SABATO

1

La luna piena sale sul placido oceano. Troy ne osserva i raggi luccicare sull’acqua tranquilla. Appare Angie, in piedi nell’acqua davanti a lui. Porta un monopezzo bianco aderentissimo, e l’acqua le arriva alle anche.

Gli fa segno col dito, e lui attraversa la spiaggia umida verso l’acqua. È a piedi scalzi e porta anche lui un costume da bagno bianco. L’acqua è sorprendentemente calda. Angie comincia a cantare. La sua magnifica voce è per lui un abbraccio, mentre le si avvicina nella risacca.

Si accarezzano e si baciano. Lei si stacca e gli sorride invitante. Troy si sente eccitare. D’improvviso, una sirena squarcia l’aria, distruggendo la pace notturna, e il mare si agita, si copre di cavalloni. Troy, allarmato, si volta verso la spiaggia, ma non scorge niente di particolare. Si rigira verso l’oceano. Angie è sparita. Lontano, sul filo dell’orizzonte, vede l’inizio di un’onda di marea. La sirena urla di nuovo, e Troy avvista una grossa massa informe sulla cresta di un’onda vicina.

Si dirige verso l’oggetto. L’onda di marea è ora ben definita in lontananza, e gli riempie a metà lo schermo del sogno. Il voluminoso oggetto è un corpo nero, in jeans e maglietta sportiva rossa. La sirena urla più forte. Troy rivolta il corpo e ne guarda la faccia. È suo fratello Jamie.


Troy Jefferson balzò a sedere sul letto, il cuore in tumulto, la mente impegnata a passare dal sogno alla realtà. All’esterno della villetta bifamiliare imperversava una sirena. Dal mutamento di frequenza capì che l’auto della polizia, o ambulanza che fosse, era appena passata a tutta velocità davanti alla sua porta d’ingresso. Scuotendosi, scivolò fuori dal letto. L’orologio digitale del comodino segnava le 3,03.

Andò in cucina, aprì il frigorifero e si versò un bicchiere di succo di pompelmo, ascoltando la sirena svanire a poco a poco in lontananza. Poi si riavviò verso la seconda camera da letto, quella piccola, nella quale era solito dormire. In corridoio fu fermato dal suono di un’altra sirena, anche più forte della prima, che pareva dirigerglisi addosso. Per qualche secondo pensò che fosse là, di fronte alla porta, e rammentò vivamente un’altra sirena nel cuore di un’altra notte. Il cuore riprese a tumultuargli. “Jamie,” si disse quasi senza volere “Jamie, perché hai dovuto morire?”

Poteva ancora vedere gli eventi di quella sera con perfetta chiarezza. La prima scena non aveva un particolare che fosse sbiadito anche solo di tanto. Il ricordo iniziale era di loro tre — Jamie, lui e la madre — seduti in silenzio a tavola, intenti a mangiare pollo arrosto e purè di patate. Jamie era appena tornato a casa da Gainesville, nel pomeriggio, per le vacanze primaverili e aveva passato quasi un’ora, prima di cena, a deliziare il fratello quindicenne con episodi di football e di vita universitaria. Idolo dell’infanzia di Troy, oltre a essere bello, intelligente e dotato di facilità di parola, aveva avuto in sorte anche doti fisiche incredibili. Risultato: era stato il mediano d’inizio dei Florida Gators nel secondo anno di università ed era in predicato di diventare un possibile nazionale nella stagione che s’annunciava. Troy ne aveva sentito fortemente la mancanza alla sua partenza per il primo anno d’università, ma nel corso dei diciotto mesi seguenti aveva imparato ad accettarne l’assenza e ad aspettare con ansia i suoi ritorni per le vacanze.

«E tu, fratellino?» sorrise Jamie, scostando il piatto alla fine della cena. «I voti di quest’ultimo trimestre ti qualificano a diventare un futuro astronauta?»

«I voti non sono male,» aveva risposto Troy, nascondendo il proprio orgoglio. «Ho avuto solo un “buono più” in sociologia perché, secondo il mio prof, il mio saggio sul Canale di Panama dimostrava un atteggiamento antiamericano.»

«Be’, un “buono più” ogni tanto, direi che è accettabile» aveva riso Jamie, dimostrando chiaramente l’affetto che sentiva per il fratello minore. «Però scommetto che Burford, di “buoni”, non deve averne presi molti, quando era in prima superiore!»

Ogni volta che rievocava la sera fatale dell’uccisione del fratello, Troy ricordava sempre quella sua citazione di Guion Burford, il primo astronauta americano di pelle nera. La maggior parte delle volte, poiché il procedere immediatamente al terribile ricordo del fratello morente fra le sue braccia sarebbe stato troppo doloroso, la sua memoria sceglieva il divagare verso circostanze più felici, riportandogli un ricordo di Jamie altrettanto vivido di quella sua morte, ma lieto e confortante anziché straziante e deprimente.

L’estate prima della sua morte, in un’afosa giornata di tardo agosto, Jamie Jefferson aveva combinato un terzo incontro privato col proprio allenatore di football nella sede dei Florida, per chiedergli il permesso di saltare l’allenamento per due giorni in modo da portare Troy ad assistere al lancio della navetta spaziale. Nei primi due incontri, l’allenatore si era energicamente opposto all’idea di una sottrazione di tempo all’impegno primario dell’allenamento, ma un no deciso non l’aveva pronunciato.

«Lei continua a non capire, mister» aveva detto fermamente Jamie all’inizio del terzo e ultimo incontro. «Il mio fratellino non ha padre. Ed è un genio in matematica e scienze. Lui, di quei test attitudinali standardizzati, se ne fa un boccone come ridere. Ma ha bisogno di un modello d’identificazione: ha bisogno di sapere che i neri possono fare cose importanti anche al di fuori degli sport.» L’allenatore aveva finito per cedere e gli aveva dato il permesso, ma soltanto perché consapevole che lui se lo sarebbe preso comunque.

Jamie aveva attraversato senza soste la Florida con la sua scassata Chevrolet, preso il fratello a Miami, e proseguito verso nord, senza dormire, per altre quattro ore fino a Cocoa Beach, dov’era arrivato in piena notte. Sfinito, aveva parcheggiato la macchina in una zona di accesso alla parte più bella della spiaggia, accanto a un palazzo d’abitazione di sei piani. «E adesso, fratellino, dormi un po’» aveva detto quindi.

Troy, però, non ne era stato capace, tanta era la sua emozione al pensiero del lancio dell’indomani sera, l’ottavo della serie ma il primo ad avvenire di notte. Aveva letto tutto il possibile sull’astronauta Burford e sui piani della missione, e continuava a immaginare di vivere nel futuro e di esser lui, Troy Jefferson, l’astronauta in procinto di venir lanciato nello spazio. Dopo tutto, Burford era la prova vivente che la cosa era possibile, che un americano nero poteva raggiungere i gradini superiori della scala sociale e diventare un eroe popolare in forza della propria intelligenza, della propria personalità e del proprio duro lavoro.

All’alba, era sgusciato dalla macchina e aveva percorso i pochi metri che lo separavano dalla spiaggia. Regnava una gran quiete. In giro si vedevano solo qualche persona che passeggiava o correva e un paio di bizzarri granchi da spiaggia, i cui occhi s’agitavano avanti e indietro alla sommità dei caratteristici peduncoli durante la camminata sghemba verso le tane nella sabbia. A nord, Troy poteva vedere alcune delle piste di lancio per razzi senza equipaggio della base aerea di Cape Canaveral, ma, dentro di sé, lui se le figurava come l’attrezzatura di lancio della navetta spaziale. Si domandò che cosa facesse in quel momento l’astronauta Burford. Consumava la colazione? Era con la famiglia o con l’equipaggio dell’astronave?

Jamie si era svegliato verso mezzogiorno, e i due fratelli avevano passato il primo pomeriggio sulla spiaggia, a ridere e a giocare insieme fra i frangenti. Poi, acquistati degli hamburger, avevano percorso la mezz’ora di tragitto che li separava dal centro spaziale Kennedy. Jamie aveva costretto un avido sostenitore dei Gator (un dirigente aerospaziale residente a Melbourne) a procurargli dei biglietti per la zona d’osservazione dei VIP. Ci arrivarono poco prima del calar della notte. Sette chilometri più in là, l’imponente complesso della navetta, consistente in una parte orbitante montata su una cassa esterna arancio con due razzi impulsori a lato, stava eretto contro la torre di lancio, mentre cominciava il conto alla rovescia.

Nella vita scientifica di Troy, nessuna esperienza avrebbe mai più potuto rivaleggiare con l’osservazione di quel lancio notturno della navetta spaziale. Mentre ascoltava gli altoparlanti della zona VIP annunciare l’inizio del conto alla rovescia, aveva provato una smania impaziente, ma non reverenza. Nell’istante in cui si erano accesi i motori, e la notte della Florida s’era empita di fiamma arancione e di dense e turbinanti nuvole di fumo, gli erano quasi schizzati gli occhi dalle orbite. Ma la combinazione tra la vista della gigantesca astronave, in lenta e maestosa ascesa nel cielo a cavallo d’una lunga fiamma sottile, e quel suono sbalorditivo — un fragore costante, punteggiato di inspiegabili scoppiettii (che, già a sette chilometri di distanza, arrivava una ventina di secondi dopo l’immagine dell’accensione dei motori), gli aveva fatto venire la pelle d’oca, le lacrime agli occhi, e un prurito in tutto il corpo. Questa intensa eccitazione emotiva era durata assai più di un minuto. In piedi accanto al fratello Jamie, la mano stretta forte nella sua, aveva arcuato la schiena a seguire la fiamma in ascesa, su, sempre più su, fino alla sua scomparsa nel cielo notturno.

Dopo il lancio, i fratelli tornarono a dormire in macchina. Poi Jamie lasciò Troy alla stazione delle corriere di Orlando e tornò a Gainesville per gli allenamenti. Il giovane Troy si sentì un altro: una persona trasformata da quell’esperienza. Nella settimana successiva seguì il volo come ossessionato e Burford diventò il suo eroe, il suo nuovo idolo. Nei primi due trimestri dell’anno seguente, si applicò con zelo agli studi. Ora aveva una meta: diventare astronauta.

Ma non sapeva che, una notte di marzo di soli sette mesi dopo, avrebbe avuto un’altra esperienza — tanto devastante e sconvolgente, da annullare l’emozione provata al lancio della navetta. Quella sera degli ultimi di marzo, Jamie aveva fatto un salto in camera sua prima di uscire verso le otto. «Vado da Maria, fratellino» aveva detto. «Probabile che andiamo al cinema.»

Maria Alvarez aveva diciott’anni ed era ancora alle superiori. Era la ragazza fissa di Jamie da un paio d’anni, e abitava a Little Havana coi genitori cubani e otto tra fratelli e sorelle.

Troy l’aveva abbracciato. «Sono contento che sei qui, Jamie. Ho un sacco di cose da farti vedere. A scuola ti ho fatto una cuffia stereo…»

«Vedrò tutto, ma domattina» l’aveva interrotto Jamie. «Adesso tu, però, non stare alzato troppo. Gli astronauti devono dormire parecchio, se vogliono essere svegli al momento giusto!» E, con un sorriso, era uscito. E fu, quella, l’ultima frase che Troy gli avrebbe sentito dire.

Che cosa avesse udito per prima cosa, destandosi in piena notte, non era più riuscito a ricordare. L’urlo straziante della madre si era mescolato al gemito acuto delle sirene vicine, creando un intrico di suoni indimenticabile e terrificante. Troy si era precipitato alla porta e in cortile con addosso solo i pantaloni del pigiama. Il suono della sirena dell’ambulanza si faceva sempre più vicino. Sua madre era in capo al vialetto d’accesso alla casa, china su un corpo scuro steso a mezzo fra la strada, davanti alla Chevrolet di Jamie, e il cortile. Attorno a lei, impazzita dal dolore, stavano tre poliziotti e mezza dozzina di curiosi.

«Chissà come ha fatto a tornare a casa» sentì dire da un poliziotto, mentre cercava disperatamente di capire che cosa fosse accaduto. «È incredibile, con tutto il sangue che ha perduto. Deve essere stato colpito quattro volte allo stomaco…»

L’urlo della madre montò di nuovo, e, in quell’istante, Troy ricompose i pezzi e riconobbe il corpo steso sulla schiena. Raggelato, il fiato mozzo, cadde in ginocchio accanto alla testa del fratello. Jamie si sforzava di respirare, gli occhi aperti ma vitrei.

Troy gli prese la testa fra le mani, e gli guardò lo stomaco. La maglietta sportiva rossa era intrisa di sangue, e il sangue sembrava sgorgare con flusso ininterrotto da un punto appena al di sopra dei genitali, ed era dappertutto — sui jeans di Jamie, per terra, dappertutto, dappertutto… Troy ebbe un conato come di vomito, si strozzò, ma non rigettò nulla. Gli occhi gli si riempirono di lacrime.

«Pensiamo sia opera di qualche banda, signora Jefferson» continuò monotono il poliziotto. «E probabilmente è stato colpito per sbaglio, perché tutti sanno che Jamie non aveva niente a che fare con quella razza di gente.» Erano arrivati dei giornalisti, e lampeggiavano i flash. Altre sirene in avvicinamento…

Gli occhi di Jamie si spensero, e il respiro cessò. Troy si strinse la testa del fratello al petto, sapendo d’istinto che era morto, e cominciò a singhiozzare incontrollabilmente. «No,» mormorava «no. Non mio fratello… non Jamie… lui che non ha mai fatto male a nessuno…»

Qualcuno tentò di confortarlo, di battergli la mano sulla spalla, ma lui respinse tutti con violenza, gridando, fra un singhiozzo e l’altro: «Lasciatemi stare! Era mio fratello, il mio unico fratello!». Dopo qualche istante, gli posò delicatamente la testa a terra, e gli crollò accanto disperato.

Verso le tre e mezzo del mattino d’una decina di anni dopo, nel marzo del 1994, Troy Jefferson, solo nella villetta bifamiliare, si sarebbe svegliato al ricordo del terribile momento della morte di Jamie e avrebbe rivissuto lo strazio di quella perdita. E, rivivendolo, si sarebbe reso conto con lucidità che la maggior parte dei suoi sogni di adolescente era morta con quella morte, e che la sua rinuncia all’università e al futuro da astronauta era indissolubilmente legata al ricordo di Jamie.

Nei tre anni seguenti alla morte di Jamie, aveva continuato le superiori in qualche modo, e c’erano voluti gli sforzi congiunti della madre, della scuola e delle autorità cittadine per impedirgli di abbandonare del tutto gli studi. Poi, appena preso il diploma, aveva lasciato Miami. O, meglio, ne era scappato: scappato da ciò che era accaduto e da ciò che avrebbe potuto accadere. Per oltre due anni aveva quindi vagato senza meta per il Nordamerica, giovane nero solitario privato d’amore e d’amicizia, alla ricerca di qualcosa che potesse fargli vincere quel senso di vuoto che gli era compagno costante.

E alla fine sono capitato a Key West avrebbe pensato, anni dopo, nel tornare a letto a metà mattina per un altro paio d’ore di sonno. E per chissà quale ragione mi ci sono fatto una casa. Forse era semplicemente tempo che lo facessi. O forse avevo imparato abbastanza per sapere che la vita continua. Come che sia, anche se la ferita non si è ancora rimarginata, ho superato il problema Jamie. E trovato il Troy perduto. O almeno spero.

Gli tornò improvvisamente in mente il sogno interrotto dalla sirena: Angie, bella sotto la luna nel suo costume da bagno bianco. Alé, torniamo a dove s’era lasciato…, rise fra sé, concentrandosi sulla immagine di lei nel tornare a dormire.

2

«Buondì, angelo!» lanciò Troy con un gran sorriso, mentre Carol si avvicinava alla Florida Queen. «Pronta per un po’ di pesca?» Saltando dalla barca, gridò a Nick, che era a poppa, dall’altra parte del tendaletto: «È arrivata, professore! Vado al parcheggio a prendere la sua roba». Carol gli consegnò le chiavi dell’auto, e Troy si avviò verso la capitaneria.

Carol rimase sulla gettata in attesa che Nick emergesse da dietro il tendaletto. «Su, monta a bordo» disse lui, pulendo un po’ accigliato una grossa catena da draga con uno straccio scuro. I postumi della sbronza lo facevano sentire in un stato tremendo, e ad essi si aggiungeva la preoccupazione per gli eventi della notte. Carol, lì per lì, non aprì bocca. Lui, allora, smise di strofinare la catena e rimase in attesa che parlasse.

«Non so proprio come cominciare,» esordì finalmente lei, in tono fermo ma garbato «ma bisogna proprio che lo dica prima di salire a bordo.» Poi, schiarendosi la gola, continuò decisa: «Senti, Nick: oggi voglio scendere giù non con te, ma con Troy».

Nick la guardò con aria fra lo stupito e l’interrogativo. Era al sole, e gli faceva male la testa. «Ma Troy…» cominciò.

«So cosa stai per dire» lo interruppe lei. «Che non ha molta esperienza e che quindi un’immersione con lui potrebbe essere pericolosa.» Fissandolo dritto in faccia, continuò: «Ma a me non importa. Ho abbastanza esperienza per tutt’e due, e preferisco scendere giù con lui». Qualche secondo di silenzio, poi: «Ora, se tu non sei d’accordo…».

«Ma no, ma no, va bene» la interruppe, stavolta, lui, sorpreso di scoprirsi offeso e adirato a un tempo. Questa qui è ancona incazzata nera, si disse. E io che pensavo che magari… Si spostò dall’altra parte del tendaletto per terminare l’allestimento della piccola gru da recupero, presa a prestito e installata da lui e Troy durante la notte. L’installazione non aveva presentato grandi problemi, perché quel vecchio materiale era stato da loro già adoperato diverse volte in altre uscite.

Carol montò a bordo e posò la sua copia di foto sulla plancia a lato del timone. «Il tridente, dove sta?» diede la voce a Nick. «Gli vorrei dare un’altra occhiata.»

«Ultimo cassetto a sinistra, sotto gli attrezzi» giunse immediata e secca la risposta. Carol estrasse la sacca grigia, la aprì, e tirò fuori il tridente d’oro, prendendolo per la lunga bacchetta mediana. Strano… Lo reinfilò nella sacca e lo tirò fuori di nuovo, riprendendolo in mano. Ma sì… aveva proprio qualcosa di strano. Lei ricordava quando l’aveva afferrato sotto la sporgenza sottomarina, avvolgendo lentamente la mano attorno alla bacchetta centrale. Ma sì, ci sono, si disse. È più grosso!

Rigirò l’oggetto fra le mani. Ma che mi succede?, pensò. Mi ha dato di volta il cervello? Come può essere più grosso? Lo esaminò accuratamente ancora una volta. Ora le pareva che i denti del tridente si fossero allungati e che fosse aumentato il peso totale. Oddio, ma come può essere?, si domandò.

Estrasse le foto che aveva portato con sé. Quelle del tridente erano state scattate tutte sott’acqua, e… sì, a guardar bene, due piccolissime differenze c’erano proprio: la bacchetta-asse sembrava più grossa e i denti più lunghi!

«Nick!» chiamò vivamente. «Nick, puoi venire un attimo?»

«Sono occupato» rispose una voce seccata dall’altra parte del tendaletto. «È importante?»

«No. Anzi, sì» rispose Carol. «Ma può aspettare finché non avrai finito.»

La sua mente, intanto, era in subbuglio. Ci sono solo due possibilità: è o cambiato o non lo è. Se non lo è, sono io che vedo i fantasmi: perché, più grosso, sembra proprio. Ma se è cambiato, come ha fatto? O c’è riuscito da solo o è stato qualcuno. Ma chi? Nick? Ma come avrebbe potuto lui…?

Arrivò Nick. «Be’?» disse, distante, quasi ostile, chiaramente seccato.

«Be’?» fece Carol con un sorriso, porgendogli il tridente e guardandolo con aria di attesa.

«Be’ cosa?» rispose lui, totalmente confuso da ciò che stava accadendo e ancora in collera per lo scambio di poco prima.

«La vedi la differenza?» continuò Carol, accennando al tridente che lui teneva in mano.

Nick lo rivoltò su e giù come aveva fatto lei in precedenza. Il riflesso del sole sulla superficie dorata gli ferì gli occhi, costringendolo a socchiuderli. Spostato l’oggetto da una mano all’altra ed esaminatolo da angoli diversi, finì per dire: «Credo proprio di non capire. Vuoi forse dirmi che questo coso ha qualcosa di diverso?».

«Precisamente» rispose lei, mentre lui teneva alzato il tridente. «Non lo senti? La bacchetta centrale è più grossa di giovedì, e i denti o elementi della forchetta sono, a una estremità, un po’ più lunghi. E non trovi che sia anche più pesante, nel complesso?»

La testa martellante di dolore, Nick guardò dal tridente a Carol e viceversa. Per lui, l’oggetto non era affatto cambiato. «Ma no,» rispose «a me, ’sto coso, sembra sempre lo stesso.»

«Tu dici così per dispetto» insisté lei, riprendendogli brusca l’oggetto. «Qua, guarda un po’ le foto: controlla la lunghezza della forchetta, qui, rispetto a quella della bacchetta intera, e vedi com’è ora, dal vero. È diversa.»

Nell’atteggiamento generale di Carol c’era qualcosa di decisamente irritante: sembrava dar sempre per scontato che ad aver ragione fosse lei e ad aver torto gli altri! «Ma è assurdo,» gridò quasi Nick «e con tutto il daffare che ho…» Dopo un istante di silenzio, continuò: «E poi, come diavolo potrebbe cambiare? È fatto di metallo, diamine! Sarebbe dunque cresciuto, secondo te? Oh, cazzo…».

Scuotendo la testa, fece per andarsene, ma dopo un paio di passi, si girò, «In ogni caso, non puoi fare affidamento sulle foto» disse in tono più misurato. «Perché quelle sott’acqua distorcono sempre gli oggetti…»

Stava arrivando Troy, col carretto e l’attrezzatura di Carol. Anche senza sentire le parole, capì dall’atteggiamento dei corpi che i suoi due compagni di barca erano di nuovo ai ferri corti.

«Ahiiàhiiàhi,» fece, avvicinandosi «non vi si può lasciar soli un minuto! E qual è il motivo del contendere, stamane, professore?»

«Questa tua amica giornalista dal cervello fino,» rispose Nick, guardando Carol con aria di condiscendenza «persiste nel sostenere che il nostro tridente ha cambiato forma. Da un giorno all’altro, evidentemente, sebbene finora non mi abbia saputo spiegare come. Ti spiacerebbe — visto che non mi crede — spiegarle l’indice di rifrazione o come altro si chiama ciò che confonde le riprese sott’acqua?»

«Ma è cambiato, davvero!» esclamò Carol, appellandosi a Troy. «Ricordo chiaramente come sembrava al tatto quando l’ho trovato, e adesso sembra diverso.»

Troy stava scaricando il carretto e piazzando sulla Florida Queen l’apparato del telescopio oceanico. «Be’, angelo,» disse, dopo essersi fermato per controllare il tridente che lei gli porgeva a due mani «io non saprei dire se è cambiato o no, però posso dirti una cosa. Quando l’hai trovato, eri molto agitata e stavi sott’acqua: e io, tenendo conto di una combinazione del genere, non mi fiderei, a distanza, delle sensazioni tattili suggeritemi dalla memoria.»

Carol guardò i due uomini, e stava per riprendere la discussione, quando Nick cambiò bruscamente argomento. «Lo sapeva, signor Jefferson, che la nostra cliente signorina Dawson ha richiesto i suoi servigi come compagno d’immersione per oggi?» E concluse, asprigno: «Oggi, infatti, la signorina non gradisce immergersi con me».

Troy guardò Carol con sorpresa. «Molto gentile, angelo,» disse piano «ma il vero esperto è Nick. Io sono soltanto poco più di un principiante.»

«Lo so» rispose brusca Carol, ancora furente per l’esito della conversazione precedente. «Ma voglio scendere con qualcuno di cui possa fidarmi. Con qualcuno capace di comportarsi responsabilmente. E, d’immersioni, m’intendo abbastanza per tutt’e due.»

Nick le lanciò un’occhiataccia, si voltò e, allontanandosi — incazzato nero, come avrebbe detto lui — disse: «Forza, Jefferson, ho già detto a Miss Arroganza che può fare come le garba. Per stavolta. Prepariamo dunque la barca e finiamo di ripiazzare quel suo coso telescopesco».


«Mio padre ha finito per divorziare da mia madre quando avevo dieci anni» stava dicendo Carol a Troy. Sedevano insieme nelle sdraio a prua. Dopo aver ripassato un paio di volte le procedure d’immersione, Carol aveva tirato in ballo la sua prima esperienza di uscite in barca, un compleanno passato a sei anni col padre a bordo di un peschereccio, e così, molto naturalmente, era venuta a discutere con Troy delle rispettive infanzie. «Quella rottura è stata tremenda» continuò Carol, passando a Troy la lattina di Coca-Cola. «Secondo me, in un certo senso sei stato forse più fortunato tu a non aver mai conosciuto tuo padre.»

«Ne dubito» replicò serio lui. «Perché, fin da piccolissimo, ho sofferto del fatto che alcuni bambini avessero due genitori. Mio fratello Jamie ha fatto del suo meglio, si capisce, ma, più di tanto, non poteva fare, e io ho sempre scelto per amici dei ragazzi che avessero un padre. Apposta.» Ridendo, continuò: «Ricordo un ragazzino nero nero che si chiamava Willie Adams. Il padre lui ce l’aveva sì, ma per la famiglia era piuttosto un imbarazzo, perché era anziano, sui sessanta, e, invece di lavorare, passava le giornate seduto sulla sedia a dondolo della veranda a bere birra.

«Ogni volta che andavo a casa di Willie per giocare, trovavo qualche scusa per sedere un po’ di tempo sulla veranda accanto al signor Adams. Willie, allora, cincischiava nervoso, incapace di capire perché mai volessi ascoltare le vecchie storie, secondo lui barbose, che raccontava suo padre. Il signor Adam, infatti aveva partecipato alla guerra di Corea e amava raccontare dei suoi amici, delle battaglie e, soprattutto, delle coreane e dei loro “trucchetti”, come li chiamava.

«E si capiva subito quando stava per raccontare una delle sue storie, perché cominciava a fissare nel vuoto, come in contemplazione di qualcosa di assai remoto, e poi diceva, più che altro a se stesso: “Giaggiaggiaggià, la verità è questa qua”. Dopodiché si metteva a recitare la storia come se la leggesse su un libro. “Avevamo ricacciato i coreani fino allo Yalu, e il nostro comandante di battaglione ci disse che erano pronti ad arrendersi” diceva, per esempio. “Noi, tutti contenti, parlavamo di quello che ciascuno avrebbe fatto non appena tornato negli Stati. Ma poi la grande orda gialla calò dalla Cina…”»

Troy si arrestò, lo sguardo rivolto all’oceano. A Carol riusciva facile vederlo ragazzino, seduto sulla veranda col suo imbarazzato amico Willie ad ascoltare i racconti di un uomo che viveva irrimediabilmente nel passato, ma che, per Troy, rappresentava il padre da lui mai avuto. Si chinò a sfiorargli il braccio. «È un bel quadretto» disse. «E forse, tu non ti sei mai reso conto di quanto rendessi felice quell’uomo con lo stare ad ascoltarne i racconti.»

Dall’altra parte del tendaletto, Nick Williams sedeva per conto proprio in un’altra sdraio, intento alla lettura di Madame Bovary e cercando invano di ignorare sia i postumi della sbronza sia i brani di conversazione che non poteva fare a meno di udire. Avendo programmato il sistema di navigazione a tornare automaticamente al luogo d’immersione del giovedì, era in pratica libero da ogni attività di pilotaggio. Quasi certamente, avrebbe anche gradito partecipare alla conversazione, ma, dopo lo scontro con Carol, in cui aveva avuto l’impressione che lei non volesse aver niente a che fare con lui, non gli pareva proprio il caso di farsi avanti. Ora s’imponeva che lui la ignorasse, o lei l’avrebbe giudicato un perdiballe come tanti.

Per giunta, il libro gli piaceva. Era arrivato al punto in cui Emma Bovary si dà anima e corpo alla relazione con Rudolph Boulanger. Ah, come la vedeva sgattaiolare dalla sua casa del paesino provinciale francese e slanciarsi per la campagna verso le braccia dell’amante! In passato, ogni volta che aveva letto un romanzo con una bella e tenebrosa eroina, il più delle volte aveva immaginato Monique nella parte. Ora invece, stranamente, Emma Bovary la vedeva come Carol Dawson… E più di una volta, leggendo le descrizioni flaubertiane delle passioni di Emma e Rudolph, nella parte dello scapolo della nobiltà terriera francese amoreggiante con Emma/Carol aveva immaginato se stesso…

Il pilota automatico che guidava la barca mentre lui leggeva era costituito semplicemente da una ricetrasmittente e da un piccolo microprocessore, il quale, sfruttando una rete mondiale di satelliti geostazionari, era in grado di stabilire con grande esattezza la posizione della barca e di condurla al punto prefissato grazie a un algoritmo di guida preprogrammato. Durante il tragitto, il collegamento a due vie col satellite sovrastante forniva le informazioni necessarie all’aggiornamento della rotta.

Quando la Florida Queen fu a un miglio dal punto d’immersione, il pilota automatico emise un trillo. Nick andò ai comandi e passò al pilotaggio manuale. Carol e Troy si alzarono dalle sdraio. «Ricorda,» disse lei «lo scopo primario dell’immersione è quello di fotografare e recuperare ciò che abbiamo visto in quella fessura giovedì. Se poi ci resterà tempo, torneremo anche alla sporgenza del tridente.»

Andò quindi ad accendere il monitor collegato al telescopio oceanico. Era a pochi passi da Nick, col quale non aveva scambiato una sola parola dalla partenza da Key West. «Buona fortuna» disse piano lui.

Lei lo guardò per vedere se parlasse seriamente o per fare del sarcasmo. Non avrebbe saputo dire… «Grazie» rispose senza scomporsi.

Raggiunta al monitor da Troy, tolse le foto dalla busta per poter stabilire il punto preciso in cui gettare l’àncora. Per un paio di minuti, osservando col telescopio, impartì istruzioni a Nick perché effettuasse minuti aggiustamenti nella posizione della barca. Finalmente, il fondale sottostante apparve quasi esattamente identico a quello del giovedì in cui avevano visto le balene. Con una sola, ma grande differenza.

«E il foro della fessura, dove sta?» chiese innocentemente Troy. «Qui, sul monitor, non riesco proprio a vederlo.»

Il cuore in tumulto, Carol continuava a guardare dallo schermo alle foto. Ma dov’è quella fessura? Mica può esser sparita?, pensava intanto. La barca derivava, e Nick la riportò in posizione. Stavolta Troy gettò l’àncora. Ma Carol continuava a non veder segno della fessura, e a non capire perché.

«Nick,» finì per dire «potresti darci una mano? Siamo andati laggiù insieme e, il foro, l’abbiamo visto tutt’e due. Può essere che ci confondiamo sia Troy che io?»

Nick lasciò il timone e venne a guardare lo schermo, rimanendo interdetto a sua volta. A quanto gli pareva di vedere, sul fondale c’erano anche altre cose che sembravano diverse. «Il foro non lo vedo nemmeno io,» disse «ma forse è solo questione di luce. L’altra volta siamo stati qui di pomeriggio, mentre ora sono le dieci del mattino.»

«Forse è meglio che sia Nick a scendere con te» disse Troy a Carol. «È già stato giù, ha visto la fessura e sa come trovare la sporgenza, mentre io, tutto quello che so, lo so dalle fotografie.»

«No,» disse frettolosamente Carol «voglio che ci venga tu. Nick ha probabilmente ragione; quello che ci impedisce di vedere la fessura è la diversità di luce.» E, raccolta la macchina fotografica subacquea, si diresse a poppa lungo la fiancata del tendaletto. «Su, andiamo,» disse «vedrai che andrà tutto bene.»

Troy guardò Nick in silenzio facendo spallucce, come a dire «Io ci ho provato» poi, dopo qualche istante, la seguì.

3

«Ma Richard,» disse Ramirez «potremmo finire in guai grossi!»

«Non vedo come» ribatté il tenente Todd. «Né vedo perché qualcuno dovrebbe venirlo a sapere. In fin dei conti, la Marina ha costruito il sistema anzitutto per le sue navi, e gli altri lo usano solo perché siamo noi a concederglielo. Quindi, tutto quello che dobbiamo fare è di interrogare il registro navale e procurarci il doppler e i dati telemetrici relativi al loro codice d’identificazione. Dopodiché calcoleremo da noi dove si trovano. È facile: è quello che facciamo continuamente con le nostre imbarcazioni.»

«Ma abbiamo firmato una convenzione marittima che limita il nostro accesso ai registri privati ai soli casi di vita o di morte, di pericolo per la sicurezza nazionale» continuò Ramirez. «E dunque non posso inserirmi nella banca-dati dei satelliti solo perché tu e io nutriamo il sospetto che una certa barca stia compiendo un’operazione illegale. Ci serve un permesso dall’alto.»

«Oh, senti, Roberto: e chi mai ce lo darà,» fece, con veemenza, Todd «quando non siamo in grado di esibire le foto, ma solo la tua parola che esistono? No, dobbiamo agire per conto nostro. Se sbagliamo, non lo saprà nessuno. Se invece abbiamo ragione noi, inchioderemo quel bastardo, saremo entrambi degli eroi, e nessuno ci chiederà conto di quello che abbiamo fatto per arrivarci.»

Ramirez non aprì bocca per qualche secondo. «Non credi che dovremmo informare almeno il capitano Winters? Dopo tutto, l’ufficiale responsabile delle indagini sul Panther è lui.»

«Ma nemmeno per sogno!» si affrettò a dire Todd. «L’hai pur sentito ieri, no? Per lui, noi siamo già andati troppo in là, e lui, invidioso com’è, non chiederebbe di meglio che farci finire nella merda.» Poi, vedendo che Ramirez esitava ancora, aggiunse. «Be’, insomma, facciamo così: lo avvertiamo dopo che avremo scoperto dov’è la barca.»

Il tenente Ramirez scosse la testa. «Ma non farà differenza, perché saremo comunque andati al di là della nostra autorità.»

«Oh cazzo!» esclamò esasperato Todd. «Allora dimmi come bisogna fare e ci penserò io. Da solo, senza di te, assumendomi tutto il rischio.» Poi, piantandoglisi davanti, sibilò: «Puttana vacca, io davvero non riesco a capire: si vede proprio che a voi messicani vi manca il fegato. Tu, proprio tu, hai visto il missile su quella foto, e poi…».

«Adesso basta, Todd» sbottò aspro Ramirez, guardandolo di brutto. «Ci procureremo i dati. Ma, se andrà male, ti spezzerò il collo con queste mani.»

«Sapevo che avrei finito per convincerti» sorrise Todd alle sue spalle, seguendolo alla consolle di comando.


Il capitano Winters posò la confezione extra di sei Coca-Cole sopra le vaschette del ghiaccio e richiuse il frigo portatile. «C’è altro, prima che lo carichi in macchina?» gridò fuori dalla porta alla moglie e al figlio.

«No, signore» giunse dal vialetto la risposta. Winters sollevò il frigo e scostò la zanzariera. «Uff» disse, una volta caricatolo nel portabagagli «avete da mangiare e da bere per una dozzina di persone, qui dentro!»

«Vorrei tanfo che venisse anche lei, signore» disse Hap. «Perché quasi tutti verranno accompagnati dal padre.»

«Lo so, lo so,» rispose Winters «ma ci sarà tua madre al posto mio. Io ho bisogno di provare in privato per stasera.» Un rapido abbraccio al figlio, e continuò: «E poi, Hap, ne abbiamo già parlato: da un po’ di tempo a questa parte, le attività organizzate della chiesa mi mettono a disagio, perché, secondo me, la religione è una cosa fra Dio e l’individuo».

«Una volta non la pensavi così» interloquì Betty dall’altra parte della macchina. «Anzi, le scampagnate della chiesa ti piacevano tanto. Giocavi a softball, nuotavi, e ridevamo tutta la sera.» Nella sua voce si avvertiva una punta d’amarezza. «Su, vieni, Hap» continuò dopo un istante. «È meglio che andiamo, se non vogliamo arrivare in ritardo. Ringrazia tuo padre per averci aiutato a preparare tutto.»

«Grazie, papà.» Hap montò in macchina e Winters gli chiuse la portiera alle spalle. Continuarono a salutarsi finché la Pontiac non fu sulla strada. Mentre si allontanava, Winters si disse. Bisogna che passi più tempo con lui. È nel momento in cui ha bisogno di me. Se non lo faccio, presto sarà troppo tardi.

Si girò e tornò in casa. Al frigorifero, si arrestò per versarsi un bicchiere di succo d’arancia. Lo bevve lasciando pigramente correre lo sguardo per la cucina. Betty aveva già sparecchiato e infilato nella lavastoviglie i piatti della prima colazione, strofinato per bene i ripiani da lavoro, e posato sul tavolo, ripiegato in bell’ordine, il giornale. La cucina era linda, ordinata. Come lei, cui faceva orrore ogni specie di disordine. Gli venne in mente una mattina di tanto tempo addietro, quando Hap era ancora in fasce e abitavano a Norfolk, in Virginia. Nel battere esuberante sul tavolo di cucina, il piccolo aveva improvvisamente allargato le braccia, scagliando a terra la tazzina da caffè di Betty e il bricco della panna, che si erano rotti entrambi schizzando mezza cucina. Betty aveva interrotto di colpo la colazione, e, quando si era rimessa alle sue uova strapazzate, né il pavimento, né l’armadietto, né il cesto dei rifiuti (versati i cocci nel sacchetto al suo interno, aveva infatti portato il sacchetto direttamente ai bidoni esterni) recavano più la minima traccia dell’avvenuto incidente.

Immediatamente a destra del frigorifero, appesa alla parete, una placchetta scritta in semplici caratteri a mano diceva: «Poiché Iddio amò tanto il mondo, che diede il figlio Suo unigenito, affinché chiunque creda in Lui abbia vita eterna… Giovanni 3, 16». Lui, quella placca, la vedeva ogni giorno, ma erano mesi, anzi forse anni, che non ne leggeva le parole. Quella domenica mattina, le lesse e ne fu commosso. Pensò al Dio di Betty, un Dio assai simile a quello da lui stesso venerato durante l’infanzia e l’adolescenza nell’Indiana: un vecchio quieto, calmo, savio, che, seduto in cielo da qualche parte, osservava ogni cosa, sapeva ogni cosa, e attendeva di ricevere e rispondere alle preghiere degli uomini. Era un’immagine tanto semplice e bella! «Padre nostro, che sei nei cieli,» recitò, ricordando le centinaia, forse migliaia di volte che aveva pregato in chiesa «sia benedetto il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, così in cielo come in terra…»

E la tua volontà nei miei confronti, quale sarebbe, vecchio?, pensò, leggermente sorpreso della propria irriverenza. Da otto anni mi lasci andare alla deriva. Mi ignori. Mi sottoponi a prova come Giobbe. O mi punisci, magari. Andò a sedere al tavolo di cucina e bevve un altro sorso di succo d’arancia. Ma mi avrai perdonato? Non so ancora. Mai una volta, in tutto questo tempo, mi hai dato un segno preciso. Nonostante le mie preghiere e le mie lacrime. E pensare che una volta, subito dopo la Libia, mi sono detto che forse…

Si rivide mezzo assopito sulla spiaggia, steso di schiena con gli occhi chiusi su un grande asciugamano morbido. Di lontano gli giungeva il fruscio della risacca misto a voci di bimbi, e ogni tanto la voce di Hap o di Betty. Il sole estivo era caldo e rilassante. A un tratto, sotto le palpebre gli danzò una luce. Aprì gli occhi. Fra il bagliore del sole e un riflesso metallico che gli arrivava dritto, non riusciva a vedere granché. Si fece allora schermo con una mano. In piedi accanto a lui, intenta a fissarlo, c’era una bimbetta di forse un anno, e il riflesso proveniva dal lungo pettine metallico che portava infisso nei lunghi capelli.

Chiuse gli occhi e li riaprì. Ora la vedeva meglio. Aveva inclinato un po’ la testa, sicché il riflesso era svanito, ma continuava a fissarlo inespressiva. Aveva addosso solo dei pannolini, e si vedeva che era straniera. Araba, forse, aveva pensato sul momento, osservandone gli occhi marrone-scuro foggiati a mandorla. La piccola non si mosse né aprì bocca: continuò solo a fissarlo curiosa, imperterrita, indifferente in apparenza a ciò che lui facesse o non facesse.

«Ciao,» disse piano lui «chi sei?»

La piccola araba non diede segno di aver sentito. Dopo qualche secondo, però, gli puntò improvvisamente contro un dito assumendo un’aria stizzita. Lui si scosse e balzò seduto. Il repentino movimento spaventò la bimba, che cominciò a piangere. Lui allungò le braccia a prenderla, ma lei si ritrasse, scivolò, perse l’equilibrio, e cadde sulla sabbia. Nel cadere, la testa batté su qualcosa di acuminato, e subito si vide un rivolo di sangue scenderle sulla spalla. Spaventata sia dalla caduta sia dalla vista del sangue, la piccola cominciò a strillare.

Lui le si chinò sopra, combattendo il suo stesso panico alla vista della sabbia macchiata di sangue. Qualcosa d’irriconosciuto gli balenò per la mente, e decise di raccogliere la piccola araba per consolarla. Lei si divincolò violentemente, con lo spericolato abbandono e la sorprendente forza dei lattanti, e riuscì a liberarsi. Ma ricadde sul fianco, spruzzando di macchioline rosse la sabbia chiara. Completamente isterica, ora il volto soffuso di spavento e stizza, piangeva così forte da mozzarsi il respiro. E di nuovo gli puntò addosso il dito.

Nel giro di qualche secondo, calarono dal cielo un paio di braccia marrone-scuro a sollevarla. Per la prima volta, lui notò la presenza tutt’intorno di altre persone, di mucchi di persone. La bimbetta era stata raccolta da un uomo che doveva essere il padre: un arabo tozzo sui venticinque anni, in costume da bagno azzurro-brillante. Ora reggeva la piccola con fare protettivo, con l’aria di aspettarsi uno scontro, e consolava la giovane moglie disperata che andava mescolando i suoi singhiozzi ai frenetici strilli della bimba. Entrambi i genitori, intanto, fissavano lui con aria accusatrice, mentre la madre tamponava la ferita della figlioletta con un asciugamano.

«Io non volevo farle del male» disse lui, rendendosi conto, già nel dirle, che queste parole sarebbero state fraintese. «È caduta e ha battuto la testa su qualcosa e io…» La coppia araba arretrò lentamente. Lui si rivolse agli altri, alla dozzina di persone accorse in aiuto agli strilli della piccina, e constatò che anche loro lo guardavano strano. «Io non volevo farle del male» ripeté con forza. «Stavo solo…» Si arrestò. Dal viso gli gocciolavano sulla sabbia delle grosse lacrime. O mio Dio, sto piangendo! Per forza questa gente…

Udì un altro grido. Betty e Hap, apparentemente, gli erano arrivati alle spalle mentre la coppia araba arretrava con la figlioletta sanguinante. Ora, alla vista del sangue sulle mani del padre, il cinquenne Hap era esploso in lacrime a sua volta, nascondendo il viso contro il fianco della madre. E singhiozzava, e singhiozzava… Lui si guardò le mani, poi guardò gli astanti. D’impulso, si chinò e tentò di pulirle nella sabbia. Il suono dei singhiozzi del figlio punteggiò il suo vano tentativo di pulirsi dal sangue.

Mentre stava in ginocchio sulla sabbia, alzò gli occhi a guardare Betty, per la prima volta dall’inizio dell’episodio. E vide sul suo volto un’espressione d’orrore puro. La implorò con lo sguardo di sostenerlo: ma quegli occhi si velarono, e lei cadde a sua volta in ginocchio — compostamente, in modo da non turbare il figlio in lacrime che le si stringeva al fianco. Poi cominciò a pregare. «Signore Iddio» disse a occhi chiusi.

Gli astanti a poco a poco si dispersero, e molti andarono dalla famiglia araba a offrire aiuto. Lui rimase in ginocchio sulla sabbia, sconvolto da quanto aveva fatto. Finalmente, Betty si alzò. «Su, su,» disse, consolando Hap «andrà tutto bene, vedrai.» Poi, senza un’altra parola, raccolse metodicamente borsa da spiaggia e asciugamani e si avviò verso il parcheggio. Lui le andò dietro.

Lasciata la spiaggia, tornarono a Norfolk, dove abitavano. E mai che lei mi abbia chiesto una spiegazione, pensò Winters, seduto, a otto anni di distanza, al tavolo di cucina. Né mai che mi abbia anche solo permesso di parlarne. E questo per tre anni filati almeno. Come se non fosse successo… E adesso, ogni tanto, la tira fuori così, anche se, discusso, non ne abbiamo discusso mai.

Terminò il succo d’arancia e accese una sigaretta. Nel farlo, tornò immediatamente col pensiero a Tiffani e alla notte precedente. Paura ed eccitazione gli si destarono, insieme, al pensiero della sera che lo attendeva. E scoprì di avere anche una strana voglia di pregare. E ora, Signore caro, mi stai di nuovo mettendo alla prova?, disse, incerto. Poi, improvvisamente afferrato dalla rabbia che aveva in corpo: O stai solo ridendo di me? Forse non t’è bastato abbandonarmi, lasciarmi andare alla deriva: per accontentarti, ti ci vuole ancora la mia umiliazione, forse.

Di nuovo provò desiderio di piangere, ma resistette. Schiacciò la sigaretta e si alzò dal tavolo. Andò accanto al frigo e staccò la placca col versetto della Bibbia. Fece per buttarla nella spazzatura, poi, dopo un secondo d’esitazione, cambiò parere e la infilò in un cassetto.

4

Carol nuotava veloce un paio di metri al di sopra della trincea, avvicinandosi alla curva finale. In attesa che Troy la raggiungesse, scattò qualche fotografia; poi, indicato sotto di sé il punto in cui i solchi svoltavano a sinistra, riprese a nuotare, più lentamente stavolta, seguendoli attraverso lo stretto crepaccio che conduceva alla sporgenza. Li non era cambiato nulla. Fatto segno a Troy di stare indietro, s’infilò nella trincea, con cautela, come aveva fatto la prima volta con Nick. Frugò metodicamente sotto la sporgenza, ma non trovò niente.

Segnalò allora a Troy che non c’era nulla e, dopo un’altra rapida sequenza di foto, cominciò a risalire con lui il percorso fatto all’andata, tornando lungo i solchi verso l’area sottostante alla barca dove, un quarto d’ora prima, avevano cercato entrambi invano la fessura vista il giovedì. La fessura era misteriosamente svanita, ma i solchi, sebbene un poco erosi, continuavano a convergere tutti davanti alla scogliera, nel punto in cui, appena due giorni prima, si apriva appunto la fessura. Carol aveva sondato in ogni maniera, arrivando perfino a danneggiare la scogliera in diversi punti (cosa che, come ambientalista, detestava fare — ma, diamine, il foro doveva pur esserci!), ma, di fessura, neanche l’ombra. Se non l’avesse vista anche lui distintamente, prima sullo schermo del telescopio oceanico e poi sulle foto, Troy avrebbe potuto pensare che fosse stata solo un parto della fantasia collettiva di Nick e Carol.

Profondamente immersa nei propri pensieri, Carol non fece troppa attenzione nel girare a destra sopra la trincea principale dopo aver lasciato il sentiero secondario che conduceva alla sporgenza. Sfiorò così un ramo di corallo che s’allungava dalla roccia e si sentì pungere alla mano. Guardò, e la vide sanguinare. Strano, pensò, l’ho appena sfiorato… Il pensiero le tornò immediatamente a dieci minuti prima, quando, nella sua ricerca della fessura, aveva frugato tra corallo e fuco senza complimenti. E nemmeno un graffio…

Nel cervello cominciò vagamente a formarlesi un’idea delle più balzane. Elettrizzata, accelerò il ritmo delle bracciate dirigendosi giù per la lunga trincea verso il punto in cui aveva visto la fessura. Fu una lunga nuotata, ma lei la compì in quattro o cinque minuti, lasciandosi indietro Troy. In attesa che lui la raggiungesse, controllò la pressione del manometro. Dopo lo scambio del segnale di pollice dritto, tentò invano di spiegargli a gesti che cosa avesse intenzione di fare, dopodiché allungò bravamente la mano ad afferrare un pezzo di corallo. Da dietro la maschera, Troy spalancò gli occhi e fece una smorfia: al che lei, aprendo la mano, gli mostrò come su di essa non vi fossero né tagli, né scalfitture, né sangue. Sbalordito, Troy le nuotò accanto per esaminare la colonia corallina da lei appena disturbata. Com’era che anche lui poteva toccare e tener in mano quello strano corallo senza tagliarsi? Strano…

Ora Carol staccava corallo e fuco dalla scogliera. Ed ecco che, sotto gli occhi di un Troy esterrefatto, da essa sembrò staccarsi come pelle, quasi alla maniera di una coperta, un pezzo enorme…

Carol e Troy udirono il grande WUUSH solo millisecondi prima di sentire il risucchio. Nella scogliera alle loro spalle si aprì uno spacco immane, e ogni cosa vicina — lei, lui, branchi di pesci, piante d’ogni genere e un’enorme massa d’acqua — vi venne inghiottita dentro. La corrente era vorticosa, ma il canale non troppo largo, tant’è che Carol e Troy cozzarono un paio di volte contro quelle che sembravano pareti metalliche. Di pensare non c’era tempo: trascinati come lungo uno scivolo acquatico, potevano solo aspettare di giungerne alla fine.

Il buio si trasformò in fosca mezzaluce e la corrente perse sensibilmente di forza. Separati di un sei-sette metri, Carol e Troy si sforzarono entrambi di riacquistare il controllo di sé e di farsi un’idea di quanto stava accadendo. Apparentemente, si trovavano nella corona esterna di una grande vasca circolare, e giravano in tondo, superando delle specie di porte ogni novanta gradi di giro. L’acqua della vasca era profonda circa tre metri. Carol si girò sul dorso a guardare verso l’alto. Sopra di lei incombevano una quantità di grandi strutture, alcune in movimento, che sembravano fatte di metallo o di plastica. Ma Troy, dov’era? Tentò di afferrarsi ai bordi della vasca per fermarsi un poco a guardare se lo vedesse, ma ne venne impedita dalla forza irresistibile della corrente.

Fecero tre o quattro giri completi del cerchio senza riuscire a vedersi. Troy notò che pesci e piante erano a poco a poco scomparsi tutti dalla corona esterna, il che lasciava pensare che fosse in corso un processo di cernita o smistamento. A un tratto, la corrente crebbe di velocità, ed egli fu spinto in avanti e in basso, prima sott’acqua e poi attraverso una porta semiaperta, e di nuovo nell’oscurità. Proprio nell’istante in cui in superficie appariva una traccia di luce e la corrente tornava a diminuire, si sentì abbrancare il braccio destro.

Venne sollevato dall’acqua di circa mezzo metro. La luce fioca gl’impediva di vedere bene da che cosa fosse stato afferrato, ma certo si trattava di qualcosa di assai robusto e vigoroso, che ora lo reggeva senza altro movimento. Si guardò indietro, verso la corrente, e vide arrivare voltolando, il corpo di Carol. Allungò il braccio sinistro libero ad afferrarla, e lei, sentitolo, vi si avvinghiò all’istante. Poi, raccogliendosi, sollevò la testa fuori dall’acqua e lottò per portarsi all’altezza del torace di lui. Ci riuscì, mentre la corrente le schizzava sotto rapidissima. Tirò un sospiro, e, per un istante, i suoi occhi incrociarono quelli di Troy sotto la maschera.

Poi, inspiegabilmente, la presa mollò, ed entrambi si ritrovarono nell’acqua, dalla corrente ora meno forte. Poterono così tenersi a contatto senza grande difficoltà. Dopo una quindicina di secondi, la corrente cessò del tutto, e si trovarono depositati in una piscina di quella che sembrava una grande sala. L’acqua, intanto, defluiva gradatamente da qualche invisibile orifizio situato all’estremità lontana della sala. Quando fu defluita tutta, Carol e Troy, scossi e sfiniti, si accinsero a rimettersi in piedi.

Carol sembrava non riuscirci, e Troy la aiutò. Indicò quindi il proprio manometro e, molto lentamente, si sfilò il boccaglio per provare l’ambiente. Un respiro, un secondo. A quanto poteva giudicare, l’aria era aria normale. Guardò Carol alzando le spalle e, in un empito temerario, si tolse anche la maschera. «Buondì, gente!» gridò nervoso. «C’è qualcuno? Gli ospiti sono arrivati!»

Carol si sfilò anch’essa lentamente maschera e manometro. Aveva un’aria intontita. Si guardarono intorno. Tra loro e il soffitto c’erano circa tre metri, e le dimensioni della sala equivalevano più o meno a quelle di un ampio soggiorno di una bella casa suburbana. Del tutto insolite erano invece le pareti, le quali, anziché essere piane e perpendicolari al pavimento, erano costituite da ampie superfici curve, alcune concave, altre convesse, dipinte alternatamente in rosso e in azzurro. Senza riflettere, Carol cominciò a muoversi qua e là — con lentezza, naturalmente, dato l’ingombrante equipaggiamento subacqueo — e a scattare fotografie.

«Un momento solo, signorina Dawson» disse Troy, con un mezzo sorriso, sfilandosi le pinne per seguirla. «Senti, angelo: prima di fare altre foto, vorresti essere tanto gentile da spiegare a questo sempliciotto nero dove cazzo si trova in questo momento? Voglio dire: a me risultava di esser sceso sotto la barca a cercare un buco. Ora, il buco mi pare di averlo trovato, ma confesso che è un tantino seccante andare in visita da qualcuno che non si sa chi sia. Perciò, non potresti piantarla un momento col giornalismo e spiegarmi come mai sei così calma?»

Carol era davanti a uno dei pannelli-parete concavi di colore azzurro. Nella struttura della parete, più o meno ad altezza d’occhio, si vedevano due o tre tacche a forma di cerchi o ellissi. «Secondo te, questo cos’è?» disse Carol a voce alta, ma col tono di una persona lontana le mille miglia.

«Carol, piantala!» gridò quasi Troy. «Piantala subito! Non possiamo stare qui a spassarcela come se facessimo una tipica visita pomeridiana a una casa modello. Dobbiamo parlare. Dove siamo? Come facciamo a uscire e a tornarcene a casa? “Casa” ho detto: hai presente cos’è? Garantito che non sta sotto l’oceano a due ore dalla costa!» La afferrò per le spalle e la scosse.

Carol cominciò a uscire dal suo intontimento. Si guardò lentamente attorno, poi guardò lui e disse: «Gesù… E vacca merda». Troy vide che tremava e fece un passo avanti per abbracciarla. Lei gli fece segno di non voler esser toccata. «Ora sto bene. O quasi, almeno.» Respirò a fondo un paio di volte, e sorrise. «Quello che è certo è che ho per le mani una bomba di servizio.» Tornò a guardarsi attorno, poi, corrugando la fronte: «Ma, Troy, qui dentro, com’è che ci siamo arrivati? Non vedo né porte né aperture né niente».

«Buona domanda,» rispose Troy «anzi, ottima, e io avrei anche una risposta. Secondo me, queste stravaganti pareti colorate sono mobili, perché credo di averle viste unirsi mentre stavo sott’acqua. Non ci resta quindi che spingerle da parte e trovare l’uscita.» Così dicendo, tentò d’infilare le mani in una fessura di connessione fra una sezione azzurra e una rossa, ma senza riuscirci.

Carol cominciò ad aggirarsi per la sala nell’ingombrante muta subacquea, e, dopo qualche passo, si fermò e si tolse tutto meno il costume da bagno. Poi si dedicò a esaminare e fotografare ogni singolo pannello della sala. Troy si tolse a sua volta bombole e muta lasciandole cadere, con un clang, sul pavimento di metallo leggero, e rimase a osservarla per un minuto.

«Carol, oh Carol,» disse quindi, sforzandosi di esibire il suo gran sorriso «vorresti dirmi, per piacere, che cavolo fai? Non per insistere, angelo, ma magari ti potrei aiutare.»

«Sto cercando qualcosa che dica “Mangiami” o “Bevimi” replicò nervosa lei, dall’altra parte della sala.

«Già, si capisce, più ovvio di così…» borbottò Troy.

«Ricordi Alice nel paese delle meraviglie?» chiese Carol. Aveva trovato una lunga e sottile protuberanza, che pareva una maniglia protesa dal centro di uno dei pannelli rossi. Gli fece segno di accostarsi. Insieme, cercarono quindi di girarla. Niente. Carol si stizzì.

Troy, vedendola scrutare freneticamente il resto della sala, credette di scorgere in lei un primo segnale di panico. Si drizzò allora sull’attenti, in stile militare e disse: «Parla duramente al tuo bambino… E picchialo quando starnuta… Lo fa solo per seccare il prossimo… Perché sa che irrita».

Dal corruccio di Carol, capì che lei pensava che gli avesse momentaneamente dato di volta il cervello. «Era la Regina di Cuori, credo,» rise «ma non ne sono sicuro. So solo che me la sono dovuta imparare per una recita in quinta elementare.» Ormai distesa, Carol rideva anch’essa nonostante la paura. Alzandosi sulla punta dei piedi, lo baciò sulla guancia. «Piano, vacci piano…» disse lui, con un brillìo ironico negli occhi. «Noi neri ci eccitiamo facilmente, sai!»

Prendendolo a braccetto, Carol terminò con lui il giro della sala, esaminando le pareti alla ricerca di un qualunque segno di uscita. I motteggi di Troy la misero a suo agio. «In terza media, un mio insegnante nero diceva che Alice era una storia razzista. E lo era, secondo lui, per il fatto che Alice seguiva un coniglio bianco, non nero — come mai, per l’appunto, avrebbe fatto una bambina bianca per bene.» Fermandosi davanti a un altro pannello rosso, disse: «Oh guarda: e qui, che c’è?».

Da lontano, il pannello rosso sembrava come tutti gli altri. Da vicino, invece, ossia a un metro di distanza, la pittura rossa si presentava retinata di puntolini bianchi disposti secondo i motivi più diversi. Una serie di sezioni rettangolari contigue, delineate da punti bianchi, rilevava il centro del pannello. «Ehi, angelo,» disse Troy, pigiando a caso sulle sezioni «non ti pare che somigli parecchio a una tastiera di elaboratore?» Carol si unì a lui nel pigiare a caso i tasti, e diventò un gioco.

Per quasi un minuto rimasero davanti al pannello a ficcare le dita in ogni sezione punteggiata e a pigiare forte, poi Carol se ne staccò bruscamente e, guardandosi intorno, si avviò decisa ad attraversare la sala. «Ma dov’è che vai?» gridò Troy, mentre lei, ruotando su se stessa per rispondere, per poco non inciampava nell’attrezzatura posata sul pavimento.

«M’è venuta un’idea balzana» rispose Carol. «Chiamalo intuito femminile, se vuoi, o medianico.» Era al pannello rosso della maniglia. La tirò, senza forzare, verso il basso e udì all’istante un cigolìo. Balzò indietro sussultando, e vide il pannello ripiegarsi su di sé verso l’esterno e rivelare un passaggio oscuro largo abbastanza per un autocarro. Troy le venne accanto, e rimase con lei a guardare in quel vuoto.

«Porca vacca…» disse. «Qualcuno si aspetta che c’infiliamo lì dentro, secondo te?»

«Ne sono sicura» assentì Carol.

Lui la guardò stranamente. «E si può sapere come fai ad esserlo?»

«Ma perché è l’unica via d’uscita da qui» ribatté Carol.

Troy lanciò un’ultima occhiata alla misteriosa sala dalle pareti curve e colorate. Le parole di Carol erano di una logica incontrovertibile. Con un profondo sospiro, le prese la mano ed entrò nella nera galleria.


Alle loro spalle vedevano vagamente il piccolo fascio luminoso proiettato dalla sala in cui avevano lasciato l’equipaggiamento subacqueo. All’interno del cunicolo era buio pesto, ciò che imponeva di camminare piano e con cautela. Troy teneva una mano sulla parete e l’altra stretta su quella di Carol. Le pareti tondeggianti riflettevano il rumore del loro respiro affannato, che paura e apprensione costanti rendevano ancor più tale. Camminavano in silenzio. Un paio di volte, Troy fece per cantare qualche verso di una canzone popolare, tanto per tranquillizzarsi, ma Carol lo zittì in entrambe, perché voleva sentire se ci fossero altri rumori.

A un certo punto, gli strinse la mano e si arrestò. «Ascolta» gli sussurrò. Troy trattenne il respiro. Silenzio totale, salvo che per il suono vaghissimo, non identificabile, in lontananza. «Musica» disse Carol. «Mi pare di sentire della musica.»

Troy si tese al massimo per cercare di afferrare quel suono che gli giungeva appena alla soglia dell’udito. Invano. «Ce l’hai dentro la testa, probabilmente» disse, tirandole la mano. «Andiamo.»

Avevano svoltato, sicché la luce alle spalle era sparita. Erano nella galleria da una decina di minuti, e Carol cominciava a perdersi d’animo. «E se non portasse da nessuna parte?» disse.

«Assurdo» si affrettò a rispondere Troy. «È stata costruita da qualcuno con un fine, ed è ovviamente un cunicolo di collegamento.» Poi tacque.

«Qualcuno chi»? chiese Carol, ponendo la domanda che li turbava entrambi dal momento in cui si erano infilati, con apprensione, nelle tenebre della galleria.

«Altra buona domanda» disse Troy, riflettendo un istante prima di rispondere. «La Marina degli Stati Uniti, a mio avviso. Secondo me, siamo in un qualche laboratorio subacqueo segretissimo, di cui nessuno conosce l’esistenza.» Naturalmente, potrebbe anche essere russo, pensò, ma non lo disse per non turbare Carol. Nel qual caso siamo nella merda fin qui. Perché se i russi hanno un grosso laboratorio segreto a così poca distanza da Key West, di sicuro non gradiranno che…

«Troy, guarda,» si agitò Carol «vedo una luce! C’è proprio qualcuno, allora.» La galleria stava per scindersi in due. In capo a una estremità, quella del ramo che svoltava bruscamente a sinistra, si distingueva chiaramente una chiazza luminosa. Sempre tenendosi per mano, Troy e Carol vi puntarono a passo veloce. Troy si sentiva il cuore in tumulto.

Carol entrò nella nuova sala quasi di corsa. Ma non si trattava di una sala, bensì di una cameretta ovale con gli stessi bizzarri pannelli per pareti (salvo che questi erano marroni e bianchi, anziché rossi e azzurri come gli altri). Lei, che si era aspettata di venir trovata, che aveva pensato che la misteriosa avventura fosse ormai vicina alla fine e a una spiegazione generale, rimase là a guardarsi intorno spaventosamente confusa. «Ma questo posto, cos’è?» chiese a Troy. «E come faremo a uscirne?»

Troy stava al centro della camera, la testa piegata al massimo all’indietro a guardare l’ampia volta ad arco del soffitto, nove o dieci metri più in alto. «Càspita,» esclamò «ma è immenso!» La luce soffusa che illuminava la camera proveniva da lastre di materiale semitrasparente — cristalli di vetro, forse — incorporate al soffitto.

I pannelli marroni e bianchi delle pareti erano alti solo tre metri, ma ciò bastava a impedire a Carol e Troy di guardare al di là di essi. Entrambi provavano uno strano senso di libertà e confino a un tempo. Da un lato, prima la galleria, poi la camera stessa, simile a una di bambino in una piccola casa, avevano procurato loro un senso di claustrofobia; dall’altro, l’impressione di spazio offerta dal soffitto da cattedrale aveva di che sollevare il cuore.

«Be’?», fece Carol, un tantino spazientita, dopo aver atteso per un po’ che Troy completasse il suo giro d’ispezione della cameretta. Lui, intanto, notava che i pannelli marroni e bianchi erano curvi sì, ma appena appena, e dunque assai più simili dei precedenti a pareti normali.

«Scusa, angelo, ho scordato la domanda» rispose.

«Ce n’è una sola, signor Jefferson» disse lei, scuotendo la testa. «Ed è la stessa che mi hai fatto tu alla nostra ultima fermata, credo.» Consultò l’orologio. «Entro una quindicina di minuti avremo esaurito il tempo massimo d’aria, e ritengo di non sbagliare nel pensare che il nostro amico Nick si stia già preoccupando. Ma noi continuiamo a non avere idea… Ma che fai?»

Si interruppe alla vista di lui che si chinava a tirare un pomellino infisso in uno dei pannelli bruni d’angolo. «Questi sono cassetti, angelo» disse Troy, mentre la parte inferiore del pannello si staccava di diversi centimetri dalla parete. «Tipo toeletta.» Ne aprì un secondo sopra il primo. «E c’è dentro qualcosa.»

Carol gli si avvicinò per vedere. Allungata la mano nel secondo cassetto da lui aperto, ne estrasse una sfera color ruggine grande all’incirca quanto una palla da tennis. La palla aveva una superficie stranissima: non liscia e regolare, ma striata, soprattutto da una parte, e con minuscoli bozzi, tipo quelli d’un sottaceto, tutt’intorno e accanto alle striature. In alcuni punti presentava anche delle tacche non ben definite. «Io, una cosa così, l’ho già vista. Ma dove?» si chiese Carol esaminando la sfera nella luce soffusa. Poi, dopo qualche secondo di riflessione: «Ci sono!» annunciò, lieta che la memoria l’avesse servita. «Pare tutta il modello di Marte del Museo Nazionale Aerospaziale.»

«Allora io ho la Terra» replicò Troy, mostrandole una sfera quasi del tutto azzurra e grande quanto una palla da softball da lui trovata nel cassetto superiore. Nella luce smorzata della camera, rimasero entrambi a contemplare le due sfere che tenevano in mano. «Ma cazzo di un cazzo!» sbottò finalmente Troy, ruotando su se stesso e guardando il soffitto. «Chiunque voi siate, venite fuori e identificatevi, perché noi ne abbiamo abbastanza!»

Un’eco parziale della sua voce, ma nient’altro. Smaniosa di far qualcosa, pur che fosse, Carol continuò l’ispezione della camera e trovò un’altra serie di tre cassetti in un pannello marrone poco discosto. Mentre ne apriva uno, Troy scagliò per gioco la palla azzurra contro quella che sembrava un’uscita — un’apertura oscura fra pannelli sull’altro lato della camera. La sfera colpì con un tonfo sordo un pannello bianco vicino all’apertura, ricadde, ma, prima che toccasse il pavimento, si sollevò come attirata dall’alto e, arrestatasi al centro della camera a circa un metro e mezzo dal pavimento, cominciò a ruotare.

Spalancando tanto d’occhi, Troy le andò vicino e le passò la mano sopra alla ricerca dei fili che la dovevano sostenere. Non ce n’erano. La sfera rappresentante la Terra continuò a ruotare lentamente, descrivendo un cerchio nell’aria al centro della camera. Troy le diede una spintarella: essa vi rispose, ma, cessato l’effetto della forza, tornò al punto di prima e riprese il suo movimento. Troy si voltò. Carol gli dava la schiena, occupata a cercare invano un’altra serie di cassetti e reggendo sempre Marte nella sinistra.

«Ehi, Carol, ti dispiacerebbe venir qui un momento?» disse lentamente Troy.

«No, vengo» rispose lei prima di voltarsi. «Santo cielo, Troy, questi cassetti sono pieni di ogni sorta di…» Voltatasi, notò la Terra sospesa a mezz’aria al centro della camera. «Bello,» azzardò, aggrottando le ciglia «proprio bello. Non sapevo che fossi anche un mago.» Ma, all’espressione perplessa del viso di Troy, le morirono le parole. Si avvicinò per osservare da vicino.

Per una decina di secondi almeno, rimasero entrambi a contemplare in silenzio il lento ruotare della palla azzurra. Poi Troy prese a Carol la sfera di Marte e la lanciò di rovescio verso il soffitto. Marte salì ad arco e ricadde normalmente — fin quasi a livello del pavimento. Dove, come la sfera azzurra, sviluppò un proprio senso direzionale e motorio, che lo portò a fermarsi a circa un metro e mezzo d’altezza, a cominciare una lenta rotazione, e a rimanere sospeso nell’aria accanto alla sfera azzurra raffigurante la Terra.

Carol afferrò tremante la mano di Troy, poi, dopo un po’, si ricompose. «C’è qualcosa in tutto ciò che mi fa venire la pelle d’oca» disse. «Tutto sommato, preferirei vedermela con un millepiedi che mi chiedesse “Chi sei?”, perché, se non altro, avrei una qualche idea di quello che avrei davanti.»

Troy si voltò e la ricondusse ai cassetti semiaperti. «Una volta, facendo l’autostop, mi sono imbattuto in un vecchio hippie con la barba» cominciò, estraendo una palla da pallacanestro coperta di cinghie e fascette latitudinali varianti dal rosso all’arancio — un Giove, insomma — e lasciandosela con ambe le mani dietro le spalle. Sotto lo sguardo affascinato di Carol, Giove andò a raggiungere le altre due sfere e prese a orbitare attorno a un baricentro vuoto nel bel mezzo della camera.

«Guidava un vecchio camioncino scassato e fumava uno spinello. Sulle prime abbiamo parlato poco. Lui mi faceva delle domande e io facevo per rispondere, ma, dopo una frase o due, m’interrompeva per dire: “Tu non sai una merda, amico”. E questa era la sua risposta a tutto.»

Nel raccontare la storia, Troy procedeva allo svuotamento metodico di tutte sei i cassetti, gettando al centro della camera ogni oggetto trovato e osservando il comportamento di alcuni di essi come se si trattasse di cose di tutti i giorni. Ciascuna delle nuove sfere ripeté il comportamento delle precedenti, dando origine a un modello quasi completo e funzionante di sistema solare sospeso a un metro e mezzo circa dal pavimento.

«Alla fine mi sono stancato di ’sto gioco e non ho più aperto bocca. Così, abbiamo fatto chilometri e chilometri in silenzio. Era una bella notte chiara, e lui continuava a mettere la testa fuori dal finestrino per osservare le stelle. A un certo punto, dopo aver ritirato dentro la testa per l’ennesima volta, ha acceso un altro spinello e, porgendomelo, ha indicato le stelle dicendo: “Loro, amico, loro sanno”.

«Chilometri dopo, quando sono sceso, lui s’è sporto fino a lasciarmi scorgere l’espressione stralunata degli occhi, e ha sussurrato: “Ricorda, amico: tu non sai una merda: loro, loro sanno”.»

Mentre terminava il racconto, Carol gli venne accanto ed estrasse dal cassetto inferiore due manciate di frammenti minuscoli e un po’ appiccicosi al tatto. Quando li scosse dalle mani, volarono miracolosamente per la camera fino ad agglomerarsi ai sistemi anelliformi di Saturno e Urano. Carol guardò Troy con aria di sacro sgomento.

«Ha una morale, la tua strana storia?» gli chiese. «Confesso che la tranquillità con cui prendi questa dannata faccenda mi lascia di sasso. Io, per me, se non sono ancora impazzita del tutto, poco ci manca.»

Troy indicò i minuscoli pianeti fluttuanti nell’aria. «Ciò che stiamo vedendo non ha spiegazione in termini di esperienza umana normale. Quindi, o siamo tutt’e due morti, o siamo stati trasferiti in una dimensione nuova, o siamo oggetto di giochetti psichici da parte di qualcuno.» Poi, sorridendole: «Se proprio vuoi saperlo, angelo, ho anch’io una fifa da cagarmi addosso. Ma, come quel vecchio suonato di un hippie, continuo a ripetermi che, a sapere, sono loro. E questo mi dà un certo conforto».

Udirono un lieve fruscìo come di scivolamento, e, da una apertura che andava formandosi tra due pannelli, uno marrone e uno bianco immediatamente a destra dell’ingresso della galleria, sgorgò nella camera un fascio di luce vivissima. Carol si ritrasse d’impulso, coprendosi gli occhi per un istante. Troy balzò anch’egli all’indietro, dapprima, ma poi sbirciò di tra le dita che gli facevano schermo. I pannelli continuarono a ritrarsi sino a formare un’apertura di circa mezzo metro, mentre la camera si empiva di luce. Dall’apertura avanzò lenta una grossa palla illuminata. «Ecco qua il Sol… Tàtata, tùu… Ecco qua il Sol» cantò Troy con trepidazione. «E tutto va ben… Tutto va ben…» Canticchiò qualche altro verso mentre Carol apriva gli occhi.

«Oggesù!» disse lei. La sfera luminosa, grande quanto un pallone da spiaggia, andò a collocarsi nel posto che le competeva nel planetario e inondò la camera intera dei suoi raggi, mentre i pianeti ruotanti e orbitanti ne riflettevano la luce dalla parte esposta. Carol guardava esterrefatta, il viso solcato di lacrime silenziose. Sconvolta, non riusciva a parlare né a muoversi.

Anche Troy era spaventato, ma non al punto da avere impedite le facoltà di reazione. Un momento dopo, scorse tuttavia nell’apertura una cosa che lo fece sussultare di terrore. Il cuore in tumulto mentre sbatteva, apriva, socchiudeva gli occhi per accertarsi che non si trattasse di un’illusione ottica dovuta alla presenza, fra lui e la cosa, della vivida luce del modellino del Sole, si volse d’istinto a proteggere Carol, facendole schermo perché non vedesse.

«Non guardare subito,» le sussurrò «abbiamo un visitatore.»

«Che… che cosa?» fece Carol, confusa e ancora stordita.

Tenendola per le braccia, Troy si spostò con lei di qualche passo verso destra. Si guardò alle spalle, e vide che la cosa era sempre là.

«Vicino all’uscita» disse, voltandosi, incapace di nascondere più a lungo il panico.

Gli occhi di Carol colsero la fonte del terrore di Troy. Che cosa fosse, lei non avrebbe saputo dire: vedeva solo che si trattava di un qualcosa di grosso, di chiaramente minaccioso, e di assolutamente diverso da qualunque cosa lei avesse mai visto o immaginato. Ed era entrato nella camera. Udì le urla frenetiche, incoerenti, di Troy, ma senza afferrarne il significato. Guardò di nuovo la cosa, e il cervello le si ribellò. Apri la bocca per urlare, ma, lì per lì, non ne uscì suono. Cadde in ginocchio sul pavimento. Udì uno strepito di urla dentro di sé, ma che sembravano lontane, lontanissime. Il cervello le diceva «Stai gridando» ma, per qualche ragione, sembrava impossibile — doveva essere qualcun altro.

La cosa le stava venendo incontro. Il corpo vero e proprio era alto sui due metri e mezzo, in quel momento, ma continuava a cambiare forma e mole nel suo ondulare per la camera. Qualunque cosa fosse, sia lei che Troy potevano vedervi non solo attraverso, ma addirittura attraverso parti della sua struttura. Una membrana esterna trasparente appariva delimitare e avvolgere un subbuglio permanente di materia fluida, in gran parte chiara, e fluente e rifluente a ogni movimento. La cosa avanzava alla maniera di un’ameba, come della materia semplicemente diretta nella direzione giusta, ma a una velocità sorprendente. Dietro tutte le superfici esterne c’era una massa sparsa di puntini neri, schizzanti in ogni direzione in quello che appariva essere un controllo delle riconfigurazioni continue che davano movimento al tutto. Inserita presso il centro del corpo primario era anche una mezza dozzina di pezzi di materia grigiastra, opaca — oggetti sui trenta centimetri per trenta.

L’aspetto più terrificante della cosa non era tuttavia il corpo primario in sé, bensì la spaventosa batteria di dozzine di appendici, in gran parte lunghe e di forma affilata, che spiccavano sulle parti superiori e che apparivano infisse nel corpo primario alla maniera di oggetti aguzzi in un puntaspilli. La grande struttura chiara e amebiforme sembrava un versatile sistema di trasporto in grado di trasportare praticamente qualunque cosa, e il cui carico utile fosse costituito, almeno per tale uso, dalla famiglia di bacchette in attività costante che spuntavano dalle parti superiori; bacchette tanto più minacciose, in quanto i loro effettori terminali somigliavano ad aghi, mani, spazzole, denti, e anche a spade e armi da fuoco. Dentro di sé, Carol si vedeva insomma attaccata da un super carro armato in grado di cambiar mole in un baleno e di muoversi, su comando di fili invisibili, in ogni direzione.

Troy si tirò da parte, tentando di calmare la paura e di ritrovare il respiro, ma sempre tenendo d’occhio l’avanzata della cosa, che puntava diritta su Carol. D’un tratto, l’appendice più lunga, uno strumento rossastro di plastica che si biforcava in due corti rebbi a circa trenta centimetri dal corpo primario, si prolungò in avanti di un altro metro, per bloccarsi a soli quindici centimetri dagli occhi di Carol. Con un urlo, Carol la scostò, ma essa tornò di scatto nella posizione precedente. Troy, allora, afferrò il Giove sospeso a mezz’aria e lo scagliò, con ogni sua forza, contro il centro della cosa. All’impatto, la massa informe arretrò, ritraendo immediatamente le appendici; ma, istantaneamente riconfigurandosi, dispose la sua materia in modo da lasciarsi attraversare dalla palla. E, prima di ricadere sul pavimento dall’altra parte, Giove si sollevò in aria e tornò al proprio posto nel sistema solare modello.

La cosa, intanto, aveva arrestato la sua avanzata verso Carol, e, seduta al centro della camera, lasciava che le sue appendici turbinassero come fruste in ogni direzione. Sembrava intenta a meditare una decisione. Troy, allora, trovò il coraggio di afferrare una bacchetta dall’effettore terminale foggiato a spazzola e tentò di spiccarla dalla struttura principale. Istantaneamente, al giunto che la collegava al corpo affluì materiale trasparente di rafforzamento. L’atto di Troy provocò però un cambio manifesto nel comportamento della cosa, che passò a lui come obiettivo. Muovendosi con la massima cautela, e sorvegliando l’inseguitrice con occhio attento a un’altra eventuale estensione repentina dello strumento rosso dai due rebbi, Troy si portò piano piano verso l’apertura. Mentre la cosa puntava su di lui, segnalò a Carol di stare indietro, poi scattò verso l’apertura, inciampando leggermente, nel varcarla, in una bacchetta prolungata.

La cosa non esitò. Con sorprendente celerità, si fece bassa e tozza, espandendo sul pavimento un massimo di superficie esposta e mettendosi così in grado di muoversi con maggior rapidità ed efficacia. Il gruppo di appendici spiegate raccolto in una configurazione compatta da spostamento, si lanciò verso l’apertura.

Carol fu lasciata sola e in ginocchio sul pavimento, il sistema solare modello sopra di lei e sulla destra. Per oltre un minuto, rimase immobile a contemplare distrattamente i pianeti ruotanti e ad ascoltare l’occasionale trapestìo di Troy in lontananza. Poi, dopo un lungo silenzio, si alzò e fece un certo numero di passi, lenti e brevi, per accertarsi di non aver subito danni fisici. Quindi andò all’apertura fra i pannelli e vide che dava su un corridoio che correva a destra e a sinistra.

Troy, nell’uscire, aveva preso a destra. Ricordandosi della macchina fotografica, Carol rientrò per scattare qualche rapida foto ai pianeti sospesi, poi seguì la direzione di Troy prendendo anch’essa a destra. Discese lentamente il nero corridoio, voltandosi spesso per orientarsi sulla luce della camera che aveva appena lasciato. Il soffitto, qui, era appena sopra la testa. Più avanti, il corridoio si divideva in due, e le biforcazioni erano immerse entrambe nel buio. Si mise nuovamente in ascolto, e di nuovo le parve di udire una musica. Ma, di dove provenisse, proprio non avrebbe saputo dire.

Stavolta scelse la biforcazione sinistra, che, ben presto, si restrinse e parve tornare a cerchio nella direzione da cui era partita. E stava già per voltarsi e tornare sui propri passi, quando udì distintamente due rumori — una specie di tonfo sordo seguito da un grattamento — più avanti sulla destra. Respirando lentamente e combattendo la paura, avanzò nel buio. Dopo una ventina di passi giunse a una porta bassa, e aperta, sulla destra. Chinandosi leggermente, diede uno sguardo all’interno, e vide, nella luce smorzata, forme e strutture insolite in un’altra cameretta dalle pareti costituite dagli ormai familiari pannelli curvi e colorati. Sgattaiolò dentro e si drizzò.

Non appena i suoi piedi toccarono il pavimento della camera, in alcuni pannelli delle pareti si accesero luci soffuse, e risuonarono due o tre note di uno strumento musicale. Lo strumento sembrava un organo, e stava apparentemente lontano, in un’altra parte di quella specie di cattedrale, le cui ampie volte ad arco tornavano a vedersi sopra la cameretta. Si fermò, sorpresa, e rimase immobile svariati secondi. Poi, sempre immobile, scrutò metodicamente il nuovo ambiente.

Questa camera aveva pannelli vivacissimi, alternatamente porpora e oro, ed estremamente curvi, e conteneva tre oggetti dalla funzione sconosciuta. Uno sembrava uno scrittoio; il secondo, una lunga panca bassa, larga a un capo e rastremata in punta all’altro; e il terzo un altissimo palo telefonico. Cima e base del palo erano collegate da sedici fili sottili, tesi verso l’esterno e avvolti attorno a un ampio anello a circa un terzo dell’altezza.

Carol poteva camminare tra i fili. L’anello, fatto di materiale metallico dorato, stava un mezzo metro sopra la sua testa, quasi a livello dell’estremità superiore dei pannelli-parete. Afferrato uno dei fili, lo sentì vibrare ed emettere un suono attutito, confuso. Arretrò allora di un passo e provò a tirarlo: echeggiò una nota molto lirica, come di una grande arpa. Sono dentro uno strumento musicale, constatò. Ma come suonarlo?

Resasi conto che mai avrebbe potuto suonare quell’arpa se doveva muoverle attorno per pizzicare le corde a una a una, si aggirò per qualche minuto alla vana ricerca d’un equivalente di archetto.

Andò allo scrittoio, che le si rivelò in breve essere un altro strumento musicale, e molto più promettente dell’arpa. Presentava delle tacche, sessantaquattro in tutto, disposte su otto file e in otto colonne. Ogni tacca, o tasto, produceva, al tocco, un suono diverso. Sebbene da piccola avesse preso cinque anni di lezioni di piano, sulle prime le riuscì difficile suonare anche solo Stille Nacht, su quel misterioso scrittoio. Doveva infatti correlare i suoni prodotti dal tocco dei singoli tasti alle note e agli accordi che rammentava dall’infanzia. Nell’insegnare a se stessa il funzionamento dello strumento, si fermò spesso ad ascoltarne il suono delicato, cristallino, che le ricordava più di tutto quello dello xilofono.

Rimase allo scrittoio parecchi minuti, riuscendo finalmente a suonare un intero verso di Stille Nacht senza compiere un solo errore. Sorrise di compiacimento, il che le distese momentaneamente i nervi. Durante tale interludio, il grande organo lontano (da lei udito brevemente all’entrata nella camera e la cui posizione era ora situabile in un qualunque punto delle parti superiori dell’area-cattedrale) cominciò d’improvviso a suonare. Carol si sentì venire la pelle d’oca, un po’ per la bellezza della musica, un po’ perché essa veniva a ricordarle in quale bizzarro mondo si trovasse. Ma cos’è che suona, quell’organo?, pensò. Sembra un’ouverture. Ascoltò per qualche secondo. Ma… è un’introduzione a Stille Nacht! E quanto creativa, anche!

Al suono dell’organo se ne unirono numerosi altri, ciascuno emanante da qualche punto della volta. E tutti gli strumenti presero a suonare insieme una complessa versione della Stille Nacht da lei tanto faticosamente battuta sullo scrittoio qualche momento prima. La bella musica empì la cattedrale. Carol guardò in alto e poi, chiusi gli occhi, cominciò a girare su se stessa e attorno in una piccola danza. Quando li riaprì, si raggelò di terrore: davanti a ciascun occhio stava, a non più di due centimetri e mezzo, quello che pareva un minuscolo strumento ottico.

Mentre lei suonava allo scrittoio, la cosa le era giunta senza rumore alle spalle e, spiegate le appendici, aveva pazientemente atteso che lei si voltasse. Ora stava circa alla sua altezza, e la parte più vicina del corpo primario trasparente non distava più di un braccio. Mentre Carol rimaneva immobile, senza quasi ardire di respirare, cinque o sei appendici si prolungarono a toccarla. Un piccolo strumento escavatore le graffiò un pezzetto di pelle dalla spalla nuda. La spada le tagliò una ciocca di capelli. Una minuscola corda attaccata a una delle bacchette lunghe le si avvolse attorno al polso. Una serie di setole grande quanto la testa di uno spazzolino da denti le percorse il torace, solleticandole i capezzoli da sopra il costume da bagno e incrociandosi sulla macchina fotografica da lei portata al collo. In preda a una folla di sensazioni simultanee che le fecero perdere coscienza dell’origine di ogni stimolo, chiuse gli occhi e tentò di pensare ad altro. Un ago la punse alla fronte.

Il tutto durò pochissimo, meno di un minuto. La cosa ritrasse le appendici, arretrò di un mezzo metro, e rimase a osservarla. Carol non si mosse. Dopo altri venti secondi, le appendici vennero raccolte nella posizione in cui lo erano state prima dell’inseguimento di Troy, e la cosa uscì dalla camera.

Carol tese l’orecchio. Di nuovo silenzio totale. Staccandosi dallo scrittoio, si sforzò di organizzare i pensieri. Dopo circa un minuto, i pannelli-parete porpora e oro cominciarono a ritrarsi da soli, a ripiegarsi ad impilarsi in mucchietti; dopodiché crollarono, suddividendo automaticamente i pezzi in pile ordinate, i corridoi circostanti alla camera musicale. Carol si trovò così in un immenso salone sovrastato dalle volte da cattedrale. La sinistra antagonista dalle appendici simile a fruste infilava intanto una porta laterale a un otto metri di distanza, e svaniva rapidamente alla vista.

Carol si guardò attorno. Nessun segno di Troy. Le pareti erano bianco-crema e insignificanti — monotone, anzi, dopo i pannelli colorati delle camere precedenti. In mezzo al salone si fronteggiavano due porte. A parte gli strumenti musicali, che ora sembravano del tutto fuori posto così raccolti in blocco a un capo dell’immenso salone, l’unico altro oggetto visibile era un tappetino contro la parete sinistra. Dinnanzi a Carol, sulla parete al capo opposto del salone, distante una cinquantina di metri, si apriva quella che sembrava un’ampia finestra sull’oceano, oltre la quale si vedevano passare dei pesci riconoscibili per tali.

Il primo impulso di Carol fu quello di affrettarsi alla finestra. Ma, quando fu circa a mezza strada e all’altezza delle porte, si fermò qualche secondo per scattare qualche foto dell’alquanto insulso salone. Strano… Il tappetino non era più dove lei lo ricordava, ma si era spostato durante la sua avanzata. Gli si avvicinò molto piano, comprensibilmente cauta dopo le inquietanti esperienze vissute dal momento del risucchio nell’oceano. Nell’avvicinarsi, constatò che l’oggetto steso sul pavimento non era affatto un tappeto. Visto così dall’alto, presentava un intricato disegno interno, simile a una complessa rete di sofisticati microcircuiti elettronici, ed esibiva in superficie misteriose spirali e figure geometriche. A lei, tutto ciò non diceva nulla di particolare, ma le ricordava i disegni frattali visti una sera nell’appartamento del dottor Dale. L’oggetto lasciava vedere le proprie simmetrie; ciascuno dei suoi quattro quarti era anzi identico.

L’oggetto aveva una lunghezza sui due metri, una larghezza di circa uno, e uno spessore di circa cinque centimetri. Il colore dominante era il grigio-ardesia, ma con tutta una serie di varianti. Alcune delle componenti maggiori dovevano essere state colorate secondo un preciso disegno, perché si distinguevano gruppi di elementi simili colorati in rosso, giallo, azzurro e bianco. L’armonia cromatica dell’insieme dimostrava, nella sua bellezza, che i disegnatori s’erano sforzati di obbedire anche a considerazioni d’ordine estetico.

Carol s’inginocchiò accanto al tappeto per esaminarlo. La superficie era fittamente impaccata, e, più la si studiava, più rivelava particolari. Straordinario… Ma che accidenti è? E come ha fatto a spostarsi? A meno che non me lo sia immaginato io… Posò la mano sulla superficie superiore esposta, e avvertì un leggero pizzichìo, come di lievissima scossa elettrica. Passò la mano sotto il bordo e sollevò leggermente. Era pesante. Ritirò la mano.

Il desiderio di fuggire da quel misterioso mondo superò ora la sua curiosità. Presa una foto dall’alto del tappeto, si avviò alla finestra. Dopo svariati passi, si girò di scatto sulla sinistra per dare un’altra occhiata al tappeto. S’era mosso di nuovo, e stava sempre alla sua altezza nel salone! Continuò allora verso la finestra, ma osservandolo con la coda dell’occhio. Dopo dieci passi, la sua visione periferica la colse in atto di arcuarsi di scatto lungo una linea orizzontale e di trascinare in avanti la parte posteriore. Mezzo secondo dopo, la sua estremità frontale tornava a scattare in avanti e il centro a ricadere piatto sul pavimento. La manovra si ripeté sei o sette volte in rapida successione, quanto bastava perché il tappeto si riportasse alla sua altezza nel salone.

Carol scoppiò a ridere suo malgrado. Era tesa e traboccante di adrenalina, ma quel tappeto multicolore capace di strisciare come un verme aveva decisamente qualcosa di buffo. «Ah,» disse ad alta voce «eccoti preso! Adesso mi devi una spiegazione.»

Non che se ne aspettasse una a voce, beninteso; ma, dopo un breve indugio, il tappeto… cambiò comportamento. Prima generò delle piccole onde pulsanti in superficie, con quattro o cinque creste da un capo all’altro; poi, dopo aver abilmente variato più volte la direzione di movimento delle stesse, tenne il capo frontale fisso sul pavimento, come se avesse sotto delle ventose, e sollevò in alto tutta la parte restante. Erto così sul metro e ottanta, rimase là come se guardasse Carol.

Lei restò a bocca aperta: «Be’, questa me la sono voluta io» disse a voce alta, sempre divertita dalla stravaganza. Ora il tappeto sembrava indicarle di andare alla finestra. Mi ha proprio dato di volta il cervello, pensò. Aveva ragione Troy: forse siamo morti. Il tappeto s’arcuò sul pavimento e si mise a caprioleggiare verso la finestra alla maniera di uno sgattaiolante animaletto-giocattolo. Carol lo seguì. Questa è materia pura, pensò, alla vista del tappeto che attraversava la finestra per passare nell’oceano. E Alice pensava di essere nel paese delle meraviglie!

Il tappeto giocava nell’acqua, urtando i banchi di pesci di passaggio e stuzzicando un riccio di mare abbarbicato alla scogliera. Poi, dopo un po’, rientrò nel salone e tornò a rizzarsi, sgocciolante. Messa quindi in moto una rapida serie di onde simultanee, per il lungo e per il largo, si liberò del tutto del liquido residuo. Dopodiché, piantandosi davanti a Carol, le segnalò chiaramente di passare a sua volta attraverso la finestra.

«Ehi, senti un po’, amico piatto» cominciò lei, tentando di immaginare cosa dirgli. Ora so proprio di essere pazza, le balenò. Eccomi qui a parlare a un tappeto! E, fra un secondo, penserò anche che mi possa rispondere… «Io, scema non sono,» continuò «e quindi capisco che stai tentando di invitarmi a passare nell’oceano. Solamente, c’è qualche cosetta che tu non…»

Il tappeto interruppe la conversazione riattraversando la finestra per passare nell’oceano — di dove, compiute un paio di capriole, rientrò nel salone accanto a Carol, si scrollò l’acqua di dosso, e tornò a ergersi come a dire: «Visto? È facile».

«Come dicevo,» riprese Carol «sarò anche diventata matta, ma non disposta a credere di poter attraversare la finestra in qualche magica maniera. Solamente, il mio problema è che, là fuori, c’è acqua, e io, nell’acqua, non sono in grado di respirare. Senza il mio equipaggiamento subacqueo, che ho lasciato da qualche parte in questo labirinto, morirei.»

Il tappeto non si mosse. Carol ripeté la propria dichiarazione sottolineando con gesti i punti essenziali, poi tacque. Dopo una breve attesa, il tappeto cominciò a darsi da fare: le si avvicinò piano piano e, sorprendentemente, s’allargò in tutte le direzioni fino a raddoppiare quasi di mole. Carol non ne fu sbalordita più di tanto, perché, a quel punto, aveva ormai quasi perduto la capacità di esserlo. E da qualunque cosa: anche da un tappeto elastico che, ora, le si annodava sopra la testa in forma di cono.

Ritrattassi di un paio di passi dal tappeto, ora gigantesco, disse: «Oh, oh, credo di capire. Stai formando una cappa d’aria perché io possa respirare!». Rimase immobile un istante, a riflettere. Poi, scuotendo la testa, disse: «E perché no. Non è più raccapricciante di tutto ciò che è accaduto finora».

Col tappeto alto e attorno al capo, puntò dritta, a occhi chiusi verso la finestra. Respirò a fondo al sentire un leggero tocco plastico in diverse parti del corpo, e, all’improvviso, ebbe acqua tutt’intorno a sé, tranne che dal collo in su, dov’era la piccola cappa d’aria. Sebbene le riuscisse difficile tenersi alla disciplina subacquea, s’impose, durante la risalita, di livellare la pressione ogni due, tre metri. Poi, dopo un’aspirazione finale, scattò verso la superficie, mentre, negli ultimi trenta centimetri sotto il pelo dell’acqua, il tappeto si ritraeva.

La Flora Queen era a una cinquantina di metri. «Nick!» gridò con quanto fiato aveva in gola. «Nick, da questa parte!» E nuotò furiosamente verso la barca. Un’onda venne a infrangerlesi sopra. La barca tornò in vista. Una figura di profilo, intenta a guardare dalla fiancata. «Nick!» tornò a gridare, una volta ripresa forza. Stavolta lui la sentì e si voltò. Lei agitò le braccia.

5

Nick aveva seguito Carol e Troy sul monitor subito dopo la loro discesa iniziale, quando si erano messi alla ricerca della fessura sotto la barca. Presto, però, si era stancato di osservarli nuotare in cerchio ed era tornato alla sdraio e al suo romanzo. Successivamente era andato diverse volte allo schermo, ma non li aveva visti più, perché loro erano passati alla zona della sporgenza.

Al termine di Madame Bovary, era tornato al monitor e aveva constatato, con una certa sorpresa, come ora la fessura sottostanta alla Florida Queen fosse tornata nettamente visibile. Subito dopo, però, si era detto che, evidentemente, aveva avuto ragione nel pensare a un semplice problema di cattiva luce, tanto più che adesso, col sole a picco, il foro della scogliera gli sembrava assai più piccolo di due giorni prima. Dopodiché si era dato da fare sulla barca, fino al momento in cui, squillando, l’orologio da polso non gli aveva segnalato che a Carol e Troy restavano solo circa cinque minuti di ossigeno.

Andato al monitor, aveva osservato le immagini riprese dal telescopio oceanico e trasmesse in tempo reale sullo schermo. Di Carol e Troy, nessun segno. Mi auguro che guardino l’orologio, aveva pensato, cominciando a sentirsi inquieto. A questo punto si era reso conto che non li aveva più visti da un pezzo: di più, che non li aveva visti esplorare la fessura, il loro obiettivo primario. Mentre l’orologio continuava la sua corsa, aveva sentito crescere l’inquietudine.

C’è una spiegazione sola, aveva pensato, respingendo le idee pessimistiche che gli s’affacciavano al cervello: Per esser via da tanto, hanno trovato per forza qualcosa d’interessante alla sporgenza o da qualche altra parte. Per un momento, gli era balenato che avessero trovato un bel mucchio di oggetti rassomiglianti al misterioso tridente recuperato il giovedì.

La seconda lancetta dell’orologio sembrava correre. Un minuto soltanto alla fine dell’aria, ormai… Nervosamente, aveva ricontrollato il monitor. Niente. Il cuore aveva preso a battergli più rapido. Devono essere in rosso, pensava intanto. Anche se sono stati attenti nel consumo, devono esserlo per forza. Un guasto al manometro? Escluso: li aveva controllati lui stesso entrambi dopo il suo arrivo a bordo quella mattina. E poi, un guasto a tutt’e due è tremendamente impossibile… Dunque, è successo qualcosa di grave.

Era passato un altro minuto, e lui si era reso conto solo allora di non aver formulato un piano in caso di mancata ricomparsa dei compagni. Aveva allora passato rapidamente in rassegna le scelte possibili. Sostanzialmente erano due, e nettamente diverse: o infilarsi la tuta da sub e scendere a cercare Troy e Carol lungo la trincea tra la fessura e la sporgenza, o immaginare che, avendo semplicemente trascurato di controllare il manometro dell’aria, Troy e Carol fossero stati costretti a riemergere in un punto qualsiasi ad ossigeno esaurito.

Se scendo, aveva riflettutto, è impossibile che ce la faccia a trovarli in tempo. Un momento di autorecriminazione per non essersi preparato a un’eventualità del genere (infilare e controllare l’equipaggiamento da immersione gli avrebbe ora preso svariati preziosi minuti…), poi: No, non ce la farei comunque. Devo quindi dare per scontato che siano da qualche parte, in superficie. Un altro breve sguardo allo schermo, e si era portato alla fiancata a scrutare l’oceano, un po’ mosso, ora. Ma, di Carol e Troy, nessun segno. Avviato il motore e levata l’àncora, aveva calcolato rapidamente a memoria la direzione generale della sporgenza e si era mosso a regime ridottissimo. Sfortunatamente, dal timone non poteva vedere lo schermo del telescopio, e il tendaletto gli bloccava la visuale posteriore, sicché era stato costretto al moto perpetuo timone-schermo-fiancate e viceversa. Dentro, intanto, al crescere della paura e del senso d’impotenza s’accompagnava quello della rabbia. E il tempo limite per la riserva d’aria di Troy e Carol era ormai scaduto da cinque minuti.

Maledizione, come hanno potuto essere tanto incauti?, s’era detto, continuando a rifiutarsi di concepire pensieri di tragedia. Lo sapevo che non avrei dovuto lasciarli scendere in coppia. Aveva continuato a rimproverarsi, poi se l’era presa con Carol. Mi sono lasciato costringere da quella donna. Ma accidenti a me se non l’aggiusto per bene, quando li avrò trovati… E aveva virato brusco a sinistra.

Gli era parso di udire una voce, ed era corso alla fiancata. Ma da che direzione era venuta? Due o tre secondi ancora, e l’aveva udita di nuovo. S’era voltato e aveva scorto una figura che agitava le braccia. Aveva risposto a gesti a sua volta, ed era corso al timone per cambiare rotta alla barca. Poi aveva estratto una robusta cima dal cassetto e, fissatala a un puntale a lato della scaletta, l’aveva lanciata a Carol mentre la barca accostava. Aveva quindi messo il motore in folle.

Carol afferò la cima senza problemi. Nell’issarla, Nick scrutava l’acqua circostante alla ricerca di Troy, che non si vedeva. Carol aveva ormai raggiunto la scala. «Tu non ci crederai mai…» cominciò, posando il piede sul primo scalino e tentando di riprendere fiato.

«E Troy, dov’è?» la interruppe lui, indicando l’oceano.

Carol salì un altro gradino, chiaramente esausta. Nick le prese la mano e la tirò a bordo.

«Dov’è Troy?» tornò a chiederle in tono vibrato, guardandola, mentre lei vacillava sulle gambe. «E che fine ha fatto tutto il tuo equipaggiamento?»

Carol tirò un lungo respiro. «Non… non lo so… non so dove sia» balbettò. «Siamo stati risucchiati in…»

«Non lo sai?!» urlò Nick, scrutando freneticamente la superficie dell’oceano. «Va’ giù, torni su senza equipaggiamento, e non sai dov’è il tuo compagno! Ma che razza…»

La barca venne colpita da una piccola onda. Carol, che aveva alzato la mano per frenare la diatriba di Nick, all’improvviso movimento perse l’equilibrio e cadde sulle ginocchia, sussultando dal dolore. Nick, intanto, in piedi sopra di lei, continuava a sbraitare: «Be’, Miss Perfezione, sarà meglio che ti spicci a tirar fuori un qualche cazzo di risposta, perché, se non lo troviamo alla svelta, Troy morirà. E, se succede, la colpa sarà tua, maledetta te!»

Carol si fece d’istinto piccola piccola dinanzi alla collera di lui, grande e grosso sopra di lei, intento a sbraitarle contro. Le ginocchia doloranti, sfinita, a un certo punto non resse più. «Piantala!» urlò. «Piantala, stronzo! E togliti di qui!» continuò, mulinando le braccia e colpendolo alle gambe e allo stomaco. «Tu non sai niente,» disse, dopo aver tirato rapidamente il fiato «ma proprio un cazzo di niente!»

Poi, prendendosi la testa fra le mani, scoppiò in lacrime. In quell’istante le esplose nella memoria un ricordo da lungo sepolto: quello del fratello di cinque anni che la prendeva a pugni, singhiozzando isterico, mentre lei si faceva schermo con le mani. «È colpa tua, Carol!» strillava lui. «Se n’è andato per causa tua!» «No, non è vero, Richie. Non è stato per colpa mia!» rispondeva lei, piangendo a calde lacrime…

Alzò lo sguardo fra le lacrime verso Nick, che s’era fatto indietro ed esibiva un’espressione imbarazzata. Asciugatasi le lacrime, tirò un lungo respiro, poi disse, scandendo le parole: «Non è stata colpa mia». Nick le tese la mano per aiutarla, ma lei la scostò con uno schiaffo. «Scusa» mormorò lui, mentre lei si alzava. «Adesso, se chiudi il becco e mi lasci parlare, ti racconto cos’è successo» continuò lei. «La scogliera sotto la barca non era per niente una scogliera… Oh, mio Dio… rieccolo!»

All’espressione costernata di lei, Nick ne seguì il dito che indicava, dietro di lui, la fiancata opposta. Giratosi, lì per lì non notò nulla, poi vide uno strano oggetto piatto, simile a un tappeto, che strisciava sul piancito verso il monitor del telescopio. Aggrotando la fronte, si girò di nuovo verso Carol con espressione perplessa.

Il tappeto s’era chissà come arrampicato sulla fiancata, per finire quindi sul ponte, mentre Carol stava parlando. Il tempo che lei cominciasse a spiegare, ed era già davanti allo schermo, intento a osservare le immagini del fondale sottostante riprese dal telescopio. Non ci fu tempo per spiegazioni protratte. Con un «Ma che cazzo…» Nick si avventò sullo strano visitatore per catturarlo, ma, quando la sua mano arrivò a tre centimetri dal tappeto, avvertì una forte scarica elettrica alla punta delle dita. «Acc…!» fece Nick, saltando indietro. E, mentre scuoteva la mano e osservava sbalordito, il tappeto continuò a rimanere davanti allo schermo.

Nick guardò Carol come in cerca d’aiuto, ma lei sembrava trovare la scena alquanto divertente. «Quel coso è solo una delle ragioni della stranezza della nostra immersione» disse, senza accennare alla minima voglia di intervenire. «Ma non credo che ti farà del male. È a lui, probabilmente, che devo la vita.»

Nick afferrò una piccola rete da pesca appesa al tendaletto e s’avvicinò lentamente al tappeto. Questo parve girarsi a guardarlo. Lui scattò in avanti con la rete, ma il tappeto la schivò con destrezza, e lui perse così l’equilibrio, finendo contro il monitor a braccia incrociate. Carol scoppiò a ridere di gusto, ricordando il loro primo incontro. Il tappeto si posò sopra la banca-dati del telescopio e s’avvolse stretto attorno all’intero sistema.

Dal piancito, Nick lo osservò studiare il sistema-dati, e scosse la testa incredulo. «Ma si può sapere che cavolo è, ’sto coso?» gridò a Carol.

Lei gli si avvicinò e gli porse la mano per aiutarlo, scusandosi così dello sfogo di poco prima. «Non ne ho idea» rispose. «In principio ho pensato che potesse essere un robot superperfezionato della Marina, ma è troppo sofisticato e intelligente.» E, indicando il cielo con la sinistra libera: «Chi lo sa, sono loro» disse con un sorriso.

Il ricordo di Troy la fece diventare grave. Andò alla fiancata e rimase a fissare l’oceano, Nick, intanto, si alzava, a un braccio di distanza dal tappeto e dalla banca-dati del telescopio. Il tappeto, a quanto pareva, aveva in qualche modo esteso parte di sé nel sistema elettronico interno! Nick osservò per qualche secondo, come affascinato, impazzire le varie letture diagnostiche digitali della banca-dati, poi disse: «Ehi, Carol, vieni a vedere! Questo maledetto coso è di plastica o materiale del genere».

Lei non si voltò subito. «Nick» gli chiese finalmente, girandosi, in tono sommesso «che facciamo per Troy?»

«Appena sbattuto fuori questo dannato intruso, faremo una ricerca sistematica della zona» rispose Nick da sotto il tendaletto, dove stava frugando fra gli utensili da cucina. «E magari mi calo io stesso a vedere se riesco a trovarlo.»

Impugnato un forchettone dal manico di plastica, si accinse a scacciare il tappeto dalla banca-dati. «Non lo farei, se fossi in te» avvertì Carol. «Se ne andrà quando lo vorrà lui.»

Ma l’avvertimento giunse troppo tardi. Nick infisse il forchettone attraverso il tappeto, sicché i denti finirono contro la parete superiore della sezione elettronica. Ci fu uno schiocco, poi un sottile arco azzurro lingueggiò a ritroso lungo il forchettone, procurando a Nick una scossa potente. Si udirono degli squilli d’allarme, la lettura digitale dei dati sparì dallo schermo, e il monitor del telescopio oceanico prese a fumare. Il tappeto ricadde sul piancito e cominciò a produrre le ondine che Carol gli aveva visto fare nel salone con la finestra sull’oceano. Un momento dopo, lo squillo di due allarmi del sistema di navigazione indicò che non solo era andata perduta la posizione della barca, ma che era stata anche cancellata la memoria non volatile, ossia quella immagazzinante tutti i parametri che consentivano la comunicazione via satellite.

In piedi in mezzo al rumore e al fumo, Nick si massaggiava il braccio destro dal polso alla spalla con aria sconcertata. «Sono paralizzato» constatò stupito. «Il mio braccio non sente nulla.»

Il tappeto continuava a fare le sue onde sul piancito della barca, mentre Carol, preso un secchio e calatolo in mare, spruzzava d’acqua il monitor. Nick, intanto, se ne stava là immobile, a pizzicarsi il braccio con aria confusa. Carol gli rovesciò addosso il resto dell’acqua. «Ma, cazzo, si può sapere che ti piglia?» esclamò lui, indietreggiando involontariamente e sputando acqua.

«Mi piglia che dobbiamo trovare Troy,» rispose lei, andando alla plancia di comando «e che non possiamo star qui ad aspettare per il resto della giornata. Ignora quel maledetto tappeto e… il tuo braccio. C’è in ballo la vita di un uomo.»

Mentre lei aumentava la velocità della barca, il tappeto tornò a rizzarsi, e, girando su se stesso, si affrettò alla fiancata. Nick tentò di fermarlo, ma invano: in un lampo, fu in acqua. Mentre Carol pilotava in cerchi sempre più larghi, lui rimase alla fiancata a scrutare l’oceano alla ricerca di Troy.


Un’ora più tardi furono entrambi d’accordo che non aveva più senso continuare le ricerche. Avevano percorso l’intera area diverse volte (a prezzo di un notevole sforzo, visto che non disponevano più di un sistema di navigazione funzionante), ma senza trovare traccia di Troy. Convintosi di avere il braccio ormai perfettamente a posto, Nick si era perfino immerso e aveva percorso la trincea dalla fessura alla sporgenza e viceversa, ma, di Troy, manco l’ombra. Aveva anche avuto la vaga tentazione di esaminare la fessura, ma la strampalata storia di Carol sembrava remotamente plausibile, e la prospettiva di finir risucchiato in un bizzarro laboratorio sottomarino gli era parsa assai poco allettante. Senza contare che, sparito lui, per Carol sarebbe stato praticamente impossibile riportare a Key West una barca dal sistema di navigazione fuori uso.

Mentre perlustravano la zona, Carol tornò a raccontargli l’intera storia della propria immersione, e lui, sebbene certo che i particolari fossero non poco abbelliti, non riuscì a riscontrarvi errori logici stridenti — anche perché, dopo tutto, il tappeto l’aveva pur visto! Riconobbe quindi, dentro di sé, che lei e Troy dovevano davvero aver avuto esperienze raccapriccianti in una sorta di edificio sottomarino e che la tecnologia da loro incontrata doveva essere decisamente più avanzata di qualunque altra mai vista.

Ciò che invece riluttava ad accettare era la spiegazione di Carol, la quale sosteneva come niente fosse che si trattava di extraterrestri. Un primo contatto in circostanze tanto… mondane, a lui sembrava improbabile. In quanto al tappeto, era di certo una meraviglia di capacità inimmaginabili, ma lui, poco colto in campo tecnologico, non si sentiva di dichiarare categoricamente che non potesse esser stato creato da esseri umani.

Come sotterfugio sarebbe anzi perfetto, pensava fra sé Nick, mentre scrutava l’orizzonte col binocolo alla ricerca di punti di riferimento per mettere la rotta su Key West. Supponiamo che i russi o magari la nostra stessa Marina volessero metter fuori strada… Si arrestò in pieno pensiero, rendendosi conto che, se era così, e se il tappeto era di fabbricazione umana, Carol, Troy e lui continuavano a correr pericolo. Ma perché, allora, Carol è stata lasciata andare? E perché non mi è stata confiscata la barca? Avvistò lontano un’isoletta nota e riorientò la barca. Dio, che casino!, pensava intanto, scuotendo la testa.

«Allora, non concordi con me che abbiamo incontrato degli ET?» lo punzecchiò leggermente Carol, andandogli vicino.

«Non so che dire» rispose lentamente lui. «Mi sembra un salto logico un po’ troppo grosso. Dopotutto, se ci fosse un’infestazione extraterrestre nelle acque del Golfo del Messico, avremmo già dovuto averne segnalazioni, visto che questa regione viene attraversata almeno una o due volte l’anno da sottomarini e altre imbarcazioni con sonar attivo.» Poi, con un sorriso: «Mi sa che hai letto un po’ troppa fantascienza».

«Al contrario» rispose lei, fissandolo con lo sguardo. «La mia esperienza in fatto di tecnologia ultravanzata è quasi certamente superiore alla tua. Ho fatto una serie di servizi sull’Istituto Oceanografico di Miami e, avendo visto quali ingegnosissimi concetti vi vengono sviluppati, posso affermare che nulla, assolutamente nulla, s’avvicina al tappeto o alla cosa gigantesca tipo ameba. La probabilità che esista una spiegazione meno che fantasiosa per tutto questo è quindi minima.» Tacque un momento, poi continuò: «Inoltre, può darsi che il laboratorio sia là da poco. Che sia stato completato solo di recente, o magari anche che sia stato trasportato in quel punto».

Alle prime parole di lei, Nick si era sentito fremere. Rieccola, aveva pensato, sicura di sé, presuntuosa e competitiva — quasi come un uomo. Poi aveva ammesso con se stesso che anche a lui era capitato di assumere atteggiamenti autoritari in più d’una discussione. E Carol aveva indiscutibilmente ragione almeno su un punto: la sua maggior esperienza nel campo dell’alta tecnologia. Per una volta, dunque, e per quella sola, non era il caso di controbattere.

La conversazione conobbe così una pausa. Anche Carol cominciava a diventare più sensibile alla dinamica dell’interazione. Al veder Nick irrigidirsi quando lei aveva affermato di intendersi di tecnologia più di lui, si era detta, con fulmineo intùito: Ah, ah… Su Carol, mostra un po’ più di tatto e di riguardo…, e aveva deciso di cambiare argomento.

«Quanto ci vorrà per arrivare al porto?» chiese. Nell’agitazione del giovedì pomeriggio, aveva infatti prestato scarsa attenzione al tempo impiegato nel rientro.

«Un po’ meno di due ore» rispose Nick. Poi, ridendo: «A meno che non mi perda, visto che sono più di cinque anni che non mi servo della guida manuale in queste acque».

«E che dirai quando ci saremo?»

Nick la guardò. «A chi… e su cosa?» domandò.

«Lo sai benissimo. Dell’immersione, e di Troy.»

Si fissarono. Poi fu Nick a rompere il silenzio. «Io propenderei per non dire niente… finché… finché non sapremo con certezza» disse quasi sottovoce. «Così, se Troy salta fuori, non ci sarà problema.»

«E se non saltasse fuori mai più…» qui la voce di Carol si spense «… saremmo entrambi nella merda fino al collo, signor Williams.» La gravità della situazione stava diventando evidente a tutte due.

«Ma chi pensi che crederà mai a una storia tanto incredibile?» disse Nick dopo un istante. «Anche con le tue foto, non abbiamo prove concrete che possano corroborare il tuo racconto. Oggigiorno, con l’elaboratore, la gente può fabbricare qualunque specie di fotografia. Ricordi quel caso di omicidio dell’anno scorso, a Miami, in cui era stata esibita come alibi, e formalmente accettata come prova, una foto che successivamente un esperto di elaborazione-dati ha dimostrato essere truccata?» Una pausa, mentre Carol ascoltava attenta. «Un’altra cosa: chiunque abbia costruito quel posto, lo sta magari smantellando proprio in questo momento. Sennò, perché ci avrebbe lasciati andare via? No: io dico che ci conviene aspettare un po’ — ventiquattr’ore o giù di lì, diciamo. E ponderare del nostro meglio sul dafarsi.»

Carol assentì, «Credo di esser d’accordo con te, sebbene non proprio per le stesse ragioni.» Consapevole di quella vocetta di giornalista che le diceva dentro di proteggere le informazioni per il suo sensazionale scoop, si augurava al tempo stesso che questa sua ambizione non si frapponesse alla presa della decisione giusta per Troy. Disse perciò, meditabonda: «Ma, Nick, non credi che, non avvertendo le autorità, possiamo in qualche modo danneggiare Troy?».

«No» rispose immediatamente lui. «Perché, secondo me, se intendevano ucciderlo, l’hanno già fatto. O lo faranno presto.»

Questa parte della conversazione le sembrava troppo semplicistica. Andò alla fiancata e tornò a scrutare l’oceano, pensando a Troy e alla stravagante avventura dopo il risucchio nella fessura. Era stato lui ad aiutarla a reggere, non c’era dubbio; erano stati il suo senso dell’umorismo e il suo spirito a impedirle di impazzire. E se lei aveva salva la vita, era probabilmente perché lui aveva deviato su di sé l’attenzione della cosa.

Sotto quel buffo aspetto esteriore, era un uomo affettuoso e sensibile, andava pensando. Una persona molto attenta. E sembrava nascondere tutto un fardello di dolore, che gli veniva da chissà dove. Per un momento, si persuase che non gli fosse capitato nulla di male: in fin dei conti, lei era stata aiutata a fuggire… Poi si chiese come mai non si fosse più imbattuta in lui, laggiù, e le si insinuò così un’ombra di dubbio che la fece rabbrividire. Maledizione: l’unica cosa sicura è che non sappiamo niente di preciso. Di nuovo l’incertezza, quell’incertezza che odio tanto… Non è giusto…

Avvertì dentro di sé una profonda tristezza, un turbamento che le veniva dal passato, e un senso d’impotenza, d’impossibilità a esercitare un qualsiasi controllo sulla situazione. Le salirono le lacrime agli occhi. Nick le era venuto accanto in silenzio. Vide le lacrime, ma non disse nulla. Si limitò a posarle la mano sulle sue, e a ritrarla dopo un momento.

«Troy stava diventando un buon amico» disse Carol, accingendosi a nascondere ciò che provava. Un repentino bisogno di comunicare i propri sentimenti ne sopraffece però i meccanismi naturali di protezione, e, guardando l’acqua, continuò: «Ma non è tanto questo a sconvolgermi. È l’incertezza che mi fa piangere. Il non sapere. Che non sopporto». Tacque e si asciugò gli occhi.

Nick non aprì bocca. Malgrado non capisse bene ciò che lei intendeva, sentiva che stava per accadere qualcosa di speciale tra loro. Mentre le onde sciabordavano dolcemente contro la barca, lei riprese in tono sommesso: «Mi ricorda la mia infanzia, subito dopo la partenza di mio padre, che io continuavo a credere sarebbe tornato. Tutt’e tre, Richie, mamma e io, ci ripetevamo che si trattava solo di una separazione temporenea, che un giorno lui sarebbe entrato dalla porta dicendo “Eccomi qua!” E, la notte, a letto, aspettavo con l’orecchio teso di udire il rumore della sua macchina nel vialetto».

Ora le lacrime scendevano copiose, grosse lacrime che le rigavano il volto e cadevano nel vasto oceano. «E quando veniva a prenderci per portarci a cena, o per un sabato, aiutavo la mamma a farsi bella, scegliendole i vestiti, spazzolandole i capelli.» Un singhiozzo le impedì per un istante di continuare. «Dopo averlo abbracciato sulla porta, lo portavo sempre da lei dicendo: “Non è bella?”.

«Questo è durato sei mesi, con me che non sapevo che cosa avrei provato l’indomani. Quell’incertezza mi distruggeva, mi faceva stare male. Pregai mio padre di offrire alla mamma un’altra possibilità, e Richie gli suggerì addirittura di comprare la casa accanto, così, anche se lui e mamma non riuscivano ad andar d’accordo, noi saremmo comunque rimasti vicini.» Un amaro sorriso, accompagnato da un immenso sospiro.

«Poi lui portò la mamma a San Francisco per il fine settimana. Che emozione non fu quella, per me! Per trentasei ore ebbi il morale alle stelle: il mio futuro era assicurato, né c’era ragazzino di dieci anni più felice di me, nella valle di San Fernando. Ma, al loro ritorno la domenica sera, mia madre era ubriaca fradicia. Occhi gonfi, trucco sfatto, tutta in disordine, ci passò davanti senza una parola per andare in camera sua. Papà, Richie e io rimanemmo nel soggiorno, ad abbracciarci e piangere insieme. E, in quell’istante, capii che era finita.»

Carol si stava calmando, ma le lacrime non erano cessate. Rivolse a Nick uno sguardo implorante, e disse: «Sarebbe stato molto più facile se avessi potuto piangere una volta per sempre. Invece no. Restava l’incertezza e, quindi, la speranza. E così il mio cuore di bimba si spezzava ogni giorno, ogni maledetto giorno». Si asciugò gli occhi una volta di più. Poi, guardando l’oceano, gridò con quanto fiato aveva in gola: «Perciò voglio sapere che cos’è accaduto a Troy — adesso o al più presto! Non fatemi aspettare in eterno: non posso!».

Tornò a voltarsi verso Nick, e lui aprì le braccia. Senza una parola, lei gli posò la guancia sul petto, e lui la strinse a sé.

6

Nick mise la mano sopra la porta della casa di Troy e trovò la chiave sulla mensola. Dopo aver ribussato, aprì piano piano. «Ehi di casa, c’è nessuno?» gridò.

Carol lo seguì nel soggiorno. «Non sapevo che foste tanto amici» disse, dopo uno sguardo divertito alla variegata collezione di mobili e arredi di Troy. «Io, la mia chiave, non credo di aver detto a nessuno dove la tengo.»

Non trovando in soggiorno quello che cercava, Nick uscì in corridoio e, superata la camera da letto grande che fungeva da deposito di apparecchiature elettroniche, entrò nella camera da letto piccola, quella in cui Troy dormiva. «A dire la verità,» gridò a Carol, che s’era fermata in corridoio davanti alla camera da letto grande ad ammirare sbalordita la congerie di aggeggi elettronici di cui era zeppa «sono venuto qui per la prima volta solo ieri. E quindi non so dove… Oh, bene, credo di aver trovato qualcosa.» E sfilò un tabulato da sotto un fermacarte posato sul comodino accanto al letto di Troy. Datato 15 gennaio 1994, conteneva una ventina di nomi, indirizzi e numeri telefonici.

Tornò in corridoio da Carol, scorrendo rapidamente il foglio. «Qui non c’è granché» disse, mostrandoglielo. «Numeri di telefono e indirizzi di ditte produttrici di elettronica e programmi. E un po’ di numeri di Angie Leatherwood — di quand’era in giro per concerti, probabilmente. E questo dev’essere di sua madre: Kathryn Jefferson, Coral Gables, Florida» continuò, indicando un indirizzo. «Però non c’è numero di telefono.»

Carol gli prese il foglio e controllò a sua volta. «L’ho sempre sentito parlare solo di Angie, di sua madre e di suo fratello Jamie, mai di altri amici o familiari. E ho, non so perché, l’impressione che l’ultimo suo incontro con la madre risalga a un po’ di tempo. Tu, l’hai mai sentito parlare di altri parenti?»

«No» rispose Nick. Pian piano erano entrati nella stanza-giochi, e lui girava distrattamente manopole e azionava interruttori nel passare davanti alle pile di macchine. Si fermò a riflettere un momento. «Ciò significa che resta solo Angie. Lo diremo dunque a lei e poi aspetteremo che…»

Lo scatto della porta d’ingresso che si apriva e si richiudeva li bloccò entrambi. Dopo circa un secondo, Nick disse, a voce alta ma incerta: «Salve, chiunque sia! Siamo in camera da letto». Nessuna risposta: solo un rumore smorzato di passi nel corridoio. Nick si portò d’istinto accanto a Carol per proteggerla. Un momento dopo, girava l’angolo ed entrava nella camera… Troy.

«Bene, bene: com’è vero che sono vivo e vegeto, ecco che mi trovo in casa due ladri!» fece, allargandosi in un sorriso.

Carol corse a gettargli le braccia al collo. «Troy, Troy, Dio che bello rivederti!» disse; poi, a raffica: «Ma dov’eri? Ci hai fatto venir la cacarella dalla paura, lo sai? Ti credevamo morto!».

Contraccambiando l’abbraccio, Troy disse, con una strizzata d’occhio a Nick: «Orpo, ma che accoglienza! Se lo sapevo, sparivo prima…». Tese la mano a stringere quella che Nick gli porgeva. Poi, serio per un momento: «Anzi, no: un’esperienza del genere basta e avanza».

Carol si staccò da lui e lui le vide in mano il tabulato. «Stavamo per tentare di avvertire i tuoi familiari…» cominciò lei. Troy allungò la mano a prenderglielo, e, nel farlo, rivelò un braccialetto al polso destro che Carol non gli aveva mai visto prima. Largo circa quattro centimetri, aveva una ventina di maglie, che sembravano pepite d’oro schiacciate. «E questo, dove l’hai preso?» domandò Carol, tenendogli sollevato il polso in modo da esaminarlo meglio.

Incapace di trattenersi oltre, Nick interloquì senza dargli il tempo di rispondere alla domanda: «Secondo Carol, l’ultima volta che ti s’è visto stavi sparendo giù per un corridoio di un laboratorio sottomarino. Con alle calcagna un’ameba grande due metri. Come accidenti hai fatto a scappare? Abbiamo perlustrato l’intera zona…».

Troy levò le braccia, felice di essere al centro dell’attenzione. «Amici, amici: un momentino di pazienza, per favore! Datemi il tempo di soddisfare le esigenze della natura e vi racconterò ogni cosa.» Ciò detto, si girò per entrare in bagno. Dal quale venne un rumore familiare. «Prendete della birra dal frigo e andate in soggiorno!» gridò Troy da dietro la porta chiusa. «Già che ci siamo, tanto vale godercela!»

Due minuti dopo, Nick e Carol sedevano insieme sul grande divano del soggiorno. Troy s’abbandonò sulla poltrona di rimpetto proprio mentre Nick tracannava una sorsata di birra. «C’era una volta,» cominciò Troy, con un sorriso malizioso «c’era una volta un giovane nero di nome Troy Jefferson, il quale, mentre stava facendo un’immersione con certi suoi amici, scomparve per quasi due ore in un misterioso edificio sottoceanico. Al suo riemergere da codesta avventura, il detto giovane venne tratto in salvo da sommozzatori della Marina statunitense che passavano di lì, e subito trasportato in elicottero militare a Key West. Quivi, a lungo interrogato circa le ragioni del suo solingo nuotar nel Golfo del Messico a oltre quindici chilometri dall’isola più vicina, il nostro giovine venne rilasciato un’ora appresso, pur non avendo nessuno creduto una sola parola della sua storia.» Troy guardò da Nick a Carol e viceversa. Poi, più serio, aggiunse: «Va da sé che, a quelli, non ho detto niente di quello che è successo veramente, perché, tanto, non mi avrebbero creduto».

Carol si piegò verso di lui. «Così, sei stato accolto dalla Marina. E subito dopo che ce ne siamo andati noi.» Poi, rivolta a Nick: «Ne consegue che, per qualche ragione, siamo stati seguiti». E che il missile stava davvero là, pensava intanto. Ma, se ci stava dov’è finito? È forse stato trovato dalla Marina? E che c’entra la Marina con quella follia di laboratorio? C’è da diventar matti…

«Ti abbiamo cercato per più di un’ora» stava dicendo Nick, che provava rimorso per aver abbandonato le ricerche tanto presto. «Io non ho minimamente pensato che potessi essere ancora in quell’accidente di posto, e, naturalmente, mica potevamo star là a ciondolare in eterno, dopo che quello strano coso, quel tappeto venuto dal mare, ci aveva mandato in tilt tutta la nostra elettronica. Insomma, avevamo perso tutto il nostro sist…» Si bloccò a mezza frase, e guardò Troy. «Scusa, amico mio.»

«Ma figurati» Troy alzò le spalle. «Avrei fatto lo stesso anch’io! Se non altro, ora so che avete fatto conoscenza con uno dei personaggi bizzarri della mia storia. Non è che avete fatto anche quella di uno dei guardiani, per caso? Globoni di gelatina trasparente, tipo ameba, con scatolette al centro e una selva di bacchette amovibili in cima?»

Nick fece segno di no col capo. «Guardiani?» si affrettò a chiedere Carol, corrugando la fronte. «Perché chiami “guardiano” quel coso?»

«Guardiano, sentinella, quel che è» rispose Troy. «Perché loro mi hanno detto che hanno il compito di proteggere il carico principale della nave.» Allo sguardo smarrito degli amici, continuò: «Il che mi riconduce alla prima domanda. Questo braccialetto mi è stato dato da loro. È una specie di ricetrasmittente. Come funziona, non sono davvero in grado di spiegarvelo, però so che loro se ne servono per ascoltare e osservare, e anche per trasmettermi dei messaggi. Che però io capisco solo in piccola parte».

Carol cominciava a sentirsi sopraffare di nuovo. Alla situazione già complessa si aggiungeva una dimensione nuova. Nel suo cervello s’affollavano centinaia di domande, e lei non sapeva quale porre per prima.

Nel frattempo s’alzava Nick, che, l’aria fra il dubbioso e il confuso, diceva: «Ferma un attimo. Ho sentito bene? Hai detto che ti è stato dato un braccialetto ricetrasmittente da certi extraterrestri, che poi ti hanno messo in libertà nell’oceano? E che sei stato raccolto dalla Marina, che poi ti ha riportato a Key West? Cristo, Jefferson, ma sai che hai proprio una bella fantasia? Però ti prego: riserva la tua creatività a quel videogioco e dicci la verità adesso!».

«Ma ve la sto dicendo» replicò Troy. «Sul serio…».

«E che aspetto avevano?» interruppe Carol, da brava giornalista, estraendo dalla borsetta un registratore grande quanto una stilografica. Troy si chinò in avanti a spegnere l’aggeggio. «Per ora, angelo, questo deve rimanere strettamente fra di noi… Di loro, comunque, non credo di averne visti. Ho visto solo i guardiani e i tappeti, che poi, a mio avviso, sono semplici robot, o macchine, insomma. Intelligenti, sì, ma controllati da qualcos’altro…»

«Oggesù, ma allora parli sul serio!» interruppe Nick, che cominciava a perdere la pazienza. «Questa storia sta diventando la più bislacca che abbia mai sentito. Guardiani, tappeti, robot! E ’sti loro, chi sono? che ci fanno nell’oceano? e perché avrebbero dato il braccialetto proprio a te?» Così dicendo, afferrò uno dei piccoli cuscini posati sul divano e lo scagliò all’altro capo del soggiorno.

«Nick non è il solo a sentirsi frustrato, Troy» rise nervosamente Carol. «Io stessa, che sono stata laggiù con te, confesso che fatico a seguire la tua storia. Forse è meglio che ti lasciamo parlare senza altre interruzioni. Ho raccontato a Nick quello che è successo nella camera del sistema solare fino al momento in cui tu non sei scappato via con il coso, o guardiano che sia, alle calcagna. Comincia da qui, se non ti dispiace, e continua in sequenza logica.»

«Ci fosse, una sequenza logica, angelo! Ma ne dubito» le rispose Troy, facendo eco alla sua risata. «Il fatto è che siamo di fronte a un episodio che sfida qualunque logica. Il coso-guardiano ha finito per intrappolarmi in un vicolo cieco, dove mi ha per così dire anestetizzato con una delle sue bacchette. Dico “per così dire” perché è stato come sognare, con la differenza che i sogni erano reali. Ricordo una sensazione simile da adolescente dopo una scazzottata che mi aveva procurato una leggera commozione cerebrale. Sapevo di essere vivo, ma reagivo con estrema lentezza, come se la realtà si fosse smorzata e fosse da qualche parte, distante.

«Ma torniamo a noi. S’è presentato un altro guardiano, stesso tipo di corpo ma con aggeggi diversi dentro la gelatina, il quale mi ha portato in quella che penso fosse una sala-visita, dove sono rimasto non so precisamente quanto. Sono stato steso sul pavimento e toccato da strumenti d’ogni sorta. Il cervello, intanto, mi girava a velocità supersonica, ma non ricordo pensieri specifici, bensì solo qualche immagine. Ho rivissuto il momento in cui mio fratello Jamie spezzava la mischia e andava in meta, quarantacinque metri dopo, nel campionato della Florida. Poi mi è stato messo al polso il braccialetto, e ho avuto la netta impressione che qualcuno mi stesse parlando. Molto sommessamente, e forse anche in una lingua straniera — ma che io, a tratti, capivo.

«E loro mi hanno detto questo:» continuò, un’espressione viva e distante a un tempo sul viso «che ciò che noi chiamiamo laboratorio è in realtà un veicolo spaziale di un altro mondo, costretto, per così dire, a un atterraggio forzato sulla Terra per avere il tempo di effettuare certe difficili riparazioni. E loro, i costruttori della nave, cioè, chiunque siano, hanno bisogno del nostro aiuto, mio e vostro, per procurarsi certi materiali specifici indispensabili alle riparazioni, e per poter così continuare il viaggio.»

Nick sedeva ora sul pavimento di fronte a lui, e ne beveva, come Carol, le parole. Un silenzio di quasi mezzo minuto accolse la fine del racconto, poi Nick disse: «Se questa storia è vera, allora siamo…».

Un furioso bussare alla porta d’ingresso li fece sobbalzare tutt’e tre. Il bussare si ripeté a vari secondi di distanza. Troy andò alla porta e la socchiuse.

«Ah, ci sei, piccolo stronzo» echeggiò brusca e collerica una voce. Poi, con una spinta, entrò il capitano Homer Ashford, che, lì per lì, non notò Nick e Carol. «Avevamo un patto e tu non l’hai mantenuto. Sei tornato già da due ore e…»

Con la coda dell’occhio vide che c’erano altre persone nel soggiorno. Così, girandosi verso Greta, che non era ancora entrata, disse: «Ma guarda chi c’è! Per forza che non trovavamo la signorina Dawson all’albergo: è qui con Nick Williams».

Greta lo seguì nel soggiorno, fissando per non più di un secondo ciascuno, con gli occhi chiari e vuoti d’espressione, i tre membri del terzetto. Carol credette di cogliere un che di sprezzante in quello sguardo, ma non ne fu sicura. Rivolgendosi in tono assai più educato, Homer disse, con un affettato sorriso: «Vi abbiamo visto rientrare dalla vostra escursione verso le due, ma, chissà come, ci è sfuggito Troy». Poi, ammiccando a Carol, continuò, rivolto a Nick: «Trovato qualche altro ninnolo interessante, oggi, Williams?».

«E come no, capitano» rispose Nick, che non aveva mai fatto mistero della sua avversione per lui, appoggiando con sarcasmo sul titolo. «Non ci crederai, ma abbiamo trovato una vera montagna di lingotti d’oro e d’argento! Sembrava proprio la pila della Santa Rosa che avevamo sulla barca un certo pomeriggio — un otto anni fa, se non sbaglio, eh? —, prima che Jake e io permettessimo a te e Greta di scaricarla.»

«Avrei dovuto denunciarti per calunnia, Williams» sibilò Homer «così avresti chiuso quella boccaccia una volta per tutte. In tribunale ci sei andato, no? Quindi, adesso piantala con le stronzate o un giorno avrai più guai di quanti tu non possa affrontare.»

Mentre Nick e Homer si scambiavano insulti e minacce, Greta si aggirava per il soggiorno come se fosse a casa sua, dimentica in apparenza sia della conversazione sia della presenza stessa degli a tri. Portava una maglietta sportiva aderente e un paio di calzoncini b u scuro, e camminava tenendo le spalle alte, la schiena dritta e i seni eretti. Carol, disorientata da questo suo modo di fare, la osservò arrestarsi davanti ai CD di Troy, scrutare, estrarre quello con in copertina il ritratto di Leatherwood, e leccarsi le labbra. È proprio una coppia da romanzo perverso, pensò, mentre le giungeva all’orecchio la voce di Troy che diceva al capitano Homer di aver da fare nel pomeriggio, ma di voler passare da lui sul tardi. Quale sarà la sua storia?, si chiese. E la grassa Ellen, come c’entra? Ricordò allora che proprio quella sera avrebbe dovuto intervistare l’intero terzetto. Non sono sicura di volerlo veramente sapere…

«Le abbiamo telefonato per dirle di portarsi il costume da bagno, stasera» le stava dicendo il capitano Homer. Intenta a osservare la sfilata di Greta per il soggiorno, aveva perso la prima parte della frase.

«Mi perdoni,» disse con garbo «potrebbe ripetere ciò che ha detto? Temo di essermi distratta per qualche secondo.»

«Dicevo che dovrebbe venire sul presto, verso le otto» rispose Homer. «E porti il costume da bagno, perché abbiamo una piscina delle più interessanti e insolite.»

Durante questo scambio, Greta passò dietro a Nick e di scatto lo imprigionò fra le braccia. Poi, sotto gli occhi di tutti, gli pizzicò piano i capezzoli sotto la polo, ridendo al suo sobbalzo. «Kvesto ti è sempre piaciuto, Nikki, ja?» disse, liberandolo dopo un istante. Carol colse un lampo di collera negli occhi di Homer. Nick fece per protestare, ma Greta era già scattata fuori casa prima che lui trovasse le parole.

«Allora aspetto senz’altro che mi chiami non appena avrai finito qui» disse Homer a Troy dopo un imbarazzante silenzio. «Abbiamo alcune cose da sistemare, tu e io.» Poi si girò con movimento sgraziato e, senza aggiungere altro, seguì Greta alla Mercedes ferma davanti alla casa.

«Bene. Dove eravamo?» disse Troy, la mente altrove, richiudendo la porta d’ingresso.

«Eravamo che tu ci stavi raccontando una storia stupefacente» disse Nick, calcando sul tono «ed eri quasi arrivato al punto culminante, che doveva consistere nel dirci ciò che potremmo fare per aiutare certi alieni approdati qui sulla Terra a riparare il loro veicolo spaziale. Ora, parlando per me, io prima vorrei qualche spiegazione. Riguardo alla strampalata favola che ci hai raccontata, non so cosa credere, anche se ammetto di trovarla estremamente creativa. Ma, a me, ciò che interessa in questo momento non è la faccenda delle creature di un altro mondo, bensì la comparsa di quei due loschi esseri umani appena usciti. Che volevano? e c’entrano per qualcosa in questa nostra avventura?»

«Un minuto solo, Nick» intervenne Carol. «Prima di sviare dall’argomento principale, vorrei sapere che genere di aiuto vogliano da noi questi ET di Troy. Un telefono? Una nuova astronave? Prima sentiamo questo, e poi parleremo di Homer e della tua amichetta Greta.» Il tono leggero e scherzoso dell’allusione divertì Nick, che, dopo aver finto una ferita al cuore, assentì con un cenno del capo. Troy tolse di tasca un foglio e, tirato un lungo respiro, disse:

«Intanto, ragazzi, capitemi bene: io non sono sicuro al cento per cento di ricevere bene tutti i loro messaggi. Ma questa specifica trasmissione in cui vengono elencate le cose che vogliono da noi, mi arriva ogni mezz’ora. Negli ultimi novanta minuti, la mia interpretazione non è cambiata, per cui sono abbastanza sicuro di aver capito giusto. La lista è lunga, e naturalmente non pretendo di capire perché mai loro vogliano tutta ’sta roba; ma sono certo che la troverete entrambi molto interessante».

Passò quindi a leggere la lista manoscritta. «Dunque: vogliono un dizionario e una grammatica d’inglese, e la stessa cosa per quattro lingue maggiori; un’enciclopedia sulla vita vegetale e animale; un compendio di storia universale; uno studio statistico sullo stato politico ed economico del mondo attuale; uno studio comparativo delle maggiori religioni attualmente esistenti; le due ultime annate complete di almeno tre quotidiani importanti; riviste-sommario di scienza e tecnologia, nelle quali figurino panorami dei sistemi d’armamento sia in uso sia in corso di elaborazione; un’enciclopedia delle arti, corredata preferibilmente, ove necessario, di supporti video e audio; 21 chili di piombo e 26 chili d’oro.»

Nick accolse la fine dell’elenco con un fischio di meraviglia. Carol chiese a Troy di passarle il foglio, e Nick lo rilesse da sopra la sua spalla assorbendo ogni voce. Per un po’, nessuno dei due aprì bocca, poi, un minuto dopo, Troy aggiunse, come se gli fosse appena venuto in mente: «Non ci crederete, ma le prime otto voci non sono granché difficili a procurarsi. Tornando dal porto, mi sono fermato alla Biblioteca e, pagando, ho ottenuto che mi preparino una serie di CD con dentro in pratica tutte le informazioni richieste. Le voci difficili sono le ultime, ed è qui che serve il vostro aiuto».

Si fermò un secondo per vedere se Nick e Carol lo seguissero. «Tanto per accertarmi di aver capito» disse Nick, che camminava lentamente per il soggiorno con la lista in mano «tu, o meglio loro, vorrebbero che noi tornassimo al loro laboratorio, o veicolo, o quel che sia, con tutte queste informazioni più il piombo e l’oro?» Troy fece di sì con la testa. «Ma ventisei chili d’oro — che sono suppergiù un milione di dollari — dov’è che li troviamo? E a che gli servono, poi?»

Troy riconobbe di non aver una risposta a queste domande. «Ho però la sensazione, anche questa fondata su ciò che ritengo sia il contenuto del loro messaggio, che sarebbero agevolati nel loro compito anche da un soddisfacimento parziale delle loro richieste» aggiunse. «Direi dunque di fare il possibile, e sperare che basti.»

Scuotendo la testa, Nick restituì la lista a Carol dicendo: «Vuoi sapere una cosa? Una trama così intricata e bislacca, la mia fantasia non avrebbe saputo concepirla nemmeno nelle sue scorribande più audaci. L’intera faccenda^ così incredibile e strampalata, che esige di venir presa sul serio. È genio puro, insomma».

«Ciò significa che darete il vostro aiuto?» chiese Troy sorridendo.

«Non ho detto questo» rispose Nick. «Ho ancora un sacco di domande da fare e, va da sé, non posso parlare per Carol. Però, anche se tutta la cosa fosse una finzione, l’idea di recitare la parte del buon samaritano per una nave extraterrestre è assai allettante.»


Durante la mezz’ora seguente, Carol e Nick bersagliarono Troy di domande. Riguardo a Homer e Greta, Troy liquidò la cosa sbrigativamente, dichiarando di aver concordato, il giovedì sera, contro un prestito a breve, di tenerli al corrente di quanto succedeva a bordo della Florida Queen. Non — aggiunse — che egli intendesse dar loro informazioni sostanziali, però; e, del resto, trattandosi di imbroglioni, avevano solo quello che si meritavano. Questa spiegazione non soddisfece tuttavia del tutto Nick, il quale sentiva che quella era solo una parte della verità.

A dire il vero, anzi, più domande poneva, più gli sorgevano dubbi sulla versione data da Troy. Ma quali alternative mi si offrono?, pensava intanto fra sé. Il tappeto l’ho visto coi miei occhi. Se non è un ET, o quanto meno una creazione extraterrestre, allora è per forza un robot ultravanzato di fabbricazione nostra o russa. Mentre continuava a interrogare Troy, cominciò a costruire, con la sua agile mente, uno scenario alternativo: strampalato e improbabile fin che si voleva, ma tale da spiegare tutti gli eventi di quei tre giorni in maniera, a suo giudizio, almeno altrettanto ragionevole della bislacca storia di Troy circa il veicolo spaziale alieno.

Supponiamo che Troy e quello stronzo di Homer lavorino in qualche modo per i russi, e che tutta quanta la faccenda sia soltanto una raffinata copertura per un incontro volto allo scambio di informazioni illecite… Homer farebbe qualunque cosa per i soldi. Ma Troy, che motivo avrebbe? Il punto debole di questa sua spiegazione alternativa stava decisamente in questo vedere Troy coinvolto in un piano di vendita di segreti americani a un paese straniero. Già, ma, volendo, si poteva pensare che magari Troy avesse bisogno di un mucchio di denaro per pagare la massa di componenti elettroniche necessarie all’allestimento del suo videogioco…

Perché, col suo misero salario, non ha di certo potuto risparmiare granché, continuava a riflettere Nick. Supponiamo dunque che questi suoi CD contengano non le bislacche informazioni da lui elencate, ma dati militari segreti: in tal caso, l’oro potrebbe essere la sua ricompensa o quella di qualcun altro. Fece così numerose altre domande sull’oro, e Troy ammise di non capire molto bene che cosa loro gli dicessero, via braccialetto, circa i motivi per i quali abbisognavano di piombo e oro: borbottò solamente qualcosa circa la difficoltà di produrre questi due elementi per trasmutazione, ma senza aggiungere altro.

Per parte sua, Carol si convinceva sempre più della veridicità della storia. Né la turbava l’incapacità di Troy di rispondere a tutte le domande: data anzi la natura alquanto fantasiosa della vicenda, avrebbe nutrito dubbi sulla sua veridicità proprio se lui avesse sciorinato risposte pronte a tutto. E, a dispetto della propria formazione giornalistica, si scoprì stuzzicata e un po’ incantata dall’idea di essere lei quella del cui aiuto abbisognavano dei superalieni di un altro mondo.

Nella formazione delle opinioni, l’intùito aveva in lei altrettanto peso del ragionamento razionale. In questo caso, c’era anzitutto il fatto della sua fiducia in Troy. Osservandolo attentamente, mentre rispondeva alle domande, non scorgeva in lui la minima ombra di menzogna: parlava come uno convinto di dire la verità, non c’era dubbio. Il problema era se la stesse dicendo davvero, o se stesse venendo manipolato e diretto da quegli stessi ET che affermava di rappresentare. Ma a che scopo lo verrebbe?, ragionava intanto. Non è che noi tre si possa fare gran cosa per loro. E anche le informazioni richieste sono, faccenda delle armi a parte, relativamente innocue. Per il momento, accantonò l’idea del suo amico Troy divenuto una sorta di pedina in mano degli alieni.

Nick — lo vedeva — si stava insospettendo sempre più. Non era strano che tre sommozzatori della Marina si trovassero in acqua nel punto giusto proprio nel momento in cui Troy veniva portato in superficie da uno dei tappeti? E, in quanto all’interrogatorio dopo il trasporto in elicottero a Key West, la versione di Troy risultava tanto confusa da essere esasperante.

«Cristo, Jefferson, o la tua memoria è molto corta, o ricorda solo quello che le garba!» esclamò. «Tu ci vieni a dire che sei stato trattenuto dalla Marina per quasi un’ora, e poi non ricordi in pratica né le domande che ti sono state fatte, né il perché ti siano state fatte. Dunque, per me, qui c’è qualcosa che non quadra.»

«Oh, cazzo, Nick: ti ho detto che ero stanco!» cominciò a irritarsi Troy. «Ero reduce da un’esperienza traumatica, e quelle domande mi parevano senza senso. E, intanto, continuavo a sentire dentro di me come una vocina che cercava di farsi strada nel cervello.»

Nick si rivolse a Carol. «Credo di aver cambiato parere. Non ho più voglia di giocare a questo gioco — per intelligente che sia. Homer e Greta sono una seccatura, ma, all’occorrenza, saprei tenerli a bada; la Marina, invece, mi spaventa. Se ci seguiva, doveva esserci un motivo, perché, come coincidenza, è troppo improbabile. Troy forse ne sa qualcosa o forse no — chissà. Come che sia, a me mi puzza troppo.»

Si alzò per andarsene, ma Carol gli fece cenno di tornare a sedere. Poi, tirando un profondo sospiro, disse a voce bassa: «Ora ascoltate me: ho da farvi una confessione, e mi sembra che questo sia proprio il momento ideale. Io non sono venuta a Key West né per le balene né» — un’occhiata a Nick — «per i tesori, bensì per controllare una voce secondo la quale un nuovo missile della Marina avrebbe deviato dalla traiettoria e sarebbe finito nel Golfo del Messico». Dopo una pausa di vari secondi per lasciar penetrare il messaggio, continuò: «Avrei dovuto dirvelo prima, probabilmente, ma non ho mai trovato il momento adatto. Me ne rincresce molto, credetemi».

«E hai pensato che il missile stesse nella fessura» disse Troy qualche secondo dopo. «Così, ieri, sei tornata per questo.»

«E noi, recuperandotelo, ti avremmo procurato un’esclusiva mondiale», aggiunse Nick, la sensazione di tradimento alquanto attutita dalla manifesta sincerità delle scuse di lei. «Ti sei servita di noi per tutto il tempo, insomma.»

«Se vuoi,» convenne Carol «anche se, come giornalista, io la vedo in maniera diversa.» Avvertendo la tensione ora instauratasi (Nick, soprattutto, sembrava sulle sue), continuò: «Ma adesso ciò che importa non è questo, ma il fatto che abbiamo una spiegazione per la presenza della Marina nella zona d’immersione. In questi ultimi due giorni ho fatto parecchie ricerche a ogni livello sulle attività clandestine che la Marina ha attualmente in corso per la ricerca del missile, e ieri sera quel tenente messicano ha avuto modo di dare una buona occhiata ai nostri migliori primi piani del missile nella fessura; sicché qualcuno deve aver mangiato la foglia».

«Senti, angelo,» disse Troy dopo un altro breve silenzio «io, di ’sta storia del missile, non so niente, né, con tutto quello che succede, mi sento di offendermi perché mi hai mentito. Avrai avuto le tue ragioni, punto e basta. Quello che mi occorre di sapere ora è se sei o no disposta ad aiutarmi a portare questa roba agli ET o alieni o come cavolo tu voglia chiamarli.»

Prima che Carol potesse rispondere, Nick tornò ad alzarsi e si avviò alla porta. «Ho una fame da lupi, e voglio riflettere sull’intera faccenda» annunciò. «Quindi, Troy, se non ti spiace, vado a cenare e ti vedrò in serata per comunicarti la mia risposta.»

Carol si rese conto a sua volta di avere anch’essa una gran fame. Era stata una giornata lunga e snervante, e oltre a non aver mangiato nulla di sostanzioso dopo la prima colazione, era anche un po’ preoccupata per la reazione di Nick alla sua confessione. «Non potrei venire a mangiare un boccone con te?» gli domandò. Nick si strinse nelle spalle, come a dire: Se ti va… «Allora, sentite,» continuò Carol, abbracciando Troy «troviamoci tutti nella mia camera al Marriott intorno alle sette e mezzo. Tanto, ci devo andare per cambiarmi per l’intervista ai mostri, e voi potreste darmi qualche imbeccata.»

La sua gaiezza non rasserenò tuttavia l’atmosfera. Troy, chiaramente impensierito, aveva una faccia serissima, quasi grave. «Professore, so di non aver potuto rispondere a tutte le tue domande, ma non ho potuto farlo nemmeno con le mie» disse in tono sommesso e deliberatamente monocorde. «Di una cosa però sono certo: sulla Terra non è mai accaduto niente di simile — stando alla storia documentata, almeno. Le creature che hanno costruito l’astronave sono, paragonate a noi, ciò che noi sembreremmo alle formiche o alle api se potessimo venirne compresi. E queste creature hanno chiesto aiuto a noi tre per poter riparare il loro velivolo. Parlare di occasione unica nella vita sarebbe, in questo caso, una minimizzazione colossale.

«Potendo, sarebbe bello stare qui seduti a dibattere la faccenda per settimane o magari mesi, ma il tempo scarseggia. La Marina non tarderà di certo a trovare quelle creature, se non l’ha già fatto, e ciò può avere terribili conseguenze per gli esseri umani di questo pianeta. Loro mi hanno infatti detto chiaro che devono assolutamente compiere la loro missione, ossia riparare il velivolo e continuare il viaggio, anche a costo di dover interferire col sistema terrestre per riuscirci.

«Mi rendo conto che tutto ciò suona incredibile, anzi, magari assurdo, ma io ora vado a prendere dei pesi di piombo dai miei amici sub e a ritirare i dischi in biblioteca: perché, domattina all’alba, con o senza il vostro aiuto, intendo essere su quell’astronave.»

Nick lo studiò con la massima attenzione durante il discorso. Verso la metà, gli parve che non fosse più lui a parlare, bensì qualcun altro per bocca sua, e fu colto da un brivido d’inquietudine. Oh cazzo, sono ridotto male quanto loro!, pensò. E ci sono dentro anch’io, adesso. Un gesto d’invito a Carol, e uscì.

7

«Come ho già detto due volte» fece, stanca e seccata, la voce, «ero fuori in immersione coi miei amici Nick Williams e Carol Dawson. Poi lei ha avuto un problema di attrezzatura e ha deciso di tornare alla barca. Avevamo trovato una scogliera particolarmente interessante, con caratteristiche del tutto insolite; non essendo certi di poterla ritrovare, ho deciso di rimanere io sul posto in attesa del suo ritorno. Mezz’ora dopo, quando sono tornato a galla, non c’era più segno né di lei né di Nick né della barca.»

Il registratore si arrestò con un clic. I due tenenti si guardarono in faccia. «Cazzo, Ramirez, ma tu ci credi alla storia di “’sto bastardo”? anche solo tanto così?» L’altro fece di no con la testa. «E, allora, perché accidenti l’hai lasciato andare? ’Sto stronzo di negro è stato lì seduto per un’ora a pigliarci per il culo con risposte ridicole, e tu alla fine l’hai rilasciato come niente fosse.»

«In mancanza di prove concrete di reato, è proibito trattenere chicchessìa» rispose Ramirez, come citando alla lettera un manuale militare. «E il nuotare nell’oceano a sedici e passa chilometri dall’isola più vicina sarà come insolito, ma non costituisce reato.» Alla facciaccia del collega, soggiunse: «Inoltre, non si è mai contraddetto, ma ha ripetuto sempre la stessa storia».

«Le stesse cazzate, vorrai dire» fece il tenente Todd, allungandosi contro lo schienale della sedia. I due ufficiali sedevano a un piccolo tavolo da riunione in una vecchia sala dalle pareti intonacate di bianco. Il registratore era sul tavolo di fronte a loro, accanto a un portacenere vuoto. «Alle quali cazzate non credeva lui stesso, tant’è vero che se ne stava lì con un bel ghigno sfottente sulla sua faccia nera, sicuro di non poter venire accusato di nulla.» Riportate tutt’e quattro le gambe della sedia sul pavimento, continuò, battendo il pugno sul tavolo: «Un sub esperto non sta sotto da solo nemmeno cinque minuti, altro che mezz’ora! Perché sa quante cose possono andar storte. In quanto ai suoi amici, perché cavolo l’hanno lasciato solo, eh?». Alzatosi, proseguì, gesticolando: «Te lo dico io il perché, caro il mio tenente: perché sapevano che non correva alcun pericolo, essendo stato raccolto da un sottomarino nucleare russo! Te l’avevo detto che avremmo dovuto prendere una delle nuove navi, cazzo: con le apparecchiature elettroniche potenziate, l’avremmo localizzato probabilmente!».

Mentre Todd teneva la sua conferenza, Ramirez giocherellava col portacenere di vetro. «Ma sei proprio convinto che quei tre siano coinvolti coi russi in questa faccenda? A me pare proprio tirata per i capelli.»

«Tirata un cazzo,» replicò Todd «non c’è altra spiegazione possibile! Tutti i tecnici con cui abbiamo parlato sostengono l’impossibilità di disfunzioni compatibili con la condotta osservata del missile e, contemporaneamente, coi dati telemetrici ricevuti dalle nostre stazioni di tracciamento. Pertanto, non si scappa: il Panther è stato comandato fuori traiettoria dai russi.»

Sempre più concitato, Todd spiegò lo svolgimento del complotto: «Sapendo di aver bisogno di aiuto locale per localizzare il missile nell’oceano, i russi hanno assoldato Williams e la sua ciurma perché lo cercassero e segnalassero loro il punto esatto, dove avrebbero mandato un sottomarino a prenderlo. L’aggiunta di quella Dawson alla ciurma è stato un colpo maestro: le sue indagini, infatti, ci hanno indotto a preoccuparci maggiormente della stampa e, di conseguenza, a rallentare le ricerche».

«Certo che, come persuasore, sei proprio in gamba, Richard» rise Ramirez. «Resta però il fatto che non abbiamo un briciolo di prova. Alla versione di Troy Jefferson non credo nemmeno io, ma può aver mentito per una quantità di ragioni — e, di tutte, quella che ci riguarda è una sola. Inoltre, la tua spiegazione evita pur sempre di rispondere a una domanda fondamentale: perché mai i russi si darebbero tanta briga solo per catturare un missile Panther?»

«Può darsi che né tu né io, e magari neanche il capitano Winters, conosciamo tutta la storia del Panther» si affrettò a controbattere Todd. «Magari è stato progettato per il trasporto di una nuova arma rivoluzionaria, di cui nemmeno noi abbiamo mai sentito parlare. Non sarebbe del resto la prima volta che la Marina presenta un progetto sotto una certa luce per meglio tenerne nascosto lo scopo vero.» Un momento di riflessione, e poi: «Quanto alla motivazione dei russi, a noi importa poco. Quello che dobbiamo pensare è che abbiamo indizi dell’esistenza di un complotto — e che è nostro compito sgominarlo».

Ramirez non rispose immediatamente, ma continuò a giocherellare col portacenere. «Be’, io non la penso più così» finì per dire, fissando Todd. «Indizi concreti di complotto io non ne vedo. Perciò, a meno di ordini diretti alla mia sezione da parte del capitano Winters, io abbandono le indagini.» Un’occhiata all’orologio, poi, alzandosi per andarsene: «Così, almeno, ho ancora il sabato sera e la domenica da passare in famiglia».

«E se ti portassi una prova concreta?» disse Todd, non curandosi minimamente di nascondere la sua avversione per lui.

«Una prova concreta saprà convincere anche Winters» rispose freddamente Ramirez. «Io, in questa faccenda, ho già corso abbastanza rischi, e non intendo fare un passo di più, a meno che non mi venga ordinato da chi di dovere.»


Winters non sapeva se avrebbe trovato qualcosa di adatto. Di norma, evitava di proposito le zone pedonali dei negozi, soprattutto di sabato pomeriggio. Ma, mentre assisteva sul divano a una partita di pallacanestro dell’NCAA bevendo birra, si era ricordato di quanto piacere gli avesse fatto il ricevere da Helen Turnbull, l’interprete di Maggie, un servizio di insoliti sottobicchieri in cotto dopo il fine settimana inaugurale della Gatta sul tetto che scotta. «È una tradizione teatrale che si perde, temo,» aveva detto l’esperta attrice al suo ringraziamento «ma il fare regalucci dopo la serata o le serate d’apertura resta il mio modo di congratularmi con coloro coi quali ho avuto il piacere di lavorare.»

La zona pedonale era affollata di clientela del sabato, e lui si sentiva stranamente in vista, come se tutti lo stessero guardando. Ciondolò così diversi minuti, prima di pensare a quale genere di regalo avrebbe potuto farle. Una cosa semplice, chiaro, pensò. Niente che possa venire male interpretato. Un ricordino e basta. Vide Tiffani come gli era apparsa nella fantasia erotica della notte avanti, e l’immagine lo imbarazzò, lì in mezzo alla folla delle compere. Evocò quindi nervosamente un’altra immagine, questa sana e accettabile, della bambina Tiffani durante la conversazione di lui col padre. I capelli, pensò, ricordando le treccine. Le comprerò qualcosa per i capelli!

Entrato in un negozio di regali, tentò di orientarsi nel caos di paccottiglia che riempiva le pareti e s’ammucchiava senza un criterio su una varietà di tavoli. «Posso aiutarla?» Sussultando alle parole della commessa alle sue spalle, Winters scosse il capo. Be’, e perché hai detto di no, quando è proprio il contrario?, pensava intanto. Come fai a trovare qualcosa da solo?

«Mi scusi, signorina» gridò quasi alla ragazza che si allontanava. «Ripensandoci, un consiglio mi servirebbe sì. Vorrei acquistare un regalo.» Di nuovo la sensazione di essere al centro degli sguardi… «Per mia nipote» aggiunse in fretta.

La commessa era una bruna sulla ventina, brutta ma con una faccia vispa. «Ha già in mente qualcosa?» domandò. Aveva i capelli lunghi, come Tiffani.

«Più o meno» rispose Winters, meno teso ora. «Ha dei bei capelli lunghi, come i suoi. Che cosa potrei comprarle di davvero speciale? È per il suo compleanno.» Di nuovo provò una strana, incomprensibile ansia.

«Che colore?» chiese la ragazza.

Una domanda senza senso. «Ma se non so ancora cosa voglio, come faccio a conoscere il colore?» replicò lui sconcertato.

Sorridendo, la ragazza scandi, come se parlasse a un ritardato mentale: «Di che colore sono i capelli di sua nipote?».

«Ah, ma certo» rise Winters. «Marrone rossiccio, rame. E sono molto lunghi.» L’hai già detto: fai la figura dello scemo, gli sussurrò, dentro, una voce.

La commessa gli fece segno di seguirla in fondo al negozio. Qui gli indicò una vetrinetta tonda zeppa di pettini di ogni foggia e misura. «Ecco qua una serie di splendidi regali per sua nipote» disse appoggiando su quel “nipote” con un tono che lo impensierì. Che sappia qualcosa? Una sua amica, magari? O una spettatrice della commedia? Tirò un respiro per calmarsi, sbalordendosi ancora una volta della volubilità delle proprie emozioni.

Su uno degli scaffaletti si vedevano due bei pettini assortiti di color marrone, filigranati d’oro in cresta. Uno era abbastanza grande da poterle fissare tutti quei magnifici capelli in uno chignon alla nuca; l’altro, più piccolo, era perfetto per esser portato a lato o dietro. «Prendo quelli,» disse alla commessa «i due con la riga d’oro in cima. Me ne faccia una confezione regalo, per favore.»

L’efficiente ragazza tolse i pettini dalla vetrinetta e, dopo avergli detto di aspettare un paio di minuti per l’incarto, sparì nel retrobottega lasciandolo solo. Glieli lascerò sulla toeletta alla fine dell’intervallo, pensava intanto lui, evocando l’immagine di Tiffani che rientrava sola in camerino e trovava il regalo contro lo specchio sotto la targhetta col suo nome. Sorrise al pensiero della sua reazione. In quel momento venne sfiorato da una donna che si portava dietro la figlia di otto o nove anni. «Mi scusi» disse la donna, senza voltarsi, mentre si precipitava con la piccina a toccare dei cestini pasquali appesi al muro.

La commessa aveva finito di confezionare il regalo e stava accanto alla cassa elettronica. Quando lui arrivò al bancone, gli porse un biglietto con «Buon compleanno» stampato nell’angolo superiore sinistro. Winters lo fissò per qualche secondo, poi disse: «No, niente biglietto. Ne comprerò uno apposito in cartoleria».

«Contanti o addebito?» chiese la ragazza.

Un momento di panico. Chissà se ho portato abbastanza soldi… Come faccio, sennò, a spiegare a Betty l’addebito? Aprì il portafoglio e contò. Poi, sorridendo. «Contanti, sì» disse, constatando di avere quasi cinquanta dollari — contro i soli trentadue, tasse comprese, del costo del regalo.

Uscì dal negozio quasi saltellando, col cuore traboccante di gioia e senza più ombra d’apprensione. E fischiettava addirittura quando aprì la porta e lasciò l’aria condizionata della zona commerciale coperta. Spero che le piaceranno, si disse. Poi, con un sorriso: Ma che spero: ne sono sicuro!

8

Nick versò l’ultimo chablis nel bicchiere di Carol. «Non credo che potrei mai fare il giornalista» disse. «Per riuscire nel ramo, mi sa che bisogna essere dei furbastri.»

Carol infilzò un pezzo di pesce gatto alla griglia e un po’ di cavolfiore, e si portò la forchetta alla bocca. «Non è poi così diverso da tanti altri lavori. Le questioni morali, i momenti di conflitto tra vita privata e professionale, ci sono comunque sempre.» Finì di masticare il boccone e inghiottì. «Pensavo di parlarne a te e Troy venerdì sera. Ma, come sai, le cose non sono poi andate per il verso giusto.»

«Se lo avessi fatto, tutto sarebbe stato diverso» disse Nick, allontanando il piatto per indicare che era sazio. «Mi sarei reso conto del possibile pericolo, e molto probabilmente, laggiù, ci sarei stato io con te. E chi lo sa che cosa sarebbe accaduto, allora.»

«Ho avuto conflitti peggiori, in passato» disse Carol, bevendo un sorso di vino. Voleva chiudere l’argomento, e a modo suo. «Subito dopo la laurea a Stanford, ho lavorato per il San Francisco Chronicle. Uscivo ogni tanto con Lucas Tipton, ed era l’epoca dello scandalo Warrior, quello della droga. Così, ho sfruttato i contatti sociali che mi ero procurata tramite lui per ottenere una visuale unica della faccenda. E Lucas non me l’ha più perdonato. Come vedi, ai problemi ho fatto il callo: fanno parte della professione.»

Venne un cameriere col caffè. «Ma adesso che ho finito di scusarmi per la terza volta,» continuò, sottolineando il “terza” «spero che possiamo tornare all’essenziale. Bisogna proprio che te lo dica, Nick: la tua idea del complotto russo a me sembra una stupidaggine. L’elemento più debole è Troy. Una spia, lui? Ma andiamo, via, è assurdo!»

«Più assurdo di un veicolo spaziale superalieno bisognoso di riparazioni e fermo sul fondale del Golfo del Messico?» ribatté ostinato Nick. «Senza contare un motivo ben preciso: il denaro. Hai visto la mole di attrezzatura che è entrata in quel suo videogioco?»

«Sì, ma una settimana di diritti d’autore di Angie basta probabilmente a pagare tutto quello di elettronico che c’è là dentro» disse Carol. Poi, chinandosi e posandogli una mano sul braccio: «Ora, non andare in collera, ti prego: ma i rapporti in cui è la donna a sopportare il peso finanziario, esistono, sai? Io sento che lei lo ama, e non dubito minimamente che sia pronta ad aiutarlo».

«Ma, allora, perché ha tentato di farsi prestare soldi da me e poi ancora dal capitano Homer, giovedì sera?»

«Accidenti, Nick, non lo so,» fece Carol, con una punta di stizza «e comunque, non importa. A farla breve, nulla, se non la certezza di finire uccisa, mi impedirebbe di tornar là sotto con lui. Qualunque sia la verità, è sicuramente una storia sensazionale. E mi sorprende che tu esiti tanto: ti credevo un avventuriero!»

Lo guardò fisso, e Nick colse un lampo di civetteria dietro quello sguardo imperturbabile. Sei una donna affascinante, pensò. E ora mi stai stuzzicando. Il doppiosenso non m’è sfuggito, va’! Ricordò com’era stato bello nel pomeriggio, là sulla barca, quando l’aveva tenuta stretta a sé. Sotto quella facciata aggressiva c’è un’altra persona, bella e intelligente. Dura come il ferro un momento, e vulnerabile come una bimba il momento dopo. Ogni speranza di poter continuare il suo rapporto con lei dipendeva, ne era certo, dal suo esser disposto ad aiutare Troy. Perché a lei non interessavano gli uomini non disposti a correre rischi.

«E lo ero difatti, una volta» rispose finalmente, rigirandosi in mano il bicchiere vuoto. «Poi non so cosa sia accaduto. Sarà che sono stato punto un paio di volte, il che mi ha reso più cauto — specialmente nei rapporti umani. Ma confesso che l’intera faccenda mi appare assolutamente affascinante, se solo mi immagino in posizione di osservatore estraneo.»

Carol finì il vino e posò il bicchiere sul tavolo. Nick rimase tranquillo in silenzio. Lei tambureggiò con le dita sulla tovaglia, sorridendo. «Allora,» disse quindi, fissandolo negli occhi nel sollevare la tazzina del caffè «hai preso una decisione?»

«Ma sì, ma sì: ci sto» rise lui. Poi, chinandosi lui, stavolta, a toccarle il braccio: «E per un sacco di ragioni».

«Bene» disse lei. «Ora che siamo giunti a una decisione, che ne diresti di aiutarmi a preparare la mia intervista col capitano Homer e la sua ciurma? Quanto valeva il tesoro sommerso della Santa Rosa? E chi era Jack? Bisogna che dia l’impressione di essere seriamente interessata alla storia, capisci.» Posò sul tavolo il registratore tipo stilografica e lo avviò.

«Ufficialmente, un po’ più di due milioni di dollari. Jake Lewis e io abbiamo ricevuto il dieci per cento ciascuno, Amanda Winchester il rimborso delle spese più il venticinque per cento. Il resto l’hanno tenuto Homer, Ellen e Greta.» Nick si fermò, ma Carol gli fece cenno di continuare. «Jake Lewis è l’unico amico intimo che abbia avuto da adulto. Era un essere squisito: onesto, lavoratore, intelligente e leale. E ingenuo al cento per cento. Così è caduto a pesce nelle reti di Greta, che l’ha manipolato a suo piacimento sfruttandone l’amore a proprio vantaggio.»

Guardando fuori della finestra del piccolo ristorante specializzato in frutti di mare, fissò lo sguardo su alcuni gabbiani saettanti sull’acqua nel calar del crepuscolo e continuò: «La sera che siamo rientrati col grosso del tesoro, Jake e io abbiamo concordato che uno di noi due doveva restare sempre sveglio. Il triangolo Homer-Ellen-Greta aveva infatti qualcosa di strano già allora, e sebbene all’epoca non facesse ancora vita in comune, c’era qualcosa che m’induceva a diffidarne. Mentre Jake era di guardia, Greta lo raggiunse e lo scopò fino a levargli il sentimento. “Per festeggiare”, mi disse lui, scusandosi per essersi addormentato dopo la scopata. E, quando mi sono svegliato io, oltre la metà del tesoro era ormai sparita».

Nick fremeva di collera lungamente repressa. Osservandolo attentamente, Carol ne notò la veemenza. «A Jake, del denaro non importava un cazzo. Figurati che ha perfino cercato di dissuadere Amanda e me dal far causa! Era così… Ricordo che mi ha detto: “Nick, amico mio, abbiamo fatto duecentomila dollari a testa, e non possiamo provare che ci fosse dell’altro tesoro. Accontentiamoci di quelli e non guastiamoci l’esistenza!”. Fregato da Homer, smerdato da Greta, eppure neanche incazzato tanto così… Poco più di un anno dopo, sposava una reginetta dello sci d’acqua di Winter Haven, comprava una casa ad Orlando, e s’impiegava come tecnico aerospaziale.»

Fuori, la luce svaniva. Nick, profondamente immerso nei ricordi, rievocava in tutto il suo furore la giusta indignazione di otto anni prima. «Io non sono mai riuscita a capirle» disse piano Carol, spegnendo il registratore. Nick spostò lo sguardo su di lei, aggrottando la fronte con aria interrogativa. «Le persone come il tuo amico Jake, intendo» spiegò lei. «Sopportazione infinita, nessun rancore: accada quel che accada, uno scrollone, come fosse acqua, e via: la vita continua, allegra e serena.» Toccava a lei ora di sentirsi un po’ emozionata. «A volte mi piacerebbe essere un po’ così. Perché perderei la mia paura.»

Si fissarono nella luce smorzata. Nick le coprì le mani con le sue. Riecco la bambina vulnerabile, pensò, avvertendo un profondo desiderio d’amore. È la seconda volta in un giorno che mi si lascia vedere. «Carol,» disse dolcemente «desidero ringraziarti per questo pomeriggio. Per aver condiviso i tuoi sentimenti con me, voglio dire. Sento di aver visto una Carol Dawson del tutto diversa.»

«E l’hai, difatti» sorrise lei, ma in modo che gli fosse chiaro che lo scudo protettivo era tornato al suo posto. «E solo il tempo dirà se non sia stato un grosso errore.» Lentamente, sciolse le mani dalle sue. «Per il momento, comunque, abbiamo altro da fare. Torniamo al ménage-à-trois. Che genere d’impianto hanno in piedi, e cosa ci fanno?»

«Prego?» chiese Nick, ovviamente confuso.

«Un mio amico, il dottor Dale Michaels dell’Istituto Oceanografico di Miami, mi ha detto che il capitano Homer ed Ellen hanno un impianto ad alta tecnologia. Non ricordo esattamente la sua descrizione, ma…»

«Mi sa che ti sbagli» interruppe Nick. «Li conosco da quasi dieci anni, e gli unici posti dove stanno sono la bizzarra casa di lui o l’Ambrosia.»

Sconcertata, Carol disse: «Strano, perché le informazioni di Dale sono sempre giuste. Proprio ieri, anzi, mi diceva che, in questi ultimi cinque anni, Homer Ashford ha sperimentato le più avanzate sentinelle sottomarine dell’istituto e che i rapporti da lui…».

«Ferma, ferma!» disse Nick, chinandosi verso di lei. «Non sono sicuro di aver capito bene. Torna un po’ indietro: potrebbe essere molto, ma molto importante…»

Carol riprese: «Una delle aree di produzione più recenti dell’IOM sono le sentinelle sottomarine: dei robot, fondamentalmente, che hanno il compito di proteggere le acquaculture da ladri sofisticati così come dai grossi pesci o dalle balene. Dale ha detto che Homer contribuisce finanziariamente alle ricerche e sperimenta lui stesso i prototipi…».

«Figlio di puttana!» esclamò Nick, alzandosi tutto agitato. «Ma come ho potuto essere tanto stupido? Ma si capisce, ma è ovvio, cribbio!»

Ora fu Carol a non capire. «Ti spiacerebbe dirmi che succede?»

«No, no, solo che adesso bisogna che ce la battiamo» rispose Nick. «Dobbiamo fare un salto da me a dare un’occhiata a una vecchia carta e a prendere un altro sistema di navigazione per la barca. Ti spiegherò tutto strada facendo.»


Nick infilò la tessera nel lettore e la porta del garage si aprì. Portò la Pontiac nel suo spazio riservato e spense il motore. «Perciò, vedi, lui sapeva che non avremmo trovato un tubo» diceva intanto a Carol. «E, così, ci ha lasciato perquisire sia la casa sia il lotto da lui comprato per la nuova residenza di Pelican Point. E noi non abbiamo trovato niente perché, in quel momento, la roba stava ancora nascosta da qualche parte nell’oceano.»

«Ma nell’acqua attorno alla nuova proprietà, non avete guardato?»

«E come no! Siamo scesi sia Jake che io, in giorni diversi, e abbiamo trovato un’interessantissima caverna sotterranea, ma neanche l’ombra del tesoro della Santa Rosa. Questo, però, dev’esser stato quello che gli ha dato l’idea, e scommetto che ha spostato la roba un anno o due dopo la partenza di Jake. Probabilmente ha pensato di poter agire in piena sicurezza, ormai, e senza dubbio avrà temuto che il tesoro potesse venir scoperto da altri, se lo lasciava ancora là nell’oceano. Come vedi, coincide tutto, compreso il suo cointeressamento nelle sentinelle sottomarine.»

Carol assentì e fece una risatina. «Di sicuro ha più senso della tua idea di un Troy agente russo!» Aprirono le portiere e smontarono. «E quanto credi che gli sia rimasto, del tesoro?» chiese Carol mentre si avviavano all’ascensore.

«E chi lo sa» rispose Nick. «Se, com’è probabile, hanno rubato tre milioni su cinque» — un istante di riflessione — «devono avere ancora un bel gruzzolo, altrimenti Greta se la sarebbe già filata.»

Le porte dell’ascensore si aprirono e Nick pigiò il bottone del secondo piano. Carol tirò un sospirone. «Be’, che ti succede?» chiese lui.

«Sono sfinita» rispose lei. «Mi pare di stare su una giostra che gira sempre più veloce. In questi ultimi tre giorni sono successe tante di quelle cose, che non so proprio se resisterò ancora. Ho bisogno di riprender fiato.»

«Giorni magici» disse Nick mentre uscivano dall’ascensore: «questi sono giorni magici!»

Lei lo guardò con espressione incuriosita. «È una mia vecchia teoria» rise lui. «Dopo te la spiego.» Pigiò una serie di numeri sulla placchetta della porta e la serratura scattò. Si fece da parte con finta galanteria e lasciò entrare per prima Carol. Che si trovò davanti un gran caos.

L’appartamento era sottosopra. Nel soggiorno, appena oltre la zona cucina, tutti i preziosi romanzi di Nick erano disseminati qua e là sul pavimento, sul divano e sulle poltrone, come se qualcuno avesse tolto i libri dagli scaffali uno per volta e, scossili (forse nel tentativo di trovare foglietti sparsi), li avesse lasciati cadere o lanciati in giro per la stanza. Nick spinse da parte Carol e rimase a contemplare sbigottito lo sfascio. «Oh cazzo…»

Era stata saccheggiata anche la cucina: cassetti aperti, vasi, pentole e stoviglie disseminati sui piani di lavoro e sul pavimento. Gli scatoloni coi ricordi di Nick erano stati trascinati al centro della seconda camera da letto, sulla destra, e il contenuto parzialmente sparso tutt’in giro.

«Ma che: è passato un ciclone?» esclamò Carol, osservando tutta quella confusione. «Non che mi aspettassi che tu fossi un bravo uomo di casa; ma questo è ridicolo…»

Nick non riuscì a ridere della battuta. Andò nella camera da letto grande e constatò che era stata saccheggiata anch’essa. Tornò quindi in soggiorno e cominciò a raccogliere i suoi amati romanzi e a impilarli ordinatamente sul tavolino da caffè. Alla vista della consunta copia dell’Etranger di Albert Camus, ebbe un soprassalto: la costola era squarciata! «Questa non è opera di vandali» disse a Carol, inginocchiatasi ad aiutarlo «ma di gente in cerca di qualcosa di preciso.»

«E hai già visto se ti manca qualcosa?» domandò lei.

«No» rispose lui, raccogliendo un altro romanzo dalla copertina sconciata e scuotendo la testa. «Però, quei bastardi ci han dato proprio dentro, coi miei libri…»

Lei gl’impilò la collezione di Faulkner sulla sdraio. «Adesso capisco il motivo dell’ammirazione di Troy» disse. «Ma li hai davvero letti tutti?» Nick annuì. Lei ne raccolse uno da sotto il carrello del televisore. «E questo, di che parla?» chiese, mostrandoglielo. «Mai sentito nominare.»

Nick aveva appena finito di sistemare un’altra dozzina di libri sul tavolo da caffè. «Oh, quello è un romanzo fantastico» disse infervorandosi, dimentico per un istante del saccheggio dell’appartamento. «La vicenda è raccontata attraverso uno scambio epistolare fra i personaggi principali. Si svolge nella Francia del Seicento, e la coppia protagonista, una coppia annoiata dell’alta società, cementa il suo bizzarro rapporto scambiandosi i particolari delle relazioni amorose che ciascuno dei due ha con altri. Ha fatto gran scandalo, in Europa.»

«Niente a che vedere col tipico romanzo rosa, insomma» osservò Carol, sforzandosi di mandare a memoria il titolo.

Nick si alzò e andò nella camera da letto piccola, dove passò a vagliare il contenuto degli scatoloni. «Qui manca qualcosa» diede la voce a Carol, che smise di sistemare i libri e venne a raggiungerlo. «Sono sparite tutte le mie foto del tesoro della Santa Rosa e anche i ritagli di giornale. Strano…»

«Ma il tridente, è sempre sulla barca?» disse Carol, accanto a lui sul pavimento davanti agli scatoloni, aggrottando la fronte.

«Sì» rispose lui, smettendo di scartabellare. «Nell’ultimo cassetto in basso dell’armadietto dei congegni elettronici. Pensi che esista un rapporto?»

Lei assentì. «Sì, credo cercassero proprio quello. Non so perché, ma è questo che sento.»

Nick raccolse una voluminosa cartella gialla dal pavimento e la ripose in uno scatolone. Nel farlo, se ne sfilarono una fotografia e alcuni fogli dattiloscritti. Raccolta la foto di Monique, mentre lui adunava in fretta i fogli, Carol la studiò e, lettane la dedica, si sorprese a provare una punta di gelosia. «Bella» commentò. Poi, notando le perle: «E anche molto ricca e raffinata. Non sembra il tuo tipo». E gliela passò.

Nick, pur affettando disinvoltura, non poté impedirsi di arrossire. «Roba di tanto tempo fa» mormorò, affrettandosi a ficcare la foto nella cartella.

«Proprio?» disse lei, sogguardandolo. «A giudicare dall’aspetto, tanto non sembra: pare della nostra età, suppergiù…»

Turbato, Nick infilò negli scatoloni altro materiale sparso, poi guardò l’orologio. «Meglio affrettarsi, se dobbiamo incontrare Troy al tuo albergo» disse alzandosi. Carol rimase in ginocchio sul pavimento, gli occhi fissi nei suoi. «È una storia lunga» disse lui. «Un giorno te la racconto.»

Punta di curiosità, Carol lo seguì fuori dall’appartamento e nell’ascensore. Nick era sempre a disagio. Centro, si disse lei. Credo di aver scoperto una chiave di volta del signor Williams. Una donna di nome Monique… Sorrise a Nick che la invitava a precederlo nell’uscita dall’ascensore. E ama davvero tanto i libri…


La camera di Carol al Marriott aveva due ingressi. Quello normale dava sul corridoio che portava all’atrio, l’altro sul giardino e la piscina, ed era questo che lei usava sempre quando usciva per la ginnastica mattutina.

Nick e Carol arrivarono alla camera per il corridoio, parlando del più e del meno, ma a bassa voce. Lei estrasse la tessera magnetica a qualche passo di distanza e, quando già si accingeva a infilarla nella serratura, dall’interno venne un rumore insolito, come di metallo contro metallo. Prima che potesse dire qualcosa, Nick la zittì portandosi un dito alle labbra. «Hai sentito anche tu?» bisbigliò lei. Lui assentì, poi le chiese a gesti se ci fosse un secondo ingresso. Lei indicò la porta d’accesso al giardino dell’albergo, in fondo al corridoio.

Palme e siepi tropicali coprivano gran parte del lato destro della piscina. Nick e Carol lasciarono il vialetto d’accesso a questa e si portarono furtivamente alle finestre della camera. Le veneziane erano tirate, ma una fessura sul fondo permetteva di scrutare all’interno. Lì per lì, non videro che buio; poi le pareti riflessero per un istante il raggio di una torcia elettrica. In quella frazione di secondo distinsero un profilo umano, che però non seppero identificare, accanto al televisore. La torcia si riaccese, soffermandosi un istante sulla porta del corridoio. La porta era chiusa a chiave. Nel breve momento di luce, Carol vide anche aperti tutti i cassetti della toeletta.

Nick le strisciò accanto nell’aiuola sotto le finestre. «Tu sta’ qui di guardia senza farti accorgere,» bisbigliò «io vado a prendere una cosa in macchina.» Poi, strettale la spalla, sgattaiolò via. Lei rimase incollata alla finestra. La torcia si riaccese, illuminando pezzi di apparecchi elettronici posati sul letto più lontano. Carol aguzzò gli occhi per vedere chi fosse l’uomo della torcia, ma invano.

Il tempo, intanto, passava, e il suo intùito le disse che l’intruso si accingeva ad andarsene. D’improvviso si rese anche conto di essere del tutto esposta alla vista, così, sotto la finestra. Su, Nick, sbrigati, forza!, si disse. O finisco a fettine… La figura nella stanza venne verso la porta del giardino e si arrestò. Carol si sentì accelerare il cuore. Proprio in quel momento arrivò, col fiato mozzo, Nick, che impugnava un lungo palanchino tolto dal cofano della macchina. Lei gli fece segno di mettersi a lato della porta, perché l’intruso stava per uscire.

Vide la figura posare la mano sulla maniglia, e si appiattì a terra. Nick era dietro la porta, il braccio pronto a calare il palanchino su chiunque ne fosse uscito. La porta si aprì, il braccio prese ad abbattersi — quando Carol strillò dall’aiuola: «Troy!». Troy schizzò indietro, schivando di misura la botta. Carol fu in piedi in un lampo e si slanciò verso la porta. «Tutto bene?» chiese a uno scosso Troy.

Gli occhi sbarrati di paura. «Cristo, professore,» disse, guardando il palanchino impugnato da Nick «mi potevi ammazzare!»

«Accidenti a te, Jefferson» sbottò Nick, il flusso di adrenalina ancora abbondante nel sangue «ma perché cazzo non ci hai detto che eri tu? E che ci facevi nella camera di Carol?» soggiunse, guardandolo con aria accusatrice.

Troy rientrò nella stanza e accese le luci. La stanza era un disastro: sembrava l’appartamento di Nick di poco prima.

«Ma che cavolo…» cominciò Carol rivolta a Troy.

«Io non c’entro, angelo» rispose lui «davvero, giuro.» Poi, guardando entrambi gli amici: «Sedetevi. Un secondo e vi spiego tutto».

Carol, intanto, si guardava attorno. «Oh, merda,» sbottò «ma è sparito tutto, macchine fotografiche e pellicole! E quasi tutto il sistema telescopico, anche, postprocessore compreso. Dale mi spara di sicuro.» Guardò in uno dei cassetti aperti. «E hanno preso anche le mie foto della prima immersione, ’sti gran figli di puttana. Stavano in una grossa busta qui sulla destra.»

Sedette sul letto un po’ stordita. «Hanno rubato tutti i negativi delle foto che ho fatto in quel posto. Addio servizio sensazionale…»

«Mah, chissà, magari salteranno fuori» tentò di consolarla Nick. «E, comunque, hai sempre i negativi della prima immersione.»

Carol scosse il capo. «Non è lo stesso.» Poi, dopo un minuto di riflessione: «Maledizione, avrei dovuto portarmi dietro i negativi quando abbiamo lasciato l’appartamento per andare a casa di Troy!». Guardò quindi i due uomini, e si rasserenò un poco. «E vabbé, c’è sempre domani, comunque.»

Troy aspettava sempre pazientemente di potersi spiegare. Invitando Nick a sedere accanto a Carol sul letto, disse: «Ora vi spiego tutto in breve. Prima di tutto, i fatti. Sono arrivato qui verso le sette — un po’ in anticipo perché volevo fare qualche modifica al televisore. Vi dirò fra un istante la ragione.

«Quelli dell’albergo non mi hanno voluto dare la chiave della camera, e così sono venuto qui a far fesso il leggitessera — una bazzecola, per chi conosce il funzionamento di questi cosi» aggiunse con un sorriso. «Appena si è accesa la luce verde ed è scattata la serratura, ho udito sbattere la porta del giardino. C’era dunque qualcuno qui dentro, fino a un istante prima. Nell’aprire la porta, ho fatto in tempo a scorgere un tipo grande grosso, mai visto, che girava l’angolo dell’albergo. Si muoveva impacciato, come se trasportasse qualcosa di pesante.»

«Parte del telescopio oceanico» disse Carol.

«Va’ avanti» disse Nick. «E poi, cos’è successo? Voglio sentire perché eri rimasto qui a lavorare al buio, e scommetto che avrai pronta una delle tue belle storielle.»

«Ma sicuro» disse Troy. «Sono rimasto al buio perché temevo che il ladro o i ladri tornassero, e non volevo che mi vedessero.»

«Sei proprio un campione, Jefferson» disse Nick. «Tu sei il tipo che direbbe a un poliziotto di aver superato il limite di velocità per poter arrivare a una pompa di rifornimento prima di finire la benzina!»

«E quello ci crederebbe pure!» osservò Carol. Risero tutti quanti, e la tensione cominciò a sciogliersi.

«Va bene» disse Nick. «Ora dicci cos’hai fatto al televisore. Fra parentesi, com’è che sei riuscito a smontarlo? I televisori d’albergo non sono forse tutti muniti di dispositivi d’allarme?»

«Sicuro,» rispose Troy «solo che, disattivarli, è semplicissimo. È proprio tutta da ridere: l’albergo si fa rifilare questi allarmi da qualcuno che sostiene che non c’è di meglio come antifurto, e i ladri, una volta scoperto con facilità il tipo di sistema installato, si comprano gli schemi dei circuiti e disattivano il tutto!»

Troy si guardò intorno, poi controllò attentamente l’orologio. «Ecco» disse «se vi spostate su quelle sedie, credo che potrete vedere meglio.» Scambiandosi uno sguardo perplesso, Nick e Carol ubbidirono. «Ora» continuò Troy in tono sorprendentemente serio «vi mostro quella che, secondo me, è la prova incontrovertibile della veridicità della mia storia degli alieni. A quanto mi hanno fatto sapere via braccialetto, trasmetteranno un breve programma televisivo, alle sette e mezzo in punto, dall’interno dell’astronave. Se ho capito bene le loro istruzioni e fatte le modifiche giuste, questo televisore dovrebbe ora essere in grado di riceverlo.»

Si rivolse all’apparecchio e inserì il canale 44. Nient’altro che fruscio ed effetto neve… «Magnifico, Trop commentò Nick. «Una roba simile batterà probabilmente l’indice d’ascolto di sceneggiati e videomusica, perché richiede allo spettatore ancora meno intelligenza di…»

Sullo schermo apparve improvvisamente un’immagine, e, malgrado fosse un po’ scura, Carol vi si riconobbe all’istante: era lei, che, di spalle alle telecamere, muoveva le dita su una specie di tavola, mentre si udiva una versione orchestrale di Stille Nacht prodotta da uno strumento non dissimile da un organo.

«È la camera musicale di cui ti ho parlato» disse Carol a Nick. «Quindi, il coso-guardiano doveva avere una videocamera fra tutti i suoi aggeggi.»

L’immagine mutò di scatto in un primo piano degli occhi di Carol. Per cinque secondi, quegli occhi meravigliosi e spaventati empirono quasi per intero lo schermo. Poi Carol li sbatté due volte e la telecamera si ritrasse, riprendendola tutta sul davanti — in piedi, tremante nel costume da bagno. Carol rabbrividì al pensiero dell’orrore di quei secondi in cui le appendici del guardiano le avevano invaso il corpo. Lo schermo mostrava tutto, in alcuni istanti perfino al rallentatore. Una delle scene restituì così il deliberato movimento delle setole sul suo torace, e sui capezzoli eretti. Oddio, pensò, non mi ero resa conto che fossero eretti! Dev’esser l’effetto della paura. Si agitò a disagio, sorprendentemente imbarazzata di fronte a Nick.

Il programma era discontinuo. Nella scena seguente poterono vedere Troy, steso sul pavimento di un’altra camera, con addosso una tal quantità di fili e cavi da sembrare Gulliver ravvoltolato dai lillipuziani. La telecamera spaziò all’intorno, inquadrando, in un angolo, due guardiani. Le appendici della parte superiore del corpo erano del tutto diverse, ma la parte centrale era la stessa, amebiforme, che avevano conosciuta Troy e Carol. All’altro capo della camera stavano, ritti, due tappeti, che si agitavano come se si stessero parlando. La telecamera rimase fissa per una decina di secondi: poi Nick, Carol e Troy videro i tappeti terminare la loro apparente conversazione e allontanarsi a balzelli in due direzioni diverse.

Le inquadrature finali della trasmissione furono una serie di primi piani della testa di Troy, presentante oltre un centinaio di sonde e inserti collegati al cervello. Poi lo schermo tornò al fruscio e all’effetto neve. «Accidenti…» esclamò Nick dopo un momento. «Non si potrebbe avere una ripetizione immediata?» Poi, alzandosi: «E tu eri proprio uno schianto» disse a Carol. «Solo che bisognerà ritoccare un po’ le tue scene, se vogliamo il visto di censura per i minori.»

Carol lo guardò con un leggero rossore in viso. «Scusa, Nick, ma non mi sembri tanto bravo come attore. Uno bravo l’abbiamo già» — cenno del capo in direzione di Troy — «e penso che basti e avanzi.» Dopo un’occhiata all’orologio accanto al letto, proseguì: «E adesso direi che ci resta circa un quarto d’ora, non di più, per metterci d’accordo sul daffarsi. E siccome io mi devo anche cambiare, tu intanto potresti comunicare a Troy la tua decisione e le tue conclusioni a proposito della Santa Rosa». Afferrati una camicetta e un paio di pantaloni, si diresse quindi verso il bagno.

«Ehi, aspetta un minuto» protestò Nick. «Ma non dobbiamo discutere anche di chi è stato a penetrare nel mio appartamento e nella tua camera?»

Carol si fermò sulla porta del bagno. «Le uniche possibilità che abbiano senso sono due» disse. «O è stata la Marina, o sono stati quei malati dei nostri amici dell’Ambrosia. In un caso o nell’altro, lo sapremo presto, comunque.» Si arrestò un momento, un sorriso sbarazzino sulle labbra: «Ora voglio vedere se, fra tutt’e due, siete capaci di trovare il modo di fregare l’oro di Homer. Stanotte. Prima che torniamo per l’incontro di domattina coi nostri extraterrestri».

9

Ripassati un’ultima volta i particolari con Troy, Carol controllò l’orologio. «Sono già le otto e mezzo. Se tardo ancora, s’insospettiranno di sicuro» disse, in piedi accanto alla Pontiac di Nick nel parcheggio del Pelican Resort, un ristorante a meno di un chilometro dalla residenza Ashford di Pelican Point. «Ma lui, dov’è?» si spazientì. «Questa cosa sarebbe dovuta esser finita già da un quarto d’ora.»

«Calma, angelo, calma» disse Troy. «Questo nuovo apparecchio va provato per bene — potrebbe essere importantissimo, in caso d’emergenza — e io è la prima volta che lo adopero veramente.» Poi, con un abbraccio consolatore: «La concezione originaria è dei tuoi amici dell’IOM, sai?».

«Perché poi dovevo essere proprio io a suggerire un’idea tanto balzana…» si disse a voce alta Carol. «Ma dove ce l’hai il cervello, Carol Dawson?»

«Mi sentite?» gracchiò all’improvviso la voce di Nick, che sembrava giungere dal fondo di un pozzo.

«Sì,» rispose Troy in un minuscolo radiotelefono foggiato a ditale «ma non troppo chiaro. A che profondità sei?»

«Due metri e mezzo circa» fu la risposta.

«Scendi a cinque e richiama,» disse Troy «così vediamo se funziona anche nella parte più profonda della caverna.»

«Ma com’è che fa?» chiese Carol, mentre attendevano che Nick effettuasse la discesa.

«È un sistema nuovissimo, inserito nel respiratore» rispose Troy. «Perché funzioni, bisogna parlare mentre si espira. C’è una piccola ricetrasmittente nel boccaglio, con auricolare annesso. Purtroppo, oltre i cinque metri di profondità non funziona granché.»

Quasi un minuto dopo, udirono qualcosa di debolissimo, non riconoscibile come la voce di Nick. Troy ascoltò un istante. «Non riusciamo a sentirti, Nick. Troppa attenuazione. Torna su, adesso. Io, intanto, mando via Carol.» Poi premette un ripetitore sul radiotelefono in modo che il messaggio venisse ritrasmesso più volte.

Porse quindi l’apparecchio principale a Carol. «Bene, angelo: ora sei pronta» disse. «Noi dovremmo essere in acqua alle nove — e fuori, se tutto va bene, mezz’ora dopo. Tienili occupati a forza di domande. Poi lascia la casa entro le dieci e mezzo, al più tardi, e va’ diritta all’appartamento di Nick. T’incontreremo là con la tua giardinetta. E con l’oro, mi auguro» soggiunse, alzando le sopracciglia.

Carol respirò a fondo. «Ho paura» disse a Troy con un sorriso. «Preferirei affrontare un tappeto o magari anche uno di quei guardiani, piuttosto che quel terzetto.» Aprì la portiera dell’auto. «Credi proprio che faccia bene ad andarci con la macchina di Nick? Non li metterà ancor più in sospetto?»

«Oh, dài, angelo, ne abbiamo già parlato due volte» rise Troy, spingendola dolcemente in macchina. «Che siamo amici, lo sanno già, e poi a noi la tua giardinetta serve assolutamente — per l’equipaggiamento, gli zaini, il piombo e l’oro.» Chiuse la portiera e le stampò un leggero bacio sulla guancia attraverso il finestrino. «Sii prudente, angelo. E non correre rischi inutili.»

Carol mise in moto e rinculò al centro del parcheggio. Poi, dopo un cenno di saluto, infilò il vialetto buio che conduceva, attraverso la palude, all’estremità dell’isola. L’unica luce era quella di una luna gibbosa e quasi piena che posava sopra gli alberi. Bene, Dawson: ora ci sei dentro, pensò fra sé. Sta’ calma e apri gli occhi, e vedrai che andrà tutto per il meglio.

Guidò a passo di lumaca, ripassando più volte le mosse concordate per la sera. Poi cominciò a pensare a Nick. È uno che non molla, come me. Continua a odiare Homer e Greta per la fregatura ricevuta. E non vedeva l’ora di immergersi a cercare quell’oro. Con un sorriso, svoltò nel viale circolare d’accesso alla casa di Homer Ashford. Spero proprio che gliene resti ancora un po’.

Una frazione di secondo dopo che lei ebbe suonato il campanello, Homer aprì la porta e la salutò. «È in ritardo,» le disse in tono affabile «e pensavamo già che forse non sarebbe più venuta. Greta è già in piscina. Desidera cambiarsi per raggiungerla?»

«No, grazie, capitano Homer, ho deciso che stasera farò a meno del nuoto» rispose garbatamente Carol. «Apprezzo la gentilezza, ma la mia visita è soprattutto di lavoro, e preferirei cominciare l’intervista prima possibile. Anche prima di cena, se siamo tutti d’accordo.»

Homer la guidò in un gigantesco salone soggiorno e si fermò a un grande banco-bar, sopra il quale spiccava una magnifica scultura lignea, intagliata a mano e lunga sul metro e mezzo, di un Nettuno in atto di nuotare. Carol chiese del vino bianco. E Homer tentò invano di convincerla a prendere qualcòsa di più forte.

Il salone soggiorno aveva un tavolo da biliardo a un capo, e una porta scorrevole a vetri all’altro. La porta dava su un patio coperto che si rastremava verso un vialetto di cemento. Carol seguì Homer in silenzio, sorseggiando il suo vino ogni venti passi o giù di li. Il vialetto si snodava fra grandi alberi e, superato un chiosco ornamentale sulla sinistra, s’allargava attorno a una piscina enorme.

A dire il vero, anzi, le piscine erano due. Davanti a Carol si stendeva una classica piscina olimpionica di forma rettangolare, illuminata a giorno. A un capo, aveva uno scivolo e una cascata, che scendevano in essa da una montagna artificiale; all’altro, verso la seconda piscina e l’oceano, c’era un sistema di getti Jacuzzi fatto con le medesime mattonelle azzurre decorate che rivestivano il bordo della piscina principale. Il complesso era abilmente studiato in modo da dare l’impressione di acqua in movimento: dalla cascata sembrava scendere ininterrottamente acqua nella piscina principale, di dove passava nel sistema Jacuzzi e quindi in un ruscello che si perdeva rivoleggiando in direzione della casa.

La seconda piscina era circolare e scura, e stava alla sinistra di Carol, sul margine della proprietà, accanto a una casetta che aveva l’aspetto di uno spogliatoio. Greta era nella piscina rettangolare davanti a Carol, e faceva vasche, il corpo vigoroso teso a fendere ritmicamente l’acqua. Ottima nuotatrice lei stessa, Carol la osservò per qualche secondo.

«Non è uno spettacolo?» disse, con scoperta ammirazione, Homer, accostandosi. «Non c’è verso che si conceda un bel pranzo, se prima non ha fatto un bel po’ d’esercizio. Non sopporta la ciccia.»

Homer indossava una camicia hawaiana nocciola su un paio di calzoni marrone-chiaro e mocassini marrone, e aveva in mano un bicchierone di liquore strapieno di cubetti di ghiaccio. Sembrava disteso, addirittura affabile, anzi: un’aria da banchiere o alto dirigente in pensione, si disse Carol.

Greta continuava a nuotare imperterrita. Homer si era fatto troppo vicino, e Carol cominciava a sentirsi a disagio, come se le fosse stato invaso il suo spazio. «E dov’è Ellen?» domandò, voltandosi verso di lui e scostandosene insensibilmente.

«In cucina» rispose Homer. «A lei piace cucinare, specialmente quando abbiamo ospiti. E stasera sta preparando uno dei suoi piatti preferiti.» Con una sorta di ammicco nello sguardo, si chinò a bisbigliarle in confidenza: «Mi ha fatto promettere di non dirle nulla, ma sappia che si tratta di un potente afrodisiaco…».

Acc…, si disse Carol, cogliendo una zaffata dell’alito di Homer mescolata a un ghigno lascivo. Come ho potuto scordare quant’è ripugnante ’sto tipo? Ma crede sul serio che… Si fermò a riflettere, e ricordò come le persone con troppo denaro perdessero molto sovente il senso della realtà. Probabilmente alcune donne rispondono. Per quello che lui gli può dare. Le venne quasi un conato di vomito. Il pensiero di un qualunque legame sessuale con Homer era ripugnante sopra ogni cosa.

Greta aveva terminato le sue vasche. Uscita dalla piscina, si asciugò. Il costume da gara, tutto bianco, era una sorta di calzamaglia trasparente. Anche da lontano, Carol non poté evitare di vederle chiaramente capezzoli, seni e ciuffo del pube. Per quello che le serviva il costume, avrebbe potuto benissimo far senza. In piedi accanto a Carol, Homer la osservava imperturbabile venire a grandi passi verso di loro attraverso il cemento.

«Niente costume?» disse Greta quando fu a pochi passi, gli occhi fissi a trapanare Carol. «Mi spiace» continuò, al diniego di lei. «Homer sperava che potessimo fare una gara.» Guardò il capitano con una strana espressione che lei non capì. «Lui adora veder gareggiare le donne.»

«Sarebbe stata tutto meno che una gara» rispose Carol, alla quale parve di vedere Greta irrigidirsi. «Lei nuota infatti in maniera tanto splendida, che avrebbe vinto facilmente» soggiunse.

Greta accettò il complimento con un sorriso. Poi le percorse il corpo con lo sguardo, non facendo minimamente mistero di quello che voleva essere un vero e proprio esame. «Anche lei ha un bel corpo da nuoto» disse quindi. «A parte, forse, un tantino di ciccia sul sedere e l’alto delle cosce. Le suggerirei di esercitare…»

«Perché non mostriamo alla signorina Dawson l’altra piscina, prima che rientri a cambiarti?» interruppe Homer, avviandosi alla casetta sull’oceano. Senza un’altra parola, Greta si voltò e lo seguì. Carol bevve un sorso di vino. Chissà cosa mai succede, in questo posto. Questi tre, sono otto anni che non devono più lavorare per vivere, e portano gente a pescare e a fare immersioni solo per sport. Si sentì invadere da una strana mescolanza di disgusto e depressione. E così si fabbricano il divertimento per non annoiarsi.

Qualche istante dopo l’entrata di Homer nella casetta, sul fondo della seconda piscina si accese una batteria di riflettori. Homer accennò a Carol di affrettarsi, e lei corse dentro. I due la condussero giù per una scala a un corridoio sotterraneo che correva attorno a quello che, nel buio, sembrava una seconda piscina ed era invece un grande acquario di vetro. «Al momento abbiamo sei squali» disse nero Homer «più tre otto rossi, un paio di seppie e, naturalmente, centinaia di specie ittiche e vegetali più comuni.»

«Otto?» fece Carol.

«Sì: gergo per ottòpodi, o piovre» spiegò, con aria saccente e compiaciuta, Homer.

Greta stava con la faccia contro il vetro. Passò una coppia di razze-pipistrello, ma lei aspettava chiaramente qualcos’altro. Dopo una ventina di secondi apparve uno squalo grigiastro, che, sembrando notarla, le si fermò davanti, il muso a un metro e mezzo dal vetro. Carol ne vide i lunghi denti affilati, e lo identificò per un mako, un feroce cugino minore del grande squalo bianco mangiatore di uomini.

«Questo è il cocco di Greta» disse Homer. «Si chiama Timmy, e lei è riuscita a insegnargli a riconoscere la sua faccia contro il vetro.»

Dopo averlo osservato per qualche secondo ancora, continuò: «Ogni tanto lei va lì dentro a nuotarci insieme. Dopo che gli squali hanno finito di mangiare, s’intende».

Lo squalo, là immobile, fissava nella direzione di Greta con sguardo inespressivo. Lei prese allora a tambureggiare con le dita, cadenzatamente, contro il vetro. «Ah, ecco: questo è emozionante» disse Homer, portandosi accanto a Greta e all’acquario. «Lei vedrà ora quella che i biologi definiscono reazione pavloviana tipica. E che, in uno squalo, io stesso non avevo mai visto prima.»

Il mako prese ad agitarsi. Greta aumentò il ritmo, e lui rispose frustando l’acqua avanti e indietro con la coda. Greta sparì di scatto su per le scale, e Carol, quando le schizzò davanti, le vide negli occhi uno sguardo lontano. «Venga più vicino» disse Homer, alla sua aria interrogativa «o perderà lo spettacolo. Greta si occupa personalmente dei conigli e Timmy fa sempre uno scenone.»

Carol non capiva di che cosa lui stesse parlando, ma il bell’acquario, colmo d’acqua di mare cristallina, ovviamente filtrata e riciclata con regolarità, le piaceva proprio. Notò varie specie di corallo e di spugne, così come di ricci e di anemoni. Qualcuno aveva decisamente profuso cure e denaro per ricreare le condizioni delle barriere appena al largo di Key West.

D’un tratto, apparve nell’acquario, in faccia al punto d’osservazione di Carol e Homer, un coniglio bianco, decapitato e impalato su una lunga pertica, il sangue ancora sprizzante dalle arterie. Fu questione di un baleno. Istantaneamente impazzito alla vista del sangue nell’acqua, il mako attaccò, strappando metà del povero coniglio al primo morso e portando via il resto, e spezzando la pertica, al secondo. Carol ebbe a stento il tempo di ritrarsi e girare la testa. Nel farlo, si rovesciò il vino sulla camicetta.

Sforzandosi di apparire calma, cercò un fazzolettino di carta in borsetta per asciugarsi. Non disse una parola. Aveva avuto una vista perfetta dell’attacco dello squalo, e sentiva ancora la scarica di adrenalina provocata dallo spavento. Splendido modo di cominciare una cena, pensava intanto. Perché non ci ho mai pensato? Dawson, questi qui sono degli spostati da brivido.

«Non è spettacolare?» fece Homer, tutto emozionato. «Che potenza nuda e selvaggia, in quelle fauci! E, per stimolo, puro istinto. Non me ne stanco mai!»

Carol lo seguì su per la scala. «Bello, Greta, brava» gli sentì dire mentre uscivano dalla casetta. «Ce l’abbiamo avuto proprio davanti. Due morsi: vàmm, vàmm, e niente più coniglio!»

«Lo so» disse Greta, che aveva in mano una maschera subacquea e, accanto, quello che restava della pertica «ho potuto vedere anch’io da qui.» Intanto, fissava Carol, nel chiaro tentativo di scoprirne la reazione. Carol stornò gli occhi. Non le avrebbe dato la soddisfazione di sapere che lei aveva trovato la cosa ripugnante.

«Greta organizza sempre la cosa al millesimo di secondo» continuò Homer mentre tornavano per il giardino alla casa. «Prepara il coniglio vivo sull’asse da taglio un’ora prima; poi, quando Timmy è pronto…»

Carol cambiò stazione al cervello per non ascoltare altri particolari raccapriccianti. Non voglio ascoltare oltre, si disse, dando un’occhiata all’orologio. Le nove e dieci. Forza, ragazzi, fate in fretta! Perché non so se potrò reggere per un’altra ora a questa gente.


Nick e Troy nuotavano silenziosamente lungo la spiaggia sotto la luna. Avevano ripassato il piano con cura. Niente luci sinché non fossero nell’insenatura accanto alla proprietà di Homer: Troy in testa, col compito di localizzare e disattivare i sistemi d’allarme per mezzo degli attrezzi stipati nelle tasche della muta, e di segnalare i famigerati robot-sentinella; Nick in coda, con le borse galleggianti in cui mettere l’oro.

Indossate le pesanti mute subacque e presi gli zaini, avevano lasciato il parcheggio del Pelican Resort e costeggiato a piedi la spiaggia fino a un centinaio di metri dalla solida rete che cingeva la proprietà di Homer. Qui avevano posato gli zaini, contenenti i vestiti, ed erano scivolati in acqua. Durante il percorso, Troy aveva avuto diversi problemi coi suoi attrezzi, e la decisione di ridurre l’arsenale di congegni aveva causato un ritardo di cinque minuti sul tempo d’immersione previsto. Poco prima di entrare in acqua, Nick aveva avuto un insolito guizzo emotivo. «Spero che ’sto cazzo di oro ci sia proprio» aveva detto, afferrando Troy per le spalle. «Perché non vedo l’ora di vedere le loro facce quando gliel’avremo fregato!»

Era tempo di immergersi. Tenendosi per mano nel buio, Nick e Troy scesero a circa un metro e mezzo, si fermarono a equilibrare la pressione, e ripresero la discesa. Quando furono a tre metri, Troy accese la torcia subacquea. Un rapido orientamento, poi, aggirata la punta, si addentrarono nell’insenatura adiacente alla proprietà di Homer.

Troy, che nuotava in testa, non ebbe difficoltà a trovare l’entrata della galleria naturale che conduceva alla caverna sotterranea. Come concordato, Nick attese all’imbocco della galleria, davanti alla scogliera, mentre Troy entrava alla ricerca degli allarmi. L’imbocco della galleria era largo circa un metro e mezzo e alto poco più di uno. Una volta all’interno, Troy avvistò immediatamente una scatola metallica fissata alla parete sinistra e parzialmente nascosta. Esaminandola, scoprì che emetteva due raggi laser separati fra loro di una novantina di centimetri.

Le placche collettrici dei raggi e gli allarmi elettronici stavano all’altro capo della galleria naturale. Troy avanzò con cautela, estrasse il cacciavite, e smontò l’incasso. Il sistema era semplicissimo. Ciascuna delle due placche aveva un relè che si apriva all’interruzione del raggio, e la corrente fluiva all’allarme quando fossero aperti entrambi. Perché l’allarme venisse azionato, occorreva quindi l’interruzione simultanea di entrambi i raggi. Sorridendo fra sé, Troy verificò il principio operativo passando la mano davanti a uno dei raggi, e bloccò quindi uno dei relè sul chiuso. Dopodiché si assicurò dell’avvenuta disattivazione del sistema d’allarme nuotando avanti e indietro nella galleria e interrompendo contemporaneamente i due raggi.

Tornato da Nick, gli diede il segnale di pollice ritto. Insieme percorsero i cinquanta metri di galleria e approdarono nella caverna sotterranea. Nel punto in cui lo stretto cunicolo si restringeva, Troy segnalò di nuovo a Nick di fermarsi mentre lui esplorava la caverna alla ricerca di trappole. Nick posò i piedi sul fondo della galleria e accese la piccola torcia che aveva con sé. Posto d’imboscata ideale: tanto stretto da non lasciar praticamente alcuno spazio di manovra… Che posto per morire, pensò a un tratto, preso da paura. Spense la torcia e guardò l’orologio fosforescente, rimanendo a fissare per un minuto intero la lancetta dei secondi. Si sforzò di calmarsi. Erano tre minuti che Troy era via. Perché ci mette tanto?, si domandò. Deve aver trovato qualcosa. Passò un altro minuto, e un altro ancora. E lui faticava a dominare un principio di panico. Che faccio se non torna?

Proprio nell’istante in cui decideva di entrare a sua volta nella caverna, avvistò la torcia di Troy in avvicinamento. Troy gli fece segno e lui lo seguì. In trenta secondi furono nella parte bassa della caverna, dove l’acqua era profonda solo poco più di un metro. Si alzarono in piedi, le pinne inserite fra le rocce per contrastare il risucchio intermittente ed evitare quindi possibili cadute.

Nick si tolse il boccaglio e alzò la maschera. Prima che aprisse bocca, Troy gli posò un dito sulle labbra, sussurrandogli quasi inintellegibilmente: «Parla pianissimo. Potrebbero esserci dei fonoallarmi».

L’unica luce della caverna era la torcia di Troy, che però illuminò, nei punti più alti della volta, due serie separate di tubi fluorescenti. La caverna era un ovale irregolare, con un’estensione longitudinale massima di una trentina di metri e un diametro massimo sui quindici. La volta, alta solo una novantina di centimetri presso l’imbocco della galleria oceanica, saliva ai sei metri nel punto d’acqua bassa in cui stavano ora Nick e Troy.

«Be’, professore» riprese a sussurrare Troy «ho una notizia buona e una cattiva. La cattiva è che qui dentro non c’è ombra di tesoro; la buona, che ci sono due altri cunicoli, entrambi artificiali, che partono da qui e passano sotto la proprietà del capitano Homer.» Una pausa, poi, osservando il compagno, disse: «Allora, li proviamo?».

Nick consultò l’orologio — già le nove e venti — e assentì. «Quel bastardo ha speso un sacco di soldi qua sotto. Dunque, devono avermi rubato più di quanto non immaginassi.» E riaggiustò la muta.

«Cominciamo dal cunicolo sinistro, con me in testa per l’avvistamento-guai, come prima» disse Troy, sventagliando la volta con la torcia. «Strano posto, questo, ma bello, però. Sembra un altro pianeta, no?»

Nick si riabbassò la maschera e reinfilò il boccaglio, poi tornò in acqua, seguito da Troy. Una volta sotto, questi gli indicò la strada del primo cunicolo artificiale, che si trovava all’estremità opposta della caverna, a una profondità massima di poco più di tre metri e mezzo. Il cunicolo era un normale tubo circolare fognario, il cui diametro sul metro e mezzo corrispondeva grosso modo a quello della galleria naturale fra l’oceano e la caverna. Troy vi entrò con circospezione, nuotando avanti e indietro da una parte all’altra per esaminare qualche metro dell’una e poi dell’altra parete. E per poco non mancò l’allarme: una scatola lunga e sottile, incastonata nella parte alta di una giuntura fra due sezioni di tubo. La vide, alzando gli occhi, un istante prima di finire nel suo raggio.

Questo sistema era basato su un principio diverso. La scatola in alto era dotata di un congegno ottico, telecamera o altro, che riprendeva immagini continue di un quadrato di trenta centimetri di lato della parte inferiore del tubo; quadrato a sua volta ingegnosamente illuminato, da sotto, da una sezione luminosa nascosta nel fondo di normale cemento. Il processore d’allarme conteneva manifestamente un algoritmo di comparazione dei dati, che, scrutinando secondo una certa logica la sequenza di immagini, azionava l’allarme a una data soglia di pericolo. Era il congegno più complesso che Troy avesse mai visto — e presentava chiare somiglianze col telescopio oceanico di Carol. Ciò significa che è stato progettato e sviluppato dall’IOM, pensò, e quindi sarà meglio andarci coi piedi di piombo. Anche perché mi sa che l’algoritmo è congegnato in modo da far scattare l’allarme anche al minimo disturbo della telecamera.

Nick, che si era fatto da parte per non essergli d’impaccio, lo osservò tentare di aprire la scatola senza disturbarne lo strumento ottico. Il cerchio connettivo delle due sezioni di tubo presentava in quel punto una scanalatura continua di circa cinque centimetri, ossia della larghezza necessaria all’alloggiamento della scatola. Per il resto, le sezioni erano tutte cementate. Perché, dunque, tale discontinuità?

Strano, pensò Nick, spazzando intanto con la piccola torcia l’oscurità alle sue spalle e aspettandosi di vedere nient’altro che una parete rocciosa. E quello che accidenti è?, si chiese, inquadrando un oggetto metallico somigliante a una grossa griglia e posato sopra un vecchio pezzo di binario da ferrovia. Osservò più attentamente. Una scatola d’ingranaggi, delle carrucole… E a cosa servivano, come si combinavano?

Troy, nel frattempo, era riuscito a smontare l’incasso della scatola senza disturbare la telecamera e si sforzava di capire il funzionamento interno del sistema d’allarme. Troppo complicato per arrivarci in cinque minuti, pensò. Dovrebbe essere sufficiente isolare l’allarme, comunque. Lavorare sott’acqua era duro, ma lui era pratico e, inoltre, le parti elettroniche erano impaccate secondo logica. Riuscì così a trovare l’allarme e disattivarlo. Dopodiché indugiò qualche secondo a tentar di capire la funzione degli altri circuiti collegati all’unità d’allarme.

Nick gli avrebbe voluto mostrare ciò che aveva trovato nella scanalatura, ma poi, nell’osservarlo armeggiare coi complessi circuiti della scatola, tornò a preoccuparsi del tempo. Quasi un quarto alle dieci, ormai! Attirando il suo sguardo, gli indicò l’orologio. Troy abbandonò suo malgrado lo studio dell’allarme e procedette lungo il cunicolo.

Trenta metri più avanti, questo passava davanti a quello che sembrava, sulla sinistra, un portello — grande, massiccio e rotondo — di sottomarino. Sia Troy che Nick provarono a tirarne la maniglia, ma senza risultato. Troy fece segno a Nick di continuare a tirare mentre lui discendeva il cunicolo.

I lingotti d’oro e gli altri oggetti superstiti del tesoro della Santa Rosa stavano nel cunicolo, trenta metri oltre il portello tondo. Il cunicolo terminava a sua volta bruscamente contro una parete di roccia. Dinnanzi a questa, per tutta la larghezza del cunicolo, si allineava, per una profondità media di una trentina di centimetri, una serie di oggetti d’oro e d’argento. Il tesoro non era minimamente nascosto, bensì sparso qua e là a mucchi sul pavimento di cemento in fondo al cunicolo. Troy lo contemplò estatico. Che mucchio! Ce n’è abbastanza per gli alieni, per Nick e, volendo, anche un po’ per Carol e per me, pensò.

Tornò a cercare Nick, che, esultante alla vista di quel suo sorriso, lo aggirò in un guizzo per andare a vedere. Giunto davanti al tesoro, dedicò un paio di minuti a nuotargli intorno e a sollevare e riposare sul pavimento questo o quell’oggetto diverso.

Vacca merda, si disse compiaciuto, mentre procedeva con Troy a infilare i lingotti d’oro nelle borse galleggianti. Una volta tanto, ho avuto ragione io! Solo in lingotti, qui c’è roba per oltre mezzo quintale. Prima dell’immersione avevano concordato di asportare solo i lingotti, se fossero stati di peso sufficiente, anche perché erano gli unici oggetti di cui potessero essere sicuri che fossero d’oro puro. Anche portandone cinquantotto agli amici di Troy, ne dovrebbero restare una cinquantina per noi. Poi, dopo un rapido calcolo mentale: Ciò che potrebbe fare più di trecentomila dollari a testa. Uhéee…

In preda alla gioia e all’emozione, Nick faticava a contenersi. Aveva voglia di cantare, ballare, saltare di gioia. Aveva avuto ragione lui, dopo tutto! Quei bastardi gli avevano davvero rubato il grosso del tesoro, e ora lui lo stava rirubando a loro… Nessuna felicità maggiore del raddrizzare un vecchio e doloroso torto subito — e con spavalderia!… Era la sua giornata, e già la festeggiava dentro di sé.

Il riempimento delle borse fu questione di un baleno, perché entrambi si sentivano carichi di un’energia infinita. Terminata l’operazione, Troy fece segno di tornare. Nick guardò gli oggetti rimasti sul pavimento. Dovremmo prendere tutto, e lasciare Homer e Greta senza niente, ma proprio niente, pensò. Ma bisognava essere pratici: le borse erano praticamente zeppe, e sarebbero già state un peso anche così.

Nick si avviò dunque verso l’oceano, la borsa galleggiante piena d’oro legata a una corda dietro di sé. Troy lo seguì. Nel passare la massiccia porta ora sulla destra, Troy si sorprese a ripensare al complesso di circuiti della scatola d’allarme poco innanzi, tra le due sezioni di tubo. Ma per cosa saranno gli altri collegamenti? Improvvisamente ricordò di aver visto, su una rivista di elettronica, un diagramma di certi temporizzatori avanzati in grado di reinizializzare i sistemi e di scambiare le parti malfunzionanti. Se tale era il caso di quel sistema, allora la componente da lui disattivata poteva essere stata dichiarata non funzionante dal processore intelligente della scatola, e quindi o rimpiazzata da una parte soprannumeraria o ignorata dal sistema. Nell’un caso come nell’altro, ciò significa che il sistema potrebbe esser tornato attivo, pensò.

Ma il suo pensiero arrivò troppo tardi. Nick entrò infatti nel campo visivo dello strumento ottico e il cunicolo si accese di luci per l’intera lunghezza, mentre un cancello metallico prendeva a chiudersi alle sue spalle dietro la borsa dell’oro. Con uno scatto di reni, Troy si proiettò oltre il cancello prima che si chiudesse del tutto, ma lasciando al di qua la sua borsa di lingotti.

Nick guardò la borsa perduta calare sul fondo, e allungò le braccia fra le sbarre ad afferrarla. Tentò di farla passare attraverso, ma invano. Scrollò il cancello, ma il metallo era solidissimo. Furioso e frustrato, lo prese a pugni. Nel riprender fiato tra un pugno e uno scrollone, avvertì un misterioso ronzìo, come di motore, lontano alle sue spalle. Si girò per cercare Troy, ma non lo vide da nessuna parte.

Sfinito dallo sprint cui si era sottoposto per passare attraverso il cancello in chiusura, Troy si era lasciato cadere sul fondo della piscina nella parte più profonda della caverna, a mezza strada fra i due cunicoli artificiali. Qui, dopo aver respirato a fondo varie volte dal boccaglio, aveva dato una controllata alla riserva d’ossigeno. Gliene restava per una decina di minuti. Osservando per un momento Nick, quasi fuori vista sulla destra, che s’arrabattava invano per recuperargli la borsa, aveva pensato: Oh, merda, se solo avessi riflettuto! Avrei dovuto saperlo… E, a questo punto, aveva udito un suono sulla sinistra. Incuriosito, si era spostato all’imbocco del secondo cunicolo — ed era finito sul sentiero del robot-sentinella.

Nonostante che la distanza originaria fra questo e lui fosse di oltre quindici metri, il meccanismo di guida dell’ordigno puntò su di lui nell’istante della sua comparsa. Sorpreso e affascinato, Troy non pensò sulle prime a sottrarsi all’avanzata del robot-sentinella — una specie di sottomarino a forma di pallottola, lungo circa un metro e largo una trentina di centimetri nel punto più ampio. Giunta a circa due metri e mezzo, la sentinella armò lentamente, e quindi sparò, una potente fiocina, grande quanto un coltello da tavola, che Troy schivò di misura e che centrò la parete a fianco.

Un empito di adrenalina nelle vene, Troy schizzò via verso il centro della piscina. La sentinella, anziché seguirlo, si spostò davanti all’imbocco della galleria naturale verso l’oceano, tagliando così la via di fuga, e intraprese quindi una ricerca sistematica della piscina. Maledizione, perche non me ne sono andato quando potevo?, pensò Troy, chiedendosi nel contempo se Nick fosse ancora al cancello.

La sentinella, intanto, aveva trovato nel suo campo visivo proprio Nick, che, del tutto inconsapevole della sua presenza, veniva lentamente verso l’uscita con la sua borsa galleggiante. Quando avvistò la sentinella, era ormai a meno di cinque metri e a facile portata del suo fucile subacqueo. Troy vide la sentinella armare il fucile. Oh, no! Attento, Nick, attento!, gridò a se stesso, non potendo far altro.

Accadde così in fretta, che né l’uno né l’altro seppero dire come fosse precisamente andata. Troy avrebbe successivamente dichiarato di aver provato a un tratto un caldo pizzicore al polso e di aver visto scaturire dal braccialetto un qualcosa — raggio luminoso? laser? plasma? — che aveva ridotto la sentinella al silenzio e all’immobilità. Come che fosse, la sentinella cessò ogni attività e, immediatamente dopo, i due uomini nuotavano insieme oltre la parte bassa della caverna. Momentaneamente salvi.


Carol non sapeva capacitarsi di ostriche tanto grosse e succulente. Seduta dirimpetto a lei, all’altro capo della tavola, Ellen era raggiante d’orgoglio. «Un altro po’, cara?» la invitò con un sorriso, sollevando l’enorme zuppiera di ostriche stufate. Un’altra porzione, dopo il pesce gatto con Nick. Greta ne avrebbe ribrezzo, pensò Carol, sorridendo fra sé e facendo di sì col capo. Una cosa, almeno, aveva imparato quella sera: che Ellen era senza dubbio una cuoca coi fiocchi.

E di una tristezza senza pari, anche, pensò, versandosi un altro po’ del pepato intingolo ricco di favolose ostriche Appalichicola. Homer aveva risposto di persona a tutte le domande nei venti minuti d’intervista prima di cena. Nei punti controversi o delicati, come quando Carol aveva chiesto spiegazioni circa le accuse rivolte ai tre di aver segretamente sottratto e nascosto parte del tesoro, s’era limitato a guardare Greta prima di rispondere. Per forza che Ellen non fa che mangiare: è il terzo incomodo!

«Favoloso, questo stufato» disse Carol a Ellen. «Mi farebbe la cortesia di darmi la ricetta!»

«E come no, cara,» disse, felice, Ellen «con piacere!» Al pensiero dell’allusione di Dale alla condotta di Ellen al banchetto di premiazione dell’IOM, Carol si domandò se il calore di lei non contenesse in effetti una componente sessuale. No, io non ce la vedo proprio, decise. È soltanto una donna che soffre di solitudine e di gravi squilibri. No, di tensione sessuale, io non sento proprio traccia.

«Visto che per tutta la sera le domande le ha fatte lei, signorina Dawson, perché adesso non se ne lascia fare qualcuna da noi?» disse Homer, che, dopo il bizzarro aperitivo dello squalo, si era mostrato sorprendentemente amabile e pacato. Già, bisogna pure che siano normali, ogni tanto, pensò Carol, o non sopravviverebbero. Ma il signor Hyde tornerà fuori, prima o poi…

«Ja» disse Greta, rivolgendole per la prima volta la parola dall’inizio della cena. «Homer mi ha detto che lei sta col dottor Dale. Siete amanti, no?»

Certo che non sei una che ci gira in giro!, pensò Carol, che, evadendo un po’ la domanda, rispose: «Dale Michaels e io siamo ottimi amici. Passiamo parecchio tempo insieme, socialmente e professionalmente».

«È un uomo astuto» disse Greta, un sorriso all’angolo delle labbra e gli occhi chiari fissi su di lei. Ma che cosa sta tentando di dirmi?

La conversazione venne interrotta da un acuto squillo d’allarme. Carol si rese conto all’istante che doveva essere andato storto qualcosa. «E questo, cos’è?» domandò in tono innocente, mentre l’allarme non cessava di echeggiare a tutta forza.

Homer e Greta erano già scattati in piedi. «Ci scusi» disse lui «è il nostro antifurto di casa. Ci dev’essere stato qualche guasto. Ora andiamo a controllare.»

Uscirono in fretta dalla sala da pranzo lasciando sole Carol ed Ellen, e infilarono un corridoio vicino. Bisogna che li segua per scoprire cosa succede, pensò Carol, cervello e cuore in tumulto. Un’occhiata furtiva all’orologio le rivelò che erano le dieci e cinque. Dovrebbero aver finito, ormai. «Vado un attimo in bagno» disse a Ellen. «No, non si disturbi» soggiunse, vedendola accingersi a darle spiegazioni «lo troverò certo da sola.»

Uscì in fretta nel corridoio e tese l’orecchio al rumore dei passi di Homer e Greta. Muovendosi col massimo silenzio, li seguì fino all’esterno di un grande sottoscala all’altra estremità della casa. La porta era spalancata. «Sarà a fuoco in un momento» sentì dire a Homer. Poi, dopo una pausa: «Vacca merda,» lo sentì gridare «sembra che i lingotti d’oro siano già spariti! Devono essersi mossi molto in fretta. L’immagine non è molto chiara. Ecco, da’ un’occhiata.»

«Ja» disse Greta. «I lingotti sono spariti, credo… Ma l’oro dev’essere molto pesante, Homer, e quindi forse i ladri sono intrappolati nel cunicolo… Potremmo mandare Timmy a cercarli.»

«Già, lui li concerebbe per bene, quei bastardi.» La risata nervosa di Homer le fece correre un brivido lungo la schiena. Lentamente, tornò verso l’atrio della casa, mentre dal sottoscala le giungeva lo sbattere di una porta esterna. Sono usciti a liberare gli squali. Gesù, devo assolutamente avvertire Nick e Troy!

Entrata nel bagno più vicino, chiuse la porta con un calcio e aprì il rubinetto. Poi, tirato lo sciaquone, staccò il piccolo radiotelefono da sotto la camicetta e se lo portò alle labbra. «Mayday, Mayday! Sanno che siete laggiù! Siete in pericolo!» Ripetuto il messaggio, premette il tasto che lo avrebbe a sua volta ripetuto più volte automaticamente. E speriamo che ’sto maledetto aggeggio funzioni sul serio!, pensò.

Si mise quindi a rifissare il minuscolo radiotelefono all’interno della camicetta e, nel farlo, alzò per caso gli occhi allo specchio. Ebbe quasi un colpo. Ferma sulla porta stava Ellen, che la fissava. L’espressione minacciosa degli occhi diceva chiaramente che aveva visto e sentito tutto. Fece un passo in avanti.

«Ferma lì, Ellen» disse Carol, alzando le mani. «Io non ho niente contro di te.» La grassona esitò. «Homer e Greta non fanno che sfruttarti, del resto» soggiunse piano. «Perché dunque non li lasci e non ti fai una vita tua?»

Il viso di Ellen si torse di collera. Occhi stretti, guance rosse, Ellen brandì i grossi pugni con gesto di minaccia. «La mia vita non è affar tuo» sibilò, facendo un altro passo avanti.

Carol afferrò il grosso portasciugamani accanto a sé e tirò con ogni forza. La sbarra si staccò dalla parete, facendo cadere sul pavimento di linoleum due asciugamani da bagno color pesca e il tassello terminale di legno. «Non mi costringere a colpirti!» disse Carol, brandendola alta sopra la testa. «Fatti da parte e lasciami passare.»

Ellen non si fermò. Carol mirò con cura e la colpì forte sulla spalla destra, abbattendola. «Greta» gemette la grassona con voce mostruosa. «Greta, aiuto!»

La sbarra sempre brandita, Carol la contornò con cautela e rinculò verso la porta. Una volta in corridoio, si slanciò verso il salone soggiorno e la porta d’ingresso. All’altezza del banconebar, si sentì afferrare le gambe da dietro e cadde lunga distesa, schiacciandosi il naso sul tappeto. Tentò di svincolarsi dalla presa di Greta, ma senza risultato. Era inchiodata. Dal naso le colarono alcune gocce di sangue che finirono sul tappeto.

Entrambe respiravano ora affannosamente. Carol riuscì a girarsi in modo da avere Greta di fronte. Si divincolò ancora per liberarsi, ma invano: quelle forti braccia le tenevano i polsi inchiodati al pavimento. Poi Greta si chinò fino a portarsi a pochi centimetri dal suo viso. «Tu cercafi di antartene, ja?, ma perché tanta fretta, eh?»

Negli occhi di Greta c’era qualcosa di felino. D’istinto, Carol sollevò la testa e la baciò in piena bocca. Sbalordita, l’assalitrice rilassò un istante le braccia — quanto bastò a Carol, che, raccolta ogni forza, le sferrò un colpo alla tempia col duro della palma, stordendola. Dopodiché, spintala da parte, scattò verso la porta.

Nello slanciarsi fuori e giù per gli scalini, calcolava già: Greta sarà in piedi in un baleno. Non avrò tempo di aprire la portiera della macchina. Meglio affidarsi alle gambe.

Quando Carol svoltò nel vialetto che conduceva dalla casa di Homer al Pelican Resort, la tedesca le era difatti ormai a una quindicina di metri dietro, e guadagnava a ogni passo. Per dieci anni ho corso tre volte la settimana, ma questa è l’unica volta in cui lo faccio per la pelle! Tentò di aumentare l’andatura, ma Greta continuava a guadagnare, e sembrava che la dovesse raggiungere da un momento all’altro. A un certo punto, anzi, le parve addirittura di sentirne la mano sulla camicetta.

Ma, dopo circa duecento metri, Greta cominciò a restare indietro. A quattrocento metri dal viale d’accesso della casa di Homer, Carol arrischiò un’occhiata alle spalle. La sua inseguitrice stava chiaramente perdendo il fiato ed era ormai a cinquanta metri. Carol sentì un nuovo empito d’energia. Ce la faccio! Sì, ce la faccio!

Greta scese al passo. Anche Carol, alla fine, ma solo quando fu quasi al ristorante, e anche allora continuò a guardarsi alle spalle, tentando di distinguere l’antagonista sotto la luce lunare. Ora chiamerò un tassì, e andrò all’appartamento di Nick. Speriamo solo che abbiano ricevuto il mio allarme e sia andato tutto bene.

Greta non si vedeva più. Si fermò e aguzzò gli occhi. Sarà tornata indietro, pensò. Mentre guardava così lungo il vialetto, si sentì ghermire le spalle da un paio di mani robuste. Si girò, e si trovò faccia a faccia con un sogghignante tenente Todd.

10

Il capitano Winters aspettò di proposito che il resto degli attori lasciasse lo spogliatoio. Il pacchetto era una cosa discreta, grande suppergiù quanto una saponetta, in carta bianca con un nastro rosso scuro. Non sai nemmeno se viene da lei, si disse nello sfilare il nodo. Si sentiva colmo di aspettativa. Lo spettacolo era stato ancora migliore, quella sera. E, nella scena della camera da letto, lui aveva avvertito, per un fuggevole secondo, il tocco della lingua di Tiffani contro le labbra. Questo non rientrava nel copione, si disse, sospendendo per un istante ogni traccia di senso di colpa.

Aprì il pacchetto con mani leggermente tremanti. Era una comune scatoletta bianca, e conteneva un accendino d’argento, semplice ma bello, con le iniziali VW incise sul fondo. Allora prova anche lei ciò che provo io!, pensò, il cuore in tumulto, una vampa di desiderio nel ventre. E immaginò una scena dell’immediato futuro, a tre o quattro ore di distanza. Portava a casa Tiffani e si baciavano sulla porta d’ingresso. «Non vuoi entrare?» diceva lei…

«Mi sento bella… oh, tanto bella… Bella mi sento e spiritosa e gaia…» la sentì arrivare cantando giù per il corridoio. Tiffani aprì la porta del camerino e fece una piroetta. I capelli raccolti alti sulla testa accentuavano il profilo elegante del collo, e la filigrana d’oro in cresta al pettine regalatole da lui si fondeva in maniera perfetta col biondo-ramato. Il vestito bianco era scollato, e, salvo che per le bretelline laterali, lasciava scoperte le spalle.

«Be’?» fece lei, con un gran sorriso che cercava il complimento, girando un’altra volta su se stessa. «Che ne dici?»

«Che sei proprio bella, Tiffani» rispose lui, fissandola con tale intensità da farla arrossire.

«Oh, Vernon,» sospirò lei, cambiando d’umore «i pettini sono una meraviglia.» Presa una sigaretta dal pacchetto di lui sulla toeletta, se l’accese con l’accendino nuovo. Poi, dopo aver aspirato profondamente, gli occhi fissi in quelli di lui, la posò in un portacenere mormorando: «Non so proprio come ringraziarti».

Gli s’avvicinò e gli prese le mani. «Un’altra serata meravigliosa.» Poi, allungandogli la sinistra dietro la nuca, si drizzò a baciarlo. Winters si sentì il cuore vicino a esplodere, e lei poté sentirne l’eccitazione nel posargli dolcemente le labbra sulle sue. Gli tirò la testa più giù, aumentando per gradi la pressione del bacio, e lui finì per abbracciarla e stringerne il corpo a sé.

In quel momento, il capitano Winters pensò di star per annegare nel piacere di quel bacio. Mai aveva provato un desiderio simile, e sarebbe stato felice di morire l’indomani, se solo avesse potuto continuare a baciare Tiffani per tutta la notte. Per un istante, mentre si abbandonava completamente all’ondata di gioia, amore e desiderio, dimenticò la disperazione e ogni suo affanno, ed ebbe voglia d’una cosa sola: avvolgersi attorno a Tiffani, chiudersela, per così dire, come con una cerniera entro la pelle, ed estraniarsi da ogni cosa dell’universo.

Melvin e Marc stavano venendo al camerino in cerca di lui. Si avvicinarono tutt’altro che furtivamente o in silenzio, ma né Tiffani né lui si accorsero del loro arrivo. I due uomini videro così, attraverso la porta aperta, la coppia intenta a baciarsi. Si guardarono e, d’istinto, si toccarono fuggevolmente la mano. Conoscevano per esperienza le difficoltà degli amori non convenzionali…

Tiffani e Winters staccarono finalmente le labbra, e Tiffani, che dava la schiena alla porta, posò la testa sul petto del capitano. Questi aprì gli occhi e si vide davanti Melvin e Marc. Sbiancò, ma il regista gli fece un cenno come a dire: «Non importa. Sono affari vostri, non nostri».

Per delicatezza, Melvin e Marc attesero diversi secondi, così da far sembrare che fossero arrivati dopo il bacio. Winters diede un buffetto sulla spalla a Tiffani e la fece girare con gesto paterno. «Gran bello spettacolo, comandante» disse Melvin entrando. «E un’altra superesibizione da parte tua, signorina!» Tacque. Marc espresse i propri complimenti con un sorriso, e Tiffani si riaggiustò inconsapevolmente il vestito. «C’è fuori un certo tenente Todd che l’aspetta, comandante» soggiunse Melvin. «Dice che è urgente, e mi ha chiesto di dirle di affrettarsi.»

Il viso di Winters si contrasse in una smorfia. Ma che accidenti è venuto a fare, qui? pensò. E alle dieci passate di un sabato sera, per giunta! «Grazie, Melvin» rispose. «Gli dica che uscirò fra qualche minuto.»

Il regista e il suo amico si voltarono e uscirono dal camerino. Tiffani allungò il braccio a riprendere la sigaretta, la cui cenere s’era allungata tanto da cadere quasi dal portacenere. Dopo una boccata, la porse a Winters. «Ci hanno visti baciarci?» chiese ansiosa.

«No,» mentì lui, non senza avere immediata coscienza di quanto insostenibile fosse la sua fantasia. Ah, Tiffani, tesoro mio, amore mio adolescente, pensò. Abbiamo avuto fortuna, ma non inganniamoci da noi. Prima o poi, verremo inevitabilmente visti. La guardò negli occhi e vide la fiamma della passione adolescente. Di nuovo gli salì il desiderio. Abbassò le braccia e la tirò con forza a sé. E se verremo visti dalla persona sbagliata, sarà per me un rischio senza limiti, pensò, le labbra brucianti del bacio di lei.


Winters gettò a terra la sigaretta e la schiacciò col piede. Poi, scuotendo incredulo la testa, esclamò: «E lei mi viene a dire di aver arrestato quei tre e di tenerli in stato di detenzione alla base?».

Il tenente Todd rimase confuso. «Ma, signor comandante, non capisce? Abbiamo una serie intera di fotografie, su tre delle quali si vede chiaramente il mìssile! E altre mostrano il nero in una specie di laboratorio sottomarino che sta proprio là nell’oceano. È proprio come pensavo io, insomma. E di che altro avevamo bisogno? In più, li abbiamo colti sul fatto, mentre rientravano da un’immersione con ventidue chili — dico: ventidue chili! — d’oro negli zaini.»

Winters si girò e, rientrando in teatro, disse, nauseato: «Torni alla base, tenente. Arrivo fra cinque minuti».

Melvin e Marc, chiaramente, non aspettavano che lui e Tiffani per chiudere il teatro e andare alla festa. «Può portarla lei, Melvin?» chiese Winters. «Alla base è accaduto un grosso pasticcio, e pare proprio che tocchi a me andare a sistemarlo.» La conversazione con Todd aveva avuto un duplice, salutare effetto. Per prima cosa, gli aveva ricordato che esisteva un mondo reale, fuori dal teatro — un mondo che non avrebbe visto di buon occhio una relazione sessuale fra un quarantatreenne capitano di fregata e una liceale diciassettenne. Per seconda, che il pensiero di Tiffani si era riflesso negativamente sul suo lavoro, se un Todd aveva potuto arrestare e trattenere tre civili, fra cui una giornalista famosa. Questa era una faccenda da tenere costantemente sotto controllo, non da lasciar andare così, pensò. Ma, d’ora innanzi, quel tenente non muoverà un dito senza il mio personale permesso.

«Mi rincresce, Tiffani» disse in tono paterno, dopo un ambiguo abbraccio e un leggero bacio sul capo. «Verrò alla festa non appena mi sarò liberato.»

«Sbrigati, o perderai lo champagne» disse Tiffani con un sorriso. Melvin spense le luci del teatro, e tutt’e quattro si avviarono alla porta.

Winters, che aveva parcheggiato la macchina a quasi un isolato di distanza, salutò a gesti Tiffani che saliva in quella di Melvin. Mi domando se lo saprai mai, signorina, pensò. Se saprai mai quanto sia stato vicino a buttar all’aria tutto, stasera… Dentro di sé, si rivide ventiquattr’anni prima, in una fredda notte alla periferia di Filadelfia, quando, impazzito, aveva praticamente violentato Joanna Carr. Avviò la Pontiac e si staccò dal marciapiede. Sarebbe facile: dimenticare, per una volta, regole e remore, tuffarsi nell’acqua senza prima guardare… Ricordò il patto con Dio dopo la notte con Joanna. Tu hai mantenuto la tua parte di contratto, direi. E io sono diventato un ufficiale e un gentiluomo. E un assassino.

Con un sussulto, svoltò dopo il chiassoso Miyako Gardens e si diresse alla base, sforzandosi al massimo di non pensare oltre a Tiffani, a Joanna e al sesso. Non bastava questa prova con Tiffani: ci voleva anche ’sto reazionario di un tenente che, per dimostrare la sua bullaggine, mi maltratta dei civili…

Si arrestò a un semaforo. E qui, piano piano, cominciò a rendersi conto in pieno della portata delle parole di Todd. Oggesù, c’è caso che sia nei guai anch’io! Violazione di domicilio, fermo illegale: gli sbatteranno in faccia il codice, a Todd… Attraversò lentamente l’incrocio e si accese meccanicamente una sigaretta. Meglio che faccia delle scuse, insomma. Sennonché, quella Dawson è una giornalista, porca vacca! Il che significa brutte notizie, ma brutte tanto…

Era arrivato. Un cenno alla guardia e si diresse verso l’edificio in cui Todd aveva detto che era detenuto il trio, un edificio bianco, senza nulla di speciale, situato su un rialzo del terreno a circa quattro metri e mezzo dal piano stradale. Sul margine della strada attendeva, nervoso, il tenente Roberto Ramirez, che aveva in mano due buste grandi e gonfie. Al suo arrivo, Ramirez si voltò a gridar qualcosa verso la porta. Dopo un istante, uscì Todd, che, richiusa a chiave con cura la porta, scese gli scalini e venne verso i due ufficiali. Arrivò che già Ramirez stava mostrando le foto a Winters. I tre uomini ebbero una breve, ma animata discussione.


«Allora, cos’è successo dopo che avete ricevuto il mio avvertimento?» chiese Carol agli altri due non appena fu uscito Todd. Non avevano infatti avuto molte occasioni di parlarsi, dal momento in cui Todd e Ramirez li avevano arrestati nel parcheggio del Pelican Resort.

«Troy era pronto a battersela» rise Nick. «Ma io ho pensato che il tuo avvertimento si riferisse unicamente al robot-sentinella, e siccome erano ormai parecchi minuti che se ne stava tranquillo, ho immaginato che non avessimo più niente da temere. Così, sempre incazzato per la seconda borsa di lingotti, sono tornato al cancello.

«Ora, concentrato com’ero per trovare il modo di far passare al di qua la borsa, non ho più badato ad altro, evidentemente, finché, d’un tratto, non mi sono sentito strappare indietro da Troy. Un secondo dopo o giù di lì, due o tre squali, fra cui un mako, sono venuti a sbattere con tale forza contro il cancello, che io mi son detto: Adesso vola in pezzi!»

«Brutte bestie davvero, quegli squali, angelo» interloquì Troy. «E sceme, anche. Quello grosso, infatti, ha cozzato contro il cancello almeno una dozzina di volte, prima di cedere.»

«La borsa galleggiante con l’oro è stata fatta immediatamente a pezzi, e può darsi che si siano divorati anche la maggior parte dei lingotti. T’assicuro che non è stato affatto divertente averli così vicini» disse Nick, rabbrividendo. «Se chiudo gli occhi, vedo ancora i denti del mako a meno di un metro… Mi sa che avrò incubi per anni, adesso.»

«Ho tirato Nick verso l’oceano. Non avevo proprio voglia di vedermela con quei bastardi, e quel cancello mi aveva tutta l’aria di non poter resistere a un eventuale nuovo assalto. Siamo riemersi a tempo di primato, ma, naturalmente, non ci aspettavamo di venir accolti dalla Marina USA al ritorno alla giardinetta.» Dopo una pausa, Troy soggiunse: «Ma questo Todd, perché ce l’ha tanto con noi? Ha tutta l’aria di quello che intende farci un culo così. Sarà incazzato solo per via del tostone che ha preso dal professore ieri sera?».

Carol sorrise. Poi, posata la sinistra appena sopra il ginocchio di Nick, e lasciatala mentre parlava, disse: «Todd è uno dei tecnici della Marina che stanno tentando di ritrovare il missile scomparso. E sono certa che le irruzioni nell’appartamento di Nick e nella mia camera d’albergo si devono a lui e ai suoi uomini. Altrimenti, non ci troveremmo qui».

«E che motivi hanno per trattenerci?» chiese Nick, calando una mano a inserire le sue fra le dita di lei. «Mica è contro la legge avere dei lingotti d’oro in uno zaino. Non abbiamo dei diritti, come cittadini, che impediscano questo genere di cose?»

«Probabilmente sì» disse Carol, premendogli la mano e ritraendo quindi la propria. «Ma, come giornalista, trovo estremamente interessante questa parte della nostra avventura. Quel tenente Ramirez è parecchio a disagio, e si vede. Non ha permesso che Todd ci facesse una sola domanda prima di aver contattato il capitano Winters, e si è premurato di trattarci il più possibile coi guanti.»

Come a farlo apposta, entrarono proprio in quel momento i tre ufficiali, Winters in testa. Nick, Carol e Troy sedevano in sedie metalliche grige da auditorio sulla sinistra di un vano tramezzato, che fungeva da sala d’attesa per gli uffici siti nella parte posteriore dell’edificio. Semiappoggiandosi alla grande scrivania grigia di fronte ai tre, Winters esordì, guardando ciascuno negli occhi:

«Sono il capitano di fregata Vernon Winters e, come la signorina Dawson già sa, uno degli ufficiali superiori della base. Al momento sono altresì responsabile di un progetto segreto, chiamato in codice Freccia Spezzata». Con un sorriso, soggiunse: «Sono certo che vi chiederete perché siate stati portati qui».

Tese a lato il braccio sinistro e Ramirez gli porse gli ingrandimenti infrarossi in cui si vedeva il missile in dettaglio. «Uno degli scopi del progetto Freccia Spezzata» continuò, brandendo le foto «è il ritrovamento di un missile della Marina andato smarrito in qualche punto del Golfo del Messico. Il tenente Todd, qui, ritiene, sulla base di queste foto, che voi sappiate dove sta. E questa è la ragione per la quale ha preso l’iniziativa di condurvi qui per un interrogatorio.» Alzando il tono della voce e agitando le braccia, proseguì: «Ora, sono sicuro che non è il caso di ricordarvi come i sistemi d’arma ultravanzati siano ciò che conserva la nostra nazione libera e sicura…».

«Ci risparmi lezione patriottica e istrionismi, comandante Winters» interruppe Carol. «Che state cercando un missile perduto e che credete che possiamo averlo trovato noi, lo sappiamo tutti quanti! Mi duole però dirle che oggi siamo sì andati a cercarlo, ma non siamo più riusciti a localizzarlo.» Qui si alzò. «E ora ascolti me, per un minuto. Il suo zelante tenente, qui, ha infranto, insieme coi suoi uomini, più leggi di quante io non sappia elencare. Oltre a rapirci, costoro hanno saccheggiato e devastato la mia stanza d’albergo e l’appartamento del signor Williams, e rubato fotografie e apparecchiature preziose.» Poi, guardando Winters di brutto: «Ora, sarà meglio che ci esibiate delle ragioni valide per averci trascinato quaggiù, o giuro che farò in modo che conosciate tutt’e tre la corte marziale».

Uno sguardo a Ramirez, che aveva tutta l’aria di stare sulle spine, e soggiunse: «Per il momento, potete cominciare col presentarci delle scuse ufficiali e scritte, col restituirci tutto ciò che ci appartiene e col rifonderci adeguatamente i danni. Esigo inoltre accesso esclusivo e immediato, da ora, all’incartamento Freccia Spezzata. In caso di vostro rifiuto delle condizioni, preparatevi fin d’ora a leggere dei sistemi da Gestapo della Marina statunitense sulla prossima edizione del Miami Herald».

Ooh…, pensò Winters, le cose si complicano! Questa giornalista ha intenzione di fare il gioco del bluff con minaccia. Estrasse una sigaretta mentre rifletteva. «Le spiacerebbe non fumare qui dentro?» interruppe le sue riflessioni Carol. «Tutti noi lo troviamo offensivo.»

Ci voleva anche la stramaledetta aggressività dei non-fumatori! Reinfilò la Pall Mall nel pacchetto che aveva in tasca. Disarcionato lì per lì dal rapido attacco di Carol, si ricompose nel giro di un minuto e disse, spostando lo sguardo dal terzetto alla porta d’ingresso: «Be’, signorina Dawson, posso capire che quanto è accaduto vi abbia sconvolti, e ammetterò che i nostri uomini abbiano magari agito arbitrariamente nel perquisire camera e appartamento nella loro ricerca di indizi. Rimane però il fatto…» Winters si arrestò a mezza frase per girarsi e tornare verso il terzetto.

«Rimane però il fatto» ripeté «che qui stiamo parlando di tradimento.» E, dopo aver atteso che venisse registrata stavolta questa sua minaccia, soggiunse: «E il tradimento, non occorre che glielo ricordi, signorina Dawson, è faccenda seria. Anche più del giornalismo». Una nuova esitazione ad effetto, poi, con voce grave: «Se uno qualunque di voi, a conoscenza della posizione in cui si trova questo missile, ha comunicato tale conoscenza a un membro di un qualsiasi governo straniero, e più particolarmente a uno considerato ostile ai nostri interessi nazionali, costui vi ha reso tutt’e tre colpevoli di tradimento».

«Ma che razza di droga fuma, lei, comandante?» replicò Carol. «Noi ammettiamo liberamente di aver cercato il vostro missile: il che non ci rende affatto delle spie! Voi non avete proprio niente da imputarci.» Un’occhiata a Nick, che stava ammirando la sua esibizione, poi: «In quanto a me, io sono semplicemente una giornalista che sta lavorando a un servizio. Quindi, questa faccenda del tradimento è una balla spudorata fabbricata di sana pianta da voi!».

«Ma sicuro, come no!» intervenne il tenente Todd, incapace di dominarsi più a lungo. «E queste foto, allora, dov’è che sono state scattate?» Ciò dicendo, esibì la foto di Troy in muta subacquea nella prima sala sottomarina dalle pareti rosse e azzurre. Poi, voltatosi, indicò gli zaini posati nell’angolo opposto del vano. «E che ci facevano i suoi due amici con ventidue chili d’oro al loro ritorno dall’immersione di stanotte?»

«Va bene, amico, va bene» fece Troy, calcando sul tono e facendo un passo verso di lui. «Tu hai capito tutto, vero? Noi avremmo trovato il missile e l’avremmo venduto ai russi per ventidue chili d’oro.» Quindi, sbarrandogli gli occhi in faccia: «E adesso il missile sta a bordo di un sottomarino in viaggio per Mosca o per chissà dove… Ma via, amico, sii serio: mica siamo tanto scemi!».

Il tenente Todd si lasciò prendere la mano. «Tu, bastardo nero» farfugliò prima che Winters scattasse a mettersi in mezzo. Winters aveva bisogno di tempo per pensare, perché, in fin dei conti, le domande di Todd non avevano ancora avuto risposta — e, anche se l’avessero avuta, e valida, non era difficile capire come, sulla base delle foto, uno avesse potuto concludere a una probabile cospirazione.

S’aggiungeva la questione della difesa degli atti degli ufficiali subalterni e della squadra investigativa. Mettere subito in libertà questi tre equivarrebbe sostanzialmente ad ammettere un errore da parte nostra…, stava pensando. Ramirez gli stava facendo dei segni, indicando con un cenno del capo l’uscita. Lui sulle prime non capì e Ramirez ripeté.

«Scusateci un secondo» disse Winters, uscendo con lui sulla veranda e lasciando Todd col terzetto. «Cosa c’è, tenente?» chiese.

«Signor comandante,» rispose Ramirez «la mia carriera è la Marina. Se adesso rilasciamo questi tre senza interrogatorio formale…»

«Più che d’accordo» lo interruppe bruscamente Winters. «Vorrei proprio che non fosse successo niente di tutto questo. Ma siccome lo è, ora dobbiamo metterci una toppa che si deve, o non avremo scusanti per ciò che abbiamo fatto.» Rifletté un minuto. «Quanto le ci vorrà per preparare le apparecchiature video e audio per un interrogatorio formale?»

«Trenta minuti circa» rispose Ramirez. «Quarantacinque al massimo.»

«Allora sotto. Mentre lei prepara gli aggeggi, io stenderò l’elenco delle domande.»

Vacca merda, si disse, osservando Ramirez dirigersi a passo sostenuto verso il proprio ufficio, all’altro capo della base. Qui finisce proprio che mi va via la notte. Pensò all’occasione perduta con Tiffani. Meglio chiamarla e spiegarle, mentre stendo l’elenco di ’ste domande. Poi, in un improvviso empito d’ira contro il tenente Todd: In quanto a te, se ne usciremo senza danni, farò personalmente in modo che ti trasferiscano in Bassa Cazzonia!


Erano le undici passate. Il tenente Todd stava vicino alla porta d’ingresso, con un manganello in pugno. L’aveva già usato una volta, quella sera: sulla schiena di Nick, all’arrivo suo e di Troy al parcheggio di Pelican Resort, per constrigerlo a montare in macchina.

E Nick sentiva ancora il bozzo.

«E quanto ci vorrà?» chiese Troy, in piedi accanto alla scrivania. «Non possiamo tornare a casa a dormire, adesso, e tornare lunedì mattina…?»

«Hai sentito cos’ha detto, no?» rispose Todd, chiaramente gongolante. «Sono andati a preparare un interrogatorio formale. Quindi sarà meglio che sfruttiate l’attesa a preparare una versione che stia in piedi.» E si batté il manganello sulla palma.

Troy si rivolse ai compagni e disse, strizzando l’occhio: «Bene, ragazzi: io sono per battercela. Leviamoci dai piedi ’sto coglione e filiamo».

«Provateci solo, stronzi!» riattaccò Todd, menando una manganellata ad effetto a una sedia vuota. «Niente mi piacerebbe di più che un vostro tentativo di fuga!»

Nick, che non aveva detto molto dall’uscita di Winters e Ramirez, gli si rivolse dall’altro capo del vano. «Sa cosa mi dà più fastidio in tutta la faccenda, tenente? Il fatto che gente come lei giunga in posizioni di potere o di autorità in ogni parte del mondo» continuò, senza attendere risposta. «Ma si guardi un po’: lei si crede di esser qualcuno solo perché ci ha in suo potere. Ebbene, si lasci dire una cosa: lei non vale una merda.»

Todd, la cui antipatia per lui era evidente, replicò sarcastico: «Se non altro, io, gli amici me li scelgo fra i bianchi».

«Ma senti, senti» intervenne rapido, con voce flautata, Troy. «Vuoi vedere che il nostro associato, tenente Todd, è magari un fanatico? E che noi si stia parlando con un autentico bianco-che-più-bianco-non-si-può! Vediamo se la sua prossima parola sarà “negraccio”…»

«Ragazzi, ragazzi,» intercedette Carol, mentre Todd stava per muovere verso Troy «basta una buona volta, su!» Nessuno aprì più bocca. Troy tornò a sedere accanto agli amici.

Un minuto dopo, si sporgeva verso di loro e bisbigliava, col braccialetto d’oro accanto alle labbra: «Sapete, gente, se non ce ne andiamo alla svelta, c’è caso che restiamo qui tutta la notte. Le domande, m’immagino, dureranno tre o quattro ore, e questo significa che la Marina arriverà prima di noi al punto d’immersione».

«Ma che possiamo fare?» domandò Carol. «Sarebbe un miracolo se ci lasciassero andare così, senza domande.»

«Ed è proprio quello che ci occorre, angelo: un miracolo» sorrise a tutta faccia Troy. «Un bel miracolo vecchio stampo, tipo fata turchina.»

«Ehi, stronzi, che avete da parlottare?» fece il truculento Todd, avviandosi all’estremità sinistra de! lungo vano verso il gabinetto. «Piantatela, e levatevi dalla testa di tentare qualcosa. La porta è chiusa dall’esterno, e la chiave ce l’ho io.» Entrò nel gabinetto lasciandone aperto l’uscio, ma, per fortuna, la tazza era fuori vista, sulla destra.

Il fondo del piccolo gabinetto era scarsamente illuminato. Mentre terminava di orinare, Todd avvertì una strana sensazione in tutta la destra del corpo, come di mille spilli che lo pungessero. Sconcertato, si volse verso l’angolo. E vide una cosa che lo scioccò di terrore.

Nell’angolo, semicelata dalla poca luce, c’era quella che poteva definirsi solo come una carota alta un metro e ottanta. La parte più grossa si reggeva in equilibrio su quattro zampe palmate aperte sul pavimento. Non c’erano braccia, ma, a un metro e mezzo circa da terra, e immediatamente al di sotto di un groviglio di spaghetti azzurri dalla funzione ignota che spiccava sopra la “testa”, c’era una “faccia” con quattro fessure verticali lunghe trenta centimetri ciascuna, dalle quali pendeva qualcosa di inidentificabile (Troy avrebbe spiegato più tardi a Nick e a Carol che si trattava di sensori, ossia di estensioni pendule usate dalla carota per vedere, udire, odorare e gustare).

Il tenente Todd non perse tempo a studiare la creatura, ma, senza nemmeno fermarsi a reinfilare il pene o a chiudere la lampo dei calzoni, schizzò fuori dal gabinetto con un urlaccio. E quando la sinistra cosa arancione apparve in piena luce sull’uscio del gabinetto, ebbe la certezza di esserne inseguito. Per mezzo secondo la fissò, impietrito; poi, quando se la vide muovere incontro, si girò di scatto, aprì la porta d’ingresso e si slanciò fuori.

Sfortunatamente, dimenticò gli otto scalini di cemento, sicché, nel panico, inciampò e cadde, battendo forte la testa sul secondo scalino e rotolando sino al marciapiede sottostante. Dove rimase, svenuto, steso sulla schiena.

Carol si era rannicchiata contro Nick, alla vista della carota. Poi entrambi avevano guardato Troy, che sorridendo, canticchiava fra sé: «Quando giuri su una stella… chi tu sia non importa». Dinnanzi a quella sua aria blasé, si erano ripresi un po’. Ma quando, dopo la sparizione di Todd oltre la porta, la carota si girò verso di loro, fu difficile conservare la calma.

«Oh, cacchio,» disse Troy con un gran sorriso «io avevo proprio sperato in una fata turchina, pensando che magari mi avrebbe reso ricco o addirittura bianco.»

«Va bene, va bene, Jefferson» disse Nick, la faccia di chi avesse appena mangiato un limone «ma ora, per favore, spiegaci che razza di roba è questa cosa che ci sta davanti.»

Troy cominciò con l’andare tranquillamente a prendere gli zaini nell’angolo, poi, dirigendosi dritto alla carota, disse: «Questa cosa, professore, è ciò che potremmo chiamare una proiezione olografica». Così dicendo, attraversò con la mano il corpo arancione. «In qualche parte dell’universo esiste insomma una creatura viva come questa, della quale loro si sono limitati a inviare l’immagine per aiutarci a scappare.»

Nonostante la spiegazione, Nick e Carol preferirono non avvicinarsi oltre il necessario alla carota immobile, e si portarono all’uscita camminando con le spalle rasenti al muro. «Non preoccupatevi» rise Troy. «Non vi farà alcun male.»

La cosa più incomprensibile in assoluto era il sensore che pendeva dalla fessura sull’estrema destra della testa della carota. Carol non riusciva a staccarne gli occhi: pareva un pezzo di favo appiccicoso in cima a un bastone da majorette. «E che ci fa, con quello?» chiese, indicando col dito, mentre precedeva Troy nell’uscire.

«Non lo so, angelo» rispose questi. «Ma dev’essere qualcosa di divertente.»

Una volta in cima ai gradini, videro tutt’e tre Todd più o meno nello stesso istante e, naturalmente, furono sorpresi di trovarlo lungo disteso sul marciapiede e con la testa sanguinante. «Non dovremmo soccorrerlo?» si domandò a voce alta Carol mentre Troy faceva la scala a balzi.

«Nemmeno per idea» si affrettò a rispondere Nick.

Troy s’inginocchiò accanto allo svenuto e lo esaminò scrupolosamente da capo a piedi. Gli diede quindi uno schiaffetto sul viso, ma il tenente Todd non fece una piega. «Il professore aveva ragione, caro mio» disse allora, strizzando l’occhio agli amici e aprendosi in un sogghigno. «Tu non vali proprio una merda.»


«E così l’ho baciata» scoppiò a ridere Carol.

«Tu hai fatto cosa?» esclamò Nick. Erano a bordo della vecchia Ford LTD di Troy, diretti alla Hemingway Marina. Lasciata la base, avevano fatto a piedi i due chilometri e mezzo fino alla casa di Troy, e qui preso la sua macchina. Carol era accanto a Troy sul sedile anteriore, Nick dietro accanto agli zaini coi lingotti d’oro e i CD con le informazioni.

«L’ho baciata» ripeté Carol, girandosi verso di lui e tornando a ridere alla sua smorfia di ribrezzo. «E che potevo fare d’altro? Quella donna è più forte di tanti uomini, e mi teneva inchiodata per terra. E siccome in quel suo modo di tenermi c’era un qualcosa di vagamente…»

«Accidenti, angelo, sei proprio sbalorditiva!» esclamò Troy, picchiando con la sinistra sul cruscotto. «E la supercrucca che ha fatto, allora?»

«Ha allentato, giusto per un secondo, la presa ai polsi. Il tempo, secondo me, di decidere se rispondere al bacio.»

«Oh, Cristo, mi sento venir la nausea…» fece Nick, da dietro.

«E tu lei hai dato una botta alla tempie e sei scappata?» chiese Troy. Carol annuì. Dopo una risata, Troy ritornò serio: «Bada a te, se la rivedi, angelo. È una a cui non piace perdere».

«Su un punto, però, ti sbagli, Carol» osservò Nick. «Greta non ama affatto le donne, perché le piace troppo scopare gli uomini.»

Carol giudicò arrogante, anzi irritante, quel commento. Così lanciò a Troy: «Com’è, amico mio, che gli uomini danno per scontato che qualunque donna che abbia rapporti sessuali con gli uomini non possa nemmeno lontanamente provare interesse per il sesso con un altra donna? E forse un ennesimo esempio della loro fondamentale convinzione circa l’innata superiorità maschile!». Senza attendere risposta, si girò verso Nick soggiungendo: «E caso mai te lo stessi chiedendo, la risposta è: no, non sono lesbica, ma solo e soltanto eterosessuale — più che altro per via della mia origine medioborghese e sanfernandovallesca. Ma confesso che a volte ne ho fin qui degli uomini e delle loro, come io le chiamo, babbuinesche dimostrazioni di machismo!».

«Ehi, calma,» disse Nick «io mica volevo litigare, ma solo suggerire una…»

«Va bene, d’accordo,» interruppe Carol, calmandosi un po’ «nessuna offesa. Mi sa che ho il grilletto un po’ facile.» Rimase in silenzio per qualche secondo. Poi: «Fra parentesi, Nick: c’è una parte della storia che ancora non capisco del tutto. Come mai il capitano Homer si è dato tanto da fare per tener nascosto il tesoro per tutto questo tempo? Perché non l’ha venduto il più presto possibile?».

«Per un sacco di ragioni» rispose Nick. «Non ultima, la paura di venire in qualche modo scoperto e imputato di aver giurato il falso al nostro processo. E poi, così, ha altri vantaggi: evade l’imposta sul reddito, ha un capitale che si rivaluta nel tempo, e, soprattutto, ha la certezza di tenersi vicina Greta, che non lo molla per non perdere la propria parte. Perciò, quasi certamente lui convertirà in liquido un po’ d’oro ogni tanto, per il tramite di qualche intermediario, probabilmente, ma mai in quantità tali da attirare l’attenzione.»

«Ed ecco perché non può rivolgersi alla polizia, angelo» aggiunse Troy. «Se lo facesse, dovrebbe confessare ogni cosa. Scommetto che è incazzato come pochi!»

Così dicendo, infilò la corsia di svolta a sinistra e attese il cambio di semaforo. Sulla destra, a lato di Carol, venne a fermarsi una macchina. Carol girò per caso gli occhi e vide che era una Mercedes.

Più tardi avrebbe ricordato che il tempo le era parso dilatarsi. Ogni secondo del minuto successivo le s’impresse nella memoria al rallentatore, come se quel minuto fosse durato chissà quanto. Al volante dell’auto del capitano Homer c’era Greta, che la fissava. Homer, accanto a lei, agitava i pugni e gridava qualcosa che il finestrino chiuso le impediva di udire. Focalizzò lo sguardo sugli sbalorditivi occhi di Greta: mai vi aveva letto tanto odio. Si girò un attimo per metter in guardia Troy e Nick, e, quando si rigirò, vide che Greta le stava puntando contro una pistola.

Accaddero allora, quasi simultaneamente, tre cose. Lei si chinò, Troy scattò in avanti nell’incrocio, a semaforo rosso, schivando di misura una macchina lanciata in arrivo, e Greta sparò. La pallottola attraversò la portiera di Carol per andare a conficcarsi in quella di Troy, non colpendo per miracolo nessuno dei due. Carol rimase raggricciata sotto il cruscotto, sforzandosi di dominare il panico e di ritrovare il respiro.

E cominciò l’inseguimento. Erano le undici e mezzo di sabato sera, a Key West, il traffico del quartiere residenziale era scarso, e la Ford di Troy non era certo all’altezza della Mercedes. Greta riuscì a tornare in posizione altre due volte e ad annaffiare la Ford di pallottole. Vetri in pezzi dappertutto, ma nessuno ferito.

Nick, steso sul pianale davanti al sedile posteriore, gridò a Troy: «In centro! Punta al centro, se ce la fai, così magari li seminiamo nel traffico!».

Troy, rannicchiato dietro il volante il più in basso possibile, riusciva a stento a vedere la strada davanti. Guidava come un pazzo, schizzando fra le quattro corsie incontro al traffico in arrivo, a clacson strombazzante, in maniera da impedire a Greta di prevedere le sue mosse.

«Ma dove sono i piedipiatti, quando ti servono sul serio?» imprecò. «Eccoci qua con dei pazzi furiosi che ci sparano addosso in piena Key West, e degli uomini in blu manco l’ombra!»

Dietro suggerimento di Nick, fece una rapida conversione a U in piena strada e ripartì nella direzione opposta. Impreparata, Greta frenò, slittò, andò a sbattere contro un’auto ferma accanto al marciapiede, e si rimise in caccia.

Ora non c’erano più macchine davanti, e la Mercedes si faceva sempre più sotto. «Alé, proviamo questa!» disse Troy. Nel timore di un nuovo attacco, sterzò di scatto a sinistra, sfrecciò per un vicolo, attraversò un parcheggio, e tornò indietro per un’altra stradina. Qualche minuto dopo infilò a tutta velocità un passo carraio. E la macchina si trovò improvvisamente illuminata a giorno. Troy bloccò i freni. «Fuori tutti!» gridò. Mentre Nick e Carol stavano cercando di raccapezzarsi, lui consegnava le chiavi dell’auto a un tipo alto in uniforme rossa.

«Vogliamo solo bere qualcosa» disse, mentre stridevano i freni della Mercedes. «E questi tipi dietro a noi hanno delle pistole e stanno tentando di ammazzarci!» gridò alla mezza dozzina di astanti, fra cui due custodi del parcheggio.

Per Greta e Homer era ormai troppo tardi per scappare. Troy era entrato nel parcheggio dell’albergo Miyako Gardens e, dietro la Mercedes, era ormai arrivata nel viale un’altra auto. Greta inserì la marcia indietro, andò a sbattere contro la Jaguar che ora aveva alle spalle, e tentò di filarsela passando di forza a lato della Ford. Troy e il guardiano in uniforme schizzarono via, e Greta, centrata la portiera aperta della Ford, perse il controllo della Mercedes e finì per schiantarsi contro il gabbiotto del parcheggio al centro del viale d’accesso. Mentre Nick e Carol smontavano barcollando dalla Ford, Greta e Homer venivano circondati da quattro agenti di sicurezza dell’albergo.

Troy raggiunse gli amici. «Vi siete fatti male?» Carol e Nick fecero entrambi di no con la testa. Troy, allora, con un gran sorriso: «Be’, quei due adesso sono sistemati per bene, mi pare!».

Carol lo abbracciò. «È stata un’idea geniale quella di venire qui» disse. «Com’è che t’è venuta?»

«Uccelli» rispose lui.

«Uccelli?» fece Nick. «Ma che cazzo dici, Jefferson, si può sapere?»

«Be’, professore,» spiegò Troy, aprendo la porta dell’elegante albergo e seguendo gli amici nell’atrio aperto «quando stavano per pigliarci, poco fa, mi sono reso conto che stavano probabilmente per ucciderci per via dell’oro che gli abbiamo soffiato. E allora mi sono domandato se davvero non ci fossero uccelli, in cielo, come mi diceva sempre mia madre.»

«Troy» sorrise Carol «fa’ il favore: piantala con le stronzate, per una volta, e vieni al punto.»

«Ma ci sono, angelo! Guardati un po’ intorno» rispose lui. Nell’atrio del Miyako Gardens c’era infatti un magnifico aviario, le cui sbarre sottili e rabescate salivano in alto per tre piani sotto una batteria di riflettori. E le centinaia di uccelli colorati che giocavano fra le piante rampicanti e i palmizi, conferivano coi loro versi all’atrio dell’albergo un’autentica atmosfera tropicale.

«Quando ho pensato agli uccelli,» disse Troy, incapace di trattenere più a lungo una risata matta «mi sono reso conto che eravamo nelle vicinanze di questo albergo, e così l’idea mi è nata praticamente da sé!»

In piedi davanti all’aviario, alzarono gli occhi ad ammirarlo. Carol, nel mezzo, allungò le mani a prendere quelle di ciascuno dei due.

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