GIOVEDÌ

1

All’alba, erano sulla spiaggia. Nel corso della notte, sette balene erano venute ad arenarsi a Deer Key, cinque miglia a est di Key West. I giganteschi leviatani degli abissi, lunghi dai tre ai cinque metri, si dimenavano sulla sabbia come creature impotenti. Un’altra mezza dozzina di membri di questo fuorviato branco di false orche nuotava in cerchio, chiaramente smarrita e confusa, nella bassa laguna del litorale.

Entro le sette di quella serena mattina di marzo erano giunti da Key West degli esperti del ramo, che ora cominciavano a coordinare quello che in seguito sarebbe diventato uno sforzo comune di pescatori locali e marinai da diporto. L’obiettivo era quello, prima di respingere gli animali arenati nella laguna, poi di riportare l’intero branco nel Golfo del Messico. C’erano infatti da poche a zero probabilità che i cetacei potessero sopravvivere altrove che in acque aperte.

Carol Dawson fu la prima reporter ad arrivare sul posto. Parcheggiata la nuova giardinetta coreana dalla linea sportiva sul margine della strada, appena al di qua della spiaggia, Carol balzò a terra per un esame della situazione. Spiaggia e laguna di Deer Key formavano un’insenatura foggiata a mezzaluna. Una corda immaginaria che ne avesse unito i corni sull’acqua avrebbe misurato circa mezzo miglio. Al di là della corda si stendeva il Golfo del Messico. Le sette balene erano entrate nel centro dell’insenatura ed erano finite sulla spiaggia nel punto più lontano dal mare aperto. Ora giacevano separate a una decina di metri le une dalle altre, a circa otto dalla battigia. Il resto del branco era intrappolato nell’acqua bassa a non più di trenta metri dalla riva.

Carol passò dietro la giardinetta. Prima di estrarre la grossa custodia porta-apparecchi, si fermò a sistemare i lacci dei pantaloni. (S’era vestita in fretta, quella mattina, quando era stata svegliata nella stanza d’albergo di Key West dalla telefonata da Miami; e la tuta da ginnastica, che non era precisamente il suo normale abito da lavoro, nascondeva le risorse di un corpo ben formato e scattante, più vicino a quello di una ventenne che di una trentenne.) La custodia conteneva una varietà di macchine fotografiche, fisse e da ripresa. Scelte tre macchine, e infilati in bocca un paio di M M da un pacchetto aperto, si avviò, fermandosi ogni tanto a fotografare la scena mentre attraversava la sabbia verso le persone e le balene arenate.

Avvicinò per primo un uomo che portava la divisa del Centro Ricerche Marine della Florida Meridionale e che, rivolto all’oceano, stava parlando con due ufficiali del reparto Pattugliamento Marittimo della Base Aeronavale di Key West. Attorno ai tre orbitava una dozzina circa di volontari locali, che, pur osservando le distanze, ascoltavano attentamente la discussione. Carol si avvicinò decisa all’uomo del centro-ricerche e lo prese per il braccio.

«Ciao, Jeff» disse.

Lui si girò a guardarla. Dopo un istante, gli si dipinse sul viso un vago sorriso di riconoscimento.

«Carol Dawson, Miami Herald» si affrettò ad aggiungere lei. «Ci siamo conosciuti una sera all’IOM. Ero con Dale Michaels.»

«Ah, ma mi ricordo, mi ricordo sì» disse lui. «Come potrei scordare un così bel faccino?» Dopo un momento, continuò: «Ma che ci fai, tu, qui? A quanto mi risulta, di queste balene nessuno al mondo sapeva niente sino a un’ora fa. E Miami è a oltre cento miglia».

Carol rise, mentre i suoi occhi ringraziavano garbatamente Jeff del complimento. Sebbene continuasse a dispiacerle, s’era ormai abituata ad accettare il fatto che, volente o nolente, ciò che gli altri — gli uomini, in particolare — ricordavano di lei era il suo aspetto.

«Ero già a Key West per un altro servizio, e Dale mi ha telefonato stamane non appena ha saputo delle balene. Posso interromperti un secondo per chiederti un commento ufficiale da esperto?»

Nel parlare, abbassò il braccio per prendere una videocamera di modello recentissimo, una SONY 1993 grande all’incirca quanto un taccuino per appunti, e cominciò la sua intervista al «dottor Jeff Marsden, autorità di primo piano sulle balene delle Key della Florida». L’intervista non fu niente di speciale, naturalmente, e Carol avrebbe potuto fornire lei stessa le risposte. Ma, da brava giornalista, conosceva il valore di un esperto in una situazione del genere…

Il dottor Marsden spiegò che i biologi marini seguitavano a non capire le cause degli arenamenti di balene, sebbene la loro sempre maggior frequenza tra la fine degli anni Ottanta e il principio dei Novanta avesse fornito ampie occasioni di studio. A suo parere, la maggioranza degli esperti li imputava a infestazioni di parassiti subite da singole balene capobranco, che finivano così per guidare fuori rotta le compagne.

«Secondo la teoria oggi prevalente, questi parassiti confondono i complessi sistemi di navigazione che dicono alle balene quale rotta seguire. In altre parole, la capobranco si convince in qualche modo che la rotta migratoria debba passare per la spiaggia e la terra retrostante; e le altre, data la rigorosa gerarchia del branco, le vanno dietro.»

«Io ho sentito dire, dottor Marsden, che l’aumento degli arenamenti di balene sarebbe invece dovuto a noi e al nostro inquinamento. Vorrebbe dirmi il suo parere circa l’accusa secondo la quale i responsabili del deterioramento dei biosistemi sensori usati dalle balene per navigare sarebbero i nostri scarichi e il nostro inquinamento acustico ed elettronico?»

Con lo zoom della minuscola videocamera, Carol fissò il corrugarsi delle sopracciglia di Jeff Marsden. L’intervistato, chiaramente, non si aspettava da lei una domanda tanto importante a un’ora tanto poco avanzata del mattino.

«I tentativi di spiegazione del perché si assista oggi a un numero di arenamenti assai maggiore di quello verificatosi in passato, sono molti e dei più vari» rispose Marsden dopo una pausa di riflessione. «La maggior parte degli studiosi è comunque giunta all’inevitabile conclusione che nell’ambiente delle balene è avvenuto, nell’ultimo mezzo secolo, un cambiamento. E non è troppo azzardato pensare che i responsabili di tale cambiamento possiamo benissimo essere noi.»

Carol si rese conto di disporre ora delle citazioni giuste per un breve programma televisivo. Concluse perciò rapidamente l’intervista da esperta del mestiere e, ringraziato il dottor Marsden, andò a mescolarsi agli astanti. Nel giro di un minuto trovò una folla di volontari disposti a portarla nella laguna per una ripresa ravvicinata delle balene. Nel giro di cinque, non solo esaurì diversi rullini di foto fisse, ma, montata la videocamera su un treppiedi stabile fissato a una delle barche, fece un videoclip di se stessa come narratrice della vicenda degli arenamenti.

Prima di lasciare la spiaggia di Deer Key, aprì la parte posteriore della giardinetta, che le serviva da laboratorio fotografico ambulante. Per prima cosa, riavvolse e controllò il videonastro appena girato, verificando che si sentissero bene i tonfi delle balene sullo sfondo di se stessa in barca. Poi inserì le diapositive delle macchine fisse in appositi lettori per controllare la qualità delle foto. Erano venute bene… Sorridendo a se stessa, richiuse la parte posteriore della giardinetta e tornò a Key West.

2

Completato il doppio versamento del videonastro, via modem, a Joey Hernandez di Miami, Carol, seduta in una delle cabine private del nuovo salone-comunicazioni del Marriott di Key West, chiamò un altro numero. Lo schermo che aveva davanti riportò il numero chiamato, ma rimase sgombro di immagini. Poi una voce di donna disse: «Buongiorno. Ufficio del dottor Michaels».

«Ciao, Bernice, sono Carol. Mi puoi vedere sul video.»

Il monitor si schiarì in un secondo e offrì l’immagine di una graziosa donna di mezz’età. «Oh, ciao, Carol. Aspetta che avverto Dale.»

Con un sorriso, Carol la osservò ruotare la poltroncina per portarsi a una tastiera sulla sinistra. Bernice era come assediata dalla scrivania. Davanti aveva un paio di tastiere collegate a due grandi schermi, una quantità di fessure per dischetti e una specie di telefono inserito in un altro monitor. Apparentemente era mancato lo spazio per la collocazione dell’interfono accanto al telefono, sicché Bernice dovette spingersi sulla sua poltroncina di un paio di metri per poter avvertire il dottor Dale Michaels che era chiamato al videotelefono, che a chiamare era Carol, e che la chiamata veniva da Key West. Il dottor Dale, come lo chiamavano tutti meno Carol, era infatti un uomo che non rispondeva al telefono se prima non riceveva la sua buona dose di informazioni.

A sinistra e a destra di Bernice si levavano estensioni perpendicolari della scrivania, sulla quale pile di dischetti di formato diverso (etichettate “Lettura”, “Archivio” o “Corrispondenza in partenza”) s’ammonticchiavano scambievolmente su fasci di riviste e di cartelle di cartone contenenti tabulati di computer. Bernice pigiò un tasto, ma non accadde nulla. Si scusò allora con Carol con uno sguardo allo schermo.

«Scusa, Carol, credo di aver sbagliato» disse, un po’ innervosita. «Il dottor Dale ha fatto installare un nuovo sistema anche questa settimana, e io non sono sicura di…»

Su uno dei due grandi monitor lampeggiò un messaggio. «Ah, ecco» riprese Bernice, sorridendo. «Allora ho battuto giusto. Sarà da te fra un minuto. Adesso ha qualcuno con lui, ma se la sbrigherà in fretta così da poterti vedere e parlare. Non ti spiace, vero, che ti metta in attesa?»

Carol accennò di no e l’immagine di Bernice si dissolse. Sul monitor apparve l’inizio di un breve documentario didattico sull’allevamento delle ostriche. Il documentario offriva magnifiche riprese sottomarine, effettuate con le apparecchiature fotografiche più moderne, e la voce narrante — quella melliflua, del dottor Dale — esponeva il rapporto fra le invenzioni dell’IOM (l’Istituto Oceanografico di Miami, di cui il dottor Dale Michaels era fondatore e direttore a un tempo) e il rapido incremento della piscicoltura marina d’ogni tipo. Carol non poté trattenersi dal ridere. La musica di sottofondo, che aumentava di volume nelle pause senza voce, era infatti il Canone di Pachelbel, la musica d’atmosfera preferita da Dale; e a lei, che sapeva bene a che cosa preludesse quando lui, il più prevedibile degli uomini, infilava il relativo CD nel lettore del suo appartamento, faceva uno strano effetto ascoltare il ritmo vivace dei violini come accompagnamento di primi piani di ostriche in crescita.

La storia ostricina s’interruppe comunque in medias res, e, dopo una dissolvenza, sullo schermo apparve l’interno di un ampio ufficio dirigenziale. Dale Michaels sedeva su un divano fronteggiante, dall’altro capo della stanza, la sua moderna scrivania, e fissava uno dei tre monitor visibili nell’ufficio. «Ciao di nuovo, Carol» disse tutto allegro. «Allora, com’è andata? E dove sei? Non sapevo che il Marriott avesse anche lui il videotelefono.»

Il dottor Michaels era alto e snello, e aveva capelli biondi e leggermente ondulati che cominciavano appena appena a diradarsi alle tempie. Le scoccò un sorriso un po’ troppo rapido, quasi automatico, ma il calore e la franchezza degli occhi verdi erano sinceri.

«Sono giù nel salone comunicazioni dell’albergo» rispose Carol «e ho appena inviato per disco allo Herald il pezzo sull’arenamento delle balene. Cristo, sapessi che pena, quei poveri animali, Dale! Ma come possono incasinarsi tanto, se sono così intelligenti?»

«Non si sa, Carol» disse Dale. «Ma, a parte che il nostro concetto di intelligenza e quello delle balene sono quasi certamente del tutto diversi, non è poi tanto sorprendente che questi animali obbediscano al loro sistema interno di navigazione anche quando ne siano guidati alla catastrofe. Tu, per esempio, riesci a immaginare una situazione in cui scarteresti di proposito le informazioni che ti venissero dai tuoi stessi occhi? Be’, è la stessa cosa: nelle balene abbiamo una disfunzione dell’apparato sensore primario.»

Carol rimase in silenzio per un momento, poi disse: «Credo di capire che cosa intendi, ma, vederle là così ridotte all’impotenza, fa una pena… Be’ comunque, il pezzo l’ho fatto, e su video. Fra parentesi, la nuova tecnologia videointegrata è superba. Il Marriott ha appena installato un nuovo modem potenziato da video, il che mi ha permesso di trasmettere gli otto minuti del pezzo a Joey Hernandez, di Canale 44, in soli due minuti. Lui ne è stato felice. Capirai, fa il telegiornale di mezzogiorno… Guardalo, se puoi, così mi dai un parere».

Una piccola pausa, poi: «E, fra parentesi, grazie per l’informazione, Dale».

«Ma figurati, è stato un piacere.» Dale era raggiante. Per lui era una gioia poter aiutare Carol a far carriera. Da quasi un anno e mezzo, ormai, non le dava tregua, manovrando scientificamente con la parte sinistra del cervello, ma ancora non era riuscito a persuaderla che un rapporto stabile avrebbe giovato a entrambi. Perché qui stava appunto, almeno secondo lui, il problema.

«Io penso che questa faccenda delle balene potrebbe essere un’ottima copertura» stava dicendo Carol. «Come sai, la mia preoccupazione era che il tuo telescopio potesse attirare troppa attenzione, e la storiella della caccia al tesoro non regge, se vengo riconosciuta da qualcuno di qui. Ma la necessità di seguire la storia delle balene è un buon pretesto, mi sembra. Tu, che ne pensi?»

«Mi pare che stia in piedi, sì» rispose Dale. «Fra l’altro, stamattina è stato segnalato un altro paio di episodi anomali: l’arenamento di un mezzo branco di balene a Sanibel e una supposta aggressione a un peschereccio a nord di Marathon, un peschereccio di proprietà di un vietnamita assai impressionabile. Naturalmente, non si è mai sentito, o quasi, di attacchi a esseri umani o loro cose da parte di false orche; però, a te, magari, la cosa può servire.»

Carol lo vide alzarsi dal divano e cominciare ad andare su e giù per l’ufficio. Il dottor Dale Michaels aveva tanta energia, che gli era quasi impossibile sedere tranquillo o rilassarsi. Sebbene stesse per compiere quarant’anni di lì a pochi mesi, possedeva la vivacità e l’entusiasmo di un adolescente.

«Bada solo a non far sapere a nessuno della Marina che hai il telescopio» continuò. «Stamattina hanno chiamato di nuovo per chiedere una terza serie di attrezzature. Io ho detto loro che il terzo telescopio era fuori in prestito per certe ricerche. Ma, qualunque cosa stiano cercando, dev’essere una cosa importante. E segretissima» aggiunse, voltandosi a guardare la telecamera. «Sempre stamattina, quando gli ho posto un normale quesito scientifico, quel tenente Todd mi ha detto che, trattandosi di una faccenda della Marina, lui ha la bocca cucita.»

Carol prese qualche appunto su un taccuino a spirale. Poi riprese: «Sai, Dale, ieri, quando me ne hai parlato, ho pensato subito che questa storia avesse un potenziale tremendo. Tutto indica che la Marina sia coinvolta in qualcosa di insolito e di segreto. Io stessa sono rimasta divertita, ieri al telefono, dal modo dilettantesco con cui questo Todd, prima ha tentato di mettermi i bastoni fra le ruote, poi ha preteso di sapere chi mi avesse fatto il suo nome. Io gli ho detto che, secondo una fonte del Pentagono, la Base Aeronavale di Key West avrebbe in corso delle attività con priorità assoluta, alle quali lui, Todd, sarebbe associato. Lui è sembrato prenderla per buona. E io sono convinta che lo stupidotto locale delle relazioni pubbliche della Marina non sappia un accidente di quello che sta succedendo».

Portando di scatto una mano alla bocca, Carol soffocò uno sbadiglio. «Be’, è troppo tardi per tornare a letto. Credo quindi che farò un po’ di nuoto e poi andrò a cercare la barca di cui abbiamo parlato. Mi sembra di andare alla ricerca del classico ago nel pagliaio, ma la tua ipotesi potrebbe essere valida. Comincerò comunque con la cartina che mi hai dato tu. E se quelli hanno perso sul serio un missile da crociera quaggiù e tentano di insabbiare la cosa, per me sarà uno scoop coi baffi. Ci risentiamo più tardi.»

Dale la salutò con un cenno e interruppe la comunicazione. Carol lasciò il salone e attraversò tutto l’albergo. Aveva una camera che dava sull’oceano al pianoterra. L’Herald non avrebbe certo pagato un lusso del genere, ma lei aveva deciso di concederselo lo stesso, per una volta tanto. Mentre s’infilava il costume da bagno aderente da allenamento, ripensò fra sé alla conversazione appena avuta con Dale. Nessuno immaginerebbe mai che lui e io siamo amanti. O partner sessuali, diciamo. È tutto così pratico e prosaico, come fra compagni di squadra o roba del genere. Niente “caro” né “tesoro”. Una pausa, poi completò la sua riflessione: Che sia così per colpa mia?

Quando lasciò la stanza per la spiaggia dell’albergo, erano quasi le nove e il luogo si stava svegliando. Sulla spiaggia, gli addetti, appena arrivati, stavano sistemando sdraio e ombrelloni per i clienti mattinieri. Carol andò dal giovane bagnino-capo (“Un Charlie-il-Terribile sputato”, pensò sarcastica, vedendolo pavoneggiarsi davanti al suo baracchino) per informarlo che usciva per una lunga nuotata d’allenamento. In altre due circostanze, infatti, avendo scordato di avvertire i bagnini dell’albergo che usciva a nuotare a mezzo miglio dalla spiaggia, era stata, con suo disappunto, “tratta in salvo”, e aveva provocato scene spiacevoli.

Mentre entrava nel ritmo dello stile libero, sentì a poco a poco allentarsi la tensione, e sciogliersi i nodi che la imprigionavano la maggior parte del tempo. Sebbene sostenesse che l’esercizio fisico costante le serviva per tenersi in forma, la vera ragione per la quale ogni mattino passava tre quarti d’ora a correre, nuotare o marciare, era che ciò le serviva per reggere al ritmo vorticoso della sua vita. Solo dopo un duro esercizio riusciva infatti a sentirsi veramente tranquilla e in pace col mondo.

Mentre nuotava su lunghe distanze, le accadeva normalmente di lasciar vagare la mente alla ventura. Quella mattina, per esempio, ricordò una nuotata di parecchio tempo addietro, nelle fredde acque del Pacifico presso Laguna Beach in California. Aveva otto anni, allora, ed era andata a una festa di compleanno di un’amica, una certa Jessica, da lei conosciuta a un campeggio estivo. Jessica era ricca. Aveva una casa da più di cento milioni di dollari, e più giocattoli e bambole di quanti lei, Carol, non arrivasse a immaginare.

Mmm, pensò, al ricordo della festa di Jessica, con tanto di clown e pony. Era l’epoca in cui credevo ancora alle fate. Prima della separazione e del divorzio…

Lo squillo dell’orologio-sveglia spezzò le sue fantasticherie. Due bracciate a U, e si diresse verso la spiaggia. Nel farlo, notò qualcosa d’insolito con la coda dell’occhio. A meno di venti metri, una grande balena emerse dall’acqua, provocandole un brivido giù per la schiena e un afflusso di adrenalina nel sangue. Poi la balena scomparve sott’acqua, e lei, per quanto fosse rimasta a galla in verticale per un paio di minuti, gli occhi fissi all’orizzonte, non la rivide più.

Allora riprese a nuotare verso riva. Il battito cardiaco aveva cominciato a tornare normale, dopo l’incontro, e ora ripensava al fascino che da una vita esercitavano su di lei le balene. Ricordò così di aver avuto una balena-giocattolo di Sea World, a San Diego, all’età di sette anni. Come si chiamava? Shammy. Shamu. Qualcosa del genere… Poi ricordò un’esperienza ancora precedente, alla quale non pensava più da venticinque anni.

Aveva cinque o sei anni, e sedeva nella sua camera, pronta ad andare a nanna come d’obbligo, quando era entrato suo padre con un libro illustrato. Si erano seduti insieme sul letto, la schiena appoggiata alla carta da parati a fiori gialli, e lui aveva cominciato a leggere. Lei era felice quando suo padre, un braccio attorno alle spalle, le girava le pagine in grembo. Si sentiva protetta e serena. Lui le lesse una storia di una balena che sembrava umana e di un uomo chiamato Capitano Ahab. Ma le immagini erano spaventose: una, in particolar modo, con una barca sballottata da una gigantesca balena che aveva un arpione infisso nel dorso.

Quella sera, dopo averle rimboccato le coperte, suo padre aveva indugiato parecchio con lei, coprendola di teneri abbracci e di baci. Quando gli aveva visto le lacrime agli occhi, lei gliene aveva chiesto la ragione. Lui, scuotendo la testa, le aveva risposto che era l’amore per lei, un amore così grande che, a volte, lo faceva piangere.

Immersa profondamente in questo vivo ricordo, Carol nuotava senza far caso alla direzione, e si trovò trasportata dalla corrente verso ovest, quasi fuori vista dell’albergo. Le ci vollero così alcuni minuti per orientarsi e riprendere la direzione giusta.

3

Il tenente Richard Todd attendeva impaziente che l’addetta all’elaborazione dei dati apportasse gli ultimi ritocchi ai tabulati. «Forza, si sbrighi! La riunione comincia fra cinque minuti, e ci sono ancora un paio di variazioni da inserire.»

La povera ragazza, chiaramente seccata di dover lavorare al monitor da disegno sotto gli occhi dell’ufficiale di marina, corresse un paio di errori di ortografia su un foglio e pigiò il tasto di ritorno. Sullo schermo che aveva davanti apparve un carta computerizzata della Florida Meridionale e delle Key. Con una penna ottica procedette quindi, secondo le istruzioni del tenente, a sottolineare le aree da lui specificate.

«Ecco, così va bene,» disse finalmente lui «il gruppo è completo. Adesso pigi il tasto della stampante. Qual è la chiave d’inizializzazione? 17BROK01? Bene. Sulla banca-dati Segretissima? Bene. La parola d’ordine di oggi?»

«Matisse, tenente» rispose la ragazza, alzandosi per andare a estrarre dalla stampante l’unica copia fatta. Todd la guardò con l’aria di chi non capisce. «Era un pittore francese… M-A-T-I-S-S-E, caso mai non sapesse come si scrive» precisò, sarcastica, lei.

Todd firmò con uno scarabocchio per lo stampato e si segnò il nome di Matisse su un foglietto volante. Poi, ringraziata goffamente la ragazza con due parole in croce, uscì dall’ufficio e dall’edificio, e attraversò la strada.

Il centro riunioni della Base Aeronavale di Key West sorgeva immediatamente accanto. Era un edificio nuovo fiammante di disegno moderno, uno dei pochi della base che spezzasse la monotonia architettonica di quello che, caritatevolmente parlando, poteva definirsi «stile stucco bianco, seconda guerra mondiale». Il tenente di vascello Todd lavorava in uno degli anonimi edifici bianchi come direttore dei Progetti Speciali della base. Lui e il suo gruppo erano sostanzialmente degli specialisti rimediaerrori per il comando, ossia dei sistemisti fuoriclasse che venivano spostati da questo o quel progetto a seconda del bisogno. Ventottenne, laureato ad Annapolis in ingegneria aerospaziale, scapolo, ardito ufficiale di marina, Todd era cresciuto a Littleton, un sobborgo di Denver nel Colorado, ed era ambizioso. Aveva fretta di arrivare, lui. Lì, a Key West, si sentiva fuori dal giro importante, e anelava all’occasione che gli consentisse di venir trasferito in un posto nel quale potesse farsi valere davvero — un centro progettazione-armi, per esempio, o addirittura il Pentagono.

La targhetta sulla porta del centro-riunioni diceva SEGRETISSIMO-FRECCIA SPEZZATA. Il tenente Todd controllò l’orologio. Un minuto alle nove e trenta, ora d’inizio della riunione. Inserito un codice alfanumerico nella serratura della porta, passò nel retro di una sala di medie dimensioni, in fondo alla quale stavano tre grandi schermi. Il suo gruppo di cinque ufficiali subalterni era già arrivato insieme con un paio di ufficiali superiori, e stava attorno a un tavolo, sulla sinistra, su cui c’erano caffè e ciambelline. Il capitano di fregata Vernon Winters sedeva invece solo, faccia agli schermi e schiena alla porta d’ingresso, al centro di un lungo tavolo che tagliava praticamente in due la sala.

«Bene, bene; cominciamo, allora» disse questi, dopo aver dato uno sguardo d’insieme alla sala, prima, e un’occhiata all’orologio digitale sull’angolo sinistro in alto della parete frontale. «È pronto, tenente Todd?» Gli altri ufficiali vennero a sedere. All’ultimo istante entrò un altro ufficiale superiore, che si accomodò in una poltrona in fondo alla sala.

Todd girò intorno al tavolo per portarsi sul lato anteriore della sala dove, da un podio munito di un piccolo monitor con tastiera sottostante, guardò il capitano Winters e rispose: «Signorsì». Attivò quindi il computer del podio, chiedendo accesso alla banca-dati Segretissima, e batté una complessa sequenza che costituiva la prima parte di un sistema di parole-chiave. Il monitor interattivo del podio chiese a questo punto la parola d’ordine del giorno, e Todd, al primo tentativo, fallì perché aveva scordato la grafia esatta. Poi si frugò in tasca alla ricerca del foglietto.

L’unica altra tastiera della sala stava al centro del lungo tavolo, davanti a Winters. Questi, notato il suo armeggiare accanto al podio, inserì con un sorriso la parola d’ordine aggiungendovi un codice proprio. Lo schermo centrale si accese allora di vivaci colori, mostrando una donna stilizzata, in abito giallo, seduta a un pianoforte, e due bambini intenti a giocare a scacchi alle sue spalle. Il quadro, emanante un senso di rosso, riproduceva un Matisse del tardo periodio nizzardo, ed era magnificamente proiettato sulla parete frontale della sala. All’aria stupefatta del tenente Todd, un paio di ufficiali superiori scoppiarono in una risata.

«Eh già,» sorrise bonariamente Winters «la capacità di risoluzione di un’immagine 4K per 4K, e una banca-dati quasi infinita, possono fare delle cosette alquanto sbalorditive.» Seguì un imbarazzato silenzio, poi Winters continuò: «Immagino sia vano perseverare nel tentativo di accrescere il bagaglio culturale di voi giovani ufficiali di questa base… Su, vada avanti. L’ho già inserita nella banca-dati Segretissima e ogni nuovo ingresso si sovrapporrà al quadro».

Todd si ricompose. Questo Winters è di sicuro uno strano tipo, pensava intanto. L’ammiraglio comandante la base di Key West aveva assegnato al capitano Winters la direzione dell’importante indagine sul missile Panther proprio la sera prima. Winters aveva una preparazione impressionante in fatto di missili e d’ingegneria dei sistemi, ma chi aveva mai sentito di una riunione importantissima aperta con la proiezione di un quadro sullo schermo? Batté 17BROK01 e, dopo aver contato i presenti, il numero 9. In pochi secondi, una macchina situata nell’angolo posteriore della sala sfornò copie impaginate della relazione a uso dei presenti. Azionando di nuovo la tastiera, Todd chiamò sullo schermo centrale la sua prima videata, dal titolo di “Introduzione e Antefatto”.

«Ieri mattina» cominciò «è stata effettuata, nell’Atlantico Settentrionale, una prova dimostrativa del nuovo missile Panther. Il missile è stato lanciato alle sette da un aereo al largo della costa del Labrador, a un’altezza di ventiquattromila metri, e diretto su un bersaglio — una nostra vecchia portaerei — situato nei pressi delle Bahamas. Dopo una normale traiettoria balistica in direzione della zona dove stava la nave, avrebbe dovuto attivare la guida terminale di cui è provvisto, e che usa il Sistema di Riconoscimento Avanzato dell’Obiettivo, o SRAO. Ciò gli avrebbe dovuto far trovare la portaerei e, a questo punto, usando come autorità primaria di comando i motori degli aviogetti, avrebbe dovuto fare gli eventuali aggiustamenti di verniero necessari all’impatto sul ponte della vecchia nave.»

Pigiato un altro tasto, proiettò sullo schermo sinistro una carta computerizzata della costa orientale americana dal Labrador a Cuba. «Il missile era una versione sperimentale definitiva: era, cioè, esattamente identico al veicolo destinato alla produzione, salvo che per la testata e l’apparecchiatura di prova dei comandi. Il volo, che doveva essere il più lungo mai sperimentato, doveva dimostrare la resa della nuova versione 4,2 della componentistica recentemente installata nello SRAO. Va da sé, pertanto, che il missile non era armato.»

Il tenente prese una penna ottica dal podio e scrisse sul piccolo monitor davanti a sé. Le linee e i punti da lui tracciati vennero immediatamente trasferiti sul grande schermo alle sue spalle, in modo da permettere a ciascuno di seguire facilmente l’esposizione. «Sullo schermo vedete ora la rotta di volo prevista e quella invece effettivamente seguita ieri dal velivolo. Qui, grosso modo dieci miglia a est di capo Canaveral in quello che sembrava essere un volo teorico, l’ordinatore di sequenza ha acceso le telecamere. Dopo circa duecento riprese d’aggiustamento — una specie di autoprova dello SRAO — sono stati attivati, come previsto, gli algoritmi per la guida terminale. E, a giudicare dalla telemetria in tempo reale, fin qui era andato tutto bene.»

Lo schermo destro mostrò ora una carta particolareggiata della Florida meridionale e delle Key col bersaglio al largo delle Bahamas. Le carte degli altri due schermi rimasero dov’erano per l’intera esposizione, mentre variavano, seguendo il discorso, i diagrammi di quello centrale. «La posizione a priori del bersaglio, ossia il primo punto in cui le telecamere avrebbero dovuto cercare la portaerei, era questa — qui, a Eleuthera, nelle Bahamas. L’algoritmo di ricerca avrebbe dovuto spiegarsi a cerchio da lì, e, se correttamente applicato, avrebbe dovuto trovare il bersaglio in circa quindici secondi. E questa,» concluse Todd, indicando una linea tratteggiata sulla carta ingrandita «sarebbe dovuta essere la traiettoria d’impatto.»

«In base ai dati telemetrici finora analizzati» proseguì Todd, dopo una pausa ad effetto «sembra invece che il missile abbia deviato fortemente a ovest, verso la costa della Florida, subito dopo l’attivazione del sistema di guida terminale. A noi è stato possibile ricostruirne la traiettoria solo fino a questo punto, che si trova a circa tre miglia a ovest di Miami Beach e a un’altezza di tremila metri. Da qui in poi, la rilevazione telemetrica risulta intermittente e vaga. Una cosa, però, sappiamo: che, al momento della perdita dei dati completi, i motori per la guida terminale erano in funzione tutti. Perciò, facendo una proiezione dell’autorità totale di controllo del missile, risulta che il suo probabile punto di caduta è da ricercarsi nella zona qui sottolineata: zona che abbraccia le Everglades, le Key e, come estremità meridionale massima, Cuba.»

Il tenente Todd fece un secondo di pausa, e il capitano Winters, che non aveva cessato di annotare su un taccuino i punti salienti della relazione, ne approfittò per prendere in mano le redini del dibattito. «Un paio di domande, tenente, prima di andare oltre» esordì succintamente, facendo sentire chiaro il peso della propria autorità. «Primo: come mai non si è distrutto il missile subito dopo la sua uscita di rotta?»

«Non lo sappiamo ancora con certezza, capitano. Apparato di comando e pezzi d’artiglieria erano pronti all’uso proprio per evenienze simili, naturalmente, ma il mutamento di rotta del missile è stato così brusco e inatteso, che, lì per lì, la nostra reazione è stata un po’ lenta. Così, il comando è partito quando il missile era ormai probabilmente fuori portata. Tutto ciò che sappiamo è che non ci sono state esplosioni di alcun genere. Possiamo dunque supporre che…»

«Torneremo dopo su questo errore operativo» interruppe di nuovo Winters, mentre Todd, sbiancando alla parola “errore”, stava innervosendosi sul podio. «Dove sarebbe dovuto essere il punto d’impatto secondo le costanti di controllo-volo attive al momento dell’ultima rilevazione telemetrica completa? E quanto tempo ci occorrerà per ottenere informazioni aggiuntive dai dati intermittenti?»

Il tenente Todd si disse che il capitano aveva un cervello davvero pronto, da uomo con precedenti esperienze di indagine anomale. E rispose che, ferme restando per ipotesi le costanti di controllo attivo del volo, il funzionamento ininterrotto dei motori terminali avrebbe dovuto portare il missile a un punto d’impatto situato una ventina di miglia a sud di Key West. «La componentistica, però, consentiva alle costanti una variazione ogni cinque secondi» aggiunse. «E tale variazione si è per l’appunto verificata in due degli ultimi cinque aggiornamenti interni. È quindi improbabile che le costanti siano rimaste ferme alla situazione del momento in cui abbiamo cessato di ricevere il panorama telemetrico completo. Sfortunatamente, poi, sebbene le costanti siano immagazzinate tutte — anche le future previste, che vengono calcolate dallo SRAO — nel computer di bordo, i limiti dell’ampiezza di banda ci consentono di trasmettere le costanti attive solo con telemetria in tempo reale. Al momento stiamo cercando di scoprire qualcosa di più sulle costanti tramite esame manuale dei dati di caduta.»

Uno degli ufficiali superiori chiese quale grado di probabilità avesse l’ipotesi che il missile fosse arrivato sino a Cuba. «Molto basso» rispose il tenente Todd, e attivò una sovrapposizione elettronica che disegnò una traiettoria a puntini lampeggianti sulla carta dello schermo destro. I puntini lampeggianti seguivano una rotta che, partendo da un punto appena al largo di Coral Gables, a sud della città di Miami, attraversava una parte della Florida meridionale, entrava nel Golfo del Messico, superava le Key, e finiva quindi di nuovo nell’oceano. «Questa è la linea lungo la quale intendiamo concentrare le ricerche. Ipotizzando che il missile non abbia improvvisamente cambiato di nuovo rotta, la direzione della sua corsa dovrebbe essere stata quella di un bersaglio localizzato in un punto qualunque di tale linea. E poiché non sono stati segnalati impatti a terra in punti vicini a zone abitate, diamo per scontato che esso sia finito sulle Everglades o nell’oceano.»

La sera prima, il tenente Todd si era consultato brevemente con Winters sul programma e la durata della riunione. Questa era stata stabilita in un’ora, ma l’ora diventò una e mezza a causa del numero delle domande. Todd fu esauriente e preciso nell’esposizione, ma ovviamente costernato dall’insistenza di Winters nello scandagliare la questione del possibile errore umano. Così, pur ammettendo senza reticenze che il procedimento di distruzione del missile uscito di rotta non era stato applicato secondo le regole, difese i propri uomini adducendo le circostanze insolite e il passato di esperimenti quasi perfetti proprio del Panther. Aggiunse inoltre che il gruppo intendeva equipaggiare le navi di ricerca con la miglior strumentazione possibile («incluso il nuovo telescopio oceanico creato dall’Istituto Oceanografico di Miami»), e dar inizio al setacciamento delle zone prese in considerazione già dall’indomani.

Winters pose varie domande sulla possibile causa dell’insolito comportamento del missile. Todd rispose che, tanto lui quanto i suoi collaboratori, erano convinti che si trattasse di un problema di componentistica: sequenza inizializzatrice e memoria ottica dei parametri di bersaglio erano stati cioè disturbati chissà come da qualche algoritmo, nuovo o aggiornato, della versione 4,2 dei componenti di programmazione. Winters finì con l’accettare questa tesi, ma solo dopo aver ordinato l’effettuazione di un’analisi «da cima a fondo» delle possibili cause di mancato funzionamento; analisi che doveva elencare tutti gli errori possibili e immaginabili — componenti meccaniche, componenti di programmazione, lato operativo (e questo ritorno sull’aspetto operativo fu uno schiaffo per Todd) — suscettibili di aver provocato l’evento.

Verso la fine della riunione, Winters ribadì la segretezza dell’operazione e la necessità che la stampa fosse tenuta completamente all’oscuro del progetto Freccia Spezzata.

«Scusi, capitano» interloquì Todd (ne! quale l’iniziale sicurezza di sé aveva lasciato il posto a un crescente disagio), mentre Winters stava illustrando la politica da adottare nei confronti della stampa. «Ieri pomeriggio, sul tardi, mi ha telefonato una giornalista del Miami Herald, una certa Carolyn o Kathy Dawson. Questa tale ha detto di aver sentito che qui è in corso un’operazione speciale, a cui risulto associato io. La sua fonte sarebbe qualcuno del Pentagono.»

«Oh, cazzo, tenente, perché non l’ha detto prima?» esclamò Winters, scuotendo la testa. «Se lo immagina che cosa succederebbe se trapelasse che uno dei nostri missili se n’è andato a spasso sopra Miami?» Poi, dopo una pausa: «E lei, a questa giornalista, che cos’ha detto?».

«Assolutamente niente, ma credo che nutra dei sospetti. Dopo aver parlato con me, infatti, ha chiamato l’ufficio relazioni pubbliche.»

Winters ordinò che l’esistenza dell’indagine Freccia Spezzata venisse mantenuta segreta e che ogni richiesta d’informazioni relativa ad essa venisse indirizzata a lui personalmente. Fissò quindi la riunione seguente alle tre del pomeriggio successivo, un venerdì, ora entro la quale il tenente Todd gli avrebbe sottoposto i risultati dell’analisi della telemetria intermittente, una più esauriente esposizione logica delle cause di mancato funzionamento, e un elenco di problematiche recenti relative alla componentistica 4,2.

Il tenente Richard Todd uscì dalla sala con la consapevolezza che il compito assegnatoli era destinato ad avere un’importanza decisiva sulla sua carriera. Chiaramente, quel capitano Winters, stava già mettendo in questione la sua competenza personale, ma lui intendeva rispondere alla sfida in modo positivo. Perciò, la prima cosa che fece fu quella di chiamare a rapporto, come per un’autopsia, i giovani subordinati (che erano tutti dei guardiamarina appena usciti dall’università dopo aver completato un corso ROTC della Marina), e di dir loro chiaro e tondo che era in gioco il culo di tutti quanti. La seconda, quella di assegnar loro una serie di compiti che li avrebbe impegnati per gran parte della notte. Perché lui, alla riunione dell’indomani, doveva assolutamente arrivare preparatissimo.

4

Key West era fiera del suo nuovo porto turistico. Terminato nel 1992 subito dopo che l’esplosione crocieristica aveva portato un nuovo flusso di visitatori alla vecchia città, il porto era quanto di più moderno ci potesse essere. I moli erano provvisti di alte torri, dalle quali delle telecamere tenevano l’insieme sotto sorveglianza costante. Telecamere e altri sistemi di sorveglianza elettronica erano però solo uno degli aspetti del complesso apparato di sicurezza destinato a proteggere gli attracchi in assenza dei proprietari di barche. Un’altra e nuova caratteristica della Hemingway Marina (così, dal più famoso residente di Key West, era stato infatti, naturalmente, battezzato il porto) era una centrale di comando-navigazione. In essa, grazie a un sistema di controllo-traffico praticamente automatico, un singolo operatore era in grado di trasmettere istruzioni a tutto il naviglio portuale e di dirigerne al meglio il florido traffico.

La Hemingway Marina era stata costruita in Key West Bight, in un settore portuale ormai decrepito, e offriva attracchi per circa quattrocento barche. Il suo completamento aveva mutato la natura del commercio cittadino. Giovani professionisti, desiderosi di stare vicini alle proprie barche all’attracco, si erano affrettati a comprare e a migliorare tutte le meravigliose case ottocentesche che costeggiavano le vie Caroline ed Eaton, lungo quello che era noto come Pelican Path. Negozi di lusso, ristoranti chic e anche qualche piccolo teatro s’erano quindi addensati nella zona a creare un’atmosfera di briosa agitazione. C’era perfino un nuovo albergo giapponese, il Mikado Gardens, che andava famoso per la magnifica popolazione di uccelli tropicali svolazzante tra le fontane e le felci dell’atrio.

Poco prima di mezzogiorno, Carol Dawson entrò nella capitaneria di porto e si diresse al banco circolare delle informazioni che stava al centro del salone. Portava una casacca di seta, color porpora-chiaro, e un paio di pantaloni lunghi di cotone che le coprivano il collo delle scarpe bianche da tennis. Al polso destro aveva due minuscoli e graziosi braccialetti d’oro con rubini, e, al collo, una collana con una grossa ametista incastonata in oro che le danzava perfetta al vertice della V della scollatura. Era uno schianto, insomma, e aveva tutto l’aspetto della turista ricca venuta a noleggiare una barca per il pomeriggio.

La ventenne del banco-informazioni, una bionda anche carina in quel suo stile americano senza fronzoli lanciato da Cheryl Tiegs, la osservò avvicinarsi con una punta d’invidia. «In cosa posso servirla?» le chiese con finto garbo quando l’ebbe davanti.

«Vorrei noleggiare una barca per il resto della giornata» rispose Carol. «Ho voglia di uscire a fare qualche immersione e un po’ di nuoto, e magari anche una visita ai relitti più interessanti dei dintorni.» Delle balene — aveva deciso — avrebbe parlato solo dopo aver scelto la barca.

«Allora è capitata proprio nel posto giusto» disse la ragazza. Poi, girandosi verso il computer alla sua sinistra e preparandosi a battere sulla tastiera, continuò: «Mi chiamo Julianne, e uno dei miei compiti qui è quello di aiutare i turisti a trovare le barche adatte alle loro esigenze ricreative». “Questa, se l’è imparata a memoria”, si disse Carol. «Ha già un’idea del prezzo? Qui alla Hemingway la maggioranza delle barche appartiene a privati, ma disponiamo anche di ogni genere di barche da noleggio, la maggior parte delle quali risponde a quanto lei cerca. L’unico problema è se in questo momento siano disponibili.»

Carol fece segno con la testa di non avere idee precise circa il prezzo, e, nel giro di qualche minuto, si vide fornire un tabulato con sopra i nomi di nove barche. «Le barche disponibili sono queste» disse la ragazza. «Come le dicevo, il prezzo varia parecchio.»

Carol studiò rapidamente la lista. La barca più grande e più cara era l’Ambrosia, un sedici metri che costava ottocento dollari al giorno, o cinquecento per mezza giornata. Venivano quindi due barche di prezzo medio e due altre piccole (otto metri), che costavano la metà dell’Ambrosia. Dopo un istante di esitazione, Carol disse: «Vorrei parlare, per primo, col capitano dell’Ambrosia. Dove devo andare?».

«Conosce già il capitano Homer?» rispose Julianne, con un curioso sorrisetto all’angolo della bocca. «Homer Ashford» ripeté lentamente, come fosse un nome noto. Carol si lambiccò un po’ il cervello. Il nome le era familiare. Dove l’aveva sentito? Ah sì, una volta, tempo addietro a un telegiornale…

La ragazza continuò, prima che il ricordo le riaffiorasse: «Allora avverto che lei sta arrivando». Sotto il banco, a destra, c’era un’enorme batteria-relè con parecchie centinaia di interruttori, che doveva essere collegata a un sistema di altoparlanti. Julianne pigiò un interruttore, poi disse: «Sarà questione di un minuto».

«Cosa vuoi, Julianne?» echeggiò un vocione femminile dopo una ventina di secondi. Una voce straniera, tedesca a giudicare dalla pronuncia della seconda parola, e spazientita.

«Ho qui una donna, Greta, la signorina Carol Dawson di Miami, che vuol venire a parlare col capitano Homer per il noleggio dello yacht per questo pomeriggio.»

Un momento di silenzio, poi si riudì la voce di Greta. «Ja, fa pene, màntala pure.» Con un gesto, Julianne invitò Carol a discendere il banco sino a una familiare tastiera incassata in una rientranza della superficie. Carol, che aveva seguito più volte la trafila da quando era stato introdotto, nel 1991, il SIU (Sistema d’Identificazione Universale), batté nome e numero di provenienza sociale, e rimase in attesa della domanda di verifica. Chissà quale sarebbe stata: luogo di nascita? nome della madre da nubile? data di nascita del padre? Era sempre una domanda a caso, scelta sulla base di venti dati personali, immutabili e propri di ciascun individuo. Impersonare qualcun altro richiedeva, ormai, un bello sforzo davvero.

«Signorina Carol Dawson, 1418 Oakwood Gardens, appartamento 17, Miami Beach.» Carol assentì. Per la bionda Julianne, il controllo-dati dei possibili clienti era chiaramente una parte piacevole del lavoro. «Data di nascita?» fu la domanda a caso.

«27 dicembre 1963» rispose Carol. Nel viso di Julianne lesse di aver risposto giusto, ma anche un’altra cosa: un che di competitivo e, anzi, di sprezzante, quasi un «Ah-haa, sono un sacco più giovane di te e adesso lo so». A sciocchezze del genere, Carol di solito non badava; ma, quella mattina, il fatto di avere trent’anni la fece sentire, chissà perché, a disagio. Lì per lì ebbe voglia di cancellare il sorrisetto della piccola Julianne con una battute acida, ma poi ci ripensò e tenne a freno la lingua.

Julianne le diede le indicazioni. «Esca da quella porte laggiù a destra, e vada dritta fino al Molo 4. Poi giri a sinistra e inserisca questa tessera nella serratura del cancello. L’Ambrosia sta all’attracco “P” come Peter. Per arrivare in fondo al molo c’è un bel pezzo a piedi. Ma non può sbagliare: lo yacht che cerca è una delle barche più grandi e più belle del porto.


Julianne aveva detto giusto. Risalire al Molo 4 era davvero una bella camminata. Per arrivare all’Ambrosia, Carol Dawson dovette oltrepassare un totale di trenta barche della più varia stazza, attraccate ad ambo i lati del molo. E, quando avvistò il nome, in lettere blu marcate, sul davanti della cabina, aveva ormai cominciato a sudare a causa dell’afa.

Quando giunse finalmente davanti all’Ambrosia, il capitano Homer Ashford risalì la passerella per venire ad accoglierla. Più vicino ai sessanta che ai cinquanta, questi era un colosso alto più di un metro e ottanta e sui centoventicinque chili di peso, con una chioma ancora folta, ma in cui il nero originario aveva ormai ceduto quasi totalmente il posto al grigio.

I suoi occhi spiritati avevano seguito l’avvicinarsi di Carol con lubrica franchezza. Lei, riconosciuto lo sguardo, ebbe un moto di istintivo ribrezzo e fu lì lì per girarsi e tornare alla capitaneria. Ma non se la sentì, al pensiero di dover riaffrontare, accaldata e stanca, una così lunga camminata. Nel suo mutato atteggiamento il capitano dovette manifestamente cogliere la disapprovazione, perché trasformò il ghigno libidinoso in un sorriso da zio di famiglia.

«La signorina Dawson, immagino» esordì, con un leggero inchino finto-galante. «Benvenuta sull’Ambrosia. Il capitano Homer Ashford e il suo equipaggio sono al suo servizio.» Carol dovette, suo malgrado, sorridere. Se non altro, quel buffone in camicia hawaiana blu-sgargiante sembrava non prendersi troppo sul serio. Accettata, pur con qualche ritegno, la Coca-Cola che le veniva offerta, lo seguì lungo la gettata inferiore a lato della barca. Poi scese con lui nello yacht. Uno yacht enorme.

«Julianne ci ha detto che lei sarebbe interessata a un noleggio per questo pomeriggio. Noi ameremmo portarla in uno dei nostri luoghi preferiti: Dolphin Key.» Erano davanti alla timoniera e alla parte delle cabine. Il capitano Homer era ormai lanciato nel suo discorsetto da imbonitore. Da un punto assai vicino giungeva un suono metallico, che a Carol parve come di bilanciere da sollevamento pesi.

«Dolphin Key è una meravigliosa isola solitaria,» continuò il capitano Homer «ideale sia per nuotare sia per i bagni di sole integrali, se lei ama questo genere di cose. E, se è interessata alle immersioni, offre anche un relitto settecentesco a non più di un paio di miglia al largo.» Carol bevve un altro sorso di Coca e alzò per un istante gli occhi a guardarlo. Lì stornò immediatamente: di nuovo l’espressione lasciva. L’insistenza di lui sull’“integrali” le aveva chissà come trasformato l’immagine mentale di Dolphin Key da quella di placido paradiso tropicale in quella di luogo da orge e guardoni. Quando lui la sfiorò per accompagnarla lungo la fiancata, si ritrasse vivamente. È proprio un tipo schifoso, pensò. Avrei fatto meglio a seguire il mio primo impulso e ad andarmene.

Mentre, superata la porta della cabina, si avvicinavano alla prua della lussuosa imbarcazione, il suono metallico si fece più distinto. Carol, la curiosità giornalistica stimolata da un rumore così fuori luogo, non ascoltò quindi più di tanto l’illustrazione dei pregi dello yacht che le veniva intanto fatta dal capitano. Quando finalmente giunsero in vista del ponte prodiero, constatò che il suono era proprio quello di un bilanciere. A esercitarsi nel sollevamento pesi, era una donna bionda, che dava loro la schiena.

La donna aveva un corpo magnifico; anzi, da mozzare il fiato. Tendendosi alla fine di una serie di distensioni, sollevò i pesi alti sopra la testa. I muscoli, che sembravano scenderle come increspature d’onda dalle spalle, apparivano rigati di rivoli di sudore. Portava un pagliaccetto nero scollato, quasi senza dorso, le cui bretelline sembravano incapaci di sorreggere l’insieme. Il capitano Homer aveva smesso di parlare della barca e, notò Carol, stava là in rapita ammirazione, come fulminato dalla sensuale bellezza della donna sudata in pagliaccetto. È proprio un posto che dà i brividi, pensò Carol. Forse è per questo che la ragazza mi ha domandato se conoscevo questa gente.

La donna infilò i pesi sulla piccola rastrelliera e prese un asciugamano. Quando si voltò, Carol la giudicò prossima ai quarant’anni, e di una bellezza atletica. Aveva seni ampi e sodi, chiaramente visibili sotto il pagliaccetto esiguo. Ma la cosa più notevole erano gli occhi: occhi grigioazzurri che sembravano trafiggere. Quegli occhi lanciarono uno sguardo che Carol giudicò ostile, quasi minaccioso.

«Greta,» disse il capitano Homer, quando la donna spostò lo sguardo da Carol a lui «questa è la signorina Carol Dawson. Che forse noleggerà la barca per questo pomeriggio.»

Senza spendere né un sorriso né una parola, Greta si asciugò il sudore dalla fronte, respirò a fondo un paio di volte, e, gettandosi l’asciugamano su collo e spalle, si drizzò tutta davanti a Homer e a Carol. Poi, spalle indietro e mani sui fianchi, contrasse i pettorali. A ogni contrazione i floridi seni sembravano tendetesi verso il collo. E, durante l’intero esercizio, gli occhi chiarissimi non cessarono di soppesare Carol, in un minuto esame di corpo e abbigliamento. Carol ebbe un involontario fremito.

«Be’, salve, Greta,» disse, sentendosi stranamente priva della sua consueta padronanza, in quell’imbarazzante momento «lieta di conoscerla.» Gesù, toglimi di qui, pensò, quando vide Greta limitarsi a fissare per diversi secondi la mano che lei le porgeva. O sono su un pianeta sconosciuto, o sto avendo un incubo.

«Non ci faccia caso,» le disse il capitano Homer «a Greta, ogni tanto, piace divertirsi coi nostri clienti.» Era irritato con Greta? Carol credette di cogliere una sorta di scambio muto fra i due, e, alla fine, Greta sorrise. Ma di un sorriso falso.

«Penfenuta sull’Ambrosia» disse, scimmiottando il saluto del capitano Homer. «Il nostro piacere la attente.» Poi, sollevando le braccia sopra la testa, gli occhi sempre su Carol, cominciò a stirarsi. «Fenga con noi in paratiso» disse.

Carol sentì sul gomito la manona del capitano Homer che la invitava a girarsi. E le parve anche di cogliere un’irosa occhiata a Greta. «L’Ambrosia è la più bella barca da nolo di Key West» disse il capitano, riassumendo il tono da imbonitore mentre la guidava di nuovo a poppa. «Ha tutte le comodità possibili e immaginabili: televisione via cavo con schermo gigante, lettore di CD con casse quadrifoniche, chef automatico programmato con oltre cento piatti d’alta scuola, messaggio robotizzato. E nessuno conosce le Key come il sottoscritto, che vi pratica immersione e pesca da cinquant’anni.»

Si erano fermati all’ingresso della zona-cabine al centro dello yacht. Attraverso la porta a vetri Carol poteva vedere una scala di discesa. «Vuol scendere a vedere cambusa e camera da letto?» chiese il capitano Homer, stavolta senz’ombra di sottintesi lascivi. Un astuto camaleonte, ecco cos’è, non un buffone come lì per lì m’è sembrato, pensò Carol. Ma cos’è questa faccenda con la muscolosa Greta, chiunque sia?, si chiese. E cosa succede su questa barca? Perché sono tanto strani?

«No grazie, capitano Ashford: ho visto abbastanza» rispose quindi, cogliendo l’occasione per togliersi di torno con garbo. Porgendogli quanto restava della Coca-Cola continuò: «Lo yacht è magnifico, ma mi rendo conto che è troppo caro per una donna sola che voglia passare un pomeriggio distensivo. Molte grazie, comunque per il suo tempo e per il giretto di visita».

Detto ciò, fece per avviarsi verso la passerella che saliva alla gettata. Il capitano Homer strinse gli occhi. «Ma, del prezzo, non abbiamo ancora discusso, signorina Dawson. E sono certo che, per una come lei, potremmo farne uno speciale…»

Carol si rese conto che lui non l’avrebbe mollata così semplicemente. Mentre si accingeva a sbarcare, si presentò in coperta anche Greta. «Fenendo con noi, afreppe l’occasione di scrifere kvalcosa per il suo ciornale» disse Greta con uno strano sorriso. «Kvalcosa di insolito.»

Carol si voltò, sorpresa. «Ah, mi avete riconosciuta, dunque?» disse, ribadendo l’ovvio. La strana coppia le rispose con un ghigno. «E perché non avete detto niente?»

Il capitano Homer si limitò ad alzare le enormi spalle. «Abbiamo pensato che magari lei viaggiasse in incognito, o fosse in cerca di qualche divertimento particolare, o stesse facendo un servizio…» La voce di lui si spense. Carol sorrise scuotendo il capo. Poi salutò con un cenno, salì in passerella e prese la gettata in direzione della lontana capitaneria di porto. Ma chi è questa gente?, tornò a domandarsi. Adesso sono sicura di averla già vista. Ma dove?


Per due volte si guardò alle spalle per vedere se il capitano Homer e Greta fossero sempre là a osservarla. La seconda volta, quand’era ormai a quasi cento metri dallo yacht, non li vide più. Tirò allora un respiro di sollievo. Decisamente, quell’esperienza le aveva messo i nervi a fior di pelle.

Camminando lentamente, estrasse dalla piccola borsa da spiaggia color porpora il tabulato consegnatole da Julianne. Prima però che potesse guardarlo, uno squillo di telefono sulla sinistra richiamò naturalmente i suoi occhi. Il telefono era quello di una barca che le stava proprio di fronte. Sul ponte, un uomo robusto, sulla trentina appena passata, sedeva su una sedia pieghevole. L’uomo indossava solo un berretto rosso da baseball, dei calzoncini da bagno, occhiali scuri da sole e un paio di ciabatte infradito, e guardava intento un piccolo televisore posto su un minuscolo carrello. In una mano aveva un tramezzino (anche da dieci metri di distanza, Carol poteva vedere il filo bianco di maionese che ne colava), nell’altra una lattina di birra. E non dava alcun segno di aver udito lo squillo del telefono.

Carol si avvicinò, incuriosita. La televisione stava trasmettendo una partita di pallacanestro. Più o meno al sesto squillo, l’uomo lanciò un «Cooosì, bravi!» (con la bocca piena) in direzione del sei pollici, trangugiò un sorso di birra, e si alzò di scatto per andare a rispondere. Il telefono era sotto il tendaletto al centro della barca, su una parete rivestita di legno, dietro il timone e accanto a una sorta di banco incassato che sembrava contenere l’apparato di navigazione e la radio. L’uomo parlò brevemente, gli occhi fissi al televisore, la mano inconsciamente occupata a cincischiare la birra, poi riattaccò, lanciò un secondo «Cooosì!», e tornò alla sedia pieghevole.

Carol, ferma sul molo, stava ora a soli pochi centimetri dalla prua della barca e a non più di tre metri da dove sedeva l’uomo. Questi, tutto preso dalla sua partita di pallacanestro, non l’aveva minimamente notata. D’improvviso, balzò in piedi urlando un «Braavoo!». Il brusco movimento fece rullare la barca, e il carrello, costruito di materiale scadente, cedette. L’uomo si slanciò per afferrare il televisore prima che cadesse, ma perse l’equilibrio e finì sul piancito coi gomiti.

«Oh, merda…» imprecò fra sé dal dolore. Ora era lungo disteso sul ponte, occhiali di traverso sulla testa, mentre il televisore che aveva fra le mani continuava a trasmettere la partita. Carol non riuscì a trattenersi dal ridere. Resosi finalmente conto di non essere solo, Nick Williams, proprietario e pilota della Florida Queen, si voltò in direzione della risata.

«Mi scusi,» esordì amabilmente Carol «passavo di qui per caso e l’ho vista cadere…» L’espressione tutt’altro che divertita di Nick le impedì di continuare.

«Cosa vuole?» fece Nick, con un’occhiataccia truculenta. Poi si alzò e, sempre tenendo (e guardando) il televisore, tentò di rimettere in piedi il carrello. Ma non aveva abbastanza mani per fare tutto insieme…

«Potrei anche darle una mano, sa,» disse Carol, sempre sorridendo «se questo non offende il suo orgoglio maschile.» Oh porca…, pensò Nick in un lampo. Ecco un’altra di quelle che la sanno lunga…

Posato il televisore sul piancito, Nick procedette a rimettere in sesto il carrello. «No, grazie,» rispose intanto «mi arrangio da solo.» Poi, facendo come se Carol non esistesse, rimise il televisore sul carrello, tornò alla sua sedia pieghevole, e ripigliò tramezzino e birra.

Divertita da quel chiaro invito a togliersi dai piedi, Carol si guardò intorno. L’ordine non era certo il forte del proprietario: la prua era infatti disseminata di cose e cosette, tipo maschere, tubi di respirazione, regolatori, asciugamani, e resti di vecchi pranzi da fast-food. In uno degli angoli, qualcuno aveva chiaramente smontato un’apparecchio elettronico, forse con l’intenzione di ripararlo, e poi piantato lì, alla rinfusa, i pezzi. Sopra il tendaletto azzurro c’erano due insegne, scritte in caratteri diversi: una col nome della barca, l’altra con SI PREGA DI NON FUMARE.

La Florida Queen sembrava fuori posto nell’ambiente tutto lustro e moderno del porto turistico, e Carol immaginò il ribrezzo degli altri proprietari di barche alla sua vista. D’istinto, consultò il tabulato che teneva in mano, e per poco non scoppiò a ridere quando la vide elencata tra le nove disponibili per il nolo.

«Mi scusi» riprese nell’intenzione di avviare le trattative per il noleggio pomeridiano.

Con un sospirone, Nick staccò gli occhi dalla partita di pallacanestro. L’espressione scocciata del viso diceva chiaramente: Ma come, ancora qui? Eppure credevo che la conversazione fosse finita! Ora se ne vada e mi lasci godere il pomeriggio sulla mia barca.

Spirito birichino, Carol non seppe resistere all’occasione di punzecchiare l’arrogante signor Williams (dava per scontato, infatti, che il nome del tabulato corrispondesse a quello dell’uomo che aveva davanti, giacché le pareva impensabile che un membro dell’equipaggio potesse comportarsi con tanta sicurezza e con tanta autorità sulla barca di un altro). «Chi è che gioca?» chiese gaiamente, come se non avesse affatto notato il chiaro invito a levarsi di torno.

«Harvard e Tennessee» rispose sgarbatamente lui, stupito che lei non avesse colto il messaggio.

«E a quanto stanno?» s’affrettò a continuare Carol, divertendosi al gioco da lei stessa appena creato.

Nick si girò di nuovo, con un’espressione tra lo stupefatto e l’esagerato. «31 a 29 per Harvard,» rispose secco «a pochi minuti dalla fine del primo tempo.» Immobile, Carol si limitò a ricambiare con un sorriso, senza batter ciglio, l’occhiataccia di lui. «Ed è il primo girone del campionato NCAA, e sono le Regionali del Sud-est. Altre domande?»

«Una sola» fece lei. «Vorrei noleggiare questa barca per il pomeriggio: Nick Williams, è lei?»

«Cosa?» esclamò Nick, colto di sorpresa. In quell’istante il Tennessee pareggiò, mandandolo ancor più in confusione. Guardata per un altro paio di secondi la partita, tentò di ricomporsi. «Ma non ho avuto chiamate, da Julianne. Chiunque voglia noleggiare una barca, qui a Hemingway, deve firmare al banco e poi…»

«lo ero venuta a vedere un’altra barca, prima. Ma non mi è piaciuta, e così, tornando, mi sono fermata qui.» Nick aveva ripreso a guardare la televisione, e Carol cominciava a perdere la pazienza. Sulle prime, era stato divertente… Se non altro, non ho da preoccuparmi di venir palpata, pensò. Perché, se non riesce a concentrarsi su di me nemmeno di quel tanto che gli servirebbe per noleggiarmi la barca… «Senta,» riprese «me la vuole noleggiare per questo pomeriggio sì o no?»

Fine del primo tempo della partita di pallacanestro. «Sì… ma sì» si lasciò uscire lentamente di bocca Nick, pensando fra sé: Perché ho bisogno di soldi, altrimenti… Poi le accennò di scendere sul ponte. «Lasci solo che chiami Julianne per accertare che lei sia quella che dice di essere. Di questi tempi, non si sa mai.»

Mentre Nick verificava l’identità di Carol presso la capitaneria, un giovane nero tra i venti e i venticinque anni e dall’aria vivace discese il molo e venne a fermarsi proprio di fronte alla Florida Queen. «Ehi, professore,» disse, non appena Nick ebbe posato il ricevitore «sono nel posto sbagliato?» Poi, indicando Carol: «Non mi avevi detto che oggi ricevevi bellezza, stile e classe. Accidenti! Guarda che gioielli, e che camicetta di seta! Che dici: me ne vado e torno più tardi a sentire le tue storie?». Strizzando l’occhio a Carol, continuò: «Non ci sa fare, tesoro. Le sue amichette finiscono sempre per preferire me».

«Basta con le stronzate, Jefferson» reagì Nick. «Questa donna è una potenziale cliente. E tu, come al solito, sei in ritardo. Me lo dici come faccio a gestire il nolo di una barca da immersione con un equipaggio che non so né quando né se si presenterà?»

«Professore,» disse il nuovo arrivato saltando giù sul ponte e andando a piantarsi davanti a Carol «se avessi saputo che avevi qui una roba simile, sarei arrivato prima dell’alba. Buongiorno, signorina: mi chiamo Troy Jefferson e sono il resto della ciurma di questo manicomio di barca.»

Un po’ scombussolata dall’arrivo di Troy e dal vivace scambio di battute che ne era seguito, Carol non tardò ad adattarsi alla situazione. Riacquistata la compostezza, strinse con un sorriso la mano che Troy le porgeva. Questi le si chinò subito addosso fin quasi a sfiorarle la guancia con la sua. «Ueeh…» esclamò quindi, ritraendosi con un sorriso. «Profumo Oscar de la Renta! Non te lo dicevo, professore, che è una donna di classe? Be’, angelo,» continuò, rivolgendo a Carol uno sguardo di caricaturale ammirazione «proprio non le so dire quanto significhi per me incontrare finalmente una persona come lei su questa bagnarola. Di solito abbiamo delle vecchie signore — ma proprio vecchie, creda — che vogliono,…»

«Basta, Jefferson,» lo interruppe Nick «abbiamo da fare. È quasi mezzogiorno, ormai, e ci vorrà ancora almeno mezz’ora prima che siamo pronti a salpare. E non sappiamo ancora che cosa vuol fare la signorina Dawson.»

«Mi chiami pure Carol» disse lei. Un breve silenzio speso nel soppesare i due uomini che aveva dinanzi (Ma sì: nessuno sospetterà nulla, se esco con due elementi del genere…), poi continuò: «Be’, alla capitaneria ho detto che intendevo uscire per un po’ di nuoto e di immersioni, ma questo è vero solo in parte. Quello che soprattutto mi interessa è di andare qui» (ed estratta dalla borsa da spiaggia una carta ripiegata, indicò loro un’area di circa dieci miglia quadrate nel Golfo del Messico, a nord di Key West) «in cerca di balene.»

Nick aggrottò le sopracciglia. Troy lanciò un’occhiata alla carta da sopra la spalla di lei. «In questa zona, ultimamente, si sono verificate numerose irregolarità nel comportamento delle balene, e, tra queste e proprio stamane, un grosso arenamento sulla spiaggia di Deer Key. lo voglio vedere se sia possibile stabilire una qualche costante, in tutto questo, e siccome può darsi che debba fare qualche immersione, bisognerà che uno di voi mi accompagni. Immagino che almeno uno sia un sub patentato e che la barca disponga dell’attrezzatura necessaria…»

Nick e Troy la fissarono con sguardo incredulo. Carol si sentì costretta alla difensiva. «La verità è che… sono una giornalista» proseguì a mo’ di spiegazione. «Lavoro per il Miami Herald, e proprio stamattina ho fatto un servizio sull’arenamento di Deer Key.»

«Bene, professore,» disse Troy a Nick «eccoci qui con una cliente in carne e ossa che dice di voler andare in cerca di balene nel Golfo del Messico. Tu, che dici: li accettiamo o no, i suoi soldi?»

Nick scrollò le spalle con aria indifferente, e Troy interpretò il gesto come affermativo. «D’accordo, allora angelo,» disse a Carol «saremo pronti fra mezz’ora. Al bisogno, la licenza di sub l’abbiamo tutt’e due. L’attrezzatura è già a bordo, e possiamo procurarcene dell’altra per lei. Ora può andare a pagare Julianne alla capitaneria e a prendere le sue cose.»

Poi si girò, andò al mucchio di ferraglia elettronica ammassato a prua, e, presa una cassa acustica mezza scoperchiata, prese ad armeggiarvi. Nick estrasse un’altra birra dal frigo e aprì il banco incassato, rivelando scaffali di attrezzi. Carol non si mosse. Dopo una ventina di secondi, Nick se ne accorse. «Be’, non ha sentito Troy?» disse brusco. «Ci vuole ancora mezz’ora.» Dopodiché girò sui tacchi e se ne andò a poppa.

Troy alzò gli occhi dalla sua cassa, divertito dall’attrito che già andava sorgendo fra i due. «È sempre così simpatico?» chiese Carol, accennando nella direzione di Nick — sempre col sorriso sulle labbra, ma con una punta d’irritazione nel tono. «Avrei due o tre attrezzi miei da portare a bordo. Potrebbe darmi una mano?»


Trenta minuti dopo tornava con lui alla Florida Queen. Troy, che si tirava dietro un carretto fischiettando “Zippity-do-dah”, si fermò davanti alla barca. Il carretto conteneva un baule semipieno: chissà la faccia di Nick, quando avrebbe visto i «due o tre attrezzi» di lei… Gli eventi avevano preso una piega davvero emozionante. Eh no, quella non sarebbe stata la solita escursione pomeridiana! I giornalisti, anche quelli di grido (e il suo servizio informazioni stradale non aveva tardato a riferirgli che Carol non era una giornalista comune), non avevano accesso al tipo di equipaggiamento da lei posseduto. La storia delle balene doveva essere una finta di copertura — ne era persuaso. Ma lui, per il momento, non avrebbe detto nulla, e sarebbe rimasto in attesa degli sviluppi della situazione…

Quella giovane donna tanto sicura di sé, gli piaceva. Non c’era traccia di superiorità o di pregiudizi nei suoi modi, e aveva uno spiccato senso dell’umorismo. Quando avevano aperto il retro della giardinetta e lei gli aveva fatto vedere il baule di attrezzature, lui le aveva dimostrato di essere un discreto esperto di elettronica. Aveva riconosciuto immediatamente la sigla IOM apposta al telescopio oceanico di Dale e anche intuito il significato dell’acronimo IOM-IPL sul retro del grosso sistema monitor banca-dati. Quando le aveva chiesto spiegazioni con lo sguardo, lei si era limitata a rispondere, con una risata: «Che altro posso dirle, se non che mi serve aiuto per trovare le balene?».

Insieme, avevano caricato l’attrezzatura sul carretto e avevano preso per il parcheggio. Lì per lì, Carol s’era sentita un po’ sconcertata dinnanzi al riconoscimento dell’origine dell’attrezzatura da parte di Troy e alle domande, pur cortesi, di lui per saperne di più (domande cui aveva risposto, destreggiandosi abilmente, con risposte vaghe, in ciò favorita dal fatto che lui voleva soprattutto conoscere proprio quello di cui lei non aveva la più pallida idea, ossia il modo di funzionamento della parte elettronica). Ma poi, nel parlare, aveva acquistato fiducia, intuendo istintivamente che Troy era un alleato e che lei avrebbe potuto contare sulla sua discrezione in materia di informazioni importanti.

Di una cosa, però, non aveva tenuto conto: del controllo di sicurezza vigente all’interno della Hemingway Marina. Uno dei punti di forza della vendita degli ormeggi era stata appunto l’offerta ai proprietari di barche di un sistema di sicurezza quasi senza eguali. Ogni persona in entrata o in uscita dal porto doveva passare per un cancello elettronico adiacente alla capitaneria, dove ogni uscita e ogni entrata, più il tempo impiegato nell’attraversamento del cancello, venivano riportati ogni sera su un tabulato e archiviati nell’ufficio di sicurezza come misura precauzionale in caso di segnalazione di eventi sospetti o incresciosi. Come misura preventiva contro il furto di costose apparecchiature di navigazione e di strumenti elettronici in genere, veniva inoltre sottoposto a verifica (e registrazione) il materiale in entrata e in uscita.

Pagato il nolo, Carol non giudicò un gran fastidio quello di dover riempire, su richiesta di Julianne, un modulo elencante il contenuto del baule, ma protestò vivamente quando l’incaricato della sicurezza, (un tipico poliziotto irlandese di Boston ritiratosi in pensione nella zona di Key West) le ordinò di aprire il collo per verifica. Né le sue proteste né l’intervento di Troy valsero tuttavia a qualcosa: il regolamento era il regolamento.

Il carretto era troppo grande per passare attraverso la porta dell’adiacente ufficio di sicurezza, e così il baule venne aperto nel salone sdoganamento della capitaneria. Mentre l’agente O’Rourke ne spuntava con meticolosità il contenuto sulla lista compilata da Carol, una coppia di curiosi comprendente un’affabile gigantessa di nome Ellen (una conoscenza di Troy, che Carol immaginò essere probabilmente una proprietaria di barca) si avvicinò per osservare.

Un po’ nervosa, Carol si avviò con Troy lungo il molo, tirando il carretto, verso la Florida Queen. L’aveva con se stessa per non aver previsto il controllo di sicurezza. Bel modo davvero di non attirare l’attenzione, il suo! Nick, intanto, terminati i pochi e consueti preparativi per la partenza, aveva aperto un’altra birra ed era tornato a immergersi nella partita di pallacanestro. La sua amata Harvard stava perdendo, sicché non udì il fischio di Troy se non quando questi e Carol furono a soli pochi metri.

«Gesù, credevo vi foste persi…» disse girandosi. Poi, alla vista del carretto col baule, rimase un istante senza parole. «E quello, che cazzo è?»

«L’equipaggiamento della signorina Dawson, professore» rispose con un gran sogghigno Troy. E, allungata una mano nel baule, cominciò con l’estrarre un cilindro dall’estremità in vetro trasparente — un grosso oggetto tipo torcia montato su forcella, lungo circa mezzo metro e pesante sui sei chili. «Questo, per esempio, sarebbe, secondo la signorina, un telescopio oceanico. Fissato sotto il fondo della barca per mezzo della forcella, riprende immagini che appaiono su questo monitor, e vengono quindi immagazzinate in quest’altro aggeggio, che è una specie di registratore che…»

«Alt, alt!» lo interruppe d’autorità Nick. «Ho capito bene?» disse, scuotendo la testa e guardando dall’uno all’altra, dopo aver risalito la passerella e dato un’occhiata incredula al baule. «Dovremmo montare tutte ’ste cazzate solo per un pomeriggio nel Golfo in cerca di balene? Ma si può sapere dove hai la testa, Jefferson?» esclamò, furente, rivolto a Troy. «Questa roba è pesante, richiederà tempo per il montaggio, e siamo già a mezzogiorno passato!

«In quanto a lei, sorella, si porti i suoi giocattoli e la sua mappa del tesoro da qualche altra parte. Sappiamo bene cosa cerca veramente, e abbiamo cose più importanti da fare.»

«Ha finito?» gli gridò dietro Carol. Nick, che stava ridiscendendo la passerella, si fermò e si voltò a metà. «Allora mi senta bene, testa di cazzo» continuò, sfogando tutta la frustrazione e la rabbia che le si erano andate accumulando dentro: «Lei ha certo il diritto di negarmi l’uso della sua barca, ma non quello di comportarsi da Dio onnipotente e di trattare me o chiunque altro da pezzo di merda solo perché sono una donna e a lei le gira di pigliarsela con qualcuno». Poi si mosse verso di lui, e Nick, dinnanzi a quell’offensiva, arretrò di un passo.

«Le ho detto che voglio andare in cerca di balene e questo è ciò che intendo fare, e non me ne frega niente che lei pensi che io sia in cerca d’altro. Riguardo alle cose importanti che avrebbe da fare, è un’ora che non si scolla da quella maledetta partita di pallacanestro se non per andare a prendere dell’altra birra. Dunque, se mi sta fuori dai piedi, in mezz’ora, fra Troy e me, tutta questa roba è sistemata. Anche perché c’è un piccolo particolare» continuò meno focosamente, cominciando a sentirsi un po’ imbarazzata per lo sfogo: «il nolo l’ho già pagato, e, come sa, annullare un pagamento con queste carte di credito computerizzate è un traffico che…»

«Che razza di donnino, eh, professore?» ghignò maliziosamente Troy, strizzando l’occhio a Carol. Poi, tornato serio: «Senti, Nick: il denaro ci serve, a tutt’e due. E io sarei felice di aiutarla. Se è per il bilanciamento, possiamo lasciare a terra quello che cresce degli attrezzi da immersione».

Nick tornò alla sdraio davanti al televisore, e, dopo un sorso di birra, disse, con qualche riluttanza e senza voltarsi: «E sia, procedete pure. Ma, se non siamo pronti a salpare per la una, non se ne fa niente». I giocatori di pallacanestro gli danzavano davanti agli occhi. Harvard aveva pareggiato di nuovo. Stavolta, però, lui non stava seguendo, ma riflettendo alla sparata di Carol. Mi domando se non abbia ragione. Se non sia vero che giudico le donne inferiori. O peggio.

5

Il capitano di fregata Vernon Winters riattaccò il ricevitore sentendosi tremare tutto. Era come se avesse visto un fantasma. Gettato nel cestino il torsolo di mela, si cercò in tasca una delle sue Pall Mall. Poi, senza rendersene conto, si alzò e andò alla grande portafinestra che dava sul cortile erboso della direzione amministrativa. Alla base aeronavale si era appena concluso l’intervallo del pranzo, e il viavai da e per la mensa di giovani dei due sessi era cessato. Sul prato era rimasto solo un giovane guardamarina, che leggeva un libro seduto contro un grande albero.

Il capitano Winters accese la sigaretta senza filtro e aspirò profondamente, poi espirò in fretta e tirò una nuova boccata. «Ehi, Indiana, sono Randy» aveva detto la voce due minuti prima. «Ti ricordi di me?» Come se fosse stato possibile dimenticare quella voce baritonalnasale… Subito dopo, senza attendere risposta, la voce si era materializzata sul monitor nel viso serissimo dell’ammiraglio Randolph Hilliard, seduto alla scrivania di un grande ufficio del Pentagono. «Bene,» aveva continuato «adesso possiamo vederci in faccia.»

Dopo un istante di silenzio, Hilliard si era chinato verso la telecamera. «Sono contento che Duckett abbia affidato a te questa faccenda del Panther. È una faccenda che potrebbe mettersi male; perciò bisogna scoprire, alla svelta e senza pubblicità, quel che è successo. Il Segretario di Stato e io contiamo su di te.»

Che cos’aveva risposto all’ammiraglio? Non riusciva a ricordare; però, doveva essersela cavata bene. Ma ricordava le ultime parole, ossia il suo annuncio che avrebbe richiamato per un resoconto dopo il rapporto del venerdì pomeriggio. Lui, Winters, quella voce non l’aveva più udita in quasi otto anni, ma il riconoscimento era stato istantaneo. E, a soli millisecondi di distanza, gli era affiorata la marea dei ricordi.

Dopo un’altra boccata, si staccò dalla portafinestra e prese a camminare lentamente per la stanza. Lo sguardo sfiorò, senza vedere, l’oggetto di maggior rilievo della parete: la deliziosa stampa, a morbidi colori, delle Due ragazze al piano di Renoir, il suo quadro preferito. Quell’ingrandimento speciale gli era stato donato dalla moglie e dal figlio per il suo quarantesimo compleanno, e, in circostanze normali, a lui accadeva più volte la settimana di soffermarsi davanti al quadro per ammirare la bella composizione. Ma due graziose giovinette intente alla lezione pomeridiana di piano non erano precisamente adatte alla situazione della giornata.

Tornato a sedere alla scrivania, si prese il volto tra le mani. Ci risiamo, pensava intanto. Non posso più tenermela per me, dopo aver visto Randy e udito quella voce. Si guardò intorno, poi spense la sigaretta nel grosso portacenere davanti a sé. Per qualche istante giocherellò senza motivo con due piccole fotografie in cornice: una raffigurante un pallido dodicenne in compagnia di una donna poco più che quarantenne e d’aspetto insignificante, l’altra, datata Marzo 1993, il cast della Gatta sul tetto che scotta, data dalla compagnia dei Key West Players, con lui vestito di un completo estivo. Poi le posò e, allungatosi in poltrona, si abbandonò, a occhi chiusi, all’irresistibile richiamo dei ricordi. Come a un interiore levar di sipario, si senti trasportare a una limpida e calda notte di circa otto anni addietro, ai primi d’aprile del 1986. E il primo rumore che udì fu la concitata voce nasale del tenente di vascello Randolph Hilliard.

«Psst, Indiana, sveglia! Come fai a dormire? Sono Randy. Dobbiamo parlare. Sono così agitato che quasi me la faccio addosso.» Lui, Winters, che dormiva solo da circa un’ora dopo aver a sua volta faticato a prender sonno, guardò inconsapevolmente l’orologio. Quasi le due — e l’amico, in piedi accanto alla cuccetta, gli sorrideva con tutta la faccia. «Ancora tre ore sole, e attacchiamo. E quel folle di un arabo finanziaterroristi si ritroverà in cielo con Allah. Cazzo, vecchio mio, è il nostro momento: quello per cui abbiamo lavorato tutta la vita!»

Winters scosse la testa e cominciò a snebbiarsi dal sonno. Gli ci volle un momento per ricordare che stava a bordo dell’USS Nimitz, al largo della costa libica, e che stava per affrontare la prima azione della sua carriera militare. «Senti, Randy» finì per dire (quella notte di quasi otto anni addietro) «ma non sarebbe meglio dormire? E se domani fossero i libici ad attaccarci? Bisognerà essere ben svegli, non ti pare?»

«Ma che cazzo dici…» rispose l’amico e collega, aiutandolo a tirarsi su a sedere e porgendogli una sigaretta. «Quei culattoni lì non attaccheranno mai un avversario capace di battersi. Sono terroristi: sanno solo combattere contro la gente inerme. L’unico di loro che abbia un po’ di fegato è quel colonnello Gheddafi, che però è suonato come una campana. Così, una volta che l’avremo fatto saltare nel regno dei cieli, la battaglia sarà finita. E, in quanto a dormire, ho tanta adrenalina nel sangue che potrei star sveglio trentasei ore come niente.»

Winters sentì la nicotina scorrergli per il corpo e ridestargli la brama d’azione che, un’ora prima, era finalmente riuscito a calmare di quel tanto che gli era bastato per prender sonno. Randy stava parlando a ruota libera. «Abbiamo avuto un culo da non credere! Per sei anni mi sono chiesto come può un ufficiale segnalarsi, distinguersi, in tempo di pace. E adesso ci siamo. Un matto piazza una bomba in un club di Berlino, e il caso vuole che proprio noi siamo di servizio nel Mediterraneo. Questo si chiama essere nel posto giusto al momento giusto! Cazzo: ma te l’immagini quanti allievi del nostro corso darebbero la palla destra pur di stare al posto nostro? Domani ammazziamo quel matto, e saremo avviati a diventare capitani, o magari addirittura ammiragli, nel giro di cinque-otto anni!»

Pur non condividendo il modo di vedere dell’amico, secondo il quale uno dei vantaggi dell’incursione contro Gheddafi sarebbe consistita in un avanzamento di carriera per entrambi, Winters non aprì bocca. Da qualche minuto era immerso in una profonda riflessione personale. Come mai si sentiva anche luì così agitato? Non capiva bene. Era un’agitazione simile a quella provata prima dei quarti di finale universitari di pallacanestro… E chissà quanto sarebbe cresciuta con la paura, se davvero le forze americane si stavano preparando alla battaglia…

Del resto l’addestramento di preattacco durava già da quasi una settimana, ma era normale procedura della Marina quella di svolgere i preparativi di combattimento fino all’ultimo e di sospenderli quindi circa un giorno prima della prevista ora zero. Stavolta, però, le cose erano andate diversamente sin dal principio. Hilliard e Winters non avevano tardato ad accorgersi di come gli ufficiali superiori mettessero in tutto una serietà mai vista. Nessuna tolleranza per scherzi o battute, stavolta, durante i lunghi e barbosi controlli di aerei, missili e cannoni. La Nimitz, insomma si preparava alla guerra. E il giorno prima, quando l’uso avrebbe voluto la sospensione dei preparativi, il comandante aveva chiamato tutti gli ufficiali a rapporto per annunciar loro di aver ricevuto l’ordine d’attacco per l’indomani all’alba, e spiegato la portata dell’azione americana contro la Libia. A questo, Winters aveva provato un tuffo al cuore.

Il suo ultimo compito, subito dopo cena, era stato un ennesimo ripasso, insieme coi piloti, degli obiettivi da bombardare. Due aerei sarebbero stati inviati, separatamente, a bombardare la residenza in cui si supponeva dormisse Gheddafi. Uno dei due piloti scelti per la missione s’era mostrato fuori di sé dalla gioia per aver avuto in sorte l’obiettivo principale del raid. L’altro, il tenente Gibson, originario dell’Oregon, aveva proceduto ai preparativi con tranquilla meticolosità, studiando la carta con lui, Winters, e ripassando le postazioni antiaeree libiche. S’era lamentato d’una cosa sola: di avere la bocca secca; e aveva bevuto diversi bicchieri d’acqua.

«Cazzo, Indiana, sai cosa mi preoccupa? Che ’sti piloti saranno in battaglia e noi invece piantati qui a non fare un tubo, se quei matti di arabi non ci attaccano. Allora, come si fa per andarci anche noi, in combattimento? Aspetta: mi è venuta un’idea.» Il tenente Hilliard continuava a parlare a ruota libera. Erano le tre passate, avevano esaminato almeno due volte ogni minimo aspetto dell’attacco, e Winters si sentiva stremato dalla mancanza di sonno, ma il suo stupefacente amico seguitava a trasudare esuberanza.

«Grande idea» continuò Randy, parlando a se stesso. «E, sì, si può fare. I piloti li hai istruiti tu, no?, e dunque saprai chi è destinato a quale bersaglio.» Vernon assentì. «Allora è fatta. Attaccheremo un nostro personale “vaffanculo” al missile destinato a Gheddafi: così una parte di noi parteciperà al combattimento.»

Vernon non si sentì la forza di dissuadere l’amico dallo stralampato proposito. Così, quando si avvicinò l’ora dell’attacco, si recò con lui nell’hangar della Nimitz e trovò l’aereo assegnato al tenente Gibson (senza sapere perché, lui aveva dato subito per scontato che sarebbe stato Gibson a centrare con un missile l’enclave di Gheddafi). Randy spiegò ridendo al giovane guardiamarina di servizio quali fossero le loro intenzioni.

C’era voluta quasi mezz’ora per localizzare l’aereo giusto e per identificare quindi il missile destinato a venir lanciato per primo contro la casa di Gheddafi. Poi i due tenenti avevano discusso per un’altra decina di minuti che cosa scrivere sul pezzo di carta da incollare al missile. Winters avrebbe voluto qualcosa di profondo, quasi di filosofico, del tipo «Questa è la giusta fine della tirannia del terrorismo». Hilliard aveva sostenuto, in maniera convincente, che un concetto del genere era troppo oscuro. Così, uno stanco Winters aveva finito per accettare il messaggio viscerale del collega che diceva: «CREPA, BASTARDO».

Winters era quindi tornato, esausto, alla sua cuccetta. Stanco e ancora scombussolato dall’entità degli eventi che stavano per accadere, tirò fuori la Bibbia per leggere qualche versetto. Ma il Libro non aveva parole di conforto per il presbiteriano dell’Indiana. Provò allora a pregare: preghiere generiche, dapprima, poi sempre più specifiche, com’era stato sempre suo costume nei momenti critici della vita. Chiese al Signore di proteggere sua moglie e suo figlio, e di stargli accanto in quel momento di travaglio. Poi, d’un tratto, senza riflettere, lo pregò di rovesciare il terrore sul colonnello Gheddafi e su tutta la sua famiglia sotto forma di missile. Di quel missile col messàggio incollato sopra.

Otto anni più tardi, seduto nel suo ufficio della base aeronavale di Key West, il capitano di fregata Winters avrebbe ricordato quella preghiera con una stretta al cuore. Già nell’86, del resto, a preghiera appena terminata, s’era sentito stranamente disorientato, come se avesse proferito un’empietà e dato un dispiacere al Signore. La breve ora di sonno che le era seguita era stata una tortura: un orrendo incubo popolato di gargolle e vampiri. All’alba aveva assistito, come in stato di trance, alla partenza degli aerei, la bocca impastata di un amaro sapore metallico nel momento di stringere meccanicamente la mano a Gibson e di augurargli buona fortuna.

In tutti quegli anni, non aveva fatto che dirsi: “Ah, se si potesse fare che non avessi mai detto quella preghiera!”. Dio, infatti, aveva permesso a quel determinato missile portato da Gibson di togliere la vita alla figlioletta di Gheddafi proprio per impartire a lui, Winters, una lezione. Di questo, era convinto. Quel giorno, pensava quel giovedì di marzo del 1994, seduto nel suo ufficio, ho commesso sacrilegio e violato la tua fiducia. Ho valicato i limiti dell’umanamente lecito e perduto la mia posizione privilegiata nel tuo santuario. Da allora, ho chiesto più volte perdono, ma il perdono tarda ancora a venire. Quanto dovrò aspettare ancora?

6

Vernon Allen Winters era nato il 25 giugno 1950, il giorno dell’invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord. Il significato di tale data di nascita gli sarebbe stato ricordato per tutta la vita dal padre, Martin Winters, uomo profondamente religioso e amante del lavoro che, all’epoca dell’evento, faceva il coltivatore di grano nell’Indiana. La famiglia aveva lasciato la fattoria per Columbus, una città bianca, di classe media, sui trentamila abitanti, fra il centro e il sud dell’Indiana, quando Vernon aveva tre anni e sua sorella Linda sei. La madre di Vernon si sentiva isolata, là in mezzo alla campagna, e tanto più d’inverno, e aveva voluto un po’ più di compagnia. La vendita della fattoria aveva fruttato un buon gruzzolo, e in denaro contante. Il signor Winters, ormai vicino alla quarantina, ne aveva messo da parte il grosso per il giorno di vacche magre ed era entrato in banca.

Martin Winters era fiero di essere americano. Tutte le volte che raccontava a Vernon del suo giorno natale, la storia s’incentrava inevitabilmente sulla notizia dello scoppio della guerra di Corea e sul modo in cui tale guerra era stata presentata alla nazione dal presidente Harry Truman. «Quel giorno ho pensato che, di sicuro, non poteva essere una coincidenza» era solito dire il signor Winters. «Se il Signore nella Sua bontà ti aveva portato a noi proprio quel giorno, doveva essere perché Egli aveva uno scopo per te. E scommetto che lo scopo era quello che tu fossi un protettore del meraviglioso Paese da noi creato…» Più tardi, il banchiere Winters avrebbe sempre fatto in modo che la partita di football Esercito-Marina fosse uno degli eventi chiave dell’anno, e detto agli amici, soprattutto una volta divenuto chiaro che il giovane Vernon prometteva bene come studente, che «il ragazzo era sempre incerto su quale accademia frequentare». Ma, a Vernon, il suo parere non era mai stato chiesto.

La famiglia Winters conduceva una vita semplice da Middlewest. Il signor Winters, uomo di moderato successo, finì per diventare il vicepresidente anziano della massima banca di Columbus. L’attività sociale primaria della famiglia era la chiesa, dove la famiglia, presbiteriana, passava quasi per intero le giornate di domenica. La signora Winters dirigeva la scuola domenicale di catechismo, mentre il signor Winters, diacono, amministrava volontariamente le finanze della chiesa. Vernon e Linda collaboravano alla sorveglianza dei frequentatori più piccoli della scuola domenicale, e si occupavano dei cartelloni di argomento biblico da affiggere alle bacheche degli asili e nelle aule delle scuole elementari.

Alle superiori, Vernon praticava tutti gli sport: football e pallacanestro perché vi era tenuto, baseball perché gli piaceva. In tutti era sopra la media, ma non eccelleva in nessuno. «Le attività pratiche sono importanti, specialmente le sportive» gli diceva spesso, in tono approvatore, il banchiere Winters. «Le accademie, infatti, cercano qualcosa di più dei semplici voti.» L’unica decisione di rilievo che a Vernon toccò prendere nei primi diciott’anni di vita fu quella riguardante la scelta dell’accademia militare cui iscriversi. (Da uomo prudente, il signor Winters era pronto a muovere certe pedine politiche per assicurargli l’ingresso in una qualsiasi delle tre, e lo invitò a presentare comunque domanda a tutt’e tre, perché non si sapeva mai.) Al terz’anno di corso del liceo di Columbus, Vernon si sottopose al Test Attitudinale Scolastico (TAS), e lo superò con voti tanto alti, da mettersi chiaramente in grado di scegliere l’accademia preferita. Scelse Annapolis, e nessuno gliene chiese il perché. Gli fosse stato chiesto, avrebbe semplicemente risposto che si vedeva bene in divisa da marinaio.

L’adolescenza di Vernon fu singolarmente lineare, soprattutto considerando che si svolse in un periodo di grandi sconvolgimenti sociali per gli Stati Uniti. La famiglia Winters pregò riunita per ore dopo l’assassinio di Kennedy, si preoccupò dei ragazzi locali mandati in Vietnam a fare la guerra, assisté con turbamento all’espulsione del liceo di tre maturandi di spicco colpevoli di aver rifiutato di tagliarsi i capelli, e presenziò a un paio di riunioni organizzate dalla chiesa sui mali della marijuana, ma non lasciò che tutti questi motivi di preoccupazione venissero a turbare la sua quotidiana armonia. La musica dei Beatles e dei Rolling Stones penetrò, va da sé, anche la sua pur controllata cultura, e sullo stereo di Vernon risuonarono addirittura alcune delle canzoni di protesta di Bob Dylan e Joan Baez, ma il loro contenuto verbale non interessava granché né a Vernon né a sua sorella Linda.

Un’esistenza facile e tranquilla, insomma. Gli amici intimi di Vernon provenivano tutti da famiglie come la sua: madri casalinghe, padri bancari, avvocati o uomini d’affari, quasi tutti Repubblicani (o, se Democratici, d’animo patriottico, il che era egualmente accettabile) e fervidi credenti in Dio, nella Patria, e nell’intera litania delle cose terminanti in -io o in -ia. «Bravo ragazzo» anzi «ragazzo fuori del comune.» Vernon cominciò a segnalarsi con le sue recite nelle sacre rappresentazioni date dalla chiesa ogni Natale e Pasqua. Il pastore, il reverendo Pendleton, credeva fermamente che la rappresentazione di Natività e Crocifissione, coi bambini della città per attori, fosse un modo vigoroso per riaffermare la fede della cittadinanza. E aveva ragione: gli spettacoli in costume della Chiesa presbiteriana di Columbus erano uno degli eventi maggiori dell’anno. Quando i membri della chiesa e i loro amici vedevano i propri bambini nei panni di Giuseppe, Maria e dello stesso Gesù, la loro partecipazione agli episodi rappresentati raggiungeva un grado di coinvolgimento emotivo, quale mai avrebbe raggiunto in altro modo.

Il reverendo Pendleton aveva due gruppi di attori per ciascuna rappresentazione, così da favorire la partecipazione di un maggior numero di bambini, ma la stella era sempre Vernon. A undici anni, Vernon interpretò il suo primo Cristo nella rappresentazione pasquale, e la sezione Religione del giornale di Columbus scrisse che lo strazio con cui egli aveva trascinato la croce aveva «espresso tutta la sofferenza umana». Per quattro anni di seguito fu quindi Giuseppe a Natale e Gesù a Pasqua, dopodiché non ebbe più l’età per partecipare alle rappresentazioni. Negli ultimi due anni, ossia nel suo tredicesimo e quattordicesimo anno di vita, la parte della vergine Maria nel gruppo “A” venne recitata da Betty, la figlia del pastore. Durante le prove, i due ragazzi erano spesso insieme, e ciò riempiva di gioia entrambe le famiglie, le quali non facevano mistero di augurarsi che, «a Dio piacendo», la loro amicizia maturasse in qualcosa di più permanente.

Vernon amava l’attenzione che gli veniva dalle recite. Betty era profondamente toccata dal loro aspetto religioso (e rimase fedelmente devota a Dio, senza tentennamenti, in ogni vicenda della vita); lui, invece, godeva soprattutto del momento in cui, in piedi accanto ai genitori, riceveva, alla fine di ogni recita, le lodi del pubblico. Al liceo, Vernon gravitò naturalmente verso la filodrammatica, divenendo il prim’attore della recita annuale della scuola. In ciò, era sostenuto dalla madre («Dopo tutto, caro,» ribatteva lei al marito, che ci trovava vagamente a ridire «Vernon pratica tre sport, e dunque nessuno, credo, lo tratterà da mammoletta»), la quale godeva per interposta persona degli applausi.

Durante l’estate del ’68, immediatamente prima dell’iscrizione ad Annapolis, Vernon andò a lavorare nei campi dello zio. A meno di duecento chilometri di distanza scoppiarono tumulti in occasione della Convenzione Democratica di Chicago, ma, a Columbus, lui passava le serate con Betty, a conversare con gli amici e a bere birra di erbe al drive-in A W. Di quando in quando lui e Betty giocavano a minigolf o a canasta coi signori Winters, felici e fieri di avere dei «bravi ragazzi a posto», non hippy né drogati. L’ultima estate di Vernon nell’Indiana fu insomma nel complesso, ordinata, impastoiata, e assai piacevole.

Ad Annapolis, Vernon si dimostrò, come previsto, uno studente modello. Sgobbò sui libri, ubbidì a tutte le norme del regolamento, imparò quanto gli insegnavano i professori, e sognò di comandare una portaerei o un sottomarino nucleare. In quanto a uscire a divertirsi, non gli andava: i ragazzi provenienti dalle metropoli erano infatti troppo sofisticati per lui, e quel loro parlare di sesso come niente fosse lo metteva sovente a disagio. Perché lui era vergine, e non si vergognava di esserlo — anche se giudicava che non fosse il caso di sbandierarlo fra i compagni dell’Accademia Navale. Usciva con ragazze un paio di volte al mese, quando l’occasione lo richiedesse, ma senza far nulla di speciale. Una volta, all’inizio del terz’anno di corso, gli capitò di incontrare, a un appuntamento a sorpresa, Joanna Carr, capo della tifoseria dell’università del Maryland, e con lei uscì poi diverse volte. Vivace, graziosa, allegra e moderna, Joanna sapeva tirargli fuori il meglio di sé, farlo ridere e metterlo addirittura a suo agio. Fu con lei che trascorse il fine settimana della partita Esercito-Marina a Filadelfia.

(Durante l’intera permanenza all’Accademia, Vernon passò ogni estate e ogni Natale nell’Indiana, frequentando sempre Betty Pendleton. Diplomatasi al liceo, Betty si iscrisse alla facoltà di pedagogia di una vicina università statale. Una o due volte l’anno, in occasioni speciali tipo l’anniversario del loro primo bacio o la notte di Capodanno, lei e lui festeggiavano, in certo qual modo, il loro star insieme col permettersi un qualcosa di più intimo — tipo carezze limitate, e solo da sopra gl’indumenti, o baci da distesi. Né mai alcuno dei due suggerì la minima variazione a questa routine.)

Per compagni di quel fine settimana, Vernon e Joanna ebbero un altro allievo dell’Accademia, Duane Eller (il conoscente più intimo di Vernon, giacché di amico non si poteva ancora parlare), e l’amica di questo, Edith, una ragazza della Columbia ultrachiassosa e invadente. Vernon, che non aveva mai passato molto tempo vicino a ragazze newyorkesi, la trovò disgustosa al massimo. Non contenta di essere accesamente anti-Nixon e anti-Vietnam, costei sembrava infatti essere anche antimilitarista, e ciò a onta del fatto che il suo compagno di fine settimana aveva appunto abbracciato la carriera militare.

Il fine settimana era stato progettato secondo tutte le norme del decoro, anzi decisamente all’antica, visto che si era nel 1970 e che i rapporti sessuali casuali non erano insoliti nei campus universitari. Vernon e Duane avrebbero cioè diviso una stanza di motel, e le due ragazze un’altra. La sera prima della partita, mentre cenavano a base di pizza, Edith insultò a più riprese Joanna e Vernon («Signorina Malmostosa — Forza, squadra, forza» e «Avanti, soldati di Cristo: Dio è con noi»), senza che Duane le obiettasse nulla. Vernon, allora, visto che Joanna si mostrava risentita degli insulti, le chiese se non preferisse dividere la camera con lui, anziché con Edith, come stabilito, e lei accettò senz’altro.

Nelle quattro o cinque uscite precedenti, Vernon non aveva mai fatto avances sessuali a Joanna. Era stato premuroso, le aveva dato un paio di baci della buonanotte e tenuto la mano per gran parte della serata l’ultima volta che s’erano visti: tutto all’insegna del massimo decoro, insomma. Vere occasioni d’intimità non c’erano state mai, però, sicché Joanna non sapeva che cosa aspettarsi. Il bell’allievo dell’Indiana le piaceva, e un paio di volte aveva pensato alla possibilità di una trasformazione in qualcosa di serio del rapporto esistente con lui; ma, “superspeciale”, lui per lei non era ancora.

Subito dopo lo scambio di camera (reso più difficile da un’Edith ubriaca che imbarazzò la coppia e se stessa con salaci commenti), Vernon si scusò meticolosamente con Joanna per l’offesa e le disse che, se preferiva, lui avrebbe dormito in macchina. La camera era quella tipica, a due letti, degli Holiday Inn. «Oh, via,» aveva risposto lei, ridendo «lo so che non è stato un trucchetto tuo. E poi, se avrò bisogno di protezione, potrò sempre ordinarti di andare nel tuo letto.»

La prima notte la passarono a guardare la televisione e a bere birra, sentendosi entrambi un po’ imbarazzati. Al momento di coricarsi, si scambiarono un paio di baci quasi appassionati, risero insieme, e andarono ciascuno nel proprio letto. La sera seguente rientrarono poco prima di mezzanotte, al termine del ballo dato dall’Accademia Navale, dopo la partita, in un albergo del centro di Filadelfia. Si misero in jeans, e, mentre Vernon stava lavandosi i denti, bussarono alla porta. Andò ad aprire Joanna. Era Duane Eller, ghigno ebete sulla faccia, un oggettino in pugno. «’Sta roba è proprio uno sballo» disse, ficcando una sigaretta alla marijuana in mano a Joanna. «Provala, e mi saprai dire.» Dopodiché si ritirò, sorridendo come uno spiritato.

Joanna era un tipo sveglio, ma mai avrebbe immaginato che il suo compagno non avesse, non che fumato, anche solo visto uno spinello. Lei ne aveva fumati forse una dozzina di volte in quattro anni, a cominciare dal terzo anno di liceo. Era una cosa che le piaceva fare nella situazione e con la compagnia giuste, e che evitava quando non fosse in condizione di dominare l’ambiente circostante. In quel momento, poiché il fine settimana con Vernon le era piaciuto, giudicò che lo spinello fosse il modo migliore per sciogliere un po’ il compagno.

In qualunque altra circostanza o quasi, Vernon avrebbe detto di no a qualsiasi offerta di marijuana, non solo perché contrario a ogni droga, ma anche per il terrore di venire in qualche modo scoperto e quindi espulso dall’Accademia. Ma come fare la stessa cosa con l’affascinante compagna, tipica capo-tifoseria americana del Maryland, che gli porgeva, lì nella stanza, lo spinello acceso? Joanna si accorse subito che lui era un neofita, e quindi gli insegnò tutta l’arte: come inalare e trattenere il fumo, come non indugiare nel passarla a lei, e finalmente come consumarla sino in fondo usando una graffa (nella fattispecie, una sua forcina). Vernon, che si era aspettato di provare una sensazione di ebbrezza, fu stupito di provarne una di estrema lucidità. E più stupito fu di sentirsi recitare delle poesie di E.E. Cummings che stava studiando nel corso di Lettere. Poi lui e Joanna cominciarono a ridere. A ridere di tutto: di Edith, del football, dell’Accademia Navale, dei rispettivi genitori, perfino del Vietnam. E risero fin quasi alle lacrime.

A questo punto, furono assaliti da un appetito famelico. Allora s’infilarono i giacconi e uscirono nella fredda aria decembrina alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Disceso a braccetto il viale alberato di periferia, trovarono, a poco più di cinquecento metri dal motel, un negozio ancora aperto di alimenti in scatola, dove comprarono Coca-Cola, patatine, Fritos e, con gran stupore di Vernon, un pacchetto di Ding Dong. Joanna aprì il sacchetto di patatine nel negozio stesso, ne infilò una in bocca a Yernon, e fece «Mmm!» con lui mentre il commesso rideva con loro.

Vernon non riusciva a credere che delle patatine potessero essere tanto buone, e mangiò l’intero sacchetto durante il ritorno al motel. Alla fine, gli venne spontaneo di cantare, e si lanciò nel Maxwell’s Silver Hammer dei Beatles. Joanna, accompagnandolo vigorosamente nel Bang, bang, Maxwell’s Silver Hammer came down upon his bead…, sollevò di piatto il pugno a colpirlo per scherzo sulla testa. Baldanzoso, liberato, la sensazione di conoscere Joanna da sempre, Vernon le mise il braccio attorno alla schiena e, nell’imboccare il vialetto del motel, la baciò ostentatamente.

In camera, sedettero sul pavimento, con tutti i loro cartoccetti sparsi davanti. Vernon accese la radio. Una stazione di musica classica stava trasmettendo una sinfonia. Il suono lo ipnotizzò: per la prima volta nella vita riusciva infatti a sentire dentro di sé, a uno a uno, gli strumenti dell’orchestra! Visualizzò un palcoscenico, allora, e vide gli orchestrali manovrare gli archetti dei violini. Affascinato ed eccitato, disse a Joanna di avere la sensazione che tutti i suoi sensi fossero vivi.

A Joanna Carr sembrò che lui si stesse finalmente aprendo. Così, quando Vernon si chinò a baciarla, lei si mostrò più che disposta. Mentre la sinfonia continuava, si baciarono con dolcezza, ma a fondo, ripetute volte. Un breve intervallo per mangiare qualche altro boccone, e Joanna sintonizzò la radio su una stazione rock. La musica cambiò il ritmo delle effusioni. Il trascinante, sempre più rapido tumultuare di suoni rese i baci più appassionati. Nel suo ardore, Vernon spinse Joanna sul pavimento, e così, stesi sul fianco e sempre vestiti, entrambi presero a baciarsi forsennatamente, come stregati dalla forza dell’eccitazione.

La radio passò a trasmettere Light My Fire dei Doors. E Vernon Allen Winters di Columbus, Indiana, allievo del terz’anno dell’Accademia Navale degli Stati Uniti d’America, perse la verginità prima della fine della lunga canzone. «Il tempo dell’esitazione è finito, Non è più il momento di pestare l’acqua nel mortaio, Prova ora e puoi solo perdere, e il nostro amore diventerà una pira funebre… Su, bambina, accendi il mio fuoco… Su, bambina, accendi il mio fuoco.» Vernon non aveva mai perso il controllo di sé in vita sua. Ma, quando Joanna gli accarezzò il profilo del pene rigonfio da sopra i jeans, fu come il crollo improvviso di una gigantesca parete di acciaio e cemento. Anni dopo, la passione nuda e cruda da lui dimostrata in quei due, forse tre minuti, non avrebbe cessato di meravigliarlo. I baci insistenti di Joanna, l’erba e i ritmi trascinanti della musica lo spinsero, combinati insieme, a varcare i limiti. Diventò un animale. Steso sul pavimento della camera del motel, prese a strattonare i pantaloni di Joanna, che quasi strappò nel tirarglieli sotto le anche. Le mutandine di lei calarono a metà insieme coi pantaloni, e lui afferrò e abbassò il tutto rudemente mentre a sua volta si svincolava dai jeans.

Joanna tentò dolcemente di calmargli la fretta, di suggerire che forse era meglio sul letto. O, quanto meno, che sarebbe stato più piacevole se si fossero tolti scarpe e calze, perché, fare l’amore con le caviglie impacciate dai pantaloni… Ma Vernon era partito, ormai. Anni di tenuta a freno l’avevano lasciato senza la capacità di controllare l’impeto del desiderio. Come posseduto, si mise sopra Joanna, il viso terribilmente serio. Per la prima volta, lei ebbe paura, e la paura contribuì a eccitarla maggiormente. Vernon si agitò qualche secondo (la musica, intanto, era entrata nella ossessiva fase strumentale della canzone) per trovare il punto giusto, e poi la penetrò direttamente e con forza. Joanna lo sentì spingere una, due volte, poi fremere tutto. Era venuto in forse dieci secondi. L’intuizione le disse che quella doveva essere stata la sua prima volta, e il piacere che ciò le diede compensò l’affronto ricevuto dalla sua mancanza di delicatezza e tenerezza.

Vernon non disse una parola, e in breve le si addormentò accanto sul pavimento. Lei allora andò bravamente a prendere il copriletto e, tornata a rannicchiarsi fra le braccia di lui, se ne servì per coprire sé e il compagno. Poi, sorridendo fra sé, si abbandonò piano piano al sonno. Quel tipo dell’Indiana che le giaceva accanto seguitava a sconcertarla un po’, ma ormai era “speciale” per lei come lei per lui.

Quanto speciale, lei, però, non l’avrebbe saputo mai veramente. Vernon si svegliò nel pieno della notte in preda a un angoscioso senso di colpa. Non riusciva a credere di aver fumato “roba” e quindi praticamente violentato una ragazza che conosceva a malapena. Aveva perso il controllo di sé: non era stato capace di fermarsi e aveva chiaramente oltrepassato i confini del lecito. Al pensiero di ciò che avrebbero pensato di lui i genitori (o, peggio, Betty e il reverendo Pendleton), se avessero potuto vedere ciò che aveva fatto, ebbe un sussulto. Poi il senso di colpa lasciò il posto alla paura. Immaginò Joanna incinta, il dovere per lui di lasciare Annapolis per sposarla (E cosa avrebbe fatto? Che genere di lavoro scegliere, non potendo diventare ufficiale di marina?), la necessità di spiegare il tutto ai propri genitori e ai Pendleton. Peggio ancora, immaginò un’imminente retata della polizia al motel, il ritrovamento, durante la perquisizione, della cicca di spinello infilata nella forcina, e le conseguenze: espulsione dall’Accademia per abuso di droga, prima, e rivelazione del suo aver messo incinta una ragazza poi.

Steso sul pavimento di una stanza di motel della periferia di Filadelfia, alle tre mattutine di una domenica, Vernon Winters, ormai terrorizzato, cominciò a pregare sul serio. «Caro Signore» pregò, chiedendo (per la prima volta dal giorno in cui aveva chiesto il Suo aiuto per superare l’esame TAS) qualcosa di specifico per sé «fa’ che me la cavi senza danno, e diventerò l’ufficiale di marina più disciplinato che tu abbia mai visto. Aiutami, ti prego, e dedicherò la vita a difendere questo paese che ti onora.»

Alla fine, riuscì a riaddormentarsi, ma di un sonno intermittente e perturbato da sogni nettissimi. In uno, vestiva la divisa di allievo, ma si trovava sul palcoscenico della chiesa presbiteriana di Columbus. Era la rappresentazione pasquale, e lui faceva di nuovo il Cristo che trascinava la croce sul Calvario. Il bordo affilato della croce sulla spalla gli stava tagliando la camicia della divisa, e lui avvertiva come l’angoscia di non poter superare l’ispezione. Inciampò e cadde, la croce incise più a fondo nella divisa, come aveva temuto, e lungo il braccio prese a scorrergli del sangue. «Crocifiggetelo!» udì urlare da qualcuno. «Crocifiggetelo!» gridò unanime un gruppo di spettatori, mentre lui si sforzava invano di vedere attraverso la luce dei riflettori ad arco. Si svegliò in un bagno di sudore. Per qualche istante rimase disorientato, poi rivisse gli eventi della notte precedente ripercorrendo il ciclo ribrezzo-depressione-paura.

Al risveglio, Joanna si mostrò tenera e affettuosa; lui, invece, molto distante. Era preoccupato per gli esami imminenti — spiegò. Per due volte, Joanna fece per parlare di quanto era avvenuto fra loro, ma lui cambiò rapidamente discorso. La colazione e il ritorno al pensionato di Joanna in College Park furono per lui una sofferenza. Al momento del congedo, lei tentò di comunicargli il proprio trasporto con un bacio, ma lui non contraccambiò. Aveva fretta di dimenticare l’intero fine settimana, lui; e, una volta tornato nell’intimità della sua camera di Annapolis, tornò contrariamente a patteggiare con Dio la propria uscita senza macchia dalla faccenda.

L’allievo Vernon Winters mantenne la parola. Non solo non parlò mai più a Joanna Carr (che, dopo aver telefonato due volte senza riuscire a trovarlo e mandato due lettere rimaste senza risposta, decise di lasciar perdere), ma, nei diciotto mesi finali di Accademia, smise del tutto di uscire con ragazze, si applicò con ogni energia agli studi e frequentò la cappella, come promesso a Dio, due volte la settimana.

Laureatosi con lode, prestò il suo primo servizio su una grande portaerei. Due anni più tardi, nel giugno 1974, sposò Betty Pendleton, diplomatasi maestra, nella chiesa presbiteriana di Columbus, nella quale, dodici anni addietro, erano stati lui Giuseppe e lei Maria. La coppia si stabilì a Norfolk, in Virginia, e Vernon pensò di aver davanti ormai una vita ben precisa: lunghi periodi in mare e brevi soggiorni a casa con Betty e i bambini che avrebbe avuto.

Non dimentico di ringraziare regolarmente Dio per aver mantenuto la Sua parte di contratto, Vernon si applicò a diventare il miglior ufficiale della Marina USA. Gli aggiornamenti del suo stato matricolare ne vantavano affidabilità e meticolosità, e i suoi ufficiali comandanti gli dicevano apertamente che possedeva la stoffa dell’ammiraglio. Questo, fino alla Libia. O, più specificamente, fino al suo ritorno dall’azione in quel paese. Poiché, nelle poche settimane successive all’attacco americano a Gheddafi, il mondo, per lui, cambiò da così a così.

7

Carol e Troy sedevano sul ponte di prua della Florida Queen, e guardavano davanti, all’oceano e al caldo sole pomeridiano. Carol si era tolta la casacca porpora e mostrava il busto di un costume da bagno monopezzo, ma aveva conservato i pantaloni bianchi di cotone. Troy, senza camicia, portava un costume bianco da surf, molto basso sulle belle gambe nere, su un corpo asciutto e vigoroso, atletico ma non pacchianamente muscoloso. I due parlavano animatamente del più e del meno, con frequenti quanto spontanee risate. Alle loro spalle, sotto il tendaletto, Nick Williams leggeva A Fan’s Notes di Fred Exley, da cui staccava ogni tanto gli occhi per osservarli.

«Ma come mai non sei poi andato all’università?» stava chiedendo Carol a Troy. «Con le capacità che chiaramente hai, saresti diventato un mostro d’ingegnere.»

Troy si alzò e, togliendosi gli occhiali da sole, andò al parapetto. «È quello che diceva anche mio fratello Jamie» rispose quindi lentamente, contemplando la tranquillità dell’oceano. «Ma io ero troppo scapestrato per dargli retta. Così, una volta diplomato, ho avuto una sola voglia: quella di conoscere com’è fatto il mondo. Allora ho preso su, e, per un paio d’anni, ho girato Stati Uniti e Canada.»

«Ed è così che hai imparato l’elettronica?» domandò Carol, dando nel contempo un’occhiata all’orologio.

«No, questo è venuto dopo, molto dopo» rispose Troy, ricordando. «In quei due anni di vagabondaggio non ho imparato altro se non il modo di cavarmela usando cervello. E un’altra cosa: che cosa significa essere neri in un mondo di bianchi.» Dopo un’occhiata a Carol, che non gli rivelò reazioni particolari, continuò, tornando a guardare l’oceano:

«Avrò fatto un centinaio di lavori: cuoco, fattorino di giornale, barista, operaio edile. Ho insegnato nuoto in un circolo privato; sono stato fattorino in un albergo di stazione turistica, custode di campo di golf di un circolo sportivo…» Ridendo, si girò per vedere se Carol stava ascoltandolo. «Ma immagino che tutto questo non t’interessi…»

«M’interessa altroché,» disse Carol «anzi, mi affascina addirittura. Sto sforzandomi di immaginare il tuo aspetto in divisa da albergo. E, stando a Capo Nick, abbiamo ancora dieci minuti prima del punto dove siamo diretti.» Poi, abbassando il tono: «Tu, almeno, parli. Il professore, invece, non sembra precisamente un tipo socievole».

«Fare il fattorino nero di un albergo turistico del Mississippi meridionale è stata un’esperienza incredibilmente istruttiva» riprese Troy, il viso aperto in un sorriso (raccontare storie della sua vita gli piaceva, perché lo poneva sempre al centro della scena). «Immagina un po’, angelo: diciott’anni, e mi capita la fortuna di un lavoro al grande e vetusto Gulfport Inn, proprio sulla spiaggia. Vitto e alloggio più le mance: il massimo, insomma! Sennonché, il fattorino-capo, un ometto impossibile di nome Fish, mi porta alla caserma alloggio dei fattorini e del personale di cucina e mi presenta a tutti come il “nuovo galoppino negro”. E, a quanto riesco ad afferrare dalla conversazione, capisco che il motivo della mia assunzione è il tentativo dell’albergo di rimediare in parte a certi suoi guai; guai che gli derivano da una sospetta discriminazione razziale.

«La mia stanza era proprio dietro la dodicesima buca del campo di golf. Lettino a castello, armadio a muro, tavolino-scrittoio con relativa lampada, lavabo per lavarsi denti e faccia: questa la mia residenza per un mese e mezzo. All’altro capo della caserma alloggio c’era il grande bagno comune, abbandonato da tutti a ogni mia comparsa.

«Nel mio liceo di Miami, il corpo studentesco era in pratica tutto cubano, o nero, o l’uno e l’altro, sicché, dei bianchi, io non sapevo quasi niente. Dai libri e dalla televisione me ne facevo un’immagine di fantasia, e li vedevo belli, bravi, istruiti, e ricchi. E già… Ma questa immagine è svanita in fretta. Sapessi che razza di gente lavorava in quell’albergo! Roba da non credere. Il fattorino-capo Fish fumava roba tutte le sere in compagnia del figlio sedicenne Danny, e sognava il giorno in cui avrebbe trovato un milione di dollari dimenticato in una camera. E il suo unico altro scopo nella vita era quello di continuare a scoparsi, ogni mattina e fino alla morte, la moglie dello chef, Marie, nella dispensa!

«Uno degli altri fattorini era un povero cristo che si chiamava Saint di nome e John di cognome, perché i suoi genitori, nel loro acume, credevano che “Saint” fosse per l’appunto un nome proprio. Saint John aveva solo sei denti, portava occhiali spessi, e aveva un’enorme ciste sotto l’occhio sinistro. Sapendosi brutto, viveva nella paura costante di perdere il posto per via dell’aspetto; e, così, Fish lo sfruttava spietatamente, assegnandogli i compiti più merdosi e costringendolo a sganciargli una percentuale sulle mance, e gli altri fattorini non perdevano occasione per ridicolizzarlo e fargli scherzi di ogni genere.

«Una sera che sedevo tranquillo in camera mia a leggere un libro, sento un lieve bussare alla porta. Apro, e mi trovo davanti Saint John, che, con l’aria confusa e perplessa, è lì con una piccola scatola da gioco in una mano e una confezione da sei lattine di birra nell’altra. Lascio passare qualche istante, poi gli chiedo che cosa vuole. Lui guarda nervosamente di qua e di là, poi mi domanda se so giocare a scacchi. Quando gli dico di si e che mi andrebbe anche di fare una partita, lui si apre in un gran sorriso e borbotta qualcosa tipo: sono contento di aver osato. Io l’ho invitato a entrare, e abbiamo passato quasi due ore a giocare, parlare e bere birra. Lui era uno di nove figli di una povera famiglia di campagna del Mississippi. Mentre giocavamo, si è lasciato sfuggire di aver esitato a chiedermi di giocare perché Fish e Miller gli avevano detto che i negri erano troppo ottusi per giocare a scacchi.

«Durante le mie ultime settimane di permanenza, Saint John e io siamo diventati più o meno amici. Eravamo uniti dal più profondo dei vincoli: la comune qualifica di esclusi dalla curiosa struttura sociale creata dal personale del Gulfport Inn. Da Saint John ho imparato molto, fra l’altro, sui vari pregiudizi dei bianchi del Sud nei confronti dei neri. Una sera, pensa,» continuò Troy ridendo «ha addirittura voluto seguirmi in bagno per accertare coi suoi occhi se ero o no proporzionalmente più fornito di lui!»

Troy tornò alla propria sdraio e guardò Carol. Sorrideva. Era difficile non amare le sue storie: le raccontava con tale entusiasmo e fascino di protagonista! Sotto il tendaletto, persino Nick aveva posato il libro per ascoltare.

«E poi c’era ’sto gigante di Farrell, vent’anni passati di poco, aspetto alla Elvis Presley. Forniva liquori sottocosto ai clienti dell’albergo, gestiva a richiesta un servizio accompagnatrici, e ritirava la merce alberghiera in esubero per venderla nel negozio della sorella. In quanto a me, mi affittava una parte della stanza per lo stoccaggio di parte dei suoi liquori. Che sagoma! Quando c’era qualche grande congresso, lui, al termine della prima colazione, travasava in bottiglia il succo d’arancia rimasto nelle brocche e lo metteva via per rivenderlo. Una mattina, il direttore dell’albergo ti trova una cassetta di succhi d’arancia in temporaneo deposito nello stanzino dietro il banco dell’atrio ed esige spiegazioni. Farrell mi piglia, mi si piazza davanti, e mi dice che ha da propormi un affare: venti dollari se dico di essere stato io a sottrarre il succo. Io, infatti, non rischio nulla se confesso, perché si dà per scontato che i negri rubino, mentre lui, se lo facesse, perderebbe il posto…»

«Spiacente di interrompere» disse Nick, uscendo da sotto il tendaletto, con una punta di sarcasmo nel tono «ma, secondo il nostro pilota elettronico, siamo ormai al margine sud della regione segnata sulla carta.» E restituì la carta a Carol.

«Grazie, professore» rise Troy. «Così, grazie a te, Carol non finirà ammazzata di chiacchiere!» Poi andò alle apparecchiature montate sul baule, accanto al tendaletto, e azionò l’accensione. «Ehi, angelo, adesso però sarà il caso che mi spieghi come funziona tutta ’sta roba.»

Il telescopio oceanico di Dale Michaels era programmato per tre foto virtualmente simultanee a ogni posa: una che dava l’immagine visiva normale, una che dava il medesimo campo visivo ma ripreso agli infrarossi, e una che dava un’immagine sonarcomposta della medesima inquadratura. Il sottosistema sonar offriva solo sagome di oggetti, non immagini definite, ma, essendo in grado di scandagliare profondità irraggiungibili agli altri due elementi — visivo e infrarosso — del telescopio, poteva venir usato anche in presenza di acque torbide.

Fissabile al fondo di qualunque imbarcazione o quasi, il telescopio compatto poteva venir spostato di trenta gradi avanti o indietro rispetto alla verticale grazie a un motorino interno. La sua tabella d’osservazione era di norma stabilita da un protocollo preprogrammato. Particolari della sequenza e parametri ottici speciali erano immagazzinati, gli uni e gli altri, nel microprocessore del sistema; ma l’operatore poteva, volendo, cambiare in tempo reale qualunque parte del programma mediante immissione manuale di dati.

I dati registrati dal telescopio venivano comunicati al resto dell’apparecchiatura elettronica da finissime fibre ottiche, contenute in cavi accorpati lungo il bordo della barca. Il dieci per cento circa delle immagini costruite sulla base di tali dati veniva trasmesso in tempo reale, con ingrandimento approssimativo, al monitor della barca, mentre il complesso dei dati telescopici veniva automaticamente immagazzinato nell’unità di memoria da cento gigabit annessa al monitor stesso. Un’altra serie di fibre ottiche collegava l’unità di memoria al sistema centrale di navigazione della barca e ai circuiti servomotori azionanti i telescopi. Questi circuiti ricevevano un impulso ogni dieci millisecondi, così da permettere l’immagazzinaggio simultaneo nell’archivio permanente sia dell’orientamento del telescopio, sia della posizione della barca al momento di ogni singola ripresa telescopica.

Accanto al monitor, sempre sopra il baule ma oltre l’unità di memoria, stava il quadro di controllo del sistema. Il dottor Dale Michaels e l’IOM erano famosi in tutto il mondo per la sagacia delle loro invenzioni, ma queste, per quanto ingegnose, non erano poi tanto facili da far funzionare. La sera prima del viaggio da Miami e Key West, Dale aveva tenuto a Carol un corso accelerato sul funzionamento del sistema telescopico, ma con scarso risultato. Così, visti vani i suoi tentativi, aveva finito semplicemente per programmare il microprocessore con una facile sequenza di ripresa a mosaico, a tessere regolari, dello spazio sottostante alla barca, e, calcolati i guadagni ottici secondo valori normali per difetto, le aveva ordinato di non cambiare più nulla. «Adesso, a te, restano da fare due sole cose» le aveva detto dopo averle installato con cura sulla giardinetta il quadro di controllo del sistema. «Premere il bottone VIA, e poi coprire il quadro per evitare che qualcuno pigi sbadatamente il tasto sbagliato.»

Non essendo in grado di spiegare alcunché a Troy circa il funzionamento delle parti dell’apparecchio, Carol gli si portò accanto e, posandogli un braccio sulla spalla, gli disse con un sorriso timido timido: «Mi spiace deludere la tua smania di sapere, amico mio, ma del funzionamento di questo coso non so altro se non ciò che ti ho detto al momento di installarlo sulla barca. Per metterlo in marcia, tutto quello che dobbiamo fare è di dargli corrente, e tu l’hai già fatto, e poi pigiare questo bottone». E premette VIA sul quadro. Sul monitor a colori apparve all’istante un’immagine dell’oceano trasparente, a una profondità di circa quindici metri sotto la barca. Un’immagine sbalorditivamente nitida, che consentì al terzetto di assistere ammirato al passaggio divoratore di un pesce martello attraverso un branco di pesciolini grigi, centinaia dei quali gli sparirono inghiottiti tra le fauci.

«A quanto ho capito,» continuò Carol mentre i due uomini, come affascinati, non staccavano gli occhi dal monitor «il sistema telescopico fa tutto da solo, seguendo una tabella d’osservazione immagazzinata nel programma. E noi, ovviamente, vediamo su questo schermo quello che vede lui. O, meglio, vediamo l’immagine visiva, perché quella infrarossa e quella sonora vengono immagazzinate nel suo registratore. Il mio amico dell’IOM» (inutile metterli ancor più sul chi vive facendo il nome di Dale) «ha tentato di spiegarmi come si fa a permutare sul monitor le varie immagini, ma non è mica facile. Uno potrebbe pensare che sia sufficiente premere “I” per infrarossa e “S” per sonar, e invece no: solo per cambiare il segnale trasmesso dal monitor, bisogna infatti inserire la bellezza di una dozzina di comandi!»

Troy rimase colpito. Colpito non solo dal sistema del telescopio oceanico, ma anche dal modo con il quale Carol, sebbene dichiaratamente digiuna di ingegneria come di elettronica, dimostrava di averne afferrato i princìpi fondamentali.

«Se ricordo bene la fisica del liceo, la parte infrarossa del telescopio deve misurare la radiazione termica» disse lentamente. «Ma non capisco come le variazioni termiche sottomarine possano dirti qualcosa delle balene.»

A questo punto, Nick Williams si staccò dallo schermo scuotendo la testa. Tutti quei termini tecnici lo facevano sentire irrimediabilmente al di fuori del proprio elemento intellettuale, e non poco imbarazzato alla prospettiva di dover ammettere la propria totale ignoranza davanti a Carol e Troy. Senza contare che non credeva minimamente che Carol avesse imbarcato tutte quelle diavolerie elettroniche solo per cercare balene finite fuori rotta. «Dunque, se ho capito bene,» disse, andando al piccolo frigorifero per toglierne un’altra birra «nelle prossime due ore non faremo altro che gironzolare mentre lei cerca le balene con quel suo schermo?»

Il commento, derisorio e pronunciato in chiaro tono di sfida, s’inserì sgradevolmente nell’atmosfera di affettuosa amicizia instauratasi fra Carol e Troy. Lasciandosi di nuovo trasportare dall’ira per l’atteggiamento di Nick, Carol contrattaccò con una delle sue sparate verbali: «Questo era appunto ciò che mi proponevo, signor Williams, come le ho detto al momento di salpare. Ma Troy mi dice che lei è una specie di cacciatore di tesori. O, almeno, che tale era qualche anno fa. Ora, visto che lei sembra essersi messo in testa che io non vado in cerca di balene ma di tesori, sarà forse il caso che venga a sedere qui accanto a me. Così, guardando le stesse immagini, si accerterà che non mi sfugga qualche balena — o, a seconda, qualche tesoro».

Nick e Carol rimasero a fulminarsi con lo sguardo per qualche istante. Poi Troy decise di mettersi in mezzo. «Senti, professore… e anche tu, angelo… lo non pretendo di capire perché voi due insistiate nel mandarvi a quel paese a vicenda; però, a me, questa cosa mi rompe parecchio. Non potreste calmarvi un tantino? In fin dei conti,» continuò, guardando prima Nick e poi Carol «se vi immergete insieme, sarete compagni, e la vita dell’uno può dipendere da quella dell’altro. Dunque, piantatela, via…»

Carol si strinse nelle spalle e accennò di sì. «Per me, va bene» disse. Poi, non vedendo risposta da Nick, non seppe resistere a un’altra frecciata. «A patto che il signor Williams riconosca la sua responsabilità di sub professionista e conservi la sobrietà necessaria per potersi immergere.»

Dopo un’occhiataccia furibonda, Nick andò al parapetto e, con gesto teatrale, vuotò nell’oceano la birra appena tolta dal frigorifero. «Non si preoccupi per me, dolcezza,» disse con un sorriso sforzato «so badare a me stesso. Si preoccupi piuttosto di quello che fa lei…»


Il microprocessore del telescopio oceanico conteneva uno speciale sottoprogramma d’allarme che squillava a mo’ di telefono al verificarsi di determinate e previste circostanze d’allarme. Su richiesta di Carol, e poco prima della sua partenza per Key West, Dale Michaels aveva regolato personalmente il normale algoritmo d’allarme in modo da farlo reagire sia all’entrata nel suo campo visivo di una grossa creatura, sia alla presenza di un oggetto “stazionario” ignoto d’una certa mole. Terminato il disegno logico della piccola regolazione e inviatolo alla sezione Componentistica per codifica e prova con priorità assoluta, Dale aveva sorriso tra sé. La complicità con Carol lo divertiva, e questo suo sotterfugio tecnologico avrebbe certamente convinto i compagni di lei, quali che fossero, che la ricerca delle balene era il vero scopo della sua uscita in mare. Allo stesso tempo, l’allarme avrebbe suonato anche nel caso fosse apparso, sul fondo oceanico al di sotto della barca, ciò che Carol stava in realtà cercando: un missile errabondo (e segreto) della Marina in fase sperimentale.

La struttura fondamentale dei due algoritmi d’allarme era di facile comprensione. Per l’identificazione di un animale in movimento bastava sovrapporre due o tre immagini prese in meno di un secondo d’intervallo (su qualunque lunghezza d’onda, sebbene la maggior precisione fosse quella offerta dalle immagini visive, più definite) e comparare i dati sulla base della scena osservata, che doveva conservarsi in gran parte identica in tutte e tre. Diversità significative — differenze nella sovrapposizione di immagine a immagine tra spazi contigui — erano il segnale della presenza di una grossa creatura in movimento.

Per l’identificazione di oggetti estranei entrati nel campo visivo, l’algoritmo d’allarme si valeva dell’immensa capacità d’immagazzinamento dell’unità di memoria del sistema elaborazione dati del telescopio. Immesse nella memoria, le immagini visiva e infrarossa, riprese quasi simultaneamente, venivano analizzate all’ingrosso sulla base di una serie di dati contenenti catene di parametri di riconoscimento-struttura e su entrambi i campi di lunghezza d’onda. I parametri di riconoscimento, sviluppati in anni di minuziose ricerche, erano stati di recente espansi dall’IOM, e abbracciavano ora in pratica ogni oggetto normale (piante, animali, strutture di scogliere ecc.) che avesse la probabilità di venir avvistato sul fondo oceanico circostante le Key della Florida.

Grazie agli allarmi, non era necessario sedere pazientemente davanti allo schermo per studiare le migliaia di quadri-dati nel momento stesso in cui venivano ricevuti dall’apparecchio. Troy stesso, benché “drogato dal sapere”, come si autodefiniva per via del suo quasi insaziabile interesse per ogni cosa, dopo una decina di minuti si stancò di stare a fissare il monitor, anche perché, nel frattempo, la barca era entrata in acque più profonde e le immagini visive non permettevano di scorgere granché.

Una ventina di minuti dopo l’attivazione del telescopio, un paio di squali solitari fece scattare gli allarmi, provocando una momentanea animazione, ma ad essa seguì un lungo periodo senza avvistamenti. Con l’approssimarsi della sera, Nick si mostrò sempre più spazientito. «Non so proprio perché mi sia lasciato trascinare in questa impresa senza senso» borbottò come fra sé. «E dire che avremmo potuto occupare il tempo a preparare la barca per il noleggio di fine settimana…»

Carol ignorò il commento e riprese a studiare la carta per l’ennesima volta. Avevano attraversato da sud a nord la regione circoscritta da lei e Dale, e al momento procedevano lentamente a est lungo la periferia settentrionale. Circoscritta da Dale sulla base di quanto egli aveva personalmente dedotto dalle domande postegli dalla Marina, la zona delle ricerche era alquanto vasta. Per ridurla, avrebbe dovuto porre domande dirette, cosa che aveva evitato di fare per non destare sospetti.

Carol si rendeva conto che la ricerca somigliava a quella del proverbiale ago nel pagliaio, ma vi ci si era accinta ugualmente al pensiero della sua potenziale resa. Che colpo giornalistico, se fosse riuscita a trovare e fotografare un missile segreto della Marina caduto nei pressi di una zona abitata! Ora, però, cominciava a spazientirsi un po’ anche lei, e l’eccitazione iniziale era ormai un ricordo dopo il lungo pomeriggio di sole. Fra poco avrebbero dovuto mettere la prua su Key West, se volevano rientrare prima di notte. Oh, be’, pensò rassegnata, se non altro, ci ho provato. E, come diceva mio padre, chi non risica, non rosica.

Dal parapetto di prua, dove stava, udì a un tratto risuonare squilli d’allarme nell’unità di memoria accanto al monitor. Uno squillo, poi due, seguiti da un breve silenzio. Un terzo squillo e, subito dopo, un quarto. Si precipitò allora verso il monitor, gridando imperiosamente a Nick: «Ferma la barca!». Ma arrivò troppo tardi: gli allarmi avevano ormai smesso di squillare e sullo schermo non si vedeva niente.

«Gira intorno, gira intorno!» gridò immediatamente, non notando, nel nervosismo della delusione, l’occhiataccia furibonda di Nick.

«Agli ordini, capitano» disse Nick, imprimendo un tale scatto alla ruota del timone, da far perdere l’equilibrio a lei e da far sgusciare monitor e apparecchiatura elettronica dalle loro precarie sedi sopra il baule (fortunatamente, Troy salvò il tutto all’ultimo momento). La Florida Queen virò di brutto; così, malgrado la calma dell’oceano, una piccola onda superò il parapetto della parte bassa del ponte e investì Carol dai ginocchi in giù, incollandole i pantaloni di cotone ai polpacci e infradiciandole calze e scarpe bianche da tennis.

All’aria di franca soddisfazione di Nick, Carol stava già per rispondere da par suo, quando squillarono di nuovo gli allarmi. Riguadagnato l’equilibrio al drizzarsi della barca, vide sul monitor una barriera corallina: e, molto al di sotto della barca a stento discernibili sullo schermo, tre balene della medesima specie da lei vista quella mattina sulla spiaggia di Deer Key. Tre balene che nuotavano insieme come se non avessero una rotta definita. E c’era di più: l’allarme speciale in codice indicava la presenza, nello stesso campo visivo delle balene errabonde o nelle sue vicinanze, di un oggetto estraneo.

Carol batté le mani, incapace di frenare la propria emozione. «Ancora, per favore!» gridò, esplodendo in una risata quando constatò che Troy l’aveva già lanciata fuoribordo.

Pochi minuti dopo, a poppavia del tendaletto, Carol s’infilava in fretta la tuta da sub. Maschera e pinne le erano accanto, pronte, sul piancito. Troy la aiutò reggendole la bombola d’ossigeno, incassata nella voluminosa tuta. «Non preoccuparti di Nick» disse Troy. «Oggi sarà anche incazzato per qualche ragione, magari per via che Harvard le ha prese a pallacanestro, ma è un sub favoloso. E ha fama di essere il miglior istruttore sub delle Key. Dopo tutto,» continuò sorridendo «ha insegnato perfino a me, un paio di mesi fa, e io sono di una razza che teoricamente non dovrebbe nemmeno saper nuotare…»

Carol gli sorrise, scuotendo la testa. «Ma non la smetti mai di scherzare?» disse. Poi infilò il braccio libero nella seconda apertura e la tuta le fu addosso. «Fra parentesi,» continuò a voce bassa «per essere un sub esperto, il tuo amico usa un equipaggiamento decisamente antiquato.» In quel momento rimpiangeva di aver lasciato la sua tuta su misura nella giardinetta. Era quella che usava sempre nelle immersioni con Dale, ed era munita di tutte le innovazioni più recenti, tipo l’ABC (Compensazione automatica di galleggiamento) e una tasca perfetta per la macchina fotografica subacqua. Ma, dopo tutto il trambusto che già aveva causato col suo baule di apparecchiature elettroniche, aveva deciso che una tuta da immersione ultimo modello avrebbe finito coll’attirare ancor più l’attenzione.

«Nick pensa che le nuove tute facilitino troppo le cose per il sub. Lui vuole che chi s’immerge regoli da sé, manualmente, il galleggiamento, così da rendersi meglio conto della profondità raggiunta.» Poi, squadrandola per bene, continuò: «Sei abbastanza leggera, e la cintura dovrebbe bastare da sola. Adoperi pesi, di solito?».

Carol fece di no col capo e si strinse la cintura in vita. A questo punto arrivò Nick, tuta con bombola e cintura coi pesi già indossate, maschera e pinne in mano. «Quelle sue balene stanno sempre nello stesso punto» disse. «Mai viste delle balene ciondolare a ’sto modo…» Le porse un pezzo di tabacco da masticare, con cui lei strofinò l’interno della maschera a scopo antiappannante, e le girò dietro per controllare manometro dell’aria e regolatore, e per verificare il boccaglio secondario che avrebbe dovuto usare per passarle ossigeno in caso di emergenza.

Nell’effettuare gli ultimi controlli, le parlò.

«La barca l’ha noleggiata lei,» esordì, in un tono che poteva passare per gentile «perciò, finché saremo giù, potremo andare più o meno dove le pare. E siccome abbiamo una profondità di circa quattordici metri, sarà un’immersione non troppo difficile. Però una cosa deve essere chiara,» continuò, passandole davanti per fissarla negli occhi «la barca è mia, e mia è dunque la responsabilità della sicurezza di chi ci sta sopra — lei compresa, le piaccia o no. Prima che ci immergiamo, desidero quindi essere certo che, una volta sott’acqua, seguirà le mie istruzioni.»

Carol si rese conto che lui stava sforzandosi di presentarle la cosa con diplomazia. Per un istante, anzi, le balenò che non era niente male, visto così, in tuta subacquea… Decise perciò di mostrarsi magnanima. «D’accordo» rispose. «Ma ho anch’io una cosa da dire prima che scendiamo. Sono una giornalista e mi porto dietro una macchina fotografica e quindi può succedere che le chieda di spostarsi, ogni tanto. Perciò, non se la prenda se le farò segno di sgombrare il campo.»

«Va bene» sorrise Nick. «Vedrò di ricordarlo.»

Carol si infilò pinne e maschera, poi si buttò dietro il collo e le spalle la cinghia della macchina fotografica subacquea, che Troy la aiutò a fissare sulla schiena. Nick sedeva vicino a un’apertura del parapetto di fiancata, di dove Troy aveva poco prima calato una rozza scala. «Ho controllato l’acqua,» disse «e c’è una gran corrente. Sarà dunque bene scendere fin sul fondo lungo il cavo dell’àncora, e scegliere la direzione una volta giù.»

Detto questo, rotolò all’indietro fuoribordo, riemergendo subito dopo tutto gocciolante. Carol gli restituì il segnale di pollice ritto (il “tutto bene” dei sub) e sedette a sua volta sulla fiancata. Troy la aiutò a dare un’ultima aggiustata alla tuta. «Buona fortuna, angelo» le disse. «Ti auguro di trovare quello che cerchi. E fa’ attenzione mi raccomando!»

Carol s’infilò in bocca il regolatore, aspirò, ed eseguì la stessa manovra di Nick. L’acqua dell’oceano le rinfrescò la schiena cotta dal sole. In pochi secondi raggiunse Nick al cavo dell’àncora, e ripeté il segnale di pollice ritto in risposta al suo. Poi Nick guidò la discesa, scivolando cauto mano dopo mano e senza mai abbandonare del tutto il cavo. Carol lo seguì con pari cautela. Ora sentiva la forte corrente annunciata da lui: una corrente che tentava di strapparla dal cavo, ma alla quale seppe resistere. Ogni due, due metri e mezzo, Nick si arrestava per bilanciare la pressione auricolare, volgeva la testa in su per assicurarsi che lei lo seguisse e che tutto procedesse bene, poi riprendeva la discesa.

Finché non raggiunsero la barriera corallina, non trovarono granché da vedere. Le immagini del telescopio erano state tanto nette da dare una falsa idea della distanza. La focalizzazione automatica del sistema ottico aveva fatto sembrare che la barriera, con la sua profusione di colori e la sua varietà di vita vegetale e animale, fosse immediatamente al di sotto della barca. Ma undici metri di profondità erano tanti; sicché, anche se sul fondo vi fosse stato un normale edificio a due piani, questo non sarebbe arrivato nemmeno a sfiorare la chiglia della Florida Queen.

Quando ebbero finalmente raggiunto la cima della barriera, nella quale s’era fissata l’àncora, Carol si rese conto di aver commesso un errore. Non riconosceva l’ambiente circostante e, di conseguenza, non sapeva quale direzione prendere per trovare le balene. Dopo essersi brevemente rimproverata di non aver speso qualche minuto in più nello studio del monitor per imprimersi bene in mente tutti i punti di riferimento, si disse: Oh, be’, ormai è fatta. Tanto vale scegliere una direzione e seguirla. Anche perché non ho idea di dove stia l’oggetto segnalato dall’allarme.

La visibilità, sul fondo, era da discreta a buona: fra i quindici e i diciotto metri in ogni direzione. Carol corresse di un filo il galleggiamento e indicò quindi un varco fra due scogliere della barriera, Nick diede il proprio assenso con un cenno del capo. Tese le braccia lungo i fianchi per sveltire il movimento, Carol mosse le pinne su e giù e puntò verso il varco.

Alle sue spalle, Nick ne osservò la nuotata con apprezzamento e ammirazione: solcava l’acqua con la medesima grazia del branco giallo e nero di pesci angelo che le procedeva a fianco. Lui non l’aveva interrogata granché sulla sua esperienza di subacquea, per cui era sceso senza saper bene che cosa aspettarsi. Certo, dalla naturalezza e familiarità da lei dimostrate nel maneggiare l’equipaggiamento da immersione, aveva sospettato di aver di fronte una subacquea esperta; ma, di trovarsi davanti una sua pari, proprio no. A parte Greta, infatti, non aveva mai incontrato una donna che, come lui, si trovasse tanto a proprio agio sott’acqua.

Nick amava di un amore totale la pace e la serenità del ricco e vibrante mondo sottomarino. Là sotto, l’unico suono da lui mai udito era quello del suo stesso respiro. Tutt’intorno, le scogliere della barriera corallina pullulavano d’una vita d’inimmaginabile bellezza e complessità. In quel momento, per esempio, c’era sotto di lui una cernia intenta a prendere un bagno: seduta sul fondo di un foro naturale, lasciava che dozzine di minuscoli pesci spazzino la sgombrassero, nutrendosene, dei parassiti accumulati. E, un attimo prima, la sua discesa sul fondo aveva spaventato una manta nascosta nella sabbia. Questa grande razza, chiamata “diavolo di mare” dagli esperti, era sgusciata ondulando dal nascondiglio all’ultimo istante, mancandolo per un pelo con la sua coda possente e pericolosa.

Nel mondo marino dei fondali del golfo del Messico, Nick Williams si sentiva nel proprio elemento. Quel mondo era il suo luogo di rifugio e di ricreazione. Ogni volta che si sentiva angosciato o disturbato dagli eventi in superficie, sapeva che gli bastava immergersi per trovare distensione ed evasione. Salvo che, in questa particolare immersione, provava un’emozione ineffabile, come d’un inizio, di un’aspirazione a qualcosa di non ben definito, mista forse a un ricordo di anni addietro. Stava seguendo un’ondina che nuotava lungo la scogliera, e la vista lo emozionava. Mi sono comportato come un ragazzino rompiballe, o peggio, pensò. E perché? Perché è bella? No. Perché è tanto viva. Tanto più viva di me…


Carol e Nick fecero due giri esplorativi, ciascuno a partire dal cavo dell’àncora, senza trovare né balene né altro. Quando tornarono all’àncora dopo il secondo, Nick indicò l’orologio: erano sott’acqua ormai da quasi mezz’ora. Carol fece di sì con la testa, poi alzò l’indice per segnalare che intendeva tentare una terza e ultima direzione.

Trovarono le balene subito dopo aver superato un grosso scoglio della barriera che si protendeva sino a cinque metri dalla superficie. Fu Nick ad avvistarle per primo. Indicò in basso: le tre balene erano circa sei metri più sotto, e più avanti di una trentina, e nuotavano lente, più o meno appaiate, in quella sorta di cerchio che Nick e Carol avevano osservato sullo schermo. Carol fece segno a Nick di scostarsi e indicò la macchina fotografica. Poi nuotò verso le balene, scattando foto nell’avvicinarsi ed effettuando nel contempo due altre manovre: il controllo della profondità e la regolazione della pressione auricolare.

Nick le scese accanto. Le balene, ne era certo, dovevano averli avvistati, però, chissà perché, non accennavano a fuggire. In tutti i suoi anni di immersione, solo una volta gli era capitato di vedere una balena in oceano aperto tollerare la vicinanza di un essere umano: e s’era trattato di una femmina in travaglio, incontrata in una laguna del Pacifico al largo della Bassa California — una femmina sulla quale i dolori del parto avevano potuto più del timore istintivo dell’uomo. Qui, invece, anche dopo che Carol s’era portata a cinque, sei metri da loro, le balene continuavano quella loro indolente deriva — come perdute, come drogate, anzi.

Visto che le balene non accennavano a fuggire, Carol rallentò l’approccio e scattò altre fotografie. Le riprese ravvicinate di balene nell’habitat naturale erano ancora qualcosa di eccezionale, per cui il suo viaggio era già di per sé un successo giornalistico. Ma quel loro comportamento lasciava interdetta anche lei. Come mai ignoravano la sua presenza? E come mai ciondolavano in quello specifico punto? Ricordò la balena solitaria che l’aveva sorpresa durante la nuotata del mattino, e tornò a domandarsi se tutti questi episodi non fossero in qualche modo correlati.

Meno di venti metri sulla sua destra, Nick stava indicando qualcosa al di là delle balene e le faceva segno di avvicinarsi. Lei si staccò dai grandi mammiferi e si diresse verso di lui. Vide immediatamente ciò che ne aveva attirato l’attenzione: sotto le balene, sul fondo dell’oceano, si apriva, in un’imponente struttura corallina, un grande buco nero, che a prima vista sembrava l’ingresso di una grotta sottomarina. L’occhio acuto di Carol notò però che il buco, anzi la fessura a forma di labbra, presentava una tale regolarità e simmetria, da suggerire quasi che si trattasse di un’opera d’ingegneria umana. Nel salire verso Nick, rise fra sé: lo sbalorditivo mondo sottomarino e il bizzarro comportamento di quelle balene cominciavano a farle venire idee balzane…

Nick indicò il buco, poi se stesso, segnalando così l’intenzione di voler scendere a controllare più da vicino. Quando si avviò, Carol provò l’improvviso impulso di allungare la mano per afferrargli il piede e trattenerlo. Un istante dopo, mentre lo osservava scendere, venne presa da un’ondata travolgente d’inspiegabile paura. Tremante, tentò bravamente di contrastare quella strana sensazione: ma gambe e braccia le si coprirono di pelle d’oca, e dentro di sé avvertì un prepotente desiderio di andarsene, di fuggire prima che accadesse qualcosa di terribile.

Un istante dopo vide una delle balene muovere verso Nick. Fosse stata in superficie, avrebbe potuto urlare, ma, a quindici metri di profondità, non c’era modo di lanciare avvertimenti da lontano. Quando Nick, ignaro di ogni pericolo, si avvicinò all’apertura, una delle balene lo urtò, sfiorandolo, con tale forza da scagliarlo contro la barriera. Carambolando, Nick ricadde su una piccola chiazza di sabbia del fondale. Carol nuotò rapidamente verso di lui, tenendo però al tempo stesso d’occhio le balene. Nick aveva perso l’erogatore e non dava cenno di voler prendere quello di riserva. Lei gli si fermò accanto e fece il segnale di pollice ritto. Nessuna risposta. Gli occhi di Nick erano chiusi.

L’adrenalina che le montava nel sangue, Carol afferrò l’erogatore di Nick e glielo ficcò in bocca, battendo contemporaneamente col pugno sul vetro della maschera. Dopo pochi, ma interminabili secondi, Nick aprì gli occhi. Carol ripeté il segnale di pollice ritto. Nick scosse la testa come a sgombrarla delle ragnatele, sorrise, e finalmente rispose al segnale. Poi fece per muoversi, ma venne fermato da Carol, che gli fece segno di aspettare tranquillo che lei gli facesse un frettoloso esame. Data la forza con cui aveva battuto contro la barriera, Carol temeva il peggio: l’attrezzatura da immersione poteva infatti anche essere intatta, ma l’impatto contro il corallo tagliente doveva per forza avergli strappato e lacerato la pelle. Incredibilmente, invece, né il corpo né l’equipaggiamento rivelavano danni significativi, a parte un paio di piccole abrasioni.

Le tre balene erano sempre nel punto in cui lei e lui le avevano trovate. Ossevandole dal disotto, Carol si disse che sembravano sentinelle di guardia a un particolare settore del territorio oceanico: nuotavano avanti e indietro, descrivendo un arco complessivo di forse duecento metri. Che cosa avesse spinto una di esse a deviare dalla rotta di pattugliamento per investire Nick, non era minimamente chiaro, ma lei non intendeva certo arrischiare un nuovo incontro. Fece quindi segno a Nick di seguirla, e si allontanò con lui di una trentina di metri, raggiungendo una trincea di sabbia fra gli scogli.

Carol contava di tornare in superficie non appena si fosse accertata che Nick non aveva riportato ferite gravi. Ma, mentre gli esaminava minuziosamente il corpo per assicurarsi che al suo primo, frettoloso controllo non fosse sfuggita qualche lacerazione seria, Nick scoprì, nella sabbia accanto a sé, due solchi paralleli, e le afferrò il braccio per indicarglieli. I solchi sembravano impronte di carro armato, erano profondi sugli otto centimetri, e sembravano freschi. Andavano in due direzioni: verso la fessura della barriera sotto le tre balene, e, a perdita d’occhio, lungo la trincea sabbiosa che correva tra le due maggiori scogliere della zona.

Nick indicò di voler risalire la trincea e si avviò in tale direzione, seguendo i solchi come affascinato e senza voltarsi a guardare se Carol lo seguisse. Carol arretrò invece rapidamente in direzione della fessura (era di nuovo una sua impressione, o le tre balene non perdevano un movimento del suo avanzare lungo il fondale?) per scattare foto e accertare che i solchi partissero appunto da essa. Proprio davanti alla fessura le parve di veder convergere una rete di solchi analoghi, ma non si soffermò a verificare. Star separata da Nick in un posto sinistro come quello, proprio non le andava… Quando si volse, lui era quasi fuori vista. Per fortuna, quando si era reso conto di non averla dietro, si era fermato. Lei andò a raggiungerlo, e lui si scusò con un gesto.

Le linee parallele cessavano nel punto in cui la trincea sabbiosa si trasformava in roccia, ma Nick e Carol le ritrovarono una cinquantina di metri più oltre. Poi la trincea si restrinse tanto, da costringerli a nuotare un paio di metri al disopra per evitare di sbattere contro la roccia e il corallo. Subito dopo il restringimento, solchi e trincea piegavano a sinistra per sparire sotto una sporgenza. Carol e Nick si fermarono e, immobili l’uno dinanzi all’altra, si parlarono a gesti. Alla fine decisero che, a scendere per controllare se ci fosse qualcosa sotto la sporgenza, sarebbe stata Carol, che, quanto meno, avrebbe potuto scattare una foto ravvicinata del punto di sparizione dei solchi.

Carol scese con le dovute cautele sul fondo della trincea, evitando abilmente il contatto coi due fianchi della scogliera. Nel punto in cui spariva sotto la sporgenza, la trincea si restringeva a una fessura nella quale passava giusto, inserendolo dall’alto, il suo piede pinnato. La sporgenza era a mezzo metro circa dal fondo, ma Carol non aveva modo di chinarsi per guardarvi sotto, perché, comunque l’avesse fatto, si sarebbe sbucciata viso o mani contro la roccia. Allora, piano piano infilò la mano nella fessura, nel punto in cui sparivano i solchi. Niente. Bisognava dunque appoggiarsi a rocce e corallo, e affondare di più la mano.

Mentre cercava una posizione migliore, perse un attimo l’equilibrio e sentì la puntura del corallo sul retro della coscia sinistra. Acc…, pensò, mentre reinfilava la destra sotto la sporgenza. Zero a uno per me. Un ricordino fisico di una giornata stupefacente. Inquietante, anzi. Balene bizzarre, impronte di carro armato sul fondo dell’oceano… e questo, cos’è? La sua mano si chiuse su ciò che sembrava al tatto una bacchetta metallica di circa tre centimetri di spessore. La sorpresa fu tale, da farle ritrarre all’istante la mano e da provocarle un brivido lungo la schiena. Sentì il cuore accelerare i battiti, e respirò lentamente per imporsi la calma. Poi reinfilò la mano e ritrovò l’oggetto. Ma non era lo stesso… Perché sembrava sì metallico al tatto, ma più grosso e con quattro denti tipo forchetta. Fece scivolare la mano lungo l’oggetto, e ritrovò la parte che somigliava a una bacchetta.

Dal suo punto d’osservazione, Nick si accorse che Carol doveva aver scoperto qualcosa, e, preso a sua volta dall’emozione, le calò accanto mentre lei si agitava invano per recuperare l’oggetto. Scambiatisi il posto, fu lui a infilare la mano sotto la roccia sporgente. Dapprima toccò qualcosa che sembrava una sfera liscia grande all’incirca quanto la sua palma. La sfera poggiava sulla sabbia e la bacchetta che vi era attaccata era alta diversi centimetri. Irrigidendosi, diede uno strattone alla bacchetta, smuovendola di un poco. Allora passò a tirare di lato e a far forza. Dopo una serie di strattoni, l’oggetto uscì da sotto la sporgenza.

Per quasi un minuto, Nick e Carol rimasero chini sull’oggetto metallico color oro che giaceva là sulla sabbia. Aveva una superficie liscia alla vista come al tatto, e una lunghezza totale di circa mezzo metro. Di esso non si vedeva che la superficie lucida, a specchio, che lo rivelava appunto fatto d’un qualche metallo. Il suo asse verticale era costituito da una bacchetta di circa due centimetri e mezzo di spessore, affusolata a un’estremità e infilata in una specie di gancio. A dieci centimetri dal gancio si trovava il centro di una piccola sfera, simmetricamente costruita attorno alla bacchetta e di raggio di poco superiore ai cinque centimetri. La sfera più grossa, toccata da Nick quando aveva infilato per la prima volta la mano sotto la sporgenza, aveva un raggio di circa dieci centimetri e stava esattamente al centro della bacchetta. E anch’essa era perfettamente simmetrica all’asse della bacchetta. A parte le due sfere, l’oggetto non presentava altro che una quadruplicazione della bacchetta all’altra estremità — i denti sentiti da Carol.

Carol fotografò con cura l’oggetto nella posizione in cui stava, davanti alla sporgenza. Prima che potesse finire, Nick indicò l’orologio. Erano sott’acqua da quasi un’ora. Carol controllò il manometro dell’aria e scoprì di essere vicina al rosso. Fece allora segno a Nick, e questi scese a raccogliere l’oggetto. Era pesantissimo: almeno dieci chili, secondo la sbalordita stima di Nick — che pensò: Allora non era incastrato, quando mi sforzavo di tiralo fuori… era il peso e basta.

Un peso che non fece che accrescergli l’emozione che l’aveva preso alla vista del color oro. Sebbene infatti non avesse mai visto nulla di simile a quel gancio e forchetta con sfere, ricordava che gli oggetti più pesanti del relitto della Santa Rosa erano risultati tutti essere d’oro. E l’oggetto che ora aveva in mano era assai più pesante di qualunque altro avesse mai toccato. Gesù, si disse, mentre liberava la cintura di qualche peso di piombo per agevolarsi la risalita con l’oggetto, se contenesse anche solo cinque chili d’oro puro, all’attuale valore di mercato di mille dollari l’oncia farebbero 160,000 dollari e potrebbe essere solo l’inizio! Perché ce ne dev’essere dell’altro, nel luogo di provenienza di ’sto coso. Bene, Williams: forse questo è proprio il tuo giorno fortunato…

Carol, intanto mentre nuotava in tandem con Nick verso il varo dell’àncora, viaggiava di un miglio al minuto col pensiero, sforzandosi di integrare rapidamente tutto ciò che aveva visto in quell’ora. Ogni cosa, ne era convinta, era in qualche modo collegata al missile errabondo della Marina: il comportamento delle balene come la forchetta d’oro col gancio e i solchi di carro armato sul fondo dell’oceano; ma, lì per lì, non avrebbe saputo concretamente come.

Mentre nuotava, ricordò a un tratto di aver letto, anni prima, la storia di certe impronte lasciate da un sottomarino sovietico sul fondale antistante una base della Marina svedese. Nella sua mente di giornalista prese così a imbastirsi uno scenario strampalato, ma plausibile, che poteva spiegare quanto aveva visto. Forse il missile è caduto qui vicino e ha continuato a trasmettere dati anche da sott’acqua, ragionò. I suoi segnali elettronici avranno confuso in qualche modo le balene. E può darsi che siano stati captati da sottomarini russi. E americani. Per un momento, non seppe più cosa pensare. Poi, dopo qualche altra bracciata e mentre osservava Nick avvicinarsi al cavo dell’ancora con l’oggetto dorato sempre saldamente in mano, si disse: A questo punto, ci sono almeno due possibilità: o sono incappata in un complotto dei russi per localizzare e sottrarre un missile americano, o solchi e forchetta d’oro rientrano in un tentativo americano di trovare il missile lasciando all’oscuro l’opinione pubblica. Comunque sia, resta un colpo giornalistico sensazionale. Ma prima bisogna che porti ’sto coso d’oro a Dale e all’IOM perché lo analizzino.

Sia Nick sia lei emersero ormai pericolosamente a corto d’aria, a lato della Florida Queen. Data la voce a Troy perché li aiutasse ad alare il bottino dell’immersione, si issarono finalmente a bordo. Erano sfiniti, ma, entrambi al colmo dell’agitazione, emozionati dalle scoperte fatte, cominciarono immediatamente a parlare tutt’e due insieme. Anche Troy aveva qualcosa da raccontare. Mentre Nick e Carol seguivano i solchi della trincea, aveva infatti visto qualcosa di insolito sul monitor.

Nick andò a prendere della birra e dei tramezzini dal frigorifero, e Carol si medicò le lacerazioni da corallo. Poi il terzetto sedette ridendo sulle sdraio sotto il sole al tramonto. Nei novanta minuti del viaggio di ritorno a Key West, i tre ebbero parecchie cose da dirsi.

8

Il cameratismo durò per gran parte del ritorno al porto turistico. Nick perse il proprio mutismo: anzi, eccitato da quello che giudicava essere il primo ritrovamento di un grande tesoro sepolto, si mostrò decisamente ciarliero. Raccontò la propria versione dello scontro con la balena almeno due volte, dicendosi certo che doveva essere stato accidentale: la balena si era trovata, chissà come, a procedere in una certa direzione e non aveva fatto caso alla sua presenza.

Quando Carol aveva obiettato che poteva anche darsi che lo avesse investito di proposito perché lo aveva visto dirigersi verso la fessura della barriera: «Impossibile,» aveva escluso lui «chi mai ha sentito di balene di guardia a un punto dell’oceano? E poi, anche dando per buona la sua teoria, come mai la balena non mi ha preso in pieno, anziché di striscio, e non mi ha finito? Lei mi chiede di credere che le balene stessero proteggendo una grotta sottomarina e che, per giunta, mi avrebbero dato una spintarella come invito a starmene lontano?». Dopo una risata di gusto, continuò: «Se è così, lasci che le chieda io una cosa, signorina Dawson: lei è una che crede agli elfi e alle fate?».

«Dal mio punto di osservazione,» ribatté Carol «la cosa aveva tutta l’aria di essere una manovra voluta.» Poi lasciò cadere l’argomento. A dire il vero, dopo gli scambi iniziali, non parlò molto durante il ritorno a Key West. Emozionata quanto Nick, valutò che, parlando troppo, avrebbe rischiato di lasciarsi sfuggire ciò che pensava circa il possibile collegamento fra ciò che avevano visto insieme e il missile scomparso della Marina. Per la medesima ragione evitò di tirare in ballo sia la strana paura che l’aveva presa prima che lui venisse urtato dalla balena, sia la rete di solchi che pensava di aver visto convergere proprio alla base della fessura.

In quanto a Nick, per lui l’oggetto recuperato faceva senz’altro parte di un tesoro. Che poi si fosse trovato nascosto sotto una sporgenza in capo a certi strani solchi, non importava: forse — ipotizzò, con un’alzata di spalle — qualcuno aveva trovato il tesoro sepolto diversi anni prima e tentato di nascondere alcuni dei pezzi migliori. (Ma perché, allora, i solchi erano freschi? E da che cosa erano stati prodotti? — avrebbe voluto chiedere Carol, che però tacque perche pensò che fosse meglio per Nick continuare a credere di aver trovato un tesoro.) Nick si mostrava cieco a ogni argomento, anzi a ogni dato di fatto, che contrastasse con la sua teoria del tesoro. Per lui era emotivamente vitale che la forchetta d’oro fosse il primo reperto di un grande ritrovamento, e, come tanti, possedeva anch’egli la capacità di sospendere le proprie facoltà critiche, di norma acute, ogni volta che aveva un interesse emotivo specifico in qualcosa.

Quando lui e Carol si furono finalmente calmati abbastanza da prestargli ascolto, Troy ebbe la possibilità di raccontare la propria storia. «Dopo che voi due avete lasciato la zona sotto la barca — per seguire la vostra trincea, immagino —, ho provato una certa preoccupazione, e così mi sono messo a osservare lo schermo con maggior frequenza. Intanto, angelo, visto che quelle tre balene continuavano quel loro ciondolare da oltre un’ora, ho smesso di controllarle da vicino.»

Troy si era alzato dalla sdraio e camminava avanti e indietro davanti a Nick e Carol. Era buio pesto, ormai; nuvole basse, da nord avevano coperto la luna e oscurato gran parte delle stelle. Il faro sopra il tendaletto illuminava a tratti i lineamenti scolpiti di Troy, che entrava e usciva dall’ombra nel suo passeggiare. «Volendovi trovare, ho reinserito gli allarmi come tu, angelo, mi avevi mostrato, e mi è arrivata regolare la serenata din-don-din delle tre balene. Ed ecco che viene il bello. Dopo un paio di minuti, ho udito un quarto allarme. Allora ho guardato il monitor aspettandomi di vedere uno di voi: e invece ho visto un’altra balena, della medesima specie, che nuotava sotto le altre tre e nella direzione opposta. Nel giro di dieci secondi, le prime tre hanno virato, rompendo lo schema di rotta descritto fino a quel momento, e seguito la nuova balena verso la parte sinistra del monitor. Dopodiché, non si sono fatte vedere più.»

Nick rise all’inflessione teatrale impressa da Troy alla storia. «Certo che, come narratore, sei proprio bravo, Jefferson! E ora, suppongo che mi dirai che quelle balene erano lì di guardia e che la nuova è venuta a portar loro nuovi ordini, o qualcosa del genere. Cristo, fra te e Carol vorreste darmi a intendere che le balene sono organizzate in congreghe di streghe o chissà cosa!» Qui tacque per un momento, mentre Troy si sentiva deluso dal silenzio di Carol.

«Discutiamo piuttosto di una questione importante, invece» continuò Nick, accantonando la storia di Troy per venire all’argomento cui rifletteva da quasi un’ora. «Abbiamo recuperato nell’oceano una cosa che ha tutta l’aria di valere un sacco di soldi, e che, se non reclamata, prove alla mano, dal legittimo proprietario, apparterrà di diritto agli autori del recupero.» Uno sguardo prima a Carol, poi a Troy, e: «Ora, anche se il capitano e il proprietario di questa barca sono io, e anche se sono stato io a portar su il coso dal fondo dell’oceano, dico che sono disposto a proporre che il guadagno venga diviso in tre parti. A voi, pare equo?»

Dopo un silenzio moderatamente lungo, Troy rispose: «Sicuro, Nick, a me pare di sì». Con un sorriso, Nick allungò il braccio per stringergli la mano. Poi fece lo stesso con Carol.

«Un minuto soltanto» disse Carol in tono normale, guardandolo negli occhi ma evitando di stringere la mano che le veniva porta. «Visto che ha deciso di iniziare questa conversazione, ci sono varie altre cose che vanno discusse. Non c’è solo la questione finanziaria, per questo oggetto, ma anche quella del possesso. Chi tiene la forchetta, anzi il tridente d’oro? Chi stabilisce quale sarà il prezzo giusto da accettare? Che cosa concordiamo di dire, o non dire, agli altri? E che si fa in caso di ritrovamento di altri oggetti, laggiù, da parte di uno o più di noi: si divide tutto in parti uguali? Come vede, c’è tutto un accordo da prendere, prima che attracchiamo.»

Nick si accigliò. «Adesso capisco perché se n’è stata buona buona in questi ultimi minuti… Pensava alla sua parte! L’ho giudicata male. Pensavo che avesse deciso di non creare altri problemi…»

«E chi ha parlato di crear problemi?» lo interruppe Carol, alzando leggermente il tono. «Se proprio lo vuol sapere, a me, dei soldi, non interessa granché. Sarò lieta di accettare il mio terzo, se il tridente renderà qualche dollaro, perché certo me lo sono meritato; ma se laggiù ci sono altri tesori del genere, e lei e Troy riuscirete a trovarli senza di me, buon pro vi faccia. Perché, quello che voglio io, è tutt’altro.»

I due uomini la ascoltavano ora con la massima attenzione. «Per prima cosa, e soprattutto, voglio l’esclusiva di questa storia, il che significa segretezza totale su ciò che abbiamo trovato, sul quando e sul dove del ritrovamento, e su tutti gli annessi e connessi — perlomeno fino a quando non saremo certi di aver saputo tutto quello che c’era da sapere. Per seconda, voglio il possesso immediato dell’oggetto per quarantott’ore, durante le quali non ne verrà resa nota a nessuno l’esistenza. Dopo, potrete tenerlo voi e sottoporlo voi stessi alle autorità competenti per la perizia.»

Ahi, pensò Carol, notando lo sguardo penetrante che le sue parole aveva suscitato in Nick e in Troy. Qui ho esagerato. Sospettano qualcosa. Meglio fare un passettino indietro. «Questa è la mia posizione di partenza, naturalmente,» continuò con un sorriso disarmante «sulla quale possiamo sempre trattare.»

«Accidenti, angelo: che discorso!» scoppiò a ridere Troy. «Per un minuto ho pensato che qui si giocasse tutt’altro gioco, e che l’unica giocatrice fossi tu! Il professore e io, naturalmente, saremo ben lieti di discutere una forma di accordo con te, non è vero, Nick.»

Nick assentì. Ma la meticolosità organizzativa e l’indubitabile intensità di reazione di Carol, chiaramente sproporzionate rispetto al valore giornalistico del ritrovamento, lo misero sul chi vive. Tenta forse di trasformare la cosa in una specie di gara fra noi?, ragionò. O c’è altro che io non vedo!


Prima dell’attracco a Key West, l’accordo di compromesso era raggiunto. L’indomani mattina, venerdì, Nick avrebbe portato il tridente d’oro (il nome scelto da Carol era piaciuto sia a lui sia a Troy) a un’anziana donna di Key West, enciclopedia vivente in materia di tesori, lo avrebbe stimato, ne avrebbe indicato luogo e provenienza, e avrebbe funto da testimone del ritrovamento in caso l’oggetto fosse andato smarrito. Nel pomeriggio, poi, si sarebbero incontrati tutt’e tre sulla barca o nel parcheggio del porto alle quattro, e Carol avrebbe preso in consegna il tridente durante il fine settimana, con impegno di riconsegnarlo a Nick il lunedì mattina perché lo custodisse e ne curasse la vendita finale. Il tridente era proprietà comune di tutt’e tre; i ritrovamenti futuri avrebbero invece riguardato solo Troy e Nick, perché Carol non vi era minimamente interessata. Scritte le clausole del semplice accordo sul retro di un menù di ristorante trovato in borsetta, Carol firmò coi suoi compagni e promise di portar loro delle copie l’indomani.

In silenzio, senza più manifestazioni di esuberanza, Troy reinfilò nel baule le attrezzature di Carol, poi caricò il baule sul carretto e si avviò lungo la gettata, affiancato da Carol. Erano quasi le nove, e il porto, dai moli di legno illuminati d’uno strano riflesso dagli alti fanali a luce fluorescente, era immerso nella quiete. «Be’, angelo, è stata una gran giornata» disse Troy a Carol mentre s’avvicinavano alla capitaneria. «E la tua compagnia è stata per me un vero piacere.» Qui si fermò e si voltò a guardarla. I capelli neri non completamente asciutti le davano un aspetto alquanto arruffato, ma il viso era bello nella luce riflessa.

«Sai,» continuò, spostando lo sguardo verso l’acqua e le barche «è proprio un peccato che, a volte, la vita vada come va. Si conosce qualcuno per caso, si fa amicizia, e paf, il qualcuno se ne va. È tutto così… fugace.»

Carol gli si accostò e s’allungò a baciargli la guancia. «Be’, anche tu mi sei simpatico, sai?» disse, buttando la conversazione sul leggero con un sorriso e facendo così in modo di fargli capire quale genere d’amicizia potesse instaurarsi fra loro. «Ma su con la vita! Non è tutto perduto: mi vedrai domani per un po’, e poi, forse, lunedì, alla riconsegna del coso d’oro.»

Prendendolo quindi a braccetto mentre, lasciato il carretto, tornavano indietro di qualche passo, continuò ridendo: «E chissà: visto che ogni tanto capito nelle Key, potremmo bere qualcosa insieme e tu potresti raccontarmi qualche altra delle tue storie». Qualche centinaio di metri più in là, si distingueva a stento il faro orientabile sopra il tendaletto della Florida Queen. «Vedo che il tuo amico professore è ancora al lavoro. In fatto di addii — anzi, di maniere in genere, direi —, non è uno che si sprechi.»

Si girò, dando l’altro braccio a Troy, e tornò con lui al carretto. Attraversarono la capitaneria, apparantemente deserta, senza più parlare. Caricato il baule sulla giardinetta, Carol si congedò da Troy con un abbraccio. «Sei un brav’uomo, Troy Jefferson. Ti auguro ogni bene.»


Quando Troy tornò alla barca, trovò Nick quasi pronto a sbarcare. «Ha un’aria abbastanza innocente, eh, Troy?» disse, alludendo alla piccola sacca sportiva che stava preparando. «Nessuno sospetterà mai che contenga uno dei grandi tesori dell’oceano.» Dopo una pausa, cambiò argomento. «L’hai sistemata in macchina? Bene. È un tipetto strano, non ti pare? Petulante e aggressiva, però anche carina. Mi domando che cos’è che la muove.»

Chiuse la lampo della sacca e passò a fianco del tendaletto. «Per stasera, limitati a mettere a posto gli attrezzi da immersione. Il resto, lascialo perdere: sistemeremo domani. Io adesso vado a casa a sognar ricchezze.»

«A proposito di ricchezze, professore,» disse Troy con un sorriso «e quei cento dollari che t’ho chieso in prestito martedì? Tu mi hai detto solo un “vedremo”, ma una risposta vera non me l’hai poi data.»

Nick gli si avvicinò con passo deciso, gli si piantò davanti, poi rispose, scandendo le parole: «Avrei dovuto fare il mio discorso alla Polonio a entrambi fin dalla prima volta che mi hai chiesto un prestito. Così, invece, io ora faccio quello che presta e tu quello che prende in prestito, e la cosa non mi garba. Ti presterò dunque cento dollari, signor Troy Jefferson, ma sia chiaro che questa è l’ultima volta. E fammi la cortesia di non venirmene a chiedere più, perché questi prestiti per le tue sedicenti invenzioni mi rendono difficile lavorare con te».

Un po’ sorpreso dall’inattesa durezza di tono di Nick, e irritato dall’allusione implicita nell’ultima frase, Troy rispose piano, frenandosi: «Intendi forse che io non direi la verità e che i soldi non andrebbero in elettronica? O vuoi dire che non credi che un nero senza istruzione possa mai inventare qualcosa di buono?».

«Risparmiami la tua giusta indignazione razziale» rispose Nick, tornando a piantarglisi di fronte. «Qui non si tratta di pregiudizi o menzogne, ma solo e semplicemente di soldi. Il mio prestarteli manda a puttane la nostra amicizia.» Troy fece per ribattere, ma Nick lo bloccò con un cenno. «È stata una giornata lunga, e anche affascinante, volendo. Quello che avevo da dire sull’argomento prestiti, l’ho detto; quindi, chiudiamola lì.»

Raccolta la sacca, gli diede la buonanotte e sbarcò. Troy passò dietro il tendaletto a sistemare l’attrezzatura da immersione. Una decina di minuti dopo, mentre stava finendo, si udì chiamare per nome. «Troy… Troy, sei tu?» diceva una voce dall’accento straniero.

Si sporse dal tendaletto e vide Greta sulla gettata, sotto la luce fluorescente. Benché avesse rinfrescato, portava il solito bikini ridottissimo, che metteva in rilievo il suo splendido fisico. «Questa poi… Ma è la supercrucca!» esclamò Troy con un gran sorriso. «E come stai, accidenti a te? Vedo che non hai smesso di prenderti cura di quel tuo meraviglioso corpo…»

Greta abbozzò un sorriso. «Homer, Ellen e io diamo un piccolo party, stasera. E siccome ti abbiamo visto lavorare fino a tardi, abbiamo pensato che magari ti andava di raggiungerci, quando avrai finito.»

«Potrebbe andarmi sì» disse Troy, assentendo col capo. «Già, potrebbe proprio andarmi.»

9

«Oh, Dio, non possiamo finire qui, una volta per tutte? Concedilo, ti prego. C’è tanta pace, ora…» La donna parlava alle stelle e al cielo. Il vecchio sulla sedia a rotelle reclinò il capo ed esalò l’ultimo respiro. Hannah Jelkes gli s’inginocchiò accanto per vedere se fosse morto davvero; poi, baciatolo sulla corona del capo, alzò al cielo un sorriso colmo di serenità. Calò il sipario. Qualche secondo dopo tornò su, mentre gli attori al completo si riunivano sulla scena.

«Bene, per stasera è tutto: bravi.» Il regista, Melvin Burton, un uomo sui sessanta appena passati, capelli grigi che cominciavano a diradarsi al culmine della testa, si accostò al palcoscenico d’un balzo. «Ottima prova, Henrietta. Vedi di ripeterla identica domani sera alla prima: proprio la combinazione giusta di forza e vulnerabilità!» Poi, saltando agilmente sul palcoscenico: «In quanto a te, Jessie, se mi fai Maxine anche solo un pelo più sensuale, qui ci fanno chiuder baracca». Girò quindi sui tacchi con gesto teatrale e si unì alla risata di due altre persone sedute in quarta fila.

«Bene, ragazzi,» continuò, rigirandosi verso gli attori «ora andate a casa e prendetevi un bel po’ di riposo. Stasera è andata meglio: la prova mi è sembrata buona. Oh, comandante: lei e Tiffani non potreste fermarvi un momento, dopo che vi siete cambiati? Avrei ancora un paio di suggerimenti per voi.»

Saltò dal palcoscenico e tornò alla quarta fila, dove sedevano i suoi due associati. Uno era una donna, anche più anziana di lui ma con occhi verdi sfavillanti dietro gli occhiali da nonna, e vestita di un abito stampato in cui rilucevano tutti i colori della primavera. L’altro era un uomo sulla quarantina, dal viso serio e dai modi franchi e affabili. Melvin si accomodò loro accanto tutto in agitazione. «Quando abbiamo scelto la Notte dell’iguana, ero preoccupato che potesse essere troppo difficile per Key West. Non è infatti famosa come Un tram che si chiama desiderio o Lo zoo di vetro, e i personaggi sono, per certi versi, altrettanto peregrini di quelli di Improvvisamente, l’estate scorsa. Ma adesso sembra quasi perfetta. A patto di metter a posto le scene fra Shannon e Charlotte.»

«Ti penti di aver aggiunto il prologo?» chiese la donna. Amanda Winchester era un’istituzione, a Key West. Fra le altre cose, era la decana degli impresari teatrali che avevano rivitalizzato la città. Proprietaria di due dei nuovi teatri della zona del porto e responsabile della formazione di almeno tre compagnie diverse di repertorio, amava il teatro e la sua gente. E Melvin Burton era il suo regista preferito.

«Tutt’altro, Amanda. È un miglioramento, direi, perché dà un primo assaggio del senso di frustazione generato dal portare un gruppo di battiste in un giro estivo del Messico. E, senza la scena di sesso in quella stanzetta d’albergo, dubito che la relazione fra Charlotte e Shannon sarebbe credibile per il pubblico.» Dopo una pausa di riflessione aggiunse: «Huston, del resto, ha fatto lo stesso nel film».

«Qui, però, la scena di sesso stride» obiettò l’uomo. «Anzi, è quasi comica. Gli abbracci che i due si scambiano sembrano quelli di mio fratello con le figlie.»

«Pazienza, Marc» disse Melvin.

«Sì: o si rimedia, o è meglio eliminare il prologo» concordò Amanda. «Ha ragione Marc: la scena, come l’abbiamo veduta stasera, è quasi comica, e questo dipende in parte dal fatto che Charlotte sembra una bambina, quando la recita.» Dopo una pausa, continuò: «Vedi, ha dei capelli lunghi che sono uno splendore, e noi glieli impiliamo sulla testa per farla sembrare austera e come si deve. Ora, è vero che, con il caldo che fa d’estate in Messico, non può certo portarli sciolti per tutta la giornata; però, se li sciogliesse nel momento di andare nella camera di Shannon… eh?».

«Ottima idea, Amanda! Sempre detto che saresti stata una regista favolosa…» Melvin e Marc si scambiarono un caloroso sorriso. Poi il regista si allungò in poltrona e si concentrò su quello che avrebbe detto di lì a poco ai due attori invitati a fermarsi.

Melvin Burton era un uomo felice. Abitava col suo compagno di stanza di quindici anni, Marc Adler, in una casa sulla spiaggia a Sugarloaf Key, una quindicina di chilometri a est di Key West. Aveva diretto commedie a Broadway per quasi un decennio e faceva teatro, in una veste o nell’altra, dalla metà degli anni Cinquanta, ma era sempre stato cauto nello spendere. Così, nel 1979, si era ritrovato con un pingue deposito in banca, e, preoccupato che l’inflazione potesse rosicchiarglielo, aveva chiesto consiglio a un commercialista amico di un suo intimo associato. Era stato quasi amore a prima vista. Marc aveva ventott’anni, all’epoca; e Melvin, col suo savoir faire e la sua spavalderia d’uomo di teatro, aveva dischiuso al giovane timido, schivo, insicuro di sé nel turbine di New York, aspetti della vita a lui sconosciuti.

Alla metà degli anni Ottanta, col boom della borsa, Melvin aveva visto il suo patrimonio netto sfiorare il milione di dollari. Non tutto era stato però così roseo, nella sua vita. L’epidemia di AIDS aveva infierito contro la comunità teatrale di New York, facendo perdere a lui e a Marc una quantità di amici di lunga data. E la sua carriera sembrava aver raggiunto il vertice: altri erano ora, sempre più spesso, i registi di grido.

Una notte, rincasando da teatro, Marc era stato aggredito da una banda di adolescenti, che l’avevano picchiato, derubato di orologio e portafoglio, e abbandonato sanguinante a terra. Nel medicargli le ferite, un Melvin rattristato aveva preso una grande decisione: quella di lasciare New York. Avrebbe venduto le azioni e trasformato il patrimonio in investimenti a reddito fisso, e comprato una casa in un luogo caldo e sicuro, dove lui e Marc potessero distendersi, leggere e nuotare insieme. Se poi avessero trovato da lavorare in qualche comunità teatrale, tanto meglio, non era l’essenziale. L’essenziale era che potessero passare insieme gli anni che a lui, Melvin, restavano da vivere.

Un giorno, mentre era in vacanza a Key West con Marc, Melvin s’era imbattuto in Amanda Winchester, una donna con la quale aveva collaborato brevemente, vent’anni addietro, a un progetto poi non andato in porto. E Amanda gli aveva detto di aver appena formato una compagnia di repertorio, con attori dilettanti, che intendeva dare due drammi di Tennessee Williams all’anno. Se per caso lui fosse stato interessato a dirigerla…

Melvin e Marc si erano così trasferiti a Key West e avevano cominciato a costruire la loro casa a Sugarloaf Key. In quanto al lavoro coi Key West Players, si era rivelato un piacere per entrambi. Gli attori erano persone comuni, appassionate e serie. Alcuni avevano già alle spalle qualche esperienza teatrale, ma la maggioranza — segretarie, casalinghe, commessi, e ufficiali e marinai semplici della base aeronavale — era costituita da novizi. Una cosa, però, avevano tutti in comune: ognuno vedeva i pochi giorni di palcoscenico come il proprio momento di gloria, ed era deciso a trarne il massimo.

Il capitano di fregata Winters fu il primo a lasciare il camerino. Portava la divisa (era venuto alle prove direttamente dalla base) e aveva un’aria fra l’impettito e l’insicuro. «Sono proprio contenta di rivederla fra noi» disse Amanda Winchester, stringendogli la mano, quando lui venne a sederlesi accanto. «Il suo Goober dell’autunno scorso mi è sembrato perfetto.»

Winters la ringraziò con garbo. «E come vanno le cose alla base?» domandò Amanda cambiando argomento. «Ho letto un articolo sul Miami Herald, l’altro giorno, che parlava di tutte le armi moderne di cui dispone oggi la Marina: sottomarini senza pilota, caccia a decollo verticale, siluri da ricerca a distruzione… Non sembrano esistere limiti, insomma, alla nostra capacità di fabbricare giocattoli di guerra sempre più potenti e pericolosi. E voi, ci siete dentro pure voi?»

«Oh, solo in piccola parte» rispose affabilmente il capitano Winters. Poi, anticipando la discussione col regista, si chinò in modo da aver di fronte sia Melvin e Marc che Amanda, e disse: «Mi scuso se stasera sono stato un po’ moscio. Ma abbiamo un paio di grossi problemi alla base, e così avevo forse la testa altrove. Domani, però, sarò pronto e…».

«Oh, non si preoccupi,» lo interruppe Melvin «non è di questo che volevo parlarle. No, si tratta della sua prima scena con Tiffani… Ah, ma eccola che arriva. Venga, andiamo in palcoscenico.»

Tiffani Thomas aveva quasi diciassette anni e faceva il terz’anno di superiori a Key West. Figlia di marinaio, dall’asilo d’infanzia aveva cambiato sette scuole. Aveva per padre un sottufficiale che era stato destinato a Key West circa tre mesi prima, ed era stata raccomandata a Melvin Burton dall’insegnante di teatro del liceo quando si era visto che la parte di Charlotte Goodall non andava decisamente bene per Denise Wright.

«Per me, finora, non ha fatto che delle prove,» aveva detto di lei l’insegnante «ma è una ragazza che impara in fretta le battute e che possiede una qualità, anzi un’intensità, che la distingue da tutti gli altri. E, chiaramente, ha già recitato. Non so se potrà prepararsi in tre settimane, ma, per me, è di gran lunga la più adatta.»

Bella, i suoi compagni di classe non l’avrebbero definita, probabilmente perché aveva i lineamenti troppo comuni per destare l’ammirazione della maggior parte dei ragazzi del liceo. I suoi pregi erano gli occhi verde-oliva, cheti e meditabondi, una carnagione pallida sparsa di lentiggini chiare, lunghe ciglia rosse sfumate di marrone, e una magnifica chioma di folti capelli biondo-ramati. Aveva anche un bel portamento eretto, non floscio come quello della maggioranza degli adolescenti, e ciò doveva probabilmente conferirle un’aria di superbia agli occhi dei coetanei. «È una ragazza che fa colpo» aveva detto di lei Amanda, con giudizio azzeccato, quando l’aveva vista per la prima volta.

Sola sul palcoscenico, in camicetta a maniche corte e jeans, i capelli raccolti a coda di cavallo come piacevano a suo padre, Tiffani attese che i due uomini si avvicinassero. Era molto nervosa, perché era preoccupata per ciò che il signor Burton stava per dirle. La direttrice dell’ufficio acquisti che faceva parte di Hannah Jelkes, aveva detto, e lei l’aveva sentita, che Melvin avrebbe forse eliminato la parte di Charlotte se «la ragazza nuova non ce la faceva»… Ho tanto sgobbato per questa parte, pensava Tiffani, che… oh, mio Dio, fa’ che non sia una cattiva notizia!

Quando Melvin Burton e il capitano Winters le furono accanto, Tiffani rimase con gli occhi bassi. «Be’, vengo subito al sodo» cominciò Melvin. «La prima scena con voi due nella camera d’albergo non sta in piedi, anzi è proprio un disastro. Bisogna dunque fare dei cambiamenti.»

Accortosi che Tiffani non lo guardava, le mise dolcemente una mano sotto il mento e le sollevò il viso fino ad averlo di fronte. «Devi guardare me, bambina, perché sto cercando di dirti delle cose molto importanti.» Alla vista di quegli occhi umidi e lì lì per piangere, l’esperienza di anni gli disse subito che cos’era che non andava. Si chinò, allora, e le sussurrò all’orecchio, per lei sola: «Ho parlato di fare dei cambiamenti, non di eliminare la scena. Quindi, datti una controllata e ascolta».

Poi, riassunto il tono da regista, si rivolse a Winters: «In questa scena, comandante, il suo personaggio Shannon e la giovane signorina Goodall avviano dei preliminari amorosi che porteranno, nella notte stessa, a un rapporto sessuale completo. Nella scena seguente, verranno scoperti in flagrante delicto da una confusa signorina Fellowes, e ciò provoca la situazione senza uscita per la quale Shannon è costretto a fuggire da Maxine e Fred al Costa Verde.

«Ora, la nostra scena non funziona per una ragione: che, vista dalla sala, non dà a nessuno l’impressione che si tratti di preliminari amorosi. A questo punto, per conferire maggior scioltezza, posso cambiarne lo svolgimento — per esempio, col far scoprire Charlotte dietro la porta da uno Shannon già a letto, e col vestire Charlotte in modo che sembri meno bambina —, ma c’è una cosa che non posso fare…» e qui si fermò, guardando dall’uno all’altra e notando che né l’uno né l’altra capivano dove volesse andare a parare.

«Su, venite qua, tutt’e due» fece, con un cenno impaziente della destra. Poi, presa per mano Tiffani con la sinistra e il capitano Winters con la destra, continuò, abbassando il tono: «Voi, in questa commedia, siete amanti di una notte. È quindi fondamentale che il pubblico afferri la situazione, altrimenti non capirà mai bene perché Shannon sia, come l’iguana, allo stremo. Shannon è disperato perché, a suo tempo, è stato estromesso dalla sua chiesa per aver ceduto alla stessa voglia…».

Malgrado lo ascoltassero entrambi, Melvin fiutò, con il suo intuito di regista, che le sue parole non avevano ancora centrato il bersaglio. Gli venne allora un’altra idea: prese la mano di Tiffani e la ficcò in quella del capitano, chiudendovi sopra la propria perché fosse più chiaro. «Guardatevi l’un l’altra per un momento. Così, bene.» Poi, rivolto a Winters: «Lei è giovane e bella, sì o no, comandante?» disse, guardando i due che si fissavano.

«E lui è un bell’uomo, sì o no, Tiffani? Bene: allora voglio che immagini di provare un irrefrenabile desiderio di toccarlo, di baciarlo, di essere nuda con lui.» Tiffani arrossì. Winters si agitò a disagio. Melvin ebbe l’impressione di cogliere una scintilla, anche se fuggevole…

«Domani sera, dunque,» proseguì, guardando Tiffani e staccando la mano dalle due unite «voglio vederti provare questo stesso desiderio quando sarai nascosta nella sua stanza. Voglio che ti esploda quando lui ti scoprirà lì. E lei, comandante,» disse, spostando lo sguardo sull’attore di mezz’età «sarà uno Shannon combattuto fra il desiderio travolgente di possedere questa giovinetta e la quasi certezza che ciò significherebbe per lui la rovina definitiva dell’esistenza fisica e spirituale. Lei si troverà insomma in una trappola senza uscita: teme di esser già stato abbandonato da Dio per via dei peccati da lei commessi in passato, ma, nonostante il suo timore, finirà per abbandonarsi al richiamo della carne e per commettere un altro peccato imperdonabile.»

Tiffani e il capitano Winters si resero conto quasi contemporaneamente di essere ancora là con le mani allacciate. Si guardarono un istante e, imbarazzati, si sciolsero con un certo disagio. Melvin s’infilò tra loro e pose loro le braccia sulle spalle. «Adesso andate a casa e rifletteteci su. E domani sera tornate a fare il vostro figurone.»


Vernon Winters infilò la Pontiac nel vialetto di casa, alla periferia di Key West, poco prima delle undici. La casa era là, tranquilla e silenziosa, le luci spente tranne che in garage e in cucina. Tutto è regolare, come le stelle, pensò. Hap a letto alle dieci, Betty alle dieci e mezza. Dentro di sé vide la moglie entrare nella camera del figlio, come ogni sera, e cincischiare un po’ con lenzuola e copriletto. «Hai detto le preghiere?»

«Sì, signora» rispondeva come sempre Hap.

Poi lei gli dava il bacio della buonanotte in fronte, spegneva la luce uscendo, e andava in camera sua. Dieci minuti per mettersi il pigiama e lavarsi denti e viso, poi in ginocchio accanto al letto, gomiti sulla coperta e viso tra le mani. «Signore caro» avrebbe cominciato a voce alta; poi, a occhi chiusi e muovendo le labbra in silenzio, avrebbe pregato fino alle dieci e mezzo precise. Cinque minuti più tardi, il sonno.

Nell’attraversare il soggiorno per avviarsi alle tre camere da letto, che stavano al lato opposto del garage, avvertì in sé una vaga inquietudine. Lo rodeva qualcosa: qualcosa che non sapeva bene che fosse, ma che doveva essere in relazione col nervosismo della prima imminente o con l’improvvisa ricomparsa di Randy Hilliard nella sua vita. Desiderava parlare con qualcuno.

La prima fermata fu la camera di Hap. Entrò piano al buio e sedette accanto al letto del figlio. Hap dormiva come un ghiro, girato sul fianco, il profilo illuminato da una lucina da notte. Come somigli a tua madre!, pensò. Anche nel modo di fare. Siete tanto vicini, voi due, da farmi quasi sentire un estraneo in casa mia. Posò piano la mano sulla guancia di Hap. Il ragazzo non si mosse. Come rimediare a tutto il tempo che sono stato via?

Lo scosse dolcemente per svegliarlo. «Hap,» disse piano «sono papà.» Henry Allen Pendleton Winters si stropicciò gli occhi, poi si tirò di scatto a sedere. «Sì, signore. È successo qualcosa? Sta forse male mammina?»

«Ma no» rise il capitano. «Mammina sta bene e non è successo niente. Avevo solo voglia di fare quattro chiacchiere.»

Hap diede un’occhiata all’orologio accanto al letto. «Mmm… be’… va bene, papà. E di che cosa voleva parlare?»

Dopo un attimo di silenzio, Winters disse: «Senti, Hap, hai poi letto il copione che vi ho portato, a te e a mamma, quello della mia commedia?».

«No, signore. Ossia, solo un po’,» rispose Hap «perché, ecco, non riuscivo a seguire. Mi spiace, ma credo proprio di non essere all’altezza.» Poi, illuminandosi: «Però non vedo l’ora di vederla recitare, domani sera». Una lunga pausa. Poi: «Ma, in sostanza, di che si tratta?».

Winters si alzò e andò a guardare dalla finestra aperta. Oltre la zanzariera saliva il dolce sussurrìo dei grilli. «Si tratta di un uomo che perde il suo posto accanto a Dio perché non sa o non vuole dominare i propri atti. Si tratta…» Volse la testa di scatto e sorprese il figlio in atto di guardare l’orologio. La delusione gli diede una fitta al cuore. Attese di calmarsi, poi, sospirando, disse: «Be’, ne parleremo un’altra volta, figliolo. Mi rendo conto solo adesso di quanto è tardi».

Andò alla porta. «Buonanotte, Hap.»

Passò oltre la camera della moglie, diretto alla terza stanza in fondo al corridoio. Si spogliò lentamente, avvertendo ancor più forte quella sensazione di desiderio insoddisfatto. Per un fuggevole secondo pensò di svegliare Betty, per parlare e magari… Ma no. Questo non è mai stato il suo stile, si disse. E già fin da prima che dormissimo insieme. E dopo la Libia e i sogni e i pianti notturni, chi potrebbe biasimarla di voler far camera a parte…

S’infilò nel letto in mutande, e si lasciò cullare dalla melodia dei grilli. E poi, lei ha il suo Dio, e io la mia disperazione. Fra noi non c’è più altro che Hap. Ci accoppiamo come estranei, entrambi timorosi d’una qualsiasi scoperta.

10

«La sala comunicazioni chiude fra cinque minuti. La sala comunicazioni chiude fra cinque minuti.» La voce asessuata del disco sembrava stanca. Carol Dawson non lo era di meno. Stava parlando al videotelefono con Dale Michaels, e la consolle sottostante allo schermo e alla telecamera era disseminata di fotografie.

«Va bene, credo che tu abbia ragione» stava dicendo. «Per risolvere ’sto rompicapo, l’unico modo è che io ti porti a Miami tutte le foto e il registratore del telescopio.» Un sospiro seguito da uno sbadiglio. Poi: «Verrò domattina presto, col volo che arriva alle sette e mezzo, così il laboratorio potrà dare subito un’occhiata ai dati registrati. Ricorda, però, che devo essere di ritorno in tempo per andare, alle quattro, a prendere il tridente. Ce la farà, il laboratorio, a elaborare tutti i dati in un paio d’ore?».

«Il difficile non sta nell’elaborazione, ma nell’analisi e nell’imbastimento di una storia che stia in piedi. E, farlo in una o due ore, sarà dura…» Il dottor Dale sedeva sul divano del salotto del suo spazioso appartamento di Key Biscayne. Davanti, sul tavolino da caffè, aveva una magnifica scacchiera di giada a caselle verdi e bianche. Su di essa rimanevano sei pezzi intagliati: le due regine e quattro pedoni, due per ciascun campo. «Mi rendo conto dell’importanza che questo ha per te» proseguì, dopo una pausa, guardando intensamente la telecamera. «E, per aiutarti, ho cancellato la mia riunione delle undici.»

«Grazie» disse automaticamente Carol, avvertendo una punta d’irritazione. Chissà perché, pensò, mentre Dale le parlava di uno dei suoi nuovi progetti all’IOM, gli uomini esigono sempre gratitudine per ogni piccolo sacrificio. Se una donna cambia programma per fare un favore a un uomo, è la più normale delle cose; se invece è un uomo a degnarsi di far lo stesso col suo, è una roba da finimondo!

Dale non smetteva di parlare. Ora le stava raccontando tutto entusiasta di una nuova impresa messa in cantiere dall’Istituto: il rilevamento dei vulcani sottomarini della zona di Papua, in Nuova Guinea. Devo proprio essere a terra, sorrise dentro di sé Carol, rendendosi conto di essere infastidita dall’interesse di Dale per i propri obiettivi. E mi sa che sto per comportarmi da rompiballe.

«Ehi» lo interruppe, alzandosi e procedendo a radunare le fotografie. «Scusa se pianto la festa, ma qui chiudono e sono sfinita. Arrivederci a domattina.»

«Non muovi?» disse Dale, indicando la scacchiera.

«No. Né adesso, né mai più, forse» disse lei, con una traccia di collera nella voce. «Qualunque giocatore ragionevole avrebbe accettato la mossa che ti ho offerto lo scorso fine settimana, e sarebbe passato a cose più serie. Ma il tuo maledetto amor proprio non tollera l’idea di finir battuto da me una partita su cinque.»

«C’è anche chi commette errori, nella partita finale…» rispose Dale, passando sopra al contenuto emotivo dell’osservazione di lei. «Ma so che sei stanca. Dunque, verrò a prenderti all’aeroporto e faremo colazione insieme.»

«D’accordo. Buonanotte.» Riappeso un po’ bruscamente il videotelefono, Carol mise in borsa tutte le foto. (Lasciato il porto turistico, aveva portato macchina e pellicola direttamente alla camera oscura del Key West Independent, dove aveva passato un’ora nello sviluppo ed esame dei positivi. I risultati si erano rivelati sorprendenti, specialmente in un paio di casi. Un’istantanea mostrava chiaramente quattro solchi diversi che convergevano in un punto appena al disotto della fessura. Un’altra, i corpi delle tre balene in una posa che dava loro l’aria di esser immerse in conversazione.)

Uscita dal salone, attraversò lo spazioso atrio dell’albergo Marriott. Il piano bar era quasi deserto. L’agile pianista nero stava suonando una vecchia canzone di Karen Carpenter, Goodbye to Love. Un bell’uomo fra i trenta e i quaranta stava baciando una giovane biondona in un séparé sulla destra. Carol ne fu risentita. La bimba ha almeno ventitré anni suonati, si disse, ed è la sua segretaria, probabilmente, o qualcosa di simile.

Nel discendere il lungo corridoio verso la propria stanza, rifletté alla conversazione con Dale. Lui le aveva detto che la Marina aveva dei piccoli veicoli robot, alcuni dei quali derivati da disegni originari dell’IOM, che potevano facilmente essere gli autori dei solchi. Ed era praticamente certo che di veicoli simili disponevano anche i russi. In quanto al comportamento delle balene, era irrilevante, secondo lui; il grave, invece, era che lei non si fosse accertata se vi fosse altro, sotto la sporgenza (Ma certo, aveva pensato lei nel sentirselo dire, avrei dovuto dedicare almeno un altro minuto a guardarci. Accidenti a me! Speriamo di non aver guastato tutto. Poi si era ripassata nella mente l’intero episodio della sporgenza, nel tentativo di ricordare eventuali indizi che lasciassero pensare ad altri oggetti nascosti.)

Ma la sorpresa maggiore, alla conversazione con Dale, era venuta quando lei, così di sfuggita, aveva lodato il funzionamento del nuovo algoritmo d’allarme. Di colpo interessatissimo, Dale aveva chiesto; «Allora, il codice di allerta ha segnato proprio 101?».

«Ma sì,» aveva risposto lei «ed è per questo che non mi sono meravigliata di trovare l’oggetto.»

«Non è possibile,» aveva ribattuto, deciso, lui «il codice d’allerta non può essere stato azionato dal tridente. Anche se fosse stato ai margini del campo visivo del telescopio — il che sembra improbabile, visto il pezzo in trincea che hai risalito per trovarlo —, è troppo piccolo per aver potuto azionare l’allarme corpo-estraneo. E poi, come poteva esser visto, se stava sotto la sporgenza?» Dopo una pausa, Dale aveva proseguito: «Tu non hai guardato le immagini infrarosse in tempo reale, vero? Be’, quando le avremo elaborate, vedremo di capire che cos’è che ha azionato l’allarme».

Carol aprì la porta della camera d’albergo avvertendo una strana sensazione di abbattimento. È solo fatica, si disse, non volendo ammettere di sentirsi un’incapace dopo la conversazione con Dale. Posata la cartella su una sedia, andò stancamente in bagno a lavarsi il viso. Due minuti dopo si addormentava sul letto con addosso la sola biancheria intima. Pantaloni, camicetta, scarpe e calze erano ammucchiati in un angolo.

È di nuovo bambina, nel sogno, e porta il vestito a righe azzurre e gialle che i genitori le hanno regalato per il settimo compleanno. Passeggia col padre lungo il Northridge Mall in un’affollata mattina di sabato. Passano davanti a una grande pasticceria. Lei abbandona la mano del padre e corre all’interno e si ferma a bocca aperta davanti alla vetrina dei cioccolatini. L’omone dietro il banco le chiede cosa vuole, e lei ìndica delle tartarughe di cioccolato al latte.

Nel sogno, il banco è troppo alto, e lei non ha soldi. «Dov’è la tua mamma, piccola?» domanda l’uomo. Carol scuote la testa, e lui ripete la domanda. Lei si rizza sulla punta dei piedi e gli sussurra, in confidenza, che la sua mamma beve troppo, ma che il suo papà le compra sempre tanti dolci.

L’uomo sorride, ma continua a non volerle dare i cioccolatini. «E tuo padre dov’è, piccola?» domanda di nuovo. Nella vetrina, Carol vede riflesso un uomo affettuoso e sorridente che le sta alle spalle, in mezzo a due montagne di cioccolatini. Si gira, aspettandosi di vedere suo padre, ma scopre che l’uomo alle sue spalle non lo è. Ha una faccia grottesca, sfigurata, costui. Spaventata, torna a girarsi verso i cioccolatini. L’uomo sta ritirando tutto perché è ora di chiusura. Lei comincia a piangere.

«Dov’è tuo padre, piccola? Dov’è, eh?» La bambina del sogno singhiozza disperatamente. È circondata da omoni e donnone che, tutti, le fanno domande. Si tura le orecchie con le mani.

«Se n’è andato,» urla finalmente Carol «se n’è andato! Ci ha lasciate e se n’è andato, e ora io sono tutta sola!»

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