero — disse Ruiz-Sanchez, guardando fisso Cleaver. — Ma non è stato un caso che siate caduto sul vostro «ananas». Se aveste osservato Lithia, dato che eravate venuto qui per fare proprio questo, invece di perdere il tempo a costruire un pianeta fittizio conforme ai vostri piani, avreste capito Lithia abbastanza per sapere che bisogna diffidare di questi «ananas». E avreste imparato a parlare lithiano almeno quanto Agronski.

— È probabile, ma come vi ho detto altre volte, ciò per me non ha la minima importanza. Ho osservato su Lithia un fatto che, a mio avviso, supera tutti gli altri e che si mostrerà sufficiente a convincervi. Diversamente da voi, Padre, io non ho alcun rispetto delle piccole prove di correttezza, quando mi trovo in una situazione che chiede il tutto per il tutto, e non sono il tipo di persona che crede di poter guadagnare qualcosa dalle analisi di un insuccesso.

— Non cominciamo a fare battibecchi fin dall’inizio — disse Michelis. — Ci hai raccontato la tua storia senza apportare troppi abbellimenti, a quanto ho sentito, ed è evidente che devi avere una ragione per confessare. Ora ti aspetti che ti scusiamo, o che, almeno, non ti condanniamo troppo severamente, una volta che tu ci abbia spiegato la tua ragione. Dunque, sentiamola.

— Ecco… — disse Cleaver, e per la prima volta parve animarsi. Si piegò in avanti, e la luce delle fiammelle a gas portò le ossa della sua faccia a contrastare nettamente con la scarnezza delle guance. Puntò verso Michelis una mano tremante:

— Sapete, voi tre, su che cosa camminiamo in questo momento? Innanzi tutto, sai, Mike, quanto rutilio ci sia qui?

— Naturalmente, lo so. È stato Agronski che me lo ha segnalato e da quel momento cerco di trovare un metodo pratico per raffinare il minerale greggio. Se decidiamo di aprire il pianeta, i nostri problemi relativi al titanio sarebbero risolti per almeno un secolo. È quanto sostengo nel mio rapporto personale. Ma che c’è di straordinario? Avevamo già previsto tutto ciò ancor prima di atterrare su Lithia, quando ci furono comunicati i dati precisi sulla massa del pianeta.

— Parliamo ora un po’ della pegmatite — propose Cleaver quasi con dolcezza.

— Della pegmatite? — ripeté Michelis, sempre più interdetto. — Immagino che ve ne sia in abbondanza, devo confessare però che non ho nemmeno controllato. Il titanio ci interessa, ma non vedo a che cosa possa servirci il litio. L’epoca in cui questo metallo veniva usato come carburante per razzi è già finita da cinquant’anni.

— E nessuno la rimpiange — commentò Agronski. — Quei vecchi motori a litio-fluoro scoppiavano come bombarde. Bastava una perdita nei tubi dell’alimentazione, e… bum!

— Ciò non toglie che sulla Terra questo metallo valga sempre qualcosa come ventimila dollari la tonnellata, prezzo che, press’a poco, corrisponde a quello del secolo scorso, tenuto conto della svalutazione. Questo non ti dice nulla?

— Sarei curioso di sapere ciò che dice a te — ribatté Michelis. — Nessuno di noi guadagnerà un soldo in questa spedizione, anche se scoprissimo che l’interno del pianeta è di platino massiccio… cosa poco probabile. D’altra parte, se consideriamo soltanto il prezzo, ti ricordo che se il minerale di litio è così abbondante su questo pianeta farà precipitare i prezzi del mercato. A che servirebbe, del resto, su vasta scala?

— A fare delle bombe — rispose Cleaver. — Delle vere bombe. Bombe a fusione. Non si può usare in una fusione controllata, per produrre energia, ma il sale di deuterio permette di costruire le più potenti bombe conosciute: esplosioni di un grandissimo numero di megatoni.

Bruscamente, Ruiz-Sanchez si sentì di nuovo stanchissimo, malato. Era esattamente quello che aveva temuto: si dia l’esistenza di un pianeta battezzato Lithia solo perché sembra composto principalmente di rocce, ed ecco saltar fuori una certa categoria di cervelli disposti ad abbandonare ogni altra cosa, per cercare in quel mondo solo un metallo chiamato litio. L’aveva temuto, certo, ma si era anche augurato che i suoi timori fossero infondati…

— Paul — disse, — correggo quanto ho detto prima. Vi avrei scoperto in qualsiasi caso, anche se non foste andato a sbattere contro il vostro «ananasso». Quello stesso giorno, mi avete detto che stavate cercando la pegmatite, quando vi è successo l’incidente, e che pensavate che Lithia potesse essere il posto adatto alla produzione di litio su grande scala. Evidentemente pensavate che non avrei capito di cosa stavate parlando. Se non aveste urtato l’«ananasso», vi sareste tradito ugualmente, facendo dei discorsi come quello che ci avete fatto ora. L’opinione che avete di me si basa su una quantità di informazioni altrettanto scarsa quanto quella su cui si basa la vostra opinione di Lithia.

— È molto agevole — fece Cleaver, con aria indulgente, — dire «io l’ho sempre saputo»… specialmente quando c’è in funzione il registratore.

— Certo, è agevole, quando l’altro ti aiuta — disse Ruiz-Sanchez. — Ma io credo che la vostra idea di Lithia come una riserva potenziale di bombe all’idrogeno, sia solo il principio di quello che avete in mente. E non credo che sia questo il vostro vero scopo. Ciò che desiderate di più è vedere Lithia scomparire dall’universo. Voi detestate questo pianeta. Lithia vi ha fatto ammalare. Vorreste poter credere che non esiste. Di qui la vostra enfasi nel dichiarare che Lithia è una fonte di munizioni, più di ogni altra cosa. Perché, se questo punto sarà accettato, Lithia verrà posta sotto sigillo di sicurezza. Non è così?

— Certo, è così, ma non datevi tante arie di leggere nel pensiero degli altri — rispose Cleaver con una smorfia. — Se perfino un prete riesce a capirla, allora è una cosa chiara a tutti… e occorre cancellarla mettendo in discussione le intenzioni di colui che se n’è accorto per primo. Ma al diavolo tutto questo. Mike, ascoltami, Abbiamo qui la più bella occasione che si sia mai offerta a una commissione esplorativa. Questo pianeta sembra creato apposta per essere trasformato da cima a fondo in un laboratòrio termonucleare e in un centro di produzione. Abbiamo qui a portata di mano riserve praticamente inesauribili delle principali materie prime. Cosa ancora più importante, questo pianeta non ha ancora nessuna conoscenza, nel campo dell’energia atomica, che ci possa preoccupare. Tutto il materiale, gli elementi radioattivi, eccetera, che occorre per giungere alla conoscenza dei fenomeni atomici, dovremo portarlo da altri pianeti: i Serpenti non lo conoscono. Inoltre, gli strumenti indispensabili, i contatori, gli acceleratori di particelle, tutti dipendono da materiali come il ferro, che i Serpenti non hanno, e da princìpi che essi ignorano, dal magnetismo alla meccanica quantistica. Potremmo impiantare qui i nostri stabilimenti grazie a questa riserva immensa di mano d’opera a buon mercato, che non sa abbastanza e, se sapremo prendere le necessarie precauzioni, non giungerà mai a saperne abbastanza per impadronirsi delle nostre tecniche segrete.

«Bastano tre voti sfavorevoli, "utilità nulla", nei riguardi di questo pianeta, in modo da escludere ogni utilizzazione di Lithia come scalo o come ogni altro genere di base, per un secolo. Nello stesso tempo, mandiamo un rapporto segreto al consiglio di sicurezza dell’ONU, riferendo esattamente quello che è Lithia: un utilissimo arsenale per la Terra intera, per l’intera unione dei pianeti posti sotto il nostro controllo. Solo la decisione verrà resa di natura pubblica, sulla Terra; il nastro è segreto: sarebbe un vero delitto trascurare un’occasione simile.»

— Contro chi? — domandò Ruiz-Sanchez.

— Come? Non capisco.

— Contro chi volete creare questo arsenale? Perché dovremmo avere bisogno di un intero pianeta destinato alla fabbricazione di bombe termonucleari?

— L’ONU potrebbe avere bisogno di queste bombe — rispose seccamente Cleaver. — Non è poi passato molto tempo da quando c’erano ancora sulla Terra nazioni ribelli, e ciò potrebbe ripetersi una seconda volta. E non va nemmeno dimenticato che le armi termonucleari durano soltanto qualche anno e non si possono immagazzinare indefinitamente, come le bombe a fissione. Il tempo di dimezzamento del tritio è brevissimo, e nemmeno il lithio-6 è molto longevo. Immagino che voi ignoriate questo particolare. Ma credetemi senz’altro, le forze dell’ONU non sarebbero scontente di avere a loro disposizione una riserva praticamente inesauribile di bombe a fusione, e di mandare al diavolo il problema dei Rifugi!

«D’altra parte, se ci avete mai pensato, sapete quanto me che questa continua annessione di pianeti pacifici non durerà in eterno. Prima o poi, che accadrà se il pianeta che abborderemo si rivelerà un mondo come la Terra? I suoi abitanti si batteranno per restare al di fuori della nostra influenza. Oppure, che accadrà se il prossimo pianeta si rivelasse l’avamposto di un’intera federazione, forse più potente della nostra? Se questo giorno dovesse venire, e verrà certamente, saremo più che felici di poter colpire il nemico da un polo all’altro con bombe a fusione e di chiudere i conti col minor numero di vittime possibile.»

— Da parte nostra — soggiunse Ruiz-Sanchez.

— C’è forse un’altra parte?

— Per Giove, non è poi un’idea da buttarsi via — disse Agronski. — Tu che ne dici, Mike?

— Non sono ancora troppo sicuro — rispose Michelis. — Il fatto è, Paul, che io continuo a non capire perché tu abbia creduto necessario fare il cospiratore con tutti noi. Ora ci hai esposto onestamente le tue ragioni, e in esse c’è molta verità, ma tu stesso hai confessato che intendevi servirti dell’inganno per farci venire dalla tua parte. Perché? Non avevi fiducia nelle tue ragioni?

— Esattamente — rispose Cleaver, aggressivo. — Non mi sono mai trovato a far parte d’una commissione come la nostra prima d’ora: una commissione senza un presidente definito e con un numero pari di membri, così che in caso di divergenza d’opinioni non c’è modo di avere una maggioranza. Una commissione in cui la voce di un uomo la cui testa è infarcita di ipocrite distinzioni morali d’una metafisica vecchia di tremila anni ha lo stesso peso di quella d’uno scienziato.

— Tu stai esagerando un poco, Paul — disse Michelis.

— Lo so. Se si tratta di questo, sono disposto a dichiarare qui come altrove che il Padre è un biologo stupendo. L’ho visto lavorare e non c’è nessuno migliore di lui, senza contare che ci sono novantanove probabilità su cento che mi abbia salvato la vita. Questo fa di lui uno scienziato al pari di noi… ammesso che la biologia sia una scienza.

— Grazie — disse Ruiz-Sanchez. — Se figurasse un po’ più di storia nella vostra formazione culturale, Paul, sapreste anche che i Gesuiti furono tra i primi esploratori a entrare in Cina, in Paraguay e nelle solitudini selvagge del Nord America. Forse allora non vi sareste tanto stupito nel vedermi qui.

— È possibile. Tuttavia questo non ha nulla a che vedere col problema come lo concepisco. Rammento di avere visitato una volta i laboratori di Notre Dame, dove i Gesuiti hanno creato un vero piccolo mondo di piante e animali in un ambiente rigorosamente sterile, e ne hanno tratto non so quanti miracoli fisiologici. Mi sono allora chiesto come un individuo potesse essere un così perfetto scienziato e nello stesso tempo un così buon cattolico, o comunque religioso. Mi sono chiesto in quale compartimento del loro cervello quei Gesuiti riponessero la loro religione e in quale la loro scienza. E aspetto ancora una risposta.

— Non ci sono compartimenti, nei loro cervelli — disse Ruiz-Sanchez. — Perché le due cose formano un tutto unico.

— Sì, me l’avete già detto una volta, quando ne abbiamo parlato. Tuttavia, quest’affermazione non è una risposta; anzi, mi ha convinto ancora di più che i miei sotterfugi erano assolutamente necessari. Non volevo correre il rischio che qui, su Lithia, questi compartimenti finissero col collegarsi troppo tra loro. Era mia intenzione isolare il sacerdote al punto che la sua voce venisse ignorata dagli altri. Ecco perché mi sono messo a fare il cospiratore. Ho fatto forse la figura dello stupido, perché suppongo che ci voglia un certo allenamento per diventare un buon agente provocatore, e tutto sommato, avrei dovuto pensarci prima.

Ruiz-Sanchez si chiese quale sarebbe stata la reazione di Cleaver quando avesse scoperto, ed era solo questione di tempo, ormai, che i suoi piani si sarebbero realizzati anche senza bisogno che lui alzasse un dito. Naturalmente, quell’uomo dedito alla Scienza, votato alla più grande gloria dell’uomo, non poteva che attendersi un fallimento: era la fallibilità dell’uomo. Ma avrebbe potuto capire Cleaver, attraverso la sua ordalia, che cosa era accaduto a Ruiz-Sanchez quando aveva scoperto la fallibilità di Dio? Sembrava poco probabile.

— Il fatto è che non mi pento di avere tentato — stava dicendo Cleaver a mo’ di conclusione. — Mi dispiace soltanto di avere fatto fiasco!

CAPITOLO SETTIMO

Una breve pausa, penosa.

— È tutto? — domandò Michelis.

— È tutto, Mike. Oh… un’altra cosa. Il mio voto, se qualcuno fosse ancora in dubbio, è di tenere chiuso il pianeta. Il motivo l’ho detto.

— Ramon, volete parlare voi, ora? — disse Michelis. — Ne avete certamente il diritto, visto che siete stato, attaccato personalmente. L’atmosfera è un po’ accesa, in questo momento, temo.

— No, Mike, parlate voi.

— Non sono ancora pronto a parlare, a meno che la maggioranza non lo esiga. Tu, Agronski?

— Sì, certo — disse Agronski. — Come geologo, e come individuo che non ama i ragionamenti elaborati, sono dalla parte di Cleaver. Non vedo argomenti pro o contro questo pianeta, all’infuori dei motivi di Cleaver. È per così dire un pianeta normale, tranquillo, non molto ricco dal punto di vista delle nostre necessità… sì, quel gchteht è un’ottima bevanda: ma è un genere di lusso… e che pare non possa darci alcun guaio, almeno a quanto ho potuto vedere. Potrebbe rappresentare un buon scalo, ma di tanti altri mondi in questa regione della Galassia si può dire la stessa cosa.

«Sarebbe anche un arsenale eccellente, nel senso con cui Cleaver intende arsenale. Per il resto è così privo d’interesse come l’acqua di uno stagno. La sola altra risorsa che possa offrire è il titanio, che non è poi così scarso sulla Terra, al giorno d’oggi, come Mike ha l’aria di credere; e una certa quantità di pietre preziose e di pietre dure, che possiamo fabbricare benissimo sulla Terra, senza aver bisogno di andarle a cercare a cinquanta anni luce. Secondo me, ci sono due soluzioni: o fare di questo pianeta uno scalo, trascurando tutto il resto, o seguire la proposta di Cleaver.»

— E voi per quale soluzione optereste? — domandò il Gesuita.

— Be’… Qual è la più importante, Padre? Di pianeti scalo, non ce n’è forse a iosa? Mentre, pianeti che possano essere trasformati in laboratori nucleari non se ne trova molti: Lithia è il primo che si possa utilizzare in questo senso. Perché allora utilizzare questo pianeta a scopi banali, visto che si tratta di un pianeta che ha una caratteristica unica? Perché non applicare il «rasoio di Occam», la legge della parsimonia? Risulta valida per qualsiasi altro problema scientifico che sia stato mai affrontato.

— Il «rasoio di Occam» non è una legge naturale — disse Ruiz-Sanchez. — È soltanto una comodità euristica… un trucco per apprendere, in altre parole. E inoltre, Agronski, dice di scegliere la soluzione più semplice che rispetti tutti i dati del problema. E voi non avete tutti i dati: vi mancano i più importanti.

— D’accordo, allora: mostratemeli — disse Agronski, con aria fintamente pia. — Ho una mente molto aperta.

— Ma in definitiva, sei per la chiusura del pianeta? — disse Michelis.

— Certo, è quello che dicevo.

— Volevo semplicemente un sì o un no per il magnetofono. Ramon, suppongo che tocchi a noi ora. Volete che parli prima io?

— Avanti pure, Mike.

— Bene — cominciò Michelis con voce pacata, senza mutare il proprio tono abituale, di ponderosa imparzialità. — Dirò che secondo me questi due signori sono degli imbecilli, e imbecilli pericolosi per giunta, dato che passano per scienziati. Paul, le tue manovre volte a creare una situazione falsa sono addirittura al di sotto dello stesso disprezzo, e non desidero riparlarne. Non chiederò nemmeno che le si tagli dalla registrazione, così che non dovrai sentire il dovere di sanare qualunque disaccordo tra le nostre opinioni. Considero soltanto lo scopo a cui queste manovre dovevano servire, esattamente come hai voluto tu.

La sicurezza di Cleaver parve lievemente scossa. Egli disse: — Continua — e si rimboccò meglio la coperta sotto le gambe.

— Nulla ci autorizza a pensare che Lithia possa diventare un arsenale — riprese Michelis. — Tutti i fatti che porti a sostegno della tua tesi non sono che mezze verità o pure menzogne. Prendiamo un po’ questa famosa mano d’opera a buon mercato, per esempio. Con che cosa ti riprometti di pagare i Lithiani? Essi non hanno sistema monetario e non li si può compensare in natura. Hanno quasi tutto ciò di cui abbisognano, e sono soddisfatti del loro attuale modo di vita: Dio sa che non sono nemmeno lontanamente gelosi delle conquiste che secondo noi rendono grande la Terra. Piacerebbe loro avere il volo spaziale, ma è questione di poco tempo, e poi lo avranno: anno già ora il motore a reazione ionico, e per un secolo non avranno bisogno dell’iperpropulsione Haertel.

Si guardò intorno per la stanza dolcemente incurvata, che la luce a gas illuminava di un chiarore molle e riposante.

— E non vedo — riprese, — che lavoro potrebbe fare, in una casa come questa, un aspirapolvere con quarantacinque accessori brevettati. Come pagherai i Lithiani per farli lavorare nei tuoi impianti termonucleari.

— Col Sapere — rispose burberamente Cleaver. — Ci sono un monte di cose che i Serpenti amerebbero sapere.

— Ma quale Sapere, Paul? Le cose che i Lithiani vorrebbero conoscere sono proprio quello che non potrai mai rivelare loro, se dovranno servirti come mano d’opera. Insegnerai loro la meccanica quantistica? Non puoi: sarebbe troppo pericoloso. O insegnerai loro la nucleonica, oppure il paradosso di Haertel? Anche ora, si tratta di cose che possono far loro apprendere nozioni pericolose. Insegnerai loro come estrarre il rutilio o come raccogliere quantità sufficienti di ferro perché possano sviluppare la loro conoscenza dell’elettrodinamica o come superare questa Età della pietra (anzi, Età della ceramica, dovrei dire) in cui vivono attualmente, per farli arrivare all’Età della plastica? No, ovviamente. In realtà, non abbiamo nulla da offrire loro in questo senso. Tutto sarebbe tenuto rigorosamente segreto in base agli scopi stessi che ti proponi, e in queste condizioni essi si rifiuterebbero di lavorare.

— Mettiamoli davanti ad altre condizioni — disse Cleaver, brusco. — Se necessario, ordiniamo loro quello che dovranno fare, piaccia o non piaccia loro. Non dovrebbe essere difficile introdurre su questo pianeta un tipo di sistema monetario. Dai a un Serpente un pezzo di carta su cui è scritto «Vale 1 Dollaro» e se ti chiede che cosa gli dà il valore di un dollaro tu gli rispondi che vale una buona giornata di lavoro.

— E gli puntiamo una pistola nel ventre a sostegno della nostra tesi — disse il Gesuita.

— Per che cosa dovremmo fabbricare pistole, se no? Non ho mai pensato che potessero servire ad altro. O le puntate su qualcuno, o potete anche buttarle via.

— In altre parole, schiavismo — disse Michelis. — E con questo il roblema della mano d’opera a buon mercato è risolto. Rifiuto di votare per lo schiavismo. Altrettanto fa Ramon. Tu, Agronski?

— Rifiuto anch’io — disse Agronski, a disagio. — Ma non è questo un punto secondario?

— Secondario? Ma se è la ragione stessa per cui siamo qui! Siamo tenuti a pensare al benessere dei Lithiani come al nostro; diversamente i lavori della nostra commissione non rappresenterebbero che una perdita di tempo, di riflessioni e di energia. Se volessimo soltanto mano d’opera a buon mercato, potremmo fare schiavo subito qualsiasi pianeta, senza tante discussioni.

— E come? — disse Agronski. — Non ci sono altri pianeti. Voglio dire: nessun pianeta con vita intelligente tra quelli che abbiamo esplorato finora. Non possiamo ridurre in schiavitù un granchio delle sabbie marziane.

— Il che ci riporta al problema del nostro benessere — disse Ruiz-Sanchez. — Siamo tenuti a considerare anche questo. Sapete che cosa accade a un popolo diventato schiavista? Cade in decadenza.

— Molta gente ha lavorato per quattrini, senza per questo essere divenuta schiava — disse Agronski. — Non mi disturba affatto ricevere un assegno in cambio del mio lavoro.

— Non c’è denaro su Lithia — ribatté Michelis. — Se lo introdurremo qui, sarà solo con la forza. Lavoro forzato equivale a schiavitù. Come dovevasi dimostrare.

Agronski non disse nulla.

— Su, parla — invitò Michelis. — È vero o no?

— Sì, immagino che sia vero — disse Agronski. — Non ti eccitare tanto, Mike, non è il caso.

— Cleaver?

— Schiavitù è soltanto una parola antipatica — disse Cleaver di malumore. — Tu stai deliberatamente intorbidando le acque.

Prova a ripeterlo.

— Oh, al diavolo. Va bene, Mike, so che non lo faresti mai. Comunque, si potrà sempre trovare un sistema di pagamenti equi.

— Ti crederò quando me l’avrai dimostrato — disse Michelis, alzandosi bruscamente. Si avvicinò alla finestra e sedette sul davanzale inclinato, lo sguardo perduto fuori, nella pioggia e la tenebra. Appariva profondamente turbato: più di quanto Ruiz-Sanchez sarebbe stato disposto a concedergli prima di quel momento. Il sacerdote era stupito: sia per Michelis sia per se stesso; l’argomento del denaro non gli era mai venuto in mente, e Michelis, inconsapevolmente, aveva messo il dito su una piaga dottrinaria che Ruiz-Sanchez non era mai riuscito a conciliare con le proprie credenze. Gli vennero in mente i versi che avevano riassunto il dilemma ai suoi occhi, versi scritti cent’anni prima:

La traballante vecchia Chiesa ha perso le zanne,

Non si oppone più al neshek; il grasso ha coperto i suoi pastorali…

Neshek era il prestare denaro a interesse, un peccato che un tempo veniva chiamato usura: per esso Dante aveva messo degli uomini all’Inferno. E ora Mike, che non era affatto cristiano, veniva a sostenere che il denaro in se stesso era una forma di schiavitù. Si trattava, come scoprì Ruiz-Sanchez tastandola mentalmente ancora una volta, di una piaga molto dolorosa.

— In attesa — riprese Michelis — continuerò con la mia analisi. Che cosa dobbiamo dire di questa teoria della segretezza automatica di cui hai parlato, Paul? Tu pensi che i Lithiani non siano capaci di imparare le tecniche di cui avrebbero bisogno per scoprire i nostri segreti e trasmetterseli, e che pertanto nessuna segretezza sia necessaria. Anche qui, ti sbagli. E se ti fossi preso il disturbo di studiare, anche in modo superficiale, i Lithiani, lo sapresti. I Lithiani sono dotati di grande intelligenza e possiedono già molti degli elementi di cui avranno bisogno. Ho dato loro una mano nelle ricerche sul magnetismo ed essi hanno assorbito queste conoscenze in modo prodigioso, e ne hanno trovato delle applicazioni estremamente ingegnose.

— È quello che ho fatto anch’io — disse Ruiz-Sanchez. — Ho suggerito loro un metodo per la raccolta del ferro, metodo che ha tutte le probabilità di risultare efficace; mi sono limitato a dare un consiglio e loro, in men che non si dica, hanno subito capito tutto e hanno mosso i primi passi verso la soluzione. Riescono a mettere a frutto il minimo degli indizi.

— Se fossi l’ONU — ribatté Cleaver seccamente, — considererei le vostre azioni come tradimento puro e semplice. Faresti meglio a usare di nuovo la chiavetta, Mike, per il tuo bene… se sei ancora in tempo. Non è possibile che i Serpenti conoscessero già i vostri trucchi e abbiano semplicemente voluto mostrarsi cortesi con voi?

— Piantala di tendermi trappole — disse Michelis. — Il nastro gira e continua a girare, per tua richiesta. Se hai qualche pentimento, mettilo nel tuo rapporto personale, ma non cercare di farmi nascondere qualcosa proprio adesso. Non funziona.

— Ecco quello che capita — osservò Cleaver — quando vuoi far del bene!

— Se questa era la tua intenzione, grazie, Paul — disse Michelis. — Ma ho ancora qualche cosa da dire. Per quel che riguarda l’obiettivo pratico che ti sei prefisso, dichiaro che è tanto inutile quanto impossibile. Il fatto che questo pianeta sia particolarmente ricco di litio non implica che noi si cammini sopra una miniera d’oro, quale che sia, sulla Terra, il suo prezzo.

«Il fatto è che questo litio non lo puoi trasportare sulla Terra. La sua densità è così bassa che non ne potremmo inviare più d’una tonnellata per astronave; e una volta che il metallo fosse arrivato sulla Terra, le spese del suo trasporto supererebbero largamente il prezzo che se ne potrebbe ottenere. Credevo che tu sapessi che ci sono anche sulla Luna grandi quantità di litio, ma che non ne conviene il trasporto sulla Terra, nemmeno su una distanza così breve come quella che divide il nostro pianeta dal suo satellite. Lithia si trova a qualcosa come circa 500 trilioni di chilometri dalla Terra, che sono l’equivalente di 50 anni luce. Nemmeno il radium converrebbe trasportare, su una distanza simile!

«E nemmeno sarebbe conveniente il trasporto dalla Terra su Lithia di tutte le pesanti strutture necessarie per l’utilizzazione qui del litio. Non c’è ferro, qui, per costruire grandi magneti. Una volta che tu avessi portato su Lithia, i tuoi acceleratori di particelle, i tuoi cromatografi di massa e tutto il resto, l’impresa sarebbe costata all’ONU una tale somma che nemmeno tutta la pegmatite disponibile qui potrebbe compensarla. Non è esatto, Agronski?»

— Non sono un fisico — rispose Agronski, con una leggera smorfia, — ma so che la sola estrazione del metallo dal minerale e quindi il suo immagazzinamento verrebbe a costare una cifra colossale, questo è certo. Il litio greggio, poi, brucerebbe come fosforo in questa atmosfera, così che bisognerebbe immagazzinarlo e lavorarlo sotto uno strato di olio. E ciò, si capisce, aumenterebbe enormemente le spese.

Michelis guardò Cleaver, poi Agronski, infine di nuovo Cleaver.

— Esatto — disse. — E questo è solo un aspetto del problema. Tutto questo progetto è una chimera.

— Ne hai forse uno migliore? — domandò Cleaver placidamente.

— Lo spero. Mi sembra che noi abbiamo molto da imparare dai Lithiani, così come i Lithiani hanno molto da imparare da noi. Il loro sistema sociale funziona come la più perfetta delle nostre macchine e ciò, a quanto pare, senza nessuna costrizione sull’individuo. È una società fondamentalmente liberale per quanto riguarda i diritti dell’individuo, eppure, nello stesso tempo, essa non tende mai verso la totale disorganizzazione, o verso il tipo di gandhismo che tiene legata la gente alla fattoria dei padri e al sistema di distribuzione nomadico. È in equilibrio, e non in equilibrio precario: è in un perfetto equilibrio chimico.

«L’idea, quindi, di utilizzare Lithia come impianto per la fabbricazione di bombe a fusione è il più assurdo anacronismo in cui mi sia mai imbattuto, così grossolano come lo sarebbe l’idea di equipaggiare una nave interstellare con galeotti al remo, vele e così via. È proprio qui, su Lithia, che si trova il segreto vero, il segreto che renderà le bombe d’ogni specie, e tutto il resto degli armamenti antisociali, inutili e antiquati come la corazza e la cotta di maglia.

«Senza contare… un momento, Paul, non ho ancora finito… senza contare che i Lithiani sono di parecchi secoli più avanti di noi in certi campi, come noi lo siamo più di loro in certi altri. Dovresti vedere quello che sono capaci di fare nelle discipline miste, come l’istochimica, l’immunodinamica, la biofisica, la teratassonomia, la genetica osmotica, l’elettrolimnologia e una cinquantina di altri campi. Se tu avessi saputo guardare, avresti visto.

«Abbiamo molto di meglio da fare, direi, che limitarci a votare per l’apertura del pianeta. Il fatto essenziale è che abbiamo bisogno di Lithia. È questo che dovremo dire nel nostro rapporto.»

Michelis scivolò giù dal davanzale e guardò tutti, a uno a uno, ma soprattutto Ruiz-Sanchez, che gli rivolse un sorriso: ma un sorriso tanto angosciato quanto d’ammirazione, prima di abbassare di nuovo lo sguardo.

— Allora, Agronski? — disse Cleaver, sputando le parole come pallottole che avesse schiacciato fra i denti, come un ferito della Guerra di Secessione durante un’operazione condotta senza anestesia. — Che ne dici ora? Ti piace questo bel quadretto?

— Sì, mi piace — rispose Agronski, lentamente ma con fermezza. Era una sua virtù, come, spesso, una fonte di esasperazione per gli altri, dire esattamente quello che pensava nell’istante in cui ne veniva richiesto. — Quello che dice Mike mi sembra sensato. Da lui non mi aspettavo di meno, se posso dirlo. E inoltre ci ha detto quello che pensava, senza cercar di farci pensare come lui con manovre più o meno losche.

— Oh, ma non fare il fesso! — sbraitò Cleaver. — Siamo scienziati o giovani esploratori? Ogni individuo razionale, alle prese con una maggioranza di buoni samaritani in servizio permanente effettivo, avrebbe preso le stesse precauzioni che ho preso io!

— Può darsi — disse Agronski. — Ma non ne sono tanto sicuro. Che cosa c’è di tanto stupido nell’essere animati di buone intenzioni? È forse un male fare il bene? Preferisci essere un «cattivo samaritano», qualunque cosa esso sia? Le tue precauzioni mi sembrano più che mai la confessione di qualche punto debole nel tuo ragionamento. Quanto a me, non mi piace venir raggirato; e non mi piace nemmeno che mi si dia del fesso.

— Oh, per l’amor di Dio…

— Ora stammi bene a sentire — continuò Agronski, senza nemmeno tirare il fiato. — Prima che tu mi dica altre insolenze, intendo dirti che secondo me hai più ragione di Mike. Non mi piacciono i tuoi metodi, ma il tuo progetto mi sembra ragionevole. Mike ha distratto buona parte delle tue tesi, lo ammetto; ma per quel che mi riguarda, sei sempre tu che conduci, anche se di corta misura. — Fece una pausa, respirando affannoso, e fissando il fisico con occhi truculenti. — Di corta misura, Paul. Ecco tutto. Non dimenticarlo.

Michelis rimase in piedi ancora per un istante. Quindi, stringendosi nelle spalle, tornò al suo sgabello e sedette, le mani chiuse fra le ginocchia, in un gesto d’impotenza.

— Ho fatto del mio meglio, Ramon — disse. — Ma per il momento sembra che io abbia fatto fiasco. Vedete voi, ora, quello che potrete fare voi.

Ruiz-Sanchez trasse un profondo sospiro. Ciò che stava per fare, lo avrebbe fatto soffrire per tutto il resto della sua vita, anche se il passar del tempo guarisce ogni ferita. La decisione gli era già costata molte ore di concentrazione, di sofferenza, di dubbio. Ma sentiva che non c’era altro da fare.

— Non sono d’accordo con nessuno di voi — disse, — se non con Cleaver. Esattamente con lui, penso che si debba votare in senso sfavorevole, ma con l’aggiunga di una menzione speciale: X-1.

Gli occhi di Michelis si sbarrarono, colmi di stupore. Cleaver sembrava non credere alle proprie orecchie.

— X-1… ma è il simbolo che si dà ai pianeti in quarantena — disse Michelis con voce roca. — In realtà non capisco…

— Sì, Mike, esattamente. Voto che Lithia sia tagliata fuori da ogni contatto con la razza umana. Non solo per il presente, o per il prossimo secolo, ma per sempre.

CAPITOLO OTTAVO

Per sempre.

Queste parole non provocarono la costernazione che aveva temuto, o forse, nel profondo della mente, sperato. Evidentemente, erano tutti troppo stanchi. Accettarono con una specie di apatia stupefatta la sua dichiarazione: era così lontana dall’ordine degli eventi che si aspettavano, da perdere ogni significato.

Era difficile dire se Cleaver o Michelis era più sorpreso. L’unica cosa certa era che Agronski si era ripreso per primo, e che ora si stava grattando dietro le orecchie, con ostentazione, come per dire che sarebbe stato pronto a riprendere ad ascoltare quando Ruiz-Sanchez avesse cambiato opinione.

— Bene — cominciò Cleaver, e ripeté, scuotendo il capo, perplesso: — Bene…

— Insomma, spiegatevi, Ramon — disse Michelis, serrando e aprendo in continuazione i pugni. La sua voce era calma, ma il Gesuita credette di percepirvi un certo turbamento.

— Certo, ma vi avverto che dovrò affrontare l’argomento facendo delle grandi diversioni. Quanto ho da dire è per me della massima importanza: non desidero vedere i miei argomenti respinti senza esame, con la scusa che sono soltanto il risultato della mia educazione o dei miei pregiudizi personali, interessanti forse in astratto, come studio di un’aberrazione, ma senza legame col problema che ci interessa. I fatti che mi hanno indotto ad assumere questo atteggiamento sono più che convincenti. Hanno infatti convinto anche me, contrariamente alle mie speranze e alle mie inclinazioni. Desidero mettervi di fronte a questi fatti.

Il preambolo, pieno di un secco tono scolastico e di sottintesi allusivi, fece il suo effetto.

— Vuol farci capire — commentò Cleaver, che a poco a poco stava ritrovando tutta la sua intolleranza, — che le sue ragioni sono puramente religiose e non starebbero in piedi se le esponesse in modo diretto.

— Zitto — disse Michelis. — Lasciaci sentire.

— Grazie, Mike. Ecco qua. Questo pianeta, dunque, è quello che voi altri chiamereste un preparato artificiale, una messa in scena. Lasciate che vi descriva brevemente come lo vedo, o meglio, come sono giunto a vederlo.

«Lithia è un paradiso. Assomiglia a molti altri pianeti, ma la sua più stretta affinità è con la Terra nel suo periodo pre-adamitico, avanti la comparsa dei primi ghiacciai. L’affinità termina qui, perché Lithia non ha mai conosciuto i ghiacciai, e la vita ha continuato a svolgersi nel paradiso, cosa che non è stata permessa alla Terra.»

— Miti — disse Cleaver, acido.

— Uso le denominazioni che mi sono più familiari; abolite pure queste denominazioni, e vedrete che ciò che dico è ugualmente una realtà, come sapete tutti. Troviamo qui una giungla complessa, con piante che vanno da un’estremità all’altra della gamma della creazione, viventi una accanto all’altra in perfetta amicizia, le cicadee con le cicladelle, le equisetacee giganti con gli alberi da fiore. In larga misura, questo è vero anche per gli animali. Il leone non si corica qui accanto all’agnello, solo perché Lithia non possiede né l’uno né l’altro, ma allegoricamente parlando la frase è appropriata. Il parassitismo è meno frequente su Lithia che sulla Terra e, salvo che in mare, le specie carnivore sono rarissime. Quasi tutti gli animali che vivono sulla terraferma di Lithia mangiano soltanto piante, e, grazie a un ordinamento perfetto tipicamente lithiano, le piante sono mirabilmente condizionate per attaccare gli animali piuttosto che per attaccarsi tra loro.

«È un’ecologia altamente inconsueta, e una delle sue caratteristiche più straordinarie è la sua estrema, quasi maniaca insistenza sulla relazione "a ciascun organismo corrisponde una e una sola nicchia ecologica" e viceversa. Parrebbe quasi che un’entità abbia organizzato l’intero pianeta come un balletto sulla teoria degli aggregati.

«Ora, in questo paradiso abbiamo una forma di vita dominante, il Lithiano, l’uomo di Lithia. Questa creatura è razionale. Si conforma, senza esservi costretta o guidata, al più alto ideale etico a cui noi si sia giunti sulla Terra. Non ha bisogno di leggi per obbedire a questo codice morale. In certo qual modo, ciascun Lithiano lo rispetta come se si trattasse di una cosa ovvia, sebbene non sia mai stata scritta. Non esistono sul pianeta né criminali, né traviati, né aberrazioni di nessun genere. La gente non è tutta uguale e spersonalizzata (la nostra infelice e parziale risposta al dilemma etico), ma, anzi, profondamente individualizzata. Scelgono liberamente la propria linea di condotta e tuttavia non si commette mai nessun atto antisociale. Su Lithia, non esiste nemmeno la parola per esprimere questi atti.»

Il magnetofono fece sentire un ticchettio leggero, indicando che una nuova bobina stava entrando in funzione. L’interruzione sarebbe durata circa otto secondi e con un’ispirazione improvvisa Ruiz-Sanchez pensò di servirsene. Domandò:

— Mike, vorrei interrompermi un istante per rivolgervi una domanda. Finora, a che cosa vi fa pensare tutto ciò?

— Be’, mi fa pensare a ciò che ho detto prima — disse lentamente Michelis. — A una scienza sociale enormemente superiore, fondata con ogni evidenza su un preciso sistema di psicogenetica. Mi pare che basti.

— Benissimo. Continuerò, dunque. In un primo tempo, m’è occorso di pensare come voi. Poi, sono stato indotto a pormi alcune domande. Per esempio: come si spiega il fatto che i Lithiani non solo non abbiano traviati (riflettete un istante, nessun traviato!) ma che il codice morale, in base a cui vivono così perfettamente, sia punto per punto il codice a cui noi ci sforziamo di obbedire? È senza dubbio la più straordinaria delle coincidenze, se ciò è avvenuto per caso. Considerate, vi prego, quante cose imponderabili hanno dovuto giocarvi il loro ruolo. Neppure sulla Terra, non abbiamo mai visto una società che avesse sviluppato indipendentemente gli stessi esatti precetti cristiani, tra cui comprendo anche quelli mosaici. Certo, ci sono state delle analogie dottrinarie: esse sono bastate, nel XX secolo, a incoraggiare la moda delle religioni artificiali, come la teosofia o il vedantismo di Hollywood, ma nessun sistema etico che si sia sviluppato al di fuori del Cristianesimo ha mai concordato con questo punto per punto. Né il mitraismo, né l’islamismo, né l’essenismo: nemmeno quest’ultimo movimento religioso, che ha influito sul cristianesimo o ne è stato influenzato, concorda esattamente con esso in fatto di etica.

«Tuttavia, qui, su Lithia, a cinquant’anni luce dalla Terra, e in seno a una specie vivente così diversa dall’uomo come l’uomo lo è dal canguro, che cosa troviamo? Un popolo cristiano al quale non mancano del Cristianesimo che le definizioni e i simboli. Non so come voi tre reagirete a questa constatazione, ma per parte mia trovo il fatto matematicamente impossibile, in ogni ipotesi, salvo una. È un’ipotesi alla quale tornerò tra breve.»

— Non sarà mai troppo presto per me — disse Cleaver, in tono più sgarbato del solito. — Come un uomo, trovandosi a cinquant’anni luce dalla Terra, nelle profondità dello spazio, possa snocciolare simili assurdità di un modo di vedere ristretto, meschino, parrocchiale, elude la mia comprensione.

— Parrocchiale! — ripeté Ruiz-Sanchez più irosamente di quanto avesse voluto. — Volete dire che ciò che ci sembra vero sulla Terra è reso automaticamente sospetto dal solo fatto del suo trasferimento nelle profondità dello spazio? Vorrei ricordarvi, Paul, che la meccanica quantistica sembra valere anche su Lithia e che voi non vedete in questo fatto nulla di parrocchiale. Se, nel Perù, credo che Dio abbia creato e ancora regga l’universo, non vedo nulla di parrocchiale nel continuare a crederlo su Lithia. Voi avete portato la vostra parrocchia con voi, io ho fatto altrettanto. «Vuoisi così colà dove si puote ciò che si vuole.»

Come sempre, la grande frase accrebbe i battiti del suo cuore. Ma era evidente che non aveva detto nulla agli altri. Che il caso di quelle tre creature fosse disperato? No, no. La Porta non poteva chiudersi dietro di loro finché erano in vita. Dietro quelle mura senza stendardi, le forze oscure potevano strepitare quanto volevano per chiamarli a sé, ma la speranza era ancora in loro.

— Recentemente — riprese, — m’è parso di trovare una scappatoia. Chtexa mi aveva detto che i Lithiani vorrebbero limitare l’incremento della loro popolazione, auspicando a tal fine una qualche forma di controllo delle nascite. Ma, a quanto ho scoperto, il controllo delle nascite nel senso proibito dalla Chiesa è impossibile per i Lithiani; la cosa a cui Chtexa pensava era probabilmente una certa forma di controllo della fertilità, una proposizione alla quale la Chiesa ha dato, condizionatamente, il suo assenso molti decenni or sono. Così che sono stato costretto, anche in questa piccola particolarità, a rendermi conto ancora una volta che noi avevamo trovato su Lithia il più gigantesco rimprovero alle nostre aspirazioni che mai avessimo avuto: un popolo che senza sforzo conduce il genere di vita che sulla Terra noi attribuiamo ai santi soltanto.

«Non dimentichiamo che un musulmano che visitasse Lithia non avrebbe questa impressione. Benché esista su questo pianeta una certa forma di poligamia, i fini e i metodi di questa lo rivolterebbero. Altrettanto dicasi per un taoista, o per un seguace di Zoroastro, se ve ne sono ancora, o per un greco dell’epoca classica. Ma per noi quattro (e incluso anche voi, Paul, perché nonostante i vostri raggiri e il vostro agnosticismo accettate ancora le dottrine etiche del Cristianesimo quel tanto che basta perché vi mettiate sulla difensiva anche quando le deridete), per noi quattro, dicevo, ciò che vediamo su Lithia rappresenta una coincidenza assolutamente incredibile. Il numero delle possibilità contrarie non è soltanto astronomico (l’antica, bolsa metafora per definire dei numeri che ormai non ci paiono più così enormemente grandi): è transfinito. Ci vorrebbe l’ombra dello stesso Cantor per rendere giustizia alle probabilità che vi si oppongono.

— Un momento — disse Agronski. — Io non m’intendo d’antropologia, Mike, è un campo in cui non mi ritrovo, questo. Ho seguito il Padre fino alla parte riguardante le foreste, ma non ho gli elementi per giudicare il resto. È vero quello che il Padre sostiene?

— Sì, credo che sia vero — rispose lentamente Michelis. — Ma in merito alle conclusioni da trarre dalle sue affermazioni può esservi divergenza ’di vedute. Continuate, vi prego, Ramon.

— Certo: ho ancora molte cose da dire. Per ora ho soltanto parlato del pianeta, e in particolare dei Lithiani. Sui Lithiani si possono dire molte cose. Quanto ho detto di loro fino a questo momento si è limitato a porre in evidenza i fatti più ovvi. Potrei continuare a indicarne altri, altrettanto ovvi. I Lithiani non hanno nazioni e non hanno rivalità regionali, ma se si guarda la mappa di Lithia (tanti piccoli continenti e arcipelaghi separati da migliaia di chilometri di mare) viene subito alla mente un mucchio di ragioni per cui questi conflitti dovrebbero esistere. Essi conoscono emozioni e passioni, ma non sono mai indotti da queste ad atti irrazionali. Hanno un solo linguaggio, e non ne hanno mai avuti di più: cosa che, di nuovo, dovrebbe essere impossibile, data la geografia lithiana. Vivono in perfetta armonia, sul loro mondo, con tutto ciò, grande o piccolo, che vi si trova. Insomma, sono delle creature quali non potrebbero affatto esistere… e che tuttavia esistono.

«Andrò ancora più lontano di voi, Mike, e dirò che i Lithiani sono l’esempio più perfetto che noi si possa mai incontrare di quello che dovrebbero essere gli uomini, per la semplicissima ragione che si comportano come si comportava un tempo l’uomo del Paradiso Terrestre, prima della Caduta. Dirò di più: come esempio, i Lithiani ci sono inutili, perché prima dell’avvento del Regno dei Cieli nessun numero significativo di esseri umani potrà mai imitare la loro condotta. Gli uomini sembrano avere in sé imperfezioni innate, che i Lithiani non hanno (il peccato originale, se volete) così che dopo migliaia d’anni di sforzi, noi siamo più che mai lontani dai nostri modelli di condotta, mentre i Lithiani non hanno mai cessato di seguire i loro.

«E vi prego di non dimenticare nemmeno per un istante che questi modelli ideali di condotta sono gli stessi sui due pianeti. Anche questa è una cosa che non avrebbe mai potuto verificarsi, ma si è verificata.

«Vorrei segnalarvi ora un altro fatto interessante a proposito della civiltà Lithiana. È un fatto assodato, indipendente dal suo valore come prova, che voi potete o non potete riconoscere. Il Lithiano è un essere essenzialmente logico. Contrariamente ai Terrestri di ogni colore e descrizione, non ha divinità, né miti, né leggende. Non crede nel sovrannaturale… o, come lo chiamiamo oggi nel nostro barbaro gergo scientifico, nel "paranormale". Non ha tradizioni. Non ha tabù. Non ha fedi, eccettuata la fede impersonale in una perfettibilità illimitata di se stesso e dei suoi simili. È razionale come una macchina. In verità, anzi, l’unica cosa che ci permette di distinguere un Lithiano da una sorta di computer organico è il fatto che possiede e usa un codice morale.

«E questo codice, vi prego di osservare, è completamente irrazionale. Si basa su una serie di assiomi, di proposizioni che furono "date" alle origini, anche se il Lithiano non sente la minima necessità di postulare un Datore. Il Lithiano, Chtexa, per esempio, crede nella santità dell’individuo. Perché? Non attraverso il ragionamento, dato che non c’è nessun modo di giungere, con la sola ragione, a questa proposizione. È un assioma. O ancora: Chtexa crede nel diritto della difesa giuridica, nell’uguaglianza di tutti davanti al codice. Perché? È possibile agire razionalmente a partire da questa proposizione, ma è impossibile arrivarvi attraverso la sola ragione. Se si ammettesse, invece, che la responsabilità verso questo codice variasse con l’età dell’individuo o con la famiglia alla quale appartiene, una condotta logica potrebbe perfettamente discendere dall’una o l’altra di queste proposizioni, ma anche in questo caso non sarebbe possibile giungere al principio etico specifico (responsabilità variabile, nel mio esempio) mediante la sola ragione.

«In tutt’e due i casi, occorre sempre partire da una convinzione indimostrabile. Per noi, è la seguente: "Io penso che tutti gli individui debbano essere uguali davanti alla legge." È un atto di fede, nulla più. Ciò nonostante, la civiltà lithiana è così congegnata da suggerire che si possa giungere a questi assiomi fondamentali del Cristianesimo, e della civiltà occidentale terrestre in generale, attraverso la ragione pura, nonostante il fatto che la cosa non è possibile. Infatti, quel che è un assioma per un razionalista, per un altro razionalista è una pura assurdità.»

— Quelli che avete citato — borbottò Cleaver, — sono davvero degli assiomi. Non si ricavano nemmeno con la fede. Non si ricavano, e basta. Sono verità evidenti di per sé: è la definizione stessa di assioma.

Era la definizione, prima che i fisici la demolissero — rispose Ruiz-Sanchez, con una certa soddisfazione maliziosa. — C’è ad esempio l’assioma che dice che da un punto si può tracciare una e una sola parallela a una data retta. Può essere evidente di per sé, ma nello stesso tempo è anche inesatto, no? Ed è evidente di per sé che la materia è solida. Continuate voi per me, Paul, che siete un fisico. Date un calcio a una pietra e dite: «Con questo gesto rinuncio a Berkeley e a tutte le sue pompe.»

— Già — disse Michelis, a bassa voce. — È davvero strano che la cultura lithiana sia così dominata da assiomi, senza che i Lithiani ne siano consapevoli. Non è precisamente così che vedevo il problema, Paul, ma io stesso sono rimasto colpito dal numero di postulati non fondati che si trovano alla base dei ragionamenti lithiani; nessuno di essi è dimostrato, mentre inyece i Lithiani, in altri punti, sono d’una sottigliezza sbalorditiva. Prendiamo, per esempio, i loro lavori nel campo della fisica dello stato solido. È una scienza edificata in base alla ragione più rigorosa, e tuttavia, se risaliamo fino alle sue proposizioni fondamentali, troviamo un assioma: «La materia è reale.». E come fanno a dirlo? Come possono dimostrarlo con la logica? Secondo me, è una proposizione tutt’altro che inattaccabile. Se dicessi loro che l’atomo non è che un buco nell’interno di un buco dentro un buco, come potrebbero contraddirmi?

— Ma il loro sistema funziona — disse Cleaver.

— E anche la nostra teoria dei solidi funziona, sebbene si parta da assiomi opposti — osservò Michelis. — Il problema non è di sapere se una data teoria funzioni o non funzioni. Il problema è: che cosa funziona? Nemmeno io riesco a vedere come questa immensa struttura logica dei Lithiani possa restare in piedi un solo istante. Non sembra basarsi su niente. «La materia è reale» è una proposizione assurda, a esaminarla da vicino; ogni prova, ogni esperimento, ci suggerisce il contrario.

— Ora vi spiego — disse Ramon. — Voi non mi crederete, ma vi spiegherò lo stesso, perché devo farlo. Sta in piedi perché qualcuno la sostiene. È la risposta più semplice, ed è la risposta completa. Ma prima, vorrei aggiungere un altro particolare a proposito dei Lithiani: essi attraversano una completa ricapitolazione fisica al di fuori del corpo materno.

— Che cosa vuol dire? — domandò Agronski.

— Noi sappiamo come l’embrione umano si sviluppa nell’interno del corpo materno. È innanzi tutto un animale unicellulare, quindi un semplice metazoo, simile a un’idra d’acqua dolce o a una medusa. In seguito passa attraverso molte forme animali, compresi il pesce, l’anfibio, il rettile, il mammifero inferiore, e finalmente diviene abbastanza simile all’adulto da nascere. Non so con che nome venga insegnato a chi studia geologia, ma i biologi chiamano questo processo «ricapitolazione».

«Il termine dice che l’embrione deve passare attraverso le varie fasi dell’evoluzione che ha portato la vita dall’organismo monocellulare all’uomo, ma in un periodo di tempo ridottissimo. C’è un momento, per esempio, nello sviluppo del feto, in cui questo ha branchie, sebbene non le usi mai. Ha la coda fin quasi alla fine del periodo di permanenza nel grembo materno, e raramente anche dopo la nascita, e il muscolo che muove la coda, il pubococcigeo, sussiste nell’adulto; nelle donne, diviene l’anello contrattile intorno al vestibolo. Il sistema circolatorio del feto nell’ultimo mese è ancora come quello del rettile e se non riesce a trasformarsi prima della nascita, viene alla luce un "bambino blu", con il dotto arterioso aperto o qualche altra malformazione cardiaca per cui il sangue venoso si mescola a quello arterioso, come nei rettili. E così di seguito.»

— Vedo — rispose Agronski. — L’idea mi era familiare, ma non avevo riconosciuto il termine. Tuttavia, ora che ci penso, non avevo mai sospettato che l’analogia fosse così grande.

— Ora, anche i Lithiani subiscono questa serie di metamorfosi nel corso del loro sviluppo, ma la subiscono esternamente al corpo materno. L’intero pianeta è un immenso grembo. La femmina lithiana depone le sue uova in una tasca addominale, le uova sono fecondate, poi ella se ne va al mare per partorire i piccoli. Ciò che essa partorisce non è una miniatura del rettile straordinariamente evoluto che è il Lithiano adulto, tutt’altro. Essa mette invece al mondo un pesce, molto simile alla lampreda. Questo pesce vive per un certo tempo in mare, poi, munitosi di polmoni rudimentali, viene a vivere presso a riva. Gettato che sia sulla spiaggia dalle maree, le pinne pettorali di questo pesce polmonato diventano zampe rudimentali, ed esso guizza via nella fanghiglia, trasformandosi in anfibio e imparando a sopportare le durezze della vita lontano dal mare. Gradualmente, le sue membra si irrobustiscono e si saldano meglio al corpo. Esso diviene allora quella specie di grossa rana che vediamo talvolta sulla riva del mare, mentre saltella al chiaro di luna per sfuggire ai coccodrilli.

«Una buona quantità riesce effettivamente a sfuggire. Portano seco nella giungla la loro abitudine a saltellare e, nella giungla, si trasformano ancora una volta: divengono quella specie di canguri che tutti abbiamo visto fuggire tra gli alberi al nostro avvicinarsi e che chiamiamo "cavallette". L’ultima trasformazione è di carattere circolatorio: dal sistema circolatorio sauropside, che ammette ancora qualche miscuglio tra il sangue venoso e l’arterioso, passano al sistema pteropside, che riscontriamo negli uccelli terrestri e che manda al cervello soltanto sangue arterioso ossigenato. Nello stesso tempo, divengono omeostatici e omeotermici, come i mammiferi. Finalmente, emergono adulti dalle giungle, e prendono il loro posto nella popolazione delle città come giovani Lithiani, pronti a essere educati.

«Ma hanno già imparato ad affrontare i pericoli d’ogni ambiente che il loro mondo riserba. Non resta loro che imparare la propria civiltà: i loro istinti sono completamente maturi e perfettamente controllati. I loro rapporti con la natura lithiana sono i più stretti possibili. L’adolescenza è trascorsa e non può più distrarre il loro intelletto: essi sono pronti a diventare esseri sociali in tutto il significato della parola.»

Michelis, al colmo dell’eccitazione intellettuale, si strinse le mani e alzò lo sguardo su Ruiz-Sanchez.

— Ma… è una scoperta senza uguali! — mormorò. — Ramon, già questo potrebbe essere sufficiente a giustificare la nostra venuta su Lithia. Che sconvolgente, che elegante… che bellissima sequenza… e che splendida analisi!

— Molto elegante, proprio — sospirò Ruiz-Sanchez, scoraggiato. — Chi vuole dannarci ammanta spesso di grazia ciò che ci presenta. Ma la Grazia è un’altra cosa.

— È dunque tanto grave? — domandò Michelis, in tono affannato. — Ma, Ramon, la vostra Chiesa non può sollevare obiezioni. I vostri teorici hanno ammesso il concetto della ricapitolazione nell’embrione umano, e non hanno contestato le testimonianze geologiche che mostrano lo stesso processo, svoltosi in un arco di tempo immensamente più vasto. Perché non dovrebbe accettare quanto avviene su Lithia?

— La Chiesa accetta i fatti, come sempre — disse il Gesuita. — Ma, come avete osservato voi stesso, i fatti hanno la caratteristica di puntare spesso in parecchie direzioni opposte. La Chiesa rimane ostile alla dottrina dell’evoluzione (particolarmente in ciò che concerne le origini dell’uomo) come lo è sempre stata, e del resto a ragione.

— O per stupida ostinazione — disse Cleaver.

— Confesso di non avere molto seguito i pro e i contro della polemica — disse Michelis. — Qual è la posizione attuale?

— Ci sono in realtà due posizioni. Potete supporre che l’uomo si sia evoluto come le testimonianze fossili tentano di dimostrare e che a un dato punto della linea evolutiva Dio sia intervenuto, infondendo l’anima: posizione questa che la Chiesa considera valida ma non avalla, perché in passato ha portato a trattare con crudeltà gli animali, che anch’essi sono creature di Dio. Oppure potete supporre che l’anima si sia evoluta insieme col corpo; la Chiesa condanna questo punto di vista in modo totale. Ma queste due posizioni sono poco importanti, qui almeno, di fronte al fatto che la Chiesa ritiene che la testimonianza fossile stessa sia profondamente dubbia.

— Perché? — domandò Michelis.

— Non è facile riassumere in poche parole la Dieta di Bassora, Mike; spero che vorrete occuparvene, quando sarete tornato sulla Terra. Non è molto recente, fu convocata nel 1995, se ben ricordo. Intanto, considerate il problema nel modo più semplice, tenendo bene in mente le premesse fondamentali delle Scritture. Se ammettiamo, per ipotesi, che Dio ha creato l’uomo, lo ha creato perfetto? Non vedo nessuna ragione di supporre che Egli si sia preso il disturbo di dedicarsi a un lavoro inferiore. Un uomo è perfetto senza ombelico? Non so, ma sarei incline ad affermare che non lo è. Tuttavia, il primo uomo… Adamo, sempre per la nostra ipotesi… non era nato di donna e pertanto non aveva bisogno di possedere ombelico. Lo aveva forse? Tutti i grandi pittori della Creazione ce lo mostrano con l’ombelico, e questo, vi dico, mostra che la loro conoscenza della teologia era pari al loro senso estetico.

— E questo che cosa prova? — disse Cleaver.

— Che le prove geologiche, insieme con la ricapitolazione, non dimostrano necessariamente la dottrina relativa alle origini dell’uomo dalla scimmia. Dunque, una volta ammesso il mio assioma iniziale, che cioè Dio abbia creato ogni cosa dal nulla, è perfettamente logico che abbia dato un ombelico a Adamo, annali paleontologici alla Terra e il processo di ricapitolazione all’embrione. Nessuna di queste cose indica necessariamente un vero passato; tutte potrebbero esistere soltanto perché le creazioni relative sarebbero state, diversamente, imperfette.

— E io che credevo astrusa la relatività di Haertel! — esclamò Cleaver.

— Oh, ma questo non è affatto un ragionamento nuovo, Paul; ha ormai più di due secoli. Fu un uomo chiamato Cosse a inventarlo, non la Dieta di Bassora. Ad ogni modo, ogni sistema di pensiero diviene astruso, appena lo si esamini abbastanza a lungo. Non vedo perché la mia fede in un Dio che voi non potete accettare, sia più astratta e complicata della visione di Mike dell’atomo come un buco nell’interno di un buco dentro un buco. M’immagino che alla fine, quando saremo arrivati alla sostanza fondamentale dell’universo, scopriremo che non c’è nulla, ma solo delle non-cose che si muovono in un non-spazio in un non-tempo. Il giorno in cui questo accadrà, a me rimarrà Dio e a voi non resterà nulla, diversamente non vi sarebbe nessuna differenza fra noi.

«Intanto, però, quel che abbiamo qui su Lithia è davvero molto chiaro. Siamo in presenza, ed ora sono disposto ad essere anche sgradevole, di un pianeta e di un popolo sostenuti dal Supremo Nemico. È un’immensa trappola tesa a tutti noi, a tutti gli uomini della Terra e fuor della Terra. La sola cosa che possiamo fare è respingerla; possiamo solo dire: "Vade retro, Satana". Se verremo al minimo compromesso, saremo dannati.

— Perché, Padre? — domandò tranquillamente Michelis.

— Considerate le premesse, Mike. Primo: La ragione è sempre una guida sufficiente. Secondo: Ciò che è evidente è sempre reale. Terzo: Le opere ben fatte sono un fine in se stesse. Quarto: La fede è irrilevante per il retto agire. Quinto: Il retto agire può essere senza amore. Sesto: Si può avere pace e tranquillità senza comprensione. Settimo: Può esistere una morale senza alternativa malvagia. Ottavo: Può esservi morale senza coscienza. Nono: La bontà può esistere senza Dio. Decimo… Ma è proprio necessario che io continui? Abbiamo già udito tutti queste proposizioni e noi sappiamo Chi le propone.

— Una domanda — disse Michelis, e la sua voce era dolorosamente gentile. — Per tendere una trappola simile, dovete concedere al vostro Avversario il potere della creazione. E questa non è… un’eresia, Ramon? Non state forse sostenendo una credenza eretica? O la Dieta di Bassora…

Per un istante, Ruiz-Sanchez non poté rispondere. La domanda lo aveva colpito in pieno petto. Michelis aveva messo a nudo il prete in tutto il tormento della sua defezione, del suo tradimento verso la fede e la Chiesa. Il Gesuita aveva sperato di poter rimandare quel momento, ma così non era stato.

— È un’eresia — disse alla fine, con voce metallica. — Si chiama manicheismo, e la Dieta non l’ha riammesso. — Inghiottì la saliva. — Ma giacché mi ponete la domanda, Mike, non vedo come potrei evitarla, al punto in cui siamo. Non lo faccio con letizia, Mike, ma abbiamo già visto dimostrazioni di questo genere. La dimostrazione, per esempio, data dalle rocce, quella che avrebbe dovuto mostrare come il cavallo si sia sviluppato a partire dall’eohippus, ma che, chissà come, non è mai riuscita a convincere tutto il genere umano. Se davvero l’Avversario ha il potere di creare, c’è almeno una limitazione divina che fa sì che tutte le sue creazioni siano menomate, storpiate. Poi venne la scoperta della ricapitolazione uterina, che doveva costituire un argomento decisivo quanto alle origini dell’uomo. Anche quell’argomento fallì, perché l’Avversario l’aveva posto in bocca a un uomo chiamato Haeckel, il quale era un ateo così fanatico che si mise a deformare le prove per renderle più convincenti. Tuttavia, malgrado i loro punti deboli, questi due argomenti erano molto acuti, ma la Chiesa non si lascia facilmente scuotere; le sue fondamenta sono radicate nella pietra.

«Ora, su Lithia, abbiamo una nuova dimostrazione, più sottile e più grossolana a un tempo di tutte le altre. Potrebbe far dubitare molte persone che nessun’altra cosa avrebbe potuto scuotere, e che non hanno la formazione o l’intelligenza sufficienti per comprendere in che cosa questa dimostrazione sia posticcia. Essa sembra mostrarci l’evoluzione in atto su una scala indiscutibile. Dovrebbe risolvere il problema una volta per tutte, eliminare Dio dalla scena, spezzare le catene che hanno tenuto insieme per tutti questi secoli la pietra su cui è costruita la Chiesa di Pietro. Da questo momento, non ci sono più domande, da questo momento, non c’è più Dio, non resta che la fenomenologia… e naturalmente, dietro le quinte, nel cuore del buco nell’interno di un buco dentro un buco, il Grande Nulla stesso, l’essere che non ha saputo dire altro che NO da quando fu scacciato fiammeggiante dal Cielo. Esso ha molti altri nomi, ma noi conosciamo il suo nome più importante. Ed esso sarà tutto ciò che ci resterà.

«Paul, Mike, Agronski, non mi rimane che dirvi: siamo tutti ritti sul ciglio dell’Inferno. Per grazia di Dio, possiamo ancora tirarci indietro dall’abisso. Dobbiamo tirarci indietro, perché questa, almeno credo, è la nostra ultima probabilità di salvezza.»

CAPITOLO NONO

Il voto era stato dato, e tutto era finito. La commissione s’era pronunciata e ora poteva ritirarsi. Il problema sarebbe stato posto e studiato sulla Terra, a livelli più elevati, e ciò significava che Lithia sarebbe stata chiusa per anni a venire. Zona Proibita per Ulteriori Indagini. Il pianeta, infatti, era ormai come all’Index expurgatorius.

L’astronave arrivò il giorno seguente. L’equipaggio non fu molto sorpreso nel vedere che le due fazioni opposte della commissione, quasi non si parlavano tra loro. Era una cosa che succedeva sempre.

I quattro membri della Commissione ripulirono in un silenzio quasi assoluto la casa di Xoredeshch Sfath, che i Lithiani avevano concesso loro. Ruiz-Sanchez ripose il volume blu dalle lettere dorate senza avere il coraggio di guardarlo se non con la coda dell’occhio, ma anche così non poté a meno di vederne il titolo ben noto:


FINNEGAN’S WAKE
James Joyce

Ecco dove era finito il suo orgoglio di avere trovato la soluzione del caso di coscienza proposto dal romanzo. Si sentiva come se fosse stato lui stesso rilegato, dorato sul dorso e stampato: tormentato testo umano destinato a essere discusso e spiegato da future generazioni di Gesuiti.

Aveva dato il verdetto che gli era parso necessario dare. Ma sapeva che non era un verdetto definitivo, neppure per lui, certo non per l’ONU e tanto meno per la Chiesa. Anzi, il verdetto stesso sarebbe diventato una questione spinosa per i futuri membri del suo Ordine: «Padre Ruiz-Sanchez interpretò correttamente la causa divina, e, se sì, la sua decisione ne discese direttamente?».

Eccetto che, naturalmente, non avrebbero usato il suo nome… ma quale giovamento avrebbe potuto dare loro l’uso di uno pseudonimo? Certo non ci sarebbe mai stato alcun modo di nascondere l’originale di questo problema di morale. O si trattava nuovamente di quell’orgoglio… oppure di tormento? Era stato lo stesso Mefistofele a dire: «Il conforto del misero è avere compagni nel dolore.»

— Andiamo, Padre? Tra poco è l’ora del decollo.

— Sono pronto, Mike.

Era un breve percorso quello che li divideva dalla radura dove si rizzava il fuso possente dell’astronave, pronta a lanciarsi tra i meandri geodetici dello spazio intersiderale verso il sole che splendeva nel cielo del Perù. Anche qui splendeva il sole, che compariva ogni tanto tra i banchi bassi e pesanti di nubi; ma era piovuto per tutta la mattina e senza dubbio la pioggia sarebbe caduta ancora tra breve.

I bagagli furono caricati a bordo senza difficoltà e con essi i film, i nastri magnetici, le cassette di campioni, quelle di lastre fotografiche, i vivai, le colture di batteri, le piante, le gabbie per gli animali, i manoscritti lithiani conservati in un’atmosfera di elio: tutto fu solennemente issato dalle gru e calato nell’interno dell’astronave.

Il primo a salire la scaletta che portava al portello a chiusura stagna fu Agronski, seguito da Michelis. Ancora a terra, Cleaver stava imballando qualche strumento dell’ultimo istante, qualcosa che sembrava necessitare di un imballaggio delicato, prima di essere affidato al braccio indifferente della gru. Cleaver aveva sempre avuto cure quasi materne per le sue apparecchiature elettroniche. Il Gesuita approfittò di quel breve indugio per guardare per l’ultima volta i margini della foresta.

Vide subito Chtexa. Stava ritto allo sbocco del viottolo che aveva portato i terrestri alla radura e aveva con sé qualcosa.

Cleaver emise un’imprecazione e disfece un pacco che aveva appena fatto, per poi cominciare a imballarlo in un altro modo. Ruiz-Sanchez alzò la mano. Subito Chtexa s’incamminò verso l’astronave.

— Vi auguro un buon viaggio — disse il Lithiano, — dovunque siate diretto. Mi auguro anche che la vostra strada vi riporti, in un giorno non lontano, su questo mondo. Vi ho portato il dono che avevo già tentato di consegnarvi, se il momento è ora adatto.

Cleaver s’era rizzato, e guardava ora il Lithiano con occhio sospettoso. Poiché non comprendeva la lingua, non poté trovare nulla da obiettare. Si limitò a restare dove si trovava, e a irradiare un atteggiamento scostante.

— Grazie — disse Ruiz-Sanchez. Quella creatura di Satana gli aveva reso tutta la sua infelicità, gli dava l’intollerabile sensazione di essere nel torto. Ma Chtexa come avrebbe potuto sapere?

Il Lithiano gli porse una piccola anfora, dall’apertura sigillata, con due anse delicatamente incurvate. La porcellana scintillante portava ancora in sé, sotto lo smalto, il fuoco che le aveva dato nascita; era iridescente, viva di lunghe sfumature madreperlacee e riflessi d’arcobaleno, e la sua forma avrebbe destato l’invidia dell’antica Grecia. Era così bella che non si poteva immaginarne alcun uso. Certo non si poteva farne una lampada, né metterci gli avanzi della cena prima di riporli in frigorifero. Del resto, era troppo grande per quell’uso.

— Questo è il mio regalo — disse Chtexa. — È la più bella urna che sia mai uscita da Xoredeshch Gton. Il materiale di cui è fatta comprende tracce d’ogni elemento presente su Lithia, compreso il ferro, così che, vedete, riflette i colori d’ogni emozione e di ogni pensiero. Sulla Terra, rivelerà ai terrestri molte cose di Lithia.

— Non saremo capaci di analizzarla — rispose il Gesuita. — È troppo perfetta perché la si distrugga, troppo perfetta perfino per essere aperta.

— Ma noi desideriamo che voi l’apriate — disse Chtexa. — Perché contiene l’altro nostro dono.

— Un altro dono?

— Sì, e il più importante. È un uovo della nostra specie, fecondato, vivo. Prendetelo. Quando sarete sulla Terra, si sarà dischiuso e sarà pronto a svilupparsi nel vostro mondo strano e meraviglioso. Quest’urna è un dono di tutti noi; ma ciò che essa contiene è il mio dono personale, perché si tratta del mio bambino.

Ruiz-Sanchez prese l’urna con mani tremanti, come timoroso che esplodesse. E lo temeva, infatti. Nella stretta delle sue mani, l’urna vibrò d’una fiamma contenuta.

— Arrivederci — disse Chtexa. Si volse e si allontanò verso il viottolo. Cleaver lo seguì con lo sguardo, facendosi schermo con le mani sugli occhi.

— Che cosa significa tutta questa faccenda? — disse il fisico. — Il Serpente non l’avrebbe fatta pesare tanto nemmeno se si fosse trattato di offrirvi la sua testa su un piatto. E in fin dei conti è soltanto un vaso.

Ruiz-Sanchez non rispose: non sarebbe stato capace di parlare neppure con se stesso. Riprese a salire, tenendo con attenzione l’anfora nell’incavo del braccio. Non era affatto il dono che egli aveva sperato di portare alla Città Santa nel tempo della grande indulgenza dell’umanità, no; ma non aveva altro.

Mentre ancora stava salendo, una grande ombra passò sullo scafo dell’astronave. Era l’ultima cassa di Cleaver, sollevata dalla gru.

Quindi si ritrovò nella camera a tenuta stagna, in mezzo al gemito sempre più acuto dei generatori Nernst. Un lungo raggio di sole cadde su di lui, proiettando la sua ombra sulle lamiere del pavimento.

Un istante dopo, un’altra ombra si sovrappose alla sua, annullandola: quella di Cleaver. Quindi la luce si attenuò e scomparve.

Il portello di ferro dell’astronave sbatté con violenza.

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