PRIMA PARTE IL MESSAGGIO

«Il mio cuore trema come una povera foglia.

I pianeti turbinano nei miei sogni.

Le stelle si affollano alla mia finestra.

Volteggio nel sonno.

Il mio letto è un caldo pianeta.»

MARVIN MERCER, PS. 153 Fifth Grade Harlem New York City, N.Y. (1981)

1 NUMERI TRASCENDENTI

«Piccola farfalla, i tuoi giochi d’estate la mia disattenta mano ha cancellato.

Non sono io una farfalla come te?

Né sei tu un uomo come me?

Giacché io danzo e bevo e canto, finché una cieca mano cancellerà il mio volare.»

WILLIAM BLAKE, Canti dell’esperienza, «La farfalla», stanze 1–3 (1795)


Secondo il punto di vista umano, non poteva assolutamente trattarsi di qualcosa di artificiale, visto che aveva le dimensioni dì un mondo. Ma era conformato in maniera così strana e complicata, progettato in maniera così palese per un fine complesso che avrebbe potuto essere soltanto l’espressione di un’idea. Percorrendo un’orbita polare attorno alla grande stella azzurrina, somigliava a un immenso, imperfetto poliedro, incrostato di milioni di antenne paraboliche. Ogni paraboloide era puntato in direzione di un particolare settore del cielo. Veniva tenuta sotto controllo ogni costellazione. Il mondo poliedriforme stava compiendo la sua enigmatica funzione da eoni. Era assai paziente. Poteva permettersi di attendere per l’eternità.

Quando la tirarono fuori, non piangeva affatto. La sua minuscola fronte era corrugata, e poi i suoi occhi si spalancarono. Guardò le luci vivide, le figure vestite di bianco e di verde, la donna sdraiata sul tavolo ginecologico sotto di lei. Venne avvolta da suoni in certo modo familiari. Sul suo faccino era apparsa un’espressione bizzarra per una neonata, di perplessità forse.

Quando aveva due anni, era solita alzare le manine sul capo e dire con grande dolcezza: «Papa, su.» Gli amici di suo padre manifestarono sorpresa. La piccola era educata. «Non si tratta di educazione,» suo padre disse loro. «Aveva l’abitudine di strillare quando voleva essere presa su. Così una volta le ho detto: ‘Ellie, non hai bisogno di urlare; è sufficiente che tu dica: Paparino, su’. I bambini sono svegli. Non è vero, tesoro?» Così adesso se ne stava lassù perfettamente a proprio agio, a un’altezza vertiginosa, appollaiata sulle spalle del padre, aggrappandosi ai suoi capelli che andavano diradandosi. La vita era migliore lassù, molto più sicura del vagare incerto tra una foresta di gambe. Qualcuno laggiù poteva finire col calpestarvi. Ci si poteva perdere. Aumentava la presa.

Lasciando le scimmie, voltarono un angolo e si imbatterono in un animale pezzato dalle zampe sottili, dal lungo collo, con corte corna sulla testa, che torreggiava su di loro. «I loro colli sono così lunghi che non riescono a emettere suoni,» suo padre disse. Lei provò compassione per quella povera creatura condannata al silenzio, ma nello stesso tempo fu contenta che esistesse e si compiacque che simili meraviglie potessero esser presenti sulla terra. «Avanti, Ellie,» la esortava dolcemente la madre. C’era una cadenza nella voce familiare. «Leggi.» La sorella di sua madre non aveva creduto che Ellie, all’età di tre anni, fosse in grado di leggere. La zia era convinta che le favole fossero state imparate a memoria. Adesso stavano percorrendo State Street in una frizzante giornata di marzo e si erano fermati davanti a una vetrina in cui una pietra color rosso borgogna scintillava alla luce del sole. «Gioielliere», Ellie lesse lentamente, scandendo le sillabe.

Con aria colpevole si infilò nello sgabuzzino. La vecchia radio Motorola si trovava sulla mensola proprio come ricordava. Era molto grande e pesante e, mentre se la stringeva al petto, se la fece quasi cader di mano. Sul retro spiccavano le parole: «Pericolo. Non rimuovere». Ma sapeva che se la spina non fosse stata inserita nella presa non ci sarebbe stato alcun rischio. Con la lingua tra le labbra, rimosse le viti e mise allo scoperto l’interno dell’apparecchio. Come aveva sospettato, non c’erano orchestre di lillipuziani e annunciatori in miniatura che vi consumassero quietamente la loro piccola esistenza in attesa del momento in cui la levetta dell’interruttore sarebbe stata abbassata per dare il via alle trasmissioni. Invece, vi si trovavano dei bei tubi di vetro, che richiamavano un po’ alla mente le lampadine. Alcuni somigliavano alle cupole delle chiese moscovite che aveva visto riprodotte in un libro. I rebbi alle loro basi erano perfettamente progettati per i ricettacoli che li accoglievano. Con il pannello posteriore staccato e l’interruttore abbassato, collegò l’apparecchio a una presa che si trovava sulla parete vicina. Se non l’avesse toccato, se non le fosse andata vicino, come avrebbe potuto farle del male?

Dopo qualche momento, le valvole cominciarono a divenire i incandescenti, ma non si udì alcun suono. La radio era «rotta», ed era stata messa da parte alcuni anni prima per essere sostituita da un modello più moderno. Una valvola non si accendeva. Staccò la spina ed esaminò attentamente il tubo che non voleva funzionare togliendolo dal suo ricettacolo. C’era un pezzette di metallo quadrato all’interno, attaccato a fili sottili. L’elettricità i passa lungo i fili, pensò vagamente. Ma prima deve entrare nella valvola. Uno dei rebbi sembrava storto, e lei riuscì a raddrizzarlo dopo aver armeggiato un po’. Reinserendo la valvola e collegando nuovamente l’apparecchio, fu felicissima di vedere che essa cominciava a risplendere, e fu travolta da un’ondata di scariche statiche. Lanciando sguardi inquieti alla porta chiusa, ebbe i un trasalimento e abbassò il volume. Girò il potenziometro contrassegnato dalla parola «frequenza» e per caso captò una voce che riferiva con eccitazione, per quanto riusciva a capire, di una macchina russa che era in cielo e girava attorno alla Terra senza fine. Senza fine, pensava. Girò di nuovo il potenziometro, alla ricerca di altre stazioni. Dopo un po’, temendo di essere scoperta, disattivò l’apparecchio, avvitò alla buona il pannello posteriore, e i con ancor maggior difficoltà sollevò la radio e la ricollocò sulla sua mensola.

Mentre lasciava lo stanzino, con il fiato un po’ corto, si scontrò con la madre e sobbalzò ancora una volta. «E’ tutto a posto, Ellie?»

«Sì, mammina.»

Ostentava un’aria indifferente, ma aveva il cuore in tumulto e le palme sudaticce. Andò a sedersi nell’angolo preferito del piccolo cortile dietro casa e, con le ginocchia sotto il mento, si mise a pensare all’interno della radio. Tutte quelle valvole erano davvero necessarie? Che cosa sarebbe accaduto se fossero state rimosse una alla volta? Suo padre un giorno le aveva chiamate valvole a vuoto. Che cosa accadeva all’interno di una valvola a vuoto? Non c’era veramente aria là dentro? Come arrivavano nella radio la musica delle orchestre e le voci degli annunciatori? Avevano l’abitudine di dire: «Siamo in onda.» Le trasmissioni radio venivano trasportate da un’onda? Che accade dentro l’apparecchio radio quando si cambia stazione? Che cos’era la «frequenza»? Perché si deve inserire la spina in una presa di corrente per farlo funzionare? Si può tracciare una specie di schema che illustri come l’elettricità circoli per la radio? La si può smontare senza farsi male? Se ne possono rimettere insieme i pezzi?

«Ellie, che cosa stai facendo?» chiese sua madre passandole accanto con il bucato da stendere.

«Niente, mammina. Sto solo pensando.»

Quando aveva dieci anni, durante le vacanze estive, la portarono da due cugini che detestava in un modesto villaggio sulla riva di un laghetto nella penisola settentrionale del Michigan. Perché delle persone che vivevano su un lago del Wisconsin dovessero impiegare cinque ore filate d’auto per recarsi a un lago del Michigan le appariva incomprensibile. Specialmente per vedere due ragazzini insignificanti e infantili, che avevano soltanto dieci e undici anni. Dei veri cretini. Come poteva pretendere suo padre, così sensibile nei suoi confronti sotto altri aspetti, che lei giocasse ogni giorno con due nullità? Trascorse l’estate evitandoli.

In un’afosa notte senza luna, dopo cena, scese da sola al pontile di legno. Un motoscafo era appena passato e la barca a remi di suo zio ormeggiata all’imbarcadero oscillava dolcemente nell’acqua illuminata dalle stelle. A parte le cicale che frinivano in lontananza e un grido quasi subliminale che echeggiava sull’altra riva del lago, tutto era perfettamente tranquillo. Alzò gli occhi al cielo costellato di puntini scintillanti e sentì il suo cuore battere in fretta.

Senza abbassare lo sguardo, soltanto affidandosi alla sua mano distesa, trovò un punto in cui l’erba era particolarmente soffice e vi si sdraiò. Il cielo sfavillava di stelle. Ce n’erano a migliaia, in massima parte lampeggianti; solo alcune possedevano una luce intensa e costante. Se si guardava con attenzione si potevano vedere leggere differenze di colore. Quella splendente lassù non era bluastra? Cercò di nuovo a tastoni il terreno sotto di sé; era solido, fermo… rassicurante. Con circospezione si tirò su e guardò a sinistra e a destra, fissando la lunga distesa del lago, di cui poteva vedere entrambe le rive. Il mondo sembra piatto, pensò tra sé, ma in realtà è rotondo. E’ una grande palla… che gira su se stessa in mezzo al cielo… una volta al giorno. Cercò di immaginarsela nel suo movimento rotatorio, con milioni di persone incollate alla sua superficie, che parlano differenti linguaggi, che indossano buffi abiti, tutte inchiodate alla stessa palla.

Si allungò di nuovo e tentò di percepirne la rotazione. Forse poteva sentirla un pochino. Dall’altra parte del lago una stella splendente occhieggiava tra i rami più alti. Se si tenevano gli occhi socchiusi si potevano far danzare i raggi di luce emanati dall’astro. Abbassando un po’ di più le palpebre, i raggi mutavano docilmente la loro lunghezza e forma. Era soltanto nella sua immaginazione, o… la stella si trovava in quel momento decisamente al di sopra degli alberi. Appena pochi minuti prima stava facendo capolino tra le fronde. Ora si era portata più in alto, non c’era nessun dubbio in proposito. Ecco che cosa si intendeva quando si diceva che una stella stava sorgendo, pensò. La Terra stava girando in senso opposto. A una estremità del cielo le stelle si stavano alzando. Quella direzione veniva chiamata Est. All’altra estremità del cielo, alle sue spalle, al di là dei capanni, le stelle stavano tramontando. Quella direzione veniva chiamata Ovest. Una volta al giorno la Terra compiva un giro completo su se stessa e le stesse stelle sorgevano nuovamente nel medesimo posto.

Ma se qualcosa della grandezza della Terra effettuava una rotazione completa quotidianamente, doveva muoversi in maniera inverosimilmente rapida. Tutti coloro che conosceva dovevano dunque essere trascinati nel moto rotatorio a un’incredibile velocità. In quel momento credette di poter veramente sentire la Terra girare, non solo immaginarlo nella sua testa, ma percepirlo realmente alla bocca dello stomaco. Era come scendere in un veloce ascensore. Allungò ancor di più il collo all’indietro, per sgombrare il suo campo visivo da ogni elemento terrestre, finché non riuscì a scorgere altro che cielo nero e stelle lucenti. Fu colta piacevolmente dalla sensazione vertiginosa che avrebbe fatto meglio ad afferrarsi ai ciuffi d’erba tra cui giaceva e a non lasciare la presa in alcun modo, o altrimenti sarebbe caduta giù nel cielo, e il suo corpo minuscolo sarebbe stato inghiottito dall’enorme sfera oscura. Scoppiò davvero a urlare prima di riuscire a soffocare il suo grido con il polso. Fu così che i suoi cugini furono in grado di trovarla. Scendendo a fatica lungo il pendio, scoprirono sul suo volto un misto insolito di imbarazzo e di sorpresa, che prontamente registrarono, sempre avidi di trovare qualche piccola indiscrezione da riportare e offrire ai suoi genitori.

Il libro era migliore del film. In primo luogo, aveva un contenuto ben più ricco. E alcune delle figure erano molto diverse dalle immagini della pellicola. Ma in entrambi, Pinocchio, un burattino a grandezza naturale che magicamente viene fatto vivere, indossava una sorta di corpetto e sembrava che ci fossero dei perni nelle sue giunture. Quando Geppetto sta ultimando la costruzione di Pinocchio, volta le spalle alla marionetta e viene fatto subito volare da un calcio ben assestato. In quel momento, arriva l’amico del falegname e gli chiede cosa stia facendo lungo disteso sul pavimento. «Sto insegnando l’alfabeto alle formiche,» risponde con dignità Geppetto.

Ciò parve a Ellie estremamente spiritoso e si divertì a raccontarlo ai suoi amici. Ma ogni volta che citava quella frase, c’era una domanda non formulata, al limite della sua coscienza: si potrebbe insegnare l’alfabeto alle formiche? E lo si vorrebbe? Giù in terra con centinaia di insetti indaffarati che potrebbero brulicarvi sulla pelle o persino pungervi? A ogni modo, che cosa potrebbero sapere le formiche? Talvolta si alzava nel cuore della notte per andare in bagno e vi trovava il padre con addosso soltanto i pantaloni del pigiama, il mento sollevato in alto mentre con una sorta di aristocratico disdegno si spalmava la crema da barba sopra il labbro superiore. «Salve, tesoro,» era soluto dire. Le piaceva che la chiamasse così. Perché si radeva di notte, quando nessuno avrebbe saputo se aveva la barba lunga? «Perché,» rispondeva con un sorriso, «tua madre se ne accorgerebbe.» Anni dopo, scoprì di aver capito solo in parte questa allegra conversazione. I suoi genitori erano stati innamorati. Dopo la scuola si era recata in bicicletta a un piccolo parco sul lago. Da una borsa tirò fuori il manuale del radioamatore e Uno Yankee del Connecticut alla corte di Re Artù. Dopo una brevissima riflessione, optò per quest’ultimo. L’eroe di Twain aveva preso un colpo in testa e si era risvegliato nell’Inghilterra di Camelot. Forse era tutto un sogno o un’allucinazione, ma forse era vero. Era possibile viaggiare a ritroso nel tempo? Con il mento sulle ginocchia, si mise a cercare un passo che le piaceva in modo particolare. Era quello in cui il protagonista di Twain viene raccolto per la prima volta da un uomo in armatura che egli scambia per un evaso da un locale manicomio. Quando raggiungono la cima della collina vedono una città che si stende davanti a loro: «‘Bridgeport?’, dissi io… ‘Camelot’, disse lui.»

Fissava il lago azzurro, cercando di immaginare una città che potesse avere nello stesso tempo l’aspetto di Bridgeport nel diciannovesimo secolo e di Camelot nel sesto, quando sua madre la raggiunse trafelata.

«Ti ho cercata dappertutto. Perché non sei mai dove ti posso trovare? Oh, Ellie,» sussurrò, «è accaduto qualcosa di terribile.» In settima stavano studiando il pi-greco. Era una lettera che somigliava all’architettura di Stonehenge in Inghilterra: due pilastri verticali con una lastra orizzontale in cima. Se si misurava la circonferenza di un cerchio e poi la si divideva per il diametro del cerchio, il risultato era il pi-greco. A casa, Ellie prese il coperchio di un vasetto di maionese, lo avvolse con una cordicella, ridistese la cordicella e con una riga misurò la circonferenza del cerchio. Fece lo stesso con il diametro e con una lunga operazione divise il primo numero per l’altro. Ottenne 3,21. Sembrò abbastanza semplice. L’indomani, l’insegnante, signor Weisbrod, disse che il pi-greco era approssimativamente 22:7, ossia 3,1416. Ma in realtà, se si voleva essere esatti, era un decimale che continuava all’infinito senza ripetere la sequenza di numeri. All’infinito, pensava Ellie. Alzò la mano. Era l’inizio dell’anno scolastico e lei in quella classe non aveva fatto ancora nessuna domanda. «Come fa uno a sapere che i decimali proseguono per sempre?»

«Perché è così,» disse l’uomo con una certa asprezza. «Ma perché? Come lo sa? Come è possibile calcolare i decimali illimitatamente?»

«Signorina Arroway,» — stava consultando il suo elenco degli alunni — «questa è una domanda sciocca. Lei sta facendo perdere del tempo alla classe.»

Nessuno aveva mai dato della sciocca a Ellie e lei si ritrovò in lacrime. Billy Horstman, che le sedeva accanto, allungò con delicatezza una mano e la posò sulla sua. Suo padre di recente era stato accusato di alterare i contachilometri delle auto usate che vendeva, così Billy era sensibile alla pubblica umiliazione. Ellie corse fuori dall’aula singhiozzando.

Dopo la scuola, si diresse in bicicletta alla biblioteca del vicino college per sfogliare alcuni testi di matematica. Per quanto poteva capire da ciò che lesse, la sua domanda non era poi così sciocca. Secondo la Bibbia, gli antichi Ebrei avevano apparentemente pensato che il pi-greco fosse esattamente uguale a tre. I Greci e i Romani, che possedevano moltissime nozioni di matematica, non avevano nessuna idea che le cifre nel pi-greco continuassero all’infinito senza ripetersi. Era un fatto che era stato scoperto soltanto circa duecentocinquanta anni prima. Come si poteva pretendere che lei lo sapesse, se non poteva fare delle domande? Ma il signor Weisbrod aveva avuto ragione a proposito delle primissime cifre. Pi-greco non era 3,21. Probabilmente il coperchio della maionese era stato leggermente schiacciato, non era un cerchio perfetto. O forse lei era stata distratta nel misurare la cordicella. Persino se fosse stata molto più attenta, comunque, non potevano aspettarsi che lei calcolasse un infinito numero di decimali.

Tuttavia, c’era un’altra possibilità. Volendo si poteva calcolare il pi-greco abbastanza esattamente. Se si conosceva una cosa chiamata calcolo, si potevano applicare alcune formule che avrebbero consentito di determinare il pi-greco con tutti i decimali per i quali si avesse tempo. Il libro elencava formule per il pi-greco diviso per quattro, alcune delle quali le erano totalmente incomprensibili. Ma ce n’erano alcune che la sbalordivano: il pi-greco/4, il libro sosteneva, equivaleva a 1–1/3+1/5-1/7…, con le frazioni che proseguivano all’infinito. Subito tentò di verificare la cosa, sommando e sottraendo alternativamente le frazioni. Il risultato ora era superiore a pi-greco/4, ora inferiore, ma dopo un po’ si poteva vedere che tale serie di numeri si trovava sulla dirittura dell’esatta soluzione. Non ci si poteva mai arrivare esattamente, ma ci si poteva approssimare a piacere purché si fosse estremamente pazienti. Le sembrava un miracolo che la forma di ogni cerchio al mondo fosse connessa a quella serie di frazioni. Che ne sapevano i cerchi di frazioni? Era intenzionata ad apprendere il calcolo. Il libro diceva qualcos’altro: il pi-greco veniva definito un numero «trascendente». Non c’era nessuna equazione contenente numeri comuni che potesse dare il pi-greco a meno che non fosse infinitamente lunga. Aveva già studiato un po’ di algebra e capì il significato dell’affermazione. E il pi-greco non era il solo numero trascendente. Infatti c’era un’infinità di numeri trascendenti.

Addirittura, c’erano infinitamente più numeri trascendenti che numeri comuni, anche se il pi-greco era l’unico di cui avesse sentito parlare. In più di una maniera, il pi-greco era legato all’infinito. Aveva intravisto qualcosa di maestoso. Celata tra tutti i numeri comuni c’era un’infinità di numeri trascendenti di cui non si sarebbe mai supposta la presenza a meno che non ci si immergesse profondamente nella matematica. Di quando in quando i uno di essi, come il pi-greco, saltava fuori inaspettatamente nella vita di ogni giorno. Ma la maggior parte di essi — una infinita quantità di essi, ricordò a se stessa — se ne stavano nascosti, badando ai fatti loro, quasi certamente mai intravisti dall’irritabile signor Weisbrod. Capì la vera natura di John Staughton fin dal principio. Come sua madre potesse anche solo pensare di sposarlo — tralasciando il fatto che suo padre era morto da appena due anni — era un mistero impenetrabile. Aveva un aspetto abbastanza piacevole e poteva dare a vedere, quando si metteva d’impegno, che si interessava veramente agli altri. Ma era un vero sergente. Durante i fine settimana, faceva venire i suoi studenti per lavori di giardinaggio nella nuova casa in cui si erano trasferiti, e poi rideva di loro dopo che se ne erano andati. Ricordò a Ellie che aveva appena iniziato la scuola superiore e perciò non doveva mettere gli occhi addosso a nessuno dei suoi brillanti giovanotti. Era gonfio di presunzione fasulla. Lei era certa che come professore lui disprezzasse in cuor suo il suo defunto padre, che era stato solamente un negoziante. Staughton aveva dichiarato apertamente che un interesse per la radiofonia e l’elettronica non si addiceva a una ragazza, che non le avrebbe certo fatto trovare un marito, che capire la fisica era per lei un ghiribizzo pazzesco e aberrante. Definiva tutto ciò «pretenzioso». Ellie non ne aveva proprio le capacità, era un fatto oggettivo al quale avrebbe dovuto adattarsi. Glielo diceva per il suo bene. Lo avrebbe ringraziato in futuro. Dopo tutto, era un professore aggiunto di fisica. Sapeva che requisiti ci volevano. Tali prediche la facevano andare sempre su tutte le furie, anche se, nonostante il rifiuto di Staughton a crederlo, fino a quel momento non aveva mai pensato di intraprendere una carriera scientifica.

Non era un uomo gentile, come lo era stato suo padre, e non aveva la benché minima idea di che cosa fosse il senso dell’umorismo. Quando qualcuno credeva che lei fosse la figlia di Staughton, si sentiva offesa. Sua madre e il patrigno non le proposero mai di cambiare il suo cognome in Staughton: sapevano benissimo quale sarebbe stata la sua risposta.

Di tanto in tanto nell’uomo c’era un po’ di calore, come quando, nella stanza d’ospedale subito dopo la sua tonsillectomia, le aveva portato in dono uno splendido caleidoscopio.

«Quando mi faranno l’operazione?» aveva chiesto, leggermente assonnata.

«Te l’hanno già fatta,» aveva risposto Staughton. «Starai benone.» Trovò inquietante che le si potessero rubare intere ore a sua insaputa e gliene fece una colpa. Nello stesso tempo si rendeva conto che la sua reazione era infantile.

Era inconcepibile che sua madre potesse amarlo veramente. Doveva essersi risposata perché si sentiva sola o aveva bisogno di un sostegno. Voleva che qualcuno si prendesse cura di lei. Ellie giurò a se stessa che non avrebbe mai accettato una posizione di dipendenza. Il padre di Ellie era morto, sua madre si era fatta distante, ed Ellie si sentiva in esilio nella casa di un tiranno. Non c’era più nessuno che la chiamasse tesoro. Desiderava fuggire. «‘Bridgeport?’ dissi io. ‘Camelot’, disse lui.»

2 LUCE COERENTE

«Non appena raggiunsi l’uso della ragione, la mia inclinazione all’apprendimento era stata così violenta e forte che né i rimproveri di altri… né le mie personali riflessioni… avevano avuto il potere di impedirmi di seguire questo naturale impulso che Dio mi aveva dato. Lui solo deve sapere perché; e Lui sa pure che L’ho pregato di portar via la luce del mio intelletto, lasciandomi soltanto quel tanto che basta perché io possa rispettare la Sua legge, dal momento che ogni altra cosa è eccessiva in una donna, secondo certa gente. E alcuni dicono che è persino dannoso.»

JUANA INES DE LA Cauz, «Risposta al Vescovo di Puebla» (1691), che aveva attaccato la sua attività di studiosa come inadatta al suo sesso.

«Vorrei sottoporre alla benevola considerazione del lettore una dottrina che può, temo, apparire violentemente paradossale e sovversiva. La dottrina in questione è la seguente: è indesiderabile credere a un’asserzione quando non c’è fondamento alcuno per supporre che sia vera. Naturalmente, devo ammettere che se tale opinione diventasse comune, trasformerebbe completamente la nostra vita sociale e il nostro sistema politico; poiché entrambi per ora sono perfetti, ciò finisce per deporre a sfavore della mia idea.»

BERTRAND RUSSEIX, Saggi scettici, I (1928)

Attorno alla stella azzurrina, sul suo piano equatoriale, c’era un esteso anello di detriti orbitanti — rocce e ghiaccio, metalli e materia organica — rossastro alla periferia e bluastro in vicinanza della stella. Il poliedro dalle dimensioni di un mondo veniva inghiottito da un varco tra gli anelli ed emergeva dall’altra parte. Sul piano anulare era stato oscurato in modo intermittente da massi gelati e montagne rotolanti. Ma ora, mentre veniva trasportato lungo la sua traiettoria verso un punto al di sopra del polo opposto della stella, la luce dell’astro faceva scintillare i suoi milioni di appenditi paraboliche. Se si guardava molto attentamente si sarebbe potuto vedere una di esse fare una leggera correzione di puntamento. Non si sarebbe vista invece l’emanazione di onde radio che si sprigionava da essa verso le profondità dello spazio.

Da quando gli uomini erano comparsi sulla Terra, il cielo notturno era stato una compagnia e una ispirazione. Le stelle erano di conforto. Sembravano dimostrare che i cicli erano stati creati per il bene e l’ammaestramento degli esseri umani. Questa patetica presunzione divenne la sapienza convenzionale diffusa in tutto il mondo. Nessuna cultura ne era indenne. Alcuni trovarono nei cicli un’apertura alla sensibilità religiosa. Molti furono colti da un timore reverenziale e si sentirono umiliati dalla gloria e dalla misura del cosmo. Altri vennero stimolati ai più stravaganti voli della fantasia. Nel momento esatto in cui gli uomini scoprirono la grandezza dell’universo e constatarono che le loro più sbrigliate fantasie venivano in realtà totalmente sminuite dalle reali dimensioni anche della sola Via Lattea, essi fecero in modo che i loro discendenti fossero nell’impossibilità totale di vedere le stelle. Per un milione di anni, gli umani erano cresciuti con una personale conoscenza quotidiana della volta celeste. Negli ultimissimi millenni essi avevano cominciato a costruire e a emigrare nelle città. Negli ultimissimi decenni, una buona parte della popolazione umana aveva abbandonato uno stile di vita semplice. Con lo sviluppo della tecnologia e con l’inquinamento urbano, le notti erano diventate senza stelle. Le nuove generazioni arrivavano alla maturità totalmente ignare del cielo che aveva incantato i loro antenati e aveva stimolato l’età moderna della scienza e della tecnologia. Senza neppure rendersene conto, proprio quando l’astronomia entrava in un’età dell’oro, la maggior parte della gente si distaccava dal cielo, un isolazionismo cosmico che i finì soltanto all’alba dell’esplorazione spaziale. Ellie guardava Venere e immaginava che fosse un mondo pressappoco come la Terra: popolato di piante, animali e civiltà, ma differenti da quelli del nostro pianeta. Alla periferia della città, proprio dopo il tramonto, esaminava il cielo notturno e scrutava quel brillante punto luminoso che non tremolava. Confrontandolo con le nubi vicine, esattamente al di sopra di lei, ancora illuminate dal Sole, le sembrava leggermente più giallo. Cercava di immaginare che cosa stesse accadendo lassù. Tutta eccitata, in punta di piedi, fissava il pianeta. Talvolta, riusciva quasi a convincersi di poterlo davvero vedere; un banco di nebbia giallastra si dissolveva a un tratto e una vasta risplendente città si svelava per pochi istanti. Automobili volanti sfrecciavano tra guglie di cristallo. Qualche volta fantasticava di poter guardare in uno di quei veicoli e di intravedere uno di «loro». O immaginava un giovane venusiano intento a guardare in punta di piedi un punto luminoso di un bel blu intenso nel «suo» cielo, bruciante dal desiderio di sapere qualcosa degli abitanti della Terra. Era una prospettiva irresistibile: un pianeta tropicale, soffocante, traboccante di vita intelligente, e proprio nelle immediate vicinanze.

Accettò lo studio mnemonico, pur sapendo che nel migliore dei casi si trattava del vuoto involucro di un’educazione. Fece il minimo indispensabile per riuscire bene nei suoi corsi, e si rivolse ad altre materie. Stabilì di trascorrere i periodi liberi e le ore che le restavano dopo la scuola nella cosiddetta «bottega» una squallida e angusta officina creata quando la scuola dedicava maggiori sforzi all»‘educazione professionale» di quanto non facesse al momento. «Educazione professionale» significava, più che altro lavorare con le mani. C’erano torni, trapani a colonna e altre macchine utensili cui le si proibiva di avvicinarsi, perché, prescindendo dalle sue eventuali capacità, era pur sempre «una ragazza». Con riluttanza le concessero di applicarsi ai suoi progetti nell’area della «bottega» riservata all’elettronica. Costruì delle radio cominciando più o meno da zero, e quindi proseguì con qualcosa di più interessante. Fabbricò una macchina codificatrice, piuttosto rudimentale, ma funzionante. Poteva ricevere ogni messaggio in lingua inglese e trasformarlo con un semplice cifrario in qualcosa che sembrava inintelligibile. Costruire una macchina che facesse l’operazione inversa: trasformare cioè un messaggio cifrato in uno leggibile quando non se ne conosceva la convenzione sostitutiva fu molto più difficile. Si potevano far passare in rassegna alla macchina tutte le possibili sostituzioni (A sta per B, A sta per C, A sta per D…) o si poteva ricordare che alcune lettere in inglese erano usate più spesso di altre. Si poteva avere un’idea della frequenza delle lettere guardando la grandezza dei contenitori per ogni carattere di stampa nella vicina tipografia. «ETAOIN SHR-DLU» dicevano i ragazzi della stamperia, dando abbastanza esattamente l’ordine delle dodici lettere usate più frequentemente in inglese. Decodificando un lungo messaggio, la lettera più comune probabilmente era una E. Scoprì che certe consonanti avevano la tendenza ad andare insieme; le vocali si distribuivano più o meno a caso. La più comune parola di tre lettere della lingua inglese era «thè». Se all’interno di una parola c’era una lettera che stava tra una T e una E, quasi certamente si trattava di una H. In caso negativo, si poteva scommettere su una R o una vocale. Dedusse altre regole e passò lunghe ore calcolando la frequenza di lettere in vari libri di testo prima di scoprire che tali tavole di frequenza erano già state compilate e pubblicate. La sua macchina decodificatrice fu soltanto oggetto di piacere personale. Non la usò per comunicare messaggi segreti agli amici. Non sapeva a chi potesse confidare senza rischi questi suoi interessi elettronici e criptografici; i ragazzi diventavano nervosi o sgarbati e le ragazze la guardavano in modo strano.

I soldati degli Stati Uniti stavano combattendo in un luògo lontano chiamato Vietnam. Ogni mese, a quanto pareva, un numero sempre crescente di giovani veniva prelevato dalle strade o dalle campagne e spedito in Vietnam. Più apprendeva sulle origini della guerra, e più ascoltava i discorsi degli uomini politici nazionali, più si sentiva sconvolta dall’indignazione. Il Presidente e il Congresso stavano mentendo e uccidendo, pensò tra sé, e ciascuno dava un tacito consenso. Il fatto che il suo patrigno abbracciasse le posizioni ufficiali circa gli obblighi derivanti dai trattati, la teoria del mostrare i denti e la sfacciata aggressione comunista, contribuirono solo a rafforzare la sua risoluzione. Cominciò a frequentare incontri e riunioni al vicino college. Le persone che vi incontrava sembravano molto più brillanti, più aperte, più «vive» dei suoi goffi e insignificanti compagni della scuola superiore. John Staughton prima la mise in guardia e poi le proibì di passare il suo tempo con gli studenti del college. Non l’avrebbero rispettata, disse. Avrebbero approfittato di lei. Stava simulando una capacità critica che non aveva e non avrebbe mai avuto. Il suo modo di vestire stava peggiorando. Tenute militari da fatica erano inadatte a una ragazza, erano un travestimento, un’ipocrisia, per qualcuno che proclamava di opporsi all’intervento americano nel Sud Est asiatico.

Al di là delle accorate esortazioni a Ellie e Staughton a non «farsi la guerra», sua madre partecipava poco a tali discussioni. In privato implorava Ellie di obbedire al patrigno, di essere «buona». Ellie ora sospettava che Staughton avesse sposato sua madre per l’assicurazione sulla vita di suo padre; per quale altra ragione altrimenti? Certamente «lui» non dava segni di amarla, non era predisposto certo a essere «buono». Un giorno, con una certa agitazione, sua madre le chiese di fare qualcosa per il bene di tutti loro: di frequentare il corso biblico. Mentre suo padre, uno scettico sulle religioni rivelate, era stato vivo, non si era mai parlato di corsi biblici. Come poteva sua madre aver sposato Staughton?

L’interrogativo le si presentò per la millesima volta. Il corso biblico, sua madre proseguì, avrebbe contribuito a inculcarle le virtù tradizionali; ma, cosa persino più importante, avrebbe dimostrato a Staughton che Ellie era disposta a venirgli incontro in qualche modo. Per amore e per pietà verso sua madre, acconsentì. Così ogni domenica, per quasi un intero anno scolastico, Ellie partecipò alle regolari discussioni di un gruppo in una chiesa vicina. Era una delle rispettabili sette protestanti, immune da sregolato evangelismo. C’erano alcuni studenti di scuola superiore, un certo numero di adulti, in massima parte donne di mezza età, e l’istruttrice, la moglie del ministro del culto. Ellie non aveva mai letto seriamente la Bibbia prima di allora ed era stata incline ad accettare il giudizio forse ingeneroso di suo padre che si trattasse di un coacervo di storia barbara e di favole. Così durante il fine settimana precedente la sua prima lezione, lesse attentamente quelle che sembravano le parti più importanti del Vecchio Testamento, cercando di superare ogni pregiudizio. Immediatamente riconobbe che c’erano due differenti e contraddittorie storie della Creazione nei primi due capitoli della Genesi. Non vedeva come ci potessero essere la luce e i giorni prima che venisse creato il Sole, ed ebbe delle difficoltà a immaginarsi esattamente con chi si fosse sposato Caino. Le storie di Lot e delle sue figlie, di Abramo e Sarah in Egitto, del fidanzamento di Dinah, di Giacobbe ed Esaù, la riempirono di stupore. Si rendeva conto che la viltà può essere presente nel mondo reale: che i figli possono ingannare e defraudare un vecchio padre, che un uomo può dare il suo squallido consenso alla seduzione della moglie da parte del re, o persino incoraggiare lo stupro delle proprie figlie. Ma nel santo libro non c’era una parola di protesta contro tali oltraggi. Invece, a quanto pareva, i crimini venivano approvati, addirittura lodati. Quando il corso cominciò, desiderava ardentemente una discussione su queste irritanti incoerenze, un’illuminazione liberatoria sui fini divini, o almeno una spiegazione del perché quei delitti non venissero condannati dall’autore o dall’Autore. Ma in ciò doveva restar delusa. La moglie del ministro temporeggiava blandamente. In un modo o nell’altro, quelle storie non venivano mai a galla nella discussione che seguiva. Quando Ellie domandò come le ancelle della figlia del faraone potessero dire con una sola occhiata che il piccino tra i giunghi era ebreo, l’insegnante arrossì fino alla radice dei capelli e pregò Ellie di non rivolgere domande indecenti. (La risposta le apparve in quel momento.)

Quando arrivarono al Nuovo Testamento, il turbamento di Ellie crebbe. Matteo e Luca ricostruivano l’albero genealogico di Gesù risalendo fino a re David. Ma per Matteo c’erano ventotto generazioni fra David e Gesù; per Luca quarantatré. I due elenchi non avevano quasi nessun nome in comune. Come potevano Matteo e Luca essere entrambi il Verbo di Dio? Le genealogie contraddittorie sembravano a Ellie un tentativo lampante di adattarsi alla profezia di Isaia dopo l’evento. Una vera manipolazione dei dati. Fu profondamente commossa dal Sermone della montagna, profondamente delusa dall’esortazione di dare a Cesare quel che è di Cesare, e ridotta alla disperazione dopo che l’istruttrice eluse per due volte le sue domande sul significato di «Io non porto la pace ma la spada». Riferì alla madre dispiaciuta che aveva fatto del suo meglio, ma neppure con gli argani l’avrebbero trascinata a un altro corso biblico.

Era sdraiata sul suo letto in una calda notte d’estate. Elvis stava cantando «One night with you, that’s what I’m beggin’ for». I ragazzi alla scuola superiore sembravano terribilmente immaturi, ed era difficile — specialmente con le critiche e i divieti del patrigno — stabilire rapporti profondi con i giovani universitari che incontrava alle conferenze e alle riunioni. John Staughton aveva ragione, riconosceva a malincuore, almeno su questo punto: i giovanotti, quasi senza eccezione, avevano una tendenza a considerare le ragazze un oggetto sessuale. Nello stesso tempo, essi sembravano molto più vulnerabili emotivamente di quanto si fosse immaginata. Forse una cosa era la conseguenza dell’altra. Aveva quasi preso in considerazione l’eventualità di non frequentare il college, benché fosse risoluta a lasciare la casa. Staughton non avrebbe pagato perché lei se ne andasse altrove e le blande intercessioni di sua madre erano inefficaci. Ma Ellie aveva conseguito risultati splendidi ai tradizionali esami di ammissione al college ed ebbe la sorpresa di sentirsi dire dai suoi insegnanti che probabilmente avrebbe ricevuto l’offerta di borse di studio da famose università. Aveva tirato a indovinare a una quantità di domande che presentavano un’ampia gamma di risposte e considerava il suo successo un colpo di fortuna. Se si sa poco, solo quel tanto che basti a escludere tutte le risposte, tranne le due più probabili, e se poi si cerca di indovinare le prossime dieci domande, allora c’è pressappoco una possibilità su mille, si disse, che si risponda correttamente a tutte e dieci. Per venti di seguito, le probabilità erano una su un milione. Ma qualcosa come un milione di ragazzi, quasi certamente, avevano sostenuto quella prova. «Qualcuno» doveva per forza avere fortuna.

Cambridge nel Massachusetts sembrava abbastanza lontano per sottrarsi all’influenza di John Staughton, ma abbastanza vicino per tornare durante le vacanze a vedere sua madre, la quale considerava l’accomodamento come un difficile compromesso tra l’abbandonare la figlia e l’irritare sempre più il marito. Ellie non si sarebbe mai immaginata di scegliere Harvard invece del Massachusetts Insti tute or Technology.

Arrivò per un periodo di orientamento, graziosa giovane bruna di media altezza con un sorriso asimmetrico e una gran voglia di imparare tutto. Incominciò ad allargare la sua educazione, a partecipare al maggior numero possibile di corsi indipendentemente dai suoi interessi primari per la matematica, la fisica e l’ingegneria. Ma c’era un problema connesso ai suoi interessi primari. Trovava difficile parlare di fisica, impossibile poi discuterne con i maschi che erano decisamente in maggioranza nel corso. Dapprima manifestavano una sorta di disattenzione intenzionale alle sue osservazioni, c’era una breve pausa e poi continuavano come se lei non fosse intervenuta. Occasionalmente davano retta a un suo commento, addirittura la lodavano, e poi di nuovo proseguivano imperterriti. Lei era ragionevolmente sicura che le sue osservazioni non fossero del tutto sciocche e non voleva che la ignorassero, meno ancora che la ignorassero e la trattassero con degnazione a fasi alterne. In parte, ma solo in parte, ciò era dovuto, ne era consapevole, alla esilità della sua voce. Così sviluppò una voce per la fisica, una voce professionale: chiara, competente, e di molti decibel al di sopra del tono di una conversazione. Con una voce simile era importante aver ragione. Doveva cogliere al balzo i suoi momenti. Era duro continuare a lungo con una voce siffatta perché talvolta correva il rischio di scoppiare a ridere. Allora optò per interventi veloci, talvolta taglienti, di solito sufficienti ad attirare la loro attenzione; poi poteva proseguire per un po’ in un tono più usuale. Ogni volta che si trovava in un nuovo gruppo doveva rinnovare la stessa battaglia solo per poter dire la sua nella discussione. I ragazzi uniformemente ignoravano perfino che ci fosse un problema.

Qualche volta, mentre era impegnata in un’esercitazione di laboratorio o in un seminario, l’istruttore diceva: «Signori, procediamo» e, accorgendosi del cipiglio di Ellie, aggiungeva: «Mi scusi, signorina Arroway, ma la considero sempre come uno dei ragazzi.» Il più bel complimento che fossero capaci di farle era che ai loro occhi non sembrava una donna.

Doveva combattere contro la tendenza a sviluppare una personalità troppo aggressiva o a diventare completamente misantropa. All’improvviso le fu chiara una cosa. «Misantropo» è qualcuno che odia tutti, non solo gli uomini. E c’era senza dubbio un termine per indicare qualcuno che detesta le donne: «misogino». Ma i signori lessicografi avevano in certo qual modo trascurato di coniare una parola che designasse l’avversione per gli uomini. Essendo uomini loro stessi, erano stati incapaci di immaginare una sfera d’azione per tale parola.

Più di molte altre, era stata oppressa dalle proibizioni dei genitori. Le sue recenti libertà — intellettuale, sociale, sessuale — erano inebrianti. In un periodo in cui molte delle sue coetanee si stavano indirizzando verso abiti informi che riducevano al minimo la distinzione tra i sessi, lei aspirava a un’eleganza rigorosa di abbigliamento e di trucco che metteva a dura prova il suo limitato bilancio. C’erano modi più efficaci di esprimere il proprio credo politico, pensava. Coltivava alcune amiche intime e si fece una quantità di nemiche occasionali che la detestavano per il suo modo di vestire, per le sue vedute politiche e religiose, o per il vigore con cui difendeva le proprie opinioni. La sua competenza e il piacere che trovava nella scienza venivano criticati da molte giovani versate in altri campi. Ma alcune guardavano a lei come a ciò che i matematici chiamano un teorema vivente — una dimostrazione che una donna può, certamente, eccellere nella scienza — o addirittura come a un modello di comportamento. In piena rivoluzione sessuale, fece le proprie esperienze con un entusiasmo che cresceva progressivamente, ma scoprì di intimidire i suoi corteggiatori. Le sue relazioni avevano la tendenza a durare pochi mesi o meno ancora. L’alternativa sembrava quella di mascherare i suoi interessi e soffocare le sue opinioni, un comportamento che aveva rifiutato con risolutezza durante la scuola superiore. L’immagine della madre, condannata a una rassegnata prigionia per il suo atteggiamento conciliante, ossessionava Ellie. Cominciò a pensare a uomini che fossero al di fuori della vita accademica e scientifica.

Alcune donne, a quanto pareva, erano completamente senza i malizia e concedevano il loro amore quasi inconsapevolmente. Altre si prefiggevano di attuare una campagna di alta strategia militare, con tattiche diversive e abili ritirate, solo per «catturare» un uomo desiderabile. La parola «desiderabile» era rivelatrice, pensava. Il povero idiota non veniva desiderato realmente, era soltanto «desiderabile»: un credibile oggetto del desiderio agli occhi delle altre cui era destinata l’intera meschina sciarada. La maggior parte delle donne, a suo parere, si trovavano in una posizione pressoché intermedia, nel tentativo di conciliare le loro passioni con i vantaggi che si profilavano all’orizzonte. Forse c’erano occasionali comunicazioni tra l’amore e l’interesse personale che sfuggivano all’attenzione della coscienza. Ma l’intera idea di un intrappolamento calcolato la faceva rabbrividire. Decise che per quanto riguardava l’amore sarebbe stata sempre per la spontaneità. Fu allora che incontrò Jesse.

Il ragazzo con cui aveva un appuntamento l’aveva accompagnata in una «cave» dalle parti di Kenmore Square. Jesse, che cantava del rhythm and blues era la chitarra solista del gruppo. Il modo in cui cantava e quello con cui si muoveva le fecero capire che cosa le fosse mancato. La notte seguente vi ritornò da sola. Prese posto al tavolo più vicino e non gli staccò gli occhi di dosso per tutta la durata della sua esibizione. Due mesi dopo vivevano insieme.

Era soltanto quando i suoi impegni di lavoro lo portavano ad Hartford o a Bangor che lei riusciva a fare qualcosa. Trascorreva le sue giornate con gli altri studenti: ragazzi con i calcolatori dell’ultima generazione appesi come trofei alla cintura; ragazzi con portamatite di plastica nelle tasche delle camicie; ragazzi pignoli, boriosi, con risate nervose; ragazzi seri che impegnavano ogni momento della loro giornata per diventare scienziati. Assorbiti nell’addestrare se stessi a scandagliare le profondità della natura, erano quasi inetti nelle cose umane di ordinaria amministrazione, dove, nonostante tutto il loro sapere, apparivano patetici e sciocchi. Forse la scrupolosa ricerca scientifica era così logorante, così competitiva che non restava loro tempo per divenire degli esseri umani a pieno titolo. O forse la loro incapacità sociale li aveva condotti a campi in cui non si sarebbe notata la loro carenza. Al di fuori della scienza che li accomunava, Ellie non li trovò una buona compagnia.

Di notte c’era Jesse, che scopava e gemeva, una sorta di forza della natura che si era impadronita della sua vita. Nell’anno che trascorsero insieme, non riusciva a ricordare una sola notte in cui lui avesse proposto di andare semplicemente a dormire. Non sapeva nulla di fisica o di matematica, ma era completamente sveglio all’interno dell’universo, e per un periodo lo fu anche lei. Sognava di conciliare i suoi due mondi. Fantasticava di musicisti e fisici in un armonico accordo sociale. Ma le serate che organizzava erano imbarazzanti e finivano presto.

Un giorno egli le disse che voleva un bambino. Sarebbe stato una persona seria, si sarebbe sistemato, si sarebbe procurato un lavoro regolare. Avrebbe potuto persino prendere in considerazione l’eventualità del matrimonio.

«Un bambino?» gli chiese. «Ma dovrei abbandonare la scuola. Mi restano ancora parecchi anni. Se avessi un bambino, forse non potrei più ritornare a scuola.»

«Sì,» disse lui, «ma avremmo un bambino. Non avresti la scuola, ma avresti qualcos’altro.»

«Jesse, ho bisogno della scuola,» gli disse.

Lui alzò le spalle e lei potè sentire che le loro vite si stavano allontanando. La cosa durò ancora alcuni mesi, ma tutto era stato in realtà deciso in quel breve scambio di vedute. Si accomiata-rono con un bacio e lui se ne andò in California. Ellie non sentì mai più la sua voce.

Alla fine degli anni Sessanta l’Unione Sovietica riuscì a far atterrare dei veicoli spaziali sulla superficie di Venere. Erano le prime sonde della specie umana a scendere su un altro pianeta in missione operativa. Oltre un decennio prima, dei radioastronomi americani, confinati sulla Terra, avevano scoperto che Venere era un’intensa fonte di onde radio. La spiegazione più comune era stata che la densa atmosfera di Venere immagazzinava il calore attraverso un effetto serra planetario. Secondo tale ipotesi, la superficie del pianeta era straordinariamente calda e soffocante, troppo calda per città di cristallo e Venusiani stupefatti. Ellie desiderava ardentemente una qualche altra spiegazione, e tentò invano di immaginare modi in cui l’emissione radio potesse venire da un punto sopra la temperata superficie di Venere. Ad Harvard e al Massachusetts Institute of Technology alcuni astronomi dichiararono che nessuna delle ipotesi alternative a quella di un pianeta in tumulto, esposto a grande calore, poteva spiegare i segnali radio. L’idea di un così imponente effetto serra le sembrava inverosimile e in qualche modo disgustosa, come se il pianeta si fosse lasciato vergognosamente andare. Ma quando la sonda sovietica della serie Venus raggiunse la superficie fino ad allora inaccessibile di quel corpo celeste, e fece uscire un termometro, la temperatura misurata era abbastanza alta per far fondere stagno o piombo. Lei immaginò le città di cristallo che si liquefacevano (benché Venere non fosse così caldo), la superficie inondata di lacrime di silicato. Era una romantica. Lo sapeva da anni.

Ma nello stesso tempo, aveva dovuto ammirare la potenza della radioastronomia. Gli astronomi se ne erano rimasti a casa, avevano puntato i loro radiotelescopi su Venere e misurato la temperatura della superficie pressapoco con la stessa accuratezza degli strumenti della sonda Venus a tredici anni di distanza. Ellie, da quanto poteva ricordare, era sempre rimasta affascinata dall’elettricità e dall’elettronica. Ma questa era la prima volta che era stata profondamente impressionata dalla radioastronomia. Si sta al sicuro sul proprio pianeta e si punta il telescopio collegato ad apparecchiature elettroniche. Allora, informazioni su altri mondi arrivano giù oscillando attraverso i canali autoalimentati. Si meravigliò al pensiero.

Ellie cominciò a visitare il modesto radiotelescopio dell’università che si trovava vicino ad Harvard, ricevendo alla fine un invito a collaborare alle osservazioni e all’analisi dei dati. Venne accettata come assistente estiva pagata dall’osservatorio radioastronomico nazionale di Green Bank nel West Virginia, e all’arrivo guardò estasiata il radiotelescopio originale di Grote Reber, costruito nel suo cortile a Wheaton nell’Illinois nel 1938 e che ora serviva a ricordare che cosa può realizzare un dilettante appassionato. Reber era stato capace di scoprire l’emissione radio dal centro della Galassia quando per caso nessuno nel vicinato stava facendo partire l’auto o la macchina per la diatermia in fondo alla strada non era in funzione. Il centro della Galassia era molto più potente, ma la macchina per la diatermia era molto più vicina.

L’atmosfera di paziente ricerca e le occasionali ricompense di una modesta scoperta le piacevano. Stavano tentando di misurare come crescesse il numero di remote radiosorgenti extragalattiche man mano che scrutavano più a fondo nello spazio. Cominciò a pensare a sistemi migliori per individuare deboli segnali radio; Entro il tempo stabilito, si laureò con la lode ad Harvard e proseguì gli studi per specializzarsi in radioastronomia all’altro capo del paese, al California Institute of Tecnology.

Per un anno fece tirocinio sotto la guida di David Drumlin. Questi era famoso per vivezza d’ingegno e per la sua allergia agli imbecilli, ma era in fondo uno di quegli uomini che si possono trovare all’apice di ogni carriera, tormentati dall’ansia continua che qualcuno, da qualche parte, possa dare prova di un’intelligenza superiore alla loro. Drumlin insegnò a Ellie un po’ della vera essenza della materia, specialmente i suoi supporti teorici. Sebbene corresse voce inspiegabilmente di un suo notevole ascendente esercitato sulle donne, Ellie lo trovò spesso scontroso e sempre dominato da un prepotente egotismo. Lei era troppo romantica, soleva dire lui. L’universo è rigorosamente ordinato secondo le proprie regole. Il concetto è di pensare come pensa l’universo, non di attribuire le nostre proiezioni romantiche (e i desideri da ragazza, una volta disse) all’universo. Ogni cosa non proibita dalle leggi di natura, l’assicurò — citando un collega che si trovava in fondo al corridoio —, è vincolante. Ma, proseguì, quasi ogni cosa è proibita. Lei lo guardava mentre teneva la lezione, cercando di leggere in quella strana combinazione di tratti personali. Vide un uomo in condizioni fisiche eccellenti: capelli divenuti grigi prematuramente, sorriso sardonico, occhiali da vista a mezzaluna posati quasi all’estremità del naso, cravatta a farfalla, mascella squadrata, leggero accento del Montana.

La sua idea di divertimento consisteva nell’invitare a cena gli studenti laureati e gli insegnanti più giovani (a differenza del suo patrigno che trovava piacevole circondarsi di studenti ma considerava una stravaganza trattenerli a cena). Drumlin esibiva un’estrema territorialità intellettuale, guidando la conversazione verso argomenti in cui egli era l’esperto riconosciuto e poi facendo piazza pulita in fretta delle opinioni contrarie. Dopo cena, spesso li costringeva ad assistere a una proiezione di diapositive che lo vedevano protagonista in vesti di subacqueo a Cozumel o a Tobago o alla Grande Barriera Corallina. Sorrideva spesso alla macchina fotografica e salutava con la mano, persino nelle immagini scattate sottacqua. Talvolta c’era una foto sottomarina della sua collega, la dottoressa Helga Bork. (La moglie di Drumlin trovava sempre da ridire su queste particolari diapositive, con il ragionevole pretesto che la maggior parte degli spettatori le avevano già viste in precedenti cene. In realtà, i presenti avevano già visto tutte le diapositive. Drumlin reagiva magnificando le virtù dell’atletica dottoressa Bork, e l’umiliazione di sua moglie cresceva.) Molti degli studenti tenevano duro coraggiosamente, andando alla ricerca di qualche novità che era loro sfuggita in passato tra i coralli cerebriformi e gli spinosi ricci di mare. Alcuni si dimenavano imbarazzati o si concentravano sulla crema di avocado. Un pomeriggio stimolante per i suoi studenti laureati consisteva nell’essere invitati, in due o tre, ad accompagnarlo in auto sull’orlo di una scogliera che gli piaceva molto, vicino a Pacific Palisades. Appeso disinvoltamente al suo deltaplano, egli si lanciava nel precipizio verso l’oceano che si stendeva tranquillo alcune centinaia di piedi sotto di lui. Il loro compito era di andar giù per la strada costiera e di ricuperarlo. Calava su di loro esultante. Altri furono invitati a unirsi a lui, ma pochi accettarono. Aveva, e ci provava piacere, il vantaggio della competizione. Era proprio una performance. Altri consideravano gli studenti laureati come risorse per il futuro, come i loro intellettuali tedofori per la generazione seguente. Drumlin, invece, secondo l’impressione che ne riportava Ellie, aveva una visione totalmente differente. Per lui gli studenti laureati erano dei pistoleri. Non si sapeva mai chi di loro potesse sfidarlo in un qualsiasi momento per l’ambito titolo di «Pistola più veloce del West». Dovevano essere tenuti al loro posto. Non le aveva mai fatto delle avances, ma prima o poi, ne era certa, ci avrebbe provato.

Durante il suo secondo anno al California Institute, Peter Valerian ritornò al campus dopo il suo anno sabbatico all’estero. Era un uomo gentile e senza attrattive; nessuno, lui stesso compreso, lo considerava particolarmente brillante. Eppure, aveva un serio curriculum di significativi riconoscimenti in radioastronomia perché, come spiegava quando era messo alle strette, «ci aveva dedicato tutto se stesso». C’era un aspetto un po’ sconveniente della sua carriera scientifica: era affascinato dalla possibilità di intelligenze extraterrestri. Ogni membro della facoltà, a quanto pareva, aveva diritto a una debolezza: Drumlin aveva il deltaplano e Valerian la vita su altri mondi. Altri avevano i bar con le cameriere in topless, o le piante carnivore, o la cosiddetta meditazione trascendentale. Valerian aveva speculato sull’intelligenza extraterrestre (ETI) più a lungo e più accanitamente — e in molti casi con maggior attenzione — di chiunque altro. Quando Ellie imparò a conoscerlo meglio, le sembrò che ETI gli conferisse un fascino, un’aura romantica che erano in drammatico contrasto con il grigiore della sua vita personale. Questo pensare a una intelligenza extraterrestre non era lavoro per lui, ma puro divertimento. La sua immaginazione spiccava il volo.

Ellie amava starlo ad ascoltare. Era come entrare nel Paese delle Meraviglie o nella Città di Smeraldo. In realtà era ancora meglio, perché alla fine di tutte le sue elucubrazioni c’era il pensiero che ciò forse poteva essere vero, poteva realmente accadere. Un giorno o l’altro, fantasticava lei, uno dei grandi radiotelescopi poteva ricevere in realtà e non solo con l’immaginazione un messaggio, ma in un certo modo era peggio, perché Valerian, al pari di Drumlin riguardo ad altri argomenti, sottolineava ripetutamente che la speculazione deve essere messa a confronto con una concreta realtà fisica. Era una sorta di setaccio che separava l’incomparabile speculazione di grande utilità da una massa di sciocchezze. Gli extraterrestri e la loro tecnologia dovevano conformarsi rigorosamente alle leggi di natura, cosa che eliminava con severità più di una prospettiva allettante. Ma ciò che emergeva dal setaccio, e sopravviveva alla sua scettica analisi fisica e astronomica, poteva persino essere vero. Non se ne poteva essere sicuri, naturalmente. C’erano certo delle possibilità che non erano state prese in considerazione, che persone più intelligenti avrebbero un giorno intuito.

Valerian sottolineava come si sia prigionieri del nostro tempo, della nostra cultura e della nostra biologia, quanto si sia limitati, per definizione, nell’immaginare creature o civiltà fondamentalmente diverse. E dato che si sarebbero evolute su mondi diversissimi, avrebbero «dovuto» essere diversissime da noi. Era possibile che esseri molto più avanzati di noi avessero tecnologie inimmaginabili — ciò era, di fatto, quasi garantito — e addirittura nuove leggi di fisica. Era segno di una terribile ristrettezza di idee, soleva dire, mentre passavano vicino a una serie di archi simili a quelli dei quadri di De Chirico, immaginare che tutte le importanti leggi della fisica fossero già state scoperte nel momento in cui la nostra generazione cominciava a contemplare il problema. Ci sarebbe stata una fisica del ventunesimo secolo e una fisica del ventiduesimo secolo, e persino una fisica del quarto millennio. Si poteva essere ridicolmente lontani dal presagire come una civiltà tecnicamente diversissima fosse in grado di comunicare.

Ma allora, e lo diceva sempre per rassicurare se stesso, gli extraterrestri avrebbero dovuto sapere come eravamo arretrati. Se fossimo stati un po’ più avanzati, loro avrebbero già saputo da tempo della nostra esistenza. Ecco a che punto eravamo: solo da poco avevamo cominciato a camminare eretti, avevamo scoperto il fuoco mercoledì scorso, appena ieri ci eravamo imbattuti nella dinamica di Newton, nelle equazioni di Maxwell, nei radiotelescopi, nell’idea vaga di superunificazione delle leggi della fisica. Valerian era sicuro che loro non ci avrebbero reso le cose difficili. Avrebbero cercato di facilitarci il compito, perché se volevano comunicare con degli stupidi lo avrebbero tenuto in debito conto. Ecco perché, pensava, egli avrebbe avuto una possibilità, seppur ardua, di successo se mai fosse arrivato un messaggio. La sua mancanza di intelligenza brillante era in realtà il suo punto di forza. Egli conosceva, ne era fiducioso, quel che conoscevano gli stupidi. Come argomento per la sua tesi di dottorato, Ellie scelse, con il consenso della facoltà, lo sviluppo di una miglioria nei sensibili ricevitori usati nei radiotelescopi. Ciò le consentì di mettere in pratica le sue attitudini all’elettronica, la liberò da Drumlin e dal suo eccessivo teorizzare, e le permise di continuare le sue discussioni con Valerian; ma senza intraprendere il passo rischioso per la sua professione di lavorare con lui sull’intelligenza extraterrestre. Era un argomento troppo speculativo per una dissertazione di dottorato. Il suo patrigno aveva preso l’abitudine di considerare i suoi svariati interessi come utopistici e ambiziosi o occasionalmente come banali e piatti. Quando seppe dell’argomento della sua tesi per vie traverse (ormai lei non gli parlava più), lo liquidò come pedestre. Ellie stava lavorando sul maser al rubino, pietra costituita essenzialmente da allumina, che è quasi perfettamente trasparente. La colorazione rossa deriva da una piccola impurità di cromo distribuita nel cristallo di allumina. Quando un forte campo magnetico viene impresso al rubino, gli atomi di cromo aumentano la loro energia o, come i fisici preferiscono dire, vengono portati a uno stato di eccitazione. Le piaceva l’immagine di tutti i piccoli atomi di cromo chiamati a una febbrile attività in ogni amplificatore, impegnati freneticamente in una buona causa pratica, quella di amplificare un debole segnale radio. Più intenso era il campo magnetico e più eccitati diventavano gli atomi di cromo. Così il maser poteva venir sintonizzato in modo da esser particolarmente sensibile a una frequenza radio selezionata. Ellie trovò un sistema per produrre dei rubini con impurità di lantanio in aggiunta agli atomi di cromo, così un maser poteva essere sintonizzato su una più ridotta gamma di frequenze ed era in grado di scoprire un segnale molto più debole di quelli ricevuti dal maser in uso. Il suo rivelatore doveva essere immerso in elio liquido. Quindi Ellie installò il suo nuovo strumento su uno dei radiotelescopi del Cai Tech a Owens Valley e individuò, su frequenze interamente nuove, ciò che gli astronomi chiamano la radiazione cosmica di fondo del corpo nero, i resti nello spettro radio dell’immensa esplosione che diede inizio al nostro universo, il Big Bang.

«Vediamo se ho capito bene,» ripeteva a se stessa. «Ho preso un gas inerte che si trova nell’aria, l’ho fatto liquefare, ho messo alcune impurità in un rubino, attaccato un magnete e scoperto le fiamme della creazione.»

Poi scuoteva il capo meravigliata. Per chiunque fosse all’oscuro delle nozioni di fisica che ne erano alla base, ciò poteva sembrare la più arrogante e pretenziosa negromanzia. Come lo si sarebbe potuto spiegare ai migliori scienziati di mille anni prima, che conoscevano l’aria, i rubini e le magnetite, ma non l’elio liquido, l’emissione stimolata, e le pompe di flusso super-conducenti? Ricordò infatti che essi non avevano neppure la benché minima idea di che cosa fosse lo spettro radio. O nemmeno l’idea di uno spettro — tranne quella vaga che poteva essere suggerita loro dallo spettacolo dell’arcobaleno. Non sapevano che la luce è fatta di onde. Come si poteva sperare di capire la scienza di una civiltà mille anni in anticipo su quella terrestre?

Era necessario produrre rubini su vasta scala, poiché soltanto alcuni avevano i requisiti richiesti. Nessuno aveva le qualità della pietra preziosa, ed erano in massima parte minuscoli. Ma cominciò a mettersene addosso alcuni — i residui più grossi della lavorazione — che si accompagnavano bene al suo colorito scuro. Anche se era tagliata con accuratezza, si poteva riscontrare qualche imperfezione nella pietra incastonata in un anello o in una spilla: per esempio, la strana maniera in cui riceveva la luce in certi angoli da un irregolare riflesso interno, o la presenza di una macchiolina color pesca entro il rosso rubino. Agli amici che non facevano parte dell’ambiente scientifico spiegava che amava i rubini ma che non poteva permetterseli. Era un po’ come lo scienziato che aveva scoperto per primo la fotosintesi clorofilliana e che in seguito portò per sempre sul risvolto della giacca aghi di pino o una fogliolina di prezzemolo. I suoi colleghi, che sentivano crescere il loro rispetto per lei, consideravano questo suo vezzo innocuo. I grandi radiotelescopi del mondo sono costruiti in località remote per la stessa ragione per cui Paul Gauguin si imbarcò per Tahiti: per lavorare bene, devono essere lontani dalla civiltà. Poiché le trasmissioni radio civili e militari sono aumentate, i radiotelescopi hanno dovuto nascondersi, relegati in un’oscura valle a i Puerto Rico, o esiliati in un vasto deserto di cespugli spinosi nel New Mexico o nel Kazakistan. Poiché le interferenze radio continuano a crescere, ha sempre più senso costruire i telescopi completamente fuori della Terra. Gli scienziati che lavorano in questi Osservatori isolati hanno la tendenza a essere ostinati e risoluti. Le mogli li abbandonano, i figli lasciano la casa alla prima occasione, ma gli astronomi non cedono. Raramente pensano a se stessi come a dei sognatori. Il personale scientifico permanente, presente in remoti osservatori, tende a essere pragmatico, sperimentalista, costituito da esperti che conoscono moltissimo riguardo al disegno delle antenne e all’analisi dei dati, e molto meno a proposito delle quasar e delle pulsar. Genericamente parlando, da piccoli non hanno spasimato per le stelle; sono stati troppo occupati a riparare il carburatore dell’auto di casa.

Dopo aver conseguito il suo dottorato, Ellie accettò un impiego come ricercatrice aggiunta all’osservatorio di Arecibo, una grande coppa dal diametro di 305 metri fissata al fondo di una dolina di tipo carsico tra le colline nord occidentali di Puerto Rico. Con il più grande radiotelescopio del pianeta, Ellie era impaziente di usare il suo maser per guardare in direzione dei più svariati oggetti astronomici possibili: pianeti e stelle vicini, il centro della Galassia, pulsar e quasar. Come membro a tempo pieno del personale dell’osservatorio, le sarebbe stata assegnata una notevole quantità di tempo per le osservazioni. L’accesso ai grandi radiotelescopi è ambito al massimo, perché gli importanti progetti di ricerca sono molto più numerosi di quelli che vi possono essere ospitati. Perciò, il tempo riservato al telescopio per il personale residente è una prerogativa senza prezzo. Per molti degli astronomi era la sola ragione che li trattenesse in località così sperdute. Lei sperava anche di esaminare alcune stelle vicine per scoprire possibili segnali di origine intelligente. Con il suo tipo di amplificatore si sarebbe potuto ascoltare la dispersione radio da un pianeta come la Terra anche se si fosse trovato ad alcuni anni luce di distanza. E una società avanzata, che avesse l’intenzione di comunicare con noi, sarebbe stata senza dubbio capace di inviare trasmissioni ben più potenti delle nostre. Se Arecibo, usato come un radar telescopio, era in grado di trasmettere un messaggio di un megawatt di potenza fino a un punto specifico nello spazio, allora una civiltà solo un po’ più avanzata della nostra poteva, a suo parere, essere in grado di trasmettere un segnale della potenza di cento megawatt o più. Se stavano trasmettendo alla Terra intenzionalmente con un telescopio della grandezza di quello di Arecibo ma con un trasmettitore da cento megawatt, Arecibo sarebbe stata nelle condizioni di individuarli virtualmente in qualsiasi punto della Via Lattea. Quando pensò attentamente a ciò, si stupì che nella ricerca di un’intelligenza extraterrestre quel che si sarebbe potuto fare era ben lontano da quello che si era fatto. I mezzi che erano stati dedicati a questo problema erano insignificanti, a suo avviso. Trovava delle difficoltà a scegliere un problema scientifico più importante. L’installazione di Arecibo era nota agli indigeni come «El Radar». La sua funzione era generalmente oscura, ma procurava più di cento posti di lavoro, di cui c’era un gran bisogno sull’isola. Le ragazze del posto venivano tenute ben lontane dagli astronomi, alcuni dei quali potevano esser visti quasi a ogni ora del giorno e della notte, pieni di nervosa energia, percorrere di corsa il sentiero che circondava il riflettore emisferico. Come risultato, le attenzioni rivolte a Ellie al suo arrivo, benché non del tutto sgradite, finirono presto per essere una distrazione dalla sua ricerca.

La bellezza fisica del luogo era notevole. Al crepuscolo, guardava fuori dalle finestre di servizio e vedeva nubi tempestose sorvolare l’altro bordo della valle, proprio al di là di uno dei tre immensi piloni cui erano appesi i cavi che sorreggevano i bracci dell’antenna e il suo maser montato di recente. In cima a ciascuno dei piloni, una luce rossa lampeggiava per invitare gli eventuali aeroplani che si fossero avventurati per errore su quel remoto panorama a starsene alla larga. Alle quattro del mattino, usciva per una boccata d’aria e cercava confusamente di interpretare un coro compatto di migliala di rane locali, chiamate onomatopeicamente «coquis». Alcuni astronomi vivevano nei pressi dell’osservatorio, ma l’isolamento, combinato all’ignoranza dello spagnolo e all’inesperienza di ogni altra cultura, tendeva a trascinare loro e le loro mogli alla solitudine e all’anonimia. Alcuni avevano deciso di vivere alla base aerea di Ramey, che vantava l’unica scuola di lingua inglese delle vicinanze. Ma i novanta minuti d’auto contribuivano ad accrescere ancora il loro senso di isolamento. Ripetute minacce da parte dei separatisti portoricani, convinti erroneamente che l’osservatorio svolgesse una funzione militare di una certa importanza, aumentarono il senso di isteria repressa, di circostanze difficilmente controllabili.

Molti mesi dopo, Valerian venne in visita. Ufficialmente si trovava lì per tenere una conferenza, ma lei sapeva che era motivato anche dal desiderio di controllare come se la stesse cavando e di darle una parvenza di sostegno psicologico. La sua ricerca era andata molto bene. Aveva scoperto quel che sembrava un nuovo complesso di nubi molecolari interstellari, e aveva ottenuto alcuni dati estremamente precisi nell’analisi del tempo di risposta di una pulsar che si trova al centro della Nebulosa del Granchio. Aveva persino portato a termine la più accurata ricerca mai compiuta su segnali emessi da alcune dozzine di stelle vicine, ma senza risultati positivi. C’erano state una o due ripetizioni sospette. Osservò di nuovo le stelle in questione e non potè riscontrare nulla fuori dall’ordinario. Si esamini un certo numero di stelle e presto o tardi le interferenze terrestri o la concatenazione di rumori casuali produrranno un segnale che per un momento farà battere il cuore. Riacquistata la padronanza di sé, lo si controlla e se non si ripete, lo si considera spurio. Questa disciplina era essenziale, se voleva conservare un certo equilibrio emotivo nei confronti di ciò che stava cercando. Ellie era decisa a essere più che mai inflessibile, senza comunque abbandonare quel senso di meraviglia che era il motore primo del suo agire.

Con le sue scarse provviste conservate nel frigorifero della co-munita, aveva preparato un modesto spuntino di mezzogiorno da consumare all’aperto, e Valerian sedeva con lei sull’orlo della dolina che ospitava il paraboloide. Si potevano vedere in lontananza gli operai che riparavano o sostituivano i pannelli, dotati di speciali racchette da neve per non lacerare i fogli di alluminio e non precipitare sul terreno sottostante. Valerian si rallegrava dei suoi progressi. Si scambiarono qualche pettegolezzo e le ultime novità scientifiche. La conversazione si indirizzò su SETI, come si cominciava a chiamare la ricerca di un’intelligenza extraterrestre. «Hai mai pensato di farlo a tempo pieno, Ellie?» le chiese. «Non ci ho pensato molto. Ma in realtà non è possibile, non è vero? Per quanto ne so, non c’è nessuna installazione importante, al mondo, dedita a SETI a tempo pieno.»

«No, ma ci può essere. Esiste una probabilità che dozzine di paraboloidi supplementari vengano aggiunti al Very Large Array e lo trasformino in un osservatorio riservato a SETI. Farebbero anche qualcosa del solito lavoro di radioastronomia, naturalmente. Sarebbe un superbo interferometro. Si tratta soltanto di una possibilità, è costosa, richiede una reale volontà politica, e nel migliore dei casi si realizzerà fra degli anni. Solo qualcosa da pensarci su.»

«Peter, ho appena esaminato una quarantina di stelle vicine, del tipo a spettro solare approssimativo. Ho guardato nella riga di ventun centimetri dell’idrogeno, che tutti dicono sia l’ovvia frequenza di segnale, perché l’idrogeno è l’elemento più abbondante dell’Universo, e così via. E ho operato con la più alta sensibilità mai sperimentata. Non c’è traccia di un segnale. Forse non c’è nessuno là fuori. Forse l’intera faccenda è una perdita di tempo.»

«Come la vita su Venere? Chiacchiere da quattro soldi. Venere è un mondo infernale; è solo un pianeta. Ma ci sono centinaia di miliardi di stelle nella Galassia. Ne hai guardate pochissime. Non diresti che sia un po’ prematuro rinunciare? Hai trattato una miliardesima parte del problema. Probabilmente ancora meno, se consideri altre frequenze.»

«Lo so, lo so. Ma non hai la sensazione che se sono da qualche parte, siano ovunque? Se esseri davvero avanzati vivono mille anni luce lontano da noi, non dovrebbero avere un avamposto nelle nostre vicinanze? Si potrebbe fare il SETI per sempre, sai, e non convincersi mai di aver completato la ricerca.»

«Oh, stai cominciando a parlare come Dave Drumlin. Se non possiamo trovarli durante la nostra vita, lui non è interessato. Siamo solo all’inizio del SETI. Tu sai quante possibilità ci sono. E’ il momento di lasciare aperta ogni opzione; è il momento di essere ottimisti. Se vivessimo in un qualsiasi periodo precedente alla storia umana, potremmo porci degli interrogativi a questo j proposito per tutta la nostra esistenza e non potremmo fare nulla per trovare una risposta. Ma questo momento è unico. E’ la prima volta che qualcuno è in grado di cercare un’intelligenza extraterrestre. Hai costruito il rivelatore per cercare civiltà sui pianeti di milioni di altre stelle. Nessuno ti sta garantendo il successo, ma puoi pensare a un problema più importante? Supponi che là fuori ci stiano inviando dei segnali e che nessuno sulla Terra stia ascoltando. Sarebbe una beffa, un’assurdità. Non ti vergogneresti della tua civiltà se fossimo in grado di ascoltare e non avessimo lo spirito d’iniziativa per farlo?»

Duecentocinquantasei immagini del mondo di sinistra sciamarono sulla sinistra. Duecentocinquantasei immagini del mondo di destra scivolarono via a destra. Integrò tutte le cinquecentododici immagini in una visione avvolgente di ciò che la circondava. Si trovava immersa in una foresta di grandi steli ondeggianti, alcuni verdi, altri scoloriti, quasi tutti più grossi di lei. Ma non aveva difficoltà ad arrampicarsi su e giù, a mantenersi talvolta in equilibrio precario su uno stelo ricurvo, a cadere sul soffice cuscino di steli coricati che si stendeva sotto di lei, e quindi a continuare con precisione nel suo viaggio. Poteva dire di seguire la pista giusta. Faceva meravigliosamente fresco. Non le sarebbe importato nulla, se era là che la pista conduceva, di scalare un ostacolo cento o mille volte più alto di lei. Non aveva bisogno di piloni o di funi; era già equipaggiata. Il terreno immediatamente davanti a lei era fragrante di un odore caratteristico lasciato di recente, ne era certa, da un’altra esploratrice del suo clan. Portava al cibo; lo faceva quasi sempre. Il cibo appariva automaticamente. Le esploratrici lo trovavano e segnavano il cammino. Lei e le sue compagne lo avrebbero riportato indietro al nido. Talvolta il cibo era una creatura abbastanza simile a lei; altre volte si trattava soltanto di un pezzette amorfo o cristallino. Di quando in quando era così grande che richiedeva l’ausilio di molti individui del suo clan, che dovevano lavorare assieme, sollevandolo e facendolo avanzare sugli steli piegati, per portarlo a casa. Fece schioccare le mandibole pregustandone il sapore. «Quello che mi preoccupa di più,» continuò lei, «è il contrario, cioè la possibilità che loro non stiano provando. Potrebbero comunicare con noi, d’accordo, ma non lo stanno facendo perché non ci vedono nessuno scopo. Come…» — gettò un’occhiata all’orlo della tovaglia che avevano disteso sull’erba — «come le formiche. Occupano il medesimo nostro paesaggio. Hanno moltissimo da fare, una quantità enorme di cose che le tengono occupate. A un certo livello, sono perfettamente consapevoli del loro ambiente. Ma noi non cerchiamo di comunicare con loro. Perciò non penso che abbiano la più vaga idea della nostra esistenza.»

Una grossa formica, più intraprendente delle sue compagne, si era avventurata sulla tovaglia e stava marciando speditamente lungo la diagonale di uno dei riquadri rossi e bianchi. Soffocando un leggero moto di disgusto, Ellie la rispedì cautamente nell’erba cui apparteneva.

3 RUMORE BIANCO

«Dolci sono le udite melodie, ma più dolci quelle non udite.»

JOHN KEATS, «Ode sopra un’urna greca» (1820)

«Le menzogne più crudeli sono spesso dette in silenzio.»

ROBERT Louis STEVENSON, «Virginibus Puerisque» (1881)

Gli impulsi stavano viaggiando da anni attraverso la grande oscurità interstellare. Di quando in quando intercettavano una nube irregolare di gas e polvere, e un po’ dell’energia veniva assorbita o sparpagliata. I residui continuavano nella loro direzione originale. Davanti a loro c’era una debole luminosità giallastra, che aumentava lentamente di intensità tra le altre luci costanti. Ora, benché potesse apparire a occhio umano ancora come un punto, era di gran lunga l’oggetto più brillante nel cielo nero. Gli impulsi stavano incontrando uno sciame di gigantesche palle di neve.

La donna che stava entrando nell’amministrazione dell’Argus era una creatura sottile verso la quarantina. Gli occhi, grandi e distaccati, contribuivano ad addolcire la spigolosa struttura ossea del suo volto. I lunghi capelli scuri erano morbidamente raccolti da un fermaglio di tartaruga sulla nuca. In una pratica T-shirt e in una gonna cachi, percorse un corridoio al primo piano e oltrepassò una porta su cui era scritto: «E. Arroway, Direttore.» Mentre toglieva il pollice dalla serratura a impronte digitali, sulla sua mano destra si sarebbe potuto notare un anello con una pietra rossa stranamente lattiginosa incastonata in maniera maldestra. Dopo aver acceso una lampada da tavolo, si mise a rovistare in un cassetto finché trovò un paio di cuffie. Per qualche istante si illuminò, sulla parete accanto alla sua scrivania, una citazione dalle «Meditazioni» di Franz Kafka: Ora le Sirene possiedono un’arma ancor più fatale del loro canto, ossia il loro silenzio… Qualcuno può forse esser sfuggito al loro canto; ma mai certo al loro silenzio.

Spegnendo la luce con un cenno della mano, si diresse verso la porta nella semioscurità.

Nella stanza di controllo si accertò in fretta che tutto fosse in ordine. Dalla finestra poteva vedere alcuni dei 131 radiotelescopi che si snodavano per decine di chilometri attraverso il deserto spinoso del New Mexico come una bizzarra specie di fiore meccanico proteso verso il cielo. Era il primo pomeriggio ed era rimasta alzata fino a tardi la notte precedente. La radioastronomia può essere praticata durante il giorno, perché l’aria non disperde le onde radio provenienti dal Sole come fa con la comune luce visibile. Per un radiotelescopio puntato dovunque, tranne che nelle immediate vicinanze del Sole, il cielo è nero come la pece. Fatta eccezione per le sorgenti radio. Al di là dell’atmosfera terrestre, dall’altra parte del cielo, c’è un universo brulicante di emissioni radio. Studiando le onde radio si possono conoscere pianeti, stelle e galassie, la composizione di grandi nubi di molecole organiche che vagano tra le stelle, l’origine, l’evoluzione e il destino dell’universo. Ma tutte queste radioemissioni sono naturali: provocate da processi fisici, dagli elettroni che si muovono a spirale in presenza del campo magnetico galattico, o dalle molecole interstellari in collisione le une con le altre, o dai remoti echi del Big Bang spostati verso il rosso, spazianti dai raggi gamma all’origine dell’universo alle radio onde imbrigliate e fredde che riempiono tutto lo spazio nella nostra epoca. Nei pochissimi decenni in cui gli uomini si sono dedicati alla radioastronomia, non c’è mai stato un vero segnale dalle profondità dello spazio, qualcosa di tecnologico, qualcosa di artificiale, qualcosa di progettato da una mente aliena. Ci sono stati dei falsi allarmi. La regolare variazione temporale dell’emissione radio delle quasar e, specialmente, delle pulsar è stata presa all’inizio, timidamente e cautamente, per una sorta di segnale-annuncio proveniente da qualcun altro, o forse per un radiofaro per navi esotiche che incrociavano negli spazi interstellari. Ma si trattava di qualcos’altro che presentava lo stesso carattere esotico, forse, di un segnale inviato da esseri presenti nell’oscurità del cielo. Le I quasar sembravano essere formidabili fonti di energia, probabilmente connesse con massicci buchi neri al centro di galassie, osservate, data la loro enorme distanza, nella loro gioventù, com’erano miliardi di anni fa. Le pulsar fanno ruotare rapidamente dei nuclei atomici delle dimensioni di una città. E ci sono stati altri svariati e misteriosi messaggi che sono risultati intelligenti in un certo modo, ma non molto extraterrestri. I cicli ora venivano solcati da segreti sistemi radar per scopi militari e satelliti per le radiocomunicazioni, nonostante le petizioni di alcuni radioastronomi civili. Talvolta si trattava di sistemi davvero fuorilegge, che ignoravano gli accordi internazionali sulle telecomunicazioni. Non c’erano azioni giudiziarie né condanne. Di quando in quando, tutte le nazioni negavano la loro responsabilità. Ma non c’era mai stato un segnale alieno netto e preciso.

Eppure l’origine della vita sembrava essere così facile ora — e c’erano tanti sistemi planetari, tanti mondi e tanti miliardi di anni disponibili per l’evoluzione biologica — che era difficile credere che la Galassia non brulicasse di vita e di intelligenza. Il progetto Argus era il più grande impianto del mondo destinato alla ricerca radio di intelligenze extraterrestri. Le onde radio viaggiavano alla velocità della luce, di cui nulla si propagava più rapidamente a quanto pareva. Erano facili da produrre e facili da rilevare. Persino civiltà tecnologicamente arretratissime come quella della Terra, avevano scoperto le onde radio quasi all’inizio della loro esplorazione del mondo fisico. Persino con la rozza tecnologia radio disponibile — adesso, a pochi decenni soltanto dall’invenzione del radiotelescopio — era quasi possibile comunicare con un’identica civiltà al centro della Galassia. Ma c’erano così tanti luoghi del cielo da esaminare, e così tante frequenze su cui una civiltà aliena avrebbe potuto trasmettere, che si richiedeva un programma sistematico e paziente di osservazione. Argus era in piena attività da più di quattro anni. Cerano stati guasti, segnali di allarme, indizi, falsi allarmi. Ma nessun messaggio. «Buon pomeriggio, dottoressa Arroway.»

L’unico ingegnere le sorrise affabilmente e lei contraccambiò con un cenno del capo. Tutti i 131 telescopi del Progetto Argus erano controllati da computers. Il sistema scandagliava il cielo da solo, verificando che non ci fossero guasti meccanici o elettronici, raffrontando i dati provenienti da differenti elementi della schiera di telescopi. Ellie diede un’occhiata all’analizzatore con un miliardo di canali, un impianto elettronico che ricopriva un’intera parete, e all’indicatore visivo dello spettrometro.

Non c’era davvero molto da fare per gli astronomi e i tecnici mentre il Very Large Array, nel corso degli anni, passava in rassegna lentamente il cielo. Se scopriva qualcosa di interessante, suonava automaticamente un allarme, mettendo in stato di allerta gli scienziati addetti al progetto, se necessario anche quando fossero stati a letto. In quel caso Ellie Arroway si buttava al lavoro per determinare se si trattasse di un’avaria agli strumenti o di una qualche diavoleria spaziale americana o sovietica. Con lo staff di ingegneri escogitava modi per migliorare la sensibilità dell’apparecchiatura. C’era un segnale ripetuto, una qualche regolarità nell’emissione? Incaricava qualcuno degli addetti ai radiotelescopi di esaminare curiosi oggetti astronomici che erano stati individuati di recente da altri osservatori. Dava una mano ai membri dello staff e agli scienziati ospiti i cui progetti non avevano nessun rapporto con SETI. Volava a Washington per mantenere vivo l’interesse nell’organizzazione per i fondi, la National Science Foundation. Teneva alcune conferenze pubbliche sul Progetto Argus al Rotary Club di Socorro o all’Università del New Mexico ad Albuquerque e occasionalmente porgeva il benvenuto a un intraprendente reporter che arrivava nello sperduto New Mexico all’improvviso.

Ellie doveva stare attenta a non lasciarsi sopraffare dalla noia. I suoi collaboratori erano abbastanza piacevoli, ma, a parte il fatto che una stretta relazione personale con un subordinato sarebbe stata sconveniente, non si sentiva tentata da nessuna vera intimità. C’erano stati alcuni rapporti brevi, molto caldi, ma essenzialmente casuali, con uomini del posto che non avevano niente a che fare con il Progetto Argus. Anche in questo settore della sua vita una sorta di tedio, di apatia si era impadronita di lei.

Si sedette davanti a una delle consolle e collegò le cuffie. Si rendeva pienamente conto che era una vana presunzione il pensare che lei, ascoltando uno o due canali, potesse scoprire un segnale regolare quando l’enorme sistema computerizzato che controllava un miliardo di canali non c’era riuscito. Ma le dava la modesta illusione di sentirsi utile. Si appoggiò all’indietro, con tli occhi semichiusi, con un’espressione quasi sognante sul volto, davvero bella, si permise di pensare il tecnico. Udì, come al solito, una sorta di crepitio elettrostatico, un rumore casuale che echeggiava continuamente. Una volta, mentre ascoltava una parte del cielo che includeva la stella AC+79 3888 nella costellazione di Cassiopea, aveva creduto di percepire una specie di canto che aumentava e diminuiva d’intensità in maniera tormentosa, arrivando quasi a convincersi che c’era davvero qualcosa lassù. Si trattava della stella verso cui il veicolo spaziale Voyager 1, ora in prossimità dell’orbita di Nettuno, avrebbe finito per fare rotta. Il veicolo trasportava un disco d’oro su cui erano incise notazioni scientifiche e registrati suoni terrestri. Era possibile che ci stessero inviando la loro musica alla velocità della luce, mentre noi contraccambiavamo a una velocità diecimila volte minore? Altre volte, come adesso, quando il crepitio elettrostatico era chiaramente irregolare, si ricordava della ramosa affermazione di Shannon nella teoria dell’informazione, che il messaggio meglio tradotto in cifra era indistinguibile dal rumore, a meno che non si fosse già stati in possesso del cifrario. Premette rapidamente alcuni tasti sulla consolle che le stava davanti e sintonizzò due delle frequenze a banda stretta l’una contro l’altra, una in ciascun auricolare. Nulla. Ascoltò i due piani di polarizzazione delle onde radio, e quindi il contrasto tra la polarizzazione lineare e circolare. C’era un miliardo di canali tra cui scegliere. Si poteva passarla vita tentando di superare il computer, ascoltando con orecchie e cervelli umani pateticamente limitati, cercando un segnale regolare. Sapeva che gli uomini sono bravi a percepire tenui segnali che ci sono davvero, ma anche a immaginarli quando sono completamente assenti. C’erano alcune sequenze di impulsi, alcune conformazioni di cariche elettrostatiche che potevano produrre per un attimo una battuta sincopata o una breve melodia. Si inserì in un paio di radiotelescopi che erano in ascolto di una sorgente radio galattica conosciuta. Udì un glissando sulle frequenze radio, un «sibilo» causato dalla dispersione delle onde radio a opera degli elettroni nel rarefatto gas interstellare esistente tra la radiosorgente e la Terra. Più marcato era il glissando e più elettroni c’erano lungo il percorso, e più lontana era la sorgente dalla Terra. L’aveva fatto così spesso che era capace, solo sentendo un fischio radio per la prima volta, di formulare un giudizio preciso sulla sua distanza. Questo, calcolò, era alla distanza di circa mille anni luce, molto oltre le stelle vicine, ma ancora ben all’interno della Via Lattea. Ellie ritornò al procedimento di controllo del cielo del Progetto Argus. Di nuovo nessun segnale regolare. Era come se un musicista stesse ascoltando il rombo di un temporale lontano. Gli occasionali brandelli di segnale la perseguitavano e si insinuavano nella sua memoria con una tale insistenza che talvolta si sentiva costretta a riesaminare i nastri di un particolare percorso di osservazione per vedere se vi fosse qualcosa che la sua mente aveva percepito e che i computers si erano lasciati sfuggire.

Per tutta la vita, i sogni le erano stati amici. I suoi sogni erano insolitamente dettagliati, ben strutturati, pieni di colore. Riusciva a scrutare da vicino il volto del padre o il pannello posteriore di un vecchio apparecchio radio, e il sogno le regalava tutti i particolari visivi. Era sempre stata in grado di ricordare i suoi sogni, persino nei minimi dettagli, tranne le volte in cui era stata estremamente sotto pressione, come prima del suo esame orale di dottorato in fisica, o quando lei e Jesse stavano rompendo. Ma ora stava trovando difficile ricordare le immagini dei suoi sogni. E, in modo sconcertante, cominciò a sognare dei suoni, come fanno coloro che sono ciechi dalla nascita. Nelle primissime ore del mattino, il suo inconscio generava un tema o un breve canto che non aveva mai sentito prima. Allora si svegliava, dava un ordine udibile alla lampada sul suo tavolino da notte, prendeva la penna che aveva messo là a tale scopo, tracciava un pentagramma e affidava la musica alla carta. Talvolta, dopo una lunga giornata la suonava sul suo registratore e si chiedeva se l’aveva udita nella costellazione di Ofiuco o del Capricorno. Era ossessionata, doveva tristemente ammetterlo, dagli elettroni e dalle lacune mobili presenti nei ricevitori e negli amplificatori, e dalle particelle cariche e dai campi magnetici del freddo gas rarefatto esistente tra le lontane stelle tremolanti.

Era una singola nota ripetuta, acuta e aspra nei contorni. Ci mise un attimo a riconoscerla. Allora fu sicura di non averla udita per trentacinque anni. Si trattava della puleggia metallica della corda per il bucato, che cigolava lamentosamente ogni volta che sua madre dava uno strappo e stendeva un’altra camicia appena lavata ad asciugare al sole. Quand’era piccina, aveva amato quell’esercito di mollette in marcia e quando non c’era nessuno in giro affondava il volto nelle lenzuola asciutte. L’odore, dolce e penetrante al tempo stesso, l’incantava. Poteva arrivarne una ventata adesso? Ricordava le proprie risa, si rivedeva mentre trotterellava via dalle lenzuola, quando la madre la sollevava con gesto gentile — al cielo pareva a lei — e la portava via sotto il braccio, come se si fosse trattato di un piccolo involto di biancheria da riporre ordinatamente nel cassettone che si trovava nella camera da letto dei suoi genitori.

«Dottoressa Arroway? Dottoressa Arroway?» Il tecnico si era chinato a osservare il movimento nervoso delle sue palpebre e il suo debole respiro.

Lei battè le palpebre due volte, rimosse le cuffie e gli fece un piccolo sorriso di scuse. Talvolta i suoi colleghi dovevano parlare a voce molto alta se volevano sopraffare il rumore radioelettrico cosmico amplificato. A sua volta lei compensava il volume del rumore — era riluttante a togliersi le cuffie per brevi conversazioni — urlando le sue risposte. Quando era abbastanza assorta, uno scambio casuale o persino allegro di battute poteva sembrare a un osservatore inesperto come un frammento di una discussione violenta e ingiustificata scoppiata inaspettatamente nella quiete della grande installazione radio. Ma questa volta disse soltanto: «Mi dispiace. Mi devo esser lasciata trasportare.»

«C’è il dottor Drumlin al telefono. Si trova nell’ufficio di Jack e dice che ha un appuntamento con lei.»

«Santo Dio, me n’ero scordata.»

Con il passare degli anni, l’acutezza d’ingegno di Drumlin era rimasta immutata, ma si erano aggiunte numerose manie personali che non si erano manifestate quando lei era stata per breve tempo uno dei suoi studenti laureati al Cal Tech. Per esempio, adesso lui aveva la sconcertante abitudine di controllare, quando si credeva inosservato, se avesse la patta aperta. Con gli anni era divenuto sempre più convinto che gli extraterrestri non esistevano, o almeno che erano troppo rari, troppo lontani per poter essere scoperti. Era venuto all’Argus per tenervi la conferenza scientifica settimanale. Ma lei scoprì che era venuto anche con un altro intento. Egli aveva scritto una lettera alla National Science Foundation insistendo perché l’Argus ponesse termine alla sua ricerca di intelligenze extraterrestri e si dedicasse a tempo pieno a una radioastronomia più convenzionale. Estrasse la lettera da una tasca interna della giacca e insistette perché lei ne prendesse visione.

«Ma siamo al lavoro soltanto da quattro anni e mezzo. Abbiamo esaminato meno di un terzo del cielo settentrionale. E’ il primo rilevamento che riesce a ridurre al minimo l’intero rumore radioelettrico con passabande ottimali. Perché vorresti che ci fermassimo adesso?»

«No, Ellie, è un lavoro interminabile, fra una decina d’anni non troverai traccia di nulla. Allora dimostrerai che si deve costruire un’altra installazione Argus a un costo di centinaia di milioni di dollari in Australia o in Argentina per osservare il cielo meridionale. E quando anche questo fallirà, parlerai di costruire un paraboloide con un alimentatore in volo libero in orbita terrestre per poter ricevere le onde millimetriche. Sarai sempre capace di pensare a qualche tipo di osservazione che non è stata fatta. Inventerai sempre una qualche spiegazione sulle ragioni che spingono gli extraterrestri a trasmettere di preferenza dove non abbiamo guardato.»

«Oh, Dave, abbiamo affrontato questo argomento un centinaio di volte. Se falliamo, impariamo qualcosa sulla scarsità di vita intelligente, o almeno di vita intelligente che pensa come noi e vuole comunicare con civiltà arretrate come noi. E se ci riusciamo, sarà il successo cosmico. Non c’è scoperta più grande che si possa fare.»

«Ci sono progetti di prim’ordine che non trovano mai liberi i telescopi. C’è del lavoro da fare sull’evoluzione delle quasar, sulle pulsar binarie, sulla cromosfera di stelle vicine, e persino su quelle strane proteine interstellari. Questi progetti stanno aspettando in coda perché questo impianto — di gran lunga il miglior gruppo di dipoli in fase del mondo — viene usato quasi interamente per SETI.»

«Settantacinque per cento per SETI, Dave, venticinque per cento per la radioastronomia di routine.»

«Non chiamarla di routine. Abbiamo avuto l’opportunità di guardare indietro al tempo in cui si stavano formando le galassie, o forse addirittura più indietro. Possiamo esaminare i nuclei di gigantesche nubi molecolari e i buchi neri al centro delle galassie. C’è una rivoluzione imminente nel campo dell’astronomia e tu ci stai frapponendo degli ostacoli.»

«Dave, cerca di non mettere la cosa su un piano personale. Argus non sarebbe mai stato costruito se non ci fosse stato l’appoggio pubblico a SETI. L’idea di Argus non è mia. Sai bene che mi hanno assunto come direttore quando si stavano ancora costruendo gli ultimi quaranta paraboloidi. La National Science Foundation è completamente favorevole al progetto…»

«Non completamente, e non se io ho qualcosa da dire a proposito. E’ esibizionismo. Si vuoi fornire materia a ufologi fanatici, a fumetti e ad adolescenti imbecilli.»

Ormai Drumlin stava proprio urlando ed Ellie si sentì irresistibilmente tentata di tappargli la bocca. Per la natura del suo compito e per la sua relativa superiorità, finiva per trovarsi costantemente in situazioni in cui era la sola donna presente, a parte quelle che servivano il caffè o le stenografe. Nonostante ciò che sembrava uno sforzo di una vita da parte sua, c’era ancora una schiera di scienziati che parlavano solo tra di loro, insistevano nell’interromperla e ignoravano, quando potevano, quello che lei aveva da dire. Di quando in quando, ce n’erano di quelli, come Drumlin, che manifestavano una chiara antipatia. Ma almeno la stava trattando come trattava molti uomini. Era imparziale nei suoi accessi d’ira, riversandoli equanimemente su scienziati di ambo i sessi. C’erano pochissimi dei suoi colleghi che non mostrassero imbarazzanti mutamenti di personalità in presenza di Ellie. Doveva passare più tempo con loro, pensò. Persone come Kenneth der Heer, il biologo molecolare del Salk Institute che era stato nominato di recente consigliere scientifico presidenziale. E Peter Valerian, naturalmente.

L’insofferenza di Drumlin nei confronti dell’Argus era condivisa, ne era al corrente, da molti astronomi. Dopo i primi due anni, una sorta di depressione si era diffusa nell’osservatorio. Ci furono appassionate discussioni allo spaccio viveri o durante le lunghe vigilanze, in cui c’era ben poco da fare, a proposito delle intenzioni dei presunti extraterrestri. Era impossibile immaginare come potessero essere diversi da noi. Era già abbastanza difficile indovinare le intenzioni dei deputati di Washington. Quali sarebbero state le intenzioni di specie fondamentalmente diverse di esseri, su mondi fisicamente diversi, a centinaia o migliaia di anni luce di distanza? Alcuni erano convinti che il segnale non sarebbe stato trasmesso affatto nello spettro radio, ma nell’infrarosso o nel visibile o da qualche parte tra i raggi gamma. O forse gli extraterrestri stavano segnalando a tutto spiano ma con una tecnologia che gli uomini avrebbero inventato di lì a mille anni. Gli astronomi che lavoravano presso altre istituzioni stavano facendo straordinarie scoperte tra le stelle e le galassie, individuando quegli oggetti che, per un qualsiasi meccanismo, producevano intense onde radio. Altri radioastronomi pubblicavano documentazioni scientifiche, partecipavano a congressi, venivano confortati e motivati dalla sensazione di far carriera e di avere una meta. Gli astronomi dell’Argus avevano la tendenza a non pubblicare ed erano di solito ignorati quando si invitava la categoria a presentare dei saggi all’annuale convegno dell’American Astronomical Society o ai simposi triennali e alle sessioni plenarie dell’International Astronomical Union. Perciò, tenendo conto del parere espresso dalla National Science Foundation, la leadership dell’Argus aveva riservato il venticinque per cento del tempo di osservazione a progetti disgiunti dalla ricerca di-intelligenze extraterrestri. Erano state fatte alcune importanti scoperte sugli oggetti extragalattici che sembravano, paradossalmente, muoversi più velocemente della luce; sulla temperatura della superficie di Tritone, la grande luna di Nettuno; e sulla materia nera alla periferia di vicine galassie dove non si riusciva a vedere nessuna stella. Il morale cominciò a risollevarsi. Il personale dell’Argus sentì che stava dando un contributo importante alla scoperta astronomica. Il tempo per completare un esame approfondito del cielo era stato allungato, era vero, ma adesso le loro carriere professionali avevano una sorta di rete di salvataggio. Potevano non riuscire a trovare segni di altri esseri intelligenti, ma f potevano carpire altri segreti custoditi dalla natura.

La ricerca di intelligenze extraterrestri — ovunque abbreviata in SETI, tranne che da coloro che parlavano in maniera un po’ più ottimistica di comunicazione con intelligenze extraterrestri (CETI) — era essenzialmente un’osservazione di routine, il noioso compito per cui la maggior parte dell’installazione era stata costruita. Ma si aveva la sicurezza di poter usare per un quarto del tempo la più potente schiera di radiotelescopi presente sulla Terra per altri progetti. Si doveva soltanto superare la parte tediosa. Una piccola quantità di tempo era stata anche riservata ad astronomi provenienti da altre istituzioni. Mentre il morale era migliorato notevolmente, c’erano molti che condividevano il punto di vista di Drumlin; e guardavano con avidità quel miracolo tecnologico rappresentato dai 131 radiotelescopi dell’Argus e immaginavano di poterne disporre per i loro programmi personali, indubbiamente meritori. Con Dave, Ellie fu ora conciliante, ora polemica, ma senza successo. Lui non era di umore gradevole.

La conferenza di Drumlin fu in parte un tentativo di dimostrare che non c’erano extraterrestri in nessuna parte dell’universo. Se gli uomini avevano realizzato tanto in così poche mi-gliaia di anni di alta tecnologia, di che cosa doveva essere capace, chiese, una specie davvero avanzata? Avrebbero dovuto essere in grado di muovere le stelle, di riplasmare le galassie. Eppure, in tutta l’astronomia non c’era segno di un fenomeno che non potesse essere spiegato in base a processi naturali, per il quale si fosse fatto appello a un’intelligenza extraterrestre. Perché Argus non aveva ancora scoperto un segnale radio? Supponevano che ci fosse solo un trasmettitore radio in tutto il cielo? Si rendevano conto di quanti miliardi di stelle avessero già esaminato? L’esperimento era stato lodevole, ma ora era finito. Non dovevano passare in rassegna il resto del cielo. La risposta era lampante. Né nelle profondità dello spazio, né nelle vicinanze della Terra c’era traccia di extraterrestri. Non esistevano. Al momento delle domande, uno degli astronomi dell’Argus si informò dell’Ipotesi Zoo, l’opinione controversa che gli extraterrestri ci fossero davvero ma che avessero deciso di non svelare la loro presenza allo scopo di nascondere agli uomini il fatto che c’erano altri esseri intelligenti nel cosmo: come uno specialista in comportamento dei primati preferirebbe osservare un gruppo di scimpanzè nella boscaglia senza interferire nelle loro attività. Drumlin replicò rivolgendo un’altra domanda: era verosimile che con un milione di civiltà nella Galassia — quello era il numero, egli disse, che veniva sbandierato all’Argus — non ci fosse un solo bracconiere? Come mai ogni civiltà della Galassia si conformava a un’etica di non interferenza? Era credibile che neppure una di esse volesse interessarsi della Terra?

«Ma sulla Terra,» Ellie ribattè, «bracconieri e guardiacaccia possiedono approssimativamente uguali livelli tecnologici. Se il guardiacaccia si trova un passo avanti — con radar ed elicotteri, diciamo — allora i bracconieri sono impossibilitati ad agire.» L’osservazione venne accolta calorosamente da alcuni membri del personale dell’Argus, ma Drumlin disse soltanto: «Sei tendenziosa Ellie, davvero tendenziosa.»

Per schiarirsi le idee Ellie aveva l’abitudine di fare lunghe corse solitarie sulla sua Thunderbird modello 1958, un’auto ben conservata che costituiva la sua unica stravaganza, con il tettuccio mobile e piccoli oblò di vetro ai lati del sedile posterie-re. Spesso lasciava il tettuccio a casa e sfrecciava per il deserto spinoso di notte, con i finestrini abbassati e i capelli bruni che le svolazzavano attorno al capo. Con il passar degli anni le sembrava di conoscere ormai ogni piccola misera città, ogni pinnacolo e ogni altopiano roccioso, e ogni poliziotto dell’autostrada della regione sud-occidentale del New Mexico. Dopo una, notte trascorsa a osservare il cielo, le piaceva oltrepassare rombando il posto di guardia dell’Argus (era prima che venisse! eretto il recinto), e, cambiando rapidamente le marce, puntare verso nord. Nei pressi di Santa Fé, si potevano vedere le prime luci dell’alba sulle montagne del Sangre de Cristo. (Si chiedeva perché mai una religione dovesse chiamare i suoi luoghi con il sangue e il corpo, il cuore e il pancreas del suo personaggio più’ venerato e non con il cervello, tra gli altri organi importanti ma trascurati.)

Stavolta si diresse in direzione sud-est, verso le montagne di Sacramento. Dave poteva aver ragione? SETI e Argus potevano essere una sorta di illusione di alcuni astronomi insufficientemente ostinati? Era vero che se anche fossero passati chissà quanti anni senza ricevere un messaggio, il progetto sarebbe andato avanti, inventando sempre una nuova strategia per la civiltà che trasmetteva, creando continuamente nuovi e costosi strumenti? Quando sarebbe stata disposta a rinunciare e a rivolgersi a qualcosa di più sicuro, a qualcosa che desse maggiori garanzie di risultati? Che cosa avrebbe rappresentato un segno convincente di fallimento? L’osservatorio di Nobeyama in Giappone aveva appena annunciato la scoperta di adenosina, una complessa molecola organica, un componente fondamentale del DNA, nello spazio, in una densa nube molecolare. Lei poteva certamente dedicarsi con profitto alla ricerca di molecole imparentate con la vita nello spazio, anche se rinunciava a quella di un’intelligenza extraterrestre.

Sulla strada di alta montagna, lanciò uno sguardo all’orizzonte meridionale e vide di sfuggita la costellazione del Centauro. In quel gruppo ordinato di stelle gli antichi Greci avevano visto una creatura chimerica, mezzo uomo, mezzo cavallo, che aveva insegnato a Zeus la saggezza. Ma Ellie non sarebbe mai riuscita a vedervi qualcosa che somigliasse seppur lontanamente a un centauro. Era Alpha Centauri, la stella più luminosa della costellazione, che l’affascinava. Era la stella più vicina, distante soltanto 4,3 anni luce dal sistema solare. In realtà, Alpha Centauri era un sistema triplo, in cui due soli orbitavano strettamente l’uno attorno all’altro, mentre un terzo, più lontano, girava attorno ai primi due. Dalla Terra, le tre stelle apparivano congiunte a formare un solitario punto luminoso. In notti particolarmente chiare, come quella, lei poteva talvolta vederlo librarsi sul Messico. Talvolta, quando l’aria si era riempita del pulviscolo del deserto dopo parecchi giorni consecutivi di tempeste di sabbia, si recava tra le montagne per raggiungere una modesta altezza e la trasparenza atmosferica, usciva dall’auto e contemplava il più vicino sistema stellare, dove era possibile che vi fossero dei pianeti, anche se molto difficili da scoprire. Qualcuno poteva orbitare vicino a uno dei tre soli. Un’orbita più interessante, con una meccanica celeste di discreta stabilità, era quella a otto attorno ai due soli interni. Si domandava come potesse essere la vita su un mondo con tre soli in cielo. Probabilmente ancora più calda che nel New Mexico.

Ellie si accorse con un leggero brivido di piacere che l’asfalto dell’autostrada a doppia corsia era fiancheggiato da conigli. Li aveva visti in precedenza, specialmente quando le sue corse in auto l’avevano portata fino nel West Texas. Stavano sulle quattro zampe ai bordi della strada; ma quando venivano illuminati per un attimo dai nuovi fari al quarzo della Thurderbird si sollevavano sulle zampe posteriori, con quelle anteriori che pendevano mollemente, attoniti. Per miglia c’era una guardia d’onore di conigli del deserto che la salutavano, così sembrava, mentre lei sfrecciava rombando nella notte. Guardavano in su, mille nasi rosa palpitanti, duemila occhi lucidi risplendenti nell’oscurità, mentre questa apparizione si precipitava verso di loro.

Forse è una sorta di esperienza religiosa, pensò. Essi sembravano per lo più esemplari giovani. Forse non avevano mai visto i fari di un’auto. A pensarci, era abbastanza stupefacente: due intensi raggi di luce che viaggiavano alla velocità di centotrenta chilometri all’ora. Nonostante le migliaia di conigli che si allineavano lungo la strada, non sembrava mai che ce ne fosse uno in mezzo alla carreggiata, vicino allo spartitraffico, non si percepiva mai un confuso zampettare via dalla strada, non si scorgeva mai un povero corpicino senza vita, con le orecchie allungate a fianco della massicciata. Perché se ne stavano allineati lungo la via? Forse era la temperatura dell’asfalto ad attirarli o poteva darsi che stessero soltanto brucando i vicini cespugli e che le luci violente che si avvicinavano avessero stimolato la loro curiosità.

Ma era logico che nessuno di loro avesse mai compiuto alcuni brevi balzi per visitare i suoi cugini al di là della strada? Che cosa immaginavano fosse l’autostrada? Una presenza aliena fra loro, dalla funzione misteriosa, costruita da creature che la maggior parte di loro non aveva mai visto? Dubitava che si ponessero un simile interrogativo.

Lo stridio dei suoi pneumatici sull’autostrada era una specie di rumore bianco e si accorse che anche qui, istintivamente, era in ascolto per scoprirvi un messaggio regolare. Aveva preso l’abitudine di ascoltare attentamente molte fonti di rumore bianco: il motore del frigorifero che si metteva in moto nel cuore della notte; l’acqua che scorreva nella sua vasca da bagno; la lavatrice quando faceva il bucato nello stanzino a fianco della cucina; il mugghiare dell’oceano durante una breve vacanza all’isola di Cozumel al largo dello Yucatan, che aveva abbreviato per l’impazienza di ritornare a lavorare. Ascoltava queste sorgenti quotidiane di rumore casuale e tentava di determinare se vi fossero in loro minori apparenti caratteri di periodicità che nelle scariche elettriche interstellari. Era stata a New York City l’agosto precedente per un convegno dell’URSI (l’abbreviazione francese per International Scien-tific Radio Union). La metropolitana era pericolosa, le era stato detto, ma il rumore bianco era irresistibile. Nel «clacka-clacka» di quella sotterranea aveva creduto di aver sentito una chiave, e con decisione saltò una mezza giornata di incontri, viaggiando dalla Trentaquattresima Strada a Coney Island, per poi ritornare al centro di Manhattan, e quindi su una diversa linea dirigersi al più lontano Queens. Cambiò treno in una stazione di Jamaica e finalmente ritornò un po’ accaldata e ansimante — era, dopo tutto, un afoso giorno d’agosto, si disse — all’hotel del congresso. Talvolta, quando la metropolitana affrontava una curva stretta le lampadine interne si spegnevano ed Ellie poteva vedere una successione regolare di luci, di un bel blu elettrico, che sfrecciavano via come se si fosse trovata in un’impossibile astronave iperrelativistica, viaggiante a velocità folle tra un ammasso di giovani stelle azzurre supergiganti. Poi, quando il treno infilava un rettilineo, le luci interne si riaccendevano e lei ritornava cosciente dell’odore acre, dell’afrore di umanità, delle gomitate dei viaggiatori in piedi, delle piccole telecamere di sorveglianza (chiuse in gabbie di protezione che non impedivano il loro accecamento con le vernici spray), delle stilizzate piante multicolori che illustravano il completo sistema di trasporto sotterraneo della città di New York, e dello stridore ad alta frequenza dei freni quando si entrava nelle stazioni.

Si rendeva conto di una certa eccentricità della cosa, ma aveva sempre avuto una fantasia sbrigliata. Benissimo, così aveva la mania, innocua, di ascoltare i rumori! Nessuno sembrava farci molto caso e, in tutti i modi, era qualcosa di connesso al suo lavoro. Se fosse stata furba, probabilmente avrebbe dedotto le spese del viaggio a Cozumel per il suono dei frangenti dalle sue imposte sul reddito. Forse, stava proprio diventando preda di un’ossessione.

Si accorse con un moto di sorpresa di essere arrivata alla stazione di Rockefeller Center. Mentre scendeva in fretta calpestando dei giornali abbandonati sul pavimento della vettura della metropolitana, era stata attratta da un titolo del «News-Post»: GUERRIGLIERI si IMPADRONISCONO DELLA RADIO DI JOBURG. Se simpatizziamo per loro, sono combattenti per la libertà, pensò. Se non ci piacciono, sono dei terroristi. Nel caso improbabile che non sappiamo deciderci, sono temporaneamente solo guerriglieri. Su di un vicino pezzo di giornale c’era una grande foto di un uomo florido e baldanzoso con il titolo: COME FINIRÀ IL MONDO.

ESTRATTI DAL NUOVO LIBRO DEL REV. BILLY Jo RANKIN. IN ESCLUSIVA QUESTA SETTIMANA SUL «NEWS-POST». Aveva letto i titoli di sfuggita e cercò prontamente di dimenticarli. Fendendo la folla, si diresse alla volta dell’hotel del congresso con la speranza di fare ancora in tempo ad ascoltare il discorso di Fujita sul progetto di un radiotelescopio omomorfico. Sovrapposto allo stridere dei pneumatici c’era un toc-toc periodico provocato dalle giunture di strati d’asfalto stesi più volte dagli addetti alla manutenzione stradale del New Mexico in periodi diversi. E se un messaggio interstellare fosse stato ricevuto dal Progetto Argus, ma molto lentamente: un bit di informazione ogni ora, diciamo, o ogni settimana, o ogni dieci anni? E se ci fossero stati sussurri antichissimi e pazientissimi di una qualche civiltà in vena di trasmissioni, che non avesse modo di sapere che noi ci stanchiamo di individuare un segnale regolare dopo pochi secondi o pochi minuti? Supponiamo che riuscissero a vivere decine di migliaia di anni. E che «parlaaaaassero molll-llto lentaaaaameeeeente». Argus non l’avrebbe mai saputo. Potevano esistere creature così longeve? Ci sarebbe stato abbastanza tempo nella storia dell’universo per creature così lente nel riprodursi per arrivare a un alto grado di intelligenza? L’inevitabile dissolversi dei legami chimici, il deterioramento dei loro corpi conformemente al secondo principio della termodinamica, non li avrebbero costretti a riprodursi pressappoco con la stessa frequenza degli esseri umani? E ad avere vite brevi come le nostre? O avrebbero potuto abitare su un mondo vecchio e algido, dove persino le collisioni molecolari si sarebbero verificate al rallentatore, forse al ritmo di un solo fotogramma al giorno? Immaginò inutilmente un radiotrasmettitore di forma riconoscibile e familiare collocato su un picco di metano ghiacciato, debolmente illuminato da una lontana nana rossa, mentre le onde sottostanti di un oceano di ammoniaca sferzavano implacabili la riva, producendo casualmente un rumore bianco indistinguibile da quello dei frangenti a Cozumel. Ma era possibile anche il contrario: il caso cioè di parlatori veloci, piccole creature nevrotiche forse, in movimento veloce e a scatti, che trasmettevano un completo messaggio radio — l’equivalente di centinaia di pagine di testo inglese — in un nanosecondo. Naturalmente se si aveva per il proprio ricevitore una passabanda molto stretta di modo che si ascoltava soltanto una limitatissima gamma di frequenze, si era obbligati ad accettare la costante di tempo lungo. Non si sarebbe mai stati in grado di scoprire una modulazione rapida. Era una semplice conseguenza del teorema integrale di Fourier, e in stretta connessione con il principio di indeterminazione di Heisenberg. Così, per esempio, se si aveva una passabanda di un chilohertz, non si poteva decifrare un segnale che venisse modulato a una velocità superiore a un millisecondo. Sarebbe stato una sorta di ronzio indistinto. Le passabande dell’Argus erano più strette di un hertz, così per essere scoperti i trasmettitori dovevano modulare molto lentamente, più lentamente di un bit di informazione al secondo. Modulazioni ancora più lente — più lunghe di ore, diciamo — potevano essere scoperte facilmente, purché si avesse la volontà di puntare un telescopio in direzione della sorgente per quella durata, purché si fosse straordinariamente pazienti. C’erano tante sezioni del cielo da esaminare, tante centinaia di miliardi di stelle da scoprire. Non si poteva spendere tutto il proprio tempo dedicandosi soltanto ad alcune di loro. Ellie pensava, piena di turbamento, che nella loro fretta di fare un esame totale del cielo in un tempo inferiore a quello di una vita umana, di ascoltare tutto il cielo a miliardi di frequenze, avevano trascurato sia i parlatori frenetici, sia i laconici tardigradi. Ma era sicura che essi sapessero meglio di noi quali frequenze di modulazione fossero accettabili. Avrebbero avuto già pratica di comunicazione interstellare e di civiltà emergenti da poco. Se c’era una vasta gamma di probabili frequenze di impulsi che la civiltà ricevente avrebbe adottato, la civiltà trasmittente avrebbe utilizzato tale gamma. Modulare a microsecondi, modulare a ore. Che cosa sarebbe costato loro? Quasi tutti avrebbero avuto un’ingegneria superiore ed enormi risorse energetiche rispetto ai livelli terrestri. Se volevano comunicare con noi, ci avrebbero facilitato il compito. Ci avrebbero inviato dei segnali con molte frequenze diverse. Avrebbero usato molte differenti scale temporali di modulazione. Avrebbero saputo quanto fossimo indietro e ne avrebbero avuto compassione.

E allora, perché non avevamo ricevuto nessun segnale? Era possibile che Dave avesse ragione? Nessuna civiltà extraterrestre in nessun punto dell’universo? Tutti quei miliardi di mondi sprecati, senza vita, sterili? Esseri intelligenti che crescevano soltanto in questo oscuro angolo di un universo incomprensibilmente vasto? Per quanto si sforzasse, Ellie non riusciva a prendere in considerazione seriamente una simile possibilità che si adattava perfettamente ai timori e alle aspirazioni degli uomini, a dottrine indimostrate sulla vita dopo la morte, a pseudoscienze come l’astrologia. Era la moderna incarnazione del solipsismo geocentrico, la presunzione che aveva posseduto i nostri antenati, il concetto che «noi» eravamo il centro dell’universo. Per queste sole ragioni la tesi di Drumlin era sospetta. Ci volevamo credere troppo.

Aspetta un minuto, pensò. Non abbiamo ancora esaminato una volta sola i cicli boreali con il sistema Argus. Fra altri sette o otto anni, se non udremo ancora nulla, allora sarà il momento di cominciare a preoccuparsi. E’ la prima volta nella storia umana che è possibile cercare gli abitanti di altri mondi. Se sarà un fallimento, avremo avuto la prova della rarità e preziosità della vita sul nostro pianeta — una realtà, se lo è, che merita moltissimo di essere conosciuta. E, se sarà un successo, avremo cambiato la storia della nostra specie, avremo spezzato le catene del provincialismo. Con una posta così alta, bisogna avere il coraggio di affrontare alcuni piccoli rischi professionali, disse a se stessa. Andò fuori strada, compì una stretta curva, cambiò marce due volte e accelerò per ritornare all’Argus. I conigli, che se ne stavano ancora lungo il ciglio della strada, tinti di rosa dall’aurora, allungarono il collo per seguire la sua partenza.

4 NUMERI PRIMI

«Non ci sono Moravi sulla Luna, che abbiano inviato un missionario in visita a questo nostro povero pianeta pagano per civilizzare la civiltà e cristianizzare la cristianità?»

HERMAN MELVILLE, Giacchetta bianca (1850)

«Il silenzio solo è grande; il resto è debolezza.»

ALFRED DE VIGNY, La morte del lupo (1864)

Il gelido vuoto era stato lasciato indietro. Gli impulsi si stavano ora avvicinando a una comune nana gialla e avevano già cominciato a riversarsi sui mondi che facevano parte di questo oscuro sistema. Avevano ondeggiato accanto a pianeti di idrogeno, erano penetrati in lune di ghiaccio, avevano attraversato le nubi organiche di un mondo algido su cui si stavano rimescolando le molecole precursori della vita, e sfiorato un pianeta vecchio di miliardi di anni. Adesso gli impulsi stavano lambendo un mondo caldo, blu e bianco, che ruotava su uno sfondo di stelle.

Su questo mondo c’era la vita, straordinaria per quantità e varietà. C’erano ragni saltatori sulle gelide vette delle montagne più alte e vermi che si nutrivano di zolfo in calde esalazioni sgorganti da fratture dei fondali oceanici. C’erano esseri che potevano vivere solamente in acido solforico concentrato, ed esseri che venivano distrutti dall’acido solforico concentrato; organismi che venivano avvelenati dall’ossigeno, e organismi che potevano sopravvivere soltanto nell’ossigeno, che lo respiravano addirittura. Una particolare forma di vita, con una modesta intelligenza, si era da poco diffusa sul pianeta. Avevano degli avamposti nel fondo degli oceani e in orbita a bassa altezza. Erano sciamati in ogni angolo e ogni buco del loro piccolo mondo. La linea che segnava il passaggio dalla notte al giorno stava avanzando verso occidente, eseguendo il suo movimento, milioni di questi esseri procedevano al rituale delle loro abluzioni mattutine. Indossavano cappotti pesanti e perizomi; bevevano infusi di caffè, tè o cicoria; guidavano biciclette, automobili o buoi; e davano un’occhiata ai compiti scolastici, ai prospetti per la semina di primavera e al destino del mondo. I primi impulsi del flusso di onde radio si insinuarono nell’atmosfera e nelle nubi, colpirono il paesaggio e vennero parzialmente riflesse indietro nello spazio. Mentre la Terra si girava sotto di loro, arrivarono nuovi impulsi, investendo non solo quest’unico pianeta, ma l’intero sistema. Pochissima di questa energia venne intercettata da qualcuno dei mondi. La maggior parte di essa passò oltre facilmente, mentre la stella gialla e i mondi che le giravano attorno si immergevano, in direzione totalmente differente, in una tenebra d’inchiostro.

Indossando un giubbotto di dracon recante la scritta «Marauders» sopra una palla di feltro stilizzata, lo scienziato di servizio, che stava per cominciare il suo turno di notte, si avvicinò all’edificio di controllo. In quel momento un gruppo di radioastronomi si stava allontanando per andare a cena.

«Ehi, da quanto è che voi ragazzi state cercando gli omini verdi? Sono più di cinque anni ormai, non è vero, Willie?» Lo prendevano in giro bonariamente, ma potè scoprire una punta di veleno nella loro canzonatura.

«Dateci un’opportunità, Willie,» un altro di loro disse. «Il programma della luminosità delle quasar sta andando a gonfie vele. Ma durerà un’eternità se abbiamo solo il due per cento del tempo di accesso al telescopio.»

«Certo, Jack, certo.»

«Willie, stiamo guardando indietro all’origine dell’universo. C’è una grande posta in gioco anche nel nostro programma e ‘sappiamo’ che c’è un universo lassù; voi non sapete che ci sia neppure un solo omino verde.»

«Vallo a dire al dottor Arroway. Sono sicuro che sarà contenta di ascoltare la tua opinione,» ribattè lui un po’ acido. Lo scienziato di servizio entrò nell’area di controllo. Passò in rassegna rapidamente decine di schermi televisivi che controllavano l’avanzare della ricerca radio. Avevano appena finito di esaminare la costellazione di Ercole. Avevano scrutato nel centro di un grande sciame di galassie molto oltre la Via Lattea, l’ammasso di Ercole, distante un centinaio di milioni di anni luce; si erano sintonizzati su M-13, un ammasso globulare di circa 300.000 stelle, legate gravitazionalmente insieme, in orbita attorno alla Via Lattea, a 26.000 anni luce di distanza; avevano esaminato Ras Algethi, un sistema binario, e Zeta e Lambda Herculis, alcune stelle differenti dal Sole, altre simili a esso, tutte vicine. La maggior parte delle stelle visibili a occhio nudo si trova a meno di alcune centinaia di anni luce di distanza. Avevano controllato attentamente centinaia di piccoli settori del cielo entro la costellazione di Ercole a un miliardo di frequenze separate e non avevano udito nulla. Negli anni precedenti, avevano perlustrato le costellazioni immediatamente a ovest di Ercole, Serpens, Corona Borealis, Boòtes, Canes Venatici… e anche là non avevano sentito nulla.

Lo scienziato di servizio poteva vedere che alcuni dei telescopi erano intenti a raccogliere alcuni dati tralasciati nella costellazione di Ercole. I rimanenti erano puntati con precisione verso un settore adiacente di cielo, la costellazione immediatamente a est di Ercole. I popoli del Mediterraneo orientale, migliaia di anni prima, l’avevano paragonata a uno strumento musicale a corde e l’avevano associata a Orfeo, l’eroe greco. Era una costellazione chiamata Lira. I computer dirigevano i telescopi in modo da seguire le stelle della Lira dal loro sorgere al loro tramontare, accumulavano i radio fotoni, controllavano le condizioni dei telescopi, ed elaboravano i dati in un formato adatto ai loro operatori umani. Persino «un solo» scienziato di servizio era in un certo senso di troppo. Passando accanto a un distributore di caramelle, a una macchinetta per il caffè, a una frase in caratteri runici tratta da Tolkien dall’Artificial Intelligence Laboratory di Stanford, e a una placca da paraurti che diceva: i BUCHI NERI SONO INVISIBILI, Willie si avvicinò al banco dei comandi. Salutò cordialmente lo scienziato di servizio del pomeriggio che stava ora raccogliendo i suoi appunti e si preparava ad andarsene per la cena. Poiché i dati giornalieri venivano compendiati in maniera appropriata in ambra sul visualizzatore principale, Willie non ebbe bisogno di informarsi sull’andamento delle ore precedenti.

«Come puoi vedere, non c’è molto. C’è stato un errore di puntamento — almeno così sembrava — al quarantanove,» disse, facendo un vago cenno verso la finestra. «Il gruppo di quasar ha lasciato liberi i telescopi 1-10 e 1-20 circa un’ora fa. Sembra che stiano ricevendo degli ottimi dati.»

«Sì, ho sentito. Non capiscono…»

La voce gli si spense in gola quando un allarme luminoso si mise a lampeggiare dignitosamente sulla consolle che stava loro di fronte.

Su un quadrante contrassegnato con «intensità-frequenza», si accendeva una fila verticale di leds.

«Ehi, guarda, è un segnale monocromatico.»

Un altro quadrante, «intensità-tempo», mostrava una serie di impulsi che si muovevano da sinistra a destra e quindi uscivano dallo schermo.

«Quelli sono numeri,» Willie disse debolmente. «Qualcuno sta trasmettendo dei numeri.»

«Si tratta probabilmente di qualche interferenza dell’aviazione. Ho visto un AWACS, forse da Kirtland, a circa 1600. Può darsi che ci stiano facendo uno scherzo.»

C’erano stati solenni accordi per salvaguardare almeno alcune frequenze radio per l’astronomia. Ma proprio perché tali frequenze rappresentavano un canale libero, i militari le trovavano di quando in quando irresistibili. Se mai fosse scoppiata una guerra globale, forse i radioastronomi sarebbero stati i primi a saperlo, con le loro finestre sul cosmo traboccante di ordini ai satelliti per la direzione della battaglia e il rilevamento dei danni, in orbita geosincronica, e di trasmissioni di comandi di lancio cifrati a lontani avamposti strategici. Ma anche senza trasmissioni militari, ascoltando contemporaneamente un miliardo di frequenze, gli astronomi dovevano attendersi qualche interferenza. I fulmini, le accensioni delle auto, i satelliti per le trasmissioni dirette erano tutte fonti di interferenze radio. Ma i computers avevano il loro numero, conoscevano le loro caratteristiche e sistematicamente li ignoravano. Per segnali che presentassero una maggiore ambiguità, il computer si metteva ad ascoltare con maggior attenzione e si assicurava che non avessero niente a che vedere con nessuna scorta di dati che era programmato a capire. Di quando in quando, un velivolo per lo spionaggio elettronico in missione di addestramento — talvolta con una coppa radar abilmente mascherata da disco volante messo di taglio — sfrecciava nelle vicinanze e Argus scopriva improvvisamente segni inequivocabili di vita intelligente. Ma risultava sempre trattarsi di una vita di un tipo particolare e deprimente, intelligente fino a un certo punto, extraterrestre per modo di dire. Alcuni mesi prima, un F-29E con le più moderne contromisure elettroniche aveva sorvolato la zona all’altezza di 80.000 piedi e aveva fatto scattare gli allarmi su tutti i 131 telescopi. Agli occhi poco militari degli astronomi, il segnale radio era stato abbastanza complesso per essere un primo messaggio plausibile di una civiltà extraterrestre. Ma scoprirono che il radiotelescopio più occidentale aveva ricevuto il segnale esattamente un minuto prima di quello più orientale, e ben presto fu chiaro che si trattava di un oggetto sfrecciante attraverso il sottile involucro gassoso che circonda la Terra piuttosto che una trasmissione da una qualche civilità inconcepibilmente diversa presente nelle profondità dello spazio. Quasi certamente questa volta era la stessa cosa. Le dita della sua mano destra erano inserite nelle cinque cavità intervallate in modo regolare di una bassa scatola sulla sua scrivania. Da quando era apparso questo aggeggio, Ellie riusciva a risparmiare mezz’ora alla settimana. Ma non c’era stato davvero un gran che da fare con quella mezz’ora extra.

«E stavo raccontando tutto alla signora Yarborough. E’ quella che sta nel letto accanto, ora che la signora Wertheimer è morta. Non ho l’intenzione di vantarmi, ma mi attribuisco un certo merito per quello che hai fatto nella vita.»

«Sì, mamma.»

Si esaminava lo smalto sulle unghie e decise che avevano bisogno di un altro minuto, forse di un minuto e mezzo. «Stavo pensando a quella volta in quarta, ricordi? Quando pioveva a dirotto e tu non volevi andare a scuola? Volevi che ti scrivessi una giustificazione per il giorno dopo, dicendo che eri rimasta a casa perché stavi male. E io non te l’ho voluta fare. Ti dissi: ‘Ellie, oltre all’essere belli, la cosa più importante del mondo è un’educazione. Non si può fare molto per la bellezza, ma si può fare qualcosa per l’educazione. Va’ a scuola. Non si sa mai quel che puoi imparare oggi.’ Non è vero?»

«Sì, mamma.»

«Ma, voglio dire, non è quello che ti dissi allora?»

«Sì, me ne ricordo, mammina.»

Lo smalto su quattro unghie era perfetto, ma quello del pollice aveva ancora un aspetto opaco.

«Così presi le tue galosce e il tuo impermeabile — era uno di quelli gialli, ti faceva sembrare graziosa come un bocciolo — e ti spedii a scuola. E quello fu il giorno in cui non riuscisti a rispondere a una domanda durante la lezione di matematica del signor Weisbrod? Ti arrabbiasti tanto che ti precipitasti alla biblioteca del college e ti documentasti sull’argomento finché non ne sapesti di più del signor Weisbrod. Ne fu impressionato. Me lo disse.»

«Te lo disse? Non lo sapevo. Quando parlasti con il signor Weisbrod?»

«Durante un incontro genitori-insegnanti. Mi disse: ‘La sua figliola ha del coraggio.’ O qualcosa del genere. ‘Era così infuriata con me che è diventata una vera esperta in materia.’ ‘Esperta.’ Ecco quello che disse. Sono convinta di avertelo riferito.»

Aveva i piedi appoggiati su un cassetto della scrivania mentre si abbandonava sulla sua poltrona girevole; l’equilibrio era garantito soltanto dalle dita inserite nella macchina dello smalto. Percepì il cicalino quasi prima di sentirlo davvero e si tirò su bruscamente. «Mammina, devo andare.»

«Sono sicura di averti già raccontato questa storia. Non fai mai attenzione a quel che sto dicendo. Il signor Weisbrod era un brav’uomo. Non sei mai riuscita a vederne il lato buono.»

«Mamma, davvero, devo andare. Abbiamo captato una sorta di bogey.»

«Bogey?»

«Lo sai, mamma, qualcosa che potrebbe essere un segnale. Ne abbiamo parlato.»

«Eccoci tutte e due a pensare che l’altra non stia ad ascoltare. Tale la madre, tale la figlia.»

«Ciao, mamma.»

«Ti lascio andare se mi prometti di chiamarmi fra poco.»

«D’accordo, mamma, promesso.»

Durante l’intera conversazione, la pena e la solitudine della madre avevano suscitato in Ellie il desiderio di troncare il colloquio, di scappare via. Si odiava per questo.

Entrò a passo spedito nell’area di controllo è si avvicinò alla consolle principale.

«‘Sera, Willie, Steve. Vediamo i dati. Bene. Adesso dove è riposto il diagramma dell’ampiezza? Bene. Avete la posizione interferometrica? Okay. Ora vediamo se c’è qualche stella vicina in quel campo visivo. Oh accipicchia, stiamo guardando Vega. E’ un astro abbastanza vicino.»

Le sue dita stavano maltrattando una tastiera mentre parlava. «Guardate, si trova alla distanza di soli ventisei anni luce. E’ stata osservata in precedenza, sempre con risultati negativi. L’ho guardata io stessa durante il mio primo rilevamento ad Arecibo. Qual è l’intensità assoluta? Santo Dio! Sono centinaia di janskys. Praticamente la si potrebbe ricevere su una comune radio a modulazione di frequenza.

Okay. Così abbiamo un bogey molto vicino a Vega sul piano del cielo. E’ a una frequenza di circa 9,2 gigahertz, non proprio monocromatica: la larghezza di banda è di alcune centinaia di hertz. E’ polarizzato linearmente e sta trasmettendo una serie di impulsi magnetodinamici limitati a due diverse ampiezze.»

In risposta ai suoi comandi sulla tastiera, lo schermo ora mostrava la disposizione di tutti i radiotelescopi.

«Lo stanno ricevendo 116 telescopi. Chiaramente non si tratta di un cattivo funzionamento in uno o due di essi. Okay, adesso dovremmo avere linea di base dei tempi in abbondanza. Si sta muovendo con le stelle? O potrebbe essere un qualche satellite ELINT o un aereo?»

«Posso confermare il moto sidereo, dottor Arroway.»

«Okay, è abbastanza convincente. Non è qui sulla Terra, e probabilmente non proviene da un satellite artificiale in un’orbita di Molniya, anche se dovremmo controllarlo. Quando puoi, Willie, chiama la NORAD e senti quello che ti dicono sulla possibilità di un satellite. Se possiamo escludere i satelliti, allora ci restano due possibilità: o si tratta di uno scherzo, o qualcuno si è finalmente deciso a inviarci un messaggio. Steve, passiamo al comando manuale. Controlla alcuni radiotelescopi — la forza del segnale è certamente sufficiente — e vedi se c’è l’eventualità che si tratti di uno scherzo; sai, un tiro birbone da parte di qualcuno che desidera dimostrarci che i nostri metodi sono sbagliati.» Un gruppetto di altri scienziati e tecnici, messi in stato d’allarme attraverso i loro cicalini dal computer dell’Argus, si era raccolto attorno alla consolle dei comandi. Sui loro volti c’era l’ombra di un sorriso. Nessuno di loro stava ancora pensando seriamente a un messaggio da un altro mondo, ma c’era un’aria di vacanza inaspettata, un’interruzione nella noiosa routine cui si erano abituati, e forse una certa atmosfera di attesa.

«Se qualcuno di voi riesce a pensare a qualche altra spiegazione oltre a quella di un’intelligenza extraterrestre, voglio sentire quello che ha da dire in proposito,» disse Ellie, mostrando che si era accorta della loro presenza.

«Non è possibile che si tratti di Vega, dottor Arroway. Il sistema ha solo alcune centinaia di milioni di anni. I suoi pianeti sono ancora in via di formazione. Manca il tempo perché vi si sia sviluppata una vita intelligente. Deve essere una qualche stella sullo sfondo. O una galassia.»

«Ma allora la potenza del trasmettitore dovrebbe essere incredibile,» ribattè un membro del gruppo quasar che era ritornato indietro per vedere cosa stesse succedendo. «Dobbiamo procedere a. un accurato studio del moto proprio per poter stabilire se la sorgente radio si muove con Vega.»

«Naturalmente, hai ragione circa il moto proprio, Jack,» lei disse.

«Ma c’è un’altra possibilità. Forse non si sono evoluti nel sistema di Vega. Forse sono solo in visita.»

«Neppure questa ipotesi regge. Il sistema è pieno di frammenti vaganti. E’ un sistema solare mancato o un sistema solare ancora nei suoi stadi primitivi di sviluppo. Se ci restano molto a lungo, la loro astronave verrebbe gravemente danneggiata.»

«Perciò ci sono arrivati soltanto da poco. O riescono a disintegrare i meteoriti che li minacciano. O cambiano rotta se c’è un frammento su una traiettoria di collisione. Oppure non si trovano sul piano equatoriale ma in orbita polare, così possono ridurre al minimo i loro impatti con i meteoriti. C’è un milione di possibilità. Ma hai assolutamente ragione; non dobbiamo tirare a indovinare se la sorgente si trova nel sistema di Vega. Possiamo scoprirlo con esattezza. Quanto durerà lo studio sul moto proprio? A proposito, Steve, non è il tuo turno. Almeno dì a Consuelo che farai tardi per la cena.»

Willie, che aveva parlato al telefono da una consolle adiacente, aveva sulle labbra un debole sorriso. «Bene, mi sono messo in contatto con un certo maggiore Braintree alla NORAD. Giura e spergiura che non hanno nulla che possa produrre questo segnale, specialmente a nove gigahertz. Naturalmente, ce lo dicono ogni volta che chiamiamo. A ogni modo, lui dice che non hanno individuato nessun velivolo spaziale sulla retta ascensionale e declinazionale di Vega.»

«Che ne dite dei muti?»

Al momento, c’erano molti satelliti «muti» con ridotte superfici d’eco, progettati per orbitare attorno alla Terra senza poter essere intercettati fino al momento del bisogno. Allora sarebbero serviti come riserve per l’individuazione dei lanci di missili o per le comunicazioni in una guerra nucleare, nel caso che i satelliti militari in prima linea, destinati a tali impieghi, venissero a mancare all’improvviso in combattimento. Di quando in quando, un «muto» veniva scoperto da uno dei più importanti sistemi radar astronomici. Tutte le nazioni negavano che l’oggetto appartenesse a loro, e si cominciava freneticamente a congetturare che un veicolo spaziale extraterrestre fosse stato scoperto in orbita terrestre. All’avvicinarsi del nuovo millennio, gli UFO erano di nuovo in auge. «L’interferometria adesso esclude un’orbita del tipo Molniya, dottor Arroway.»

«Di bene in meglio. Adesso esaminiamo più da vicino que gli impulsi magnetodinamici. Presumendo che si tratti di numerazione binaria, qualcuno l’ha convertita in quella decimale? Sappiamo qual è la sequenza dei numeri? Okay, ecco lo possiamo fare da soli… cinquantanove, sessantuno, sessantasette… settantuno… Non sono tutti numeri primi?»

Un lieve mormorio di eccitazione si diffuse per la sala di controllo. Il volto di Ellie rivelò per un attimo un turbamento dovuto a qualcosa di profondamente sentito, che fu però prontamente sostituito da una calma, da un timore di lasciarsi trasportare, da una preoccupazione di apparire stupida, poco scientifica., «Okay, vediamo se riesco a fare un altro veloce riepilogo. Lo farò con il linguaggio più semplice. Per favore, controllate se ho tralasciato qualcosa. Abbiamo un segnale estremamente forte, non proprio monocromatico. Immediatamente al di fuori della banda di passaggio di questo segnale non ci sono altre frequenze che trasmettano qualcosa oltre al rumore. Il segnale è polarizzato linearmente, come se fosse trasmesso da un radiotelescopio. Il segnale è di circa nove gigahertz, vicino al minimo del rumore radio di fondo proveniente dalle galassie. E’ il tipo adatto di frequenza per chiunque voglia essere udito a grande distanza. Abbiamo confermato il moto sidereo della sorgente, perciò si sta muovendo come se fosse lassù tra le stelle e non come se provenisse da qualche trasmettitore locale. NORAD ci dice che non individuano nessun satellite — nostro o di chiunque altro — che si adatti alla posizione di questa sorgente. L’interferometria esclude; comunque una sorgente in orbita terrestre. Adesso Steve ha guardato i dati al di fuori del codice automatizzato e non sembra essere un programma che qualcuno con un; perverso senso dell’umorismo abbia inserito nel computer. La regione del cielo che stiamo guardando include Vega, che è una i stella nana A zero della sequenza principale. Non è esattamente come il Sole, ma dista soltanto ventisei anni luce e ha l’anello prototipo di frammenti stellari. Non ci sono pianeti noti, ma potrebbero certamente esserci attorno a Vega dei pianeti di cui non sappiamo nulla. Stiamo accingendoci a uno studio del moto proprio per vedere se la sorgente si trova un bel po’ dietro la nostra linea ottica in direzione di Vega e dovremmo avere una risposta fra — diciamo — alcune settimane se ci affidiamo alle nostre sole forze, fra alcune ore se procediamo a una interferometria della linea di base.

Infine, il segnale che ci stanno inviando sembra essere una lunga sequenza di numeri primi, cioè numeri interi divisibili soltanto per se stessi e per l’unità. Nessun processo astrofisico dovrebbe produrre numeri primi. Perciò oserei dire — vogliamo essere cauti naturalmente — dunque oserei dire che, tutto considerato, si dovrebbe essere di fronte all’evento tanto atteso.

Ma c’è un problema connesso con l’idea che questo sia un messaggio di individui che si sono evoluti su qualche pianeta attorno a Vega, poiché avrebbero dovuto evolversi troppo in fretta. L’età totale della stessa si aggira soltanto sui quattrocento milioni di anni. E’ un luogo improbabile per la più vicina civiltà. Quindi, lo studio del moto proprio è importantissimo. Ma mi piacerebbe certamente controllare una volta ancora la possibilità dello scherzo.»

«Guardate,» disse uno degli astronomi addetti all’osservazione delle quasar che si era tenuto esitante in disparte. Tese il mento in direzione dell’orizzonte occidentale dove una pallida luminosità rosata mostrava chiaramente dove era tramontato il Sole. «Vega andrà giù tra un paio di ore. Probabilmente in Australia si è già alzata. Non possiamo chiamare Sydney perché la osservino mentre per noi non è ancora possibile vederla?»

«Buona idea. Là è solo metà pomeriggio. E insieme avremo abbastanza linea di base per lo studio del moto proprio. Datemi quel tabulato di riepilogo e io ne invierò la telefoto in Australia al mio ufficio.» Con una compostezza studiata, Ellie si staccò dal gruppo che si affollava attorno alla consolle e ritornò nel suo ufficio. Chiuse la porta dietro di sé con molta attenzione. «Oh santa merda!» sussurrò. «lan Broderick, per favore. Sì. Qui è Eleanor Arroway del Progetto Argus. E’ una specie di emergenza. Grazie, resto in linea… Hello, Ian? Probabilmente non è nulla, ma abbiamo un bogey qui e ci chiediamo se vi sarebbe possibile controllarlo per noi. E di circa nove gigahertz, con una passabanda di alcune centinaia di hertz. Sto teletrasmettendo i parametri adesso… Avete un alimentatore capace di nove gigahertz già sul riflettore parabolico? Questa è una fortuna… Sì, Vega è giusto nel mezzo del campo visivo. E stiamo ricevendo apparentemente degli impulsi di numeri primi… Davvero. Okay, resto all’apparecchio.»

Considerò di nuovo come fosse ancora arretrata la comunità astronomica mondiale. Un sistema collegato di elaboratori per la banca dei dati non funzionava ancora. La sua importanza per la connessione asincronica soltanto sarebbe…

«Ascolta, Ian, mentre il telescopio finisce di ruotare, potresti cominciare a esaminare un diagramma di ampiezza-tempo? Chiamiamo gli impulsi a bassa ampiezza punti e quelli ad alta ampiezza linee. Stiamo ricevendo… Sì, è proprio il segnale regolare che abbiamo visto nell’ultima mezz’ora… Forse. Bene, è il candidato migliore in cinque anni, ma non riesco a dimenticare come vennero tratti in inganno i Sovietici da quell’incidente del satellite Big Bird attorno al ‘74. Da quello che so, era un rilevamento americano con radar altimetrici della Russia per la guida di missili Cruise… Sì, una altimetria del terreno. E i Sovietici lo stavano captando su antenne omnidirezionali. Non riuscivano a dire da quale parte del cielo provenisse il segnale. Tutto quello che sapevano era che stavano ricevendo la stessa sequenza di impulsi dal cielo circa alla stessa ora ogni mattina. I loro scienziati li assicurarono che non era una trasmissione militare, così pensarono naturalmente che fosse extraterrestre… No, abbiamo già escluso la trasmissione di un satellite… lan, vi seccherebbe seguirlo finché resta nel vostro cielo? Ti parlerò di VLBI più tardi. Vedrò di convincere altri radiosservatori, distribuiti abbastanza uniformemente in longitudine, a seguirlo finché riappare qui… Sì, ma non so se sia facile chiamare direttamente la Cina. Sto pensando di mandare un telegramma IAU… Bene. Molte grazie, Ian.»

Ellie indugiò sulla soglia della sala di controllo — la chiamavano così con consapevole ironia, perché erano i computers, in un’altra stanza, che procedevano ai controlli — per ammirare il gruppetto di scienziati che stavano parlando con grande animazione, esaminando con la massima attenzione i dati che apparivano sugli schermi, ingaggiando blande schermaglie sulla natura del segnale. Non erano persone affascinanti, pensò. Non erano belle nella maniera convenzionale, ma c’era qualcosa di indubbiamente attraente in loro. Eccellevano nei loro compiti e, specialmente nel processo di esplorazione, erano totalmente assorbiti nel loro lavoro. Al suo avvicinarsi, smisero di parlare e la guardarono ansiosi. I numeri adesso venivano convertiti automaticamente dal sistema binario a quello decimale… 881, 883, 887, 907… era confermato ormai che si trattava sempre di numeri primi.

«Willie, trovami un planisfero. E per favore chiamami Mark Auerbach a Cambridge, nel Massachusetts. Probabilmente sarà a casa. Dagli questo messaggio per un telegramma IAU indirizzato a tutti gli osservatori, ma specialmente a tutti i grandi radio-

osservatori. E guarda di fargli controllare il nostro numero di telefono per il radio-osservatorio di Beijing. Poi trovami il consigliere scientifico del Presidente.»

«Hai l’intenzione di saltare la National Science Foundation?»

«Dopo Auerbach, trovami il consigliere scientifico del Presidente.» Nella sua mente, Ellie credette di poter udire un grido di gioia in mezzo al clamore di altre voci.

Con ogni mezzo, bicicletta, piccoli autocarri, postini appiedati, o telefono, un unico testo venne consegnato ai centri astronomici di tutto il mondo. In alcuni radio-osservatori di maggiore importanza — in Cina, in India, nell’Unione Sovietica e in Olanda, per esempio — il messaggio fu trasmesso per telescrivente. Quando arrivò ticchettando, venne esaminato da un agente di sicurezza o da qualche astronomo che stava passando, strappato via e portato in un ufficio adiacente con una certa aria di curiosità. Diceva:

ANOMALIA SORGENTE RADIO INTERMITTENTE IN ASCENSIONE RETTA 18h 34m, DECLINAZIONE POSITIVA 38 GRADI 41 PRIMI, SCOPERTA DALLA RICOGNIZIONE SISTEMATICA DEL CIELO DI ARGUS. FREQUENZA 9,24176684 GIGAHERTZ, PASSABANDA APPROSSIMATIVAMENTE DI 430 HERTZ. AMPIEZZE BIMODALI APPROSSIMATIVAMENTE DI 174 E 179 JANSKYS. AMPIEZZE DI EVIDENZA METTONO IN CODICE SEQUENZA DI NUMERI PRIMI. INTERA COPERTURA DELLA LONGITUDINE URGENTEMENTE RICHIESTA. PREGASI TELEFONARE A NOSTRO CARICO PER ULTERIORI INFORMAZIONI NEL COORDINAMENTO DELLE OSSERVAZIONI. E. ARROWAY, DIRETTORE, PROGETTO ARGUS, SOCORRO, NEW MEXICO, USA.

5 ALGORITMO DI DECIFRAZIONE

«Oh, parla ancora, angelo della luce…»

WILLIAM SHAKESPEARE, Romeo e Giulietta

Gli alloggi per gli scienziati in visita adesso erano tutti occupati, anzi sovraffollati, dalle personalità di maggior rilievo della comunità di SETI. Quando le delegazioni ufficiali cominciarono ad arrivare da Washington, non trovarono sistemazioni adeguate nell’area di Argus e dovettero essere ospitate in motel nella vicina Socorro. Kenneth der Heer, il consigliere scientifico del Presidente, fu l’unica eccezione. Era arrivato il giorno successivo alla scoperta, in risposta a un’urgente chiamata di Eleanor Arroway. Funzionari della National Science Foundation, della National Aeronautics and Space Administration, del Dipartimento della Difesa, del Comitato consultivo scientifico del Presidente, del National Security Council e della National Security Agency arrivarono alla spicciolata nei giorni immediatamente successivi. C’erano alcuni impiegati governativi i cui precisi incarichi istituzionali rimasero oscuri. La sera prima, alcuni di essi si erano fermati alla base del telescopio 101 ed era stata indicata loro Vega per la prima volta. Era un piacere osservarne la tremolante luce azzurrina.

«Ehi, l’avevo già vista prima, ma non ho mai saputo quale fosse il suo nome,» uno osservò. Vega appariva più luminosa delle altre stelle in cielo, ma non possedeva nessun’altra caratteristica degna di nota. Era semplicemente una delle poche migliaia di stelle visibili a occhio nudo.

Gli scienziati stavano conducendo un ininterrotto seminario di ricerca sulla natura, sull’origine e sul possibile significato degli impulsi radio. L’ufficio degli affari pubblici del progetto — più grande del consueto a causa del diffuso interesse per la ricerca di intelligenze extraterrestri — aveva ricevuto il compito di dare spiegazioni ai funzionari di minore importanza. Ogni nuovo arrivo richiedeva una notevole opera di informazione personale. Ellie, che era obbligata a fornire delucidazioni ai funzionari di maggior riguardo, a sovrintendere alla ricerca in corso, a rispondere alle domande intrise di scetticismo che i suoi colleghi le rivolgevano con una certa aggressività, era esausta. Dal momento della scoperta non aveva più potuto godere del piacere di un’intera notte di sonno.

Dapprima avevano cercato di tener segreta la scoperta. Dopotutto non erano assolutamente sicuri che si trattasse di un messaggio extraterrestre. Un annuncio prematuro o erroneo sarebbe stato disastroso per le pubbliche relazioni. Ma cosa ancor più grave, avrebbe interferito con l’analisi dei dati. Se fosse arrivata la stampa, la scienza ne avrebbe certamente sofferto. Sia Washington che Argus erano fermamente intenzionati a mantenere segreta la storia, ma gli scienziati lo avevano detto alle loro famiglie, il telegramma dell’International Astronomical Union era stato spedito in tutto il mondo, e i sistemi astronomici ancora rudimentali di banca dati in Europa, nel Nord America e in Giappone stavano tutti riportando notizie della scoperta.

Sebbene ci fosse stata una serie di misure cautelative per impedire che il pubblico venisse a conoscenza di qualsiasi scoperta, le attuali circostanze li avevano colti largamente impreparati. Redassero una dichiarazione nel modo più innocuo possibile e la rilasciarono soltanto quando ne furono costretti. Procurò, naturalmente, grande sensazione.

Avevano chiesto la comprensione e la pazienza dei mass-me-dia, ma sapevano che ci sarebbe stata soltanto una breve tregua prima della calata in forze dei giornalisti. Avevano cercato di scoraggiare i reporter dal visitare la località, spiegando che non c’erano reali informazioni nei segnali che stavano ricevendo, ma soltanto noiosi e ripetuti numeri primi. La stampa si spazientiva per l’assenza di notizie sensazionali. «Si può scrivere solo una serie di articoletti su ‘Che cos’è un numero primo?’,» si sentì dire Ellie al telefono da un reporter.

Squadre di cameramen in aereotaxi e in elicotteri charter cominciarono a passare a bassa quota sulla base, generando talvolta forti interferenze radio facilmente scoperte dai telescopi. Alcuni cronisti stavano alla posta dei funzionari di Washington quando ritornavano la notte ai loro motel. Alcuni dei più intraprendenti avevano tentato di entrare inosservati nell’installazione, alla guida di fuoristrada, in motocicletta, e in un caso a cavallo. Era stata costretta a informarsi sui costi per un recinto. Subito dopo il suo arrivo, der Heer aveva ricevuto una prima versione di quel che era ormai il comunicato standard di Ellie: la sorprendente intensità del segnale, la sua collocazione proprio nella stessa parte del cielo in cui si trovava la stella Vega, la natura degli impulsi.

«Posso essere il consigliere scientifico del Presidente,» aveva detto lui, «ma sono soltanto un biologo. Perciò, la prego, me lo spieghi lentamente. Comprendo che se la sorgente radio si trova alla distanza di ventisei anni luce, allora il messaggio è stato inviato ventisei anni fa. Negli anni sessanta, alcune buffe creature con orecchie appuntite pensarono che avremmo voluto sapere che a loro piacevano i numeri primi. Ma i numeri primi non sono difficili. Non sembra che se ne stiano vantando, pare piuttosto che ci stiano inviando un’aritmetica correttiva. Forse dovremmo esserne offesi.»

«No, consideri la cosa in questo modo,» disse lei, sorridendo. «Questo è un avvertimento, un avviso destinato ad attrarre la nostra attenzione. Riceviamo strani impulsi regolari dalle quasar e dalle pulsar, dalle radio galassie e da Dio sa cosa. Ma i numeri primi sono molto specifici, molto artificiali. Nessun numero pari è primo, per esempio. E’ difficile immaginare un plasma irradiante o una galassia in fase esplosiva che inviino una serie regolare di segnali matematici come questa. I numeri primi servono ad attirare la nostra attenzione.»

«Ma su cosa?» aveva chiesto der Heer, sinceramente confuso. «Non lo so. Ma in questa faccenda si deve essere molto pazienti. Forse di punto in bianco i numeri primi smetteranno e verranno sostituiti da qualcos’altro, qualcosa di molto sostanzioso, il vero messaggio. Dobbiamo soltanto continuare a tenerci in ascolto.» La cosa più difficile da illustrare alla stampa era proprio che i segnali non avevano essenzialmente nessun contenuto, nessun significato, solo le prime centinaia di numeri primi in ordine, un ritorno ciclico all’inizio, e di nuovo le semplici rappresentazioni di numerazione binaria: 1, 2, 3, 5, 7, 11, 13, 17, 19, 23, 29, 31… Nove non era un numero primo, spiegava Ellie, perché era divisibile per tre (come pure per nove e per uno, naturalmente). Dieci non era un numero primo perché cinque e due ci stavano (come pure il dieci e l’uno). Undici era un numero primo perché era divisibile solo per l’unità e per se stesso. Ma perché trasmettere numeri primi? Le faceva venire in mente un erudito idiota, una di quelle persone che possono essere decisamente deficienti nelle comuni attitudini sociali o verbali ma che riescono a effettuare strabilianti imprese di calcolo mentale, come stabilire, dopo un momento di riflessione, in quale giorno della settimana cadrà il primo giugno dell’anno 11977. Non era per qualcosa; lo facevano perché piaceva loro farlo, perché erano capaci di farlo.

Era consapevole che erano passati solo pochi giorni dalla ricezione del messaggio, ma si sentiva allo stesso tempo su di giri e profondamente delusa. Dopo tutti quegli anni, avevano finalmente ricevuto un segnale, beh, un tipo di segnale. Ma il suo contenuto era superficiale, vano, vuoto. Si era immaginata di ricevere l’»Enciclopedia galattica».

Siamo arrivati alla radioastronomia soltanto negli ultimi decenni, ricordava a se stessa Ellie, in una galassia in cui la stella media è vecchia miliardi di anni. La probabilità di ricevere un segnale da una civiltà allo stesso nostro grado di sviluppo dovrebbe essere minima. Se fossero anche un po’ indietro rispetto a noi, mancherebbero totalmente della capacità tecnologica di comunicare con noi. Perciò il segnale più probabile dovrebbe provenire da una civiltà molto più avanzata. Forse sarebbero capaci di comporre delle intere fughe speculari melodiche: il contrappunto sarebbe il tema scritto dietro. No, decise. Se questo era un tipo di genio senza alcun dubbio, e certamente al di là delle sue capacità, rappresentava una minuscola estrapolazione rispetto a quello che gli esseri umani potevano fare. Bach e Mozart si erano cimentati almeno in tentativi dignitosi in questo campo.

Cercò di compiere un balzo più grande, nella mente di qualcuno che fosse enormemente, in ordine di magnitudine, più intelligente di lei, più brillante di Drumlin, o di Eda, il giovane fisico nigeriano che aveva appena vinto il Premio Nobel. Ma era impossibile. Poteva fantasticare di dimostrare completamente l’ultimo teorema di Fermat o di verificare il problema di Goldbach in sole poche righe di equazioni. Poteva immaginare problemi enormemente al di là delle nostre capacità che sarebbero stati antiquati per loro. Ma non poteva penetrare nelle loro menti; non riusciva a immaginare come sarebbe stato il pensiero in creature molto più dotate di un essere umano. Semplicemente.

Nessuna meraviglia. Che cosa si aspettava? Era come cercar di visualizzare un nuovo colore fondamentale o un mondo in cui si potessero riconoscere parecchie centinaia di conoscenti individualmente solo in base al loro odore… Ne poteva parlare, ma non poteva farne l’esperienza. Per definizione, è per forza estremamente difficile capire il comportamento di un essere molto più intelligente di un uomo. Ma anche se è così, se è proprio così, perché solo numeri primi?

1 radioastronomi dell’Argus avevano compiuto dei progressi negli ultimissimi giorni. Vega aveva un movimento conosciuto: una componente conosciuta della sua velocità di avvicinamento o di allontanamento dalla Terra, e una componente conosciuta lateralmente, attraverso il cielo, sullo sfondo di stelle più remote. I telescopi dell’Argus, lavorando in collaborazione con radio-osservatori del West Virginia e dell’Australia, avevano stabilito che la sorgente si stava muovendo con Vega. Il segnale non solo stava provenendo — stando alle loro attente misurazioni — dal punto del cielo in cui si trovava Vega, ma possedeva anche gli stessi moti peculiari e caratteristici di Vega. A meno che non si trattasse di una burla colossale, la fonte degli impulsi di numeri primi si trovava davvero nel sistema Vega. Non c’era nessun effetto Doppler addizionale dovuto al movimento della trasmittente, forse congiunta a un pianeta ruotante attorno a Vega. Gli extraterrestri avevano effettuato una compensazione per il moto orbitale. Forse era una sorta di cortesia interstellare.

«E’ la cosa più stupefacente che abbia mai sentito. E non ha nulla a che vedere con il nostro settore,» disse un funzionario della Defense Advanced Research Projects Agency, che si apprestava a ritornare a Washington.

Non appena era stata fatta la scoperta, Ellie aveva assegnato ad alcuni telescopi il compito di esaminare Vega in una gamma di altre frequenze. Essi effettivamente avevano trovato lo stesso segnale, la stessa monotona successione di numeri primi, che facevano beep-beep nella riga dell’idrogeno da 1420 megahertz, nella riga dell’idrossile da 1667 megahertz, e su molte altre frequenze. In tutto lo spettro radio, con un’orchestra elettromagnetica, Vega stava belando numeri primi.

«Non ha senso,» disse Drumlin, toccandosi la fibbia della cintura. «Ce ne dovremmo essere accorti prima. Tutti hanno guardato Vega. Per anni. Arroway la osservava da Arecibo una decina di anni fa. All’improvviso, martedì scorso, Vega comincia a trasmettere numeri primi? Perché adesso? Che cosa c’è di speciale adesso? Come mai hanno cominciato a trasmettere solo alcuni anni dopo che Argus si è messo in ascolto?»

«Forse il loro trasmettitore è stato in riparazione per un paio di secoli,» suggerì Valerian, «e l’hanno appena rimesso a posto. Forse il loro piano di lavoro periodico di trasmissioni ci riserva soltanto un anno ogni milione di anni. Ci sono tutti quegli altri pianeti candidati che possono ospitare forme di vita, sai. Probabilmente non siamo soli.» Ma Drumlin, chiaramente insoddisfatto, scosse soltanto il capo.

Benché la sua natura fosse tutt’altro che cospirativa, Valerian pensò di aver colto un sottinteso nell’ultima domanda di Drumlin: tutto ciò poteva essere uno sconsiderato, disperato tentativo da parte degli scienziati dell’Argus di impedire un prematuro affossamento del progetto? Non era possibile. Valerian scosse la testa. Mentre passava der Heer, si trovò di fronte ai due massimi esperti del problema SETI che si salutavano con un silenzioso cenno del capo. Tra gli scienziati e i burocrati c’era una sorta di nervosismo, un reciproco disagio, un conflitto di convinzioni basilari. Uno degli ingegneri elettrici definiva la cosa un disadattamento di impedenza. Gli scienziati erano troppo speculativi, troppo quantitativi e troppo disinvolti nel parlare con tutti per i gusti di molti dei burocrati, che erano troppo prosaici, troppo qualitativi, troppo riservati per molti degli scienziati. Ellie e specialmente der Heer si sforzavano di avvicinare le parti, ma i tentativi si rivelavano inutili. Quella notte c’erano dappertutto mozziconi di sigaretta e tazze di caffè. Gli scienziati vestiti alla buona, i funzionar! di Washington in abiti leggeri, e un alto ufficiale dell’esercito capitato per caso affollavano la sala di controllo, quella dei seminari, il piccolo auditorio, e si riversavano all’aperto, dove, alla luce delle sigarette e delle stelle, alcune delle discussioni continuavano. Ma si cominciava a dare segni di intemperanza. La tensione stava diventando evidente. «Dottor Arroway, questo è Michael Kitz, sottosegretario della Difesa per OI.»

Presentando Kitz e piazzandosi immediatamente alle sue spalle, der Heer stava comunicando… Cosa? Qualche improbabile miscuglio di emozioni. Confusione sotto prudente controllo? Sembrava far appello alla discrezione. La riteneva una tale testa calda? «OI» stava per Comando, Controllo, Comunicazioni, e Informazioni, importanti responsabilità in un periodo in cui gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica stavano procedendo coraggiosamente a notevoli riduzioni progressive dei loro arsenali strategici nucleari. Era un’attività per un uomo prudente.

Kitz si accomodò in una delle due poltrone di fronte alla scrivania di Ellie, si sporse in avanti e lesse la citazione kafkiana senza restarne impressionato.

«Dottor Arroway, mi lasci venir subito al punto. Noi ci chiediamo preoccupati se sia nell’interesse degli Stati Uniti che queste informazioni vengano universalmente rese note. Non siamo affatto contenti che lei abbia spedito quel telegramma in tutto il mondo.»

«Vuole dire alla Cina? Alla Russia? All’India?» La sua voce, nonostante tutti i suoi sforzi, aveva un palese tono sarcastico. «Volevate tener segreti i primi 261 numeri primi? Lei crede, signor Kitz, che gli extraterrestri avessero l’intenzione di comunicare soltanto con gli Americani? Lei non pensa che un messaggio proveniente da un’altra civiltà debba appartenere al mondo intero?»

«Avrebbe potuto chiedere il nostro parere.»

«E rischiare di perdere il segnale? Guardi, per quello che ne sappiamo, qualcosa di essenziale, qualcosa di unico potrebbe esser stato trasmesso dopo che Vega era tramontata qui nel New Mexico ma quando era alta nel cielo di Beijing. Questi segnali non sono esattamente una chiamata personale per gli Stati Uniti d’America. Non sono neppure una chiamata personale per la Terra. Sono destinati a ogni pianeta del sistema solare. Ci è capitata solo la fortuna di sollevare il ricevitore.»

Der Heer stava nuovamente irradiando qualcosa. Che stava tentando di dirle? Che gli piaceva quella analogia elementare, ma che andasse più leggera con Kitz?

«In ogni caso,» Ellie continuò, «è troppo tardi. Tutti ora sanno che c’è una specie di vita intelligente nel sistema di Vega.»

«Non sono certo che sia troppo tardi, dottor Arroway. Lei sembra supporre che ci sarà una trasmissione ricca di informazioni, un messaggio che deve ancora venire. Il dottor der Heer, qui presente, dice che lei pensa che questi numeri primi siano un avviso, qualcosa per attrarre la nostra attenzione. Se c’è un messaggio ed è misterioso — qualcosa che gli altri paesi non potrebbero cogliere immediatamente — esigo che sia tenuto segreto finché non ne avremo parlato.»

«Molti di noi hanno delle esigenze, signor Kitz,» sbottò lei con fare amabile, ignorando le occhiatacce di der Heer. Cera qualcosa di irritante, di quasi provocatorio nei modi di Kitz. E probabilmente anche nei suoi. «Io, ad esempio, ho l’esigenza di capire quale sia il significato di questo segnale, e cosa stia succedendo su Vega, e che cosa voglia dire per la Terra. E’ possibile che scienziati di altre nazioni siano indispensabili per arrivare alla comprensione del segnale. Forse avremo bisogno dei loro dati. Forse avremo bisogno dei loro cervelli. Si potrebbe trattare di un problema troppo grande perché se ne occupi un paese solo.»

Adesso der Heer appariva vagamente allarmato. «Uh, dottor Arroway. Il suggerimento del segretario Kitz non è poi così irragionevole. E’ possibilissimo che si debba far entrare nella cosa altre nazioni. Tutto quello che sta chiedendo è di parlarne prima con noi. E solo nel caso che ci sia un nuovo messaggio.» Il suo tono era tranquillizzante ma non mellifluo. Ellie lo guardò di nuovo attentamente. Der Heer non era un bell’uomo nel senso comune dell’espressione, ma possedeva un volto gentile e intelligente. Indossava un abito blu e una camicia di oxford spiegazzata. La sua serietà e la sua aria flemmatica erano temperate dal calore del suo sorriso. Perché, allora, stava appoggiando quell’idiota? Faceva parte del suo lavoro? Poteva darsi che Kitz stesse dicendo delle cose sensate?

«Comunque è una eventualità remota.» Kitz sospirò mentre si alzava in piedi. «Il segretario della Difesa apprezzerebbe la sua collaborazione.» Stava cercando di uscirne vincitore. «D’accordo?»

«Lasci che ci pensi sopra,» replicò lei, prendendo la mano che le offriva come se fosse stata un pesce morto.

«Ti raggiungerò tra pochi minuti, Mike,» disse der Heer di buon umore.

Con una mano sullo stipite della porta, Kitz ebbe un apparente ripensamento, estrasse un documento dalla tasca interna della giacca, ritornò indietro e lo posò con precauzione all’estremità della sua scrivania. «Oh sì, me ne ero dimenticato. Ecco una copia della Decisione Hadden. Lei probabilmente la conosce. E’ sul diritto del governo di schedare materiale vitale per la sicurezza degli Stati Uniti. Anche se non proviene da un’installazione dipendente.»

«Volete schedare i numeri primi?» domandò lei con gli occhi spalancati, assumente un’aria di ironica incredulità. «Ci vediamo fuori, Ken.»

Ellie cominciò a parlare nel momento stesso in cui Kitz lasciò il suo ufficio. «Ma a che sta dietro? Ai raggi mortali di Vega? Ai mostri che potrebbero far saltare per aria il mondo? Di che si tratta veramente?»

«Sta solo agendo con prudenza, Ellie. Vedo che non crede che sia tutto qui. Okay. Supponiamo che ci sia un qualche messaggio, con un contenuto ben preciso, e che in esso ci sia qualcosa di offensivo per i musulmani, diciamo, o per i metodisti. Non dovremmo autorizzarne la diffusione, per evitare di appannare il prestigio degli Stati Uniti?»

«Ken, non mi prenda in giro. Quell’uomo è un sottosegretario della Difesa. Se fossero preoccupati per i musulmani e i metodisti, mi avrebbero mandato un sottosegretario di Stato, o, non so, uno di quei fanatici religiosi che presiedono alle preghiere presidenziali del mattino. Lei è il consigliere scientifico del Presidente. Che consiglio le ha dato?»

«Non le ho dato nessun consiglio. Da quando sono qui, le ho parlato soltanto una volta, brevemente, al telefono. E sarò franco, non mi ha dato nessuna istruzione circa una schedatura. Ho pensato che quello che ha detto Kitz non fosse dettato da nessuno. Suppongo che stia agendo di sua spontanea iniziativa.»

«Ma chi è?»

«Per quanto ne so, è un avvocato. Era un alto dirigente dell’industria elettronica prima di entrare nell’Amministrazione. Conosce a fondo C3I, ma questo non vuoi dire che sia ben informato in altri campi.»

«Ken, mi fido di lei. Sono convinta che non c’entri nulla con questa minaccia della Decisione Hadden.» Sventolò il documento davanti a sé e tacque per un attimo cercando il suo sguardo. «Sa che Drumlin pensa che ci sia un altro messaggio nella polarizzazione?»

«Non capisco.»

«Solo poche ore fa, Dave ha terminato uno studio statistico approssimativo della polarizzazione. Ha rappresentato i parametri di Stokes secondo le sfere di Poincaré; c’è un bel film che li mostra varianti nel tempo.»

Der Heer la guardò senza espressione. I biologi non usano luce polarizzata nei loro microscopi? si chiese Ellie. «Quando un’onda di luce arriva a noi — luce visibile, luce radio, qualsiasi tipo di luce — sta vibrando ad angoli retti rispetto alla nostra linea ottica. Se la vibrazione ruota, si dice che l’onda è polarizzata ellitticamente. Se essa ruota in senso orario, la polarizzazione si definisce di destra; se in senso antiorario, di sinistra. So che si tratta di una definizione stupida. Comunque, spaziando tra i due tipi di polarizzazione, si possono trasmettere delle informazioni. Una polarizzazione un po’ a destra e abbiamo uno zero; un po’ a sinistra ed è un uno. Mi segue? E’ perfettamente possibile. Noi abbiamo modulazione di ampiezza e modulazione di frequenza, ma la nostra civiltà, per convenzione, di solito non fa modulazione di polarizzazione.

Ebbene, il segnale di Vega sembra che abbia una modulazione di polarizzazione. Siamo impegnati a controllarlo proprio in questo momento. Ma Dave ha scoperto che non c’è una quantità uguale dei due tipi di polarizzazione. Quella a sinistra è inferiore rispetto a quella a destra. E’ proprio possibile che ci sia un altro messaggio nella polarizzazione che finora non abbiamo afferrato. Ecco perché sono sospettosa nei riguardi del suo amico. Kitz non mi sta dando un avvertimento generico e gratuito. Lui sa che noi possiamo imbatterci in qualcos’altro.»

«Ellie, non se la prenda troppo. Per quattro giorni non ha quasi dormito. Si è destreggiata con la scienza, l’amministrazione e la stampa. Ha già fatto una delle più grandi scoperte del secolo, e se la capisco bene, può essere sul punto di farne un’altra addirittura più importante. Ha tutte le ragioni di avere un po’ i nervi a fior di pelle. E la minaccia di militarizzare il progetto è stata maldestra da parte di Kitz. Non ho nessuna difficoltà a capire perché nutre dei sospetti nei suoi confronti. Ma c’è un senso in ciò che dice.»

«Conosce l’uomo?»

«Ho partecipato ad alcuni congressi con lui. Posso dire quasi di non conoscerlo. Ellie, se c’è una possibilità di un vero messaggio in arrivo, non sarebbe una buona idea ridurre un po’ l’affollamento?»

«Sicuro. Mi dia una mano con qualcuno di quei rompiscatole di «Washington.»

«Okay. Ma se lascia quel documento sulla sua scrivania, qualcuno entrerà qui e trarrà le errate conclusioni. Perché non lo ripone da qualche parte?»

«Mi aiuterà?»

«Se la situazione resta pressappoco com’è adesso, l’aiuterò. Non ci adopereremo certo se la cosa subirà una schedatura.» Sorridendo, Ellie si inginocchiò davanti alla piccola cassaforte del suo ufficio e formò la combinazione di sei cifre, 314159. Diede un’ultima occhiata al documento che recava il titolo GLI STATI UNITI CONTRO LA CIBERNETICA HADDEN a grandi lettere nere, e lo mise via.

Era un gruppo di circa trenta persone, tecnici e scienziati associati al Progetto Argus, alcuni alti funzionati governativi, incluso il direttore delegato della Defense Intelligence Agency in abiti civili. Tra di loro c’erano Valerian, Drumlin, Kitz, e der Heer. Ellie era l’unica donna. Avevano installato un grande sistema di proiezione televisiva, fecalizzato su uno schermo di due metri per due collocato contro la parete più distante. Ellie stava rivolgendo contemporaneamente la propria attenzione al gruppo e al programma di decifrazione, con le dita sulla tastiera che aveva di fronte.

«Per anni ci siamo preparati per la decifrazione computerizzata di molti tipi di possibili messaggi. Abbiamo appena appreso dall’analisi del dottor Drumlin che ci sono delle informazioni nella modulazione di polarizzazione. Tutto quell’oscillare tra sinistra e destra significa qualcosa. Non si tratta di un rumore casuale. E’ come lanciar per aria una moneta. Naturalmente ci si aspetterebbe una sequenza abbastanza regolare di testa o croce, ma invece esce due volte di più testa di croce. Così si conclude che la moneta è truccata o, nel nostro caso, che la modulazione di polarizzazione non è casuale; ha un contenuto… Oh, guardate questo. Quello che il computer ci ha appena detto è persino più interessante. La precisa sequenza di testa e croce si ripete. E’ una lunga sequenza, perciò è un messaggio piuttosto complesso, e la civiltà che lo sta trasmettendo deve volere che noi si sia sicuri di riceverlo nella maniera giusta. Ecco, vedete? Questo è il messaggio che si ripete. Siamo ora alla prima ripetizione. Ogni bit di informazione, ogni punto e linea — se volete pensare a essi in questo modo — sono identici a quelli che si trovavano nel precedente complesso di dati. Adesso analizziamo il numero totale di bit. E’ un numero nell’ordine delle decine di miliardi. Okay, tombola! E’ il prodotto di tre numeri primi.» Benché Drumlin e Valerian fossero entrambi raggianti, sembrava a Ellie che stessero provando emozioni completamente diverse.

«E allora? Che cosa significano altri numeri primi?» chiese un visitatore proveniente da Washington.

«Significa — forse — che ci stanno inviando un’immagine. Vedete, questo messaggio è composto di un gran numero di bit di informazione. Supponiamo che questo grande numero sia il prodotto di tre numeri più piccoli; è un numero per un numero per un numero. Perciò il messaggio ha tre dimensioni. Riterrei che si tratti di una singola foto statica tridimensionale come un ologramma fisso oppure di una foto bidimensionale che cambia con il tempo, cioè di un film. Ammettiamo si tratti di un film. Se è un ologramma, ci richiederà più tempo per visualizzarlo, in ogni caso. Possediamo un ideale algoritmo di decifrazione per quest’ultimo.» Sullo schermo, scorsero un indistinto disegno in movimento composto di perfetti bianchi e di perfetti neri. «Willie, vorresti inserire un programma di interpolaziene grigio? Qualcosa di ragionevole. E cerca di ruotarlo di circa novanta gradi in senso antiorario.»

«Dottor Arroway, sembra che ci sia un canale con banda laterale ausiliaria. Forse è l’audio che accompagna il film.»

«Inseriscilo.»

L’unica altra applicazione pratica di numeri primi cui lei potesse pensare era la criptografia di tipo popolare ora largamente usata nel campo della sicurezza commerciale e nazionale. Un’applicazione era destinata a rendere chiaro un messaggio a degli ottusi; l’altra a tener nascosto un messaggio a creature discretamente intelligenti. Ellie scrutava i volti che aveva davanti. Kitz appariva a disagio. Forse stava paventando un invasore alieno o, peggio, i disegni di un progetto per un’arma troppo segreta perché potesse essere affidata allo staff di Ellie. Willie appariva molto serio e deglutiva in continuazione. Un’immagine è diversa da semplici numeri. La possibilità di un messaggio visivo stava chiaramente risvegliando timori e fantasie incontrollati nei cuori di molti degli spettatori. Der Heer aveva un’espressione sorprendente in volto; per il momento sembrava assai meno il funzionario, il burocrate, il consigliere presidenziale, e assai più lo scienziato.

All’immagine, ancora incomprensibile, si venne ad affiancare un cupo glissando di suoni, che scorreva prima su e poi giù per lo spettro audio finché non mostrò la tendenza a stabilizzarsi in una zona attorno all’ottava sotto il do centrale. Lentamente il gruppo si accorse di una debole musica che stava però aumentando di intensità. L’immagine ruotò, si raddrizzò e si mise a fuoco.

Ellie si trovò a fissare un’immagine granulosa in bianco e nero di…

una tribuna per un’imponente parata adorna di una gigantesca aquila in art-deco. Stretta tra gli artigli di cemento dell’aquila…

«E’ uno scherzo! Tutto uno scherzo!» Ci furono grida di stupore, incredulità, scoppi di risa, qualche isterismo.

«Non vedete? Siete stati ingannati,» le stava dicendo Drumlin in un tono quasi colloquiale. Stava sorridendo. «Si tratta di un sofisticato tiro birbone. Avete fatto perdere del tempo a tutti qui.»

Stretta tra gli artigli di cemento dell’aquila, adesso lo poteva vedere chiaramente, c’era una svastica. La telecamera zoomava sopra l’aquila per inquadrare la faccia sorridente di Adolf Hitler, che salutava, agitando le braccia, una folla che cantava ritmicamente. La sua uniforme, priva di decorazioni militari, dava l’idea di una gran semplicità. La profonda voce baritonale di un annunciatore, gracchiante ma inequivocabilmente tedesca, riempiva la stanza. Der Heer le si avvicinò.

«Conosce il tedesco?» lei sussurrò. «Che cosa sta dicendo?»

«Il Fùhrer,» tradusse lentamente, «da il benvenuto al mondo nella patria tedesca per l’apertura dei giochi olimpici del 1936.»

6 PALINSESTO

«E se i Guardiani non sono felici, chi altri lo può essere?»

ARISTOTELE, Politica, Libro 2, Capitolo 5

Quando l’aereo raggiunse la quota di crociera, con Albuquerque già più di cento miglia alle loro spalle, Ellie gettò un’occhiata pigra al cartoncino bianco rettangolare stampato a lettere blu che era stato fissato alla busta del suo biglietto. Diceva, in un linguaggio immutato dal suo primo volo di linea: «Questo non è lo scontrino di bagaglio descritto dall’Articolo 4 della Convenzione di Varsavia.» Si chiedeva perché mai le compagnie aeree di preoccupassero tanto che i passeggeri potessero confondere quel cartoncino con il biglietto della Convenzione di Varsavia? A proposito, che cos’era un biglietto della Convenzione di Varsavia? Perché non ne aveva mai visto uno? Dove li stavano accumulando? In qualche dimenticato evento chiave della storia dell’aviazione, una linea aerea disattenta doveva aver scordato di stampare questo avvertimento su rettangoli di cartone ed era stata mandata in fallimento in seguito alle cause intentate da infuriati passeggeri sofferenti per il malinteso che fosse quello lo scontrino di bagaglio di Varsavia. Senza dubbio c’erano valide ragioni finanziarie per questa sollecitudine diffusa in tutto il mondo, mai espressa in altra maniera, riguardo a quali pezzi di cartone non sono descritti dalla Convenzione di Varsavia. Ellie pensava che tutte quelle righe stampate messe assieme potevano invece essere destinate a qualcosa di utile: la storia dell’esplorazione del mondo, per esempio, o i fatterelli scientifici, o persino il numero medio di miglia per passeggero prima che il velivolo si schianti a terra.

Se avesse accettato l’offerta di der Heer di un aereo militare, si sarebbe trovata impegnata in altre casuali associazioni di idee. Ma sarebbe stato fin troppo comodo, forse un cedimento che avrebbe portato a un’eventuale militarizzazione del progetto. Avevano preferito viaggiare con un vettore di linea. Gli occhi di Valerian erano già chiusi mentre finiva di sistemarsi nel posto accanto al suo. Non c’era stata una particolare fretta, neppure dopo che avevano preso in considerazione quei dettagli dell’ultimo minuto sull’analisi dei dati, con l’idea che la seconda tunica della cipolla stava per venire via. Erano stati in grado di prendere un volo di linea che sarebbe giunto a Washington con un certo anticipo sulla riunione fissata per l’indomani; così avrebbero avuto tutto il tempo per una buona dormita.

Gettò un’occhiata al telefax ben chiuso in una borsa da viaggio di cuoio sotto il sedile di fronte. Era di parecchie centinaia di kilobit al secondo più veloce del vecchio modello di Peter e offriva informazioni grafiche assai migliori. Bene, forse l’indomani sarebbe stata costretta a usarlo per spiegare alla Presidente degli Stati Uniti che cosa ci stesse facendo Adolf Hitler su Vega. Lei era, lo ammise con se stessa, un po’ nervosa per quell’incontro. Non si era mai trovata con un Presidente prima, e secondo lo standard della fine del ventesimo secolo, questa signora a capo dell’America non era poi così male. Non aveva avuto tempo di farsi fare i capelli, e ancor meno un massaggio al viso. Beh, non stava andando alla Casa Bianca per essere guardata.

Che cosa avrebbe pensato il suo patrigno? Credeva ancora che fosse inadatta per la scienza? O sua madre, ora costretta su una sedia a rotelle in una casa di cura? Era riuscita a farle solo una breve telefonata dal momento della scoperta, più di una settimana prima, e si ripromise di chiamarla ancora l’indomani. Come aveva fatto centinaia di volte in precedenza, scrutò fuori dal finestrino dell’aereo e immaginò quale impressione avrebbe fatto la Terra a un osservatore extraterrestre, a quella quota di crociera di dodici o quattordici chilometri, e presumendo che gli alieni avessero gli occhi pressappoco come i nostri. C’erano vaste aree del Midwest completamente geometrizzate con quadrati, rettangoli e cerchi, fossero queste rurali o urbane; e, come qui, vaste aree del Southwest in cui l’unico segno di vita intelligente era rappresentato da un’occasionale linea retta che si allungava tra monti e attraverso deserti. I mondi di civiltà più avanzate sono totalmente geometrizzati, interamente ricostruiti dai loro abitanti? O la firma di una civiltà davvero avanzata sarebbe quella di non aver lasciato neppure un segno? Sarebbero in grado di dire con precisione, in base a uno sguardo rapido, a quale stadio si sia nella grande sequenza cosmica evolutiva, dello sviluppo di esseri intelligenti?

Che altro potrebbero dire? In base all’azzurro del cielo, essi potrebbero procedere a una stima approssimativa del numero di Loschmidt, cioè del numero di molecole contenuto in un centimetro cubo di gas a zero gradi e alla pressione di un’atmosfera. Circa 2,7 x IO19. Potrebbero stabilire facilmente l’altezza delle nubi dalla lunghezza delle loro ombre sul terreno. Se sapessero che le nubi sono un insieme di gocce d’acqua dovuto alla condensazione di vapore saturo, potrebbero calcolare approssimativamente l’andamento della variazione della temperatura negli strati dell’atmosfera, perché la temperatura scenda a circa quaranta gradi centigradi sotto zero all’altitudine delle nubi più rarefatte che riusciva a vedere. L’erosione delle forme del terreno, i disegni dendritici e i meandri dei fiumi, la presenza di laghi e di cupole vulcaniche consumate, tutto parlava di un’antica lotta tra i processi formativi e quelli erosivi. Bastava davvero un’occhiata per capire che si trattava di un pianeta antico con una civiltà recentissima. La maggior parte dei pianeti della Galassia dovevano essere antichissimi e pretecnologici, forse addirittura senza vita. Alcuni potevano ospitare civiltà molto più vecchie della nostra. Mondi con civiltà tecnologiche che stessero appena cominciando a emergere dovevano essere incredibilmente rari. Era forse l’unica caratteristica peculiare della Terra.

Durante il pranzo, il paesaggio a poco a poco si fece verdeggiante mentre si avvicinavano alla valle del Mississippi. Non ci si rendeva quasi conto del movimento nei moderni viaggi aerei, pensò Ellie. Guardò Peter che stava ancora dormendo; egli aveva respinto con una certa indignazione la prospettiva di un pasto a bordo. Accanto a lui, al di là del corridoio, c’era un giovanissimo essere umano, forse di appena tre mesi, comodamente sistemato tra le braccia del padre. Che idea poteva farsi un neonato di un viaggio aereo? Si andava in un posto speciale, si entrava in una grande stanza che conteneva delle poltrone e ci si sedeva. La stanza rombava e vibrava per quattro ore. Poi ci si alzava e si usciva. Come per magia, ci si trovava in qualche altro luogo. I mezzi di trasporto di certo gli sembravano oscuri, ma l’idea fondamentale doveva essere facile da afferrare, e una padronanza precoce delle equazioni di Navier-Stokes non era richiesta.

Era il tardo pomeriggio quando volteggiarono sopra Washington, attendendo il permesso di atterrare. Ellie potè scorgere, tra il monumento a Washington e il Lincoln Memorial, una gran folla. Si trattava, come aveva appreso soltanto un’ora prima dal telefax del «Times», di un imponente raduno di Americani neri che protestavano per le disparità economiche e le ingiustizie nel campo dell’istruzione. Considerando la validità delle loro rimostranze, lei pensò, erano stati molto pazienti. Si chiedeva come avrebbe reagito la Presidente al raduno e alla trasmissione da Vega, che l’indomani sarebbero stati al centro di un inevitabile commento ufficiale. «Ken, cosa vuoi dire con ‘Escono’?»

«Voglio dire, Presidente, che i nostri segnali televisivi lasciano questo pianeta e vanno nello spazio.»

«Quanto vanno lontano esattamente?»

«Con tutto il dovuto rispetto, Presidente, la cosa non funziona in questo modo.»

«Bene, come funziona allora?»

«I segnali si propagano dalla terra in onde sferiche, un po’ come increspature concentriche in uno stagno. Viaggiano alla velocità della luce — circa 300.000 chilometri al secondo — e fondamentalmente proseguono per sempre. Se un’altra civiltà possiede delle radioriceventi sensibilissime, per quanto lontana da noi possa essere, riuscirà ancora a captare i nostri segnali televisivi. Persino noi potremmo scoprire una forte trasmissione televisiva da un pianeta in orbita attorno alla stella più vicina.» Per un momento, la Presidente rimase impettita, guardando il roseto attraverso le porte-finestre. Si volse verso der Heer. «Vuoi dire… qualsiasi segnale?»

«Sì, qualsiasi.»

«Intendi dire tutte quelle porcherie che ci mostra la televisione? Gli incidenti automobilistici? La lotta libera? I film porno? I notiziari serali?»

«Tutto, signor Presidente.» Der Heer scosse il capo costernato, esprimendo così la sua solidarietà.

«Der Heer, ti capisco bene? Questo significa che tutte le mie conferenze stampa, i miei dibattiti, il mio discorso inaugurale, sono là fuori?»

«Queste sono le notizie buone, Presidente. Pensi alle cattive, a tutte le apparizioni televisive dei suoi predecessori, a quelle di Dick Nixon e della leadership sovietica. E pensi anche a tutte le cose spiacevoli che il suo avversario ha detto di lei. Ci sono i lati positivi e quelli negativi della cosa.»

«Mio Dio! Okay, prosegui.» La Presidente si era allontanata dalle porte-finestre e adesso era apparentemente intenta a esaminare un busto marmoreo di Tom Paine, restaurato di recente, che proveniva dal seminterrato della Smithsonian Institution, dove era stato relegato dal suo predecessore.

«Guardi la cosa in questo modo: quei pochi minuti di televisione da Vega furono tramessi originariamente nel 1936 in occasione dell’apertura dei giochi olimpici a Berlino. Anche se vennero mostrati soltanto in Germania, si trattò della prima trasmissione televisiva sulla Terra con una potenza ancora modesta. A differenza delle comuni trasmissioni radio degli anni Trenta, quei segnali televisivi attraversarono la nostra ionosfera e filtrarono nello spazio. Stiamo cercando di scoprire esattamente ciò che venne trasmesso indietro allora, ma ci metteremo probabilmente un po’ di tempo. Forse quel benvenuto di Hitler è l’unico frammento della trasmissione che sono stati in grado di captare su Vega. Perciò, dal loro punto di vista, Hitler è la prima manifestazione di vita intelligente sulla Terra. Non sto cercando di fare dell’ironia. Non sanno quello che la trasmissione significa, così la registrano e ce la ritrasmettono. E’ un modo per dire: ‘Hello, vi abbiamo sentiti.’ Mi sembra un atto piuttosto amichevole.»

«Dunque dici che non c’è stata nessun’altra trasmissione televisiva fin dopo la seconda guerra mondiale?»

«Niente d’importante. Ci fu una trasmissione locale in Inghilterra per l’incoronazione di Giorgio VI, e cose di questo tipo. Le trasmissioni televisive regolari cominciarono alla fine degli anni Quaranta. Tutti quei programmi si stanno allontanando dalla Terra alla velocità della luce. Immagini che la Terra sia qui» — der Heer gesticolava — «e che ci sia una piccola onda sferica che parte da essa alla velocità della luce, nel 1936. Continua a espandersi e ad allontanarsi dalla Terra. Presto o tardi, raggiunge la più vicina civiltà. Sembra che siano sorprendentemente vicini, a soli ventisei anni luce di distanza, su qualche pianeta della stella Vega. La registrano e ce la rimandano indietro. Ma ci vogliono altri ventisei anni perché le olimpiadi di Berlino ritornino sulla Terra. Così gli abitanti di Vega non hanno impiegato decenni a decifrarla. Dovevano essere stati ben sintonizzati, perfettamente attrezzati, pronti ad andare in onda, in attesa dei nostri primi segnali televisivi. Li scoprono, li registrano, e dopo un po’ ce li rispediscono. Ma a meno che essi non siano già stati qui — sa, qualche missione di rilevamento un centinaio di anni fa — non avrebbero potuto sapere che stavamo per inventare la televisione. Quindi il dottor Arroway pensa che questa civiltà stia controllando tutti i sistemi planetari adiacenti, per vedere se qualcuno dei suoi vicini stia sviluppando un’alta tecnologia.»

«Ken, qui ci sono moltissime cose a cui pensare. Sei sicuro che gli… gli abitanti di Vega non sappiano di che trattasse quel programma televisivo?»

«Presidente, non c’è alcun dubbio che siano intelligenti. Quello del 1936 era un segnale debolissimo. I loro rilevatori devono essere incredibilmente sensibili per captarlo. Ma non vedo come potrebbero capirne il significato. Probabilmente hanno un aspetto molto diverso dal nostro. Devono avere una diversa storia, consuetudini diverse. Non c’è modo per loro di sapere che cosa sia una svastica o chi fosse Adolf Hitler.»

«Adolf Hitler! Ken, questa cosa mi rende furiosa. Quaranta milioni di persone muoiono per sconfiggere quel megalomane e lui è la star della prima trasmissione a un’altra civiltà? Sta rappresentando noi. E loro. Si è avverato il sogno più ambizioso di quel pazzo.» Fece una pausa e quindi proseguì con un tono più calmo. «Sai, non ho mai pensato che Hitler potesse fare quel saluto alla Hitler. Non l’ha mai fatto a braccio teso, era sempre deviato secondo un angolo ridicolo. E allora c’era quel saluto da finocchio a gomito piegato. Se chiunque altro avesse fatto in maniera così maldestra il suo Heil Hitler sarebbe stato spedito sul fronte russo.»

«Ma non c’è una differenza? Stava solo contraccambiando i saluti degli altri. Non stava facendo Heil Hitler.»

«Oh, credo proprio di sì,» ribattè la Presidente e, con un gesto, accompagnò der Heer fuori della Sala Rosa e lungo un corridoio. All’improvviso si arrestò e guardò il suo consigliere scientifico. «E se i Nazisti non avessero avuto la televisione nel 1936? Che cosa sarebbe successo allora?»

«Beh, allora suppongo che si sarebbe trattato dell’incoronazione di Giorgio VI, o di una delle trasmissioni sull’Esposizione Universale di New York nel 1939, se una di esse fosse stata abbastanza forte per essere ricevuta su Vega. O di alcuni programmi della fine degli anni Quaranta e degli inizi dei Cinquanta. Ha presente, Howdy Doody, Milton Berle, le udienze Esercito-McCarthy, tutti quei meravigliosi segni di vita intelligente sulla Terra.»

«Quei maledetti programmi sono i nostri ambasciatori nello spazio… l’Emissario della Terra.» Tacque un attimo per assaporare la frase. «Con un ambasciatore, si suppone che si faccia del proprio meglio, e noi abbiamo continuato per quarantenni a inviare nello spazio soprattutto della merda. Vorrei vedere i dirigenti delle reti televisive alle prese con questa patata bollente. E quel folle di Hitler, è la prima notizia che hanno della Terra? Che penseranno di noi?» Mentre der Heer e la Presidente entravano nella sala del consiglio, quelli che erano rimasti in piedi, a piccoli gruppi, smisero di parlare e alcuni che erano rimasti seduti fecero l’atto di alzarsi. Con un gesto meccanico la Presidente espresse la sua preferenza per l’informalità e salutò alla buona il Segretario di Stato e un Sottosegretario della Difesa. Con un lento e studiato giro del capo, scrutò il gruppo. Alcuni ricambiarono il suo sguardo con un’espressione di attesa. Altri, scorgendo un’aria di leggero fastidio sul volto della Presidente, distolsero lo sguardo.

«Ken, non c’è quella tua astronomia? Arrowsmith? Arro-wroot?»

«Arroway, Presidente. Lei e il dottor Valerian sono arrivati la notte scorsa. Forse sono rimasti imbottigliati nel traffico.»

«Il dottor Arroway ha chiamato dal suo hotel, Presidente,» spiegò con zelo un giovanotto dall’aspetto estremamente raffinato. «Ha detto che c’erano alcuni nuovi dati che stavano arrivando sul suo telefax, e che voleva portarli a questa riunione. Presumibilmente dovremo cominciare senza di lei.»

Michael Kitz si sporse in avanti e prese la parola con un tono e un’espressione di incredulità. «Stanno trasmettendo nuovi dati su questo argomento con un telefono aperto, insicuro, in una stanza di un albergo di Washington?»

Der Heer ribattè così piano che Kitz dovette sporgersi ancor di più per poter sentire. «Mike, penso che ci sia almeno una criptografia commerciale sul suo telefax. Ma ricordati che non ci sono istruzioni di sicurezza precise in questa faccenda. Sono certo che il dottor Arroway collaborerà se verranno fissate delle precise norme.»

«Va bene, cominciamo,» disse la Presidente. «Questa è una riunione congiunta, e informale, del National Security Council e di quel che chiamiamo per il momento lo Special Contingency Task Group. Voglio che vi mettiate tutti in testa che nulla di quanto verrà detto in questa stanza — dico nulla — deve essere discusso con qualcuno che non si trova qui, tranne che con il Segretario della Difesa e il Vice Presidente che sono in Europa. Ieri, il dottor der Heer ha fornito alla maggior parte di voi dei ragguagli su questo incredibile programma televisivo dalla stella Vega. E opinione del dottor der Heer e di altri» — si guardò attorno — «che sia solo un caso fortuito che il primo programma televisivo a raggiungere Vega abbia avuto come protagonista Adolf Hitler. Ma è … imbarazzante. Ho chiesto al Direttore della Central Intelligence di preparare una stima di tutte le implicazioni per la sicurezza nazionale presenti in esso. C’è qualche diretta minaccia da chiunque ce lo stia inviando? Saremo nei pasticci se arriverà un nuovo messaggio e qualche altro paese lo decifrerà per primo? Ma per prima cosa lascia che ti chieda, Marvin, se ha qualcosa a che fare con i dischi volanti?»

Il Direttore della Central Intelligence, un uomo autoritario alle soglie della senilità, che portava un paio di occhiali dalla montatura d’acciaio, riassunse. Gli oggetti volanti non identificati, chiamati comunemente UFO, avevano interessato saltuariamente la GIÀ e l’Air Force specialmente negli anni Cinquanta e negli anni Sessanta, perché allora potevano essere considerati come un mezzo adottato da una potenza nemica per creare confusione o per sovraccaricare i canali delle comunicazioni. Alcuni degli incidenti più attendibili registrati risultarono essere delle penetrazioni nello spazio aereo statunitense o sorvolamenti di basi americane d’oltremare da parte di velivoli dalle prestazioni eccezionali provenienti dall’Unione Sovietica o da Cuba. Tali sorvolamenti erano un comune mezzo per verificare la prontezza di un potenziale avversario, e gli Stati Uniti avevano un bel curriculum di violazioni e tentativi di violazione dello spazio aereo sovietico. Un Mig cubano, che era penetrato nel bacino del Mississippi per duecento miglia prima di venir scoperto, veniva considerato una pubblicità indesiderabile dalla NORAD. Per l’Air Force la procedura consueta era stata quella di negare che qualche suo velivolo fosse nelle vicinanze del luogo di avvistamento dell’UFO, e di non comunicare nulla circa penetrazioni non autorizzate, rafforzando così l’inganno ai danni dell’opinione pubblica. A queste spiegazioni, il capo dello staff dell’Air Force apparve leggermente a disagio, ma non disse nulla. La grande maggioranza delle segnalazioni di UFO, proseguì il Direttore della Central Intelligence, riguardavano in realtà oggetti naturali interpretati in maniera errata dall’osservatore. Velivoli diversi dal solito o sperimentali, fari d’auto riflessi dalle nubi, palloni, uccelli, insetti luminescenti, persino pianeti e stelle visti in condizioni atmosferiche inusuali, erano stati tutti segnalati come UFO. Un significativo numero di rapporti si erano rivelati scherzi o semplici allucinazioni. C’erano stati più di un milione di avvistamenti di UFO segnalati in tutto il mondo dacché il termine «disco volante» era stato coniato alla fine degli anni Quaranta, e nessuno di essi era sembrato collegabile con fondamento a una visita di extraterrestri. Ma l’idea suscitò grandi emozioni, e ci furono gruppi periferici e pubblicazioni, e persino alcuni scienziati che tennero viva la presunta connessione fra gli UFO e la vita su altri mondi. La recente dottrina millenaristica includeva la sua parte di redentori extraterrestri a bordo di dischi volanti, Il dipartimento investigativo ufficiale dell’Air Force, chiamato in una delle sue ultime trasformazioni Progetto Libro Blu, era stato chiuso negli anni Sessanta per mancanza di progressi, benché l’Air Force e la CIA avessero continuato a nutrire congiuntamente un sottile interesse. La comunità scientifica era così convinta che non ci fosse nulla di vero al riguardo che quando Jimmy Carter chiese alla National Aeronautics and Space Administration di effettuare uno studio approfondito sugli UFO, la NASA oppose un inconsueto rifiuto alla richiesta.

«In realtà,» interloquì uno degli scienziati attorno al tavolo, poco pratico del protocollo in simili riunioni, «la faccenda degli UFO ha reso più difficile lavorare seriamente al SETI.»

«Benissimo.» La Presidente sospirò. «C’è qualcuno attorno a questo tavolo che pensa che gli UFO e questo segnale da Vega abbiano qualcosa in comune?» Der Heer si esaminava le unghie. Nessuno fiatò.

«Però ci saranno lo stesso un sacco di ‘Te l’avevo detto io da parte di quei fanatici ufofili. Marvin, perché non continui?»

«Nel 1936, Presidente, un debolissimo segnale televisivo trasmette le cerimonie di apertura delle olimpiadi a pochissimi apparecchi nell’area di Berlino. E’ un tentativo di far colpo sull’opinione pubblica. Mostra i progressi e la superiorità della tecnologia tedesca. C’erano state alcune trasmissioni televisive in precedenza, ma tutte a bassissimi livelli di potenza. Effettivamente noi l’abbiamo fatto prima dei Tedeschi. Il Segretario del Commercio Herbert Hoover fece una breve apparizione televisiva il … 27 aprile 1927. A ogni modo, il segnale tedesco lascia la Terra alla velocità della luce, e ventisei anni dopo arriva su Vega. Discutono il segnale per alcuni anni — chiunque essi siano — e quindi ce lo rimandano indietro enormemente amplificato. La loro capacità di ricevere quel segnale debolissimo è impressionante, ed è impressionante la loro capacità di rimandarcelo a così alti livelli di potenza. Qui ci sono certamente delle implicazioni per la sicurezza. La comunità dello spionaggio elettronico, per esempio, gradirebbe sapere come possano essere scoperti segnali tanto deboli. Quelle creature, o qualunque cosa siano, su Vega sono certamente più avanzate di noi: forse soltanto di pochi decenni, ma forse molto di più.

Non ci hanno dato nessun’altra informazione su di loro tranne che a certe frequenze il segnale trasmesso non mostra l’effetto Doppler derivante dal moto del loro pianeta attorno alla loro stella. Hanno semplificato il passo del raffinamento dei dati per noi. Sono… servizievoli. Finora non è stato ricevuto nulla di militare o di qualsiasi altro interesse. Tutto quello che ci hanno detto è che sono bravi in radioastronomia, che amano i numeri primi, e che possono rimandarci indietro la nostra trasmissione televisiva. Non ci dovrebbe essere alcun danno se le altre nazioni ne sono informate. E ricordate: tutti gli altri paesi stanno ricevendo lo stesso clip di Hitler della durata di tre minuti in continuazione. Non hanno ancora scoperto come leggerlo. I Russi o i Tedeschi, o qualcun altro, arriveranno probabilmente a questa modulazione di polarizzazione, prima o poi. La mia impressione personale, Presidente — non so se lo Stato sia d’accordo — è che sarebbe meglio che noi la rendessimo nota al mondo prima di venir accusati di tener nascosto qualcosa. Se la situazione rimane statica — senza grandi cambiamenti rispetto a quella attuale — potremmo pensare di fare un annuncio pubblico, o addirittura di distribuire il clip.

Detto per inciso, non siamo stati capaci di trovare nessuna indicazione negli archivi tedeschi di quello che c’era nella trasmissione originale. Non possiamo essere assolutamente sicuri che le creature di Vega non abbiano operato nessun cambiamento nel contenuto prima di rimandarcela indietro. Possiamo riconoscere Hitler, d’accordo, e il settore dello stadio olimpico che noi vediamo corrisponde perfettamente alla Berlino del 1936. Ma se in quel momento Hitler si fosse in realtà grattato i baffi invece di sorridere come nella trasmissione, non avremmo modo di saperlo.» Ellie arrivò un po’ ansante, seguita da Valerian. Cercarono di occupare delle sedie poco in vista contro la parete, ma der Heer se ne accorse e attirò l’attenzione della Presidente su loro. «Dottor Arrow-uh-way? Sono contenta di vedere che è arrivata sana e salva. Per prima cosa, lasci che mi congratuli con lei per una splendida scoperta. Splendida. Uhm, Marvin…»

«Sono a una battuta d’arresto, Presidente.»

«Bene. Dottor Arroway, sappiamo che ha qualcosa di nuovo. Vorrebbe dirci di che si tratta?»

«Presidente, mi dispiace di essere in ritardo, ma penso che abbiamo appena avuto un colpo di fortuna cosmico. Abbiamo… E’… Lasci che tenti di spiegarglielo in questo modo: nei tempi classici, migliaia di anni fa, quando si era a corto di pergamena, gli antichi scrivevano sopra messaggi preesistenti, facendo ciò che è chiamato un palinsesto. C’era una scrittuta sotto una scrittura che celava un’altra scrittura. Questo segnale da Vega è, naturalmente, molto forte. Come lei sa, ci sono i numeri primi, e sotto di essi, in ciò che è chiamata modulazione di polarizzazione, la strana faccenda di Hitler. Ma sotto la sequenza di numeri primi e sotto la trasmissione olimpica che ci è stata rimandata, abbiamo appena scoperto un messaggio incredibilmente ricco… almeno, siamo abbastanza sicuri che si tratti di un messaggio. Per quanto possiamo dire, è sempre stato là. Lo abbiamo appena individuato. E’ più debole del segnale di annuncio, ma è imbarazzante che non lo abbiamo trovato prima.»

«Che cosa dice il messaggio?» domandò la Presidente. «Di che si tratta?»

«Non ne abbiamo la benché minima idea, Presidente. Alcuni scienziati del Progetto Argus ci sono arrivati stamattina presto, ora di Washington. Noi ci abbiamo lavorato tutta la notte.»

«Con un telefono aperto?» chiese Kitz.

«Con la criptografia commerciale standard.» Ellie appariva un po’ agitata. Aprendo la custodia del suo telefax, estrasse in fretta la diapositiva di un tabulato e, con un epidiascopio, la proiettò su uno schermo.

«Ecco tutto quello che sappiamo al momento: riceveremo un blocco di informazioni comprendente circa un migliaio di bit. Ci sarà una pausa e quindi lo stesso blocco verrà ripetuto, bit per bit. Poi ci sarà un’altra pausa, e proseguiremo con il blocco seguente, che verrà ugualmente ripetuto. Probabilmente la ripetizione di ogni blocco serve a rendere minimi gli errori di trasmissione. Devono pensare che sia molto importante che noi riceviamo con precisione qualunque cosa sia quello che stanno dicendo. Ora, chiamiamo ciascuno di questi blocchi di informazioni in una pagina. Argus sta raccogliendo alcune dozzine di queste pagine al giorno. Ma non sappiamo che cosa riguardino. Non sono un semplice cifrario fotografico come il messaggio olimpico. E qualcosa di molto più profondo e molto più ricco. Sembra si tratti, per la prima volta, di informazioni che essi hanno prodotto. L’unica traccia che abbiamo finora è che le pagine sembrano numerate. All’inizio di ogni pagina si trova una cifra della numerazione binaria. La vedete qui? E ogni volta che arriva un altro paio di pagine identiche la cifra è quella successiva, in un regolare crescendo. Proprio adesso siamo alla pagina… 10.413. Si tratta di un grosso libro. Facendo dei calcoli all’indietro, sembra che il messaggio sia cominciato circa tre mesi fa. Siamo fortunati ad averlo captato così presto.»

«Avevo ragione, non è vero?» Kitz si protese sul tavolo verso der Heer. «Non è il tipo di messaggio che vorresti dare ai Giapponesi o ai Cinesi o ai Russi, vero?»

«Sarà facile da capire?» chiese la Presidente coprendo i sussurri di Kitz.

«Naturalmente faremo del nostro meglio. E sarebbe probabilmente utile che ci lavorasse anche la National Security Agency. Ma senza una spiegazione da Vega, senza un manuale di istruzioni, sono del parere che non andremo molto lontano. Certamente non sembra scritto in inglese o in tedesco o in qualsiasi altro linguaggio terrestre. La nostra speranza è che il Messaggio finisca, forse a pagina 20.000 o 30.000 e che poi ricominci esattamente dall’inizio, così da metterci in grado di completare le parti mancanti. Forse prima che l’intero Messaggio si ripeta, ci sarà un sillabario, un manuale, una sorta di ‘McGuffrey’s Reader’, che ci metterà in grado di capire il Messaggio.»

«Se mi è concesso, Presidente…»

«Presidente, questi è il dottor Peter Valerian del California Institute of Technology, uno dei pionieri in questo campo.»

«Prego, parli, dottor Valerian.»

«Si tratta di una trasmissione intenzionale indirizzata a noi. Sanno che siamo qui. Si sono fatti una certa idea, avendo intercettato la nostra emissione del 1936, del nostro livello tecnologico e del nostro grado di intelligenza. Non si darebbero tanta pena se non volessero farci comprendere il Messaggio. In qualche punto c’è la chiave per aiutarci a capirlo. E’ solo una questione di accumulare tutti i dati e di analizzarli molto attentamente.»

«Bene, di che cosa tratta il Messaggio, secondo lei?»

«Non so che dire, Presidente. Posso solamente ripetere ciò che ha detto il dottor Arroway. E’ un messaggio intricato e complesso. La civiltà che lo trasmette è impaziente di farcelo ricevere. Forse non è che un piccolo volume dell’ ‘Enciclopedia galattica’. La stella Vega è circa tre volte più compatta del Sole e circa cinquanta volte più splendente. Poiché brucia il suo combustibile nucleare così

velocemente, avrà una durata molto più breve di quella del Sole…»

«Sì, forse qualcosa sta per andar male su Vega,» lo interruppe il Direttore della Central Intelligence. «Forse il loro pianeta verrà distrutto. Forse vogliono che qualcun altro sappia della loro civiltà prima che siano spazzati via.»

«O,» suggerì Kitz, «forse stanno cercando un nuovo posto su cui trasferirsi, e la Terra sarebbe l’ideale per loro. Forse non è casuale che abbiano scelto di inviarci un filmato di Adolf Hitler.»

«Un momento,» disse Ellie, «ci sono moltissime possibilità, ma non tutto è possibile. Per la civiltà che trasmette non c’è modo di sapere se abbiamo ricevuto il Messaggio, ancor meno se stiamo facendo qualche progresso nella sua decifrazione. Se troviamo il Messaggio offensivo non siamo obbligati a rispondere. E anche se rispondessimo ci vorrebbero ventisei anni prima che possano ricevere la risposta, e altri ventisei anni prima che possano replicare. La velocità della luce è grande, ma non infinitamente grande. Siamo a una notevole distanza di sicurezza da Vega. E se c’è qualcosa che ci preoccupa riguardo a questo nuovo Messaggio, abbiamo decenni per decidere sul da farsi. Non facciamoci già prendere dal panico.» Pronunciò queste ultime parole sorridendo amabilmente a Kitz. «Apprezzo tali osservazioni, dottor Arroway,» ribattè la Presidente. «Ma le cose stanno capitando in fretta. Maledettamente in fretta. E ci sono troppi forse. Non ho neppure rilasciato una dichiarazione pubblica a questo proposito. Neppure riguardo ai numeri primi, figurarsi poi a quella merda di Hitler. Adesso dobbiamo pensare a questo libro che, secondo lei, ci stanno mandando. E dal momento che voi scienziati vi parlate con una certa leggerezza, le voci stanno circolando. Phyllis, dov’è quell’incartamento? Ecco, guardate questi titoli.»

Mostrò una serie di articoli che recavano tutti lo stesso messaggio, in uno stile giornalistico che non variava molto:

«DOTTORE SPAZIALE PARLA DI COMUNICAZIONE RADIO DA MOSTRI CON OCCHI DA INSETTO», «TELEGRAMMA ASTRONOMICO ACCENNA A INTELLIGENZE EXTRATERRESTRI», «VOCE DAL CIELO?» e «GLI ALIENI STANNO ARRIVANDO! GLI ALIENI STANNO ARRIVANDO!» Lasciò Cadere i ritagli sul tavolo.

«Almeno la storia di Hitler non è ancora saltata fuori. Sto aspettando titoli del tipo: ‘HITLER VIVO E VEGETO NELLO SPAZIO, DICONO GLI STATI UNITI’. E peggio. Molto peggio. Penso che faremmo meglio a sospendere la riunione e a riconvocarla più avanti.»

«Se mi è concesso, Presidente,» intervenne der Heer con tono esitante e con evidente riluttanza. «Mi scusi, ma ci sono alcune implicazioni internazionali che penso debbano essere sollevate adesso.»

La Presidente acconsentì con un sospiro. Der Heer proseguì. «Mi dica se ho capito bene, dottor Arroway. Ogni giorno la stella Vega sorge sul deserto del New Mexico, e allora riceverete una qualunque pagina di questa complessa trasmissione inviata per caso alla Terra in quel momento. Quindi, circa otto ore dopo, la stella tramonta. Esatto finora? Okay. Poi il giorno seguente la stella sorge nuovamente a est, ma avete perso alcune pagine durante il periodo in cui non eravate in grado di osservarla, dopo che era tramontata la notte precedente. Giusto? Perciò, è come se riceveste le pagine da trenta a cinquanta e successivamente quelle da ottanta a cento, e così via. Per quanta cura e pazienza ci si metta nell’osservazione, avremo enormi quantità di informazioni mancanti. Lacune. Anche se il messaggio per caso si ripeterà, avremo sempre delle lacune.»

«Perfettamente esatto.» Ellie si alzò e si avvicinò a un gigantesco mappamondo. Evidentemente la Casa Bianca era contraria all’obliquità della Terra; l’asse di quel globo era verticale in maniera provocante. Cercò di dargli un movimento rotatorio. «La Terra gira. C’è bisogno di radiotelescopi distribuiti uniformemente su molte longitudini se non si vogliono delle lacune. Ogni nazione che osservi soltanto dal proprio territorio capterà solo parti del messaggio, perdendo forse le più interessanti. E lo stesso tipo di problema che si trova a dover affrontare un velivolo interplanetario americano, che trasmette le sue scoperte alla Terra quando passa accanto a qualche pianeta; ma gli Stati Uniti in quel momento possono trovarsi dall’altra parte. Perciò la NASA ha predisposto che tre stazioni radio di appoggio fossero distribuite uniformemente secondo la longitudine attorno alla Terra. Per decenni hanno funzionato superbamente. Ma…» La sua voce mostrò qualche esitazione e lei guardò direttamente P.L Garrison, l’Amministratore della NASA. Un uomo sottile, dal colorito giallastro e dall’aria cordiale, che le fece un cenno d’intesa. «Uh, grazie. Sì. Si chiama Deep Space Network, e ne siamo molto orgogliosi. Abbiamo stazioni nel deserto del Mojave, in Spagna e in Australia. Naturalmente, siamo a corto di fondi, ma con un piccolo aiuto sono certo che potremmo riprenderci in fretta.»

«Spagna e Australia?» chiese la Presidente. «Per attività puramente scientifica,» stava dicendo il Segretario di Stato, «sono sicuro che non ci sia nessun problema. Tuttavia, se questo programma di ricerca avesse delle implicazioni politiche, potrebbe essere un po’ delicato.»

Da qualche tempo le relazioni americane con entrambi i paesi si erano raffreddate.

«Non c’è alcun dubbio: il programma presenta implicazioni politiche,» ribattè la Presidente un po’ stizzita. «Ma non siamo costretti a essere vincolati alla superficie terrestre,» intervenne un generale dell’Air Force. «Possiamo superare il periodo di rotazione. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è un grande radiotelescopio in orbita terrestre.»

«Benissimo.» La Presidente volse lo sguardo di nuovo attorno al tavolo. «Abbiamo un radiotelescopio spaziale? Quanto tempo ci vorrebbe per averne uno in orbita? Chi ne sa qualcosa? Dottor Garrison?»

«Uh, no, Presidente. Alla NASA abbiamo presentato un progetto per l’Osservatorio Maxwell negli ultimi tre anni fiscali, ma l’OMB lo ha tolto dal bilancio ogni volta. Siamo in possesso di uno studio dettagliato, naturalmente, ma ci vorrebbero anni — tre in ogni caso — prima di poterlo avere in orbita. E mi sento in dovere di rammentare a tutti che fino all’autunno scorso i Russi avevano un telescopio a onde millimetriche e submillimetriche in funzione attorno alla Terra. Non sappiamo perché si sia guastato, ma sarebbe più facile per loro inviare alcuni cosmonauti a ripararlo che per noi costruirne e lanciarne uno partendo da zero.»

«E’ così?» la Presidente chiese. «La NASA ha un comune telescopio nello spazio ma nessun grande radiotelescopio. Non c’è nulla di adatto allo scopo che si trovi già lassù? Che mi dite della comunità dello spionaggio? E della National Security Agency? Nessuno?»

«Allora, proprio per seguire il filo del ragionamento,» disse der Heer, «si tratta di un forte segnale ed è su moltissime frequenze. Dopo il tramonto di Vega sugli Stati Uniti, ci sono dei radiotelescopi in sei o sette paesi che stanno individuando e registrando il segnale. Non sono sofisticati come quelli del Progetto Argus, e probabilmente non hanno ancora ricavato la modulazione di polarizzazione. Se indugiamo a preparare un radiotelescopio spaziale e a lanciarlo, il messaggio in quel momento potrebbe già essere finito, sparito completamente. Non ne consegue allora, dottor Arroway, che l’unica soluzione è un’immediata collaborazione con un certo numero di altre nazioni?»

«Non credo che ci sia una nazione in grado di portare a termine l’impresa da sola. La cosa richiederà molte nazioni, allineate, longitudinalmente lungo tutta la superficie della Terra. Coinvolgerà ogni importante installazione radioastronomica ora in funzione — i grandi radiotelescopi presenti in Australia, Cina, India, Unione Sovietica, Medio Oriente ed Europa occidentale. Sarebbe da irresponsabili concludere con una serie di lacune nella copertura perché qualche sezione critica del Messaggio è arrivata quando non c’era nessun telescopio puntato su Vega. Dobbiamo fare qualcosa per il Pacifico orientale tra le Hawaii e l’Australia, e forse qualcosa anche per la zona centrale dell’Atlantico.»

«Dunque,» replicò malvolentieri il Direttore della Central Intelligence, «i Russi hanno parecchie navi per l’intercettazione dei satelliti, che operano sia in banda S sia in banda X, 1’ ‘Akademik Keldysh’, per esempio. O la ‘Marshal Nedelin. Se ci mettiamo d’accordo con loro, potrebbero essere in grado di piazzare delle navi nell’Atlantico o nel Pacifico e riempire i buchi.» Ellie contrasse le labbra per ribattere, ma la Presidente aveva già preso la parola.

«Benissimo, Ken. Puoi aver ragione. Ma torno a ripetere che la cosa sta procedendo troppo in fretta. Ci sono alcune altre cose a cui devo badare adesso. Apprezzerei se il Direttore della Central Intelligence e lo staff della National Security volessero considerare durante la notte se abbiamo qualche altra scelta oltre alla collaborazione con altri paesi, specialmente paesi di cui non siamo alleati. Gradirei che il Segretario di Stato preparasse, in cooperazione con gli scienziati, una lista speciale di nazioni e di persone da contattare se dobbiamo collaborare, e una valutazione delle conseguenze. Qualche nazione si infurierà con noi se non chiederemo loro di mettersi in ascolto? Possiamo essere ricattati da qualcuno che promette i dati e poi se li tiene? Dovremmo tentare di avere più di un paese a ogni longitudine? Esaminate le implicazioni. E per Dio» — il suo sguardo passò in rassegna tutti i volti che stavano attorno alla lunga tavola lucente — «mantenete il silenzio sulla faccenda. Anche lei, Arroway. Abbiamo già abbastanza problemi.»

7 L’ETANOLO NELLA W-3

«Non si deve prestare alcuna fede all’opinione… che i demoni agiscano come messaggeri e interpreti tra gli dei e gli uomini per portare tutte le petizioni da noi agli dei e per riportarci l’aiuto degli dei. Al contrario, dobbiamo ritenerli spiriti bramosi di fare del male, totalmente alieni dalla rettitudine, gonfi d’orgoglio, lividi d’invidia, scaltri nell’inganno…»

AGOSTINO, De civitate Dei, VIII, 22

«Abbiamo le profezie di Cristo per le eresie future, ma non abbiamo predizione alcuna per la scomparsa di quelle passate.»

THOMAS BROWNE, Religio Medici, I, 8 (1642)

Ellie aveva progettato di incontrare Vaygay all’aeroporto di Albuquerque e di accompagnarlo all’Argus con la sua Thunder-bird. Il resto della delegazione sovietica avrebbe viaggiato sulle auto dell’osservatorio. Avrebbe provato il piacere di sfrecciare all’aeroporto nella fresca aria dell’alba, forse di nuovo salutata da una guardia d’onore di conigli rampanti. E aveva pregustato un lungo e sostanzioso colloquio privato con Vaygay sulla strada del ritorno. Ma i nuovi addetti alla sicurezza della General Services Administration avevano posto il veto all’idea. L’attenzione dei media e il sobrio annuncio rilasciato dalla Presidente al termine della sua conferenza stampa di due settimane prima avevano attirato folle enormi in mezzo al deserto. C’era la possibilità di un’esplosione di violenza, avevano detto a Ellie. In futuro avrebbe dovuto viaggiare soltanto in auto governative, e per di più sotto scorta armata. Il loro piccolo convoglio stava avviandosi alla volta di Albuquerque a un’andatura così misurata e responsabile che istintivamente si trovò a premere con il piede destro un immaginario acceleratore sul tappetino di gomma davanti a lei.

Sarebbe stato piacevole passare di nuovo un po’ di tempo con Vaygay. Lo aveva visto l’ultima volta a Mosca tre anni prima, durante uno di quei periodi in cui gli si proibiva di visitare l’Occidente. L’autorizzazione per viaggi all’estero era stata concessa o negata nel corso dei decenni a seconda del mutamento delle tendenze politiche e della condotta imprevedibile di Vaygay. Il permesso gli veniva negato dopo una qualche leggera provocazione politica da cui egli sembrava incapace di trattenersi, e poi accordato nuovamente quando non si poteva trovare nessuno altrettanto valido per dar corpo a questa o quella delegazione scientifica. Riceveva inviti da tutto il mondo per lezioni, seminari, incontri, conferenze, gruppi di studio associati, e commissioni internazionali. Come vincitore di un premio Nobel per la fisica e come membro effettivo dell’Accademia Sovietica delle Scienze, egli poteva permettersi di essere un po’ più indipendente della maggior parte dei suoi colleghi. Spesso sembrava in una posizione di equilibrio precario ai limiti estremi della pazienza e del controllo dell’ortodossia governativa. Il suo nome per esteso era Vasilj Gregorovic Lunacarskij, conosciuto nella comunità mondiale dei fisici come Vaygay dalle iniziali del nome di battesimo e del patronimico. Le sue incerte e ambigue relazioni con il regime sovietico erano motivo di perplessità per lei e gli altri scienziati in Occidente. Era un parente alla lontana di Anatolj Vasilievic Lunacarskij, un vecchio collega bolscevico di Gorkij, Lenin e Trotzkij: costui era stato in seguito Commissario del Popolo per l’Educazione e ambasciatore sovietico in Spagna fino alla sua morte avvenuta nel 1933. La madre di Vaygay era ebrea. Si diceva che lui avesse lavorato alle armi nucleari sovietiche, benché a quell’epoca, certo fosse troppo giovane per aver sostenuto un ruolo di una certa importanza nella prima esplosione termonucleare sovietica.

Il suo istituto aveva un buono staff e un buon equipaggiamento, e la sua produttività scientifica era prodigiosa, sì da attirare quasi costantemente l’attenzione del Comitato per la Sicurezza di Stato. Nonostante le concessioni e le sospensioni dei permessi per i viaggi all’estero, aveva partecipato spesso alle più importanti conferenze internazionali compresi i simposi «Rochester» sulla fisica delle particelle, i convegni «Texas» sull’astrofisica relativistica, e le informali ma talvolta autorevoli riunioni scientifiche «Pugwash» sui mezzi per ridurre la tensione internazionale. Le era stato detto che negli anni Sessanta Vaygay aveva visitato l’Università di California a Berkeley e si era entusiasmato per la proliferazione di slogan irriverenti, scatologici e politicamente offensivi stampati su distintivi da pochi soldi. Ellie con una leggera nostalgia ricordò come fosse possibile allora farsi un’idea al primo sguardo delle convinzioni sociali più profonde di qualcuno. I distintivi erano popolari e andavano a ruba anche nell’Unione Sovietica, ma di solito celebravano la squadra di calcio «Dynamo», o uno dei veicoli spaziali della fortunata serie «Luna», che era stato il primo ad atterrare sul nostro satellite. I distintivi di Berkeley erano diversi e Vaygay ne aveva comperati a decine, ma gli piaceva portarne uno in particolare. Era grande come il palmo della sua mano e diceva: «Pregate per il sesso». Lo sfoggiava persino alle riunioni scientifiche e quando gliene si chiedeva la ragione, solea dire: «Nel vostro paese, è offensivo soltanto in un modo. Nel mio, invece, è offensivo in due modi indipendenti.» Se gli altri ne volevano sapere di più, egli commentava soltanto che il suo famoso parente bolscevico aveva scritto un libro sul posto della religione in una società socialista. Da allora, il suo inglese era migliorato moltissimo — molto di più del russo di Ellie — ma la sua tendenza a portare distintivi oltraggiosi era, tristemente, diminuita. Una volta, durante un’animata discussione sui relativi meriti dei due sistemi politici, Ellie si era vantata di essere stata libera di marciare davanti alla Casa Bianca per protestare contro l’intervento americano nella guerra del Vietnam. Vaygay replicò che nello stesso periodo aveva avuto la stessa libertà di marciare davanti al Cremlino per protestare contro l’intervento americano nella guerra del Vietnam. Non aveva mai avuto la tentazione di fotografare le chiatte cariche di rifiuti maleodoranti su cui si abbattevano con grida rauche i gabbiani mentre sfilavano lente davanti alla Statua della Libertà, come aveva fatto un altro scienziato sovietico quando lei lo aveva accompagnato per un po’ di svago sul traghetto di Staten Island durante un intervallo di un convegno a New York City. E non aveva neppure fotografato con passione, come avevano fatto alcuni dei suoi colleghi, le capanne in rovina e le baracche di lamiere ondulate dei poveri portoricani durante un’escursione in bus da un lussuoso hotel sulla spiaggia all’osservatorio di Arecibo. A chi mostravano quelle foto? Ellie se lo era sempre chiesta. Fantasticava di una grande biblioteca del KGB dedicata alle miserie, alle ingiustizie e alle contraddizioni della società capitalistica. Era loro di conforto, quando si sentivano afflitti per qualcuno dei fallimenti della società sovietica, passare in rassegna le sbiadite istantanee dei loro imperfetti cugini americani?

C’erano stati molti brillanti scienziati in Unione Sovietica che, per colpe sconosciute, non avevano ottenuto il permesso di visitare l’Europa occidentale per decenni. Kostantinov, per esempio, non era mai stato in Occidente fino alla metà degli anni Sessanta. Quando, a un congresso internazionale a Varsavia — attorno a un tavolo ingombro di decine di grandi bicchieri vuoti di brandy Azerbaijani, al termine dei lavori — fu chiesto a Kostantinov il perché, egli rispose: «Perché i bastardi sanno che se mi lasciano uscire non tornerei più indietro.» Ciò nondimeno, lo avevano lasciato uscire durante il disgelo delle relazioni scientifiche tra i due paesi tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, e lui era ritornato indietro ogni volta. Ma adesso non lo lasciavano più uscire ed era ridotto a mandare ai suoi colleghi occidentali dei biglietti per il Nuovo Anno in cui si ritraeva miseramente a gambe incrociate, a testa china, seduto su una sfera sotto cui c’era l’equazione di Schwarzschild per il raggio di un buco nero. Egli si trovava in una profonda buca di potenziale, diceva a quelli che lo andavano a trovare a Mosca, usando una metafora tratta dalla fisica. Non lo avrebbero mai più lasciato uscire di nuovo. Alle domande che gli venivano poste, Vaygay rispondeva che il governo sovietico riteneva per certo che la rivoluzione ungherese del 1956 fosse stata organizzata da criptofascisti e che la Primavera di Praga del 1968 fosse stata provocata da un gruppo antisocialista in seno alla leadership che non rappresentava affatto la volontà del popolo cecoslovacco. Ma, soggiungeva, se ciò che gli era stato detto era falso, se quelle erano state genuine rivolte popolari, allora il suo paese aveva fatto male a reprimerle. A proposito dell’Afghanistan non si preoccupava neppure di citare le giustificazioni ufficiali. Una volta nel suo ufficio all’Istituto, egli aveva insistito per mostrare a Ellie la sua radio personale a onde corte, su cui vi erano delle frequenze con l’indicazione Londra, Parigi e Washington in caratteri cirillici. Era libero, le disse, di ascoltare la propaganda di tutte le nazioni. C’era stato un periodo in cui molti dei suoi colleghi si erano abbandonati alla retorica nazionale del pericolo giallo. «Immagini l’intera frontiera tra la Cina e l’Unione Sovietica occupata da soldati cinesi, spalla a spalla, un esercito d’invasori,» le chiese uno di loro, stimolando la fantasia di Ellie. Erano in piedi attorno al samovar nell’ufficio del Direttore all’Istituto. «Quanto ci vorrà, con l’attuale incremento demografico cinese, prima che passino tutti la frontiera?» E la risposta fu pronunciata in un tono a metà tra l’oscuro presagio e la gioia aritmetica: «Non avverrà mai!» William Randolph Hearst si sarebbe sentito invitato a nozze. Ma non Lunacarskij. Portando tanti soldati cinesi alla frontiera, si sarebbe automaticamente ridotto l’incremento demografico, argomentò lui; i loro calcoli erano perciò errati. Si era espresso come se l’abuso di modelli matematici fosse l’oggetto della sua disapprovazione, ma pochi non intesero il suo pensiero. Per quanto ne sapeva Ellie, anche al culmine delle tensioni cino-sovietiche non si era mai lasciato travolgere dalla paranoia e dal razzismo endemici.

Ellie amava i samovar e poteva capire come piacessero tanto ai russi. Il loro «Lunakhod», il veicolo lunare privo di equipaggio che somigliava a una tinozza su ruote a raggi, le sembrava un po’ il discendente di un samovar. Vaygay una volta l’aveva accompagnata a vedere un modello di «Lunakhod» in una grande mostra nei dintorni di Mosca, in una splendida mattina di giugno. Là, accanto a un padiglione che presentava i manufatti e le attrattive della repubblica autonoma del Tadzikistan, c’era una sala piena fino al soffitto di modelli a grandezza naturale di veicoli spaziali sovietici per uso civile. «Sputnik 1», il primo satellite artificiale; «Sputnik 2», il primo satellite a portare un animale, la cagnetta Laika, che morì nello spazio; «Luna 2», il primo veicolo spaziale a raggiungere un altro corpo celeste; «Luna 3», il primo veicolo spaziale a fotografare l’emisfero invisibile della Luna; «Venus 7», la prima sonda spaziale ad atterrare senza danni su un altro pianeta; e «Vostok 1», il primo veicolo spaziale con un uomo a bordo, che aveva fatto compiere un giro attorno alla Terra al cosmonauta Yurij A. Gagarin, eroe dell’Unione Sovietica. Fuori, i bambini stavano usando come scivoli le alette del booster di lancio del «Vostok» e i loro bei riccioli biondi e i fazzoletti rossi del Komsomol si gonfiavano al vento mentre, con grande ilarità, scendevano a terra. «Zemlya», si diceva in russo. La grande isola sovietica nel Mar Glaciale Artico si chiamava Novaya Zemlya, Nuova Terra. Era là che nel 1961 avevano fatto esplodere un ordigno termonucleare da cinquantotto megatoni, la più grande esplosione fino ad allora provocata dalla specie umana. Ma in quella giornata di primavera, con i venditori di gelati di cui i moscoviti vanno così fieri, con le famiglie in gita e un vecchio sdentato che sorrideva a Ellie e a Lunacarskij come se fossero amanti, la vecchia terra era sembrata abbastanza piacevole.

Durante le rare visite di lei a Mosca o a Leningrado, Vaygay spesso organizzava le serate. Un gruppo di sei o otto di loro si recava al Bolshoi o ai Kirov. Lunacarskij in qualche modo si procurava i biglietti. Ellie ringraziava i suoi ospiti per la serata e loro — spiegando che solo in compagnia di visitatori stranieri erano in grado di assistere a tali spettacoli — ringraziavano lei. Vaygay le sorrideva soltanto. Non portò mai con sé la moglie ed Ellie non l’aveva mai incontrata. Era, lui disse, un medico che si dedicava con abnegazione ai suoi pazienti. Ellie gli aveva chiesto quale fosse il suo più grande rammarico, giacché i suoi genitori non erano emigrati in America come avevano una volta progettato. «Ho un solo rammarico,» disse nella sua voce stridula. «Mia figlia ha sposato un Bulgaro.» Una sera, egli aveva organizzato una cena in un ristorante caucasico di Mosca. In tale occasione era stato ingaggiato un «ta-mada», cioè un autore di brindisi, che si chiamava Khaladze. L’uomo era un maestro in questa forma d’arte, ma il russo di Ellie era così scadente che la obbligò a farsi tradurre la maggior parte dei brindisi. Khaladze si rivolse a lei e, prevedendo come sarebbe andata a finire la serata, osservò: «Noi definiamo alcoolizzato un uomo che beve senza un brindisi.» Uno dei primi brindisi, piuttosto mediocre, era terminato con un invito «alla pace su tutti i pianeti», e Vaygay le aveva spiegato che la parola «mir» significava mondo, pace e una comunità autonoma di famiglie contadine che risaliva a tempi antichi. Avevano discusso se il mondo fosse stato più in pace quando le sue più grandi unità politiche non superavano i confini dei villaggi. «Ogni villaggio è un pianeta,» Lunacarskij aveva detto con il suo bicchiere levato in alto. «E ogni pianeta un villaggio,» aveva ribattuto lei.

Tali riunioni erano un po’ rumorose. Si bevevano enormi quantità di brandy e di vodka, ma nessuno sembrava veramente ubriaco. Uscivano rumorosamente dal ristorante all’una o alle due del mattino e cercavano, spesso invano, di trovare un taxi. Parecchie volte lui l’aveva accompagnata a piedi per cinque o sei chilometri dal ristorante al suo albergo. Era premuroso, un po’ protettivo, tollerante nei suoi giudizi politici, fiero nelle sue dichiarazioni scientifiche. Benché le sue scappatelle sessuali fossero leggendarie tra i suoi colleghi, con Ellie non andò mai oltre il bacio della buonanotte. Ciò l’aveva sempre angustiata un po’, benché il suo affetto per lei fosse evidente.

C’erano molte donne nella comunità scientifica sovietica, in proporzione più che in quella statunitense; ma di solito occupavano delle posizioni subordinate o di media importanza, e gli scienziati sovietici, come i loro colleghi americani, erano perplessi davanti a una bella donna con un’evidente competenza scientifica che esprimesse con forza i propri punti di vista. Alcuni la interrompevano o facevano finta di non sentirla. Allora, Lunacarskij si chinava sempre su lei e chiedeva con una voce più alta del consueto: «Che cosa ha detto, dottor Arroway? Non sono riuscito a sentire.» Gli altri allora facevano silenzio e lei proseguiva a parlare dei rivelatori trattati ad arsenuro di gallio, o dell’etanolo presente nella nube galattica W-3. La quantità di alcool a 200 gradi in quella singola nube interstellare sarebbe stata più che sufficiente a rifornire l’attuale popolazione terrestre, se ogni adulto fosse stato un alcoolizzato cronico, per l’età del sistema solare. Il «tamada» aveva apprezzato l’osservazione. Nei brindisi che seguirono essi si chiesero se altre forme di vita potevano essere intossicate dall’etanolo, se l’etilismo fosse un problema a livello galattico, e se un autore di brindisi su un qualsiasi altro mondo potesse essere abile come il loro Trofim Sergejvie Khaladze.

Arrivarono all’aeroporto di Albuquerque per scoprire che, miracolosamente, il volo di linea proveniente da New York con la delegazione sovietica a bordo era atterrato con mezz’ora di anticipo. Ellie trovò Vaygay in un negozio di souvenir dell’aeroporto intento a contrattare sul prezzo di una sciocchezza. Doveva averla vista con la coda dell’occhio, perché senza voltarsi alzò un dito invitandola ad attendere un secondo. «Diciannove e novantacinque?» continuò rivolgendosi al commesso dall’aria del tutto indifferente. «Ne ho visto una serie identica ieri a New York per diciassette e cinquanta.» Ellie gli si accostò e osservò Vaygay sparpagliare una serie di carte da gioco tridimensionali illustrate con nudi dei due sessi in pose considerate ora semplicemente poco dignitose, ma che avrebbero scandalizzato la generazione precedente. L’impiegato stava tentando, senza molto entusiasmo, di raccogliere le carte, mentre Lunacarskij si adoperava con successo per sparpagliarle ancora di più sul banco. Vaygay stava avendo la meglio. «Mi dispiace, signore, non sono io a fissare i prezzi. Io qui ci lavoro soltanto,» si lamentò il commesso.

«Si vedono le deficienze di un’economia pianificata,» disse Vaygay a Ellie mentre porgeva un biglietto da venti dollari all’impiegato. «In un sistema fondato veramente sulla libera iniziativa, probabilmente potrei acquistarle a quindici dollari. Forse a dodici e novantacinque. Non guardarmi in quella maniera, Ellie, non sono per me. Comprese le matte, ci sono cinquantaquattro carte in questa confezione. Ciascuna di esse costituirà un bel regalo per gli operatori del mio istituto.»

Lei sorrise e lo prese sottobraccio. «E’ bello rivederti, Vaygay.»

«Un piacere raro, mia cara.»

Lungo la strada per Socorro, per un muto accordo reciproco, si scambiarono soprattutto delle battute di spirito. Valerian e l’autista, uno dei nuovi agenti di sicurezza, stavano davanti. Peter, un uomo poco loquace anche in circostanze normali, si limitava ad abbandonarsi all’indietro e ad ascoltare la loro conversazione, che sfiorava soltanto il problema che i russi erano venuti a discutere: il terzo livello del palinsesto, l’elaborato, complesso, e ancora indecifrato Messaggio che stavano ricevendo collettivamente. Il governo statunitense con una certa riluttanza aveva concluso che la partecipazione sovietica era essenziale. Ciò era vero soprattutto perché il segnale da Vega era così forte che per-sino i radiotelescopi modesti potevano scoprirlo. Anni prima, i sovietici avevano prudentemente disseminato una certa quantità di piccoli telescopi lungo l’intero territorio euroasiatico, coprendo 9-000 chilometri di superficie terrestre, e di recente avevano completato un radio-osservatorio importante vicino a Samarcanda. Inoltre, navi oceaniche russe per l’intercettazione dei satelliti stavano solcando sia l’Atlantico che il Pacifico.

Alcuni dei dati raccolti dai sovietici erano superflui, perché anche gli osservatori in Giappone, in Cina, in India e in Iraq stavano registrando quei segnali. Certamente, ogni importante radiotelescopio del mondo che avesse Vega nel suo cielo stava in ascolto. Astronomi britannici, francesi, olandesi, svedesi, tedeschi, cecoslovacchi, canadesi, venezuelani e australiani stavano registrando piccoli frammenti del Messaggio, seguendo Vega dal suo sorgere al suo tramontare. In alcuni osservatori le apparecchiature di rivelazione non avevano neppure la sensibilità sufficiente per scoprire i singoli impulsi. Comunque ascoltavano un ronzio indistinto. Ognuna di queste nazioni possedeva un pezzette del puzzle, perché, come Ellie aveva ricordato a Kitz, la Terra gira. Ogni nazione tentava di trovare un qualche significato negli impulsi. Ma era difficile. Nessuno riusciva a dire nemmeno se il Messaggio fosse scritto in simboli o in fotogrammi.

Era chiaro che non avrebbero decifrato il Messaggio fintantoché non fosse ritornato alla pagina uno — se mai fosse accaduto — e fosse ricominciato con l’introduzione, le istruzioni per l’uso, la chiave di decodificazione. Forse si trattava di un messaggio lunghissimo, pensava Ellie mentre Vaygay paragonava la taigà al deserto a cespugli; forse ci avrebbe messo un centinaio di anni prima di ricominciare dall’inizio. O forse non c’erano le istruzioni. Forse il Messaggio (su tutto il pianeta, si cominciava a scrivere la parola con l’iniziale maiuscola) era un test di intelligenza, così quei mondi troppo stupidi per decifrarlo sarebbero stati incapaci di far un uso errato del suo contenuto. All’improvviso la colpì il pensiero della profonda umiliazione che avrebbe provato per il genere umano se alla fine non fossero riusciti a capire il Messaggio. Nel momento in cui gli americani e i russi decisero di collaborare e il testo dell’accordo fu solennemente firmato, ogni altra nazione in possesso di un radiotelescopio aveva acconsentito a cooperare. Ci fu una sorta di Associazione mondiale per il Messaggio e i popoli stavano veramente parlando in quei termini. Avevano bisogno dei rispettivi dati e dei rispettivi cervelloni se si voleva decifrare il Messaggio. I giornali non riportavano quasi altro che questo. I pochi modesti fatti conosciuti — i numeri primi, la trasmissione olimpica, l’esistenza di un complesso messaggio — venivano recensiti in continuazione. Era difficile trovare qualcuno sul pianeta che non avesse avuto notizia, in un modo o nell’altro, del Messaggio proveniente da Vega. Sette religiose, affermate o marginali, e alcune create apposta da poco, stavano analizzando le implicazioni teologiche del Messaggio. Alcune pensavano che venisse da Dio, altre dal Diavolo. Sorprendentemente, alcune erano persino dubbiose. C’era stata una pericolosa rinascita di interesse per Hitler e il regime nazista, e Vaygay le raccontò di aver trovato ben otto svastiche negli annunci domenicali del «New York Times Book Review». Ellie replicò che otto era abbastanza normale come media, ma sapeva di stare esagerando; alcune settimane ce n’erano soltanto due o tre. Un gruppo che si era battezzato «Spaziariano» dichiarò senz’ombra di dubbio che i dischi volanti erano stati inventati nella Germania hitleriana. Una nuova razza «pura» di nazisti si era sviluppata su Vega e ora era pronta a sistemare le cose sulla Terra. Cerano quelli che consideravano l’ascolto del segnale una cosa infame ed esortavano gli osservatori a smetterla; c’erano quelli che lo consideravano un segno dell’Avvento ed esortavano alla costruzione di radiotelescopi ancor più grandi, da collocare in parte nello spazio. Alcuni mettevano in guardia dal lavorare con i dati sovietici, con il pretesto che potevano essere contraffatti o alterati, benché nelle longitudini sovrapposte concordassero pienamente con i dati iracheni, indiani, cinesi e giapponesi. E c’erano quelli che avevano la sensazione di un cambio nel clima politico del mondo e sostenevano che proprio l’esistenza del Messaggio, anche se non fosse stato mai decifrato, stava esercitando un’influenza equilibratrice sulle nazioni più aggressive. Dato che la civiltà che trasmetteva era chiaramente più avanzata della nostra, e dal momento che chiaramente — almeno fino a ventisei anni prima — non si era autodistrutta, ne conseguiva, secondo il parere di alcuni, che le civiltà tecnologiche non finivano inevitabilmente per autodistruggersi. In un mondo che stava sperimentando con precauzione la riduzione delle armi nucleari e dei loro vettori, il Messaggio veniva considerato da tutti i popoli come un motivo di speranza. Per molti il Messaggio rappresentava la notizia migliore che fosse arrivata da molto tempo. Per decenni, i giovani avevano cercato di non pensare al domani troppo attentamente. Adesso, ci poteva essere un futuro benigno, dopo tutto. Quelli con predisposizioni favorevoli a tali fausti pronostici talvolta si trovarono a sconfinare spiacevolmente nel campo occupato per un decennio dal movimento chiliastico. Alcuni chiliasti ritenevano che l’imminente arrivo del terzo millennio sarebbe stato accompagnato dal ritorno di Gesù o di Buddha o di Krishna o del Profeta, che avrebbero instaurato sulla Terra una benevola teocrazia, severa nel suo giudizio dei mortali. Forse questo avrebbe presagito la grande ascesa al cielo degli Eletti. Ma c’erano altri chiliasti, e di gran lunga più numerosi, che erano convinti che la distruzione fisica del mondo dovesse essere l’indispensabile prerequisito per l’Avvento, come era stato predetto con precisione in diverse antiche opere profetiche, per il resto in contrasto tra loro. I chiliasti del Giudizio Universale erano inquieti e preoccupati perché c’era nell’aria un presagio di ecumenismo, e turbati dalla costante riduzione annuale degli arsenali di armi strategiche. Gli strumenti che erano più a portata di mano per la realizzazione del dogma centrale della loro fede subivano duri attacchi ogni giorno. Le altre catastrofi prospettate — sovrappopolazione, inquinamento industriale, terremoti, eruzioni vulcaniche, effetto serra, glaciazioni, o un impatto cometario con la Terra — erano troppo lente, troppo improbabili, o insufficientemente apocalittiche per lo scopo.

Alcuni capi dei chiliasti avevano persuaso imponenti adunate di loro devoti seguaci che, eccetto che per gli incidenti, l’assicurazione sulla vita era un segno di fede ribelle; che, fatta eccezione per quelli davvero anziani, l’acquisto di un posto al cimitero o l’organizzazione del funerale senza un’urgente necessità costituivano una flagrante empietà. Tutti coloro che credevano sarebbero stati innalzati al cielo con i loro corpi e si sarebbero trovati davanti al trono di Dio di lì a pochi anni.

Ellie sapeva che il famoso parente di Lunacarskij era stato un personaggio eccezionale, un rivoluzionario bolscevico che aveva nutrito un interesse erudito per le religioni mondiali. Ma l’attenzione che Vaygay rivolgeva al crescente fermento teologico mondiale veniva evidentemente soffocata. «La principale questione religiosa nel mio paese,» egli disse, «sarà di appurare se i Vegani abbiano denunciato come si conviene Lev Trotzkij.» Via via che ci si avvicinava al luogo dell’Argus, ai bordi della strada aumentavano le auto parcheggiate, i veicoli da svago, le roulottes, le tende e gli assembramenti di curiosi. Di notte, le pianure di San Augustin, una volta tranquille, erano illuminate da fuochi da campo. Le persone assiepate lungo l’autostrada erano ben lontane dall’essere tutte benestanti. Ellie notò due giovani coppie. Gli uomini indossavano delle T-shirts e dei jeans logori con cinture sui fianchi, camminavano con un’aria da bulli come era stato insegnato loro dagli allievi più anziani quando erano entrati alla scuola superiore, e parlavano animatamente. Uno di loro spingeva un passeggino scassato in cui stava uno spensierato bimbette di circa due anni. Le donne seguivano i loro mariti, una tenendo per mano un infante che muoveva i primi passi, l’altra esibendo un ventre sporgente da cui sarebbe uscita di lì a un mese o due un’altra vita.

C’erano dei mistici di comunità isolate, distaccatesi dal taoismo, che usavano la psilocibina come un sacramento e suore di un convento nei pressi di Albuquerque che usavano Petanolo per lo stesso scopo. Cerano uomini dalla pelle simile a cuoio e dagli occhi sepolti tra le rughe che avevano passato l’intera vita all’aperto, e studenti dai visi esangui e dall’espressione intellettuale dell’Università dell’Arizona. C’erano fazzoletti di seta e cravattini stretti con le punte di argento brunito venduti da commercianti Navajo a prezzi esorbitanti, un piccolo rovesciamento delle relazioni commerciali storiche tra i bianchi e gli indigeni americani. Dei soldati semplici in licenza, della base aerea di Davis-Monthan stavano masticando energicamente tabacco e gomma. Un uomo dai capelli bianchi, molto elegante nel suo abito da 900 dollari con un cappello Stetson intonato al colore del vestito, era, molto probabilmente, il proprietario di un ranch. C’erano persone che vivevano in baracche e grattacieli, in tuguri di fango, in dormitori, in parcheggi per roulottes. Alcuni erano venuti perché non avevano nulla di meglio da fare, altri perché volevano dire ai loro nipotini di essere stati lì. Alcuni arrivavano con la speranza di un fallimento, altri speravano di essere testimoni di un miracolo. Mormoni di tranquilla devozione, violenti scoppi di risa, estasi mistica e attesa controllata si levavano dalla folla nella luce vivida del pomeriggio. Pochi sguardi indifferenti si posavano sul corteo di auto che stavano passando, ognuna contrassegnata dalla scritta: AUTOPARCO GOVERNATIVO AMERICANO INTERMINISTERIALE. Alcune persone stavano facendo uno spuntino sulle sponde di furgoncini; altre stavano scegliendo gli articoli di venditori ambulanti i cui empori su ruote erano sfacciatamente definiti SNACKMOBILI o SUPERMERCATI DI RICORDINI SPAZIALI. C’erano lunghe file davanti a piccoli gabinetti per una persona sola che la base aveva fatto costruire con premura. I bambini scorrazzavano tra i veicoli, i sacchi a pelo, le coperte e i tavoli pieghevoli da picnic senza che gli adulti li rimproverassero, a eccezione di quando si avvicinavano troppo all’autostrada o al recinto del telescopio 61, dove un gruppo di giovani dalle teste rasate, in tuniche zafferano si prostravano intonando solennemente la sacra sillaba «Om». C’erano dei poster con rappresentazioni fantastiche di creature extraterrestri, alcune delle quali rese popolari dai fumetti o dai film. Uno diceva: «Ci sono gli alieni tra noi». Un uomo con orecchini d’oro si stava facendo la barba servendosi dello specchietto retrovisore laterale di un autocarro e una donna dai capelli neri avvolta in uno scialle alzò una tazza di caffè in gesto di saluto mentre il convoglio le sfrecciava davanti. Mentre si dirigevano al nuovo cancello principale, vicino al telescopio 101, Ellie potè scorgere un giovanotto su un’impalcatura di fortuna intento ad arringare una folla considerevole. Indossava una T-shirt su cui era disegnata la Terra colpita da un fulmine celeste. Parecchi altri tra la folla portavano lo stesso enigmatico simbolo. Su richiesta di Ellie, una volta oltrepassato il cancello, si fermarono a lato della strada, tirarono giù i finestrini e si misero ad ascoltare. Il predicatore volgeva loro le spalle ed essi potevano vedere i volti degli astanti. Quella gente era profondamente commossa, Ellie pensò.

Il giovane era in pieno discorso: «… e altri dicono che c’è stato un patto con il Diavolo, che gli scienziati hanno venduto le loro anime. Ci sono pietre preziose in ognuno di questi telescopi.» Indicava con un ampio gesto della mano il telescopio 101. «Per-sino gli scienziati lo ammettono. Alcuni dicono che è quanto il patto destina al Diavolo.»

«Teppismo religioso,» borbottò cupamente Lunacarskij, dimostrando con lo sguardo il suo desiderio di proseguire. «No, no. Restiamo,» disse lei. Sulle sue labbra aleggiava l’ombra di un sorriso di meraviglia.

«Ci sono alcune persone — persone religiose, persone timorate di Dio — che credono che questo Messaggio provenga da esseri spaziali, entità, creature ostili, alieni che vogliono farci del male, nemici dell’umanità.» Il predicatore urlò quasi quest’ultima frase e poi fece una pausa per fare impressione. «Ma tutti voi siete stanchi e disgustati per la corruzione, la decadenza di questa società, una decadenza prodotta dalla sconsiderata, sfrenata, empia tecnologia. Non so chi di voi abbia ragione. Io non posso dirvi che cosa significhi il Messaggio, o da chi provenga. Ho i miei sospetti. Lo sapremo abbastanza presto. Ma so che gli scienziati, i politici e i burocrati ci stanno tenendo all’oscuro. Non ci hanno detto tutto quello che sanno. Ci stanno imbrogliando, come fanno sempre. Per troppo tempo, o Signore, abbiamo mandato giù le menzogne che ci propinano, la corruzione che portano con sé.» Con stupore di Ellie un ruggito di consenso si levò dalla folla. Il giovane aveva fatto sgorgare una corrente di rancore che lei aveva temuto solo vagamente.

«Questi scienziati non credono che siamo i figli di Dio. Loro pensano che siamo i discendenti delle scimmie. Ci sono noti comunisti fra loro. Volete che gente del genere decida il destino del mondo?»

La folla rispose con un tonante «No!»

«Volete che un branco di miscredenti parli con Dio?»

«No!» ruggirono di nuovo.

«O con il Diavolo? Stanno mercanteggiando il nostro futuro con mostri di un mondo alieno. Fratelli e sorelle, c’è del male in questo posto.»

Ellie aveva pensato che l’oratore non si fosse reso conto della loro presenza. Ma ora si girò di scatto e indicò attraverso la barriera il convoglio che indugiava.

«Non parlano in nome nostro! Non ci rappresentano! Non hanno il diritto di parlamentare per noi!»

Quelli che si trovavano più vicini alla barriera cominciarono a spingere ritmicamente con violenza. Sia Valerian che il conducente si misero in allarme. I motori non erano stati spenti e in un attimo accelerarono dal cancello verso l’edificio dell’amministrazione dell’Argus, ancora lontano molte miglia nel deserto di cespugli spinosi. Mentre filavano via tra lo stridio delle gomme e il brontolio della folla, Ellie potè udire la risonante voce dell’oratore. «Il male che imperversa in questo luogo sarà neutralizzato. Lo giuro.»

8 ACCESSO CASUALE

«Il teologo può indulgere nel piacevole compito di parlare della Religione come se discendesse dal Gelo, adorna della sua nativa purezza. Un dovere più malinconico si impone allo storico. Egli deve scoprire l’inevitabile miscuglio di errore e di corruzione in cui essa si è invischiata dopo un lungo soggiorno sulla Terra, tra una razza debole e degenerata di esseri.»

EDWARD GIBBON, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano.

Ellie trascurò l’accesso casuale e passò ordinatamente in rassegna le stazioni televisive. «Abitudini degli autori di stragi» e «Scommettete il vostro culo» si trovavano su canali adiacenti. Bastava un’occhiata per capire che la promessa del mezzo televisivo restava inadempiuta. C’era un’animata partita di basket tra i Johnson City Wildcats e le Union-Endicott Tigers; i giocatori, maschi e femmine, stavano mettendocela tutta. Sul canale seguente c’era un’esortazione in Parsi sulla corretta osservanza del Ramadam. Proseguendo, c’era uno dei canali chiusi, apparentemente riservato a pratiche sessuali aberranti. Si imbattè poi in uno dei primi canali per elaboratore, dedicato a fantasiosi giochi di destrezza, che ora aveva un bassissimo indice di ascolto. Accessibile con l’home computer, esso offriva un’unica entrata in una nuova avventura, che quel giorno era, evidentemente, «Gilgamesh galattico», nella speranza che il pubblico la trovasse abbastanza attraente per ordinare il corrispondente minidisco su uno dei canali di vendita. Venivano prese particolari precauzioni elettroniche perché non si potesse registrare il programma durante l’unica volta che si giocava. La maggior parte di questi videogames, pensò lei, erano tentativi maldestri di preparare gli adolescenti a un ignoto futuro.

Il suo sguardo venne attratto da un serio commentatore di una delle vecchie reti televisive che stava discutendo con evidente preoccupazione di ciò che veniva descritto come un attacco ingiustificato da parte di siluranti nordvietnamite ai danni di due cacciatorpediniere della Settima Flotta degli Stati Uniti nel Golfo del Tonchino, e della richiesta del Presidente americano di essere autorizzato a «prendere tutte le misure necessarie» in risposta. Il programma era uno dei pochi che le piacessero, «Notizie di ieri», repliche di telegiornali degli anni passati. La seconda parte del programma consisteva in un’analisi accuratissima delle informazioni inesatte della prima parte, e dell’ostinata credulità delle agenzie di informazione prima di qualsiasi reclamo da parte di qualsiasi amministrazione per quanto privo di fondamento e interessato potesse essere. Era una delle numerose serie televisive prodotte da un’organizzazione chiamata REALTV — che includeva «Promesse, Promesse», dedicato ad analisi supplementari di impegni elettorali non mantenuti a livello locale, statale, nazionale, e «Inganni e Stupidità», settimanale di ridimensionamento verso diffusi pregiudizi, propagande e miti. La data in basso sullo schermo era 5 agosto 1964 ed Ellie fu sommersa da un’ondata di ricordi — nostalgia non era il termine appropriato — dei giorni passati alla scuola superiore. Passò oltre, continuando a premere i tasti del telecomando.

Scorrendo tra i canali, diede un’occhiata a una trasmissione di cucina orientale in cui si presentava la ricetta per l’hibachi, a un lungo spot pubblicitario per la prima generazione di robot domestici tuttofare della Cibernetica Hadden, al programma di notizie e commenti in lingua russa dell’ambasciata sovietica, a numerosi spettacoli per bambini e ai notiziari, alla stazione di matematica che mostrava gli strabilianti disegni fatti da un elaboratore del nuovo corso Cornell di geometria analitica, al canale degli appartamenti e beni immobili locali, e a un gruppo compatto di orrendi serial diurni, finché non trovò le reti religiose, dove, con grande e generale eccitazione, si stava discutendo il Messaggio.

Le presenze in chiesa erano aumentate in tutta l’America. Ellie era convinta che il Messaggio fosse una sorta di specchio in cui ognuno poteva vedere il proprio credo sconfessato o confermato. Esso veniva considerato un’apologia omnicomprensiva di dottrine apocalittiche ed escatologiche che si escludevano a vicenda. In Perù, in Algeria, in Messico, nello Zimbabwe, in Ecuador, e fra gli Hopi, si tenevano in tutta serietà pubblici dibattiti sulla possibilità di un’origine spaziale delle loro civiltà; le opinioni a favore di tale ipotesi venivano tacciate di colonialismo. I cattolici dibattevano lo stato di grazia degli extraterrestri. I protestanti discutevano l’eventualità di precedenti missioni di Gesù su pianeti vicini e naturalmente di un suo ritorno sulla Terra. I musulmani erano preoccupati che il Messaggio potesse contravvenire al comandamento che proibiva gli idoli. Nel Kuwait, saltò fuori un uomo che dichiarò di essere l’imano segreto degli Sciiti. Un fervore messianico era sorto tra i Ciasidi Sossaferi. In altre congregazioni di Ebrei ortodossi ci fu un’improvvisa ripresa di interesse per Astruc, un fanatico assertore del pericolo rappresentato dalla conoscenza per la fede, che nel 1305 aveva indotto il rabbino di Barcellona, capo religioso del tempo, a vietare lo studio della scienza o della filosofia ai minori di venticinque anni, sotto pena di scomunica. Tendenze simili, in costante aumento, erano riscontrabili nell’Islam. Un filosofo della Tessaglia, dal nome augurale di Nicholas Polydemos, stava attirando l’attenzione con una serie di appassionate argomentazioni su ciò che chiamava la «riunificazione» delle religioni, dei governi e dei popoli del mondo. I critici cominciarono col mettere in discussione quel prefisso «ri-».

I gruppi ufologici avevano organizzato picchettaggi ininterrotti attorno alla base aerea di Brooks, vicino a San Antonio, dove si diceva stessero rinchiusi in congelatori i corpi perfettamente conservati di quattro occupanti di un disco volante che si era schiantato al suolo nel 1947; gli extraterrestri sarebbero stati alti un metro e avrebbero avuto minuscoli denti perfetti. Erano state segnalate apparizioni di Visnù in India e dell’Amida Buddha in Giappone; venivano annunciate centinaia di guarigioni miracolose a Lourdes; un nuovo Bodhisattva si fece avanti nel Tibet. Un insolito culto esotico venne importato dalla Nuova Guinea in Australia; predicava la costruzione di rozze copie di radiotelescopi per attrarre la generosità degli extraterrestri. L’unione mondiale dei Liberi Pensatori definì il Messaggio una confutazione dell’esistenza di Dio. La chiesa mormone dichiarò che si trattava di una seconda rivelazione dell’angelo Moroni.

Il Messaggio venne considerato dai differenti gruppi come una prova dell’esistenza di molti dei o di un solo dio o di nessun dio. Il Chiliasmo era diffuso. Cerano quelli che predicevano il millennio per il 1999 — come un’inversione cabalistica del 1666, l’anno che Sabbatai Zevi aveva adottato per il suo millennio; altri scelsero il 1996 o il 2033, i presunti bimillenari della nascita o della morte di Gesù. Il grande cielo degli antichi Maya doveva completarsi nell’anno 2011, quando — secondo questa tradizione culturale indipendente — il cosmo sarebbe finito. L’intrecciarsi della profezia maya con il millenarismo cristiano stava producendo una sorta di frenesia apocalittica in Messico e nell’America centrale. Alcuni chiliasti, che credevano nelle prime date, avevano cominciato a donare le loro ricchezze ai poveri, in parte perché presto non avrebbero avuto comunque nessun valore e in parte come caparra a Dio, un dono interessato per l’Avvento. Fanatismo, timore, speranza, accesi dibattiti, pacate preghiere, introspezione angosciosa, esemplare altruismo, ottusa bigotteria, e un entusiasmo per idee drammaticamente nuove erano epidemici, dilagando febbrilmente sulla superficie del piccolo pianeta Terra. Da tutto questo fermento pareva a Ellie di veder emergere lentamente un nascente riconoscimento del mondo come filo di un immenso arazzo cosmico. Intanto, il Messaggio continuava a resistere a tutti i tentativi di decifrazione.

Sui canali della maldicenza, protetti dal Primo Emendamento, lei, Vaygay, der Heer, e in minor misura Peter Valerian venivano puniti per una vasta gamma di colpe, che includevano l’ateismo, il comunismo, e l’incameramento del Messaggio. A suo parere, Vaygay non era poi così comunista, e Valerian aveva una fede cristiana profonda, tranquilla, ma sofisticata. Se fossero stati così fortunati da arrivare vicino alla soluzione del mistero del Messaggio, lei avrebbe voluto annunciarlo personalmente a quel cretino ipocrita di un commentatore televisivo. David Drumlin, tuttavia, veniva presentato come l’eroe, l’uomo che aveva decifrato veramente i numeri primi e la trasmissione olimpica; era il tipo di scienziato di cui si aveva più bisogno. Ellie sospirò e cambiò canale ancora una volta.

Era arrivata al TABS, il Turner-American Broadcasting System, l’unico superstite dei grandi networks commerciali che avevano dominato la telediffusione negli Stati Uniti fino all’avvento delle trasmissioni via satellite su vasta scala e del cavo da 180 canali. Su questa stazione, Palmer Joss stava facendo una delle sue rare apparizioni televisive. Come la maggior parte degli americani, Ellie riconobbe all’istante la sua voce risonante, il suo bell’aspetto leggermente trascurato e il pallore attorno agli occhi che faceva pensare che non dormisse mai per preoccuparsi del suo prossimo.

«Che cosa ha veramente fatto la scienza per noi?» declamava Joss. «Siamo davvero più felici? Non parlo soltanto di ricevitori olografici e di uva senza vinaccioli. Siamo fondamentalmente più felici? O gli scienziati ci corrompono con inezie, con gingilli tecnologici, mentre indeboliscono la nostra fede?»

Ecco un uomo, lei pensò, che stava agognando tempi più semplici, un uomo che aveva passato la vita a tentare di conciliare l’inconciliabile, che aveva condannato i più evidenti eccessi di religione popolare e giustificato gli attacchi all’evoluzione e alla relatività. Perché non attaccare l’esistenza degli elettroni? Palmer Joss non ne aveva mai visto uno, e la Bibbia ignorava l’elettromagnetismo. Perché credere negli elettroni? Sebbene non l’avesse mai sentito predicare, era certa che prima o poi sarebbe arrivato a parlare del Messaggio, e fu ciò che fece: «Gli scienziati tengono le scoperte che fanno per loro, a noi danno solo le briciole, quel tanto che basta per farci stare tranquilli. Credono che siamo troppo stupidi per capire ciò che stanno facendo. Ci danno conclusioni senza importanza, ci propinano scoperte come se fossero la Sacra Scrittura e non speculazioni, teorie, ipotesi: ciò che la gente comune chiamerebbe congetture. Non si chiedono mai se qualche nuova teoria abbia per la gente lo stesso valore della credenza che tenta di rimpiazzare. Sopravvalutano quello che sanno e sottovalutano quello che sappiamo noi. Quando noi chiediamo spiegazioni, ci dicono che ci vogliono anni per capire. Me ne rendo conto, poiché anche nella religione ci sono cose che esigono anni perché si possa arrivare a comprenderle. Si può spendere una vita e non avvicinarsi mai alla comprensione della natura di Dio onnipotente. Ma non si vedono gli scienziati accostarsi ai capi religiosi per chiedere loro degli anni che hanno dedicato allo studio, alla meditazione e alla preghiera. Non pensano a noi che quando ci ingannano e ci illudono. E adesso dicono di avere un Messaggio dalla stella Vega. Ma una stella non può inviare un messaggio. Qualcuno lo sta inviando. Chi? L’intento del Messaggio è divino o satanico? Quando avranno decifrato il Messaggio terminerà con ‘Vostro devotissimo Dio’… o ‘Cordialmente, il Diavolo’? Quando gli scienziati si decideranno a rivelarci il contenuto del Messaggio, ci diranno tutta la verità? O ci taceranno qualcosa poiché pensano che non possiamo capirlo, o poiché non si accorda con quello che credono loro? Non sono quelle persone, che ci hanno insegnato come autoannientarci?

Vi dico, amici miei, che la scienza è troppo importante perché venga lasciata agli scienziati. I rappresentanti delle fedi maggiori dovrebbero prender parte all’operazione di decodificazione. Dovremmo esaminare i dati originali. Altrimenti… altrimenti, dove andremo a finire? Ci diranno qualcosa del Messaggio. Forse quello in cui credono davvero. Forse no. E noi dovremo accettarlo, qualunque cosa ci dicano. Ci sono cose che gli scienziati conoscono. Ci sono altre cose — vi do la mia parola — di cui non sanno nulla. Forse hanno ricevuto un messaggio da un altro essere nei cicli. Forse no. Possono essere sicuri che il Messaggio non sia un vitello d’oro? Non credo che lo riconoscerebbero nemmeno se ne avessero visto uno. Sono quelli che ci hanno portato la bomba all’idrogeno. Perdonami, o Signore, per non essere più grato a queste anime gentili.

Ho visto Dio in faccia. Lo adoro, confido in Lui, Lo amo, con tutta l’anima, con tutto il mio essere. Non credo che qualcuno possa credere con un’intensità maggiore della mia. Non riesco a vedere come gli scienziati possano credere nella scienza più di quanto io creda in Dio.

Sono pronti a gettar via le loro ‘verità’ quando appare alla ribalta una nuova idea. Ne sono orgogliosi. Non vedono alcuna fine per il processo conoscitivo. Immaginano che siamo prigionieri dell’ignoranza fino alla fine dei tempi, che non vi sia alcuna certezza in natura. Newton ha sorpassato Aristotele, Einstein ha sorpassato Newton. Domani, qualcun altro sorpasserà Einstein. Non appena riusciamo a capire una teoria, ce n’è già un’altra al suo posto. Non me ne importerebbe tanto se ci avessero avvertiti che le vecchie idee erano sperimentali. Quella di Newton l’hanno chiamata ‘legge’ di gravitazione universale. La chiamano ancora così. Ma se era una legge di natura, come poteva essere sbagliata? Come poteva essere sorpassata? Soltanto Dio può abrogare le leggi di natura, non gli scienziati. Si sono solo sbagliati. Se Albert Einstein aveva ragione, Isaac Newton era un dilettante, un confusionario. Ricordatevi che gli scienziati non hanno sempre ragione. Vogliono portarci via la nostra fede, le nostre convinzioni, e non ci offrono in cambio nulla che abbia un valore spirituale. Non ho nessuna intenzione di abbandonare Dio perché gli scienziati scrivono un libro e dicono che è un messaggio da Vega. Non adorerò la scienza. Non trasgredirò al primo comandamento. Non mi prostrerò davanti al vitello d’oro.»

Quando era un ragazzo, prima di diventare largamente conosciuto e ammirato, Palmer Joss era stato un fenomeno da baraccone. La cosa era stata menzionata nel suo profilo su «Times-week»; non era un segreto. Per far fortuna si era fatto tatuare sul torso con grande precisione un planisfero in proiezione cilindrica. Si esibiva alle fiere di contea e in spettacoli secondari dal-l’Oklahoma al Mississippi, come un vagabondo superstite di un’epoca più vigorosa di intrattenimenti rurali viaggianti. Nella distesa dell’azzurro oceano c’erano le quattro divinità dei venti, con le gote gonfie che soffiavano in prevalenza da ponente e da nord-est. Curvando i pettorali, riusciva a far gonfiare Borea e l’Atlantico centrale. Poi, declamava agli spettatori meravigliati un passo del VI libro delle Metamorfosi di Ovidio:

A me s’addice la forza: con essa disperdo le fosche nuvole, il mare sconturbo, le roveri schianto nodose […]. Quando poi entro sotterra e sommetto feroce le spalle alle profonde caverne, spavento gli estinti e tremare faccio l’intero universo.

Fuoco e zolfo dall’antica Roma. Con l’aiuto delle mani dava una dimostrazione della deriva dei continenti, premendo l’Africa occidentale contro il Sud America sì da farle combaciare come i pezzi di un puzzle quasi perfettamente alla longitudine del suo ombelico. Lo annunciavano come «Geos, l’Uomo Terra». Joss era un grande lettore e, essendo sgombro da un’educazione formale dopo la scuola elementare, non si era sentito dire che la scienza e i classici non sono pane per la gente comune. Aiutato dal suo fascino selvaggio, si ingraziava le bibliotecarie delle città toccate dal luna-park e chiedeva quali libri seri dovesse leggere. Voleva, diceva loro, migliorare se stesso. Seguendo scrupolosamente i loro consigli, lesse dei manuali su come farsi degli amici, investire in beni immobili e intimidire i propri conoscenti a loro insaputa, ma si rese conto che quei libri avevano poco valore. Invece, nella letteratura antica e nella scienza moderna pensò di aver scoperto la qualità. Quando c’erano periodi di inattività, passava molto tempo nella biblioteca della cittadina locale o della contea. Imparò un po’ di geografia e di storia. Avevano attinenza con il suo lavoro, disse a Elvira, la ragazza elefante, che gli faceva continue domande sulle sue assenze. Lei lo sospettava di travolgenti passioni — una bibliotecaria in ogni porto, disse una volta — ma dovette ammettere che il suo modo di imbonire il pubblico stava migliorando. Il contenuto dei suoi discorsi era troppo intellettuale, ma l’esposizione era fatta con un linguaggio familiare. Sorprendentemente, il piccolo padiglione di Joss cominciò a fruttar denaro al luna-park.

Un giorno, con le spalle rivolte al pubblico, stava dimostrando la collisione dell’India con l’Asia e il conseguente corrugamento himalayano, quando, da un cielo grigio ma senza pioggia si sprigionò un fulmine che lo colpì a morte. C’erano stati dei tornado nel sud-est dell’Oklahoma, e il tempo era insolito in tutto il Sud. Egli ebbe la sensazione chiarissima di lasciare il proprio corpo — pietosamente inerte sull’assito coperto di segatura sotto gli sguardi circospetti e quasi timorosi di una piccola folla — e di innalzarsi per una sorta di lungo tunnel oscuro, avvicinandosi lentamente a una vivida luce. E nel fulgore egli potè discernere via via una figura di proporzioni eroiche, certo divine.

Quando si riebbe, trovò una parte di sé delusa di essere vivo. Era sdraiato su una branda in una camera ammobiliata poveramente. Chinato su lui c’era il reverendo Billy Jo Rankin, non l’attuale possessore di tale nome, ma suo padre, un venerabile surrogato di predicatore degli anni tra il 1950 e il 1975. Sullo sfondo, Joss credette di vedere una dozzina di figure incappucciate che intonavano il «Kyrie Eleison». Ma non potè esserne sicuro. «Mi salvo o muoio?» sussurrò il giovane. «Ragazzo mio, entrambe le cose,» rispose il reverendo Rankin. Joss fu presto sopraffatto da un acuto senso di scoperta davanti all’esistenza del mondo. Ma in un modo per lui difficile da esprimere, quella sensazione era in conflitto con la beatifica visione avuta, e con l’infinita gioia che tale visione preannunciava. Poteva percepire le due sensazioni in conflitto entro il suo petto. In varie circostanze, talvolta a metà di una frase, si sentiva consapevole dei diritti reclamati sulla parola o sull’azione dall’una o dall’altra di tali sensazioni. Dopo un certo tempo, fu soddisfatto di vivere con entrambe.

Era davvero morto, gli dissero in seguito. Un dottore lo aveva dichiarato morto. Ma loro avevano pregato sul suo corpo, avevano cantato inni, avevano persino tentato di rianimarlo mediante massaggi (soprattutto in prossimità della Mauritania). Lo avevano riportato in vita. Egli era veramente e letteralmente rinato. Poiché ciò corrispondeva così perfettamente alla sua personale percezione dell’esperienza, accettò il resoconto e con piacere. Anche se non ne parlava quasi mai, arrivò a persuadersi dell’importanza dell’evento. Non era stato colpito a morte per caso. Non era stato riportato indietro senza una ragione.

Sotto la tutela del suo benefattore, cominciò a studiare seriamente le Scritture. Fu profondamente commosso dall’idea della Resurrezione e dalla dottrina della Salvezza. Assistette il reverendo Rankin dapprima in piccole cose, alla fine assolvendo per lui incarichi di predicazione più pesanti o più distanti — specialmente dopo che il giovane Billy Jo Rankin partì per Odessa, nel Texas, rispondendo a una chiamata di Dio. Presto Joss trovò uno stile di predicazione personale, più esplicativo che esortativo. In un linguaggio semplice e con metafore familiari, spiegava il battesimo e la vita futura, il collegamento tra la Rivelazione cristiana e i miti della Grecia e della Roma classiche, l’idea del piano divino per il mondo, e la conformità di scienza e religione una volta che fossero entrambe comprese correttamente. Non era la predicazione convenzionale, ed era troppo ecumenica per i gusti di molti, ma si dimostrò stranamente popolare. «Tu sei rinato, Joss,» gli aveva detto il vecchio Rankin. «Perciò dovresti cambiarti nome. Ma Palmer Joss è un così bel nome per un predicatore che saresti un pazzo a non tenertelo.» Come i dottori e gli avvocati, i venditori di religione raramente criticano gli articoli dei colleghi, osservava Joss. Ma una notte assistette alle funzioni alla nuova Chiesa di Dio, a Crusa-der, per ascoltare il giovane Billy Jo Rankin, ritornato trionfalmente da Odessa, predicare alla folla. Billy Jo enunciò una rigida dottrina di Ricompensa, di Punizione e di Estasi. Ma quella notte era una notte risanatrice. Alla congregazione fu detto che lo strumento terapeutico era la più santa delle reliquie: più santa di una scheggia della Sacra Croce, più santa persino del femore di santa Teresa d’Avila che il generalissimo Francisco Franco aveva custodito nel suo ufficio per intimidire le persone pie. Ciò che Billy Jo Rankin andava mostrando era il vero liquido amnio-tico che aveva avvolto e protetto nostro Signore. Il liquido era stato conservato con cura in un antico vaso di terracotta appartenuto un tempo, così si diceva, a sant’Anna. Egli promise che la più piccola goccia di quella sostanza avrebbe curato tutte le afflizioni per uno speciale atto di Grazia Divina. La più santa delle sante acque era con loro quella notte. Joss rimase sconvolto non tanto perché Rankin tentasse un raggiro così lampante, ma per il fatto che tutti i parrocchiani fossero così creduli da accettarlo. Nella sua vita precedente era stato testimone di molti tentativi di turlupinare il pubblico. Ma quello era spettacolo. Questa era una cosa diversa. Questa era religione. La religione era troppo importante per mascherare la verità, tanto meno per fabbricare miracoli. Egli si mise a denunciare tale impostura dal pulpito.

Quando il suo fervore crebbe, se la prese con altre forme devianti di fondamentalismo cristiano, compresi quegli aspiranti erpetologi che mettevano alla prova la loro fede accarezzando i serpenti, secondo l’enunciato biblico che i puri di cuore non devono temere il veleno dei serpenti. In un sermone ampiamente citato, egli parafrasò Voltaire. Non aveva mai pensato, disse, di poter trovare dei religiosi così venali da suffragare le affermazioni dei blasfemi secondo cui il primo prete era stato il primo vagabondo che aveva incontrato il primo sciocco. Tali religioni stavano danneggiando la religione. Agitò con grazia il dito in aria.

Joss arguì che in ogni religione c’era una linea dottrinale al di là della quale si offendeva l’intelligenza dei suoi praticanti. Persone ragionevoli potevano non essere d’accordo su dove si dovesse tracciare quella linea, ma le religioni erano andate ben oltre a loro rischio e pericolo. La gente non era scema, egli disse. Il giorno prima della sua morte, mentre stava sistemando le sue cose, il vecchio Rankin aveva fatto sapere a Joss di non volerlo più vedere. Nello stesso tempo, Joss cominciò a predicare che neppure la scienza aveva tutte le risposte. Riscontrò delle incoerenze nella teoria dell’evoluzione. Le scoperte imbarazzanti, i fatti anomali gli scienziati li facevano passare sotto silenzio, egli disse. Non conoscevano l’età esatta della Terra come non la conosceva l’arcivescovo Ussher. Nessuno aveva visto l’evoluzione nel suo divenire, nessuno aveva rilevato il tempo dal momento della Creazione. («Duecento quadrilioni-Mississippi…» si immaginò una volta di sentir scandire dal paziente cronometrista, che contava i secondi passati dall’origine del mondo.) E anche la teoria della relatività di Éinstein era da dimostrare. Einstein aveva affermato che in natura nessun segnale, e quindi anche nessun corpo, può muoversi a velocità superiore a quella della luce. Come poteva saperlo? Quanto c’era andato vicino alla velocità della luce? La relatività era soltanto un modo di vedere il mondo. Einstein non poteva prevedere ciò che l’umanità avrebbe potuto fare in un lontano futuro. Ed Einstein certamente non poteva porre dei limiti all’operato di Dio. Dio non potrebbe muoversi più velocemente della luce se lo volesse? Dio non potrebbe farci muovere più velocemente della luce se lo volesse? C’erano degli eccessi nella scienza come ce n’erano nella religione. Un uomo ragionevole non avrebbe perso la testa né per l’una né per l’altra. C’erano molte interpretazioni delle Scritture e molte in-terpretazioni del mondo naturale. Entrambi erano stati creati da Dio, perciò entrambi dovevano essere compatibili l’uno con l’altro. Dovunque sembrasse esistere una discrepanza, o uno scienziato o un teologo — forse tutt’e due — non aveva fatto bene il suo lavoro. Palmer Joss univa alla sua imparziale critica della scienza e della religione una fervida difesa della rettitudine morale e un rispetto per l’intelligenza del suo gregge. A poco a poco si conquistò una fama nazionale. Nel corso di dibattiti sull’insegnamento del «creazionismo scientifico» nelle scuole, sull’eticità dell’aborto e degli embrioni congelati, sull’ammissibilità dell’ingegneria genetica, egli cercò, a suo modo, di mantenersi in una posizione mediana, di conciliare le esasperazioni della scienza e della religione. Entrambe le parti in lotta si ritennero oltraggiate dai suoi interventi e la sua popolarità crebbe. Divenne un confidente dei presidenti. Passi dei suoi sermoni venivano riportati negli editoriali di importanti giornali laici d’opinione. Ma resistette ai molti inviti e ad alcune offerte allettanti di fondare una chiesa elettronica. Continuò a vivere con semplicità, e raramente — tranne che per inviti presidenziali e congressi ecumenici — si allontanò dal Sud rurale. Limitandosi a un patriottismo di maniera, si fece un dovere di non immischiarsi nella politica. In un campo in cui c’erano rivali in abbondanza, molti dei quali di dubbia onestà, Palmer Joss divenne, per erudiziene e autorità morale, il predicatore fondamentalista di maggior spicco della sua epoca. Der Heer le aveva chiesto se potevano cenare in qualche posticino tranquillo. Stava arrivando in volo per la riunione informale con Vaygay e la delegazione sovietica sui più recenti progressi compiuti nell’interpretazione del Messaggio. Ma il New Mexico centromeridionale era brulicante di giornalisti e non c’era un ristorante nel raggio di un centinaio di miglia in cui essi potessero parlare indisturbati. Perciò, preparò la cena lei stessa nel suo modesto appartamento vicino agli alloggi per gli ospiti, all’Argus. C’era moltissimo di cui discutere. Talvolta sembrava che il destino dell’intero progetto dipendesse dalla Presidente. Ma la leggera ansietà che lei provò poco prima dell’arrivo di Ken era dovuta, se ne rendeva vagamente conto, a ben altro. Joss non era precisamente una componente del lavoro, così ne parlarono mentre caricava la lavastoviglie.

«Quell’uomo ha una paura matta,» disse Ellie. «Le sue vedute sono limitate. E’ preoccupato che il Messaggio finisca per essere un’inaccettabile esegesi biblica o qualcosa che scuota la sua fede. Non ha idea di còme un nuovo paradigma scientifico riesca a includere quello che l’ha preceduto. Vuole sapere quello che la scienza ha fatto per lui ultimamente. E lo si ritiene la voce della ragione.»

«Confrontato con i chiliasti del giorno del Giudizio e con i Primigei, Palmer Joss è la moderazione in persona,» replicò der Heer. «Forse non abbiamo spiegato i metodi della scienza come avremmo dovuto. Me ne preoccupo molto in questi giorni. E puoi essere davvero sicura, Ellie, che non si tratti di un messaggio da…»

«Da Dio o dal Diavolo? Ken, non riesci a essere serio.»

«Allora, che mi dici di esseri progrediti dediti a ciò che potremmo chiamare il bene o il male, che qualcuno come Joss considererebbe indistinguibili da Dio o dal Diavolo?»

«Ken, chiunque siano quegli esseri del sistema di Vega, ti garantisco che non hanno creato l’universo. E non hanno nulla a che vedere con il Dio dell’Antico Testamento. Ricordati che Vega, il Sole, e tutte le altre stelle in prossimità del Sole si trovano in una tranquilla 2ona di una galassia assolutamente comune. Perché P’Io Sono Colui che Sono’ dovrebbe aggirarsi nei paraggi? Dovrebbe avere cose ben più urgenti da fare.»

«Ellie, siamo in un pasticcio. Sai che Joss è molto influente. E’ stato vicino a tre presidenti, incluso l’attuale. La Presidente è propensa a fare qualche concessione a Joss, benché io non creda che voglia inserire lui e un gruppo di altri predicatori nel Comitato Preliminare per la Decifrazione assieme a te, a Valerian e a Drumlin, per non parlare di Vaygay e dei suoi colleghi. E’ difficile immaginare i russi che vanno d’accordo con il clero fondamentalista in seno al Comitato. L’intera faccenda potrebbe diventare esplosiva. Allora, perché non andiamo a parlargli? La Presidente dice che Joss è veramente affascinato dalla scienza. E se riuscissimo a tirarlo dalla nostra parte?»

«Ci metteremo a convertire Palmer Joss?»

«Non sto pensando di fargli cambiare religione: facciamogli solo capire le finalità dell’Argus, che non siamo obbligati a rispondere al Messaggio se non ci piace il suo contenuto, e che le distanze interstellari ci tengono al sicuro da Vega.»

«Ken, lui non crede neppure che la velocità della luce rappresenti un limite cosmico di velocità. Finiremo per non capirci a vicenda. Inoltre, i miei tentativi di adattarmi alle religioni convenzionali si sono risolti in una serie di insuccessi. Tendo ad andare fuori dai gangheri quando mi scontro con la loro incoerenza e la loro ipocrisia. Non sono certa che un incontro tra me e Joss sia quello che vuoi. O quello che voglia la Presidente.»

«Ellie,» disse lui, «so su chi punterei il mio denaro. Non vedo come si potrebbe peggiorare la situazione incontrando Joss.» Lei gli ricambiò il sorriso con una certa condiscendenza. Con le navi da intercettazione al loro posto e alcuni radiotelescopi, piccoli ma adatti alla bisogna, installati in località come Reykjavik e Giacarta, c’era adesso, a ogni longitudine, una copertura più che sufficiente del segnale proveniente da Vega. Era stato previsto che si dovesse tenere un summit dell’Associazione Mondiale per il Messaggio a Parigi. In vista della grande riunione francese, era naturale che le nazioni in possesso delle quantità più cospicue di dati tenessero un dibattito scientifico preparatorio. Gli incontri erano proseguiti quasi ininterrottamente per quattro giorni e tale sessione sommaria mirava soprattutto a persuadere quelli come der Heer, che facevano da intermediari tra gli scienziati e i politici, a darsi da fare. La delegazione sovietica, ufficialmente capeggiata da Lunacarskij, includeva parecchi scienziati e tecnici di grande esperienza. Tra loro figuravano Genrikh Arkhangelskij, nominato di recente capo dell’associazione spaziale internazionale, diretta dai Sovietici, chiamata Intercosmos, e Timofei Gotsridze, ministro dell’Industria semipesante, e un membro del Comitato Centrale. Vaygay si sentiva palesemente in preda a insolite tensioni: aveva ripreso a fumare accanitamente. Teneva la sigaretta tra il pollice e l’indice, con il palmo verso l’alto, mentre parlava. «Sono d’accordo che c’è un’adeguata sovrapposizione in longitudine, ma sono ancora preoccupato per la ridondanza. Un guasto all’apparecchio per liquefare l’elio a bordo della ‘Marshal Nedelin’ o un calo di potenza a Reykjavik, e la continuità del Messaggio è messa a repentaglio. Supponiamo che il Messaggio impieghi due anni per ricominciare da capo. Se ne perdiamo un pezzo, dovremo attendere altri due anni per riempire il buco. E tenete presente che non sappiamo se il Messaggio verrà ripetuto. Se non c’è ripetizione, i buchi non verranno mai riempiti. Penso che dobbiamo essere pronti a ogni evenienza, anche alla più remota.

«A che sta pensando?» chiese der Heer. «A generatori d’emergenza per ogni osservatorio dell’Associazione?»

«Sì, e ad amplificatori, spettrometri, autocorrelatori, unità disco indipendenti in ogni osservatorio. E ad aerei velocissimi in grado di consegnare nel minor tempo possibile l’elio liquido agli osservatori posti in località remote, in caso di necessità.»

«Ellie, sei d’accordo?»

«Completamente.»

«Qualcos’altro?»

«Penso che dovremmo continuare a osservare Vega su un’ampia gamma di frequenze,» Vaygay disse. «Forse domani arriverà un messaggio diverso su una sola delle frequenze del messaggio. Dovremmo anche controllare altre regioni del cielo. Forse la chiave del Messaggio non verrà da Vega, ma da altrove…»

«Permettetemi di dire perché ritenga importante il punto di Vaygay,» interloquì Valerian. «Questo è un momento unico, stiamo ricevendo un messaggio ma non abbiamo compiuto alcun progresso nella sua decifrazione. Non abbiamo esperienze precedenti che ci suggeriscano la linea da seguire. Dobbiamo prevedere tutto. Non vogliamo finire col prenderci a calci tra un anno o due per aver dimenticato di prendere qualche semplice precauzione o per aver trascurato qualche semplice provvedimento. L’idea che il Messaggio potrebbe ricominciare da capo è una mera congettura. Non c’è nulla nel Messaggio, da quanto ci è dato di vedere, che lasci presagire un andamento ciclico. Qualsiasi opportunità perduta adesso può essere perduta per sempre. Sono anche d’accordo circa un potenziamento degli strumenti. Per quanto ne sappiamo, c’è un quarto strato nel palinsesto.»

«C’è anche la questione del personale,» proseguì Vaygay. «Supponiamo che questo messaggio continui non per un anno o due ma per decenni. O supponiamo che questo sia solo il primo di una lunga serie di messaggi da tutto il cielo. Ci sono al massimo alcune centinaia di radioastronomi davvero capaci nel mondo. E’ un numero esiguo quando la posta in gioco è così alta. I paesi industrializzati devono cominciare a produrre più radioastronomi e ingegneri radio con un addestramento di prim’or-dine.»

Ellie osservò che Gotsridze, che aveva detto poco, stava prendendo appunti dettagliati. Fu nuovamente colpita dalla padronanza dell’inglese dimostrata dai russi, di gran lunga superiore a quella del russo dimostrata dagli americani. Verso l’inizio del secolo, in tutto il mondo, gli scienziati parlavano — o almeno leggevano — il tedesco. La lingua usata in precedenza era stata il francese, e prima ancora il latino. In un altro secolo avrebbe potuto esserci un’altra lingua scientifica d’obbligo: il cinese, forse. Per il momento si trattava dell’inglese, e gli scienziati su tutto il pianeta si sforzavano di impararne le ambiguità e le irregolarità. Accendendo una nuova sigaretta con il mozzicone di quella che stava per finire, Vaygay proseguì: «C’è qualcos’altro da dire. E’ soltanto una congettura. Non è neppure plausibile come l’idea che il Messaggio ricomincerà da capo, definita giustamente dal professor Valerian come una pura e semplice supposizione. Non è mia abitudine esporre un’idea tanto speculativa così presto. Ma se la speculazione è valida, ci sono dei fatti nuovi e sicuri cui dobbiamo cominciare a pensare immediatamente. Non avrei il coraggio di sollevare tale evenienza se l’accademico Arkhangelskij non fosse pervenuto a titolo di prova alla stessa conclusione. Lui e io siamo stati in disaccordo circa la quantizzazione dello spostamento verso il rosso delle quasar, la spiegazione delle sorgenti di luce superluminali, la massa a riposo del neutrino, la fisica dei quark nelle stelle di neutroni… Abbiamo avuto molti dissensi. Devo ammettere che talvolta ha avuto ragione lui e talvolta io. Mi sembra che non ci siamo mai trovati d’accordo allo stadio iniziale, speculativo di un problema. Ma in questo caso concordiamo. Genrikh Dmit’c, vuoi spiegare?»

Arkhangelskij appariva tollerante, persino divertito. Lui e Lunacarskij erano stati impegnati per anni in una rivalità personale, avevano animato dispute scientifiche e una famosa controversia sul prudente livello di supporto alla ricerca sovietica sulla fusione nucleare.

«Noi crediamo,» egli disse, «che il Messaggio sia un libro di istruzioni per costruire una macchina. Naturalmente, non sappiamo come decodificare il Messaggio. La prova è data da riferimenti interni. Vi do un esempio. Qui, a pagina 15441 c’è un chiaro riferimento a una pagina precedente, la numero 13097, di cui fortunatamente siamo pure in possesso. La prima è stata ricevuta qui nel New Mexico, la seconda nel nostro osservatorio nei pressi di Taskent. A pagina 13097 è presente un altro riferimento, relativo a un periodo in cui non stavamo coprendo tutte le longitudini. Ci sono molti casi di tali rimandi a pagine precedenti. In generale, e questo è il punto importante, ci sono istruzioni complicate in una pagina recente, ma istruzioni più semplici in una pagina ricevuta prima. In un caso ci sono otto accenni a un materiale precitato in una sola pagina.»

«Non è certo un’argomentazione irresistibile, signori,» ribattè Ellie.

«Forse si tratta di una serie di esercizi di matematica, di difficoltà crescente e in stretta concatenazione. Forse è un lungo romanzo — potrebbero avere vite lunghissime paragonate alle nostre — in cui gli eventi sono connessi alle esperienze infantili o a qualunque cosa abbiano su Vega quando sono giovani. Forse si tratta di un manuale religioso con rinvii continui a principi già enunciati.»

«I Dieci Bilioni di Comandamenti,» disse der Heer ridendo. «Forse,» disse Lunacarskij, fissando attraverso il fumo della sigaretta i telescopi fuori della finestra. Essi sembravano contemplare il cielo con vivo desiderio. «Ma quando si guardano i tipi di riferimenti, penso sarete d’accordo con me che sembra più un manuale di istruzioni per costruire una macchina, Dio solo sa quale.»

9 IL NUMINOSO

«Il prodigio è alla base del culto.»

THOMAS CARLYLE, Sartor Resartus (1833-34)

«Io affermo che il senso religioso cosmico è il movente più forte e più nobile per la ricerca scientifica.»

ALBERT EINSTEIN, Idee e Opinioni (1954)

Ellie poteva ricordare il momento esatto in cui, in uno dei suoi molti viaggi a Washington, aveva scoperto che stava innamorandosi di Ken der Heer.

Gli accordi per l’incontro con Palmer Joss andavano piuttosto per le lunghe. Apparentemente Joss era riluttante a visitare l’Argus; era l’empietà degli scienziati, non la loro interpretazione del Messaggio, diceva ora, che lo interessava. E per sondare il loro carattere, si richiedeva un terreno più neutrale. Ellie era disposta a recarsi ovunque e uno speciale assistente del Presidente stava negoziando. Non dovevano essere altri radioastronomi ad andare all’appuntamento; la Presidente voleva che fosse Ellie soltanto. Ellie stava anche attendendo il giorno, ancora lontano alcune settimane, in cui sarebbe volata a Parigi per la prima riunione plenaria dell’Associazione Mondiale per il Messaggio. Lei e Vaygay stavano coordinando il programma globale di raccolta dati. L’acquisizione del segnale era ormai un fatto di routine, e negli ultimi mesi non c’era stato un solo buco nella copertura. Così scoprì, con sua grande meraviglia, di avere un po’ di tempo a sua disposizione. Si ripromise di avere una lunga conversazione con sua madre, e di essere gentile e amichevole a dispetto di qualsiasi provocazione. C’era un’incredibile quantità di carte ammonticchiate e di posta elettronica da evadere, non solo congratulazioni e critiche da parte dei colleghi, ma moniti religiosi, speculazioni pseudoscientifiche proposte con grande sicurezza, e lettere di ammiratori da tutto il mondo. Non aveva letto per mesi «Il Giornale Astrofisico», sebbene fosse l’autrice principale di un recentissimo saggio che era certamente il più straordinario articolo mai apparso in quella prestigiosa pubblicazione. Il segnale da Vega era così forte che molti radioamatori — stanchi dei loro apparecchi — avevano cominciato a costruire dei piccoli radiotelescopi personali e degli analizzatori di segnali. Nei primi stadi dell’acquisizione del Messaggio, essi avevano scoperto alcuni dati utili, ed Ellie era ancora assediata da dilettanti che pensavano di essere venuti in possesso di qualcosa di ignoto ai professionisti del SETI. Si sentiva in obbligo di scrivere lettere di incoraggiamento. C’erano altri programmi radioastronomici meritevoli all’osservatorio — il rilevamento delle quasar, ad esempio — di cui ci si sarebbe dovuti occupare. Ma invece di fare tutte queste cose, finì per passare quasi tutto il suo tempo con Ken.

Naturalmente era suo dovere coinvolgere il consigliere scientifico della Presidente nel Progetto Argus come egli desiderava. Era importante che la Presidente venisse informata esaurientemente e con la debita competenza. Ellie sperava che i capi delle altre nazioni fossero aggiornati sulle scoperte di Vega come lo era la Presidente degli Stati Uniti. Costei, benché digiuna di scienza, si appassionava davvero a quel mistero ed era disposta a dare appoggio alla scienza non solo per i benefici pratici che ne potevano derivare, ma, almeno un po’, per la gioia di conoscere. Solo pochi suoi predecessori si erano comportati così.

Tuttavia, era sorprendente che der Heer fosse in grado di trascorrere tanto tempo ali’Argus. Egli dedicava un’ora o più al giorno alle comunicazioni cifrate a passabanda alta con il suo ufficio per la politica scientifica e tecnologica di Washington. Ma il resto del tempo, da quello che le era dato vedere, Ken era semplicemente… in giro. Ficcava il naso nel sistema di elaboratori, o andava a vedere i singoli radiotelescopi. Talvolta era con lui un assistente venuto da Washington; più spesso era solo. Lei lo vedeva dalla porta aperta dell’ufficio provvisorio che gli avevano assegnato, con i piedi sulla scrivania, intento a leggere qualche rapporto o a parlare al telefono. Le faceva un cenno cordiale e ritornava, al suo lavoro. Lo trovava che parlava per caso con Drumlin o Valerian; ma pure con tecnici di minore importanza e con lo staff di segreteria che lo aveva definito in più di un’occasione «affascinante», come le era capitato di sentire. Der Heer aveva molte domande anche per lei. Dapprima erano puramente tecniche e programmatiche, ma ben presto si estesero a piani per un’ampia varietà di possibili eventi futuri e quindi a una sbrigliata speculazione. In quei giorni, sembrava quasi che la discussione del progetto fosse soltanto un pretesto per trascorrere un po’ di tempo insieme.

In un bel pomeriggio d’autunno a Washington, la Presidente si vide costretta a rinviare una riunione dello Special Contin-gency Task Group a causa della crisi di Tyrone Free. Dopo un volo notturno dal New Mexico, Ellie e der Heer si trovarono dunque con alcune ore libere e decisero di andare a visitare il Vietnam Memorial, progettato da Maya Ying Lin quando era ancora una studentessa di architettura all’università di Vale. Tra i cupi e dolenti ricordi di una guerra insensata, der Heer sembrava stranamente allegro ed Ellie cominciò di nuovo a meditare sulle pecche del suo carattere. Un paio di agenti di sicurezza in borghese della General Service Administration con speciali auricolari color carne infilati nelle orecchie li seguivano discretamente.

Ken aveva costretto un bellissimo bruco azzurro a salire su un ramoscello. L’animaletto si muoveva svelto, con il corpo iridescente ondulante al movimento di quattordici paia di zampette. All’estremità del ramoscello, vi si aggrappò con i suoi ultimi cinque segmenti e sferzò l’aria in un coraggioso tentativo di trovare un nuovo appoggio. Visti vani i suoi sforzi, si voltò prontamente e ritornò sui suoi passi. Der Heer allora cambiò la sua presa sul ramoscello cosicché quando il bruco ritornò al suo punto di partenza, non sapeva di nuovo dove andare. Come certi mammiferi carnivori chiusi in gabbia, la larva andò su e giù molte volte, ma le sembrò che negli ultimi passaggi mostrasse una crescente rassegnazione. Ellie cominciava a sentir pietà per la povera creatura anche se fosse stata la larva responsabile della distruzione dell’orzo. «Che meraviglioso programma in questa testolina!» esclamò lui. «Funziona ogni volta: ottimo software di sicurezza. E sa non cadere giù. Voglio dire che il ramoscello è davvero sospeso in aria. Il bruco non lo sperimenta mai in natura, perché il ramoscello è sempre attaccato a qualcosa. Ellie, ti sei mai chiesta come risulterebbe quel programma se si trovasse nella tua testa? Intendo, ti sembrerebbe ovvio il da farsi una volta che tu sia giunta all’estremità di un ramoscello? Avresti l’impressione di rifletterci sopra? Ti domanderesti come hai appreso ad agitare in aria le tue dieci zampette anteriori, mentre ti tieni stretta con le altre diciotto?» Lei piegò leggermente il capo ed esaminò lui più che il bruco. Sembrava che non facesse molta fatica a immaginarsela come un insetto. Cercò di rispondere vagamente, ricordando che per lui sarebbe stata una faccenda di interesse professionale. «Che ne farai adesso?»

«Lo rimetterò nell’erba, suppongo. Che altro ne dovrei fare?»

«Qualcuno lo ucciderebbe.»

«E’ difficile uccidere una creatura una volta che ti ha fatto vedere la sua coscienza.» Continuò a portare il ramoscello e la larva. Camminarono per un po’ in silenzio davanti ai quasi 55000 nomi scolpiti sul lucido granito nero.

«Ogni governo che prepari una guerra dipinge i suoi awersari come mostri,» ella disse. «Non vogliono che si pensi all’umanità della parte avversa. Se il nemico può avere dei pensieri e dei sentimenti, si possono avere delle esitazioni a uccidere. E uccidere è molto importante. Meglio vederli come mostri.»

«Ecco, guarda questa bellezza,» ribattè lui dopo un attimo. «Davvero. Guardala da vicino.»

Lo fece. Reprimendo un leggero brivido di disgusto, Ellie cercò di vedere il bruco attraverso gli occhi di Ken. «Osserva quello che fa,» egli proseguì. «Se fosse grande come te o me, spaventerebbe tutti a morte. Sarebbe un autentico mostro, non è vero? Ma è piccolo. Mangia le foglie, bada ai fatti suoi, e aggiunge un po’ di bellezza al mondo.»

Ellie gli prese la mano senza preoccuparsi del bruco e continuarono a passeggiare senza dire una parola accanto alle file di nomi incisi in ordine cronologico di morte. C’erano, naturalmente, soltanto le perdite americane. Tranne che nei cuori dei loro familiari e amici, non c’era un momento simile sul pianeta per i due milioni di uomini del Sud-est asiatico che erano morti nello stesso conflitto. In America, il commento pubblico più comune a proposito di questa guerra riguardava l’opposizione politica al potere militare, psicologicamente simile, lei pensò, alla spiegazione della «pugnalata nella schiena» data dai militaristi tedeschi della loro disfatta nella prima guerra mondiale. Il Vietnam rappresentava un bubbone nella coscienza nazionale che nessun Presidente finora aveva avuto il coraggio di incidere. (La politica successiva della Repubblica Democratica del Vietnam non aveva facilitato il compito.) Ricordava come fosse comune per i soldati americani chiamare i loro avversari vietnamiti «musi gialli», «teste storte», «crape di riso», «mongoloidi» e peggio. Sarebbe stato possibile guidare la prossima fase della storia umana senza prima occuparsi di questa tendenza a disumanizzare l’avversario?

Nei discorsi di ogni giorno, der Heer non parlava come un accademico. Se lo si incontrava all’edicola all’angolo mentre comprava un giornale, non lo si sarebbe mai detto uno scienziato.

Non aveva perduto il suo accento popolare newyorkese. Al principio, l’apparente discordanza tra il suo linguaggio e la qualità del suo lavoro scientifico sembrò divertente ai suoi colleghi. Quando le sue ricerche e l’uomo stesso divennero più conosciuti, il suo accento divenne puramente idiosincratico. Ma il modo con cui pronunciava, per esempio, guanosina trifosfato, sembrava conferire a questa benigna molecola proprietà esplosive. Ci avevano messo molto a riconoscere che stavano innamorandosi. A molti altri, invece, doveva essere apparso evidente. Alcune settimane prima, quando si trovava ancora all’Argus, Lunacarskij si era lanciato in una delle sue occasionali filippiche contro l’irrazionalità del linguaggio. Stavolta era il turno dell’angloamericano.

«Ellie, perché la gente dice ‘fare di nuovo lo stesso errore’? Che cosa aggiunge il ‘di nuovo’ alla frase? E ho ragione che ‘bruciare interamente’ e ‘distruggere col fuoco’ significano la stessa cosa? E ‘rallentare’ e ‘ritardare’ non vogliono dire la medesima cosa? Perciò, se ‘stropicciare’ è accettabile, perché non lo è ‘scartacciare’?» Ellie aveva annuito stancamente. Lo aveva sentito più di una volta lamentarsi con i suoi colleghi sovietici delle incoerenze della lingua russa, ed era certa che ne avrebbe udito una versione francese alla conferenza di Parigi. Era disposta ad ammettere che le lingue avevano delle improprietà, ma esse avevano tante fonti e si evolvevano sotto l’azione di tante piccole pressioni che sarebbe stato sorprendente se fossero state perfettamente coerenti e intrinsecamente logiche. Vaygay però si divertiva tanto a lamentarsi che di solito lei non aveva il coraggio di obiettare. «E considera l’espressione idiomatica ‘essere innamorato con la testa sui talloni’,» proseguì lui. «E’ un’espressione comune, non è vero? Ma è esattamente alla rovescia. O, piuttosto, capovolta. Di solito si è con la testa sopra i talloni. Quando si è innamorati, si dovrebbe essere con i talloni sopra la testa. Ho ragione? Tu ne dovresti sapere qualcosa. Ma chiunque abbia inventato tale frase non aveva esperienza dell’amore. Immaginava che si vada in giro nella maniera consueta, invece di fluttuare per aria capovolti, come nei quadri di quel pittore francese… come si chiama?»

«Era russo», ribattè lei. Mare Chagall aveva fornito un esile pretesto per uscire da una conversazione che si stava facendo imbarazzante e spinosa. In seguito lei si chiese se Vaygay avesse voluto stuzzicarla o provocare una sua reazione rivelatrice. Forse si era accorto soltanto inconsciamente del legame che stava nascendo tra Ellie e der Heer. Una parte almeno della riluttanza di der Heer era chiara. Il consigliere scientifico della Presidente stava dedicando un’enorme quantità di tempo a una faccenda senza precedenti, delicata e incerta. Un coinvolgimento emotivo con uno dei protagonisti era rischioso. La Presidente di certo voleva che il suo giudizio fosse lucidissimo. Egli sarebbe stato libero di raccomandare linee di condotta cui Ellie era contraria, e di consigliare il rifiuto di scelte caldeggiate da lei. Innamorarsi di Ellie avrebbe compromesso in qualche modo l’efficienza di der Heer.

Per Ellie la cosa era più complicata. Prima di aver acquistato la rispettabilità un po’ manierata confacente alle sue funzioni di direttore di uno dei più importanti osservatori radio, aveva avuto molti compagni. Anche se si era sentita innamorata e lo aveva manifestato, il matrimonio non l’aveva mai tentata seriamente. Ricordava vagamente la quartina — era di William Butler Yeats? — con cui aveva cercato di consolare i suoi innamorati di un tempo dal cuore spezzato perché, come sempre, era stata lei a decidere che la storia era finita:

Dici che non c’è amore, amor mio, Se non dura sempre. Ah, è follia! Ci sono episodi assai migliori dell’opera tutta. Ricordava come John Staughton fosse stato carino con lei mentre corteggiava sua madre e come avesse ben presto abbandonato tale atteggiamento una volta divenuto il suo patrigno. Una nuova e mostruosa personalità, fino a quel momento appena intravista, poteva emergere negli uomini poco dopo il matrimonio. Era convinta che le sue predisposizioni romantiche la rendessero vulnerabile. Non avrebbe ripetuto l’errore di sua madre. Un po’ più in profondità c’era il timore di innamorarsi perdutamente, di abbandonarsi a qualcuno che le poteva poi essere strappato, o che semplicemente l’avrebbe abbandonata. Ma se non ci si innamora mai sul serio, non si sente mai sul serio la mancanza dell’amore. (Non si soffermava su questo sentimento, vagamente consapevole che non risuonava del tutto vero.) Inoltre, se non si fosse mai realmente innamorata di qualcuno, non lo avrebbe mai realmente tradito, come nel profondo del suo cuore sentiva che sua madre aveva tradito suo padre, morto da tanto tempo. Ne sentiva ancora la mancanza in maniera terribile.

Con Ken la cosa sembrava diversa. O le sue aspettative erano giunte gradualmente a un compromesso con il passare degli anni? A differenza di molti altri uomini cui poteva pensare, Ken quando veniva provocato o messo alle strette, mostrava un lato più gentile, più comprensivo. La sua inclinazione al compromesso e la sua abilità nella politica scientifica facevano parte dei requisiti del suo lavoro; ma lei sentì di aver intravisto sotto quelle parvenze qualcosa di solido. La rispettava per il modo con cui aveva integrato la scienza con la totalità della sua vita, e per il coraggioso appoggio alla scienza che aveva cercato di inculcare in due amministrazioni. Erano stati insieme il più discretamente possibile nel suo piccolo appartamento all’Argus. I loro discorsi erano una gioia, con le idee che andavano e venivano come le piccole sfere piumate del volano. Talvolta l’uno completava i pensieri rimasti in sospeso dell’altra con una quasi perfetta preconoscenza. Lui era un amante sensibile, premuroso e pieno di fantasia.

Talvolta Ellie si stupiva di quello che era capace di fare e di dire alla presenza di Ken, a causa del loro amore. Arrivò ad ammirarlo tanto che il suo amore per lui modificò la stima che aveva di se stessa. Si piacque di più proprio grazie a lui. E poiché egli sentiva chiaramente le stesse cose, c’era una sorta di infinito flusso d’amore e di rispetto alla base della loro relazione. Almeno, era come la vedeva lei. Alla presenza di tanti suoi amici aveva provato, sotto sotto, un senso di solitudine, che con Ken era sparito.

Si sentiva a proprio agio quando gli descriveva le sue fantasticherie, i frammenti di ricordi, i problemi infantili. E lui non era solamente interessato, ma affascinato. La interrogava per ore sulla sua infanzia. Le sue domande erano sempre dirette, talvolta indagatrici, ma immancabilmente gentili. Lei cominciò a capire perché gli amanti usano tra di loro un linguaggio bambinesco. Non c’era nessun’altra circostanza socialmente accettabile in cui le bambine che c’erano in lei avessero il permesso di uscire. Se la creatura di un anno, quella di cinque, quella di dodici, e quella di venti trovano tutte delle personalità compatibili nell’essere amato, c’è una possibilità reale di mantenere felici tutte queste sub-persone. L’amore pone fine alla loro lunga solitudine. Forse la profondità dell’amore può essere misurata dal numero di differenti ego che sono attivamente coinvolti in un dato rapporto. Con i suoi partner precedenti, a quanto pareva, uno al massimo di questi ego era stato in grado di trovare una controparte ideale; le altre personalità erano state fastidiosi seccatori. Il fine settimana precedente il previsto incontro con Joss, erano a letto, e la luce del tardo pomeriggio che penetrava nella stanza tra le stecche delle veneziane creava degli arabeschi sulle loro forme allacciate.

«In una comune conversazione,» stava dicendo Ellie, «posso parlare di mio padre senza sentire più di… una leggera stretta al cuore per la sua perdita. Ma se mi lascio andare a ricordarlo davvero — il suo spirito o quella… straordinaria onestà — allora la facciata si sgretola e ho voglia di singhiozzare perché se n’è andato.»

«Non c’è dubbio, il linguaggio è catartico, può liberarci da quello che proviamo, o quasi,» replicò der Heer accarezzandole le spalle. «Forse è una delle sue funzioni, così possiamo capire e accettare il mondo senza esserne completamente sopraffatti.»

«Se è così, allora l’invenzione del linguaggio non è soltanto una benedizione. Sai Ken, darei qualunque cosa — intendo dire davvero qualunque cosa in mio possesso — se potessi solo passare alcuni minuti con il papa.»

Ellie immaginava un paradiso con tutte quelle care mamme e quei papa fluttuanti nell’aria o diretti a una vicina nuvola. Avrebbe dovuto essere un luogo spazioso per accogliere tutte le decine di bilioni di persone vissute e morte dalla comparsa della specie umana. Poteva essere molto affollato, pensava, a meno che il cielo religioso non fosse delle proporzioni di quello astronomico. Allora, ci sarebbe stato spazio a volontà.

«Ci deve essere un numero,» disse Ellie, «che misura la popolazione totale di esseri intelligenti presenti nella Via Lattea. Di quante cifre pensi che sia? Se c’è un milione di civiltà, ciascuna con circa un bilione di individui, gli esseri intelligenti devono essere allora dieci alla quindicesima potenza. Ma se la maggior parte di loro sono più avanzati di noi, forse l’idea di individui diventa impropria; forse è solo un altro sciovinismo terrestre.»

«Certo. E allora puoi calcolare il volume della produzione galattica di Gauloises e di Twinkies, di auto Volga e di trasmettitori tascabili Sony. Quindi potremmo calcolare il prodotto galattico lordo. Una volta in possesso di tali dati, potremmo lavorare sul prodotto cosmico lordo…»

«Mi stai prendendo in giro,» disse lei con un sorriso tenero, niente affatto dispiaciuta. «Ma pensa a tali cifre. Voglio dire, pensaci davvero. Tutti quei pianeti con tutti quegli esseri, più progrediti di noi. Non senti una specie di brivido a pensarci su?» Poteva dire ciò che lui stava pensando, ma saltò a un altro argomento. «Ehi, guarda qui. Mi sto documentando per l’incontro con Joss.»

Allungò la mano verso il tavolino da notte per prendere il volume 16 di una vecchia «Encyclopaedia Britannica Macropaedia», con le voci «Rubens-Somalia», e lo aprì a una pagina dove un pezzette di un tabulato di elaboratore era stato inserito come segnalibro. Indicò la voce «Sacro o Santo».

«I teologi sembrano aver individuato uno speciale, non razionale — non lo chiamerei irrazionale — aspetto del senso del sacro o santo. Lo chiamano ‘numinoso’. Il termine è stato usato per la prima volta da… vediamo… qualcuno che si chiamava Rudolph Otto in un libro del 1923, L’idea del sacro. Costui credeva che gli uomini fossero portati a scoprire e venerare il numinoso. Lo chiamava il ‘misterium tremendum’. Persino con il mio latino ci arrivo. Alla presenza del ‘misterium tremendum’, l’umanità si sente totalmente insignificante, ma, se capisco bene, non personalmente alienata. Otto pensava al numinoso come a una cosa ‘completamente altra’, e alla reazione umana verso esso come a un ‘assoluto stupore’. Ora, se è ciò di cui parlano i religiosi quando usano parole come sacro o santo, sono d’accordo con loro. Ho provato qualcosa di simile anche solo nell’attesa di un segnale, non importa se poi l’ho ricevuto davvero. Penso che tutta la scienza susciti questo senso di meraviglia, di timore reverenziale.

Adesso ascolta questo passo.» Ellie lesse dal testo:

Negli ultimi cent’anni numerosi filosofi e sociologi hanno sostenuto la scomparsa del sacro e predetto la morte della religione. Uno studio della storia delle religioni mostra che le forme religiose mutano e che non c’è mai stata unanimità sulla natura e sull’espressione della religione. Se l’uomo sia…

«Anche i maschilisti scrivono e pubblicano articoli religiosi, naturalmente.» Riprese a leggere:

Se l’uomo sia o no attualmente in una nuova situazione per sviluppare strutture di valori fondamentali radicalmente diverse da quelle fornite nella consapevolezza del sacro tradizionalmente affermata è una questione di vitale importanza. «E allora?»

«Allora, sono del parere che le religioni burocratiche cerchino di istituzionalizzare la percezione del numinoso invece di fornire i mezzi per far percepire il numinoso direttamente: come guardare attraverso un telescopio da sei pollici. Se la percezione del numinoso è al centro dell’esperienza religiosa, chi diresti sia più religioso, quelli che seguono le religioni burocratiche o quelli che imparano la scienza da soli?»

«Vediamo se ho inteso bene,» ribattè lui. Era una frase di lei che aveva fatto sua. «E’ un indolente sabato pomeriggio e c’è una coppia che sta a letto nuda a leggere P’Encyclopaedia Britannica’ e a discutere se la nebulosa di Andromeda sia più ‘numinosa’ della Resurrezione. Sanno come spassarsela, o no?»

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