TERZA PARTE LA GALASSIA

«Così io percorro altipiani sconfinati e so che c’è speranza per ciò che Tu hai plasmato con la polvere di essere in comunione con le cose eterne.»

Rotoli del Mar Morto

19 SINGOLARITÀ NUDA

«… salire in paradiso per la via stellata dello stupore.»

RALPH WALDO EMERSON, Merlino, «Poesie» (1847)

«Non è impossibile che per qualche essere infinitamente superiore l’intero universo sia come una pianura, con la distanza tra pianeta e pianeta pari a quella fra gli atomi di un granello di sabbia, e gli spazi tra sistema e sistema non più grandi degli intervalli tra un granello e quello vicino.»

SAMUEL TAYLOR COLERIDGE, Omniania Stavano precipitando. I pannelli pentagonali del dodecaedro erano divenuti trasparenti. E così pure il soffitto e il pavimento. Sopra e sotto, Ellie poteva scorgere la trina di organosilicati e le sbarre di erbio che vi erano state piantate, che sembravano muoversi. Tutti e tre i benzel erano scomparsi. Il dodecaedro sprofondava sfrecciando per un lungo tunnel oscuro dal diametro appena sufficiente a consentirne il passaggio. L’accelerazione sembrava attorno a un g. Forse avrebbero fatto meglio ad aggiungere le cinture, visto che non tutti rimanevano schiacciati contro le loro poltrone come accadeva a lei.

Era difficile non pensare di essersi tuffati nella crosta terrestre, diretti al nucleo di ferro fuso del pianeta. O forse stavano finendo dritti a… Cercò di immaginare quell’incredibile mezzo di trasporto come un ferryboat dello Stige.

Le pareti del tunnel presentavano una struttura che faceva percepire a Ellie la loro velocità di crociera. I disegni erano screziature irregolari dai contorni sfumati, non c’era nulla che richiamasse una forma ben definita. Le pareti erano notevoli non per il loro aspetto, ma solo per la loro funzione. Anche ad alcune centinaia di chilometri sotto la superficie terrestre le rocce avrebbero dovuto essere incandescenti, ma non c’era traccia di ciò. Nessun diavoletto stava dirigendo il traffico e non si vedevano armadi con vasi di marmellata.

Ogni tanto, un vertice del dodecaedro sfiorava la parete e frammenti di una materia sconosciuta se ne staccavano. Il dodecaedro sembrava intatto. In breve, si lasciarono dietro una nuvola di minuscole particelle. Ogni volta che il dodecaedro toccava la parete, Ellie sentiva un’ondulazione, come se qualcosa di morbido si fosse fatto indietro per diminuire l’impatto. La debole luce gialla era diffusa, uniforme. Talvolta, il tunnel deviava leggermente e il dodecaedro ne seguiva obbediente la curvatura. Nulla, per quel che riusciva a vedere, si dirigeva verso di loro. A velocità del genere, persino una collisione con un passero avrebbe prodotto un’esplosione devastante. O se si fosse trattato di una caduta senza fine in un pozzo senza fonda? Sentiva una continua ansia fisica alla bocca dello stomaco. Eppure non ebbe ripensamenti.

Buco nero, pensò. Buco nero. Sto cadendo attraverso l’orizzonte degli eventi di un buco nero verso la terribile singolarità. O forse non si tratta di un buco nero e sono diretta verso una singolarità nuda. Ecco come la chiamano i fisici, una singolarità nuda. Vicino a una singolarità, la casualità potrebbe essere violata, gli effetti potrebbero precedere le cause, il tempo potrebbe scorrere a ritroso, difficilmente si potrebbe sopravvivere, tanto meno ricordare l’esperienza. Nel caso di un buco nero rotante, Ellie ricordava che non era solo un punto che si doveva evitare, ma una singolarità anulare o qualcosa di ancor più complesso. I buchi neri erano pericolosi. Le forze gravitazionali erano così forti che, se si fosse tanto distratti da caderci dentro, si finirebbe stirati in un filo lungo e sottile. Si sarebbe anche schiacciati lateralmente. Per fortuna non c’era segno di nulla del genere. Attraverso le grigie superfici trasparenti in cui si erano trasformati ora soffitto e pavimento, Ellie poteva vedere un’intensa attività. La matrice di organosilicato stava afflosciandosi in alcuni punti e tendendosi in altri; le sbarre di erbio che vi erano conficcate stavano girando su se stesse e inclinandosi. All’interno del dodecaedro tutto — compresa lei e i suoi compagni — sembrava a posto. Beh, forse c’era un po’ di eccitazione. Ma non si erano ancora trasformati in fili lunghi e sottili.

Ellie sapeva che erano meditazioni inutili. La fisica dei buchi neri non era il suo campo. Comunque, non riusciva a capire come ciò potesse avere qualcosa a che fare con i buchi neri, che erano primordiali — formatisi durante l’origine dell’universo — o prodotti in epoca posteriore dal collasso di una stella più massiccia del Sole. La gravita allora sarebbe così forte che — a parte gli effetti quantici — persino la luce non potrebbe uscire, anche se rimarrebbe certamente il campo gravitazionale. Ecco perché si chiama buco nero. Ma non avevano collassato una stella e lei non riusciva a vedere in che modo avessero catturato un buco nero primordiale. Comunque, nessuno sapeva dove potesse nascondersi il più vicino buco nero primordiale. Avevano soltanto costruito la Macchina e fatto ruotare i benzel. Lanciò un’occhiata a Eda, che stava calcolando qualcosa su un piccolo computer. Lungo le ossa poteva percepire, oltre che con il senso dell’udito, un rumore sordo ogni volta che il dodecaedro sfregava contro la parete, e alzò la voce per farsi sentire. «Riesci a capire che sta succedendo?»

«Per niente,» le urlò lui di rimando. «Posso quasi dimostrare che ciò non può succedere. Conosci le coordinate di Boyer-Lin-dquist?»

«No, mi dispiace.»

«Ti spiegherò più tardi.»

Fu contenta che lui pensasse che ci sarebbe stato un «più tardi». Ellie si accorse della decelerazione prima di poterne avere le prove visibili, come se si fossero trovati sulla discesa delle montagne russe, fossero giunti a un tratto orizzontale e stessero in quel momento risalendo lentamente. Un attimo prima che cominciasse la fase di decelerazione, il tunnel aveva fatto una complessa sequenza di scarti e zigzag. Non c’era stato un percettibile cambio di colore o di intensità della luce in cui erano immersi. Raccolse la sua macchina, innestò il teleobiettivo e guardò davanti a sé il più lontano possibile. Poteva vedere soltanto fino allo spuntone seguente del tortuoso percorso. Ingrandita, la struttura delle pareti del tunnel appariva complicata, irregolare, e, solo per un momento, debolmente luminosa.

Il dodecaedro ormai procedeva con una relativa lentezza. Non si vedeva ancora la fine della galleria. Ellie si chiese se ce l’avrebbero fatta a uscirne. Forse i progettisti avevano fatto male i loro calcoli. Forse la Macchina era stata costruita imperfettamente, solo un po’ imprecisamente; forse quel che era sembrato a Hokkaido un’imperfezione tecnologica accettabile avrebbe condotto al fallimento la loro missione lì… dove diavolo si trovassero. O, guardando la nuvola di minuscole particelle che li seguiva o talvolta li superava, Ellie pensò che forse avevano urtato contro le pareti una volta di troppo e perduto più velocità del consentito. Lo spazio tra il dodecaedro e le pareti sembrava essersi molto ridotto adesso. Forse si sarebbero trovati incastrati in quella terra impossibile e sarebbero rimasti lì a languire fino all’esaurimento dell’ossigeno. Che i Vegani, dopo essersi dati tutta quella pena, avessero dimenticato che gli uomini devono respirare? Non avevano osservato tutti quei nazisti osannanti?

Vaygay ed Eda erano immersi negli arcani della fisica gravitazionale: twistors, rinormalizzazione di propagatori fantasma, vettori tempo Killing, non invarianza abeliana di gauge, rifocalizza-zione geodesica, undici trattamenti Kaluza-Klein di supergravità, e, naturalmente, la superunificazione, completamente diversa, di Eda. Bastava uno sguardo per capire che non erano vicini a una spiegazione. Ma Ellie immaginò che nel giro di poche ore i due fisici avrebbero compiuto qualche progresso. La superunificazione comprendeva virtualmente tutti i rami e gli aspetti della fisica conosciuta sulla Terra. Era difficile credere che quel… tunnel non fosse una soluzione fino ad allora non raggiunta delle equazioni di Eda.

Vaygay chiese: «Qualcuno ha visto una singolarità nuda?»

«Non so come si presenta,» rispose Devi «Scusami. Probabilmente non sarebbe nuda. Vi siete accorti di qualche inversione di causalità, di qualcosa di strano, di davvero pazzesco, secondo il vostro modo di pensare, di qualcosa come uova strapazzate che si ricompongono in chiare e tuorli…?»

Devi guardò Vaygay stringendo le palpebre.

«Va bene,» interloquì Ellie in fretta. Vaygay è un po’ eccitato, disse tra sé. «Queste sono domande belle e buone sui buchi neri. Solo che sembrano pazzesche.»

«No,» ribattè Devi lentamente, «tranne che per la domanda in se stessa.» Ma poi si animò. «In realtà si è trattato di un viaggio meraviglioso.»

Si trovarono tutti d’accordo. Vaygay era esultante. «Questa è una versione fortissima di censura cosmica,» stava dicendo. «Le singolarità sono invisibili persino all’interno dei buchi neri.»

«Vaygay sta solo scherzando,» aggiunse Eda. «Una volta all’interno dell’orizzonte degli eventi, non c’è modo di sfuggire alla singolarità del buco nero.»

Nonostante l’aria rassicurante di Ellie, Devi lanciò uno sguardo dubbioso a Vaygay e a Eda. I fisici dovevano inventare parole e frasi per concetti lontanissimi dall’esperienza quotidiana. Era loro abitudine evitare i puri neologismi ed evocare invece, anche se debolmente, qualche analogo luogo comune. L’alternativa consisteva nell’usare i nomi degli autori di scoperte ed equazioni. E loro fecero anche questo. Ma se non si fosse saputo che stavano parlando di fisica, ci si sarebbe preoccupati davvero per loro. Ellie si alzò per andare da Devi, ma nello stesso momento Xi attirò la loro attenzione con un grido. Le pareti del tunnel stavano ondeggiando, avvicinandosi al dodecaedro, spingendolo in avanti. Si stava stabilendo un bel ritmo. Ogni volta che il dodecaedro rallentava fino quasi a fermarsi, riceveva un’altra compressione dalle pareti. Ellie avvertì un leggero attacco di nausea. In alcuni tratti l’avanzata era ardua e le pareti dovevano lavorar sodo, contraendosi ed espandendosi in una sorta di movimento peristaltico. Altrove, specialmente nei rettilinei, procedevano facilmente. A una grande distanza, Ellie scorse un debole punto luminoso, che aumentava lentamente di intensità. Una radianza azzurrina cominciò a inondare l’interno del dodecaedro. I cilindri neri di erbio, adesso quasi immobili, brillavano in quella luce. Benché il viaggio sembrasse aver richiesto soltanto dieci o quindici minuti, il contrasto tra la luce tenue, ridotta, che aveva pervaso l’interno durante la maggior parte della corsa e la crescente luminosità davanti a loro era impressionante. Stavano andandole incontro velocemente, percorrendo il tunnel e poi uscendo in quello che sembrava lo spazio comune. Davanti a loro campeggiava un enorme sole azzurrino, vicino in maniera sconcertante. Ellie capì in un attimo che si trattava di Vega.

Esitava a guardarla direttamente attraverso il teleobiettivo; sarebbe stato da temerari anche per il Sole, una stella più fredda e più pallida. Ma Ellie tirò fuori un pezzo di carta bianca, la si-sterno sul piano focale della lente e proiettò una chiara immagine della stella. Poteva vedere due grandi raggruppamenti di macchie solari e una traccia, un’ombra di parte del materiale dell’anello in orbita equatoriale. Posò l’apparecchio, protese la mano con la palma verso l’esterno, a coprire il disco di Vega, e fu ricompensata dalla vista di una corona brillante di vaste dimensioni che circondava l’astro; prima era rimasta invisibile, annullata com’era dalla luce abbagliante di Vega.

Con la palma ancora distesa, Ellie esaminò l’anello di frammenti che girava attorno alla stella. La natura del sistema di Vega era stata dibattuta ovunque fin da quando si era ricevuto il Messaggio con i numeri primi. Agendo in rappresentanza della comunità astronomica del pianeta Terra, Ellie sperava di non commettere nessun serio errore. Videoregistrò a diverse velocità e a varie aperture. Erano sbucati quasi sul piano dell’anello, in uno spazio circumstellare privo di frammenti. L’anello era estremamente sottile a paragone delle sue vaste dimensioni laterali. Ellie era in grado di individuare deboli gradazioni di colore all’interno delle fasce, ma nessuna delle particelle singole dell’anello. Se erano del tutto simili agli anelli di Saturno, un frammento di alcuni metri di diametro sarebbe stato gigantesco. Forse gli anelli vegani erano composti interamente di granelli di polvere, pezzetti di roccia, frammenti di ghiaccio. Si voltò per guardare da dove erano usciti e vide una zona nera, un’oscurità circolare, più nera del velluto, più nera del cielo notturno. Essa eclissava quella porzione sottovento del sistema di anelli di Vega che era altrimenti — dove non veniva oscurato da quella cupa apparizione — chiaramente visibile. Mentre guardava attraverso l’obiettivo più da vicino, credette di vedere deboli ed erranti lampi di luce provenienti proprio dal suo centro. Radiazione Hawking? No, la sua lunghezza d’onda sarebbe stata eccessiva. O luce dal pianeta Terra che viaggiava ancora nella galleria? Dall’altra parte di quella oscurità c’era Hokkaido.

Pianeti. Dov’erano i pianeti? Scrutò il piano degli anelli con il teleobiettivo, alla ricerca di pianeti incastonati in esso, o almeno della dimora degli esseri che avevano trasmesso il Messaggio. In ogni interruzione degli anelli, Ellie cercava un mondo premuroso che con la sua influenza gravitazionale avesse ripulito i sentieri dalla polvere. Ma non riuscì a trovare nulla.

«Non riesci a trovare nessun pianeta?» chiese Xi.

«Nulla. Ci sono alcune grandi comete nelle vicinanze. Posso vederne le code. Ma nulla che assomigli a un pianeta. Ci devono essere migliaia di anelli separati. Per quello che posso dire, sono tutti fatti di frammenti. Il buco nero sembra aver aperto un grande varco negli anelli. E esattamente dove ci troviamo ora, girando lentamente attorno a Vega. Il sistema è molto giovane — solo alcune centinaia di milioni di anni — e alcuni astronomi pensavano che fosse troppo presto perché ci potessero essere dei pianeti. Ma allora, da dove è venuta la trasmissione?»

«Forse quella non è Vega,» propose Vaygay. «Forse il nostro segnale radio proviene da Vega, ma il tunnel immette in un altro sistema stellare.»

«Forse, ma è una strana coincidenza che l’altra tua stella abbia circa la stessa temperatura di colore di Vega — guarda, puoi vedere che è bluastra — e lo stesso tipo di sistema di frammenti. E’ vero, non posso controllarlo in base alle costellazioni a causa della luce che emana. Ma scommetterei uno contro dieci che quella è Vega.»

«Ma allora dove sono?» chiese Devi.

Xi, la cui vista era acuta, stava guardando in su, attraverso la matrice di organosilicato, fuori dai pannelli pentagonali trasparenti, nel cielo molto al di sopra del piano degli anelli. Non disse nulla e Ellie seguì il suo sguardo. C’era qualcosa là, davvero, scintillante nella luce dell’astro e con una forma geometrica percettibile. Guardò nel suo teleobiettivo. Era una sorta di enorme poliedro irregolare, dalle facce coperte di… cerchi? Dischi? Piatti? Paraboloidi? «Ecco, Qiaomu guarda qui dentro. Dicci cosa vedi.»

«Sì, vedo. Le tue controparti… radiotelescopi. A migliaia, che puntano, suppongo, in molte direzioni. Non si tratta di un mondo. E’ solo un congegno.»

Si alternarono al teleobiettivo. Ellie riuscì a dissimulare la sua impazienza di guardare ancora. La natura fondamentale di un radiotelescopio era più o meno caratterizzata dalla fisica delle radio onde, ma lei trovò piuttosto deludente che una civiltà in grado di creare, o anche solo di usare, i buchi neri per una sorta di trasporto iperrelativistico stesse ancora servendosi di telescopi di struttura riconoscibile, anche se giganteschi. Sembrava una cosa antiquata e priva di immaginazione da parte dei Vegani. Lei comprendeva il vantaggio di collocare i telescopi in orbita polare attorno alla stella, al sicuro da collisioni con i frammenti degli anelli tranne che per due volte a ogni rivoluzione. Ma dei radiotelescopi puntati su tutto il cielo — a migliaia — suggerivano un controllo celeste di vasta portata, un Argus vero e proprio. Innumerevoli mondi candidati erano stati tenuti d’occhio per trasmissioni televisive, radar militari, e forse altre varietà di primitive trasmissioni radio sconosciute sulla Terra. Si chiese se avessero trovato spesso segnali del genere o se la Terra costituisse il loro primo successo dopo un milione di anni di osservazioni. Non c’era traccia di un comitato di benvenuto. Una delegazione dalle province era così irrilevante che non ci si scomodava neppure a registrarne l’arrivo?

Quando fu di nuovo il suo turno di usare il teleobiettivo, fece molta attenzione al fuoco, all’apertura e al tempo di esposizione. Voleva una documentazione permanente per far vedere alla Fondazione nazionale scientifica com’era una radioastronomia veramente seria. Si augurava che ci fosse un modo per determinare la grandezza del mondo poliedrico. I telescopi lo ricoprivano come cirripedi su una balena. Un radiotelescopio in condizioni di gravita zero poteva essere essenzialmente di qualsiasi misura. Una volta sviluppate le foto, sarebbe stata in grado di determinare la grandezza angolare (forse alcuni primi di arco), ma sarebbe stato certamente impossibile calcolare le dimensioni lineari, le reali dimensioni a meno che non si conoscesse la distanza della cosa. Comunque, lei aveva l’impressione che fosse immensa.

«Se qui non ci sono mondi,» stava dicendo Xi, «allora non ci sono Vegani. Non ci vive nessuno qui. Vega è soltanto un posto di guardia, dove la pattuglia di frontiera va a riscaldarsi le mani. Quei radiotelescopi» — guardava in su — «sono le torri di vedetta della Grande Muraglia. Se si è limitati dalla velocità della luce, è difficile tenere insieme un impero galattico. Si ordina a una guarnigione di domare una ribellione. Diecimila anni dopo si scopre quello che è successo. Non va bene. Troppo lento. Allora si concede autonomia ai comandanti di guarnigione. Ma così non ci sarebbe più l’impero. Quelle» — e adesso indicava la macchia che copriva il cielo alle loro spalle — «quelle sono le strade imperiali. L’impero persiano le aveva. Roma le aveva. La Cina le aveva. Allora non si è vincolati alla velocità della luce. Con le strade si può tenere insieme un impero.» Ma Eda, profondamente assorto, stava scuotendo il capo. Un problema di fisica gli dava da pensare.

Il buco nero, se di buco nero veramente si trattava, stava adesso orbitando attorno a Vega, in un largo passaggio completamente sgombro da detriti; sia gli anelli interni che quelli esterni si tenevano alla larga. Il suo nero era incredibile. Mentre prendeva brevi panoramiche dell’anello detritico che si stendeva davanti a lei, Ellie si chiese se un giorno esso avrebbe formato il proprio sistema planetario. La collisione, l’adesione e la crescita dei frammenti seguite da un processo di condensazione gravitazionale avrebbero fatto orbitare alla fine attorno alla stella solo alcuni grandi mondi. Era proprio questo il quadro che si erano fatti gli astronomi dell’origine dei pianeti attorno al Sole quattro bilioni e mezzo di anni fa. Ellie riusciva adesso a distinguere delle alterazioni nell’omogeneità degli anelli, dei punti con una visibile protuberanza in cui alcuni frammenti si erano apparentemente aggregati insieme.

Il movimento del buco nero attorno a Vega stava creando un’evidente ondulazione nelle fasce di frammenti immediatamente adiacenti. Il dodecaedro stava producendo senza dubbio una scia più modesta. Ellie si domandava se quelle perturbazioni gravitazionali, quelle estese rarefazioni e condensazioni, avrebbero avuto qualche conseguenza a lungo termine, mutando la struttura della successiva formazione planetaria. Se così fosse stato, allora l’esistenza di qualche pianeta di bilioni di anni a venire sarebbe stata dovuta al buco nero e alla Macchina… e perciò al Messaggio, t perciò al Progetto Argus. Si rendeva conto di personalizzare troppo la cosa; se lei non fosse mai vissuta, qualche altro radioastronomo avrebbe sicuramente ricevuto il Messaggio, prima o poi. La Macchina sarebbe stata attivata in un momento diverso e il dodecaedro sarebbe arrivato lì in un altro tempo. Dunque, qualche futuro pianeta in quel sistema avrebbe potuto esserle debitore della sua esistenza. Ma allora, per simmetria, aveva impedito l’esistenza di qualche altro mondo che era destinato a formarsi se lei non fosse mai vissuta. Era vagamente /gravoso essere responsabili con azioni innocenti dei destini di mondi sconosciuti.

Tentò una ripresa panoramica, cominciando all’interno del dodecaedro e poi fuori sui montanti che tenevano assieme i pannelli pentagonali trasparenti, e avanti a inquadrare lo spazio vuoto negli anelli di frammenti in cui essi stavano orbitando in compagnia del buco nero. Seguì con la camera il varco, fiancheggiato da due anelli bluastri, sempre più lontano. C’era qualcosa di un po’ strano laggiù, una sorta di curva nell’anello interno adiacente. «Qiaomu,» disse, porgendogli il teleobiettivo, «guarda laggiù. Dimmi cosa vedi.»

«Dove?» Ellie indicò di nuovo con il dito. Dopo un istante lui lo aveva trovato. Ellie lo dedusse dalla sua leggera ma inequivocabile inspirazione.

«Un altro buco nero,» disse. «Molto più grande.»

Stavano cadendo di nuovo. Questa volta il tunnel era più ampio e loro stavano andando a una velocità superiore. «Tutto qui?» Gridò Ellie a Devi. «Ci portano fino a Vega per esibire i loro buchi neri. Ci fanno dare un’occhiata ai loro radiotelescopi da un migliaio di chilometri di distanza. Ci passiamo dieci minuti e poi loro ci ficcano in un altro buco nero e ci rimandano sulla Terra. E’ questa la ragione per cui abbiamo speso due trilioni di dollari?»

«Forse siamo fuori strada,» stava dicendo Lunacarskij. «Forse l’unico punto reale era infilarsi nella Terra.»

Ellie immaginò degli scavi notturni sotto le porte di Troia. Eda, con le dita aperte, li stava invitando alla calma. «Aspettiamo a dirlo, questo è un tunnel diverso. Perché si dovrebbe pensare che riporti alla Terra?»

«Ma Vega non doveva essere la nostra meta?» chiese Devi. «Il metodo sperimentale. Vediamo dove usciamo adesso.» In quel tunnel c’erano meno sfregamenti contro le pareti e meno ondulazioni. Eda e Vaygay stavano discutendo un diagramma spazio-tempo che avevano tracciato nelle coordinate Kruskal-Szekeres. Ellie non aveva la benché minima idea di che cosa stessero parlando. La fase di decelerazione, la parte del passaggio che sembrava in salita, era ancora sconcertante.

Questa volta la luce alla fine del tunnel si presentava arancione. Emersero a una considerevole velocità nel sistema di una binaria in contatto, cioè di due soli tangenti. Gli strati esterni di una vecchia stella gigante rossa si stavano riversando sulla fotosfera di una vigorosa nana gialla di mezz’età, somigliante al Sole. La zona di contatto tra le due stelle era brillante. Ellie cercò degli anelli di frammenti, dei pianeti o dei radio osservatori orbitanti, ma non riuscì a trovare nulla. Ma la cosa non significava molto, si disse. Quei sistemi potevano avere un bel numero di pianeti, ma non sarebbe mai riuscita a scorgerli con quel piccolo teleobiettivo. Proiettò il sole doppio sul pezzo di carta e ne fotografò l’immagine usando un obiettivo con focale corta.

Poiché non c’erano anelli, c’era meno luce diffusa in quel sistema che attorno a Vega; con un obiettivo grandangolare fu in grado, dopo qualche ricerca, di riconoscere una costellazione che assomigliava abbastanza al Gran Carro. Ma aveva una certa difficoltà a individuare le altre costellazioni. Poiché le stelle luminose del Gran Carro si trovano ad alcune centinaia di anni luce dalla Terra, Ellie concluse che non erano balzati in avanti più di alcune centinaia di anni luce.

Lo disse a Eda e gli chiese cosa ne pensasse. «Che ne penso? Penso che sia una metropolitana.»

«Una metropolitana?»

Ellie ricordò la sensazione di cadere che aveva provato subito dopo che la Macchina era stata attivata; per un momento le era sembrata una caduta nelle profondità dell’inferno.

«Una metropolitana. Una sotterranea. Queste sono le stazioni. Le fermate. Vega e questo sistema e altri. I passeggeri salgono e scendono alle fermate. Si cambia treno, si prendono le coincidenze.» Indicò la binaria in contatto, e lei notò che la sua mano proiettava due ombre, una antigialla e l’altra antirossa, come — fu l’unica immagine che le venne in mente — in una discoteca. «Ma noi, noi non possiamo uscirne,» proseguì Eda. «Noi ci troviamo in un vagone ferroviario sigillato. Stiamo andando al terminal, al capolinea.»

Drumlin aveva definito tali speculazioni cose da Fantasilan-dia, e questa era — a quanto ne sapeva — la prima volta che Eda aveva ceduto alla tentazione.

Dei Cinque, lei era il solo astronomo d’osservazione, anche se la sua specialità non era nello spettro ottico. Sentì che era sua precisa responsabilità accumulare la maggior quantità di dati possibile, nei tunnel e nel comune spazio-tempo quadridimensionale in cui uscivano periodicamente. Il presunto buco nero da cui sbucavano era sempre in orbita attorno a qualche stella o a un sistema di stelle multiple. I buchi neri erano sempre in coppia, ce n’erano sempre due che dividevano un’orbita simile: uno da cui venivano espulsi e un altro in cui cadevano. Non c’erano due sistemi che si assomigliassero davvero. Nessuno era uguale al sistema solare. Tutto ciò forniva istruttive intuizioni astronomiche. Nessuno di essi mostrava qualcosa di simile a un prodotto di un’intelligenza aliena: un secondo dodecaedro, o qualche progetto di ingegneria di ampia portata capace di smontare un mondo e di ricostituirlo in ciò che Xi aveva definito un congegno.

Questa volta, emersero vicino a una stella che mutava visibilmente la sua brillantezza (Ellie era in grado di dirlo in base alla progressione di aperture d’obiettivo richieste); forse si trattava di una delle stelle variabili del tipo RR Lyrae; alla fermata successiva c’era un sistema quintuplo; quindi una nana marrone dalla debole luminosità. Alcune erano nello spazio aperto, altre avvolte da una nebulosità, circondate da nubi molecolari risplendenti.

Ricordò l’avvertimento «Ciò sarà dedotto dalla vostra quota di Paradiso». Nulla era stato detratto dalla sua. Nonostante uno sforzo consapevole di mantenere una calma professionale, il suo cuore si esaltava a quella profusione di soli. Sperava che ognuno di essi fosse una casa per qualcuno. O che lo sarebbe stato un giorno. Ma dopo il quarto balzo cominciò a preoccuparsi. Soggettivamente e stando al suo orologio da polso, sembrava che fosse trascorsa circa un’ora da quando avevano lasciato Hokkaido. Se avessero impiegato molto più tempo, la mancanza di servizi si sarebbe fatta sentire. Probabilmente c’erano degli aspetti della fisiologia umana che un’avanzatissima civiltà non riusciva a dedurre nemmeno dopo un attento esame di una trasmissione televisiva. E se gli extraterrestri erano così intelligenti, perché li facevano avanzare con tanti piccoli balzi? Benissimo, forse il salto dalla Terra avveniva in modo rudimentale perché soltanto dei primitivi stavano sfruttando un’estremità del tunnel. Ma dopo Vega? Perché non potevano farli giungere direttamente alla meta del dodecaedro? Ogni volta che Ellie usciva sfrecciando da un tunnel, era in grande aspettativa. Quali meraviglie avevano in serbo per lei ancora? Le venne fatto di pensare a un gigantesco parco dei divertimenti, e immaginò Hadden intento a puntare il suo telescopio su Hokkaido nel momento in cui la Macchina era stata attivata. Nonostante lo splendore dei panorami offerti dai creatori del Messaggio, e per quanto Ellie si compiacesse della sua padronanza della materia mentre spiegava agli altri qualche aspetto dell’evoluzione stellare, dopo un po’ finì per sentirsi delusa. Dovette faticare per definire la sensazione che provava. Dunque, gli extraterrestri si stavano vantando. Era una cosa sconveniente. Tradiva una certa mancanza di carattere.

Mentre si tuffavano in un altro tunnel, più largo e più tortuoso degli altri, Lunacarskij chiese a Eda di esprimere il suo parere sul perché le fermate della metropolitana fossero poste in sistemi stellari così poco promettenti. «Perché non attorno a una stella singola, a una stella giovane in buona salute e senza frammenti?»

«Perché,» Eda rispose, «… naturalmente sto solo facendo una supposizione come mi hai chiesto, perché tutti questi sistemi sono abitati…»

«E non vogliono che i turisti spaventino i nativi,» aggiunse Sukhavati.

Eda sorrise. «O viceversa.»

«Ma è quello che intendi dire, non è vero? C’è una sorta di etica di non interferenza con i pianeti primitivi. Loro sanno che di tanto in tanto alcuni dei primitivi possono usare la sotterranea… ««E sono abbastanza sicuri dei primitivi,» Ellie continuò il pensiero, «ma non possono esserne assolutamente sicuri. Dopo tutto, i primitivi sono primitivi. Perciò, lasciamo che si servano soltanto delle metropolitane che vanno in rovina. I costruttori devono essere molto cauti. Ma allora perché ci hanno mandato un treno locale e non un espresso?»

«Probabilmente è troppo complicato costruire un tunnel espresso,» disse Xi, con anni di esperienza di scavi alle spalle. Ellie pensò al tunnel Honshu-Hokkaido, uno dei vanti dell’ingegneria civile terrestre, lungo in tutto cinquantun chilometri. Alcune delle curve adesso erano piuttosto strette. Ellie pensò alla sua Thunderbird e poi sentì avvicinarsi un attacco di nausea. Decise di resistervi il più a lungo possibile. Il dodecaedro non era stato fornito di sacchetti per il mal d’aria.

All’improvviso si trovarono su un rettilineo e poi ci fu il cielo pieno di stelle. Dovunque Ellie guardasse, c’erano stelle, non nel numero irrisorio visibile a occhio nudo sulla Terra, ma in una quantità enorme — molte delle quali sembravano quasi toccarsi — che la circondavano da ogni parte, gialle, blu o rosse, specialmente rosse. Il cielo risplendeva di soli vicini. Potè individuare un’immensa nube spiraliforme di polvere, un disco di materia in via di aggregazione che stava apparentemente finendo in un buco nero di stupefacenti proporzioni, da cui si sprigionavano lampi di radiazione simili a lampi di calore in una notte d’estate. Se quello era il centro della Galassia, come lei sospettava, sarebbe stato immerso in radiazioni di sincrotrone. Sperava che gli extraterrestri si fossero ricordati della debolezza fisica degli uomini.

E nel suo campo visivo, mentre il dodecaedro ruotava, apparve… un prodigio, una meraviglia, un miracolo. Ci erano finiti vicino quasi prima di rendersene conto. Riempiva metà del cielo. Adesso lo stavano sorvolando. Sulla sua superficie c’erano centinaia, forse migliaia, di porte d’ingresso illuminate, ciascuna di forma differente. Molte erano poligonali o circolari o con una sezione trasversale ellittica, alcune avevano appendici sporgenti o una serie di cerchi eccentrici che si sovrapponevano in parte. Ellie si rese conto che si trattava di porti d’attracco, di migliaia di differenti porti d’attracco: alcuni forse delle dimensioni di pochi metri soltanto, altri chiaramente del diametro di chilometri, o addirittura più grandi. Ciascuno di essi, decise Ellie, aveva la sagoma di una macchina interstellare come la loro. Grandi creature in macchine importanti avevano imponenti porti d’entrata. Piccole creature come loro, avevano porti minuscoli. Era un sistema democratico, senza traccia di civiltà particolarmente privilegiate. La diversità di porti suggeriva poche distinzioni sociali tra le svariate civiltà, ma implicava una diversità sorprendente di esseri e culture. Era una sorta di stazione centrale in grande stile, pensò Ellie.

La visione di una Galassia popolata, di un universo traboccante di vita e di intelligenza, la fece quasi piangere di gioia. Si stavano avvicinando a un porto illuminato di giallo che, come Ellie potè vedere, aveva la sagoma esatta del dodecaedro in cui stavano viaggiando. Ellie guardò un porto d’attracco vicino, dove qualcosa della grandezza del dodecaedro e della forma approssimata di una stella marina stava inserendosi lentamente nella sua sagoma. Lanciò occhiate a destra e a sinistra, su e giù, alla quasi impercettibile curvatura di quella grande Stazione situata in quello che secondo lei poteva essere il centro della Via Lattea. Che vanto per il genere umano, che riscatto l’esser stati invitati lì finalmente! C’è speranza per noi, pensò Ellie. C’è speranza! «Beh, non è Bridgeport.»

Disse ciò ad’alta voce, mentre la manovra di attracco si completava in perfetto silenzio.

20 GRAN STAZIONE CENTRALE

«Tutte le cose sono artificiali, poiché la natura è l’arte di Dio.»

THOMAS BROWNE, Dei sogni, «Religio Medici» (1642)

«Gli Angeli hanno bisogno di assumere un corpo, non per loro stessi, ma per noi.»

TOMMASO D’AQUINO, Summa Teologica, I, 52, 2

«Il diavolo ha il potere di assumere un aspetto piacevole.»

WILLIAM SHAKESPEARE, Amieto, II, 2, 628

La camera d’equilibrio era stata progettata per accogliere una persona sola alla volta. Quando si erano presentate questioni di priorità — quale nazione sarebbe stata rappresentata per prima sul pianeta di un’altra stella — i Cinque si erano ribellati e avevano detto ai direttori del progetto che la loro missione non era di quel tipo. Avevano di proposito evitato di discuterne fra loro. Sia la porta interna che quella esterna della camera di equilibrio si aprirono simultaneamente. Non avevano dato nessun ordine. Apparentemente, quel settore della Stazione era adeguatamente pressurizzato e ossigenato. «Beh, chi vuole andare per primo?» chiese Devi. Con la videocamera in mano, Ellie aspettava in fila di uscire, ma poi decise che la fronda di palma avrebbe dovuto essere con lei quando avesse messo piede su quel nuovo mondo. Mentre andava a ricuperarla, udì un grido di gioia giungere dall’esterno, probabilmente di Vaygay. Ellie si precipitò fuori nell’intensa luce solare. La soglia della porta esterna della camera d’equilibrio era a livello della sabbia. Devi aveva i piedi in acqua e stava divertendosi a spruzzare Xi. Eda stava sorridendo apertamente. Si trattava di una spiaggia. Le onde stavano sciabordando sulla sabbia. Il cielo azzurro mostrava alcuni pigri cumuli. C’erano delle palme a breve distanza dal bagnasciuga. In cielo c’era un sole. Uno solo e giallo. Proprio come il nostro, pensò Ellie. Nell’aria vagava un sottile profumo: chiodi di garofano, forse, e cannella. Avrebbe potuto essere una spiaggia di Zanzibar.

Così avevano viaggiato per trentamila anni luce per passeggiare su una spiaggia. Avrebbe potuto anche andar peggio, pensò Ellie. Soffiava la brezza e si creò un piccolo turbine di sabbia davanti a lei. Era soltanto un’elaborata simulazione della Terra, forse ricostruita in base ai dati raccolti da una normale spedizione esplorativa milioni di anni prima? O i Cinque avevano intrapreso quell’epico viaggio solo per migliorare la loro conoscenza di astronomia descrittiva, e poi erano stati scaricati senza troppe cerimonie in qualche piacevole angolo della Terra?

Quando si voltò, Ellie scoprì che il dodecaedro era scomparso. Avevano lasciato a bordo il supercomputer superconduttore e la sua biblioteca di consultazione, oltre ad alcuni degli strumenti. La cosa li preoccupò per non più di un minuto. In fondo stavano bene ed erano sopravvissuti a un viaggio che valeva la pena di essere raccontato. Vaygay spostò lo sguardo dalla fronda che El-lie aveva voluto a tutti i costi portare con sé al gruppo di palme lungo la spiaggia e rise. «Come portar carbone a Newcastle,» commentò Devi. Ma la sua fronda era diversa. Forse ne avevano di tipi diversi lì. O forse la varietà locale era stata prodotta da un fabbricante disattento. Ellie guardò il mare. Le venne in mente con forza l’immagine della prima colonizzazione del suolo terrestre, circa quattrocento milioni di anni prima. Dovunque si trovassero — nell’Oceano Indiano o al centro della Galassia — loro cinque avevano compiuto qualcosa di incomparabile. L’itinerario e le destinazioni erano stati completamente fuori della loro portata, era vero. Ma avevano attraversato l’oceano di spazio interstellare e dato inizio a quella che doveva essere sicuramente una nuova epoca nella storia dell’uomo. Ellie ne era molto orgogliosa. Xi si tolse gli stivali e arrotolò fino al ginocchio i pantaloni della tuta, carica di sgargianti etichette, che per ordine dei governi dovevano tutti indossare. Cominciò ad avanzare lentamente tra le onde che s’infrangevano dolcemente. Devi si appartò dietro una palma e ne uscì in sari, con la tuta da viaggio ripiegata sotto il braccio. Fece venire in mente ad Ellie un film di Dorothy Lamour. Eda tirò fuori quella specie di berretto di lino che rappresentava il suo segno distintivo sulla Terra. Ellie li riprese con il suo apparecchio in brevi sequenze. Una volta ritornati a casa, sarebbe sembrato esattamente come un filmetto delle vacanze. Si unì a Xi ed a Vaygay fra i flutti. L’acqua dava l’impressione di essere quasi calda. Era un piacevole pomeriggio e, tutto considerato, un cambiamento gradito rispetto all’inverno di Hokkaido che avevano lasciato poco più di un’ora prima.

«Tutti hanno portato qualcosa di simbolico,» disse Vaygay, «eccetto me.»

«Che vuoi dire?»

«Sukhavati ed Eda si sono portati i costumi nazionali. Xi ha portato un grano di riso.» Infatti, Xi stava tenendo il grano in un sacchettino di plastica tra il pollice e l’indice. «Tu hai la tua fronda di palma,» proseguì Vaygay. «Ma io, io non ho portato nessun simbolo, nessun ricordo dalla Terra. Io sono l’unico vero materialista del gruppo, e tutto ciò che ho portato si trova nella mia testa.» Ellie portava appeso al collo il suo medaglione, sotto la tuta da viaggio. In quel momento se lo tirò fuori, dopo essersi aperta il colletto. Vaygay se ne accorse e lei glielo diede da leggere. «Penso si tratti di Plutarco,» disse dopo un attimo. «Erano parole coraggiose quelle pronunciate dagli Spartani. Ma ricordati che sono stati i Romani a vincere la battaglia.»

Dal tono di questo ammonimento, Vaygay doveva aver ritenuto il medaglione un regalo di der Heer. Ellie si sentì riscaldare dalla disapprovazione che il russo mostrava per Ken — sicuramente giustificata da fatti — e dalla sua costante sollecitudine. Lo prese sottobraccio.

«Ammazzerei qualcuno per una sigaretta,» disse amabilmente, usando il braccio per stringere la mano di lei contro il suo fianco. I Cinque si sedettero insieme accanto a una piccola pozza creata dalla marea. Il frangersi dei flutti produceva un sommesso rumore bianco che le ricordava l’Argus e i suoi anni di ascolto del rumore cosmico. Il Sole che aveva superato lo zenith, si trovava sull’oceano. Un granchio passò velocemente con la sua andatura sghemba, con gli occhietti rotanti sulle antenne. Con granchi, noci di cocco, e le limitate provviste che avevano in tasca, avrebbero potuto sopravvivere abbastanza bene per un certo periodo. Non c’erano orme sulla spiaggia, a parte le loro.

«Noi pensiamo che abbiano fatto loro quasi tutto il lavoro.» Vaygay stava spiegando il pensiero suo e di Eda a proposito di quello che loro cinque avevano sperimentato. «Tutto ciò che il progetto ha fatto è stato di creare una modesta increspatura nello spazio-tempo affinchè avessero qualcosa su cui agganciare il loro tunnel. In tutta questa geometria multidimensionale, deve essere molto difficile scoprire una minuscola grinza nello spazio-tempo. Ancor più arduo adattarvi un ugello.»

«Che cosa stai dicendo? Hanno cambiato la geometria dello spazio?»

«Sì. Stiamo dicendo che lo spazio è topologicamente connesso in maniera non semplice. E’ come — so che ad Abonneda non piace questa analogia — è come una superficie piatta bidimensio-nale, la superficie intelligente, collegata grazie a un dedalo di gallerie con un’altra superficie piatta bidimensionale, la superficie stupida. L’unico modo in cui si può passare dalla superficie intelligente alla superficie stupida in un tempo ragionevole è attraverso le gallerie. Adesso immaginate che la gente che si trova sulla superficie intelligente scavi una galleria provvista di ugello. Creeranno un tunnel tra le due superfici, purché gli stupidi cooperino facendo una piccola piega sulla loro superficie in modo che vi si possa attaccare l’ugello.»

«Così i tipi intelligenti inviano un messaggio radio e dicono agli stupidi come fare una piega. Ma se sono veramente esseri bidimensionali, come possono fare una piega sulla loro superficie?»

«Accumulando una grande massa in un punto.» Vaygay lo disse a titolo di prova.

«Ma non è quello che abbiamo fatto.»

«Lo so, lo so. In qualche modo l’hanno fatto i benzel.»

«Vedete,» spiegò Eda con calma, «se i tunnel sono buchi neri, ci sono implicitamente delle vere contraddizioni. C’è un tunnel interno nell’esatta soluzione Kerr delle equazioni del campo di Einstein, ma è instabile. La più leggera perturbazione lo isolerebbe e convertirebbe il tunnel in una singolarità fisica attraverso cui non può passare nulla. Ho tentato di immaginare una civiltà superiore che fosse in grado di controllare la struttura interna di una stella in fase di collasso per mantenere stabile il tunnel interno. E’ molto difficile. La civiltà dovrebbe controllare e stabilizzare il tunnel per sempre. Sarebbe in special modo difficile se vi passasse qualcosa della grandezza del dodecaedro.»

«Anche se Abonneda riesce a scoprire come mantenere il tunnel aperto, ci sono molti altri problemi,» disse Vaygay. «Troppi. I buchi neri ammassano problemi più in fretta di quanto non ammassino materia. Ci sono le forze di attrazione. Avremmo dovuto essere fatti a pezzi nel campo gravitazionale del buco nero. Avremmo dovuto essere allungati come personaggi di quadri di El Greco o come le sculture di quell’italiano…?» Si rivolse ad Ellie per colmare la lacuna. «Giacometti,» suggerì lei. «Era svizzero.»

«Sì, come Giacometti. Quindi altri problemi: secondo le misurazioni terrestri richiede un’infinita quantità di tempo per noi il passaggio attraverso un buco nero e potremmo non ritornare mai più, mai più sulla Terra. Forse è quello che è successo. Forse non ritorneremo a casa mai più. Inoltre, ci potrebbe essere un inferno di radiazioni vicino alla singolarità. E’ un’instabilità quanto-meccanica… ««E infine,» proseguì Eda, «un tunnel del tipo Kerr può condurre a grottesche violazioni della causalità. Con un modesto cambio di traiettoria all’interno del tunnel, si potrebbe emergere all’estremità opposta, all’inizio della storia dell’universo, un pico-secondo dopo il Big Bang, per esempio. Questo sarebbe un universo molto disordinato.»

«Ehi, ragazzi,» disse Ellie, «non sono esperta di relatività generale. Ma non li abbiamo visti i buchi neri? Non ci siamo caduti dentro? Non ne siamo usciti? Un grammo di osservazione non vale una tonnellata di teoria?»

«Lo so, lo so», disse Vaygay dispiaciuto. «Deve essere qualcos’altro. La nostra comprensione della fisica non si spinge così lontano, non è vero?»

Egli rivolse quest’ultima domanda, in tono leggermente lamentoso, a Eda che rispose soltanto: «Un buco nero del tipo consueto non può essere un tunnel; hanno delle singolarità invalicabili al loro centro.» Con un sestante di fortuna e i loro orologi da polso, calcolarono il moto angolare del Sole che tramontava. Era di 360 gradi in ventiquattro ore, come sulla Terra. Prima che il Sole scendesse troppo sull’orizzonte, smontarono l’apparecchio di Ellie e usarono le lenti per accendere un fuoco. Lei tenne la fronda accanto a sé nel timore che qualcuno inavvertitamente la gettasse nelle fiamme dopo il calare delle tenebre. Xi si dimostrò un provetto fuochista. Li fece disporre attorno al fuoco in modo che lo proteggessero dal vento e lo mantenne basso.

A poco a poco uscirono le stelle. C’erano tutte le costellazioni familiari della Terra. Ellie si offrì di restare sveglia per badare al fuoco mentre gli altri dormivano. Voleva veder sorgere Lyra. Dopo alcune ore, l’evento si compì. La notte era eccezionalmente chiara e Vega risplendeva nitida e brillante. Dal moto apparente delle costellazioni in cielo, dalle costellazioni dell’emisfero meridionale che riuscì a individuare, e dal Gran Carro che si trovava vicino all’orizzonte settentrionale, Ellie dedusse che si trovavano a latitudini tropicali. Se tutto era una simulazione, pensò prima di addormentarsi, si dovevano esser dati un gran bel da fare.

Ellie fece uno strano sogno. Lei e gli altri stavano nuotando — nudi, disinvolti — sottacqua, ora volteggiando pigramente vicino a una madrepora, ora scivolando entro caverne che subito venivano oscurate da alghe ondeggianti. Una volta, lei tornò alla superficie. Una nave a forma di dodecaedro passò volando a bassissima quota. Le pareti erano trasparenti e all’interno potè vedere persone in perizoma e sarong intente a leggere giornali e a conversare tranquillamente. Ritornò sott’acqua, all’elemento cui apparteneva. Benché il sogno sembrasse proseguire per molto tempo, nessuno di loro aveva qualche difficoltà a respirare. Stavano inspirando ed espirando acqua. Non si preoccupavano affatto e stavano nuotando con la stessa naturalezza dei pesci. Vaygay assomigliava addirittura un po’ a un pesce, a un epinefelo, forse. L’acqua doveva essere estremamente ossigenata. Nel mezzo del sogno, Ellie ricordò un topo che aveva visto una volta in un laboratorio di fisiologia, perfettamente a suo agio in una boccia piena d’acqua arricchita d’ossigeno. Cercò di ricordare quanto ossigeno ci voleva, ma era troppo complicato stabilirne la quantità. Stava pensando sempre meno, si disse. Benissimo. Davvero.

Gli altri erano adesso distintamente uguali a pesci. Le pinne di Devi erano traslucide. Il sogno era oscuramente interessante, vagamente sensuale. Ellie sperò che continuasse per poter scoprire qualcosa. Ma persino la domanda cui voleva trovare una risposta le sfuggiva. Oh, respirare acqua calda, pensò. Che cosa avrebbero ancora inventato?

Ellie si svegliò con un senso di disorientamento così profondo che sconfinava nella vertigine. Dove si trovava? Nel Wisconsin, a Puerto Rico, nel New Mexico, nel Wyoming, a Hokkaido? O nello stretto di Malacca? Allora ricordò. A trentamila anni luce dalla Terra, in un punto imprecisato della Via Lattea, battendo tutti i record di disorientamento. Nonostante il mal di testa, Ellie scoppiò a ridere e Devi, che dormiva accanto a lei, si agitò. A causa della pendenza della spiaggia — ne avevano perlustrato un chilometro o poco più il pomeriggio precedente e non avevano trovato traccia di abitazione — la luce diretta del Sole non l’aveva ancora raggiunta. Ellie era sdraiata su un rialzo di sabbia. Devi, che si stava svegliando, aveva dormito con il capo sull’abito da viaggio ripiegato. «Non credi che ci sia qualcosa di sibaritico in una cultura che ha bisogno di guanciali soffici?» Ellie chiese. «Quelli che poggiano le loro teste di notte su forcelle di legno, non li troveresti più affidabili?»

Devi rise e le diede il buon giorno.

Sentirono gridare alle loro spalle. I tre uomini stavano facendo dei cenni e dei richiami. Ellie e Devi si alzarono in fretta e li raggiunsero.

Ritta sulla sabbia c’era una porta. Una porta di legno, a pannelli e con un pomello di bronzo o che sembrava di bronzo. La porta aveva cardini di metallo verniciato di nero ed era posta tra due stipiti, un architrave e una soglia. Nessuna targhetta. Non aveva nulla di straordinario. Per la Terra. «Adesso passateci dietro,» le invitò Xi. Dal didietro la porta non c’era affatto. Ellie poteva vedere Eda, Vaygay e Xi, Devi leggermente in disparte, e la sabbia ininterrotta tra loro quattro e lei. Si spostò di lato e vide una linea verticale sottile come la lama di un rasoio e scura. Era riluttante a toccarla. Ritornando di nuovo dietro la porta, si accertò che non ci fossero ombre o riflessi nell’aria davanti a lei, e quindi l’attraversò. «Brava.» Le gridò Eda ridendo. Ellie si voltò e trovò la porta chiusa davanti a lei.

«Che cosa avete visto?» chiese.

«Una bella donna che passava attraverso una porta chiusa di due centimetri di spessore.»

Vaygay sembrava stesse bene nonostante la mancanza di sigarette. «Avete tentato di aprire la porta?» chiese Ellie. «Non ancora,» rispose Xi.

Ellie indietreggiò di nuovo per ammirare l’apparizione. «Assomiglia a qualcosa di… come si chiama quel surrealista francese?» chiese Vaygay. «Rene Magritte,» lei rispose. «Era belga.»

«Siamo d’accordo, presumo, che non si tratta veramente della Terra,» propose Devi abbracciando in un gesto l’oceano, la spiaggia e il cielo.

«A meno che non ci troviamo nel Golfo Persico di tremila anni fa, e che ci siano dei geni in giro,» disse Ellie ridendo.

«Non sei impressionata dalla cura della costruzione?»

«Benissimo,» rispose Ellie. «Sono bravissimi, lo riconosco. Ma a che scopo? Perché affannarsi tanto con tutti questi particolari?»

«Forse hanno solo una passione per le cose precise.»

«O forse stanno soltanto mettendosi in mostra.»

«Non vedo,» proseguì Devi, «come possano conoscere così bene le nostre porte. Pensate a quante differenti maniere ci sono di fare una porta. Come possono saperlo?»

«Potrebbe essere la televisione,» rispose Ellie. «Vega ha ricevuto segnali televisivi dalla Terra fino a — vediamo — fino alla programmazione del 1974. Chiaramente, possono mandare i clip interessanti qui tramite una consegna speciale in un attimo. Probabilmente ci sono state molte porte alla televisione tra il 1936 e il 1974. Okay,» continuò lei, come se non fosse stato un cambio d’argomento, «che accadrebbe se aprissimo la porta e ci entrassimo?»

«Se siamo qui per essere sottoposti a un test,» disse Xi, «dall’altra parte di quella porta si trova probabilmente il test, forse uno per ciascuno di noi.»

Lui era pronto. Avrebbe voluto esserlo anche lei. Le ombre delle palme più vicine stavano ora allungandosi sulla spiaggia. Senza dire una parola, si guardarono l’un l’altro. I quattro sembravano impazienti di spalancare la porta e di oltrepassarne la soglia. Solo Ellie provava una certa… riluttanza. Chiese a Eda se gli sarebbe piaciuto andare per primo. Potremmo fare anche noi del nostro meglio, pensò Ellie.

Eda si tolse il berretto, fece un leggero inchino pieno di grazia, si voltò e si avvicinò alla porta. Ellie gli corse accanto e lo baciò su entrambe le guance. Anche gli altri lo abbracciarono. Si voltò di nuovo, aprì la porta, entrò, e si dissolse nell’aria, a iniziare dal piede che aveva varcato la soglia. Con la porta aperta era sembrato che ci fosse soltanto la continuazione della spiaggia e delle onde dietro di lui. La porta si chiuse. Ellie ne fece il giro di corsa, ma non c’era traccia di Eda.

Poi fu la volta di Xi. Ellie pensò con angoscia a come si erano sempre mostrati docili, accettando subito ogni invito anonimo che fosse stato loro rivolto. Avrebbe potuto far parte del Messaggio o l’informazione avrebbe potuto essere comunicata una volta attivata la Macchina. Avrebbero potuto dirci che stavamo per attraccare a una simulazione di spiaggia terrestre. Avrebbero potuto dirci che c’era una porta che ci aspettava. Era vero che, per quanto istruiti fossero, gli extraterrestri potevano conoscere l’inglese imperfettamente, con la televisione come loro unico professore. La loro conoscenza del russo, del mandarino, del tamil e dell’hausa sarebbe stata ancor più primitiva. Ma avevano inventato il linguaggio introdotto nel sillabario del Messaggio. Perché non usarlo? Per conservare l’elemento sorpresa?

Vaygay vide che Ellie fissava la porta chiusa e le chiese se voleva essere la prossima a entrare.

«Grazie, Vaygay. Sto riflettendo. So che è una cosa un po’ insensata. Ma mi è appena venuta in mente: perché dobbiamo saltare attraverso ogni cerchio che ci presentano? E se non facessimo quello che ci chiedono?»

«Ellie, sei così americana! Per me è come a casa mia. Sono abituato a fare ciò che le autorità suggeriscono: specialmente quando non ho scelta.» Sorrise e girò elegantemente sui tacchi. «Non lasciarti infinocchiare dal Granduca,» gli gridò dietro. Alto nel cielo, un gabbiano emise un grido rauco. Vaygay aveva lasciato la porta aperta. C’era ancora soltanto spiaggia al di là. «Stai bene?» le chiese Devi.

«Mi sento bene. Davvero. Voglio solo un momento per me stessa. Verrò tra un attimo.»

«Seriamente, te lo sto chiedendo come medico. Ti senti proprio bene?»

«Mi sono svegliata con un gran mal di testa e credo di aver fatto qualche sogno straordinario. Non mi sono lavata i denti e non ho bevuto il mio caffè. E mi manca anche il giornale del itti mattino. A parte tutto ciò, sto davvero bene.»

«Bene, sembra tutto a posto. Anch’io ho un po’ di mal di testa. Abbi cura di te stessa Ellie. Ricorda ogni cosa, così sarai in grado di raccontarmi tutto… la prossima volta che c’incontreremo.»

«Lo farò,» promise Ellie.

Si baciarono e si augurarono ogni bene. Devi valicò la soglia e svanì. La porta si richiuse alle sue spalle. In seguito Ellie credette di aver sentito nell’aria un odore di curry.

Si lavò i denti con l’acqua salata. Una vena di pignoleria era sempre stata parte del suo carattere. Fece colazione con latte di cocco. Con attenzione ripulì dalla sabbia le superfici esterne della sua microcamera e il suo piccolo arsenale di videocassette su cui aveva registrato le meraviglie del viaggio. Lavò la fronda di palma nei flutti, come aveva fatto il giorno in cui l’aveva trovata a Cocca Beach prima della sua partenza per «Matusalemme». La mattinata era già calda e decise di fare una nuotata. Ripiegati con cura i suoi abiti sulla fronda di palma, avanzò arditamente tra le onde. Era improbabile che gli extraterrestri si eccitassero alla vista di una donna nuda, anche se discretamente conservata. Ellie cercò di immaginare un microbiologo sconvolto dalla passione dopo aver osservato un paramecio colto «in flagrante delicto» di mitosi. Languidamente, galleggiava sul dorso, ondulando su e giù, in armonia con l’arrivo delle successive creste delle onde. Cercò di immaginare migliaia di panorami sinottici, di mondi simulati, ciascuno una copia meticolosa della parte più bella del pianeta originario di qualcuno, ciascuno con cielo e tempo, oceano, geologia, e vita indigena indistinguibile dagli originali. Sembrava una stravaganza, benché suggerisse anche che c’era qualcosa di soddisfacente in vista. Indipendentemente dalle risorse, non si costruiva un paesaggio in quella scala per cinque campioni provenienti da un mondo votato alla distruzione. D’altro canto… L’idea degli extraterrestri collezionisti di animali era diventata una specie di luogo comune. E se quella Stazione piuttosto grande con la sua profusione di porti d’attracco e di ambienti fosse stata davvero uno zoo? «Ammirate gli animali esotici nei loro habitat naturali,» le sembrava di sentir gridare da un imbonitore con la testa da lumaca. I turisti sarebbero venuti da tutta la Galassia, specialmente durante le vacanze scolastiche. E poi, quando c’era un test, i padroni della Stazione allontanavano temporaneamente le creature e i turisti, cancellavano le orme dalla spiaggia e concedevano ai primitivi appena arrivati una mezza giornata di riposo e di ricreazione prima che cominciasse la dura prova.

O forse era così che rifornivano gli zoo. Ellie pensò agli animali rinchiusi negli zoo terrestri che si diceva avessero grosse difficoltà a riprodursi in cattività. Facendo delle capriole nell’acqua, si tuffò sotto la superficie in un momento di imbarazzo. A bracciate vigorose si diresse verso la spiaggia, e per la seconda volta in ventiquattr’ore rimpianse di non aver avuto un bambino. Non c’era nessuno in giro e non una vela all’orizzonte. Alcuni gabbiani stavano camminando sulla spiaggia, apparentemente alla ricerca di granchi. Le sarebbe piaciuto aver portato con sé del pane per sfamarli. Una volta asciutta, si rivestì ed esaminò di nuovo la porta che era lì semplicemente in attesa. Provò una invincibile riluttanza a entrare. Più di riluttanza. Forse terrore. Indietreggiò, sempre tenendola d’occhio. Sotto una palma, con le ginocchia tirate sotto il mento, Ellie guardava la lunga distesa di sabbia bianca.

Dopo un po’ si alzò e si stirò. Reggendo la fronda e la microcamera con una mano, si avvicinò alla porta e girò il pomo. La porta si aprì leggermente. Attraverso la fessura poteva scorgere i cavalloni al largo. Diede un’altra spinta alla porta e quella si spalancò senza un cigolio. La spiaggia, tranquilla e indifferente, le stava di fronte. Scosse il capo e ritornò all’albero, riassumendo il suo atteggiamento pensoso.

Si interrogava sulla sorte degli altri. Si trovavano adesso in qualche remoto settore riservato ai test, alle prese con questionari complessi? O si trattava di un esame orale? E chi erano gli esaminatori? Sentì di nuovo crescere il disagio in sé. Un altro essere intelligente — evolutosi indipendentemente su qualche lontano mondo in condizioni fisiche ultraterrene e con una sequenza completamente diversa di mutazioni genetiche casuali — un essere siffatto non sarebbe stato simile a nessuna delle creature che lei conosceva. O che aveva immaginato. Se quella era una stazione-test, allora c’erano dei padroni della stazione che sarebbero stati sicuramente, terribilmente non umani. Era sempre stata turbata profondamente dagli insetti, dai serpenti, dalle talpe con il naso a stella. Provava un brivido di ripugnanza di fronte a esseri umani che presentassero anche solo una piccola malformazione. Zoppi, bambini con la sindrome di Down, persino l’apparenza del parkinsonismo suscitavano in lei, nonostante la sua chiara determinazione intellettuale, una sensazione di disgusto, un desiderio di fuggire. In genere, era stata in grado di controllare la sua paura, anche se si chiedeva se non avesse mai ferito qualcuno a causa della sua fobia. Non si trattava di qualcosa cui pensasse molto; si accorgeva del proprio imbarazzo e passava a un altro tema. Ma adesso si preoccupava di essere incapace persino di affrontare — ancor meno di sconfiggere per il genere umano — un essere extraterrestre. Non avevano provveduto a proteggere i Cinque da questo rischio. Non si era compiuto nessuno sforzo per determinare se avessero paura dei topi o dei nani o dei Marziani. Le commissioni esaminatrici semplicemente non ci avevano pensato. Si chiese perché non lo avessero fatto; adesso sembrava una cosa abbastanza ovvia.

Era stato un errore mandare lei. Forse, una volta di fronte a qualche creatura galattica anguicrinita, avrebbe disonorato la propria reputazione: o peggio ancora, si sarebbe fatta giudicare inclassificabile in qualsiasi test avesse dovuto affrontare, facendo sorgere seri dubbi negli alieni a proposito del punteggio assegnato al genere umano. Ellie guardò con apprensione e desiderio l’enigmatica porta la cui estremità inferiore si trovava ormai immersa nell’acqua. La marea stava salendo.

C’era una figura sulla spiaggia ad alcune centinaia di metri di distanza. In un primo momento pensò si trattasse di Vaygay, che era forse uscito in fretta dalla stanza degli esami e veniva a portarle buone notizie. Ma chiunque fosse, non indossava la tuta del Progetto Macchina. Inoltre, sembrava qualcuno di più giovane, di più forte. Fece per afferrare il teleobiettivo e per qualche ragione esitò. Si rimise in piedi, proteggendosi gli occhi dal Sole. Solo per un momento, le era sembrato… Era chiaramente impossibile. Non avrebbero potuto approfittarsi in maniera così vergognosa di lei. Ma non potè trattenersi. Gli stava correndo incontro sulla sabbia compatta del bagnasciuga, con i capelli al vento. Egli appariva come nella fotografia più recente che Ellie aveva visto, energico, felice. Aveva la barba di un giorno. Gli si gettò tra le braccia singhiozzando.

«Ciao, tesorino,» disse, accarezzando con la destra la nuca di Ellie. Era proprio la sua voce. La riconobbe all’istante. Ed il suo odore, la sua andatura, la sua risata. Il modo in cui la sua barba le irritava la guancia. Una combinazione perfetta per infrangere la padronanza che aveva di sé. Ebbe l’impressione di una pesante pietra tombale che veniva rimossa mentre i primi raggi di luce penetravano in un vecchio sepolcro quasi dimenticato.

Deglutì e cercò di riprendere il controllo di sé, ma ondate d’angoscia apparentemente inesauribili scaturirono dall’intimo del suo essere e si mise a singhiozzare di nuovo. Lui le stava accanto pazientemente, rassicurandola con lo stesso sguardo che le aveva rivolto dalla base delle scale durante la sua prima discesa di piccina dai passi incerti. Aveva desiderato rivederlo più di ogni altra cosa, ma aveva soffocato il suo sentimento impossibile. Piangeva per tutti gli anni che li avevano tenuti lontani.

Da ragazzina e da giovane donna sognava che era venuto a dirle che la sua morte era stata un errore. Era davvero bello. La sollevava tra le sue braccia. Ma scontava quelle brevi tregue con risvegli strazianti in un mondo in cui egli era assente già da molto. Eppure, lei aveva amato quei sogni e pagato il loro prezzo esorbitante quando la mattina seguente era obbligata a riscoprirne la perdita e a provare di nuovo un dolore cocente. Quei momenti illusori erano tutto quello che le era rimasto di lui.

E adesso era lì: non un sogno o un fantasma, ma in carne e ossa. O quasi. L’aveva chiamata dalle stelle, e lei era venuta. Lo strinse con tutta la sua forza. Sapeva che era un trucco, una ricostruzione, una simulazione, ma era perfetto. Per un momento lo tenne per le spalle a distanza. Era veramente perfetto. Era come se suo padre, morto molti anni prima e salito in Cielo, fosse riuscito per quella via poco ortodossa a ricongiungersi a lei. Singhiozzò e l’abbracciò ancora una volta.

Ci volle un altro minuto per riuscire a calmarsi. Se si fosse trattato di Ken, per esempio, avrebbe potuto almeno baloccarsi con l’idea che un altro dodecaedro — forse una Macchina russa riparata — avesse compiuto un viaggio dalla Terra al centro della Galassia. Ma non si poteva considerare una tale possibilità neppure per un attimo. I suoi resti stavano decomponendosi in un cimitero accanto a un lago. Si asciugò gli occhi, ridendo e piangendo nello stesso tempo. «Allora, a che devo questa apparizione, alla robotica o all’ipnosi?»

«Sono un prodotto o un sogno? Lo puoi chiedere per qualunque cosa.»

«Anche oggi, non passa settimana che io non pensi che darei qualsiasi cosa solo per trascorrere ancora alcuni minuti con mio padre.»

«Beh, eccomi qui,» disse lui allegramente con le mani alzate, facendo un mezzo giro per assicurarla che c’era anche la sua schiena. Ma era così giovane, certamente più giovane di lei. Era morto a soli trentasei anni.

Forse quello era il loro modo di placare i suoi timori. Se era così, erano molto… premurosi. Lo accompagnò indietro verso i suoi pochi averi, con un braccio attorno alla vita. Certo lui sembrava abbastanza reale. Se c’erano ingranaggi e circuiti integrati sotto la sua pelle, erano ben nascosti.

«Allora, come stiamo andando?» chiese Ellie. La domanda era ambigua. «Voglio dire…»

«Lo so. Ci sono voluti molti anni dalla ricezione del Messaggio al vostro arrivo qui.»

«Classificate secondo velocità o precisione?»

«Né l’una né l’altra.»

«Intendi dire che non abbiamo ancora completato il test?» Non rispose.

«Bene, spiegamelo.» Lo disse con una certa pena. «Alcuni di noi hanno speso degli anni per decifrare il Messaggio e costruire la Macchina. Non mi dirai di che si tratta?»

«Sei diventata una vera attaccabrighe,» disse lui, come se fosse davvero suo padre, e come se stesse confrontando i suoi ultimi ricordi di lei con la sua presente personalità ancora incompleta. Le scompigliò con affetto i capelli. Ellie rammentò quel gesto che apparteneva alla sua infanzia. Ma come potevano, a trentamila anni luce dalla Terra, conoscere i gesti di affetto di suo padre in un Wisconsin lontano nel tempo e nello spazio? All’improvviso lo scoprì.

«Sogni,» disse. «La notte scorsa, quando stavamo tutti sognando, siete penetrati nelle nostre teste, vero? Avete assorbito tutte le nostre conoscenze.»

«Abbiamo solo fatto delle copie. Credo che tutto quello che c’era nei vostri cervelli sia ancora lì. Dacci un’occhiata. Dimmi se manca qualcosa,» egli sogghignò e proseguì.

«C’erano tante cose che i vostri programmi televisivi non ci avevano detto. Oh, potevamo capire il vostro livello tecnologico abbastanza bene, e assai di più su di voi. Ma ci sono ben altre cose relative alla vostra specie, cose che non potevamo apprendere indirettamente. Ammetto che la possiate considerare una violazione della privacy…»

«Stai scherzando.»

«… ma abbiamo così poco tempo.»

«Intendi dire che il test è finito? Abbiamo risposto a tutte le vostre domande mentre eravamo addormentati la notte scorsa? E allora?

L’abbiamo superato sì o no?»

«Non è così,» disse lui. «Non si tratta della sesta.»

Ellie frequentava la sesta l’anno in cui lui era morto.

«Non pensare a noi come a una sorta di sceriffi interstellari che abbattono civiltà fuorilegge. Consideraci piuttosto come l’Ufficio del Censimento galattico. Noi raccogliamo informazioni. So che pensate che nessuno abbia qualcosa da imparare da voi perché siete così arretrati tecnologicamente. Ma ci sono altri meriti in una civiltà.»

«Quali meriti?»

«Oh, la musica. La bontà. (Mi piace questa parola). I sogni. Gli uomini sono dei bravi sognatori, anche se non lo si potrebbe mai dedurre dalla vostra televisione. Ci sono culture in tutta la Galassia che commerciano in sogni.»

«Operate uno scambio culturale interstellare? E’ tutto qui? Non-vi importa se qualche civiltà rapace e assetata di sangue sviluppa il volo spaziale interstellare?»

«Ti ho detto che ammiriamo la bontà.»

«Se i Nazisti si fossero impadroniti del mondo, del nostro mondo, e quindi avessero sviluppato il volo spaziale interstellare, non vi sareste intromessi?»

«Saresti sorpresa di sapere come accada raramente qualcosa del genere. A lungo andare le civiltà aggressive distruggono se stesse, quasi sempre. E’ nella loro natura. Non possono farne a meno. In tal caso, il nostro compito consisterebbe nell’abbandonarle a loro stesse, nell’accertarci che nessuno si preoccupi per loro, nel lasciare che vadano incontro al loro destino.»

«Allora, perché non ci avete lasciati stare? Non mi sto lamentando, bada! Sono solo curiosa di sapere come funziona l’Ufficio del Censimento galattico. La prima cosa che avete raccolto da noi è stata quella trasmissione con Hitler. Perché avete stabilito un contatto?»

«Il filmato, naturalmente, era allarmante. Potevamo dire che vi trovavate in grossi pasticci. Ma la musica ci disse qualcos’altro. La musica di Beethoven ci disse che c’era speranza. I casi limite sono la nostra specialità. Pensammo che potevate usufruire di un piccolo aiuto. Veramente noi possiamo intervenire solo un po’. Capisci. Ci sono certe limitazioni imposte dalla causalità.» Si era accovacciato, per immergere le mani nell’acqua e ora se le stava asciugando sui pantaloni.

«La notte scorsa, vi abbiamo guardato dentro. A tutti e cinque. C’è un sacco di roba lì dentro: sensazioni, ricordi, istinti, comportamento acquisito, intuizioni, follia, sogni, amori. L’amore è molto importante. Siete un interessante miscuglio.»

«Tutto ciò in una sola notte di lavoro?» Ellie lo stava prendendo un po’ in giro.

«Dovevamo affrettarci. Abbiamo un programma di lavoro piuttosto rigoroso.»

«Perché, c’è qualcosa in vista?»

«No, è solo che se non progettiamo una causalità consistente, le cose andranno per conto loro. Allora è quasi sempre peggio.» Ellie non aveva idea di ciò che intendesse dire. «‘Progettare una causalità consistente’. Mio padre non ha mai avuto l’abitudine di parlare così.»

«Certo che sì. Non ti ricordi come ti parlava? Era un uomo istruito e fin da quando eri una ragazzina lui — io — ti parlava come a un suo pari. Non ti rammenti?»

Ellie ricordava, ricordava. Pensò a sua madre nella casa di cura.

«Che bel ciondolo,» disse lui proprio con quell’aria di paterna discrezione che lei gli aveva sempre attribuito nella sua immaginazione se fosse vissuto fino a vederla adolescente. «Chi te l’ha dato?»

«Oh, questo,» disse lei sfiorando con le dita il medaglione. «Veramente viene da qualcuno che non conosco molto bene. Ha messo alla prova la mia fede… Lui… Ma tu lo devi sapere già.» Di nuovo quel sogghigno.

«Voglio sapere quello che pensate di noi,» disse Ellie bruscamente, «quello che pensate davvero.»

Lui non esitò un attimo. «Benissimo. Penso sia stupefacente come ve la siate cavata bene. Avete a malapena una teoria di organizzazione sociale, un sistema economico straordinariamente arretrato, nessuna comprensione del meccanismo della predizione storica, e una scarsissima conoscenza di voi stessi. Considerando la velocità con cui il vostro mondo sta mutando, è stupefacente che non vi siate ancora ridotti a pezzetti. Ecco perché non vogliamo considerarvi ancora un fallimento. Voi uomini avete una certa predisposizione all’adattabilità: almeno a breve termine.»

«Questo è il punto, non è vero?»

«Questo è un punto. Si può vedere che, dopo un po’, le civiltà con prospettive solo a breve termine sono sparite dalla circolazione. Realizzano anche i loro destini.»

Ellie voleva chiedergli che cosa provasse francamente per gli uomini. Curiosità? Compassione? Niente del tutto? Rappresentavano soltanto una giornata di lavoro? Nel profondo del suo cuore — o qualunque organo interno equivalente possedesse — pensava di lei quello che lei pensava di… una formica? Ma non trovò la forza di sollevare la questione. Aveva troppa paura della risposta. Dall’intonazione della sua voce, dalle sfumature del suo modo di parlare, Ellie cercava di avere una visione della creatura che si celava sotto le spoglie di suo padre. Lei aveva una grandissima esperienza diretta di esseri umani; i padroni della Stazione quella di un giorno. Non riusciva a distinguere qualcosa della loro vera natura sotto quell’amabile e informativa facciata? No, non ci riusciva. Quanto al contenuto del suo discorso, naturalmente, non era suo padre, né pretendeva esserlo. Ma sotto ogni altro aspetto egli era prodigiosamente simile a Theodore F. Arroway, 1924–1960, venditore di ferramenta, sposo e padre affettuoso. Se non fosse stato per un continuo sforzo di volontà, sapeva che avrebbe soffocato di tenerezze quella… copia. Una parte di lei continuò a desiderare di chiedergli come erano state le cose da quando era salito in Cielo. Quali erano le sue vedute a proposito dell’Avvento e dell’Estasi? C’era qualcosa di speciale in preparazione per il nuovo millennio? C’erano culture umane che parlavano di una vita futura dei beati sulle vette di montagne o sulle nuvole, in caverne o oasi, ma non riusciva a trovarne una in cui se si fosse stati molto, molto buoni si sarebbe finiti, una volta morti, su una spiaggia. «Abbiamo tempo per qualche domanda prima… di quello che ci aspetta?»

«Sicuro. Una o due, comunque.»

«Raccontami del vostro sistema di trasporto.»

«Posso fare di meglio,» disse lui. «Posso mostrartelo. Attenta, adesso!»

Una massa nera simile a un’ameba si allargò dallo zenith, oscurando il Sole e il cielo azzurro.

«E’ proprio un bel trucco,» disse Ellie senza fiato. La stessa spiaggia sabbiosa si trovava sotto i suoi piedi. Vi affondava le dita. Sulla sua testa… c’era il Cosmo. Si trovavano, a quanto sembrava, ben al di sopra della Via Lattea, guardando la sua struttura spiraliforme e precipitando verso di essa a un’impossibile velocità. Lui spiegava le cose con semplicità, servendosi del comune linguaggio scientifico di lei per descrivere l’immensa struttura a girandola. Le mostrò il braccio esterno di Orione in cui si trovava il Sole. All’interno, in ordine decrescente di importanza mitologica, si scorgevano il braccio del Sagittario, il braccio di Norma/Scutum e il braccio di Tre Kiloparsec.

Apparve una rete di linee rette rappresentanti il sistema di trasporto che essi avevano usato. Sembrava una di quelle piantine illuminate della metropolitana parigina. Eda aveva avuto ragione. Ogni stazione si trovava in un sistema stellare con un doppio buco nero a bassa massa. Ellie sapeva che i buchi neri non potevano essere il risultato di un collasso stellare perché erano troppo piccoli. Forse erano primordiali, risalenti al Big Bang, catturati da una inimmaginabile astronave e rimorchiati alla loro stazione designata. O forse erano stati creati dal nulla. Voleva chiederglielo, ma il viaggio proseguiva incalzante.

C’era un disco di idrogeno incandescente che ruotava circa al centro della Galassia e nel cui interno si trovava un anello di nubi molecolari che si dilatava verso l’esterno in dirczione della periferia della Via Lattea. Egli le mostrò i moti ordinati della gigantesca nube molecolare Sagittario B2, che per decenni era stata il terreno favorito di caccia per le molecole organiche complesse da parte dei suoi colleghi sulla Terra. Più vicino al centro, si imbatterono in un’altra gigantesca nube molecolare, e successivamente in Sagittario A West, un’intensa fonte radio che la stessa Ellie aveva osservato all’Argus. E nelle immediate adiacenze, proprio nel centro della Galassia, chiusi in un appassionato abbraccio gravitazionale c’erano un paio di immensi buchi neri. La massa di uno di essi era pari a quella di cinque milioni di soli. Fiumi di gas delle dimensioni di sistemi solari stavano inondando il suo interno. Due colossali — Ellie meditò sulle limitazioni dei linguaggi terrestri — due super-massicci buchi neri stavano orbitando l’uno attorno all’altro al centro della Galassia. Uno era stato riconosciuto, o almeno fortemente sospettato, ma due? La cosa non avrebbe dovuto manifestarsi come uno spostamento Doppler nelle righe dello spettro? Ellie immaginò un cartello sotto uno di essi con la scritta ENTRATA e un cartello sotto l’altro con la scritta USCITA. Al momento, l’entrata era in funzione; l’uscita era semplicemente là.

Ed era dove si trovava la Stazione, la Gran Stazione Centrale: proprio al sicuro all’esterno dei buchi neri al centro della Galassia. I cicli erano resi brillanti da milioni di giovani stelle vicine; ma le stelle, i gas e la polvere venivano inghiottiti dal buco nero d’entrata. «Vai da qualche parte, vero?» chiese Ellie. «Naturalmente.»

«Puoi dirmi dove?»

«Certamente. Tutta quella roba finisce in Cygnus A.» Di Cygnus A Ellie sapeva qualcosa. Fatta eccezione soltanto per un vicino resto di supernova in Cassiopea, era la sorgente radio più potente nei cicli terrestri. Aveva calcolato che in un secondo Cygnus A produceva più energia del Sole in 40.000 anni. La sorgente radio si trovava alla distanza di 600 milioni di anni luce, ben al di là della Via Lattea, nel regno delle galassie. Come nel caso di molte sorgenti radio extragalattiche, due enormi getti di gas, disperdendosi a una velocità vicina a quella della luce, producevano un complesso intreccio di fronti d’urto Rankine-Hugoniot con il rarefatto gas intergalattico, e generavano nel processo un radio faro che splendeva radioso in quasi tutto l’universo. Tutta la materia in quell’enorme struttura del diametro di 500.000 anni luce stava riversandosi fuori da un minuscolo, quasi insignificante punto dello spazio esattamente a mezza via tra i getti. «State facendo Cygnus A?»

Ricordava vagamente una notte d’estate nel Michigan quan-d’era una ragazzina. Aveva temuto di cadere in cielo.

«Oh, non siamo solo noi. Si tratta di un… progetto di cooperazione di molte galassie. E’ quello cui ci dedichiamo soprattutto: opere di ingegneria. Solo… alcuni di noi hanno a che fare con le civiltà emergenti.»

A ogni pausa, Ellie aveva provato una sorta di ronzio nella testa, circa nel lobo parietale sinistro.

«Ci sono progetti di cooperazione tra galassie?» chiese. «Moltissime galassie, ciascuna con una specie di amministrazione centrale? Con centinaia di bilioni di stelle in ogni galassia. E allora quelle amministrazioni cooperano. Per rovesciare milioni di soli dentro Centaurus… pardon, Cygnus A? Sono sconvolta dall’immensità della cosa. Ma perché dovreste fare tutto ciò? Per quale scopo?»

«Non devi pensare all’universo come a un deserto. Non lo è da bilioni di anni,» disse lui. «Pensa adesso più come… a un qualcosa di coltivato.» Di nuovo un ronzio.

«Ma per quale ragione? Che cosa c’è da coltivare?»

«Il problema di base è facilmente espresso. Adesso non lasciarti spaventare dalla grandezza. Sei un astronomo, dopo tutto. Il problema è che l’universo è in espansione, e non c’è materia; I sufficiente in esso ad arrestarne l’espansione. Dopo un po’, nessuna nuova galassia, nessuna nuova stella, nessun nuovo pianeta, nessuna nuova forma di vita, solo la stessa vecchia compagnia. Tutto si sta esaurendo. Una noia! Così stiamo sperimentando la tecnologia in Cygnus A per fare qualcosa di nuovo. Lo potresti chiamare un tentativo di rinnovamento urbano. Ma non ci limitiamo a questo. Più avanti potremmo voler circoscrivere un pezzo dell’universo e impedire allo spazio di diventare sempre più vuoto con il passare degli eoni. Aumentare la densità della materia è il modo per farlo, naturalmente. E’ un buon lavoro onesto.» Come gestire un negozio di ferramento nel Wisconsin. Se Cygnus A si trovava a 600 milioni di anni luce di distanza, allora gli astronomi sulla Terra — o in un punto qualsiasi della Via Lattea — la stavano vedendo come era stata 600 milioni di anni prima. Ma sulla Terra, 600 milioni di anni prima, di vita ce ne doveva esser stata ben poca, anche negli oceani. Loro erano antichi.

Seicento milioni di anni prima, su una spiaggia come quella… eccetto che non c’erano granchi, gabbiani, palme. Ellie cercò di immaginare qualche microscopica pianta lambita dalle acque, mentre quegli esseri erano occupati con galactogenesi sperimentale e ingegneria cosmica preliminare.

«Avete rovesciato materia all’interno di Cygnus A durante gli ultimi seicento milioni di anni?»

«Beh, quello che avete scoperto con la radioastronomia era soltanto uno dei nostri primi test di fattibilità. Adesso siamo molto più avanti.»

E a suo tempo, fra altre centinaia di milioni di anni, i radioastronomi terrestri — se ce ne fossero ancora — avrebbero scoperto un sostanziale progresso nella ricostruzione dell’universo attorno a Cygnus A. Ellie si armò di coraggio per ulteriori rivelazioni e si ripromise di non lasciarsi intimidire da loro. C’era una gerarchia di esseri su una scala che non aveva immaginato. Ma la Terra occupava un posto, aveva una certa importanza in quella gerarchla; non si sarebbero dati tanta pena per nulla.

Il nero ritornò allo zenith e si dissolse; ritornarono il Sole e il cielo azzurro. La scena era la stessa: onde, sabbia, palme, la porta di Magritte, la microcamera, la fronda, e suo… padre. «Quelle nuvole interstellari in movimento e gli anelli vicino al centro della Galassia non sono dovuti a esplosioni periodiche qui attorno? Non è pericoloso collocare la Stazione qui?»

«Episodiche, non periodiche. Accade soltanto su scala ridotta, niente di simile a quello che stiamo facendo in Cygnus A. Ed è controllabile facilmente. Sappiamo quando sta per arrivare e generalmente non facciamo altro che spostarci. Se è davvero pericoloso, trasportiamo la stazione da qualche altra parte per un certo periodo. E un procedimento di routine, capisci.»

«Naturalmente. Routine. Avete costruito tutto? Le metropolitane, intendo dire. Voi e quegli altri… ingegneri delle altre galassie?»

«Oh no, non abbiamo costruito niente di tutto ciò.»

«Mi è sfuggito qualcosa. Aiutami a capire.»

«Sembra sia la stessa cosa dovunque. Nel nostro caso, ci siamo civilizzati molto tempo fa su molti mondi diversi della Via Lattea. I primi di noi svilupparono il volo spaziale interstellare, e alla fine capitarono per caso su una delle stazioni di transito. Naturalmente, non sapevamo che cosa fosse. Non fummo sicuri che si trattasse di qualcosa di artificiale finché i primi di noi non ebbero abbastanza coraggio da entrarci.»

«Che intendi con ‘noi’? Ti riferisci agli antenati della tua… razza, della tua specie?»

«No, no. Siamo molte razze da molti mondi. Trovammo una grande quantità di metropolitane, di varie epoche, di vari stili e variamente decorate, e tutte abbandonate. La maggior parte di esse funzionavano ancora bene. Non abbiamo fatto altro che procedere a qualche riparazione e a qualche miglioria.»

«Nessun altro prodotto di un’intelligenza? Nessuna città morta? Nessuna documentazione di quello che era successo? Nessun costruttore di sotterranea rimasto?» Lui scosse il capo.

«Nessun pianeta industrializzato, abbandonato?» Egli ripetè il gesto.

«C’era una civiltà galattica che ha deciso di andarsene senza lasciare traccia, a eccezione delle stazioni?»

«E’ più o meno così. Ed è la stessa cosa anche in altre galassie. Bilioni di anni fa, se ne sono andati tutti da qualche parte. Non abbiamo la benché minima idea di dove siano finiti.»

«Ma dove avrebbero potuto andare?»

Scosse il capo per la terza volta, ma adesso molto lentamente. «Allora non siete…»

«No, siamo soltanto guardiani,» disse lui. «Forse un giorno ritorneranno.»

«Okay, solo un’altra,» implorò Ellie con l’indice levato davanti a sé come probabilmente era stata sua abitudine all’età di due anni. «Un’altra domanda.»

«Va bene,» acconsentì lui pazientemente. «Ma ci restano soltanto pochi minuti.»

Ellie lanciò di nuovo un’occhiata alla porta e represse un brivido quando un piccolo granchio quasi trasparente passò con la sua andatura sghemba.

«Voglio sapere qualcosa dei vostri miti, delle vostre religioni. Che cosa vi riempie di timore reverenziale? O quelli che producono il numinoso sono incapaci di provarlo?»

«Anche voi producete il numinoso. No, so quel che mi stai chiedendo. Certo che lo sentiamo. Riconosci che è difficile per me comunicartelo. Ma ti darò un esempio di quello che chiedi. Non dico che sia perfetto, ma ti offrirà un…»

Si arrestò per un attimo e di nuovo lei sentì un ronzio, questa volta nel lobo occipitale sinistro. Le venne fatto di pensare che lui stesse cercando tra i suoi neuroni. Si era lasciato sfuggire qualcosa la notte scorsa? Se fosse stato così, ne sarebbe stata contenta. Voleva dire che non erano perfetti.

«… assaggio del nostro numinoso. Riguarda il pi, il rapporto tra la circonferenza di un cerchio e il suo diametro. Lo conosci bene, naturalmente, e sai anche che non puoi mai arrivare al calcolo completo del pi. Non c’è creatura nell’universo, per quanto intelligente possa essere, che sia in grado di calcolare il pi fino all’ultima cifra, perché non c’è un’ultima cifra, solo un infinito numero di cifre. I vostri matematici hanno fatto uno sforzo per calcolarlo fino a… «Di nuovo Ellie sentì il ronzio.

«… nessuno di voi sembra saperlo… Diciamo fino alla decimi-liardesima posizione. Non ti sorprenderà sentire che altri matematici sono andati ancora oltre. Beh, alla fine — diciamo quando si è arrivati alla posizione di dieci alla ventesima potenza — succede qualcosa. Le cifre che variavano a caso spariscono, e per un tempo incredibilmente lungo non ci sono altro che unità e zeri.» Lui stava tracciando un cerchio sulla sabbia con l’alluce. Ellie attese un attimo prima di rispondergli.

«E gli zeri e le unità alla fine si interrompono? Si ritorna a una sequenza casuale di cifre?» Notando un lieve segno di incoraggiamento da parte sua, Ellie andò oltre. «E il numero di zeri e di unità? E’ un prodotto di numeri primi?»

«Sì, di undici di essi.»

«Mi stai dicendo che c’è un messaggio in undici dimensioni celato in profondità all’interno del pi greco? Qualcuno nell’universo comunica con… la matematica? Ma… dammi una mano, sto davvero facendo fatica a capirti. La matematica non è arbitraria. Intendo dire che il pi deve avere lo stesso valore dovunque. Come si può nascondere un messaggio all’interno del pi? Fa parte della struttura dell’universo.»

«Esattamente.» Lei lo fissò.

«E’ persino meglio di così,» continuò lui. «Supponiamo che solo in un’aritmetica decimale appaia la sequenza di zeri e di unità, sebbene si debba riconoscere che qualcosa di singolare abbia luogo in ogni altra aritmetica. Supponiamo anche che gli esseri che hanno fatto per primi questa scoperta avessero dieci dita. Capisci che impressione se ne ricava? E’ come se il pi avesse atteso bilioni di anni che arrivassero dei matematici forniti di dieci dita con veloci calcolatori. Vedi, il Messaggio era indirizzato a noi, in un certo modo.»

«Ma questa è solo una metafora, non è vero? Non si tratta in realtà di pi e dieci alla ventesima posizione? Non avete effettivamente dieci dita.»

«No davvero.» Le sorrise di nuovo.

«Allora, per Dio, che dice il Messaggio?»

Egli si arrestò per un momento, sollevò l’indice e lo puntò in dirczione della porta. Un gruppetto di persone ne stava uscendo con aria eccitata.

Erano in uno stato d’animo allegro, come se si trattasse di una scampagnata a lungo differita. Eda stava accompagnando una magnifica ragazza in sottana e camicetta dai vivaci colori e dai capelli coperti con cura dal gele traforato delle donne musulmane dello Yorubaland; era chiaramente contentissimo di vederla. Da foto che egli aveva mostrato, Ellie la riconobbe come la moglie di Eda. Sukhavati stava stringendo la mano a un giovanotto serio, dagli occhi grandi e sentimentali; si doveva trattare di Surindar Ghosh, lo studente di medicina, il marito di Devi morto da tanto tempo. Xi era impegnato in un’animata conversazione con un uomo di bassa statura dall’aria maestosa; aveva baffi spioventi e portava una tunica di broccato costellata di perle. Ellie se lo immaginò intento a sorvegliare personalmente la costruzione del modello funerario del Regno Medio, urlando istruzioni a coloro che versavano il mercurio.

Vaygay conduceva una bambina di undici o dodici anni, con le trecce bionde che oscillavano mentre camminava.

«Questa è la mia nipotina, Nina… più o meno. La mia Granduchessa.

Avrei dovuto presentartela prima. A Mosca.»

Ellie abbracciò la bambina. Era un vero sollievo per lei che Vaygay non fosse apparso con Meera, la spogliarellista. Ellie osservò la sua tenerezza nei confronti di Nina e decise che le piaceva più che mai.

Da quando lo conosceva, egli aveva custodito gelosamente nel suo cuore il segreto di quell’affetto.

«Non sono stato un buon padre per sua madre,» le confidò. «Non ho quasi mai tempo per andare a trovare Nina.» Ellie si guardò attorno. I padroni della Stazione avevano creato per ciascuno dei Cinque gli oggetti del loro amore più grande. Forse era soltanto per abbattere le barriere di comunicazione con un’altra specie, spaventosamente diversa. Ellie era contenta che nessuno di loro stesse chiacchierando allegramente con un’esatta copia di loro stessi.

Che sarebbe successo se si fosse potuto fare ciò al ritorno sulla Terra? Che sarebbe accaduto se, a dispetto di tutte le nostre simulazioni e finzioni, fosse stato inevitabile apparire in pubblico con la persona più amata? Che prerequisito per un discorso sociale sulla Terra! Avrebbe cambiato ogni cosa. Ellie immaginò una falange di membri di un sesso attorno a un solitario membro dell’altro. O catene di persone. Cerchi. Le lettere «H» o «Q». Pigri otto. Si sarebbero potuti controllare gli affetti profondi con un’occhiata, solo guardandone la geometria, una sorta di relatività generale applicata alla psicologia sociale. Le difficoltà pratiche di un simile ordinamento sarebbero state considerevoli, ma nessuno sarebbe stato in grado di mentire in amore.

I Guardiani mostravano, seppur educatamente, una certa fretta. Non c’era molto tempo per parlare. L’accesso alla camera d’equilibrio del dodecaedro era ora visibile, approssimativamente dove si era trovato al loro arrivo. Per simmetria, o forse per qualche legge di conservazione interdimensionale, la porta stile Ma-gritte era scomparsa. Ci fu una serie di presentazioni. Si sentì sciocca a spiegare in inglese all’imperatore Qin chi fosse suo padre. Ma Xi traduceva rispettosamente e tutti si stringevano solennemente la mano come se quello fosse il loro primo incontro, forse a un barbecue di periferia. La moglie di Eda era una considerevole bellezza, e Surindar Ghosh le stava dando più di un’occhiata casuale. Devi non sembrava farci caso; forse era semplicemente appagata dall’accuratezza dell’impostura.

«Dove sei andata quando hai oltrepassato la soglia?» le chiese Ellie a bassa voce.

«416 Maidenhall Way,» ella rispose. Ellie la guardò attonita. «Londra, 1973. Con Surindar.»

Fece un cenno del capo nella sua dirczione. «Prima che morisse.» Ellie si chiese che cosa avrebbe trovato se avesse valicato quella soglia sulla spiaggia. Il Winsconsin alla fine degli anni Cinquanta, probabilmente. Lei non aveva seguito il programma previsto e così suo padre era venuto a trovarla. Lo aveva fatto più di una volta nel Wisconsin.

Anche a Eda avevano raccontato di un messaggio racchiuso in un numero trascendente, ma nella sua storia non si trattava di pi greco o di e, la base dei logaritmi naturali, ma di una classe di numeri di cui lei non aveva mai sentito parlare. Con un’infinità di numeri trascendenti, non avrebbero mai saputo con certezza quale numero esaminare al loro ritorno sulla Terra.

«Desideravo ardentemente rimanere e lavorarci,» disse a Ellie sommessamente, «e ho intuito che avevano bisogno di aiuto: per un modo di ragionare sulla decifrazione che non era venuto loro in mente. Ma penso sia qualcosa di molto personale per loro. Non vogliono dividerlo con altri. E per essere realistici, suppongo che non siamo abbastanza intelligenti per poter dar loro una mano.» Non avevano decifrato il messaggio contenuto nel pi greco? I padroni della Stazione, i Guardiani, i progettisti di nuove galas-sie non avevano scoperto un messaggio che si era trovato sotto il loro naso per una rotazione galattica o due? Il messaggio era così difficile o erano…?

«E’ tempo di tornare a casa,» disse suo padre gentilmente. Era una cosa straziante. Non voleva andare. Cercò di fissare la fronda di palma. Cercò di fare ancora domande. «Che cosa intendi con ‘tornare a casa’? Vuoi dire che usciremo da qualche parte nel sistema solare? Come torneremo sulla Terra?»

«Vedrai,» rispose lui. «Sarà interessante.»

Le pose un braccio attorno alla vita, guidandola verso la porta aperta della camera d’equilibrio.

Era come l’ora di andare a letto. Si poteva essere furbi, porre domande intelligenti, e forse si sarebbe potuti rimanere alzati fino a tardi. Di solito funzionava, almeno un po’.

«La Terra adesso è collegata, vero? Da una parte e dall’altra. Se noi possiamo andare a casa, potete venir giù da noi in un batter d’occhio. Sai, questo mi rende terribilmente nervosa. Perché non interrompete il collegamento? Noi ci crederemo.»

«Mi dispiace, tesorino,» rispose, come se avesse già prolungato in maniera vergognosa il suo momento di andare a letto. Era seccato per l’ora della nanna o perché erano impreparati a disinserire il tunnel? «Per un certo periodo almeno, sarà aperto soltanto per il traffico diretto verso l’interno,» egli disse. «Ma non pensiamo di usarlo.»

A lei piaceva l’isolamento della Terra da Vega. Preferiva un intervallo di cinquantadue anni tra un comportamento inaccettabile sulla Terra e l’arrivo di una spedizione punitiva. Il collegamento tramite il buco nero era spiacevole. Potevano arrivare quasi istantaneamente, forse solo a Hokkaido, forse dovunque sulla Terra. Era un passaggio a ciò che Hadden aveva definito microintervento. A prescindere dalle assicurazioni che potevano fornire, ci potevano osservare più da vicino adesso. Ci si poteva scordare della visitina improvvisata ogni tre o quattro milioni di anni. Analizzò ulteriormente il proprio disagio. Come erano diventate… teologiche le circostanze. Cerano degli esseri che vivevano nel cielo, esseri enormemente intelligenti e potenti, esseri preoccupati per la nostra sopravvivenza, esseri che si aspettavano da noi un determinato comportamento. Essi rifiutavano di ammettere un ruolo simile, ma potevano chiaramente assegnare ricompense e punizioni, distribuire vita e morte ai miserabili abitanti della Terra. Che differenza c’era allora rispetto alla religione dei vecchi tempi? La risposta le venne in mente istantaneamente: era una questione di evidenza. Nei suoi videotape, nei dati che gli altri avevano acquisito, ci sarebbe stata un’evidenza innegabile dell’esistenza della Stazione, di quello che vi accadeva, del sistema di transito con il buco nero. Ci sarebbero state cinque storie indipendenti, che si confermavano a vicenda, convalidate da un’evidenza fisica irresistibile. Questo era un fatto, non una diceria e una formula magica. Ellie si voltò verso di lui e lasciò cadere la fronda. Senza dire una parola, egli si piegò e gliela restituì.

«Sei stato molto generoso nel rispondere a tutte le mie domande. Posso rispondere a una delle tue?»

«Grazie. Hai risposto a tutte le nostre domande la notte scorsa.»

«E’ tutto? Nessun comandamento? Nessuna istruzione per i provinciali?»

«Non funziona in questo modo, tesorino. Siete cresciuti adesso. Siete autonomi.» Piegò il capo, le rivolse quel suo sorriso e lei gli si gettò tra le braccia, con gli occhi che le si riempivano di nuovo di lacrime. Fu un lungo abbraccio. Alla fine, Ellie sentì che lui si stava liberando gentilmente dalle sue braccia. Era tempo di andare a letto. Immaginò di sollevare il suo indice per chiedergli di poter restare un minuto ancora. Ma non volle deluderlo.

«Ciao, tesorino,» disse lui. «Esprimi a tuo madre tutto il mio amore.»

«Abbi cura di te,» replicò lei con una vocina. Diede un ultimo sguardo alla spiaggia al centro della Galassia. Un paio di uccelli marini, procellarie forse, erano sospesi su una colonna d’aria ascendente. Restavano in volo quasi senza batter le ali. Proprio mentre stava per entrare nella camera d’equiliquio, si voltò e lo chiamò.

«Che cosa dice il vostro Messaggio? Quello contenuto nel pi greco?»

«Non lo sappiamo,» rispose con un accento di tristezza, muovendo alcuni passi verso di lei. «Forse è una sorta di accidente statistico. Ci stiamo ancora lavorando.»

La brezza cominciò a soffiare scompigliandole ancora i capelli. «Beh, dacci un colpo di telefono quando avrete la soluzione,» disse Ellie.

21 CAUSALITÀ

«Noi siamo per gli dei quello che sono le farfalle per i ragazzacci —

Ci uccidono per passatempo.»

WILLIAM SHAKESPEARE, Re Lear, IV, 1, 36

«Il potente deve temere ogni cosa.»

PIERRE CORNEILLE, Cinna, Atto IV, Scena II

Erano felicissimi di essere ritornati. Manifestarono con grida la loro eccitazione. Si levarono dalle loro poltrone, si abbracciarono e si diedero delle pacche sulle spalle. Avevano tutti le lacrime agli occhi. La loro missione aveva avuto successo ed erano ritornati superando senza incidenti tutti i tunnel. All’improvviso, tra scariche statiche, la radio cominciò ad annunciare il bollettino sulle condizioni della Macchina. I tre benzel stavano decelerando. La carica elettrica, che si era venuta creando, si stava dissolvendo. Dal commento radio era chiaro che il Progetto non aveva la benché minima idea di quel che era accaduto.

Ellie si chiese quanto tempo fosse passato. Guardò l’orologio. Era trascorso almeno un giorno che li aveva portati proprio nell’anno 2000. Abbastanza a proposito. Oh, aspetta che sentano ciò che abbiamo da raccontare, pensò Ellie. In modo rassicurante, toccò il comparto in cui erano custodite le decine di videomicro-cassette. Come sarebbe cambiato il mondo, una volta distribuiti quei film! Lo spazio tra i benzel e attorno a essi era stato ripressurizzato. Si stavano aprendo le porte della camera d’equilibrio. Adesso ci si informava via radio sulle loro condizioni di salute. «Stiamo bene!» gridò Ellie nel suo microfono. «Fateci uscire. Non crederete a quello che ci è successo.» I Cinque uscirono felici dalla camera d’equilibrio, salutando espansivamente i loro compagni che avevano contribuito alla costruzione e al funzionamento della Macchina. I tecnici giappo- nesi li salutarono. I funzionari del Progetto si fecero loro intorno. Devi disse tranquillamente a Ellie: «Secondo me, ognuno indossa esattamente lo stesso abbigliamento di ieri. Guarda l’orribile cravatta gialla di Peter Valerian.»

«Oh, porta sempre quella vecchia cosa,» replicò Ellie. «E’ un regalo di sua moglie.» Gli orologi indicavano le 15:20. L’attivazione aveva avuto luogo verso le tre del pomeriggio precedente. Quindi erano stati via un po’ più di ventiquattro…

«Che giorno è?» chiese Ellie. La guardarono con aria interrogativa. C’era qualcosa che non andava. «Peter, per Dio, che giorno è?»

«Ma che vuoi dire?» risposte Valerian. «E’ oggi, venerdì 31 dicembre, 1999. E’ san Silvetro. E’ quello che intendi dire? Ellie, stai bene?»

Vaygay stava dicendo ad Archangelskij di lasciarlo cominciare dal principio, ma solo dopo essere rientrato in possesso delle sue sigarette. Funzionari del Progetto e rappresentanti dell’Associazione per la Macchina si stavano radunando attorno a loro. Ellie vide der Heer dirigersi verso di lei, fendendo la folla.

«Dal vostro punto di vista, che cosa è successo?» gli chiese Ellie quando lui finalmente arrivò a portata di voce.

«Nulla. Il sistema per creare il vuoto ha funzionato, i benzel si sono messi a girare, hanno accumulato una carica elettrica eccezionale, hanno raggiunto la velocità indicata, e poi si è avuto il procedimento inverso.»

«Che cosa intendi con ‘procedimento inverso’?»

«I benzel hanno rallentato e la carica si è dissolta. Il sistema è stato ripressurizzato, i benzel si sono arrestati e voi siete venuti fuòri. L’intera cosa ha richiesto forse venti minuti, e noi non potevamo parlarvi mentre i benzel stavano ruotando. Non vi siete accorti proprio di nulla?»

Ellie rise. «Ken, ragazzo mio,» disse lei, «ho una bella storia per te.» Ci fu un party riservato al personale del progetto per celebrare l’Attivazione della Macchina e l’importante anno nuovo. Ellie e i suoi compagni di viaggio non vi presero parte. Le stazioni televisive erano piene di celebrazioni, parate, documentari, retrospettive, pronostici e discorsi ottimistici dei leader nazionali. Ellie vide un attimo del discorso del Venerabile Utsumi, beatifico come sempre. Ma non poteva oziare. Il consiglio d’amministrazione del Progetto aveva rapidamente concluso, in base ai frammenti delle loro avventure, che i Cinque avevano avuto tempo di raccontare dettagliatamente, che qualcosa non aveva funzionato. Vennero sottratti alle folle incalzanti di funzionari dei governi e dell’Associazione per un interrogatorio preliminare. I funzionari del Progetto spiegarono che si era ritenuto prudente interrogare separatamente i Cinque.

Der Heer e Valerian si occuparono di lei in una piccola sala da conferenze. C’erano altri funzionari del progetto presenti, incluso il vecchio studente di Vaygay, Anatolij Goldmann. Ellie capì che Bobby Bui, che parlava russo, era presente per gli americani durante l’interrogatorio di Vaygay.

Stettero ad ascoltarla educatamente, e Peter di quando in quando l’incoraggiava a parlare. Ma avevano difficoltà a comprendere la sequenza degli eventi. Gran parte di ciò che lei riferiva in qualche modo li preoccupava. La sua eccitazione non era contagiosa. Era arduo per loro capire che il dodecaedro se ne era andato per venti minuti, molto meno di un giorno, perché gli innumerevoli strumenti all’esterno dei benzel avevano filmato e registrato tutto quello che era successo e non avevano rivelato nulla di straordinario. Valerian spiegò che i benzel avevano raggiunto la loro velocità prescritta, che parecchi strumenti, che non si sapeva a che cosa servissero, avevano fatto muovere i loro indicatori, che i benzel avevano rallentato e si erano fermati, e che i Cinque erano usciti in uno stato di grande eccitazione. Ecco tutto ciò che era successo. Lui non disse esattamente «chiacchiere senza senso», ma Ellie potè sentire la sua preoccupazione. La trattavano con rispetto, ma lei sapeva che cosa stavano pensando: l’unica funzione della Macchina è stata quella di produrre in venti minuti una indimenticabile illusione, o di fare impazzire i Cinque.

Ellie fece vedere loro le videomicrocassette, ognuna delle quali era etichettata con cura: «Sistema di anelli di Vega», per esempio, o «Impianto radio di Vega», «Sistema quintuplo», «Panorama stellare al centro della Galassia», e una che recava la dicitura «Spiaggia». Non contenevano nulla. Le cassette erano vergini. Non riusciva a comprendere che cosa non avesse funzionato. Aveva imparato con cura l’operazione del sistema della videomicrocamera e l’aveva usata con successo in prove effettuate prima dell’Attivazione della Macchina. Aveva persino fatto un calcolo sommario sulla lunghezza in piedi del materiale dopo che avevano lasciato il sistema di Vega. Ellie sprofondò ancor più nella disperazione quando si sentì dire che anche gli strumenti portati dagli altri non avevano funzionato. Peter Valerian voleva crederle, e der Heer pure. Ma era difficile per loro, pur con tutta la più buona volontà del mondo. La storia con cui i Cinque erano tornati appariva piuttosto inattesa e completamente priva di evidenza fisica. Inoltre, non c’era stato abbastanza tempo. Erano rimasti fuori del loro campo visivo per soli venti minuti.

Non era quella l’accoglienza che si era aspettata. Ma confidava che tutto si sarebbe sistemato e chiarito. Per il momento era soddisfatta di rivivere l’esperienza nella sua mente e di buttar giù alcuni appunti dettagliati. Voleva esser sicura che non avrebbe dimenticato nulla. Sebbene un fronte estremamente freddo stesse spostandosi dalla Kamcatka, c’era ancora un tepore fuori stagione quando nel tardo pomeriggio del primo dell’anno molti voli straordinari giunsero all’aeroporto internazionale di Sapporo. Il nuovo Segretario americano della Difesa, Michael Kitz, e una squadra di esperti raccolti in fretta arrivarono a bordo di un aereo con la scritta «Stati Uniti d’America». La loro presenza venne confermata da Washington solo quando la storia stava per essere risaputa a Hokkaido. Il conciso comunicato stampa sottolineava che la visita era di routine, che non c’era crisi, che non c’era nessun pericolo, e che «nulla di straordinario era stato segnalato all’impianto per l’integrazione dei sistemi della Macchina a nord-est di Sapporo». Un Tu-120 era arrivato di notte da Mosca, portando, tra gli altri, Stefan Baruda e Timofei Gotsridze. Senza dubbio, nessuno dei due gruppi era contento di passare quel giorno festivo lontano dalle famiglie. Ma il tempo a Hokkaido costituì una piacevole sorpresa; era così caldo che le sculture di Sapporo si stavano sciogliendo, e il dodecaedro di ghiaccio era diventato un piccolo ghiacciaio quasi informe, con l’acqua che gocciolava dalle superfici arrotondate che erano state gli spigoli delle facce pentagonali.

Due giorni dopo, si abbattè sulla regione una terribile ondata di freddo e tutto il traffico, anche quello costituito da veicoli con trazione sulle quattro ruote, venne interrotto nella zona dell’impianto. Tutti i collegamenti televisivi e in parte quelli radio vennero interrotti; apparentemente un ripetitore a microonde era stato abbattuto dal vento. Durante la maggior parte dei nuovi interrogatori, la sola comunicazione con il mondo esterno era costituita dal telefono. O forse, Ellie pensò, dal dodecaedro. Fu tentata di salire a bordo di nascosto e di far ruotare i benzel. Si abbandonò a questa fantasia con voluttà. Ma in realtà non c’era modo di sapere se la Macchina avrebbe mai funzionato di nuovo, almeno da quella parte del tunnel. Lui aveva detto di no. Si abbandonò di nuovo al ricordo della spiaggia. E di lui. Qualunque cosa fosse accaduta in seguito, una ferita nel profondo del suo essere si stava rimarginando. Poteva sentire i tessuti che si univano. Era stata la più costosa psicoterapia nella storia del mondo. E questo è estremamente significativo, pensò Ellie.

Xi e Sukhavati vennero interrogati da rappresentanti delle loro nazioni. Benché la Nigeria non avesse sostenuto un ruolo significativo nell’acquisizione del Messaggio o nella costruzione della Macchina, Eda consentì abbastanza prontamente a un lungo colloquio con funzionari nigeriani. Ma fu superficiale in confronto agli interrogatori cui vennero sottoposti dal personale del progetto. Vaygay ed Ellie dovettero subire una serie di domande ancora più complesse da parte delle squadre ad alto livello inviate dall’Unione Sovietica e dagli Stati Uniti con tale specifico intento. Dapprima, questi interrogatori americani e russi esclusero la presenza di stranieri, ma dopo che vennero presentati dei reclami tramite l’Associazione Mondiale per la Macchina, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica cedettero e le sedute vennero nuovamente intemazionalizzate.

Kitz era incaricato dell’interrogatorio di Ellie, e considerando il breve preavviso che doveva aver ricevuto, era arrivato sorprendentemente ben preparato. Valerian e der Heer mettevano talvolta una buona parola per lei, e di quando in quando le rivolgevano una domanda intelligente. Ma quello era lo show di Kitz.

Egli le disse che affrontava la sua storia in maniera scettica ma costruttiva, in quella che sperava fosse la migliore tradizione scientifica. Confidava che lei non avrebbe scambiato la franchezza delle sue domande per una personale animosità. Nutriva per lei il più grande rispetto. Dal canto suo, non avrebbe permesso che il suo giudizio venisse obnubilato dal fatto che era stato contro il Progetto Macchina fin dall’inizio. Ellie decise di lasciar passare incontestata quella patetica menzogna e cominciò la sua storia. Dapprima egli ascoltò attentamente, chiese di quando in quando qualche chiarimento, e si scusò delle interruzioni. Ma al secondo giorno simili cortesie sparirono.

«Allora il nigeriano viene visitato dalla moglie, l’indiana dal marito defunto, il russo dalla graziosa nipotina, il cinese da un condottiero mongolo…»

«Qin non era un Mongolo…»

«… e lei, per Dio, ha ricevuto la visita del suo defunto padre che le dice che lui e i suoi amici sono stati impegnati a ricostruire l’universo, per Dio. ‘Padre nostro che sei nei cicli…’? Questa è pura religione. Questa è pura antropologia culturale. Questo è puro Freud.

Non se ne accorge? Non solo lei dichiara che suo padre è ritornato dalla tomba, lei si aspetta veramente che noi crediamo che abbia fatto l’universo… ««Lei sta svisando ciò che…»

«La smetta, Arroway. Non insulti la nostra intelligenza. Non ci ha presentato un briciolo di evidenza, e lei si aspetta che noi crediamo alla più balorda storia di tutti i tempi? Sa far di meglio. Lei è una donna intelligente. Come può immaginare di cavarsela così?»

Lei protestò. Anche Valerian protestò; quel tipo di interrogatorio, disse, era una perdita di tempo. La Macchina veniva sottoposta a delicati test fisici in quel momento. Era così che si poteva controllare la validità della sua storia. Kitz fu d’accordo sull’importanza dell’evidenza fisica. Ma la natura della storia di Arroway, egli sostenne, era rivelatrice, faceva capire ciò che era successo in realtà. «L’incontro con suo padre in Gelo e tutto il resto, dottor Arroway, è significativo, perché lei è cresciuta nella cultura giudeo-cristiana. Lei è l’unica dei Cinque ad appartenere a tale cultura, e lei è l’unica che incontra suo padre. La sua storia è proprio troppo su misura. Non abbastanza fantasiosa.»

Era peggio di quello che aveva pensato. Ellie provò un attimo di panico epistemologia): come quando la vostra auto non si trova dove l’avevate parcheggiata, o la porta che avevate chiuso la notte prima appare spalancata al mattino. «Lei pensa che ci siamo inventati tutto?»

«Beh, le dirò, dottor Arroway. Quand’ero molto giovane, lavoravo nell’ufficio del pubblico ministero della contea di Cook. Quando avevano in mente di accusare qualcuno, rivolgevano tre domande.» Le contò sulle dita. «Ha avuto l’opportunità? Ha avuto il mezzo? Ha avuto il movente?»

«Per fare che cosa?» Egli la guardò disgustato.

«Ma i nostri orologi mostravano che eravamo stati via più di un giorno,» protestò lei.

«Non so come posso esser stato così stupido,» disse Kitz, battendosi la fronte con la mano. «Lei ha demolito la mia tesi. Ho dimenticato che è impossibile mettere avanti di un giorno l’orologio.»

«Ma questo implica un’intesa. Lei pensa che Xi abbia mentito? Lei pensa che Eda abbia mentito? Lei…»

«Quello che penso è che dovremmo passare a qualcosa di più importante. Sa, Peter,» — Kitz si rivolse a Valerian — «sono persuaso che lei abbia ragione. Un primo abbozzo del rapporto valutativo dei materiali sarà qui domattina. Non perdiamo più tempo con delle… storie. La seduta è aggiornata a domani.» Der Heer non aveva detto una parola durante tutta la seduta pomeridiana. Le rivolse un incerto sorriso, e lei non potè fare a meno di notare quanto fosse diverso da quello di suo padre. Talvolta l’espressione di Ken sembrava implorarla. Ma a che fine lei non riusciva a capirlo; forse per farle cambiare la sua storia. Lui aveva presenti i ricordi dell’infanzia di Ellie e sapeva come avesse sofferto per suo padre. Chiaramente lui stava soppesando la possibilità che fosse impazzita. Per estensione, Ellie suppose, Ken stava anche considerando la probabilità che pure gli altri fossero diventati matti. Isteria di massa. Allucinazione comune. Folie a cinq. «Bene, eccolo qua,» disse Kitz. Il rapporto aveva circa un centimetro di spessore. Egli lo lasciò cadere sul tavolo, sparpagliando alcune matite. «Vorrà esaminarlo, dottor Arroway, ma posso darle un rapido riassunto. D’accordo?»

Lei fece un cenno d’assenso. Aveva appreso da indiscrezioni che il rapporto era piuttosto favorevole al resoconto fatto dai Cinque. Ellie sperava che avrebbe posto fine a quell’assurdità. «Il dodecaedro apparentemente» — e diede particolare risalto all’avverbio — «è stato esposto a condizioni ambientali molto diverse da quelle dei benzel e delle strutture portanti. E’ stato apparentemente sottoposto a enormi sforzi di trazione e di compressione. E’ un miracolo che la cosa non sia finita in pezzi. Come è un miracolo che lei e gli altri non siate andati in pezzi nello stesso tempo. Inoltre, si è trovato in un ambiente fortemente radioattivo: c’è una radioattività artificiale a basso livello, tracce di raggi cosmici e così via. E’ un altro miracolo che siate sopravvissuti alle radiazioni. Nient’altro è stato aggiunto o sottratto. Non c’è traccia di erosione o di abrasioni sui vertici laterali che, stando alle sue dichiarazioni, continuavano a urtare contro le pareti dei tunnel. Non c’è neppure una raschiatura, che ci sarebbe stata se la Macchina fosse penetrata nell’atmosfera terrestre ad alta velocità.»

«Allora questo non conferma la nostra storia? Michael, rifletta. Gli sforzi di trazione e di compressione — forze gravitazionali — sono esattamente ciò che ci si aspetta se si finisce in un classico buco nero. Lo si sa da cinquantanni almeno. Non so perché non li abbiamo sentiti, ma forse il dodecaedro ci ha protetto in qualche modo. E un’intensa radioattività proviene dall’interno del buco nero e dall’ambiente del centro galattico, una nota fonte di raggi gamma. C’è un’evidenza indipendente per i buchi neri, e c’è un’evidenza indipendente per un centro galattico. Non ce le siamo inventate quelle cose. Non capisco l’assenza di raschiature, ma ciò dipende dalla interazione di un materiale che abbiamo studiato superficialmente con un materiale che è completamente sconosciuto. Non mi sarei mai aspettata segni di attrito o di ablazioni, perché non affermiamo di essere rientrati attraverso l’atmosfera terrestre. Mi sembra che l’evidenza confermi quasi interamente la nostra storia. Qual è il problema?»

«Il problema è che voi siete troppo intelligenti. Troppo intelligenti. Consideri la cosa dal punto di vista di uno scettico. Faccia un passo indietro e consideri il quadro d’insieme. C’è un gruppo di persone intelligenti in diversi paesi che pensa che il mondo abbia preso una brutta piega. Sostengono di ricevere un complicato Messaggio dallo spazio.»

«Sostengono?»

«Mi lasci continuare. Decifrano il Messaggio e annunciano le istruzioni per costruire una Macchina molto complessa del costo di trilioni di dollari. Il mondo si trova in una condizione particolare, le religioni sono tutte incerte sul millennio imminente, e tra la sorpresa generale la Macchina viene costruita. Ci sono modesti cambiamenti nel personale, e poi essenzialmente le stesse persone… ««Non si tratta delle stesse persone. Non è Sukhavati, non è Eda, non è Xi, e c’erano…»

«Mi lasci proseguire. Essenzialmente le stesse persone prendono posto nella Macchina. Per il modo in cui la cosa è strutturata, nessuno può vederli e nessuno può parlare con loro dopo che la cosa viene attivata. Così la Macchina viene accesa e poi viene spenta. Una volta che è in funzione, non la si può fermare in meno di venti minuti. Okay. Venti minuti dopo, quelle stesse persone escono dalla Macchina, tutte felici e contente, con un’incredibile storia a proposito di un viaggio più veloce della luce all’interno di buchi neri fino al centro della Galassia e ritorno. Ora supponiamo che lei ascolti questa storia e manifesti solo la consueta circospezione. Chiede di vedere la loro evidenza. Foto, videotape, qualsiasi altro dato. Ma guarda caso, tutto è stato convenientemente cancellato. Sono in possesso di prodotti della civiltà superiore che si troverebbe al centro della Galassia? No. Oggetti ricordo? No. Una tavoletta di pietra? No.

Animaletti? No. Nulla. La sola evidenza fisica è rappresentata da qualche leggero danno inferro alla Macchina. Allora lei si chiede: persone che erano così motivate e così intelligenti non potrebbero essere riuscite a imitare sforzi di trazione ed effetti di radiazioni, specialmente se potevano spendere due trilioni di dollari per falsificare l’evidenza?»

Ellie rimase a bocca aperta. Ricordava l’ultima volta che le era capitato. Quella era una ricostruzione dei fatti veramente maligna e velenosa. Si chiese da che cosa vi fosse stato indotto Kitz. Doveva trovarsi davvero in difficoltà, pensò Ellie. «Non penso che nessuno crederà alla vostra storia,» proseguì lui. «Questo è l’inganno più elaborato — e più costoso — mai perpetrato. Lei con i suoi amici ha tentato di imbrogliare la Presidente degli Stati Uniti e di turlupinare il popolo americano, per non parlare di tutti gli altri governi della Terra. Dovete pensare davvero che tutti gli altri siano stupidi.»

«Michael, questa è follia. Migliaia di persone hanno lavorato per acquisire il Messaggio, per decodificarlo, e per costruire la Macchina. Il Messaggio si trova su nastri magnetici, su tabulati e compact-disk in osservatori di tutto il mondo. Lei è convinto che ci sia un complotto che coinvolge tutti i radioastronomi del pianeta, e le compagnie aerospaziali e cibernetiche, e… ««No, non c’è bisogno di un complotto di tale portata. Tutto ciò di cui avete bisogno è un trasmettitore nello spazio che dia l’impressione di operare da Vega. Le dirò come penso abbiate fatto. Preparate il Messaggio e trovate qualcuno — qualcuno con una provata capacità di lancio — per spedirlo in cielo. Probabilmente come un’operazione secondaria di qualche altra missione. E in un’orbita che suggerisca il moto sideralè. Forse c’è più di un satellite. Allora il trasmettitore entra in funzione e voi siete tutti pronti nel vostro bell’osservatorio a ricevere il Messaggio, a fare la grande scoperta, e a spiegare a noi poveri imbecilli il significato di tutta la faccenda.»

Era troppo persino per l’impassibile der Heer, che si agitò sulla sua poltrona. «Veramente, Mike…» cominciò, ma Ellie lo interruppe. «Non sono stata responsabile per la maggior parte della decodificazione. Molte persone vi erano coinvolte. Drumlin in special modo. All’inizio si era dimostrato profondamente scettico, com’è noto. Ma una volta arrivati i dati, Dave fu completamente convinto. Non lo si sentì fare nessuna riserva.»

«Oh sì, povero Dave Drumlin. Il fu Dave Drumlin. L’avete sistemato.

Il professore che non le era mai piaciuto.»

Der Heer sprofondò ancor di più nella sua poltrona, e lei ebbe un’improvvisa visione di lui che intratteneva Kitz con pettegolezzi di seconda mano. Lo guardò più attentamente. Non poteva esserne certa.

«Durante la decifrazione del Messaggio, lei non poteva fare tutto. C’era troppo da fare. Perciò trascurava questo e dimenticava quello. Drumlin stava invecchiando, si preoccupava che la sua studentessa di un tempo finisse per eclissarlo e si prendesse tutto il merito. All’improvviso egli vede come può entrare nell’affare, come può sostenere un ruolo di primo piano. Lei ha fatto appello al suo narcisismo, e l’ha incastrato. E se lui non fosse arrivato alla decifrazione, lei lo avrebbe aiutato. Nella peggiore delle ipotesi, lei avrebbe pelato tutte le tuniche della cipolla da sola.»

«Lei sta dicendo che siamo stati in grado di inventare un simile Messaggio. Davvero, è un complimento pazzesco per Vay-gay e per me. E’ anche impossibile. Non si può fare. Lei può chiedere a ogni ingegnere competente se questa sorta di Macchina — con industrie sussidiarie nuovissime, componenti totalmente sconosciuti sulla Terra — abbia potuto essere inventata da alcuni fisici e radioastronomi nei loro giorni liberi. Quando immagina che avessimo tempo di inventare un simile Messaggio anche se avessimo saputo come fare? Consideri quanti bit di informazioni vi sono contenuti. Avrebbe richiesto anni.»

«Lei aveva anni, mentre Argus non combinava nulla. Il progetto stava per essere chiuso. Drumlin, lei lo ricorda, stava premendo in tale dirczione. Così, proprio al momento giusto, lei trova il Messaggio. Allora non si parla più di dare un taglio al suo amato progetto. Credo che lei e quel russo abbiate inventato l’intera faccenda nel vostro tempo libero. Avevate degli anni.»

«Questa è follia,» disse Ellie sommessamente. Valerian intervenne. Aveva conosciuto bene il dottor Arroway durante il periodo in questione. Lei aveva fatto un fecondo lavoro scientifico. Non aveva mai avuto il tempo necessario per una frode così complessa. Per quanto l’ammirasse, lui era d’accordo che il Messaggio e la Macchina erano ben al di là delle sue capacità: o delle capacità di chiunque altro. Di chiunque altro sulla Terra. Ma Kitz non si arrendeva. «E’ un giudizio personale, dottor Valerian. Quot homines, tot sententiae. Il dottor Arroway le piace. Piace anche a me. E’ comprensibile che lei voglia difenderla. Non me la prendo. Ma c’è un argomento decisivo. Lei non lo conosce ancora. Glielo esporrò.»

Si sporse in avanti, guardando Ellie intensamente. Chiaramente era interessato a vedere come lei avrebbe reagito a ciò che stava per dire. «Il Messaggio si è interrotto nel momento in cui abbiamo attivato la Macchina. Nel momento in cui i benzel hanno raggiunto la velocità di crociera. Al secondo. In tutto il mondo. Ogni radio osservatorio con una linea ottica in direzione di Vega ha registrato la stessa cosa. Abbiamo evitato di dirvelo per non distogliervi dal vostro resoconto. Il Messaggio si è interrotto a metà di un bit. E’ stato veramente stupido da parte vostra.»

«Non ne so nulla, Michael. Ma che c’è di strano se il Messaggio si è interrotto? Aveva raggiunto il suo intento. Abbiamo costruito la Macchina, e siamo andati… dove volevano che andassimo.»

«Questo vi pone in una situazione particolare,» proseguì lui. All’improvviso Ellie capì dove voleva arrivare. Non se l’era aspettato. Lui stava discutendo di complotto, ma lei stava intuendo che si alludeva alla pazzia. Se Kitz non era pazzo, poteva esserlo lei? Se la nostra tecnologia può produrre sostanze in grado di dare allucinazioni, una tecnologia molto più avanzata poteva causare allucinazioni collettive particolareggiatissime? Solo per un momento le sembrò possibile. «Immaginiamo che sia la settimana scorsa,» stava dicendo lui. «Le onde radio che arrivano sulla Terra in questo istante dovrebbero essere state inviate da Vega ventisei anni fa. Esse impiegano ventisei anni ad attraversare lo spazio e raggiungerci. Ma ventisei anni fa, dottor Arroway, non c’era nessuna base Argus, c’erano l’LSD e le proteste per il Vietnam e lo scandalo Watergate. Siete così intelligenti, ma avete dimenticato la velocità della luce. Non c’è modo che l’attivazione della Macchina possa interrompere il Messaggio finché non siano trascorsi ventisei anni: a meno che in uno spazio ordinario non siate in grado di inviare un messaggio a una velocità superiore a quella della luce. Ed entrambi sappiamo che ciò è impossibile. Ricordo che lei si lamentava della stupidità di Rankin e di Joss che non sapevano che non si può viaggiare più veloci della luce. Mi sorprende che lei abbia pensato di potersela cavare così.»

«Michael, ascolti. Il problema è come abbiamo potuto andare da qui a là e ritornare indietro praticamente in un baleno. Venti minuti, a dire il vero. Può essere acausale attorno a una singolarità. Non sono un’esperta in questo campo. Dovrebbe parlarne con Eda o Vaygay.»

«Grazie per il suggerimento,» disse lui. «Lo abbiamo già fatto.» Ellie immaginò Vaygay sottoposto a un interrogatorio simile da parte del suo vecchio avversario Archangelskij o di Baruda, l’uomo che aveva proposto di distruggere i radiotelescopi e di bruciare i dati. Probabilmente loro e Katz avevano la stessa opinione sulla delicata faccenda che si trovavano a dover affrontare. Ellie sperò che Vaygay stesse tenendo duro.

«Lei capisce, dottor Arroway. Sono certo che capisce. Ma permetta che mi spieghi di nuovo. Forse lei può mostrarmi dove ho tralasciato qualcosa. Ventisei anni fa, quelle onde radio stavano puntando sulla Terra. Adesso le immagini nello spazio tra Vega e qui. Nessuno può intercettare le onde radio dopo che hanno lasciato Vega. Nessuno può fermarle. Anche se il trasmettitore avesse saputo istantaneamente — attraverso il buco nero, se le fa piacere — che la Macchina era stata attivata, ci sarebbero voluti ventisei anni prima che il segnale cessasse di arrivare sulla Terra. I suoi Vegani non avrebbero potuto sapere ventisei anni fa quando la Macchina sarebbe stata attivata. E con la massima precisione. Avreste dovuto inviare indietro un messaggio in tempo per ventisei anni fa, perché il Messaggio si interrompesse il 31 dicembre 1999. Mi segue, non è vero?»

«Sì, la seguo. Questo è un territorio totalmente inesplorato. Sa, non è chiamato cronotopo per nulla. Se sono in grado di fare dei tunnel attraverso lo spazio, suppongo che possano fare una sorta di tunnel attraverso il tempo. Il fatto che siamo ritornati un giorno prima dimostra che essi hanno almeno un tipo limitato di viaggio nel tempo. Perciò forse non appena abbiamo lasciato la Stazione, loro hanno inviato un messaggio ventisei anni a ritroso nel tempo per far cessare la trasmissione. Non so.»

«Lei vede com’è conveniente per voi che il Messaggio si interrompa proprio adesso. Se stesse ancora trasmettendo, potremmo trovare il vostro piccolo satellite, intercettarlo e riportare indietro il nastro della trasmissione. Questa costituirebbe la prova definitiva di un imbroglio. Chiaro. Ma non potevate correre questo rischio. Così avete dovuto ricorrere alla balla del buco nero. Probabilmente imbarazzante per voi.» Appariva preoccupato.

Era come una fantasia paranoide in cui un mosaico di fatti innocenti veniva riassemblato in un intricato complotto. I fatti in questo caso erano difficilmente banali, ed era logico che le autorità verificassero altre possibili spiegazioni. Ma l’interpretazione degli eventi da parte di Kitz era così maligna che rivelava, pensò Ellie, qualcuno veramente ferito, spaventato, tormentato. Nella mente di Ellie, la probabilità che tutto ciò fosse un’allucinazione collettiva diminuiva un po’. Ma la cessazione della trasmissione del Messaggio — se era accaduto come aveva detto Kitz — era preoccupante. «Ora mi dico, dottor Arroway, voi scienziati avevate l’intelligenza per escogitare tutto ciò, e la motivazione. Ma da soli non avevate i mezzi. Se non sono stati i russi a mettere in orbita quel satellite per voi, potrebbe essere stata una qualsiasi delle altre potenze missilistiche. Ma abbiamo indagato. Nessuno ha lanciato un satellite in volo libero nelle orbite adatte. Il che ci fa pensare allora a un privato in grado di effettuare dei lanci nello spazio. E la possibilità più interessante che ci è venuta in mente è rappresentata da un certo signor S.R. Hadden. Lo conosce?»

«Non sia ridicolo, Michael. Le ho parlato di Hadden prima di recarmi sul ‘Matusalemme’.»

«Volevo soltanto esser sicuro che concordavamo sulle cose fondamentali. Potrebbe essere andata così: lei e il russo architettate questa macchinazione. Riuscite a convincere Hadden a finanziare le prime fasi del piano: la progettazione del satellite, l’invenzione della Macchina, la crittografia del Messaggio, la contraffazione dei danni dovuti a radiazioni. In cambio, dopo che il Progetto Macchina si è messo in moto, Hadden può disporre di parte di quei due trilioni di dollari. Gli piace l’idea. Ci si può ricavare un enorme profitto, e, stando alla sua storia personale, dovrebbe essere contento di creare delle difficoltà al governo. Quando lei ha dei problemi nel decifrare il Messaggio, quando non riesce a trovare il sillabario, si reca addirittura da lui. Hadden le dice dove cercarlo. Anche questa è stata un’imprudenza. Sarebbe stato meglio che lo avesse scoperto da sola.»

«E’ troppo imprudente,» intervenne der Heer. «Una persona davvero coinvolta in un imbroglio non avrebbe…»

«Ken, mi sorprendi. Sei stato molto credulo, lo sai? Stai dimostrando esattamente perché Arroway e gli altri abbiano pensato che sarebbe stato intelligente chiedere il parere di Hadden. E accertarsi che noi sapessimo che lei era andata a trovarlo.» Rivolse la sua attenzione a Ellie. «Dottor Arroway, cerchi di considerare la cosa dal punto di vista di un osservatore neutrale…» Kitz continuò a rincarare la dose facendole balenare davanti nuove trame di fatti accaduti, riscrivendo interi anni della sua vita. Ellie non aveva mai giudicato Kitz uno sciocco, ma non aveva immaginato neppure che fosse dotato di una simile inventiva. Forse era stato aiutato. Ma la spinta emozionale per quella ricostruzione fantastica proveniva da Kitz stesso. Era pieno di gesti esuberanti e di fioriture retoriche. Un tale comportamento non faceva semplicemente parte del suo lavoro. Quell’interrogatorio, quell’interpretazione alternativa di eventi, avevano scatenato qualcosa di appassionato in lui. Dopo un momento, Ellie ritenne di aver capito di cosa si trattava. I Cinque erano ritornati indietro senza immediate applicazioni militari, senza un potere politico sfruttabile, ma solo con una storia incredibilmente bizzarra. E quella storia aveva certe implicazioni. Kitz era adesso padrone del più devastante arsenale della Terra, mentre i Guardiani stavano costruendo galassie. Lui era un discendente diretto di un succedersi di leader, americani e sovietici, che avevano progettato la strategia del confronto nucleare, mentre i Guardiani erano un amalgama di diverse specie provenienti da mondi separati che lavoravano insieme di comune accordo. La loro stessa esistenza era un tacito rimprovero. E poi c’era la considerazione della possibilità che il tunnel potesse essere attivato dall’altra estremità, senza che egli fosse in grado di impedirlo.

Potevano essere sulla Terra in un istante. Come poteva Kitz difendere gli Stati Uniti in simili circostanze? Il suo ruolo nella decisione di costruire la Macchina — la cui storia sembrava venisse attivamente riscritta da lui — poteva essere interpretato da un tribunale ostile come abbandono del servizio. E che resoconto poteva fare Kitz agli extraterrestri della sua amministrazione del pianeta, e di quella dei suoi predecessori? Anche se nessun angelo vendicatore fosse uscito infuriato dal tunnel, se la verità del viaggio fosse saltata fuori, il mondo sarebbe cambiato. Stava già cambiando. Sarebbe cambiato molto di più.

Di nuovo Ellie lo guardò con comprensione. Per un centinaio di generazioni, almeno, il mondo era stato guidato da persone assai peggiori di lui. Aveva avuto la sfortuna di arrivare a battere la palla proprio mentre le regole del gioco venivano riscritte. «… anche se lei è convinta di ogni particolare della sua storia,» stava dicendo Kitz, «non pensa che gli extraterrestri l’abbiano trattata male? Hanno approfittato dei suoi sentimenti più teneri assumendo le sembianze del suo caro papa. Non le dicono quel che stanno facendo, provocano la sovraesposizione di tutto il suo film, distruggono tutti i suoi dati, e non consentono neppure che lei lasci quella stupida fronda di palma lassù. Non manca niente di ciò che figurava nella nota di carico, fatta eccezione per un po’ di cibo, e non è ritornato niente che non compariva nella nota di carico, a parte un po’ di sabbia. Perciò, in venti minuti avete mandato giù in fretta un po’ di cibo e scaricato un po’ di sabbia fuori dalle vostre tasche. Siete ritornati indietro un nanosecondo, o poco più, dopo che eravate partiti, quindi per ogni osservatore neutrale non siete mai partiti. Ora, se gli extraterrestri volevano chiarire senza ombra di dubbio che voi eravate andati davvero da qualche parte, vi avrebbero riportati indietro un giorno dopo, o una settimana dopo. Giusto? Se non ci fosse stato nulla all’interno dei benzel per un po’, noi saremmo stati assolutamente certi che voi eravate andati da qualche parte. Se avessero voluto facilitarvi le cose, non avrebbero interrotto il Messaggio. Giusto? Questo getta una cattiva luce sulla faccenda, sa. Avrebbero dovuto capirlo. Perché mai avrebbero voluto mettervi nei pasticci? E avrebbero potuto convalidare la vostra storia in altri modi. Avrebbero potuto darvi qualcosa a loro ricordo. Avrebbero potuto lasciarvi riportare indietro i vostri film. Allora nessuno potrebbe sostenere che l’intero affare è un’intelligente montatura. Allora, com’è che non l’hanno fatto? Com’è che gli extraterrestri non confermano la vostra storia? Avete speso anni della vostra vita cercando di trovarli. Non apprezzano quello che avete fatto? Ellie, come può essere così sicura che la sua storia è realmente accaduta? Se, come lei sostiene, tutta la faccenda non èjin imbroglio, non potrebbe trattarsi di una… allucinazione? E’ doloroso prendere in considerazione tale eventualità, lo so. Nessuno vuole pensare di essere diventato un po’ pazzo. Considerando la tensione cui siete stati sottoposti, però, non ci vedo nulla di straordinario. E se l’unica alternativa è un complotto criminale… Forse ci vuole riflettere attentamente.» Ellie lo aveva già fatto.

Più tardi, nel corso della stessa giornata, Ellie ebbe un colloquio privato con Kitz. Infatti, era stato proposto un accordo. Lei non aveva nessuna intenzione di accettarlo. Ma Kitz era preparato pure a tale possibilità.

«Io non le sono mai piaciuto fin dall’inizio,» disse lui. «Ma passerò sopra alla cosa. Faremo qualcosa di veramente giusto. Abbiamo già diffuso un comunicato stampa che dice che la Macchina non ha funzionato quando abbiamo tentato di attivarla. Naturalmente, stiamo cercando di capire che cosa è andato male. Con tutti gli altri inconvenienti nel Wyoming e nell’Uzbekistan, nessuno mette in dubbio quest’ultimo. Poi, fra alcune settimane annunceremo che la situazione è ancora immutata. Abbiamo fatto del nostro meglio. La Macchina è troppo costosa per continuare a lavorarci. Probabilmente non siamo abbastanza intelligenti per poterla capire. Inoltre, c’è ancora qualche pericolo, dopo tutto. La Macchina può saltare per aria o qualcosa di simile. Così, in fondo, la cosa migliore da farsi è congelare il Progetto Macchina, almeno per un certo periodo. Non è che non ci abbiamo provato. Hadden e i suoi amici si opporranno, naturalmente, ma dato che ci è stato sottratto… ««Si trova a soli trecento chilometri sopra le nostre teste,» disse Ellie, indicando il cielo.

«Oh, non ha appreso la notizia? Sol è morto quasi nel momento in cui veniva attivata la Macchina. Strano come sia capitato. Mi dispiace, avrei dovuto dirglielo. Ho dimenticato che lei gli era… molto amica.»

Ellie non sapeva se doveva credere a Kitz. Hadden aveva una cinquantina d’anni e sembrava davvero in buona salute. Avrebbe approfondito la faccenda più avanti.

«E che sarà di noi, nella sua fantasia?» chiese Ellie. «Noi? Chi ‘noi’?»

«Noi. Noi cinque. Quelli che sono saliti a bordo della Macchina che lei sostiene non abbia mai funzionato.»

«Oh, dopo un altro breve interrogatorio sarete liberi di andarvene. Non credo che nessuno di voi sarà così stupido da raccontare in giro questa storia assurda. Ma solo per ragioni di sicurezza stiamo preparando delle cartelle psichiatriche su voi cinque. Profili. Semplici annotazioni. Siete sempre stati un po’ ribelli, arrabbiati con il sistema: in qualsiasi sistema siate cresciuti. I Va bene. E’ una bella cosa essere indipendenti. Noi incoraggiamo l’indipendenza, specialmente negli scienziati. Ma la tensione degli ultimi anni è stata logorante, non proprio distruttiva, ma lo-Igorante. In modo particolare per i dottori Arroway e Lunacarskij. IPer prima cosa sono stati impegnati nel ritrovamento del Messaggio, nella sua decifrazione e nell’opera di persuasione dei go-T verni a costruire la Macchina. Poi, problemi di costruzione, sabotaggio industriale, l’esperienza di un’Attivazione che non porta da nessuna parte… E’

stata dura. Sempre lavoro e nessuna distrazione. E gli scienziati hanno i nervi tesi al massimo comunque. Se siete stati tutti un po’ sconvolti dal fallimento dell’impresa, avrete la simpatia dell’opinione pubblica. Comprensibile. Ma nessuno crederà alla vostra storia. Nessuno. Se vi comporterete bene, non c’è ragione che le cartelle debbano mai essere messe in circolazione. Sarà chiaro che la Macchina si trova ancora qui. Non appena verrano riaperte le strade, faremo venire alcuni reporter a fotografarla. Mostreremo loro che la Macchina non è andata da nessuna parte. E l’equipaggio? L’equipaggio è naturalmente deluso. Forse un po’ demoralizzato. Non se la sentono ancora di parlare con la stampa. Non crede che sia un buon piano?» Kitz sorrise. Voleva che lei riconoscesse la bellezza di quello che aveva escogitato. Ellie non disse nulla. «Non pensa che siamo molto ragionevoli, dopo aver speso due trilioni di dollari per quel mucchio di merda? Avremmo potuto rinchiuderla per tutta la vita, Arroway. Ma la lasciamo libera. Lei non deve neppure pagare una cauzione. Mi pare che ci stiamo comportando da veri gentiluomini. E’ lo Spirito del nuovo millennio. E il Machindo.»

22 GILGAMESH

«Ciò che mai ritornerà è quanto addolcisce la vita.»

EMILY DICKINSON, Poesia numero 1741

In quel tempo — annunziato dovunque come l’Alba di una Nuova Epoca — un funerale nello spazio era una costosa consuetudine. Tale tipo di esequie, presente sul mercato a un livello concorrenziale, faceva gola soprattutto a coloro che, nel passato, avrebbero chiesto che le loro ceneri venissero sparse sulla natia contea o almeno sulla cittadina in cui avevano iniziato la loro fortuna. Ma adesso si poteva fare in modo che i propri resti circumnavigassero la Terra per l’eternità, o per un periodo che il mondo comune considerava tale. Bastava soltanto inserire un breve codicillo nel proprio testamento. Poi — supponendo naturalmente che si avessero i mezzi — una volta morti e cremati, le ceneri venivano compresse in una minuscola bara, quasi un giocattolo, su cui venivano incisi il nome e le date, un versetto commemorativo e il simbolo religioso a scelta. Assieme a centinaia di analoghe bare in miniatura, essa veniva spedita in cielo e scaricata a un’altezza intermedia, evitando accuratamente gli affollati corridoi di un’orbita geosincronica e la resistenza atmosferica di una bassa orbita terrestre. Così le ceneri giravano attorno al natio pianeta in mezzo alle fasce di radiazione di Van Allen, una tormenta di protoni dove nessun satellite con un po’ di buon senso avrebbe mai osato avventurarsi. Ma alle ceneri non faceva né caldo né freddo. A quelle altezze la Terra era avvolta dai resti dei suoi cittadini più ragguardevoli, e un visitatore ignaro proveniente da un mondo lontano avrebbe potuto credere a ragione di essere capitato in una cupa necropoli dell’età spaziale. La posizione rischiosa di quel cimitero spiegava l’assenza di visite da parte dei parenti addolorati. S.R. Hadden, contemplando quell’immagine, era rimasto sgomento di fronte alle modeste porzioni di immortalità che quei defunti eccellenti avevano finito per accettare. Tutte le loro parti organiche — cervello, cuore, tutto ciò che li distingueva come persone — erano state atomizzate nella loro cremazione. Non resta nulla dopo la cremazione, egli pensò, solo ossa polverizzate, troppo poco persino per una civiltà avanzatissima per ricostruire un essere umano dai suoi resti. E poi, per sovrappiù, la bara viene collocata proprio nelle fasce di Van Allen, dove anche le ceneri vengono fritte lentamente. Come sarebbe stato meglio se alcune delle cellule avessero potuto essere conservate. Vere cellule viventi, con il DNA intatto. Hadden pensò a una società in grado, dietro pagamento adeguato, di surgelare un frammento del tessuto epiteliale e di spedirlo in un’orbita alta, ben oltre le fasce di Van Allen, forse addirittura più in alto di un’orbita geosincronica. Non c’era ragione di aspettare di morire. Si poteva farlo subito, mentre lo si aveva in mente. In seguito, almeno, dei biologi molecolari alieni — o i loro colleghi terrestri di un lontano futuro — avrebbero potuto ricostruirci, per clonazione, più o meno dal nulla. Avremmo potuto fregarci gli occhi, stirarci e alzarci nell’anno decimilionesimo. O anche se non fosse stato fatto nulla con i nostri resti, ci sarebbero state ancora in vita copie multiple delle nostre istruzioni genetiche. Saremmo stati vivi in teoria. In entrambi i casi, si poteva dire che si sarebbe vissuti per sempre.

Ma mentre Hadden meditava ulteriormente sulla faccenda, anche tale piano sembrava troppo modesto. Perché alcune cellule raschiate dalle piante dei piedi non erano veramente noi stessi. Nel migliore dei casi potevano ricostruire la nostra forma fisica. Ma questo non è esattamente come vivere. Se fossimo stati davvero seri, avremmo dovuto includere foto di famiglia, un’autobiografia minuziosamente dettagliata, tutti i libri e i nastri che ci erano piaciuti, e qualunque altra cosa che ci riguardasse, se fosse stato possibile. Le marche preferite di lozione dopo-barba, per esempio, o la coca cola dietetica. Era supremamente egoistico, Hadden lo sapeva e gli piaceva. Dopo tutto, l’epoca aveva prodotto un delirio escatologico prolungato. Era naturale pensare alla propria fine mentre tutti gli altri contemplavano la fine della specie o del pianeta o l’ascesa al cielo in massa degli eletti.

Non ci si poteva aspettare che gli extraterrestri conoscessero l’inglese. Se dovevano ricostruirci, avrebbero dovuto sapere il nostro linguaggio. Perciò si doveva includere una sorta di traduzione, problema che appassionava Hadden. Era quasi l’inverso del problema di decifrazione del Messaggio.

Tutto ciò richiedeva una capsula spaziale capiente, così capiente che non si sarebbe stati più obbligati a limitarsi a semplici campioni di tessuto. Si poteva spedire pure l’intero corpo. Se ci si poteva surgelare rapidamente dopo la morte, per così dire, era tanto di guadagnato. Forse sarebbe rimasta in efficienza una parte tale di noi che avrebbe consentito a chiunque ci trovasse di far qualcosa di meglio di una semplice ricostruzione. Forse avrebbero potuto riportarci in vita: naturalmente dopo aver stabilito di che cosa si era morti. Se si indugiava un po’, prima di farsi ibernare, però — perché, diciamo, i parenti non si erano resi conto che si era già morti — le prospettive di rinascita diminuivano. Ciò che avrebbe avuto veramente senso, pensava Hadden, sarebbe stato surgelare qualcuno immediatamente prima del decesso. Il che avrebbe reso l’eventuale richiamo in vita molto più probabile, anche se ci sarebbe stata verosimilmente una richiesta limitata per tale servizio. Ma allora, perché appena prima di morire? Supponiamo che si sapesse di avere solo un anno o due di vita; non sarebbe stato meglio essere ibernati immediatamente, Hadden riflette: prima che la carne andasse a male? A prescindere dalla natura della malattia devastante, pensò sospirando Hadden, poteva essere ancora incurabile una volta richiamati in vita; si poteva restare surgelati per un’età geologica ed essere risvegliati soltanto per morire subito di un melanoma o di un infarto di cui gli extraterrestri potevano essere completamente all’oscuro.

No, egli concluse, c’era soltanto una realizzazione perfetta di quell’idea: qualcuno in ottime condizioni di salute avrebbe dovuto essere lanciato in un viaggio a senso unico alla volta delle stelle. Come beneficio incidentale, ci si sarebbe risparmiati l’umiliazione della malattia e della vecchiaia. Lontano dal sistema solare interno, la temperatura d’equilibrio del corpo sarebbe scesa quasi allo zero assoluto. Non sarebbe stata necessaria un’ulteriore refrigerazione. Controllo perpetuo assicurato. Gratuito. Seguendo tale logica, Hadden pervenne alla fase finale della sua speculazione: se ci volevano alcuni anni per raggiungere il freddo interstellare, si poteva pure restar svegli per godersi lo spettacolo e surgelarsi rapidamente solo dopo aver lasciato il sistema solare. Avrebbe anche ridotto al minimo la dipendenza eccessiva alla criogenia.

Hadden aveva preso ogni ragionevole precauzione contro un imprevisto problema medico in orbita terrestre, diceva il rapporto ufficiale, ricorrendo persino alla disintegrazione sonica dei suoi calcoli biliari e renali prima di metter piede nel suo castello celeste. E poi se ne era andato all’altro mondo per uno shock anafilattico. Un’ape era uscita infuriata da un mazzo di fresie inviato da un’ammiratrice a bordo del «Narnia». Imprudentemente, la spaziosa farmacia del «Matusalemme» non si era rifornita dell’antisiero adatto. L’insetto era stato probabilmente immobilizzato dalla bassa temperatura nella stiva del «Narnia» e non era davvero da biasimare. Il suo corpicino mal ridotto era stato rimandato sulla Terra per essere esaminato da entomologi legali. L’ironia del miliardario stroncato da un’ape non era sfuggita all’attenzione degli editoriali giornalistici e dei sermoni domenicali.

Ma in realtà, era tutto un imbroglio. Non c’era stata nessuna ape, nessuna puntura, e nessuna morte. Hadden rimaneva in eccellente salute. Invece, allo scoccare del nuovo anno, nove ore dopo che la Macchina era stata attivata, si accesero i motori a razzo di un veicolo ausiliario piuttosto grande che era attraccato al «Matusalemme». Esso raggiunse rapidamente la velocità di fuga dal sistema Terra-Luna. Hadden lo aveva battezzato «Gilgamesh». Hadden aveva trascorso la sua vita accumulando potere e meditando sul tempo. Trovava che più potere si aveva e più se ne bramava. Il potere e il tempo erano connessi, perché tutti gli uomini sono uguali nella morte. Ecco perché gli antichi re facevano costruire dei monumenti a loro ricordo. Ma i monumenti finivano consumati dal tempo, le virtù reali venivano avvolte dall’oblio, i nomi stessi dei sovrani venivano dimenticati. E, importantissimo, loro stessi erano morti stecchiti. No, questa soluzione era più elegante, più bella, più soddisfacente. Hadden aveva trovato un varco nel muro del tempo. Se avesse semplicemente annunciato i suoi piani al mondo, ci sarebbero state certo complicazioni. Se Hadden era surgelato a quattro gradi Kelvin a dieci bilioni di chilometri dalla Terra, qual era esattamente il suo stato legale? Chi avrebbe controllato la sua società? Quel modo di scomparire era molto più semplice. In un codicillo secondario di un elaborato testamento, aveva lasciato ai suoi eredi e cessionari una nuova società, specializzata in motori a razzo e criotecnica, che sarebbe stata chiamata «Immortality, Inc.». Non doveva pensare mai più alla faccenda. «Gilgamesh» non era provvisto di una radio. Non desiderava più sapere quello che era accaduto ai Cinque. Non voleva più notizie dalla Terra: nulla di incoraggiante, nulla di deprimente, nulla che gli ricordasse le passate, vane battaglie. Soltanto solitudine, pensieri elevati… silenzio. Se fosse accaduto qualche spiacevole imprevisto in un vicino futuro, il sistema criogenico del «Gilgamesh» sarebbe stato attivato in un batter d’occhio dallo scatto di un interruttore. Fino ad allora, ci sarebbe stata un’intera discoteca della sua musica favorita, e letteratura e videotape. Non sarebbe stato solo. In verità non aveva mai cercato troppo la compagnia. Yamagishi aveva preso in considerazione l’eventualità di accompagnarlo, ma all’ultimo momento si era tirato indietro; si sarebbe sentito perduto, disse, senza «staff». E in quel viaggio c’erano poche attrattive e uno spazio inadeguato per uno staff. La monotonia del cibo e le poche comodità avrebbero potuto scoraggiare un altro, ma Hadden sapeva di essere un uomo con un grande sogno. Delle comodità non gli importava proprio nulla.

Nel giro di due anni, quel sarcofago volante sarebbe finito nella buca di potenziale gravitazionale di Giove, appena fuori delle sue fasce di radiazione, sarebbe stato catapultato attorno al pianeta e quindi scagliato nello spazio interstellare. Per un giorno Hadden avrebbe avuto una veduta ancor più spettacolare di quella che si poteva ammirare dalla finestra del suo studio sul «Matusalemme» — le tempestose nubi multicolori di Giove, il pianeta più grande. Se fosse stata solo una questione di panorama, Hadden avrebbe optato per Saturno e i suoi anelli. Preferiva gli anelli. Ma Saturno si trovava ad almeno quattro anni dalla Terra e, tutto considerato, era rischioso. Se si sta inseguendo l’immortalità, bisogna stare molto attenti. A quelle velocità, ci sarebbero voluti diecimila anni solo per arrivare alla stella più vicina. Una volta surgelati a quattro gradi sopra lo zero assoluto, però, si aveva moltissimo tempo. Ma un bel giorno, ne era sicuro, anche se avesse dovuto trascorrere un milione di anni, «Gilgamesh» sarebbe entrato per caso nel sistema solare di qualcun altro. O la sua barca funebre sarebbe stata intercettata nell’oscurità infrastellare, e altri esseri — molto avanzati, molto perspicaci — avrebbero preso il sarcofago a bordo e saputo quel che si doveva fare. La cosa non era stata mai davvero tentata prima. Nessuno che fosse mai vissuto sulla Terra aveva avuto una fine simile.

Fiducioso che nella sua fine ci sarebbe stata la sua rinascita, Hadden chiuse gli occhi e incrociò per prova le braccia sul petto, mentre i motori brillavano di nuovo, stavolta per un tempo minore, e il veicolo brunito intraprendeva senza scosse il suo lungo viaggio alla volta delle stelle.

Fra migliaia di anni, chissà cosa starà succedendo sulla Terra, pensò Hadden. Ma non era un suo problema. Non lo era mai stato, a dire il vero. Ma lui, lui sarebbe stato addormentato, iper-congelato, perfettamente conservato, con il suo sarcofago sfrecciarne nel vuoto interstellare, superando i faraoni, vincendo Alessandro, eclissando Qin. Aveva inventato la propria resurrezione.

23 RIPROGRAMMAZIONE

«Non abbiamo dato retta a storie ingegnosamente inventate… ne siamo stati testimoni oculari.».

PIETRO, 1,16

«Guarda e ricorda. Considera questo cielo; esamina attentamente la pura aria marina, l’immensità sconfinata, la meta della preghiera. Parla adesso e parla nella volta consacrata. Che senti? Che risponde il cielo? I cicli sono occupati; non è la tua casa.»

KARLJAY SHAPIRO, Conferenza per esuli

Le linee telefoniche erano state riparate, le strade riaperte e Una rappresentanza selezionata attentamente della stampa mondiale era stata autorizzata a dare un’occhiata alla base. Alcuni reporter e fotografi vennero accompagnati attraverso le tre aperture coincidenti dei benzel, attraverso la camera d’equilibrio, e all’interno del dodecaedro. Si registrarono delle telecronache in cui i reporter, seduti nelle poltrone che erano state occupate dai Cinque, riferivano al mondo del fallimento del primo coraggioso tentativo di attivare la Macchina. Ellie e i suoi colleghi vennero fotografati da una certa distanza, per mostrare che erano vivi e vegeti, ma nessuna intervista poteva essere ancora rilasciata. Il Progetto Alacchina stava valutando la situazione e considerando le sue future scelte. Il tunnel da Honshu a Hokkaido era di nuovo aperto, ma il corridoio dalla Terra a Vega era chiuso. Effettivamente non avevano verificato quella dichiarazione. Ellie si chiedeva se, una volta che i Cinque avessero definitivamente lasciato la località, il progetto avrebbe tentato di far girare ancora i benzel, ma credeva a quello che le era stato detto: la Macchina non avrebbe funzionato di nuovo; non ci sarebbe stato nessun ulteriore accesso ai tunnel per gli esseri della Terra. Si sarebbero fatte piccole intaccature nello spazio-tempo, anche se lo si fosse voluto; sarebbe stato completamente inutile se non ci fosse stato nessuno dall’altra parte pronto all’agganciamento. Ci è stata concessa una visione fugace, pensò Ellie, e poi siamo stati abbandonati in balia di noi stessi. Era possibile salvarsi? Infine, ai Cinque venne permesso di parlare tra loro. Ellie disse addio a tutti. Nessuno la biasimò per le cassette vergini. «Le immagini delle cassette vengono registrate per mezzo di campi magnetici, su nastro,» le fece presente Vaygay. «Un forte campo elettrico si accumula sui benzel ed esse, naturalmente, vengono rimosse. Un campo elettrico variabile nel tempo produce un campo magnetico. Equazioni di Maxwell. Credo che sia stato così che i tuoi nastri sono stati cancellati. Non è stata colpa tua. L’interrogatorio, cui era stato sottoposto, aveva sconcertato Vaygay. Non lo avevano apertamente accusato, ma avevano semplicemente suggerito che egli facesse parte di un complotto antisovietico in cui erano implicati scienziati occidentali.

«Ti dico, Ellie, l’unica questione che resta aperta è l’esistenza di una vita intelligente al Politburo.»

«E alla Casa Bianca. Non riesco a credere che la Presidente possa permettere a Kitz di comportarsi così. Si era tanto data da fare per il Progetto.»

«Questo pianeta è governato da una manica di pazzi. Ricorda che cosa devono fare per arrivare dove sono. La loro prospettiva è così angusta, così… limitata. Alcuni anni. Nella migliore delle ipotesi, alcuni decenni. Si interessano solo del tempo in cui restano in carica.»

Ellie pensò a Cygnus A, «Ma non sono certi che la nostra storia sia una menzogna. Non possono dimostrarlo. Perciò, dobbiamo convincerli. Nel loro intimo si chiedono: ‘Potrebbe esser vero?’ Alcuni addirittura vogliono che sia vero. Ma è una verità rischiosa. Hanno bisogno di qualcosa prossimo alla certezza… E forse noi possiamo procurarlo. Possiamo perfezionare la teoria gravitazionale. Possiamo compiere nuove osservazioni astronomiche per confermare quello che ci è stato detto: specialmente riguardo al centro galattico e a Cygnus A. Non interromperanno la ricerca astronomica. Inoltre, possiamo studiare il dodecaedro, se ce ne consentono l’accesso. Ellie, cambieremo le loro opinioni.» Difficile da fare se erano tutti pazzi, riflette Ellie. «Non vedo come i governi potrebbero convincere la gente che si tratta di un imbroglio,» disse lei. «Davvero? Pensa quante altre cose hanno fatto credere alla gente. Ci hanno persuaso che saremo al sicuro solo se avremo speso tutta la nostra ricchezza perché tutti sulla Terra possano essere uccisi in un istante: una volta che i governi abbiano deciso che ne è arrivato il momento. Io riterrei difficile far sì che la gente creda a qualcosa di così pazzesco. No, Ellie, sono abili persuasori. Devono dire soltanto che la Macchina non funziona, e che noi siamo diventati un po’ matti.»

«Non credo che sembreremmo così matti se raccontassimo la nostra storia tutti insieme. Ma puoi aver ragione. Forse dovremmo prima cercare di trovare una qualche evidenza. Vaygay, non ti succederà nulla al… tuo ritorno?»

«Che cosa possono farmi? Esiliarmi a Gorki? Riuscirei a sopravvivere; ho avuto la mia giornata alla spiaggia… No, sarò al sicuro. Tu e io abbiamo un trattato di reciproca sicurezza, Ellie. Finché sei viva, hanno bisogno di me. E viceversa, naturalmente. Se la storia è vera, saranno contenti che ci sia stato un testimone sovietico; alla fine lo grideranno ai quattro venti. E come i tuoi compatrioti, si chiederanno quali possano essere gli usi militari ed economici di quello che abbiamo visto. Non importa quello che ci dicono di fare. L’importante è che siamo vivi. In seguito, racconteremo la nostra storia — noi cinque — in maniera discreta, naturalmente. Da principio, soltanto a coloro in cui abbiamo fiducia. Ma quelle persone la racconteranno ad altre. La storia si diffonderà. Non ci sarà modo di fermarla. Presto o tardi, i governi riconosceranno quel che ci è accaduto nel dodecaedro. E fino ad allora saremo polizze di assicurazione l’uno per l’altro. Ellie, sono molto contento di tutto ciò. E’ la cosa più grande che mi sia mai successa.»

«Da’ un bacio a Nina da parte mia,» disse Ellie un momento prima che lui partisse con il volo della notte per Mosca. Durante la colazione, Ellie chiese a Xi se fosse deluso. «Deluso? Di essere andato là» — sollevò gli occhi al cielo — «di averli visti? Sono un orfano della Lunga Marcia. Sono sopravvissuto alla Rivoluzione Culturale. Ho cercato di far crescere patate e barbabietole per sei anni all’ombra della Grande Muraglia. Tutta la mia vita è stata tempestosa. Conosco la delusione. Sei stato a un banchetto, e quando ritorni al tuo misero villaggio natio sei deluso che non celebrino il tuo ritorno? Questa non è delusione. Abbiamo perso una scaramuccia da poco. Esamina la… disposizione di forze.» Sarebbe partito di lì a poco per la Cina, dove aveva acconsentito a non rilasciare dichiarazioni riguardanti ciò che era successo nella Macchina. Ma sarebbe tornato a dirigere gli scavi a Xian. La tomba di Qin lo stava aspettando. Voleva vedere quanto l’Imperatore fosse somigliante a quella simulazione che aveva trovato al capolinea dei tunnel.

«Perdonami. So che è un’impertinenza,» disse Ellie dopo un po’, «ma il fatto che fra tutti noi solo tu hai incontrato qualcuno che… In tutta la tua vita, non c’è stato nessuno che tu abbia amato?» Ellie avrebbe voluto formulare meglio la domanda. «Tutte le persone che ho amato mi sono state strappate. Cancellate. Ho visto gli imperatori del ventesimo secolo andare e venire,» rispose Xi, «Ho desiderato ardentemente qualcuno che non dovesse essere soggetto a revisioni, o a riabilitazioni, o a censure. Ci sono soltanto alcune figure storiche che non possono essere cancellate.» Stava guardando il ripiano del tavolo, rigirando il cucchiaino da tè. «Ho dedicato la mia vita alla Rivoluzione, e non ho rimpianti. Ma non so quasi nulla di mia madre e di mio padre. Non ho ricordi di loro. Tua madre è ancora viva. Ricordi tuo padre e lo hai ritrovato. Non sottovalutare la tua fortuna.»

In Devi Ellie notò un’angoscia di cui non si era mai accorta prima. Pensò si trattasse di una reazione allo scetticismo con cui il consiglio di amministrazione del Progetto e i governi avevano accolto la loro storia. Ma Devi scosse il capo.

«Che ci credano o no, non è molto importante per me. L’esperienza in se stessa è fondamentale. Trasformante. Ellie, ci è veramente accaduto. Era reale. La prima notte qui a Hokkaido, dopo il nostro ritorno, ho sognato che la nostra esperienza era un sogno, sai? Ma non lo è stata, non lo è stata. Sì, sono triste. La mia tristezza è… Sai, ho appagato il desiderio di una vita lassù, quando ho ritrovato Surindar, dopo tutti questi anni. Lui era esattamente come lo ricordavo, esattamente come me l’ero sognato. Ma quando l’ho visto, quando ho visto una simulazione così perfetta, ho saputo: quell’amore era prezioso perché mi era stato strappato, perché avevo rinunciato a tanto per sposare Surindar. Niente di più. L’uomo era uno stupido. Dieci anni con lui e ci saremmo ritrovati divorziati. Forse solo cinque. Ero così giovane e incosciente.»

«Mi dispiace veramente,» disse Ellie. «Ne so qualcosa sul piangere un amore perduto.»

«Ellie,» replicò lei, «tu non capisci. Per la prima volta nella mia vita di adulta, non piango Surindar. Ciò che rimpiango è la famiglia cui ho rinunciato per amor suo.»

Sukhavati sarebbe ritornata a Bombay per alcuni giorni e poi avrebbe visitato il villaggio avito nella regione di Tamil Nadu. «Alla fine,» disse, «sarà facile convincerci che si è trattato soltanto di un’illusione. Ogni mattina, al risveglio, la nostra esperienza sarà più lontana, più simile a un sogno. Sarebbe stato meglio per noi tutti rimanere insieme, per rafforzare i nostri ricordi. Loro hanno capito questo pericolo. Ecco perché ci hanno portato alla spiaggia, qualcosa di aspetto terrestre, una realtà afferrabile. Non permetterò a nessuno di rendere meschina questa esperienza. Ricordati. E’ accaduto veramente. Non si trattava di un sogno. Ellie, non dimenticare.» Eda era, considerate le circostanze, molto rilassato. Lei ne capì presto il perché. Mentre lei e Vaygay venivano sottoposti a interminabili interrogatori, Eda aveva fatto dei calcoli. «Penso che i tunnel siano ponti di Einstein-Rosen,» disse. «La relatività generale ammette una classe di soluzioni, chiamate buchi di verme, simili a buchi neri, ma senza nessuna connessione evoluzionistica: non possono essere generati, come invece i buchi neri, dal collasso gravitazionale di una stella. Ma il tipo comune di buco di verme, una volta fatto, si espande e si contrae prima che qualche cosa possa attraversarlo; esso esercita disastrose forze gravitazionali e richiede anche — almeno agli occhi di un osservatore rimasto indietro — una quantità infinita di tempo per l’attraversamento.»

Ellie non vedeva come la cosa rappresentasse un considerevole progresso, e gli chiese di essere più chiaro. Il problema chiave era quello di tener aperto il buco di verme. Eda aveva trovato una classe di soluzioni per le sue equazioni di campo che suggerivano un nuovo campo macroscopico, una sorta di tensione che poteva essere usata per impedire a un buco di verme di contrarsi completamente. Un simile buco di verme non avrebbe posto nessuno degli altri problemi dei buchi neri; avrebbe avuto sollecitazioni gravitazionali di gran lunga inferiori, accesso in un senso e nell’altro, tempi veloci di transito agli occhi di un osservatore esterno, e nessun campo interno di radiazioni dall’effetto devastante.

«Non so se il tunnel sia al sicuro da piccole perturbazioni,» disse Eda. «Se non lo fosse, avrebbero dovuto costruire un sistema elaboratissimo di retroazione per controllare e correggere le instabilità. Non ne sono ancora sicuro. Ma almeno se i tunnel possono essere ponti di Einstein-Rosen, siamo in grado di dare una risposta quando ci dicono che siamo stati vittime di un’allucinazione.»

Eda era impaziente di tornare a Lagos, ed Ellie potè vedere il biglietto verde delle Nigerian Airlines che spuntava da una tasca della sua giacca. Egli si chiedeva se sarebbe riuscito a elaborare completamente la nuova fisica implicita nella loro esperienza. Ma confessava di non sapere se sarebbe stato all’altezza del compito, soprattutto a causa di ciò che egli definiva come la sua età avanzata per la fisica teorica. Aveva trentotto anni. Non vedeva l’ora di riunirsi alla moglie e ai figli.

Ellie lo abbracciò e gli disse che era orgogliosa di averlo conosciuto. «Perché usi il passato?» le chiese. «Mi rivedrai certamente. Ah, Ellie,» soggiunse, «faresti qualcosa per me? Ricorda tutto quello che è successo, ogni dettaglio. Mettilo per iscritto e spediscimelo. La nostra esperienza rappresenta una serie di dati sperimentali. Uno di noi può aver visto qualche particolare che è sfuggito agli altri, qualcosa di essenziale per una comprensione approfondita dell’accaduto. Mandami quello che scriverai. Ho chiesto agli altri di fare la stessa cosa.»

Fece un cenno di saluto con la mano, sollevò la sua borsa sciupata e venne fatto accomodare nell’auto del Progetto in attesa. Stavano partendo per le loro rispettive nazioni ed Ellie soffrì come se la sua stessa famiglia venisse divisa, spezzata, dispersa. Anche lei aveva trovato l’esperienza trasformante. E come avrebbe potuto essere il contrario? Un demone era stato esorcizzato. Parecchi. E proprio quando si sentì più capace d’amore di quanto lo fosse mai stata, si ritrovò sola.

La portarono via dalla base in elicottero. Durante il lungo volo per Washington a bordo dell’aereo governativo, Ellie dormì così profondamente che dovettero scuoterla perché si svegliasse quando gli inviati della Casa Bianca salirono sul velivolo nel corso di un breve scalo a Hickam Field, nelle Hawaii.

Avevano stretto un patto. Ellie sarebbe ritornata all’Argus, anche se non più come direttore, e avrebbe potuto dedicarsi a ogni problema scientifico che le fosse piaciuto. Se voleva, avrebbe potuto restarci tutta la vita.

«Non siamo irragionevoli,» aveva detto alla fine Kitz accettando il compromesso. «Se lei si presenta con solide prove, con qualcosa di realmente convincente, ci uniremo a lei nel fare l’annuncio. Diremo che le abbiamo chiesto di tener segreta la storia finché non ne fossimo stati assolutamente sicuri. Nei limiti del ragionevole, appoggeremo ogni ricerca che lei voglia fare. Se rendiamo nota la storia adesso, però, ci sarà un’iniziale ondata di entusiasmo e quindi gli scettici cominceranno a cavillare. Imbarazzerà lei e imbarazzerà noi. Molto meglio raccogliere le prove, se può.» Forse la Presidente aveva contribuito a fargli cambiare opinione. Era improbabile che Kitz fosse contento del compromesso.

Ma in cambio lei non doveva dire nulla di ciò che era accaduto a bordo della Macchina. I Cinque avevano preso posto nel dodecaedro, avevano parlato tra di loro e poi erano usciti. Se si fosse lasciata sfuggire una parola di qualcos’altro, il falso profilo psichiatrico sarebbe finito in mano ai media e, seppur a malincuore, sarebbe stata licenziata.

Ellie si chiedeva se avessero tentato di comperare il silenzio di Peter Valerian, o di Vaygay, o di Abonneda. Non riusciva a vedere come — senza uccidere i membri delle commissioni d’inchiesta delle cinque nazioni e dell’Associazione Mondiale per la Macchina — potessero sperare di tener nascosta la cosa per sempre. Era solo una questione di tempo. Perciò, Ellie concluse, stavano prendendo tempo. La sorprese la mitezza delle punizioni minacciate, ma le violazioni dell’accordo, se ci fossero state, non sarebbero finite sotto gli occhi di Kitz. Stava per lasciare la sua carica; di lì a un anno l’amministrazione Lasker sarebbe arrivata alla fine del suo secondo mandato. Kitz aveva accettato una compartecipazione in una società legale di Washington nota per la sua clientela costituita da fornitori della difesa.

Ellie pensava che Kitz mirasse più in alto. Sembrava che non si preoccupasse di quello che lei poteva raccontare del centro galattico. Ciò che lo tormentava, ne era sicura, era la possibilità che il tunnel fosse ancora aperto verso la Terra, anche se non dalla Terra. La base di Hokkaido sarebbe stata presto smantellata. I tecnici sarebbero ritornati alle loro industrie e alle università. Che storie avrebbero raccontato? Forse il dodecaedro sarebbe stato esposto nella Città della Scienza di Tsukuba. Quindi, dopo un intervallo di tempo decente, quando l’attenzione del mondo si fosse spostata su altre faccende, forse ci sarebbe stata un’esplosione nel luogo della Macchina: nucleare, se Kitz fosse stato capace di escogitare una spiegazione plausibile per il fatto. Nel caso di un’esplosione nucleare, la contaminazione radioattiva avrebbe costituito un’eccellente ragione per dichiarare l’intera area zona vietata. Avrebbe almeno tenuto lontano dalla località i curiosi e avrebbe potuto staccare l’ugello. Probabilmente la suscettibilità giapponese per le armi nucleari, anche se fatte esplodere sotto terra, avrebbe costretto Kitz a optare per esplosivi tradizionali. Avrebbero potuto mascherare la cosa da disastro minerario, evento non raro nell’isola di Hokkaido. Ellie dubitava molto che una qualsiasi esplosione — nucleare o tradizionale — potesse disinnestare la Terra dal tunnel. Ma forse Kitz non stava immaginando nessuna di queste cose. Forse lei lo stava sottovalutando. Dopo tutto, anche lui doveva essere stato influenzato dal Machindo. Doveva avere una famiglia, degli amici, qualcuno che amava. Doveva averne colto almeno un soffio. Il giorno seguente, la Presidente la insignì della Medaglia nazionale della Libertà nel corso di una cerimonia pubblica alla Casa Bianca. Dei ciocchi ardevano in un caminetto incastonato in una parete di marmo bianco. La Presidente aveva investito moltissimo, politicamente ed economicamente, nel Progetto Macchina ed era decisa a presentarlo nella luce migliore davanti alla nazione e al mondo. Gli investimenti nella Macchina da parte degli Stati Uniti e di altre nazioni, venne sottolineato, avevano fruttato generosamente. Nuove tecnologie, nuove industrie stavano fiorendo, promettendo per la gente comune gli stessi benefici delle invenzioni di Thomas Edison. Avevamo scoperto di non essere soli, che intelligenze più avanzate di noi esistevano là fuori nello spazio. Loro avevano cambiato per sempre, disse la Presidente, la nostra concezione di noi stessi. Parlando a titolo personale — ma anche, ne era convinta, in nome della maggior parte degli americani — la scoperta aveva rafforzato la sua fede in Dio, di cui era stata rivelata ora l’attività di creatore di vita e di intelligenza su molti mondi, una conclusione che, secondo lei, sarebbe stata in armonia con tutte le religioni. Ma il bene più grande accordateci dalla Macchina, disse la Presidente, era lo spirito che aveva porato sulla Terra: la crescente reciproca comprensione all’interno della comunità umana, la sensazione di essere tutti passeggeri di un periglioso viaggio nello spazio e nel tempo, il traguardo di un’unità globale di intenti che era conosciuta adesso in tutto il pianeta come Machindo. La Presidente presentò Ellie alla stampa e alle telecamere, parlò della sua perseveranza per dodici lunghi anni, della sua genialità nello scoprire e nel decifrare il Messaggio, e del suo coraggio nel salire a bordo della Macchina. Nessuno sapeva che cosa avrebbe fatto la Macchina. La signorina Arroway aveva rischiato volentieri la sua vita. Non era colpa del dottor Arroway se non era accaduto nulla quando la Macchina era stata attivata. Lei aveva fatto del suo meglio e meritava i ringraziamenti di tutti gli americani e di tutti i popoli della Terra. Ellie era una persona molto riservata. Nonostante la sua naturale reticenza, una volta presentatasi la necessità, si era sobbarcata il compito gravoso di spiegare il Messaggio e la Macchina. In verità aveva dimostrato con la stampa una pazienza che lei, la Presidente, ammirava in modo particolare. Al dottor Arroway doveva essere concessa ora un po’ di vera privacy perché potesse riprendere la sua carriera scientifica. C’erano stati comunicati stampa, spiegazioni, interviste con il Segretario Kitz e il consigliere scientifico der Heer. La Presidente sperava che la stampa avrebbe rispettato il desiderio del dottor Arroway che non ci fosse nessuna conferenza stampa. C’era tuttavia un’opportunità di scattare qualche foto. Ellie lasciò Washington senza poter determinare quanto ne sapesse la Presidente.

La spedirono indietro su un piccolo jet lucente del Comando congiunto del ponte aereo militare e acconsentirono a fare uno scalo a Janesville, Sua madre indossava la sua vecchia vestaglia imbottita. Qualcuno le aveva messo un po’ di fard sulle guance. Ellie appoggiò il volto sul cuscino accanto a sua madre. Oltre a riacquistare un’esitante capacità di parola, l’anziana donna aveva recuperato l’uso del braccio destro abbastanza per dare alcuni deboli colpetti sulla spalla di Ellie.

«Mamma, ho qualcosa da dirti. E’ una cosa straordinaria. Ma cerca di restare calma. Non voglio sconvolgerti. Mamma… ho visto papa. L’ho visto. Ti manda tutto il suo amore.»

«Sì…» La vecchia lentamente annuì. «E’ stato qui ieri.» John Staughton, Ellie ne era al corrente, era stato nella casa di cura il giorno prima. Si era scusato di non poter accompagnare Ellie quel giorno adducendo il troppo lavoro, ma era possibile che Staughton, in quel momento, non volesse intromettersi. Tuttavia, le scappò con una certa irritazione: «No, no. Sto parlando di papa.»

«Digli…» La vecchia parlava con difficoltà. «Digli, il vestito di chiffon. Fermarsi al pulilampo… ritornando a casa dal negozio.» Suo padre evidentemente gestiva ancora il negozio di ferra-menta nell’universo materno. E in quello di Ellie.

La lunga curva del ciclone si estendeva ora da orizzonte a orizzonte, deturpando la distesa spinosa di cespugli del deserto. Ellie era contenta di essere tornata, contenta di avviare un nuovo programma di ricerca, anche se molto più modesto.

Jack Hibbert era stato nominato direttore operativo della base Argus, ed Ellie si sentì sollevata dalle responsabilità amministrative. Poiché si era reso disponibile tanto tempo per i telescopi quando era cessato il segnale da Vega, c’era un’eccitante aria di progresso in una decina di sottodiscipline della radioastronomia trascurate a lungo. I suoi collaboratori non condividevano minimamente l’idea di Kitz di un Messaggio artefatto. Ellie si chiedeva che cosa stessero dicendo der Heer e Valerian ai loro amici e colleghi a proposito del Messaggio e della Macchina.

Ellie dubitava che Kitz si fosse lasciato sfuggire una parola in proposito al di fuori dei recessi del suo ufficio al Pentagono, che presto si sarebbe reso libero. Ci si era recata una volta; una recluta della Marina — con una pistola nella fondina di cuoio e le mani dietro la schiena — faceva la guardia impettita all’entrata, nel caso che nella babele di corridoi concentrici qualche visitatore avesse ceduto a un impulso irrazionale.

Willie aveva guidato lui stesso la Thunderbird dal Wyomin così l’auto l’attendeva al suo arrivo. Secondo accordi stabiliti, la poteva guidare soltanto all’interno della base, che era grande abbastanza per una bella corsa. Ma non più paesaggi del West Texas, non più guardie d’onore di conigli, non più escursioni in montagna per gettare uno sguardo a una stella del sud. Questo era il suo unico rimpianto riguardo alla segregazione. Ma le file di conigli, a ogni modo, d’inverno non si facevano vedere. All’inizio, un folto gruppo di giornalisti si aggirò nella zona sperando di rivolgerle una domanda da lontano o di fotografarla con il teleobiettivo. Ma lei restava risolutamente isolata. Il nuovo staff delle pubbliche relazioni era efficiente, persino un po’ duro, nello scoraggiare le richieste. Dopo tutto, la Presidente aveva chiesto privacy per il dottor Arroway.

Nelle settimane e nei mesi seguenti, il battaglione di reporter si ridusse a una compagnia e poi a un plotone. Ora rimanevano soltanto una squadra dei più risoluti, soprattutto del «World Hologram» e di altri settimanali scandalistici, delle riviste millenaristiche, e un unico rappresentante di una pubblicazione che si chiamava «Scienza e Dio». Nessuno sapeva a quale setta appartenesse, e il suo reporter non lo diceva.

Quando le storie vennero scritte, parlavano di dodici anni di lavoro appassionato, culminanti nell’importante, riuscita decifrazione del Messaggio cui aveva fatto seguito la costruzione della Macchina. Proprio mentre l’attesa del mondo si faceva più spasmodica, c’era stato il triste fallimento. La Macchina non era andata da nessuna parte. Naturalmente, il dottor Arroway era deluso, forse anche un po’ depresso.

Molti editorialisti commentarono che quella pausa era la ben-venuta.

Il ritmo della nuova scoperta e l’evidente necessità di serie meditazioni filosofiche e religiose rappresentavano una mistura così esplosiva che c’era bisogno di un periodo di ridimensionamento e di accurata rivalutazione. Forse la Terra non era ancora pronta per un contatto con civiltà aliene. Sociologi ed educatori dichiararono che la semplice esistenza di intelligenze extraterrestri più avanzate di noi avrebbe richiesto parecchie generazioni per essere assimilata nel modo dovuto. Era un duro colpo per l’orgoglio umano, dissero. C’era già abbastanza da fare. Nel giro di alcuni decenni avremmo capito molto meglio i principi che erano alla base della Macchina. Avremmo individuato l’errore fatto e avremmo riso della banalità della svista che ne aveva impedito il funzionamento al primo tentativo nel 1999.

Alcuni commentatori religiosi sostennero che il fallimento della Macchina era una punizione per il peccato d’orgoglio, per l’arroganza degli uomini. Billy Jo Rankin in un discorso rivolto a tutta la nazione asserì che il Messaggio era venuto direttamente da un inferno chiamato Vega, un perentorio rafforzamento delle sue precedenti posizioni al riguardo. Il Messaggio e la Macchina, egli disse, erano una Torre di Babele aggiornata. Gli uomini in maniera insensata e tragica avevano sperato di raggiungere il Trono di Dio. Era esistita una città di fornicazione ed empietà, costruita migliaia di anni prima, chiamata Babilonia, che Dio aveva distrutto. Nel nostro tempo c’era un’altra città simile, con lo stesso nome. Quelli che si erano dedicati alla Parola del Signore avevano provveduto a esaudirne la volontà anche in questo caso. Il Messaggio e la Macchina rappresentavano ancora un altro attacco di perversità sferrato contro i giusti e i timorosi di Dio. Anche in quest’altro caso le demoniache iniziative erano state sventate: nel Wyoming da un incidente di ispirazione divina, nella Russia atea dalla Grazia divina che aveva confuso gli scienziati comunisti.

Ma nonostante questi chiari moniti della volontà divina, proseguì Rankin, gli uomini avevano tentato per la terza volta di costruire la Macchina. Dio li aveva lasciati fare. Poi, tranquillamente, sottilmente, Egli aveva fatto in modo che la Macchina non funzionasse, aveva deviato l’intento diabolico, e aveva dimostrato ancora una volta la Sua sollecitudine e la sua preoccupazione per i suoi figli terrestri, ribelli e colpevoli, e a dire il vero, indegni della Sua magnanimità. Era tempo di imparare la lezione della nostra iniquità, della nostra infamia, e, prima dell’imminente millennio, del vero millennio che sarebbe cominciato il primo gennaio del 2001, di consacrare nuovamente il nostro pianeta e noi stessi a Dio. Le Macchine dovevano essere distrutte, completamente. La presunzione che la costruzione di una macchina più che la purificazione dei loro cuori potesse far sedere gli uomini alla destra di Dio doveva essere cancellata totalmente prima che fosse troppo tardi.

Nel suo piccolo appartamento Ellie, dopo aver ascoltato tutto il discorso di Rankin, spense il televisore e riprese la sua programmazione.

Le sole telefonate esterne che le venivano concesse erano quelle alla casa di riposo di Janesville, nel Wisconsin. Tutte le chiamate in arrivo, tranne quelle da Janesville, venivano censurate con le debite scuse. Ellie archiviava, senza aprirle, le lettere di der Heer, di Valerian, della sua vecchia compagna di college Becky Ellenbogen. Le furono recapitati prima per espresso e poi per corriere numerosi messaggi di Palmer Joss dal South Carolina. Ellie fu molto più tentata di leggere questi, ma non lo fece. Gli scrisse un appunto che diceva soltanto: «Caro Palmer, non ancora. Ellie» e lo impostò senza indirizzo del mittente. Non aveva modo di sapere se sarebbe stato consegnato.

Uno special televisivo sulla sua vita, fatto senza il suo consenso, la descriveva come più solitària di Neil Armstrong, o addirittura di Creta Garbo. Ellie non si scompose. Aveva altro da fare e stava lavorando notte e giorno.

Il blocco delle comunicazioni con il mondo esterno non si estendeva alla collaborazione puramente scientifica; attraverso la telecomunicazione asincrona a canale aperto lei e Vaygay organizzarono un programma di ricerca a lunga scadenza. Tra gli oggetti da esaminare c’erano la zona in prossimità di Sagittarius A al centro della Galassia e l’intensa sorgente radio extragalattica Cygnus A. I telescopi dell’Argus venivano impiegati come parte di un gruppo di dipoli in fase, in collegamento con i telescopi russi di Samarcanda. Insieme, gli strumenti russo-americani funzionavano come se facessero parte di un unico radiotelescopio della grandezza della Terra. Operando a una lunghezza d’onda di alcuni centimetri, potevano analizzare sorgenti di emissione radio piccole quanto il sistema solare interno anche se si fossero trovate alla distanza del centro della Galassia.

Ellie si preoccupava che ciò non bastasse, dato che i due buchi neri orbitanti erano considerevolmente più piccoli di così. Eppure, un continuo programma di controllo poteva scoprire qualcosa. Ciò di cui avevano realmente bisogno, Ellie pensava, era un radiotelescopio lanciato da un veicolo spaziale dall’altra parte del Sole, che lavorasse in tandem con i radiotelescopi sulla Terra. Gli uomini potevano così creare un telescopio effettivamente delle dimensioni dell’orbita terrestre. Grazie a esso, secondo i calcoli di Ellie, potevano analizzare qualcosa della grandezza della Terra al centro della Galassia. O forse della grandezza della Stazione. Passava la maggior parte del suo tempo scrivendo, modificando programmi esistenti per il Cray 21, e stendendo un resoconto, il più dettagliato possibile, dei fatti salienti concentrati nei venti minuti di tempo terrestre dopo l’attivazione della Macchina. A metà della stesura, si rese conto che la sua relazione era un samizdat. Tecnologia da macchina per scrivere e carta carbone. Ellie rinchiuse in cassaforte l’originale e due copie, accanto a una copia ingiallita della Decisione Hadden; nascose la terza copia dietro un pannello sconnesso nell’alloggiamento per le apparecchiature elettroniche del Telescopio 49, e bruciò la carta carbone, che produsse un fumo nero e acre. Nel giro di sei settimane, aveva finito la riprogrammazione e proprio mentre i suoi pensieri tornavano a Palmer Joss, egli si presentò al cancello principale dell’Argus. Joss aveva avuto la via spianata grazie ad alcune telefonate di un assistente particolare della Presidente, con cui, naturalmente, Joss era stato in rapporto di amicizia per anni. Anche lì nel Southwest dove si usava un abbigliamento casual, egli indossava, come sempre, una giacca, una camicia bianca, e una cravatta. Ellie gli diede la fronda di palma, lo ringraziò per il medaglione, e nonostante tutti gli ammonimenti di Kitz a tener segreta la sua maniacale esperienza, gli raccontò immediatamente tutto.

Adottarono l’abitudine dei suoi colleghi sovietici, che quando si doveva parlare di qualcosa di politicamente poco ortodosso, sentivano l’urgente necessità di una passeggiata corroborante. Di quando in quando, lui si arrestava e si chinava su di lei. Ogni volta, Ellie lo prendeva sottobraccio e proseguivano il cammino. Lui ascoltava in maniera comprensiva, intelligente, generosa: specialmente per qualcuno le cui dottrine dovevano essere attaccate alla base dal suo racconto… ammesso che vi desse credito. Dopo tutta la sua riluttanza all’epoca in cui era stato ricevuto il Messaggio, finalmente Ellie gli stava mostrando l’Argus. Joss era socievole ed Ellie era contenta di averlo rivisto. Avrebbe voluto esser stata meno preoccupata quando l’aveva incontrato l’ultima volta a Washington. Apparentemente per caso, essi salirono la stretta scala esterna di metallo che scavalcava la base del Telescopio 49. Lo spettacolo di 130 radiotelescopi — la maggior parte dei quali scivolavano sui loro binari — era unico sulla Terra. Nell’alloggiamento per le apparecchiature elettroniche, Ellie fece scorrere il pannello e ricuperò una busta voluminosa che recava il nome di Joss. Egli l’infilò nella tasca interna della giacca, dove provocò un visibile rigonfiamento.

Ellie gli parlò dei programmi di osservazione di Sag A e Cyg A. Gli raccontò del suo programma di computer.

«Porta via un sacco di tempo, anche con il Cray, calcolare il pi greco arrivando a qualcosa come a dieci alla ventesima potenza. E non sappiamo se quello che stiamo cercando si trovi nel pi. In un certo modo hanno detto che non si trattava del pi greco. Potrebbe essere la lettera e. Potrebbe essere uno della famiglia dei numeri trascendenti di cui hanno parlato a Vaygay. Potrebbe essere un numero completamente diverso. Perciò, una semplice approssimazione terra terra — il calcolo dei soliti numeri trascendenti all’infinito — è una perdita di tempo. Ma qui all’Argus abbiamo sofisticatissimi algoritmi per la decifrazione, progettati per trovare schemi regolari in un segnale, progettati per evidenziare e visualizzare tutto ciò che appare non casuale. Così ho riscritto i programmi…»

Dall’espressione del volto di Joss, Ellie temeva di non essere stata chiara. Fece una piccola digressione nel suo monologo. «… ma non per calcolare le cifre in un numero come pi greco, stamparle e presentarle per un controllo. Non c’è abbastanza tempo per un’operazione simile. Invece, il programma va via veloce tra le cifre del pi e indugia per pause di riflessione quando c’è una qualche sequenza anomala di zeri e di unità. Capisce quello che sto dicendo? Qualcosa di non casuale. Per caso, ci saranno alcuni zeri e alcune unità, naturalmente. Il dieci per cento delle cifre sarà costituito da zeri, e un altro dieci per cento da unità. In media. Più cifre passeremo velocemente in rassegna, più lunghe saranno le sequenze di puri zeri e unità che potremmo ottenere per caso. Il programma sa quello che ci si aspetta statisticamente e fa attenzione soltanto a sequenze inaspettatamente lunghe di zeri e di unità. E non guarda soltanto in base dieci.»

«Non capisco. Se lei considera una quantità sufficiente di numeri casuali, non otterrà ogni schema che vuole, semplicemente per caso?»

«Certo, ma se ne può calcolare la probabilità. Se si ottiene un messaggio molto complesso molto presto, si sa che non può essere casuale. Quindi, ogni giorno nelle prime ore del mattino il computer lavora su questo problema. Non vi entra nessun dato proveniente dal mondo esterno. E finora nessun dato proveniente dal mondo interno ne viene fuori. Il computer sorvola l’espansione di serie ottimale per il pi greco e tiene d’occhio il susseguirsi delle cifre. Pensa agli affari suoi. Se non trova qualcosa, parla solo se interrogato. E come se stesse contemplandosi l’ombelico.»

«Non sono un matematico, per Dio. Non potrebbe farmi un esempio?»

«Certamente.» Ellie cercò invano nelle tasche della sua tuta un pezzo di carta. Pensò di infilargli la mano nella tasca interna della giacca per riprendere la busta che gli aveva appena dato e scriverci sopra, ma decise che era troppo rischioso lì all’aperto. Dopo un attimo, lui capì e tirò fuori un piccolo blocco a spirale. «Grazie. Pi greco comincia con 3,1415926… Può vedere che le cifre variano abbastanza a caso. Okay, un uno appare due volte nelle prime quattro cifre, ma continuando a procedere per un po’ si può calcolare la media. Ogni cifra — 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7,8,9 — appare quasi esattamente il dieci per cento delle volte quando si siano accumulate abbastanza cifre. Casualmente, si ottengono alcune cifre consecutive uguali — 4444, per esempio — ma non di più di quanto ci si potrebbe aspettare statisticamente. Ora, supponiamo di scorrere queste cifre e di trovare all’improvviso solo dei quattro. Centinaia di quattro, tutti in fila. La cosa potrebbe non portare con sé nessuna informazione, ma potrebbe anche non essere un caso statistico. Si potrebbero calcolare le cifre del pi greco per l’età dell’universo e, se le cifre si susseguono a caso, non si riuscirebbe mai ad andare così a fondo da ottenere un centinaio di quattro consecutivi.»

«E’ come la ricerca che lei ha fatto per il Messaggio. Con questi radiotelescopi.»

«Sì; in entrambi i casi cercavamo un segnale che è ben al di fuori del rumore, qualcosa che non può essere solo un caso statistico.»

«Ma non deve essere obbligatoriamente un centinaio di quattro, vero? Potrebbe parlarci?»

«Sicuro. Immagini che dopo un po’ si ottenga una lunga sequenza di soli zeri e unità. Allora, proprio come abbiamo fatto con il Messaggio, potremmo tirar fuori un film, se ce n’è uno all’interno. Capisce, potrebbe trattarsi di qualsiasi cosa.»

«Vuoi dire che si potrebbe decodificare un film nascosto nel pi greco e vedervi un groviglio di lettere ebraiche?»

«Proprio così. Grandi lettere nere, scolpite nella pietra.» Joss la guardava con aria interrogativa. «Mi perdoni, Eleanor, ma non crede di essere un po’ troppo-indiretta? Non appartiene a un ordine silenzioso di monache buddiste. Perché non racconta semplicemente la sua storia?»

«Palmer, se avessi una prova certa, parlerei. Ma se non ne ho nessuna, gente come Kitz direbbe che sto mentendo. O che sono vittima di allucinazioni. Ecco perché quel manoscritto si trova nella sua tasca interna. Lo sigillerà, lo daterà, lo legalizzerà e lo metterà in una cassetta di sicurezza. Se mi accadrà qualcosa, lei lo può consegnare al mondo. Le concedo la piena autorità di farne ciò che vuole.»

«E se non le accadrà nulla?»

«Se non mi accadrà nulla? Allora, una volta trovato quello che stiamo cercando, quel manoscritto confermerà la nostra storia. Se troviamo la prova di un doppio buco nero al centro della Galassia, o di qualche enorme costruzione artificiale nel Cygnus A, o un messaggio celato all’interno del pi greco, questo» — gli battè leggermente sul petto — «sarà la mia prova. Allora parlerò… Intanto, non lo perda.»

«Io ancora non capisco,» confessò lui. «Sappiamo che c’è un ordine matematico nell’universo. La legge di gravita e tutto il resto. Come può essere diverso questo? Così c’è un ordine all’interno delle cifre del pi greco. E con ciò?»

«No, non vede? Questo sarebbe diverso. Questo non sta soltanto dando il via all’universo con alcune precise leggi matematiche che determinano la fisica e la chimica. Questo è un messaggio. Chiunque sia a fare l’universo, nasconde messaggi nei numeri trascendenti in modo che saranno letti bilioni di anni dopo quando finalmente si sarà evoluta una vita intelligente. Criticavo lei e Rankin la prima volta che ci siamo incontrati per non capire ciò. ‘Se Dio voleva che sapessimo della sua esistenza, perché non ci ha mandato un messaggio chiaro?’ Vi chiesi. Ricorda?»

«Lo ricordo molto bene. Lei pensa che Dio sia un matematico.»

«Qualcosa del genere. Se è vero quello che ci è stato detto. Se non è un’impresa sbagliata, vana. Se c’è un messaggio nascosto nel pi greco e non uno degli infiniti altri numeri trascendenti. Ci sono tanti se.»

«Sta cercando la Rivelazione nella matematica. Io conosco un modo migliore.»

«Palmer, questo è l’unico modo. Questa è la sola cosa che convincerebbe uno scettico. Immagini che troviamo qualcosa. Non deve essere tremendamente complicato. Solo qualcosa di più ordinato di quanto accumuli per caso tante cifre nel pi greco. E tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Allora i matematici di tutto il mondo possono trovare esattamente lo stesso schema o messaggio o qualunque cosa sia. Allora non ci sono divisioni settarie. Tutti cominciano a leggere la stessa Scrittura. Nessuno potrebbe allora sostenere che il miracolo chiave della religione fosse il trucco di un prestigiatore, o che storici posteriori abbiano falsificato la documentazione, o che si tratti soltanto di isteria o di allucinazioni o di un genitore sostituto per quando diventiamo adulti. Tutti potrebbero essere credenti.»

«Non può essere sicura di trovare qualcosa. Si può nascondere qui e far calcoli per sempre. O può uscire e raccontare la sua storia al mondo. Prima o poi sarà costretta a scegliere.»

«Spero di non dover scegliere, Palmer. Prima la prova fisica, poi le dichiarazioni pubbliche. Altrimenti… Non vede come saremmo vulnerabili? Non mi riferisco a me stessa, ma…» Joss scosse il capo quasi impercettibilmente. C’era l’ombra di un sorriso agli angoli della sua bocca. Aveva scoperto una certa ironia nelle circostanze in cui si trovavano.

«Perché è così impaziente che racconti la mia storia?» chiese Ellie. Forse lui la prese per una domanda retorica. A ogni modo, non rispose e lei proseguì.

«Non pensa che ci sia stato uno strano… rovesciamento delle nostre posizioni? Eccomi qua, portatrice di una profonda esperienza religiosa che non posso dimostrare… davvero, Palmer, posso a malapena spiegarla. E lei invece, lo scettico incallito che cerca — assai meglio di quanto abbia mai fatto io — di essere gentile con la credulona.»

«Oh no, Eleanor,» disse Joss, «non sono uno scettico. Sono un credente.»

«Davvero? La storia che ho da raccontare non tratta esattamente di Castigo e Ricompensa. Non è proprio una storia di Avvento e di Estasi. Non c’è una parola su Gesù. Una parte del mio messaggio dice che non siamo al centro degli intenti del Cosmo. Quello che è accaduto a me ci fa sembrare tutti piccolissimi.»

«Sì, è vero. Ma rende anche Dio grandissimo.» Ellie lo guardò per un attimo e proseguì.

«La Terra gira attorno al Sole, ma, come lei sa, un tempo i poteri di questo mondo — i poteri religiosi, i poteri secolari — pretendevano che la Terra non si muovesse affatto. Era della massima importanza essere potenti. O almeno dare a vedere di esserlo. E la verità li fece sentire troppo piccoli. La verità li spaventò; indeboliva il loro potere. Così la soppressero. Quelle persone trovarono la verità pericolosa. E sicuro di sapere cosa comporti il credermi?»

«Ho indagato, Eleanor. Dopo tutti questi anni, mi creda, riconoscosco la verità quando la vedo. Ogni fede che ammira la verità, che si sforza di conoscere Dio, deve avere abbastanza coraggio per accettare l’universo. Voglio dire il vero universo. Tutti quegli anni luce. Tutti quei mondi. Penso alla portata del tuo universo, alle opportunità che esso offre al Creatore e resto senza fiato. E molto meglio che imbottigliarLo in un unico piccolo mondo. Non mi è mai piaciuta l’idea della Terra intesa come poggiapiedi di Dio. Era troppo rassicurante, come una storia per bambini… come un tranquillante. Ma il suo universo possiede abbastanza spazio e tempo per la sorta di Dio in cui io credo. Io dico che lei non ha bisogno di nessun’altra prova. Ci sono già prove a sufficienza. Cygnus A e tutto il resto sono solo per gli scienziati. Lei pensa che sarà difficile convincere la gente comune che lei sta dicendo la verità. Io credo che sarà facilissimo. Lei pensa che la sua storia sia troppo particolare, troppo aliena. Ma io l’ho già sentita. La conosco bene. E scommetto che è lo stesso per lei.»

Joss chiuse gli occhi e, dopo un momento, si mise a recitare: «Sognò e scorse una scala appoggiata sulla terra, la cui cima arrivava fino al cielo; e vide gli angeli di Dio che salivano e scendevano i gradini… Certamente il Signore si trova in questo luogo; e non lo sapevo… Questa non è altro che la Casa di Dio, e questo è il cancello del paradiso.»

Si era lasciato un po’ trasportare come se stesse predicando alle folle dal pulpito di una grande cattedrale, e quando riaprì gli occhi lo fece con un piccolo sorriso di scuse. Passeggiavano lungo un grande viale, fiancheggiato da enormi radiotelescopi imbiancati che puntavano verso il cielo, e dopo un momento egli disse in un tono più discorsivo:

«La sua storia è stata predetta. E’ accaduta prima. Da qualche parte dentro di lei, deve averla saputa. Nessuno dei suoi dettagli si trova nel Libro della Genesi. Naturalmente no. Come sarebbe possibile? Il racconto della Genesi andava bene per l’epoca di Giacobbe. Proprio come la sua testimonianza è adatta a quest’epoca, alla nostra epoca. La gente le crederà, Eleanor. Milioni di persone. In tutto il mondo. Lo so per certo…»

Lei scosse il capo, e passeggiarono per un altro po’ in silenzio prima che lui proseguisse.

«Benissimo, allora. Capisco. Lei si prende tutto il tempo di cui ha bisogno. Ma se c’è un modo per affrettare la cosa, lo faccia: per me. Manca meno di un anno al nuovo millennio.»

«Capisco anch’io. Abbia pazienza con me ancora alcuni mesi. Se non avremo trovato qualcosa nel pi greco per allora, renderò noto ciò che è accaduto lassù. Prima dell’inizio di gennaio. Forse anche Eda e gli altri sarebbero disposti a parlare. Okay?» Ritornarono indietro in silenzio, dirigendosi verso l’edificio che ospitava l’amministrazione dell’Argus. L’impianto di irrigazione stava innaffiando il misero prato ed essi girarono attorno a una pozzanghera che, su quel terreno riarso, sembrava aliena, fuori posto.

«Non è mai stata sposata?» chiese Joss.

«No, mai. Suppongo di essere stata troppo occupata.»

«Mai stata innamorata?» la domanda era diretta, prosaica.

«In modo incompleto, cinque o sei volte. Ma» — Ellie lanciò un’occhiata al più vicino telescopio — «c’era sempre tanto rumore, il segnale era difficile da trovare. E lei?»

«Mai,» rispose recisamente. Ci fu una pausa, e poi aggiunse con un debole sorriso, «ma ho fede.»

Ellie decise di non indagare oltre e salirono le brevi rampe di scale per esaminare l’unità centrale di elaborazione dell’Argus.

24 LA FIRMA DELL’ARTISTA

«Badate, vi dico un mistero; non dormiremo tutti, ma saremo tutti mutati.»

«Lettera ai Corinzi», 15, 51

«L’universo sembra… esser stato determinato e ordinato secondo il numero dalla previdenza e dalla mente del creatore di tutte le cose; poiché lo schema era stato fissato, come un abbozzo preliminare, dalla supremazia del numero preesistente nella mente del Dio creatore del mondo.»

NICOMACO DI GERASA, Aritmetica, 1,6

Ellie salì di corsa le scale della casa di cura e sulla veranda da poco ridipinta di verde e occupata da sedie a dondolo vuote disposte a intervalli regolari, vide John Staughton: curvo, immobile, con le braccia ciondoloni. Nella mano destra stringeva una borsa della spesa in cui Ellie potè vedere una cuffia trasparente per la doccia, un beauty-case a fiori, e due pantofole adorne di fiocchi rosa. «Se ne è andata,» disse lui, mentre il suo sguardo si staccava dal vuoto. «Non andare,» la pregò. «Non andare a vederla. Non avrebbe voluto farsi vedere da te in quello stato. Sai quanto ci teneva al suo aspetto. Comunque, non è lì.»

Quasi istintivamente, per una lunga abitudine e per una serie di risentimenti non ancora cancellati, Ellie fu tentata di voltarsi e di entrare lo stesso. Era preparata, persino adesso, e sfidarlo per una questione di principio? Che cos’era il principio, esattamente? Dal suo volto disfatto non si poteva dubitare dell’autenticità del suo rimorso. Aveva amato sua madre. Forse, Ellie pensò, l’aveva amata più di lei e un senso straziante di colpa la sopraffece. Sua madre era stata in condizioni disperate così a lungo che Ellie aveva provato molte volte la scena di come avrebbe reagito quando fosse giunto il momento fatale. Ricordò com’era stata bella sua madre nella foto che Staughton le aveva mandato e all’improvviso, nonostante le sue prove di quel momento, fu travolta dai singhiozzi. Allarmato dalla sua pena, Staughton le si accostò per confortarla. Ma lei tese una mano, e con un visibile sforzo riacquistò il controllo di sé. Persino in quel momento, non riusciva a lasciarsi andare ad abbracciarlo. Erano estranei, legati tenuemente da un cadavere. Ma aveva avuto torto — lo sapeva nel profondo del suo essere — ad aver ritenuto Staughton in certo qual modo responsabile della morte di suo padre.

«Ho qualcosa per te,» disse lui mentre frugava nella borsa. Tra le cose rimescolate, Ellie riuscì a vedere un borsellino di finta pelle e un portadentiera di plastica. Fu costretta a distogliere lo sguardo. Finalmente lui si raddrizzò, stringendo una busta sgualcita. «Per Eleanor,» c’era scritto. Riconoscendo la scrittura di sua madre, Ellie si mosse per afferrarla. Staughton fece un passo indietro allarmato, sollevando la busta all’altezza del viso come se lei stesse per percuoterlo.

«Aspetta,» egli disse. «Aspetta. So che non siamo mai andati d’accordo. Ma fammi questo unico favore: non leggere la lettera fino a stanotte. D’accordo?»

Nel suo dolore, sembrava dieci anni più vecchio. «Perché?» lei chiese.

«La tua domanda preferita. Fammi solo quest’unica cortesia. E chiedere troppo?»

«Hai ragione,» lei disse. «Non è chiedere troppo. Mi dispiace.» Lui la fissò direttamente negli occhi.

«Qualunque cosa ti sia capitata in quella Macchina,» egli disse, «forse ti ha cambiato.»

«Spero di sì, John.»

Ellie telefonò a Joss e gli chiese se volesse celebrare il servizio funebre. «Non ho bisogno di dirle che non sono religiosa. Ma a volte mia madre lo era. Lei è l’unica persona cui possa pensare per un compito del genere e sono sicura che il mio patrigno approverà.» Sarebbe arrivato con il prossimo volo, l’assicurò Joss. Nella sua stanza d’albergo, dopo aver cenato presto, Ellie toccò la busta, accarezzando ogni piega. Era vecchia. Sua madre doveva averne scritto il contenuto anni prima, portandosela dietro in qualche scomparto della sua borsetta, incerta se consegnarla a Ellie. Non sembrava richiusa di recente, ed Ellie si chiese se Staughton l’avesse letta. Una parte di lei ardeva dalla voglia di aprirla, un’altra invece esitava per una sorta di presentimento. Sedette a lungo nella poltrona polverosa pensando, con le ginocchia avvicinate al mento. Suonò un campanello e il carrello non proprio silenzioso del suo telefax entrò in funzione. Era collegato al computer dell’Ar-gus. Benché le facesse venire in mente i vecchi giorni, non c’era nessuna vera urgenza. Qualsiasi cosa il computer avesse trovato sarebbe rimasta là; il pi greco non sarebbe tramontato mentre la Terra girava. Se c’era un messaggio celato all’interno del pi, l’avrebbe aspettata. Ellie esaminò di nuovo la busta, ma l’eco del campanello si intromise. Se c’era un contenuto all’interno di un numero trascendente, avrebbe potuto soltanto essere incorporato nella geometria dell’universo fin dall’inizio. Questo suo nuovo progetto rientrava nella teologia sperimentale. Ma è pur sempre scienza, pensò.

«RESTARE ALL’APPARECCHIO,» fece apparire il computer sullo schermo del suo telefax.

Pensò a suo padre… beh, al simulacro di suo padre… ai Guardiani con la loro rete di tunnel attraverso la Galassia. Avevano osservato e forse influenzato l’origine e lo sviluppo della vita su milioni di mondi. Stavano costruendo galassie, separando parti dell’universo. Potevano almeno controllare un tipo limitato di viaggio temporale. Erano dei al di là delle pie fantasie di quasi tutte le religioni: di tutte le religioni occidentali, a ogni modo. Ma anch’essi avevano le loro limitazioni. Non avevano costruito i tunnel e non erano in grado di farlo. Non avevano inserito il messaggio nei numeri trascendenti, e non potevano neppure leggerlo. I costruttori dei tunnel e gli inseritori del pi greco erano altri. Non vivevano più là. Erano partiti senza lasciare l’indirizzo. Quando i costruttori dei tunnel se ne erano andati, quelli che alla fine sarebbero stati i Guardiani, erano diventati bambini abbandonati. Come lei, come lei.

Pensò all’ipotesi di Eda che i tunnel fossero buchi di verme, distribuiti a convenienti intervalli attorno a innumerevoli stelle in questa e in altre galassie. Assomigliavano ai buchi neri, ma avevano diverse caratteristiche e diverse origini. Erano non proprio senza massa, perché lei li aveva visti lasciare scie gravitazionali nei detriti orbitanti del sistema di Vega. E, servendosi di essi, esseri e astronavi di molti tipi attraversavano la Galassia da un punto all’altro. Buchi di verme. Nel gergo rivelatore della fisica teorica, l’universo era la loro mela e qualcuno vi aveva scavato delle gallerie, perforando l’interno con cunicoli che passavano per il torsolo. Per un bacillo che vivesse sulla superficie era un miracolo. Ma un essere che si trovasse all’esterno della mela poteva essere meno impressionato. Da quel punto di vista, i costruttori dei tunnel erano soltanto una seccatura. Ma se i costruttori dei tunnel sono vermi, pensò Ellie, chi siamo noi?

Il computer dell’Argus aveva studiato a fondo il contenuto del pi greco, più a fondo di quanto lo avessero mai studiato sulla Terra creature umane o macchine, ma non così a fondo come avevano fatto i Guardiani. Secondo Ellie era troppo presto perché si potesse trattare del messaggio a lungo indecifrato di cui le aveva parlato Theodor Arroway sulla riva di quel mare che non compariva su nessuna carta geografica. Forse si trattava soltanto di uno stimolo ad accelerare, di un’anteprima di imminenti attrazioni, di un incoraggiamento a ulteriori esplorazioni, di un segno per impedire agli uomini di scoraggiarsi. Qualunque cosa fosse, non doveva assolutamente essere il messaggio con cui erano alle prese i Guardiani. Forse c’erano messaggi facili e messaggi difficili, racchiusi nei vari numeri trascendenti, e il computer dell’Argus aveva trovato il più facile. Con un certo aiuto. Alla Stazione Ellie aveva appreso una sorta di umiltà, aveva ricevuto un promemoria sul ben modesto grado di conoscenza degli abitanti della Terra. A parere di Ellie, ci potevano essere tante categorie di esseri più avanzati degli uomini quante ne esistono fra noi e le formiche, o forse addirittura tra noi e i bacilli. Ma la cosa non l’aveva depressa. Più che una disincantata rassegnazione, aveva fatto nascere in lei un crescente senso di meraviglia. Si poteva aspirare a cose ben più grandi, adesso.

Era come il passo dalla scuola superiore al college, da qualcosa di una certa facilità alla necessità di fare uno sforzo prolungato e disciplinato per capire. Alla scuola superiore Ellie aveva superato quasi tutti in velocità di comprensione. Al college aveva scoperto che molti erano più veloci di lei. C’era stato lo stesso senso di crescente difficoltà e di sfida quando entrò alla scuola di perfezionamento, e quando divenne un astronomo professionista. A ogni stadio Ellie aveva trovato scienziati più istruiti di lei, e ogni stadio era stato più eccitante del precedente. Lasciamo che le rivelazioni arrivino, pensò, guardando il telefax. Era pronta. «PROBLEMA DI TRASMISSIONE. S/N. PREGO RESTARE ALL’APPARECCHIO.»

Era collegata al computer dell’Argus da un satellite per telecomunicazioni chiamato «Defcom Alpha». Forse c’era stato un problema di controllo di assetto, o un pasticcio di programmazione. Prima di poterci pensare ancora su, quasi senza accorger-sene aveva aperto la busta.

ARROWAY FERRAMENTA, diceva l’intestazione, e quasi certamente i caratteri tipografici erano quelli della carta da lettere «Old Royal» che suo padre teneva a casa per la corrispondenza commerciale e personale. «13 giugno 1964» era scritto a macchina nell’angolo superiore destro. Lei era una quindicenne, a quel tempo. Non poteva averla scritta suo padre, che era già morto da anni. Un’occhiata in fondo alla pagina confermò che si trattava di sua madre Mia cara Ellie, Ora che sono morta, spero che tu possa trovare nel tuo cuore la volontà di perdonarmi. So di aver commesso una grave colpa nei tuoi confronti, e non solo nei tuoi. Non potevo tollerare l’idea di quanto mi avresti odiata se avessi saputo la verità. Ecco perché non ho avuto il coraggio di rivelartela quand’ero in vita. So quanto hai amato Ted Arroway, e voglio che tu sappia che l’ho amato anch’io. E lo amo ancora. Ma non era il tuo vero padre. Il tuo vero padre è John Staughton. Ho fatto qualcosa di sbagliatissimo. Non avrei dovuto e sono stata debole, ma se non lo avessi fatto, tu non saresti al mondo, perciò ti prego di pensare a me con affetto. Ted lo sapeva e mi aveva concesso il suo perdono e decidemmo insieme che non te lo avremmo mai detto. Ma guardo fuori dalla finestra proprio in questo momento e ti vedo nel cortile dietro casa. Te ne stai seduta là pensando alle stelle e a cose che non potrei mai capire e sono così fiera di te. Tu dai così importanza alla verità che ho pensato fosse giusto che dovessi conoscere questa verità sul tuo conto. La tua origine, intendo dire.

Se John sarà ancora vivo, allora sarà lui che ti avrà consegnato questa lettera. So che lo farà. E’ un uomo migliore di quanto tu non creda, Ellie. Sono stata fortunata ad averlo ritrovato. Forse tu lo odi tanto perché nel tuo intimo presagivi la verità. Ma in realtà lo detesti perché non è Theodore Arroway. Lo so.

Sei ancora seduta là fuori. Non ti sei mossa da quando ho cominciato questa lettera. Sei assorta nei tuoi pensieri. Spero e prego che tu possa trovare quello che vai cercando. Perdonami. Sono stata solo un essere umano. Con amore, la tua mamma Ellie aveva assimilato la lettera d’un fiato e la rilesse immediatamente. Respirava con difficoltà. Aveva le mani fredde e sudaticce. L’impostore si era rivelato esattamente l’opposto. Per la maggior parte della sua vita, lei aveva respinto il proprio padre, senza la più vaga idea di ciò che stava facendo. Che forza di carattere aveva dimostrato John durante tutte quelle esplosioni adolescenziali, quando lei gli rinfacciava di non essere suo padre, di non avere nessun diritto di dirle quello che doveva fare. Il telefax squillò di nuovo, due volte. Stava ora invitandola a premere il tasto RITORNO. Ma non aveva voglia di farlo. Avrebbe dovuto attendere. Pensava a suo pa… a Theodore Arroway, a John Staughton e a sua madre. Avevano sacrificato molto per lei, e lei, nel suo chiuso egoismo, non se ne era nemmeno accorta. Avrebbe voluto che Palmer fosse lì con lei.

Il telefax squillò ancora una volta e il carrello tentò di muoversi, sperimentalmente. Ellie aveva programmato il computer a essere ostinato, persino un po’ innovativo, nell’attrarre la sua attenzione se pensava di aver trovato qualcosa nel pi greco. Ma era troppo occupata nello sviscerare e nel ricostruire la mitologia della sua vita. Sua madre era seduta alla scrivania della grande camera da letto in cima alle scale e guardava fuori dalla finestra mentre pensava a quello che doveva scrivere e il suo sguardo si era posato su Ellie quindicenne, sgradevole, piena di risentimento, ribelle. Sua madre le aveva fatto un altro regalo. Con quella lettera, Ellie era ritornata indietro e si era rivista com’era in quegli anni lontani. Aveva imparato tanto da allora. Ma c’era ancora tanto da imparare. Sul tavolo su cui si trovava il ronzante telefax c’era uno specchio. In esso vide una donna di mezza età, né giovane né vecchia, né madre né figlia. Avevano avuto ragione a tenerle celata la verità. Non era abbastanza avanzata per ricevere quel segnale, tanto meno per decifrarlo. Aveva dedicato la sua carriera al tentativo di mettersi in contatto con i più remoti e alieni degli stranieri, mentre nella sua vita privata era riuscita a malapena a mettersi in contatto con qualcuno. Era stata accanita nello smontare i miti della creazione degli altri, e inconsapevole della menzogna che si trovava alla base del suo. Aveva studiato l’universo per tutta la vita, ma aveva trascurato il messaggio più chiaro: per creature piccole come noi, l’immensità è sopportabile solamente con l’amore. Il computer dell’Argus era così ostinato e inventivo nei suoi tentativi di contattare Eleanor Arroway che quasi suggeriva un urgente bisogno personale di dividere con qualcuno la sua scoperta. L’anomalia si manifestava con maggiore evidenza nell’aritmetica a base 11, dove poteva essere trascritta interamente come zeri e unità. Confrontato con quello che era stato ricevuto da Vega, questo poteva essere al massimo un messaggio semplice, ma la sua rilevanza statistica era notevole. Il programma riuniva le cifre in un percorso di scansione quadrato, una quantità uguale da un capo all’altro e sotto. La prima riga era una fila ininterrotta di zeri, da sinistra a destra. La seconda riga mostrava un solo uno, esattamente al centro, con zeri ai lati, a sinistra e a destra. Dopo alcune altre righe, si era formato un inequivocabile arco, composto di unità. La semplice figura geometrica era stata costruita rapidamente, riga per riga, autoriflessiva, ricca di promesse. Emerse l’ultima riga della figura, tutti zeri tranne un solitario uno al centro. La linea susseguente era soltanto di zeri, parte della comice.

Celato negli schemi che si alternavano di cifre, profondamente all’interno del numero trascendente, c’era un cerchio perfetto, dalla forma tracciata da unità in un campo di zeri. L’universo era stato creato intenzionalmente, diceva il cerchio. In qualunque galassia ci si trovi, si prende la circonferenza di un cerchio, la si divide per il suo diametro, si fa un calcolo abbastanza accurato e si scopre un miracolo: un altro cerchio, disegnato chilometri più in giù della virgola decimale. Proseguendo, ci sarebbero stati messaggi più ricchi. Non importa l’aspetto che si ha, o di che cosa si è fatti o da dove si proviene. Finché si vive in questo universo, e si possiede un modesto talento per la matematica, prima o poi la si troverà. E già qui. E all’interno di tutto. Non si è obbligati a lasciare il proprio pianeta per trovarla. Nella struttura dello spazio e nella natura della materia, come in una grande opera d’arte, c’è, scrìtta in piccolo, la firma dell’artista. Sopravanzando gli uomini, gli dei e i demoni, includendo 1 Guardiani i Costruttori dei tunnel, c’è un’intelligenza che precede l’universo.

Il cerchio si era chiuso.

Ellie aveva trovato ciò che era andata cercando.

NOTA DELL’AUTORE

Benché sia stato naturalmente influenzato da quelli che conosco, nessuno dei personaggi del mio romanzo rappresenta un ritratto fedele di qualcuno realmente esistente. Tuttavia, il mio libro deve molto alla comunità mondiale SETI, un gruppetto di scienziati di ogni angolo del nostro piccolo pianeta che lavorano insieme, talvolta costretti a fronteggiare ostacoli scoraggianti, in attesa di sentire un segnale dai cicli. Vorrei rivolgere un ringraziamento speciale ai pionieri di SETI, Frank Drake, Philip Morrison e allo scomparso I.S. Shklovskii. La ricerca di intelligenze extraterrestri sta ora entrando in una nuova fase, con due programmi importanti in corso, l’esame META/Sentinel con otto milioni di canali all’Università di Harvard, sponsorizzato dalla Società Planetaria che ha sede a Pasadena, e un programma ancora più elaborato sotto gli auspici della NASA. La mia speranza più viva è che questo mio libro sia reso obsoleto dal ritmo della vera scoperta scientifica. Parecchi amici e colleghi sono stati tanto gentili da leggere la prima stesura e/o di formulare dettagliati commenti che hanno influenzato la presente forma del libro. Sono profondamente grato, tra gli altri, a Frank Drake, Pearl Druyan, Lester Grinspoon, Irving Gruber, Jon Lomberg, Philip Morrison, Nancy Palmer, Will Provine, Stuart Shapiro, Steven Soter e Kip Thorne. Il pro-fessor Thorne si è preso la briga di considerare il sistema di trasporto galattico descritto nella terza parte di Contati, tracciando cinquanta righe di equazioni nel campo della fisica gravitazionale. Ùtili consigli e suggerimenti circa il contenuto o lo stile mi sono venuti da Scott Meredith, Michael Korda, John Herman, Gregory Weber, Clifton Fadiman e dallo scomparso Theodore Sturgeon. Nei vari stadi della preparazione di questo libro, Shirley Arden ha lavorato a lungo e in maniera perfetta; sono molto riconoscente a lei e a Kel Arden. Ringrazio Joshua Lederberg per avermi suggerito per primo molti anni fa e forse per gioco che un’alta forma di intelligenza potrebbe vivere al centro della Galassia. L’idea ha degli antecedenti, come ne hanno tutte le idee, e qualcosa di simile sembra esser stato immaginato attorno al 1750 da Thomas Wright, il primo a dire esplicitamente che la Galassia potesse avere un centro.

Contact è l’ampliamento di un trattamento per un film scritto da me e da Ann Druyan nel 1980-81. Lynda Obst e Gentry Lee resero facile quella prima fase. A ogni stadio della stesura di questo romanzo sono stato aiutato moltissimo da Ann Druyan, dalla primissima concettualizzazione della trama e dei personaggi principali fino alla stampa definitiva. Ciò che ho appreso da lei è quanto ho di più caro della composizione del mio libro.

1985

FINE

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