«Sì, mia signora.»


Nasuada si rabbuiò. «Dannazione, Fortemartello! Se non fossi il cugino di Eragon, e se la tua mossa fosse stata anche solo un briciolo meno efficace, ti farei impiccare per cattiva condotta.»


Roran deglutì, immaginando il cappio che gli stringeva il collo.


Nasuada tamburellò sul bracciolo dello scranno, accelerando via via il ritmo. Poi s'interruppe di colpo e disse: «Desideri continuare a combattere con i Varden?»


«Sì, mia signora» rispose lui senza esitazione.


«Che cosa sei disposto a sopportare per rimanere nel mio esercito?»


Roran non si soffermò a riflettere sulle implicazioni di quella domanda e rispose di getto: «Qualunque cosa, mia signora.»


La tensione sul volto di Nasuada si allentò. La regina annuì, con aria soddisfatta. «Speravo che dicessi così. La tradizione e i precedenti mi lasciano solo tre alternative. Uno, posso impiccarti, ma non lo farò... per svariate ragioni. Due, posso infliggerti trenta frustate e poi espellerti dalle file dei Varden. Tre, posso infliggerti cinquanta frustate e tenerti nel mio esercito.»


Cinquanta frustate non sono molte più di trenta, pensò Roran, cercando di farsi coraggio. Si inumidì le labbra. «Sarò fustigato dove tutti potranno vedere?»


Le sopracciglia di Nasuada si inarcarono appena. «Non c'è posto qui per il tuo orgoglio, Fortemartello. La punizione dev'essere dura per scoraggiare eventuali emuli del tuo gesto, e dev'essere pubblica perché tutti i Varden comprendano il messaggio. Se sei intelligente anche solo la metà di quanto sembri, quando hai disobbedito a Edric sapevi che la tua decisione avrebbe avuto delle conseguenze e che quelle conseguenze non sarebbero state affatto piacevoli. La scelta che devi fare adesso è semplice: vuoi restare coi Varden o abbandonare i tuoi amici e la tua famiglia per andartene per la tua strada?»


Roran alzò il mento di scatto, offeso dal fatto che lei mettesse in dubbio la sua parola. «Non me ne andrò, Lady Nasuada. Per quante frustate tu mi possa infliggere, non potranno mai essere tanto dolorose quanto lo è stato perdere la mia casa e mio padre.»


«Già» disse Nasuada in tono sommesso. «Non potranno... Uno degli stregoni del Du Vrangr Gata assisterà alla fustigazione e dopo si prenderà cura di te, per evitare che i colpi ti causino danni permanenti. Ma non ti guarirà completamente e tu non potrai ricorrere a nessun altro mago perché lo faccia.»


«Capisco.»


«La tua punizione avrà luogo non appena Jörmundur avrà radunato le truppe. Fino ad allora, resterai sotto sorveglianza in una tenda vicina al palo delle fustigazioni.»


Roran fu contento di sapere che non avrebbe dovuto aspettare troppo a lungo: non voleva essere costretto a tormentarsi per giorni al pensiero di ciò che lo aspettava. «Mia signora» disse, e lei lo congedò con un cenno del dito.


Girando sui tacchi, Roran uscì dal padiglione. Non appena emerse all'aria aperta, due guardie lo affiancarono. Senza rivolgergli uno sguardo né una parola, lo scortarono fino a una piccola tenda vuota, non troppo lontana dall'annerito palo delle fustigazioni, piantato sopra una leggera altura ai margini dell'accampamento.


Il palo era alto sei piedi e mezzo, e nella parte alta era inchiodata una grossa traversa dove venivano legati i polsi dei prigionieri. La traversa era solcata dalle unghiate degli uomini che erano stati fustigati prima di lui.


Roran si costrinse a distogliere lo sguardo, poi chinò il capo per entrare nella tenda. Dentro c'era soltanto uno sgabello di legno consunto. Si sedette e si concentrò sulla respirazione, deciso a mantenere la calma.


Col passare dei minuti cominciò a sentire il rimbombo degli stivali e il tintinnio delle cotte di maglia dei Varden che si radunavano intorno al palo delle fustigazioni. Roran immaginò migliaia di uomini e donne che lo fissavano, compresi gli abitanti di Carvahall. Il suo cuore accelerò; un velo di sudore gli coprì la fronte.


Mezz'ora dopo, la maga Trianna entrò nella tenda e lo costrinse a spogliarsi per restare solo in pantaloni. Roran provò un forte imbarazzo, anche se la donna rimase impassibile. Trianna lo esaminò da capo a piedi, ed evocò perfino un incantesimo di guarigione per la sua spalla sinistra, dove il soldato gli aveva conficcato il dardo della balestra. Poi lo dichiarò idoneo a sostenere la punizione e gli diede una camicia di tela grezza da indossare al posto della sua.


Roran aveva appena infilato la testa nella camicia quando Katrina entrò nella tenda. Quando la vide, Roran fu pervaso da un misto di gioia e di terrore.


Katrina lo guardò, poi, facendo un inchino, si rivolse a Trianna. «Per favore, posso parlare con mio marito da sola?»


«Certo, aspetterò qui fuori.»


Una volta uscita Trianna, Katrina corse da Roran e gli gettò le braccia al collo. Lui ricambiò il suo abbraccio con la stessa intensità, dato che non l'aveva ancora vista da quando era rientrato all'accampamento.


«Oh, quanto mi sei mancato» gli sussurrò Katrina all'orecchio. «Anche tu» mormorò lui.


Si separarono quel tanto da potersi guardare negli occhi. Katrina si accigliò. «Non è giusto! Sono andata da Nasuada e l'ho implorata di perdonarti, o almeno di ridurre il numero di frustate, ma lei non ha voluto concedermelo.»


Facendo scorrere le mani lungo la schiena di Katrina, Roran disse: «Avrei preferito che non l'avessi fatto.»


«Perché?»


«Perché ho detto che sarei rimasto con i Varden e non mi rimangerò la parola data.»


«Ma non è giusto!» esclamò Katrina, afferrandolo per le spalle. «Carn mi ha detto che cosa hai fatto: hai ucciso quasi duecento soldati da solo, e se non fosse stato per il tuo eroismo nessuno degli uomini con te sarebbe sopravvissuto. Nasuada dovrebbe ricompensarti con regali ed elogi, non farti frustare come un criminale comune!»


«Non importa se è giusto o sbagliato» disse Roran. «È necessario. Se mi trovassi nella posizione di Nasuada, avrei dato lo stesso ordine.»


Katrina rabbrividì. «Ma cinquanta frustate... Perché devono essere così tante? C'è chi è morto per essere stato frustato così tanto.»


«Doveva avere il cuore debole. Non preoccuparti; ci vorrà ben altro per uccidermi.»


Un sorriso forzato affiorò sulle labbra di Katrina, poi le sfuggì un singhiozzo e premette il volto contro il petto di lui. Roran la cullò fra le braccia, accarezzandole i capelli e rassicurandola come poteva, anche se non si sentiva meglio di lei. Dopo qualche minuto udì lo squillo di un corno fuori della tenda e capì che gli restava poco tempo. Sciogliendosi dall'abbraccio di Katrina, disse: «C'è una cosa che voglio tu faccia per me.»


«Cosa?» chiese lei asciugandosi gli occhi.


«Torna nella nostra tenda e non uscire finché non avranno finito di frustarmi.»


Katrina parve sconvolta da quella richiesta. «No! Non ti lascerò... non adesso.»


«Ti prego» disse lui. «Non devi guardare.»


«E tu non dovresti essere frustato» ribatté lei.


«Ora basta. So che vorresti starmi accanto, ma riuscirò a sopportare meglio tutto quanto sapendo che tu non sei lì a guardarmi... me la sono cercata, Katrina, e non voglio che anche tu soffra.»


L'espressione di lei si fece tesa. «Sapere che cosa ti succederà mi farà soffrire ovunque io sia. Però... farò come mi chiedi, ma solo perché ti aiuterà a sopportare questa prova terribile... Sai che mi farei frustare al tuo posto, se potessi.»


«E tu sai» disse lui, baciandola sulle guance «che io non lo permetterei mai.»


Le lacrime ricomparvero negli occhi di Katrina. Attirò Roran a sé, stringendolo con tanta forza da soffocarlo.


Erano ancora stretti nell'abbraccio quando entrò Jörmundur insieme a due Falchineri. Katrina si separò da Roran e, dopo aver rivolto un inchino a Jörmundur, senza dire una parola scivolò fuori della tenda.


Jörmundur fece un cenno al prigioniero. «È ora.»


Roran annuì e si alzò. Jörmundur e le guardie lo scortarono fino al palo delle fustigazioni. Passarono fra la folla di Varden, dove ogni uomo, donna, nano e Urgali aspettava con la schiena rigida e le spalle dritte. Data un'occhiata all'esercito riunito, Roran prese a fissare l'orizzonte e fece del suo meglio per ignorare gli spettatori.


Le due guardie gli alzarono le braccia sopra la testa e gli legarono i polsi alla traversa. Nel frattempo Jörmundur si piazzò davanti al palo ed estrasse un cavicchio di legno foderato di cuoio. «Tieni, mordi questo» disse a bassa voce. «Ti aiuterà.» Riconoscente, Roran aprì la bocca e gli permise di sistemargli il morso fra i denti. La pelle conciata aveva un sapore amaro, come di ghiande verdi.


Poi il suono di un corno e un rullo di tamburo squarciarono l'aria. Jörmundur lesse ad alta voce le accuse e le guardie tagliarono la camicia di tela di Roran.


Roran rabbrividì quando l'aria fredda gli sferzò il torso nudo.


Un istante prima che lo colpisse, sentì la frusta sibilare nell'aria.


Fu come se gli avessero posato una sbarra di metallo incandescente sulla carne. Inarcò la schiena stringendo il morso fra i denti. Gli sfuggì un gemito involontario, anche se il morso attutì il suono e nessuno lo udì.


«Uno» disse l'uomo che impugnava la frusta.


Il secondo colpo gli strappò un altro lamento, ma poi rimase in silenzio, deciso a non mostrarsi debole davanti a tutti i Varden.


Le frustate erano dolorose quanto una delle tante ferite riportate nei mesi precedenti, ma dopo una decina di colpi smise di tentare di combattere il dolore e si arrese, entrando in uno stato di sospensione. Il suo campo visivo si restrinse finché l'unica cosa che riuscì a vedere fu il legno graffiato che aveva davanti a sé; talvolta la vista gli si annebbiava e tutto diventava nero, mentre scivolava in brevi sprazzi d'incoscienza.


Dopo un tempo che gli parve infinito, sentì una voce fievole e distante dire: «Trenta!» e fu preso dalla disperazione, chiedendosi: Come farò a sopportare altre venti frustate? Poi pensò a Katrina e al loro figlio non ancora nato e quel pensiero gli diede forza.

Roran si svegliò sulla branda nella tenda che condivideva con la moglie, disteso sul ventre. Katrina era inginocchiata accanto a lui e gli accarezzava i capelli, mormorandogli nell'orecchio, mentre qualcuno gli tamponava i solchi sulla schiena con una sostanza fredda e appiccicosa. Trasalì e s'irrigidì quando la persona toccò un punto particolarmente sensibile.

«Io non curerei così un mio paziente» sentì dire Trianna in tono sprezzante.


«Se hai curato tutti i tuoi pazienti come stavi curando Roran» replicò un'altra donna «mi meraviglio che siano sopravvissuti.» Dopo un istante, Roran riconobbe la voce: apparteneva ad Angela, la stravagante erborista dagli occhi scintillanti.


«Insomma!» esclamò Trianna. «Non ho intenzione di starmene qui in piedi a farmi insultare da una mediocre indovina che fatica perfino a evocare il più elementare degli incantesimi.»


«Allora siediti, se ti fa piacere, ma in un caso o nell'altro continuerò a insultarti finché non ammetterai che il muscolo della sua schiena si attacca qui, e non lì.» Roran sentì un dito che gli toccava due punti differenti a mezzo pollice di distanza.


«Oh!» sbuffò Trianna, e uscì dalla tenda.


Katrina sorrise a Roran, e in quel momento lui si accorse delle lacrime che le rigavano il volto. «Roran, mi senti?» chiese lei. «Sei sveglio?»


«Io... credo di sì» rispose lui con voce roca. Aveva stretto il morso così a lungo e tanto forte che gli faceva male la mascella. Tossì, poi fece una smorfia quando tutti e cinquanta gli sfregi pulsarono all'unisono.


«Ecco fatto» disse Angela. «Tutto finito.»


«È sorprendente. Non mi aspettavo che tu e Trianna avreste fatto tanto» disse Katrina.


«Ordine di Nasuada.»


«Nasuada? E perché avrebbe...»


«Dovresti chiederlo a lei. Di' a Roran di non mettersi sulla schiena. E di stare attento quando si gira sul fianco, altrimenti si potrebbero rompere le croste.»


«Grazie» mormorò Roran.


Dietro di lui, Angela rise. «Non ci pensare, Roran, o meglio, pensaci, ma non dargli troppo peso. E poi mi diverte l'idea di aver curato entrambe le vostre schiene, la tua e quella di Eragon. Bene, allora, io me ne vado. Occhio alle spie!»


Quando l'erborista se ne fu andata, Roran chiuse di nuovo gli occhi. Le morbide dita di Katrina gli accarezzarono la fronte. «Sei stato molto coraggioso» disse.


«Davvero?»


«Sì. Jörmundur e tutti quelli con cui ho parlato mi hanno detto che non hai mai urlato né implorato che smettessero di frustarti.»


«Bene.» Roran avrebbe voluto conoscere la gravità delle sue ferite, ma non voleva costringerla a descrivergli le condizioni pietose della sua schiena.


Tuttavia Katrina parve percepire il suo desiderio, perché disse: «Angela ritiene che con un po' di fortuna le tue ferite cicatrizzeranno abbastanza bene. In ogni caso, una volta che sarai completamente guarito, Eragon o un altro mago potrà rimuoverti le cicatrici dalla schiena: non si vedrà neppure che sei stato frustato.»


«Mmh.»


«Vuoi qualcosa da bere?» chiese lei. «Ho messo a bollire un infuso di achillea millefoglie.»


«Sì, grazie.»


Quando Katrina si alzò, Roran sentì un'altra persona entrare nella tenda. Aprì un occhio e rimase sorpreso nel vedere Nasuada accanto al palo d'ingresso.


«Mia signora» disse Katrina, la voce tagliente come un rasoio.


Malgrado le fitte lancinanti alla schiena, Roran si sollevò sui gomiti e, con l'aiuto di Katrina, si voltò per mettersi a sedere. Appoggiandosi a lei, fece per alzarsi, ma Nasuada lo fermò con un gesto della mano. «No, resta seduto. Non voglio farti soffrire più di quanto non abbia già fatto.»


«Perché sei qui, Lady Nasuada?» chiese Katrina. «Roran ha bisogno di riposare e di riprendersi, non di passare il tempo a parlare quando non deve.»


Roran mise la mano sulla spalla sinistra di Katrina. «Posso parlare, se devo» mormorò.


Spostandosi verso il centro della tenda, Nasuada sollevò l'orlo del vestito verde e sedette sul piccolo baule che Katrina si era portata da Carvahall. Dopo essersi sistemata le pieghe della gonna, disse: «Ho un'altra missione per te, Roran, una breve incursione simile a quella a cui hai già partecipato.»


«Quando devo partire?» chiese lui, sorpreso che Nasuada si fosse presa il disturbo d'informarlo di persona di un incarico così semplice.


«Domani.»


Katrina sgranò gli occhi. «Sei impazzita?» esclamò.


«Katrina...» mormorò Roran, cercando di rabbonirla, ma lei si liberò della sua mano con una scrollata di spalle e continuò: «Per poco non moriva nell'ultima missione, e lo hai appena fatto frustare a sangue! Non puoi ordinargli di tornare a combattere così presto, non resisterebbe nemmeno un minuto contro i soldati di Galbatorix!»


«Posso, e devo!» esclamò Nasuada con un piglio così autoritario che Katrina tenne a freno la lingua, in attesa di ascoltare il seguito, anche se Roran intuì che la sua collera non era affatto sbollita. Fissandolo dritto negli occhi, Nasuada disse: «Roran, non so se lo sai, ma la nostra alleanza con gli Urgali è sul punto di spezzarsi. Uno dei nostri ha assassinato tre Urgali mentre eri in missione agli ordini del capitano Edric, il quale, forse ti farà piacere saperlo, non è più capitano. A ogni modo, ho fatto impiccare il miserabile disgraziato che ha ucciso gli Urgali, ma da allora i nostri rapporti con gli arieti di Garzhvog si sono pericolosamente incrinati.»


«E questo cosa c'entra con Roran?» intervenne Katrina.


Nasuada serrò le labbra, poi disse: «Ho bisogno di convincere i Varden ad accettare la presenza degli Urgali senza altri spargimenti di sangue, e il modo migliore per farlo è di mostrare ai Varden che le due razze possono lavorare insieme perseguendo pacificamente uno scopo comune. Per questo il gruppo con cui viaggerai sarà composto da un pari numero di umani e di Urgali.»


«Ma questo ancora non...» iniziò a dire Katrina.


«E li metterò tutti sotto il tuo comando, Fortemartello.»


«Il mio comando?» gracchiò Roran, stupefatto. «Perché?»


Con un sorriso ironico Nasuada disse: «Perché tu farai qualunque cosa pur di proteggere i tuoi amici e la tua famiglia. In questo sei come me, anche se la mia famiglia è molto più numerosa della tua, visto che considero tutti i Varden miei parenti. Inoltre, dato che sei il cugino di Eragon, non posso permettermi di rischiare un altro tuo atto d'insubordinazione, perché a quel punto non avrei altra scelta se non giustiziarti o espellerti dai Varden. E non voglio fare nessuna delle due cose.


«Per questo ti affido il comando, in modo che non ci sia nessuno sopra di te, a parte me, a cui potresti disobbedire. Se ignorerai i miei ordini, assicurati che sia soltanto per uccidere Galbatorix, perché nessun altro motivo ti salverà da conseguenze ben peggiori delle frustate che ti sei meritato oggi. E ti affido questo comando perché ti sei dimostrato capace di convincere la gente a seguirti anche nelle circostanze più ardue. Tu meglio di chiunque altro saprai mantenere il controllo di un gruppo di umani e di Urgali. Manderei Eragon, se potessi, ma dato che lui non c'è, la mia scelta ricade su di te. Quando i Varden sentiranno che il cugino di Eragon, Roran Fortemartello... colui che da solo ha ucciso quasi duecento soldati... è andato in missione con gli Urgali e che la missione è stata un successo, allora potremo continuare ad avere gli Urgali come alleati per l'intera durata di questa guerra. Ecco il motivo per cui ti ho fatto curare da Angela e Trianna più di quanto era giusto: non per risparmiarti la punizione, ma perché ho bisogno che tu sia abile al comando. Dunque, cosa rispondi, Fortemartello? Posso contare su di te?»


Roran guardò Katrina. Sapeva che lei desiderava con tutte le sue forze che dicesse a Nasuada di non essere in grado di guidare l'incursione. Abbassando gli occhi per non guardare il suo dolore, pensò all'immenso esercito contro cui combattevano i Varden. Poi, con un rauco sussurro, disse:


«Puoi contare su di me, Lady Nasuada.»

♦ ♦ ♦


FRA LE NUVOLE

Da Tronjheim, Saphira volò per cinque miglia fino alla parete interna del Farthen Dûr, poi lei ed Eragon entrarono nella galleria che attraversava la base della montagna cava per numerose miglia verso est. Eragon avrebbe potuto attraversare la galleria di corsa in una decina di minuti, ma poiché il soffitto impediva a Saphira di volare o di saltare, la dragonessa non sarebbe stata in grado di stargli dietro, perciò Eragon si limitò a tenere un passo veloce.

Un'ora dopo sbucarono nella Valle Odred, che correva da nord a sud. Annidato fra le colline all'imboccatura della stretta vallata ricoperta di felci si trovava il Fernoth-mérna, un lago perfettamente rotondo, come una goccia d'inchiostro nero fra le vette torreggianti dei Monti Beor. Dal punto più settentrionale del Fernoth-mérna scorreva il Ragni Darmn, che serpeggiava nella valle fino a confluire nell'Az Ragni, alle pendici di Moldûn il Fiero, il monte più a nord della catena dei Beor.

Erano partiti da Tronjheim molto prima dell'alba, e nonostante la galleria li avesse rallentati era ancora mattino presto. Lo squarcio di cielo sopra le loro teste, là dove il sole filtrava fra le vette dei monti giganteschi, era solcato da pallidi raggi dorati. Nella valle, densi brandelli di nuvole si aggrappavano alle pendici dei monti come grossi serpenti grigi. Bianche volute di nebbia si levavano dalla superficie vitrea del lago.

Eragon e Saphira si fermarono sulle rive del Fernoth-mérna per bere e riempire le borracce per il viaggio. L'acqua proveniva dalla neve e dal ghiaccio che si scioglievano dalle montagne. Era così fredda che a Eragon fecero male i denti. Strizzò gli occhi e batté i piedi per terra gemendo mentre una fitta provocata dal freddo gli trapassava il cranio.

Quando la sensazione pulsante scemò, guardò oltre il lago. Fra le cortine fluttuanti di nebbia, scorse le rovine di un castello dalla forma irregolare, costruito su uno sperone di nuda roccia. Fitti tralci d'edera strangolavano i muri cadenti, ma a parte questo, la struttura pareva senza vita. Eragon rabbrividì. L'edificio abbandonato emanava un'aura cupa e sinistra, come la carcassa putrescente di qualche orrenda bestia.

Pronto?

gli chiese Saphira.


Pronto,

rispose lui, e montò in sella.

Dal Fernoth-mérna, Saphira volò verso nord, seguendo la valle Odred per uscire dai Monti Beor. La valle non portava direttamente a Ellesméra, situata molto più a ovest, ma non c'era altra scelta che percorrerla, dato che i valichi fra le montagne si trovavano a oltre cinque miglia di altezza.

Saphira volava alla massima quota che Eragon era in grado di sopportare; le era più semplice coprire lunghe distanze nell'atmosfera rarefatta piuttosto che nell'aria densa e umida più vicina al suolo. Per proteggersi dalle temperature glaciali, Eragon aveva indossato diversi strati d'indumenti e si schermava dal vento con un incantesimo che divideva in due la corrente d'aria gelata in modo che gli passasse accanto senza investirlo.

Cavalcare Saphira era tutt'altro che riposante, ma dato che la dragonessa volava a un ritmo costante e fluido, Eragon non doveva concentrarsi per mantenere l'equilibrio come quando lei virava o si tuffava in picchiata o eseguiva una delle sue tante manovre acrobatiche. Il giovane passò il tempo parlando con lei, ripensando a ciò che era accaduto nelle settimane precedenti, e studiando il paesaggio mutevole che scorreva sotto di loro.

Hai usato la magia senza l'antica lingua quando i nani ti hanno attaccato, disse Saphira. È stato un gesto pericoloso.


Lo so, ma non ho avuto il tempo di pensare alle parole. E poi tu non usi mai l'antica lingua quando evochi un incantesimo.


È diverso. Io sono un drago. A noi non serve l'antica lingua per esprimere le nostre intenzioni; noi sappiamo ciò che vogliamo, e non cambiamo idea facilmente come gli elfi o gli umani.

Il sole arancione era a una spanna sopra l'orizzonte quando Saphira oltrepassò l'imboccatura della valle e sbucò sulle desolate praterie che lambivano i Monti Beor. Raddrizzandosi sulla sella, Eragon si guardò attorno e scosse il capo, meravigliato da quanta strada avevano fatto. Se la prima volta avessimo potuto volare a Ellesméra, avremmo trascorso molto più tempo con Oromis e Glaedr. Saphira annuì con la mente.

La dragonessa continuò a volare finché il sole non tramontò, il cielo si riempì di stelle e le montagne divennero una scura macchia viola alle loro spalle. Avrebbe continuato fino al mattino dopo ma Eragon insistette perché si fermassero a riposare. Sei ancora stanca per il viaggio fino al Farthen Dûr. Domani potremo volare anche di notte, e anche tutto il giorno dopo, se necessario, ma stanotte devi dormire.

Anche se a Saphira la sua proposta non piacque, acconsentì e atterrò vicino a un boschetto di salici sulla sponda di un torrente. Quando smontò, Eragon scoprì di avere le gambe così rigide che stava in piedi a stento. Tolse la sella a Saphira, poi srotolò il sacco da notte sul terreno accanto a lei e si raggomitolò con la schiena contro il suo corpo caldo. Non gli serviva una tenda: Saphira lo riparava con un'ala come una mamma falco che protegge la sua covata. Ben presto i due scivolarono nei rispettivi sogni, che si mescolarono in strani modi meravigliosi, poiché le loro menti restavano unite anche nel sonno.

Non appena il primo raggio di luce comparve a est, Eragon e Saphira si rimisero in viaggio, volando alti sopra le pianure verdeggianti.


A metà mattina cominciò a soffiare un feroce vento contrario che li rallentò di molto. Malgrado i suoi sforzi, Saphira non riusciva a innalzarsi al di sopra del vento e per tutto il giorno fu costretta a lottare contro la corrente d'aria avversa. Era una fatica immane, e sebbene Eragon le avesse infuso tutta l'energia che poteva senza rischiare troppo, nel pomeriggio era così provata dalla stanchezza che scese e atterrò su un piccolo poggio isolato nella prateria. Sedette immobile, con le ali distese per terra, ansante, scossa dai brividi.


Sarà meglio fermarci qui per la notte, disse Eragon.


No.


Saphira, non sei in condizione di proseguire. Accampiamoci finché non ti riprendi. Chissà, il vento potrebbe calare.


Eragon sentì l'umido raspare della sua lingua mentre si leccava le labbra, poi l'ansito dei suoi polmoni che lavoravano come mantici.


No, disse lei. Su queste pianure potrebbe soffiare per settimane, o per mesi addirittura. Non possiamo aspettare che si calmi.


Ma...


Non mi arrenderò solo perché sono stanca, Eragon. La posta in gioco è troppo alta.


Allora lascia che ti dia l'energia di Aren. Questo anello ne contiene abbastanza da sostenerti da qui fino alla Du Weldenvarden.


No, ripeté lei. Risparmia Aren per quando non avremo altre risorse. Mi riposerò nella foresta. Potremmo avere bisogno di Aren da un momento all'altro: non dovresti sprecarlo soltanto per alleviare il mio disagio.


Non sopporto di vederti soffrire così.


Un debole ringhio sfuggì dalle fauci di Saphira. I miei antenati, i draghi selvatici, non si sarebbero fatti intimorire da un venticello del genere, e nemmeno io cederò. Detto questo, spiccò il volo e si tuffò di nuovo nella bufera.


Mentre il giorno volgeva al termine e il vento ancora ululava intorno a loro, opponendosi a Saphira come se il destino avesse deciso di non farli mai arrivare alla Du Weldenvarden, Eragon pensò alla nana Glûmra e alla sua fede nelle divinità dei nani, e per la prima volta in vita sua provò il desiderio di pregare. Ritirandosi dal contatto mentale con Saphira - che era così stanca e preoccupata che non ci fece caso - mormorò: «Gûntera, re degli dei, se esisti, e se puoi sentirmi, e se ne hai il potere, allora ti prego, ferma questo vento. So che non sono un nano, ma re Rothgar mi ha adottato nel suo clan e credo che questo mi dia il diritto di pregarti. Gûntera, ti prego, dobbiamo raggiungere la Du Weldenvarden al più presto, non solo per il bene dei Varden, ma anche per il bene del tuo popolo, i knurlan. Ti prego, ti supplico, ferma questo vento. Saphira non può resistere ancora a lungo.» Poi, sentendosi un po' sciocco, Eragon toccò la coscienza di Saphira e trasalì sentendo il bruciore dei suoi muscoli affaticati.


Più tardi, quella notte, quando tutto era freddo e buio, il vento si calmò. Tornò a farsi vivo di tanto in tanto con qualche sporadica folata.


Quando si fece di nuovo mattina, Eragon guardò in basso e vide la dura, arida terra del deserto di Hadarac. Maledizione, imprecò: non erano arrivati lontano quanto aveva sperato. Non arriveremo entro oggi a Ellesméra, vero?


No, a meno che il vento non decida di soffiare in direzione contraria e portarci sulla sua schiena. Saphira continuò a battere le ali con fatica per qualche minuto, poi aggiunse: Però se non avremo altre spiacevoli sorprese dovremmo raggiungere la Du Weldenvarden entro sera.


Eragon borbottò, contrariato.


Atterrarono solo due volte quel giorno. Mentre erano a terra, Saphira divorò un paio di anatre che aveva ucciso con una vampata di fuoco, ma a parte quello non mangiò altro. Per risparmiare tempo, Eragon mangiò la propria razione in sella.

Come aveva predetto Saphira, la Du Weldenvarden comparve in lontananza proprio mentre il sole stava per tramontare: un'immensa distesa verde dove all'esterno predominavano alberi dalle foglie decidue - querce, faggi e aceri - che, procedendo via via verso l'interno, cedevano il posto ai maestosi pini che erano l'anima della foresta.

Il crepuscolo era sceso sul paesaggio quando arrivarono al limitare della Du Weldenvarden e Saphira scivolò in un dolce atterraggio sotto i rami distesi di un'imponente quercia. Ripiegò le ali e rimase seduta, troppo stanca per proseguire. La lingua cremisi le penzolava dalla bocca. Mentre lei riposava, Eragon prese ad ascoltare il fruscio delle foglie sopra la sua testa e il bubbolio dei gufi e lo stridio degli insetti serali.

Quando si fu ripresa, Saphira s'incamminò e passò fra due gigantesche querce coperte di muschio, entrando a piedi nella Du Weldenvarden. Gli elfi avevano reso impossibile per qualunque essere vivente o inanimato entrare nella foresta con mezzi magici, e poiché i draghi non si affidavano solo al proprio corpo per volare, Saphira non poteva entrare in volo, altrimenti le sue ali avrebbero ceduto e sarebbe precipitata.

Qui dovrebbe essere abbastanza lontano, disse Saphira, fermandosi in un piccolo prato a diverse centinaia di piedi dal perimetro della foresta.


Eragon slegò le cinghie che gli serravano le gambe e scivolò lungo il fianco di Saphira. Setacciò il prato finché non trovò una zolla di terra nuda. Con le mani scavò una buca profonda un piede e larga la metà. Richiamò in superficie dell'acqua perché riempisse la buca, poi pronunciò un incantesimo di divinazione.


L'acqua tremolò e acquistò un morbido bagliore dorato, poi sulla superficie apparve l'interno della capanna di Oromis. L'elfo dai capelli d'argento sedeva al tavolo della cucina, intento a leggere una pergamena. Oromis levò gli occhi verso Eragon e annuì, senza tradire alcuna sorpresa.


«Maestro» disse Eragon, e voltò la mano per portarsela al petto.


«Salute a te, Eragon! Vi stavo aspettando. Dove siete?»


«Io e Saphira abbiamo appena raggiunto la Du Weldenvarden... Maestro, so che abbiamo promesso di tornare a Ellesméra, ma i Varden distano solo un paio di giorni dalla città di Feinster e sono vulnerabili senza di noi. Non abbiamo il tempo di volare fino a Ellesméra. Puoi rispondere alle nostre domande adesso, attraverso la pozza d'acqua magica?»


Oromis si appoggiò alla sedia, il volto spigoloso segnato da un'espressione seria e pensierosa. Poi disse: «Non ti posso istruire a distanza, Eragon. Intuisco alcune delle cose che vorresti chiedermi, e sono argomenti che dobbiamo affrontare di persona.»


«Maestro, ti prego. Se Murtagh e Castigo...»


«No, Eragon. Capisco le ragioni della tua fretta, ma i tuoi studi sono importanti quanto proteggere i Varden, se non di più. Se non possiamo farlo in modo appropriato, tanto vale che non lo facciamo affatto.»


Eragon sospirò e incurvò le spalle. «Sì, maestro.»


Oromis annuì. «Glaedr e io vi aspetteremo. Volate veloci e sicuri. Abbiamo molte cose di cui parlare.»


«Sì, maestro.»


Stordito ed esausto, Eragon spezzò l'incantesimo. L'acqua fu riassorbita dalla nera terra. Il giovane si prese la testa fra le mani, fissando la macchia di terra umida fra i suoi piedi. Il respiro di Saphira risuonava forte e affannato al suo fianco. Immagino che dobbiamo andare, disse. Mi dispiace.


Il respiro di lei s'interruppe per un momento mentre si leccava le labbra. Tutto a posto, non sto per svenire.


Eragon alzò lo sguardo su di lei. Sei sicura?


Sì.


A malincuore, Eragon si alzò e si arrampicò sul dorso della dragonessa. Visto che andiamo a Ellesméra, disse, stringendosi le cinghie intorno alle gambe, tanto vale far tappa all'albero di Menoa. Forse capiremo che cosa voleva dire Solembum. Avrei proprio bisogno di una nuova spada.


Quando Eragon aveva incontrato Solembum per la prima volta a Teirm, il gatto mannaro gli aveva detto: Quando giungerà il momento e ti servirà un'arma, guarda sotto le radici dell'albero di Menoa. Poi, quando tutto ti sembrerà perduto e il tuo potere non basterà, vai alla rocca di Kuthian e pronuncia il tuo nome per schiudere la Volta delle Anime. Eragon ancora non sapeva dove si trovasse la rocca di Kuthian, ma durante il loro primo soggiorno a Ellesméra lui e Saphira avevano avuto diverse occasioni di esaminare l'albero di Menoa. Non avevano però scoperto niente che indicasse loro la posizione dell'ipotetica arma: muschio, terra, corteccia e qualche formica erano le uniche cose che avevano visto fra le radici.


Può darsi che Solembum non parlasse di una spada, osservò Saphira. I gatti mannari amano gli indovinelli quasi quanto i draghi. Se mai esiste, quest'arma potrebbe essere un pezzo di pergamena con un incantesimo, oppure un libro, o un dipinto, o un pezzo appuntito di roccia, o chissà cos'altro. Di sicuro non sarà facile recuperarlo.


Di qualsiasi cosa si tratti, spero di riuscire a trovarla. Chissà quando riusciremo a tornare a Ellesméra.


Saphira spostò un albero caduto che le intralciava il cammino, poi si accovacciò e dispiegò le ali vellutate, i possenti muscoli delle spalle che si contraevano. Eragon lanciò un grido strozzato e si afferrò al pomolo della sella quando lei spiccò un balzo vertiginoso d'inaudita potenza, librandosi sulle chiome degli alberi.


Virando sul mare di rami ondeggianti, la dragonessa puntò a nord-ovest e cominciò a volare verso la capitale degli elfi con un battito d'ali lento e possente.

♦ ♦ ♦


SCONTRO DI ARIETI

L'assalto alla carovana degli approvvigionamenti si svolse come aveva pianificato Roran: tre giorni dopo aver lasciato l'accampamento dei Varden, lui e i suoi compagni a cavallo piombarono dal ciglio di un dirupo e attaccarono sul fianco il convoglio di carri. Nel frattempo, gli Urgali balzarono fuori da dietro i massi sparpagliati sul fondovalle e attaccarono l'avanguardia del convoglio, obbligandolo a fermarsi. I soldati e i conducenti dei carri reagirono con coraggio, ma l'imboscata li aveva colti ancora insonnoliti e disorganizzati, e ben presto le forze di Roran ebbero la meglio. Nell'attacco non morirono né umani né Urgali, e ci furono soltanto tre feriti: due umani e un Urgali.

Roran uccise diversi soldati, ma perlopiù restò in disparte, concentrato a impartire ordini come era suo compito. Era ancora rigido e dolorante per le frustate, e non voleva sforzarsi più del necessario nel timore che le croste che gli ricoprivano la schiena si riaprissero.

Fino a quel momento non aveva avuto difficoltà a mantenere la disciplina fra i venti umani e i venti Urgali. Anche se era evidente che nessuno dei due gruppi si fidava dell'altro - un atteggiamento che lui condivideva, perché guardava gli Urgali con lo stesso sospetto e disgusto di ogni uomo cresciuto dalle parti della Grande Dorsale - erano riusciti a lavorare insieme per tre giorni senza che nessuno alzasse mai nemmeno la voce. Roran sapeva che il fatto che i due gruppi fossero riusciti a collaborare aveva poco a che vedere con il suo valore di capitano. Nasuada e Nar Garzhvog avevano scelto con gran cura i guerrieri che dovevano viaggiare con lui, selezionando solo i più veloci con le armi, quelli dotati di buonsenso e soprattutto di un carattere saldo e pacato.

Tuttavia, dopo l'attacco al convoglio, mentre i suoi uomini erano impegnati ad accatastare i corpi dei soldati e dei conducenti, cavalcando su e giù lungo la linea dei carri per controllare il lavoro Roran sentì dei gemiti provenire dalla coda della carovana. Pensando che un altro contingente di soldati li avesse colti di sorpresa, urlò a Carn e ad altri uomini di raggiungerlo, poi diede di sprone nei fianchi di Fiammabianca e galoppò verso la retroguardia dei carri.

Quattro Urgali avevano legato un soldato nemico al tronco nodoso di un salice e si stavano divertendo a colpirlo e a punzecchiarlo con le spade. Lanciando un'imprecazione, Roran saltò giù da Fiammabianca e con un solo colpo di martello pose fine all'agonia dell'uomo.

Una nuvola di polvere investì il gruppo quando Carn e altri quattro guerrieri sopraggiunsero al galoppo. Tirarono le redini dei loro destrieri e si schierarono ai lati di Roran, tenendo le armi pronte.

L'Urgali più grosso, un ariete di nome Yarbog, si fece avanti. «Fortemartello, perché hai interrotto il nostro divertimento? Lo avremmo fatto ballare ancora per un po'.»

A denti stretti Roran rispose: «Finché siete sotto il mio comando non torturerete i prigionieri senza motivo. Mi avete capito? Molti di questi soldati sono stati costretti con la forza a servire Galbatorix. Molti di loro sono nostri amici, o familiari, o vicini, e anche se dobbiamo combatterli, non vi permetterò di trattarli con inutile crudeltà. Se non fosse per un capriccio del fato, ciascuno di noi umani potrebbe trovarsi al loro posto. Non sono loro il nostro nemico; Galbatorix lo è, ed è anche il vostro.»

L'Urgali corrugò la fronte sporgente, oscurando i gialli occhi infossati. «Ma voi li uccidereste comunque, no? E allora perché noi non possiamo divertirci a vederli contorcersi e ballare prima?»

Roran si domandò se il cranio dell'Urgali fosse troppo spesso per spezzarlo con una martellata. Sforzandosi di contenere la rabbia, disse: «Perché è sbagliato!» Poi indicò il soldato morto. «E se lui fosse stato uno della vostra stessa razza, uno di quelli stregati dallo Spettro Durza? Avreste tormentato anche lui?»

«Certo» disse Yarbog. «Uno dei nostri avrebbe voluto essere tormentato dalle nostre spade in modo da provare il proprio coraggio prima di morire. Non è lo stesso per voi umani senza corna, o non sapete sopportare il dolore?»

Roran non sapeva quanto potesse essere grave fra gli Urgali chiamare qualcuno senza corna, ma sapeva anche che mettere in dubbio il coraggio di qualcuno era offensivo sia per gli Urgali che per gli umani. «Chiunque di noi è capace di sopportare il dolore in silenzio meglio di voi, Yarbog» disse, stringendo la presa su martello e scudo. «Ora, a meno che tu non voglia provare un dolore che non ti immagini neppure, consegnami la spada, poi slega quel poveraccio e portalo fra gli altri corpi. Dopodiché vai ad accudire i cavalli da soma. Te ne dovrai occupare finché non torneremo dai Varden.»

Senza aspettare replica, Roran si volse e, afferrando le redini di Fiammabianca, si preparò a montargli in sella.


«No» grugnì Yarbog.


Roran si bloccò con un piede nella staffa e imprecò fra i denti. Aveva sperato fino all'ultimo che durante la missione non si verificasse mai una situazione del genere. Si voltò e disse: «No? Ti rifiuti di obbedire ai miei ordini?»


Arricciando le labbra per mostrare le corte zanne, Yarbog disse: «No. Ti sfido per il comando di questa tribù, Fortemartello.» L'Urgali gettò indietro la testa massiccia e ululò così forte che tutti gli Urgali e gli umani lasciarono le loro occupazioni e corsero verso il salice, finché tutti e quaranta non si furono ammassati intorno a Yarbog e Roran. «Vuoi che ci occupiamo noi di questa creatura per te?» chiese Carn ad alta voce.


Roran avrebbe preferito che non ci fossero tanti spettatori. Scosse il capo. «No, me ne occuperò personalmente.» Malgrado le sue parole, era contento di avere accanto i suoi uomini, contrapposti alla fila dei grossi Urgali dalla pelle grigia. Gli umani erano più piccoli degli Urgali, ma tutti, tranne Roran, erano a cavallo, il che avrebbe dato loro un piccolo vantaggio se fosse scoppiata una battaglia fra i due gruppi. D'altro canto la magia di Carn sarebbe servita ben poco, perché gli Urgali avevano un loro stregone, uno sciamano di nome Dazhgra, e da quanto Roran aveva visto fra i due era Dazhgra il mago più potente, anche se non era altrettanto esperto nelle varie sfumature delle arti arcane.


Rivolto a Yarbog, Roran disse: «Non è usanza dei Varden assegnare il comando in base a un duello. Se vuoi combattere, combatterò, ma non ci guadagnerai nulla. Se io perdo, Carn assumerà il comando e tu dovrai rispondere a lui.»


«Bah!» esclamò Yarbog. «Non ti sfido per il diritto di comandare la tua stessa razza, ti sfido per il diritto di guidare noi, gli arieti combattenti della tribù Bolvek! Non hai dimostrato il tuo valore, Fortemartello, perciò non puoi rivendicare il comando. Se perdi, diventerò io il capo e non dovremo più esporre la gola a te, o a Carn, o a qualunque altra creatura troppo debole per meritarsi il nostro rispetto.»


Roran valutò la situazione prima di accettare l'inevitabile. Anche a costo della vita, doveva cercare di mantenere l'autorità sugli Urgali, o i Varden li avrebbero persi come alleati. Trasse un profondo respiro e disse: «L'usanza fra quelli della mia razza è che sia la persona sfidata a scegliere l'ora e il luogo del duello, così come le armi da usare.»


Con una risata gutturale, Yarbog replicò: «L'ora è adesso, Fortemartello. E il luogo è questo. E fra quelli della mia razza si combatte con un perizoma e disarmati.»


«Questo non è giusto, perché io non ho le corna» sottolineò Roran. «Accetti di farmi usare il martello per compensare alla mancanza?»


Yarbog ci pensò, poi disse: «Potrai tenere l'elmo e lo scudo, ma niente martello. Le armi non sono ammesse quando si combatte per il comando.»


«Capisco... Bene, se non posso avere il martello, allora farò a meno anche dell'elmo e dello scudo. Quali sono le regole e come si decreta il vincitore?»


«C'è soltanto una regola, Fortemartello: se fuggi, perdi il duello e sei bandito dalla tua tribù. Si vince obbligando l'avversario ad arrendersi, ma visto che io non mi arrenderò mai, combatteremo fino alla morte.»


Roran annuì. Forse è quello che vuole lui, ma io non lo ucciderò, se posso evitarlo. «Cominciamo!» gridò, e batté il martello sullo scudo.


Dietro sue indicazioni, gli uomini e gli Urgali sgombrarono uno spazio al centro della gola e delimitarono un quadrato di dodici passi per dodici con dei paletti. Roran e Yarbog si spogliarono e due Urgali spalmarono del grasso d'orso sul corpo di Yarbog, mentre Carn e Loften, un altro umano, facevano lo stesso con Roran.


«Mettetene parecchio sulla schiena» mormorò Roran. Voleva ammorbidire il più possibile le croste per evitare che si riaprissero le ferite.


Avvicinandosi al suo orecchio, Carn gli chiese: «Perché hai rifiutato lo scudo e l'elmo?»


«Mi rallenterebbero. Dovrò essere veloce come un coniglio spaurito se non voglio essere incornato.» Mentre Carn e Loften gli ungevano le membra, Roran studiò l'avversario in cerca di un punto debole che lo aiutasse a sconfiggere l'Urgali.


Yarbog superava i sei piedi d'altezza. Aveva le spalle larghe, il torace ampio, gli arti gonfi di muscoli. Il collo era grosso quanto quello di un toro per poter sostenere il peso della testa e delle corna ricurve. Il fianco sinistro era segnato da tre cicatrici oblique, là dov'era stato artigliato da un animale. Su tutta la pelle gli crescevano rade setole nere.


Almeno non è un Kull, pensò Roran. Aveva fiducia nella propria forza, ma non credeva di poter sconfiggere Yarbog facendo ricorso soltanto alla potenza dei muscoli. Erano pochi gli uomini che potevano sperare di uguagliare la prestanza fisica di un sano ariete Urgali. Per giunta Roran sapeva che le grosse unghie nere, le zanne, le corna e la pelle coriacea avrebbero dato a Yarbog un notevole vantaggio nel duello senza armi che stavano per ingaggiare. Posso e devo farcela, decise Roran, pensando a tutti i trucchi sleali che avrebbe potuto usare nello scontro, perché combattere contro Yarbog non sarebbe stato come lottare con Eragon o Baldor o qualunque altro uomo di Carvahall. Roran era convinto che sarebbe stato più simile a uno scontro feroce e sfrenato fra due bestie selvatiche.


I suoi occhi tornarono a posarsi sulle immense corna, perché sapeva che quelle erano le parti più pericolose dell'Urgali. Yarbog le poteva usare per colpirlo e sventrarlo senza correre rischi, e gli avrebbero protetto la testa dai suoi colpi a mani nude, anche se restringevano il campo visivo dell'Urgali. In quel momento Roran capì che le corna, pur essendo il più grande dono naturale di Yarbog, avrebbero potuto anche costituire il suo punto debole.


Si sciolse le spalle e saltellò sugli avampiedi, smanioso di concludere al più presto il duello, in un modo o nell'altro.


I secondi si ritirarono dopo averli completamente ricoperti di grasso d'orso, e Roran e Yarbog entrarono nel quadrato disegnato sul terreno. Roran teneva le ginocchia leggermente flesse, pronto a saltare in qualsiasi direzione al minimo accenno di movimento da parte di Yarbog. Il suolo roccioso sotto i suoi piedi nudi era freddo, duro e scabro.


Un leggero vento smuoveva i rami del salice. Uno dei buoi legati ai carri smosse una zolla d'erba con una zampa, e la sua bardatura scricchiolò.


Con un ululato belluino, Yarbog caricò Roran coprendo la distanza fra di loro con appena tre passi tonanti. Roran aspettò che gli fosse quasi addosso, poi saltò a destra. Aveva però sottovalutato la velocità dell'Urgali. Abbassando la testa, Yarbog gli assestò una cornata alla spalla sinistra, facendolo volare dall'altra parte del quadrato.


Roran finì a terra, e pietre aguzze gli si conficcarono nel fianco. Fitte lancinanti gli percorsero la schiena, seguendo i sentieri tracciati dalle ferite non ancora del tutto guarite. Con un grugnito si rimise in piedi, sentendo che diverse croste si aprivano, esponendo la carne viva all'aria pungente. Terra, polvere e sassolini gli erano rimasti appiccicati allo strato di grasso spalmato sul corpo. Senza mai staccare lo sguardo dall'Urgali ringhiante, divaricò le gambe, piazzandosi ben saldo sui piedi.


Ancora una volta Yarbog lo caricò e ancora una volta Roran saltò di lato. Stavolta la manovra gli riuscì, e l'Urgali gli passò a un palmo di distanza. Girandosi di scatto, Yarbog si avventò su di lui per la terza volta e di nuovo Roran riuscì a evitarlo.


Allora Yarbog cambiò tattica. Avanzando di lato come un granchio, allungò le grosse mani adunche per abbrancarlo e trascinarlo nel suo abbraccio mortale. Roran rabbrividì e indietreggiò. Doveva evitare a tutti i costi di cadere nella morsa di Yarbog; con la sua immensa forza, l'Urgali lo avrebbe ucciso in pochi istanti.


Gli uomini e gli Urgali assiepati lungo i lati del quadrato assistevano silenziosi, i volti impassibili, gli occhi fissi su Roran e Yarbog che duellavano nella polvere.


Per alcuni minuti i due si scambiarono qualche rapido colpo di striscio. Roran cercava di non avvicinarsi troppo all'Urgali, nel tentativo di sfiancarlo a distanza, ma via via che il combattimento proseguiva, vedendo che Yarbog non sembrava più stanco di quando avevano iniziato, si rese conto che il tempo non gli era amico. Se voleva vincere, doveva concludere il duello senza indugio.


Sperando di provocarlo in modo che Yarbog lo caricasse di nuovo - dato che la sua strategia si fondava proprio su questo - Roran si ritirò in un angolo del quadrato e cominciò a provocarlo. «Ah! Sei lento e grasso come una mucca da latte! Riesci a prendermi, Yarbog, o hai le gambe fatte di lardo? Dovresti tagliarti le corna per la vergogna, perché hai lasciato che un uomo si facesse beffe di te. Cosa penseranno le tue future compagne quando verranno a saperlo? Dirai che...»


Il ruggito di Yarbog soffocò il resto della frase. L'Urgali scattò in avanti, mettendosi di fianco per colpirlo con tutto il suo peso. Saltando di lato, Roran tese una mano per afferrare la punta del corno destro di Yarbog, però mancò il bersaglio e cadde rotolando al centro del quadrato, sbucciandosi le ginocchia. Imprecò e si rialzò.


Frenando un istante prima che lo slancio lo facesse uscire dal quadrato, Yarbog si voltò, gli occhietti gialli che guizzavano in cerca di Roran. «Yuhuu!» gridò Roran. Tirò fuori la lingua e fece tutti i gesti più volgari che gli vennero in mente. «Non sapresti colpire un albero nemmeno se ce lo avessi davanti.»


«Muori, piccolo umano insignificante!» ringhiò Yarbog, e si avventò su Roran con le braccia tese.


Le unghie di Yarbog gli tracciarono due solchi sanguinanti lungo il costato mentre scartava a sinistra, ma Roran riuscì lo stesso ad afferrare saldamente un corno dell'Urgali; agguantò anche l'altro prima che l'Urgali riuscisse a liberarsi con una scrollata. Usando le corna come un manubrio, torse la testa di Yarbog da un lato e, contraendo ogni muscolo, riuscì ad atterrarlo. La schiena esplose in una protesta rabbiosa.


Non appena il torace di Yarbog toccò terra, Roran gli piantò un ginocchio sulla spalla destra, immobilizzandolo. Yarbog sbuffò e scalciò, cercando di divincolarsi dalla stretta, ma Roran non mollava. Puntellò i piedi contro una roccia e torse la testa dell'Urgali il più possibile, con una forza che avrebbe spezzato il collo di qualsiasi umano. Per via del grasso che aveva sulle mani, rischiava di perdere la presa.


Yarbog si rilassò per un istante, poi di scatto si alzò da terra facendo leva sul braccio sinistro, sollevando anche Roran, agitando le gambe nella polvere nel tentativo di portarle sotto il corpo. Con una smorfia, Roran si protese in avanti e spinse con tutto il peso sul collo e la spalla di Yarbog. Dopo una manciata di secondi, il braccio sinistro dell'Urgali cedette e Yarbog ricadde di schianto sul ventre.


Entrambi ansimavano per lo sforzo, i corpi ricoperti di polvere. Laddove toccavano la pelle di Roran, le setole dell'Urgali sembravano punte di filo spinato. Sottili rivoli di sangue gli scorrevano sui fianchi e lungo la schiena dolorante.


Non appena ebbe recuperato il fiato, Yarbog ricominciò a scalciare e a dimenarsi, contorcendosi nella polvere come un pesce arpionato. Roran fece appello a tutte le sue forze e non mollò, cercando d'ignorare i sassi appuntiti che gli tagliavano i piedi e le gambe. Visto che quel metodo non funzionava, Yarbog rilassò le membra e cominciò a flettere il collo nel tentativo di stancare le braccia di Roran.


Continuarono a lottare in quella posizione, senza che nessuno dei due si spostasse di più di un paio di pollici.


Una mosca ronzò sulle loro teste e si posò su una caviglia di Roran.


I buoi muggirono.


Dopo una decina di minuti, Roran aveva il volto madido di sudore e gli pareva di non riuscire più a inspirare abbastanza. Le braccia gli bruciavano per il dolore. Le ferite sulla schiena sembravano sul punto di riaprirsi tutte insieme; il costato pulsava dove Yarbog lo aveva artigliato.


Roran capì che non poteva resistere ancora per molto. Maledizione! pensò. Ma non si arrende mai?


Proprio in quel momento, la testa di Yarbog fu scossa da un tremito, mentre un muscolo del collo si contraeva per un crampo. L'Urgali grugnì, il primo verso che emetteva da oltre un minuto, e sottovoce borbottò: «Uccidimi, Fortemartello. Non posso batterti.»


Aggiustando la presa sulle corna di Yarbog, Roran ringhiò a voce altrettanto bassa: «No. Se vuoi morire trova qualcun altro che ti uccida. Ho combattuto secondo le tue regole; ora tu accetterai la sconfitta secondo le mie. Di' a tutti che ti arrendi. Di' che hai sbagliato a sfidarmi. Fallo, e ti lascerò andare. Altrimenti ti terrò inchiodato qui finché non cambierai idea; non importa quanto ci vorrà.»


La testa di Yarbog scattò fra le sue mani quando l'Urgali cercò per l'ultima volta di liberarsi. Sbuffò, sollevando una piccola nuvola di polvere, poi mormorò: «La vergogna sarebbe troppo grande, Fortemartello. Uccidimi.»


«Non appartengo alla tua razza e non rispetterò i vostri costumi» disse Roran. «Se ti preoccupa tanto il tuo onore, di' a chi te lo chiede che sei stato sconfitto dal cugino di Eragon Ammazzaspettri. In questo non c'è alcuna vergogna.» Quando furono passati diversi minuti senza che Yarbog avesse risposto, Roran gli diede uno strattone alle corna e ringhiò: «Allora?»


Alzando la voce in modo che tutti gli umani e gli Urgali lo sentissero, Yarbog dichiarò: «Gar! Che Svarvok mi maledica: mi arrendo! Non avrei dovuto sfidarti, Fortemartello. Tu sei degno di essere il capo e io no.»


Gli uomini esultarono e gridarono, battendo i pomelli delle spade contro gli scudi. Gli Urgali si mossero appena, senza dire una parola.


Soddisfatto, Roran lasciò andare le corna di Yarbog e rotolò su un fianco per scendere dal corpo grigio dell'Urgali. Con la sensazione di aver subito un'altra fustigazione, si alzò a fatica e si trascinò fuori del quadrato, dove Carn lo stava aspettando.


Trasalì quando Carn gli gettò una coperta sulle spalle e il tessuto gli irritò la pelle ferita. Con un sogghigno, Carn gli porse un otre di vino. «Quando ti ha steso, ho pensato che ti avrebbe ucciso. Ma ormai dovrei sapere che non devo mai darti per sconfitto, eh, Roran? Ha! Credo che questo sia il miglior combattimento a cui ho mai assistito. Potresti essere l'unico uomo della storia ad aver lottato contro un Urgali.»


«Forse no» rispose Roran, fra un sorso di vino e l'altro. «Ma è probabile che sia l'unico sopravvissuto.» Sorrise, mentre Carn rideva. Roran scoccò un'occhiata agli Urgali che si erano stretti intorno a Yarbog e gli parlavano con bassi grugniti, mentre due gli pulivano il corpo dal grasso e dallo sporco. Anche se gli Urgali avevano l'aria avvilita, per quello che Roran poteva giudicare non gli sembravano arrabbiati o risentiti, così sperò che non gli avrebbero più creato problemi.


Malgrado il dolore, Roran era felice del risultato. Questo non sarà l'ultimo combattimento fra le nostre razze, pensò. Ma se riusciamo a tornare all'accampamento dei Varden senza altri problemi, gli Urgali non infrangeranno l'alleanza, per lo meno non a causa mia.


Dopo aver bevuto l'ultimo sorso, Roran richiuse l'otre di vino e lo restituì a Carn, poi gridò: «Non state lì a belare come pecore e finite di fare l'elenco di quello che c'è in quei carri! Loften, raduna i cavalli dei soldati, se non si sono già allontanati troppo! Dazhgra, occupati dei buoi. Svelti! Castigo e Murtagh potrebbero essere già diretti qui. Forza, muovetevi!


«Carn, dove diamine sono finiti i miei vestiti?»

♦ ♦ ♦


GENEALOGIA

Il quarto giorno dopo aver lasciato il Farthen Dûr, Eragon e Saphira arrivarono a Ellesméra. Il sole splendeva alto su di loro quando apparve il primo degli edifici della città - una stretta torre a spirale dalle finestre luccicanti che si ergeva fra tre pini ed era stata ricavata dai loro rami intrecciati. Al di là della torre rivestita di corteccia, Eragon individuò le diverse radure sparse che indicavano il luogo dove sorgeva la capitale degli elfi.

Mentre Saphira planava sulla superficie irregolare della foresta, Eragon cercò la coscienza di Gilderien il Saggio che, in qualità di depositario della Bianca Fiamma di Vàndil, proteggeva gli elfi di Ellesméra dai nemici da oltre due millenni e mezzo. Proiettando i propri pensieri nell'antica lingua verso la città, chiese: Gilderien-elda, possiamo passare?

Una voce calma e profonda risuonò nella sua mente. Potete passare, Eragon Ammazzaspettri e Saphira Squamediluce. Finché manterrete la pace, siete i benvenuti a Ellesméra.

Grazie, Gilderien-elda, disse Saphira.


I suoi artigli sfiorarono le nere chiome degli alberi alti trecento piedi mentre scivolava sopra la città di pini diretta verso il pendio dall'altro lato di Ellesméra. Nella filigrana di rami, Eragon colse sprazzi di edifici di legno vivente, aiuole variopinte di fiori in boccio, ruscelli d'argento, il bagliore ramato di una lanterna senza fiamma e, una o due volte, il pallido volto di un elfo che guardava in su.


Inclinando le ali, Saphira volò rasente al pendio fino a raggiungere la rupe di Tel'naeír. Il bianco promontorio di nuda roccia si ergeva a mille piedi di altezza sulla foresta e aveva un raggio di una lega. Saphira virò a destra e volò verso nord lungo il crinale di pietra, battendo le ali due volte per mantenere la velocità e l'altitudine.


Una radura erbosa comparve ai margini della rupe. Sullo sfondo di alberi spiccava una modesta casetta a un solo piano, ricavata da quattro pini. Un allegro, gorgogliante ruscello scorreva dalla foresta muscosa, lambendo le radici di uno dei pini prima di scomparire nuovamente nella Du Weldenvarden. E raggomitolato accanto alla casa c'era il drago dorato, Glaedr: imponente, sfolgorante, le zanne d'avorio grandi quanto il petto di Eragon, gli artigli taglienti come falci, le ali ripiegate morbide come pelle di daino, la coda muscolosa lunga quasi quanto l'intera Saphira, e l'occhio visibile che scintillava come uno zaffiro stellato. Il moncherino della zampa davanti era dall'altra parte, nascosto dal corpo. Davanti a Glaedr era stato sistemato un tavolino rotondo con due sedie. Oromis sedeva sulla sedia più vicina al drago, i capelli argentei che luccicavano come metallo al sole.


Eragon si chinò sulla sella mentre Saphira s'impennava per rallentare. La dragonessa atterrò con un sobbalzo sulla verde distesa erbosa e fece qualche altro passo, le ali tirate all'indietro, prima di fermarsi.


Con le dita intorpidite dalla stanchezza, Eragon si affannò a sciogliere le cinghie che gli stringevano le gambe, poi si sporse per scendere dalla zampa di Saphira, ma prima che riuscisse a posare un piede a terra, le ginocchia gli cedettero e scivolò. Alzò le mani per proteggersi il volto e cadde bocconi, graffiandosi lo stinco su un sasso nascosto nell'erba. Con un grugnito di dolore e le membra anchilosate come quelle di un vecchio fece per rialzarsi.


Una mano gli apparve davanti.


Eragon alzò lo sguardo e vide Oromis che lo sovrastava, il volto senza tempo illuminato da un debole sorriso. Nell'antica lingua, il vecchio elfo disse: «Bentornato a Ellesméra, Eragon-finiarel. E anche a te, Saphira Squamediluce, ben tornata. Bentornati tutti e due.»


Eragon gli prese la mano e Oromis lo trasse in piedi senza il minimo sforzo. Sulle prime Eragon non riuscì a parlare: non aveva pronunciato una sola parola da quando avevano lasciato il Farthen Dûr e la stanchezza gli offuscava la mente. Poi si portò le prime due dita della mano destra alle labbra e, sempre nell'antica lingua, disse: «Che la fortuna ti assista, Oromis-elda.» Infine portò la mano girata al petto nel gesto di cortesia e rispetto che usavano gli elfi.


«Che le stelle ti proteggano, Eragon» replicò Oromis.


Eragon ripeté la cerimonia con Glaedr. Come al solito, il tocco della coscienza sanguigna del drago intimidì Eragon, facendolo subito sentire in soggezione.


Saphira non salutò né Oromis né Glaedr. Rimase dov'era, con il collo così afflosciato che il muso toccava terra, e le spalle e i fianchi che tremavano come se avesse freddo. Gli angoli della bocca aperta erano incrostati di schiuma secca e gialla. La lingua ruvida le ciondolava fra le zanne.


Per spiegare il loro stato, Eragon disse: «Ci siamo imbattuti in un vento contrario il giorno dopo aver lasciato il Farthen Dûr e...» S'interruppe quando Glaedr sollevò la testa gigantesca e l'allungò dall'altro lato della radura, fino a portarla al di sopra di Saphira, che però continuò a non reagire. Allora Glaedr le soffiò addosso; spirali di fiamma ardevano all'interno delle sue narici. Eragon fu pervaso da un immenso sollievo nel sentire l'energia fluire in Saphira, ridando vigore alle sue membra.


Le fiamme nelle narici di Glaedr si spensero in uno sbuffo di fumo. Sono andato a caccia stamane, disse, e la sua voce mentale risuonò in tutto il corpo di Eragon. Troverai gli avanzi delle mie prede vicino all'albero con il ramo bianco in fondo alla radura. Mangia quanto ti pare.

Saphira emanò la sua silenziosa gratitudine. Trascinando sull'erba la coda inerte, arrancò fino all'albero che Glaedr le aveva indicato, poi si accovacciò e cominciò a sbranare la carcassa di un cervo.

«Accomodati» disse Oromis, indicando il tavolo e le sedie. Sul tavolo c'era un vassoio con qualche scodella di frutta e noci, mezza forma di formaggio, un filone di pane, un fiasco di vino e due calici di cristallo. Mentre Eragon si sedeva, Oromis indicò il fiasco e gli chiese: «Ti va un goccio per sciacquarti la gola dalla polvere?»

«Sì, grazie» rispose Eragon.

Con un movimento elegante, Oromis stappò il fiasco e riempì i due calici. Ne porse uno a Eragon e poi si abbandonò contro lo schienale, lisciandosi la bianca tunica con le lunghe dita.

Eragon sorseggiò il vino. Era dolce e sapeva di ciliegie e di prugne. «Maestro, io...»


Oromis lo interruppe. «A meno che non sia qualcosa di terribilmente urgente, preferirei aspettare che Saphira ci raggiunga prima di discutere di ciò che vi ha portati qui. Sei d'accordo?»


Dopo un attimo di esitazione, Eragon annuì e si concentrò sul cibo, assaporando il gusto della frutta fresca. Oromis si limitò a stargli seduto accanto in silenzio, bevendo il vino, lo sguardo perso oltre la rupe di Tel'naeír. Alle sue spalle, Glaedr osservava la scena come una statua d'oro vivente.


Passò quasi un'ora prima che Saphira finisse di mangiare. La dragonessa si trascinò al ruscello e bevve per altri dieci minuti. Con le fauci ancora gocciolanti, tornò dal ruscello e, dopo un grande sospiro, si accovacciò accanto a Eragon, le palpebre pesanti. Sbadigliò, con uno scintillio di zanne, poi scambiò i saluti con Oromis e Glaedr. Parlate quanto volete, disse. Ma non aspettatevi che io dica molto. Potrei addormentarmi da un momento all'altro.


Se lo fai, aspetteremo che ti svegli prima di continuare, disse Glaedr.


Questo è molto... gentile, rispose Saphira, e le sue palpebre si abbassarono ancora di più.


«Altro vino?» chiese Oromis, sollevando il fiasco. Quando Eragon scosse la testa, lo rimise sul tavolo, poi congiunse le dita, le unghie arrotondate simili a lucidi opali, e disse: «Non hai bisogno di dirmi che cosa ti è successo in queste settimane, Eragon. Da quando Islanzadi ha lasciato la foresta, Arya la tiene informata di tutto, e ogni tre giorni Islanzadi manda un messaggero del nostro esercito nella Du Weldenvarden. Perciò so del tuo duello con Murtagh e Castigo sulle Pianure Ardenti. So della tua impresa nell'Helgrind e di come hai punito il macellaio del tuo villaggio. E so che hai preso parte al raduno dei clan dei nani nel Farthen Dûr e del suo esito. Quindi, qualunque cosa desideri dirmi, dilla pure senza preoccuparti di dovermi delle spiegazioni.»


Eragon fece rotolare un mirtillo maturo sul palmo della mano. «Sai anche di Elva e di ciò che è successo quando ho cercato di liberarla dalla mia maledizione?»


«Sì, anche quello. Può anche darsi che tu non sia riuscito a rimuovere del tutto l'incantesimo, ma hai pagato il tuo debito nei suoi confronti, e questo è ciò che un Cavaliere dei Draghi dovrebbe fare: portare a compimento i propri obblighi, semplici o difficili che siano.»


«Sente ancora il dolore di chi le sta intorno.»


«Sì, ma adesso è per sua scelta» osservò Oromis. «Non è più la tua magia che glielo impone. Ma tu non sei venuto qui per ascoltare il mio parere su Elva. Cosa ti pesa sul cuore, Eragon? Chiedi ciò che vuoi e ti prometto che risponderò a tutte le tue domande come meglio potrò.»


«E se non sapessi quali sono le domande giuste?» chiese Eragon.


Un breve luccichio brillò nei grigi occhi di Oromis. «Ah, cominci a pensare come un elfo. Devi fidarti di noi come tuoi maestri, che insegnano a te e a Saphira le cose che non sapete. E devi fidarti di noi quando decidiamo qual è il momento più indicato per affrontare certi argomenti, perché ci sono diversi elementi del tuo addestramento di cui non si dovrebbe parlare nel momento sbagliato.»


Eragon posò il mirtillo al centro preciso del vassoio, poi con voce bassa ma risoluta disse: «A quanto pare, ci sono molti elementi di cui non avete parlato.»


Per un momento, gli unici rumori furono lo stormire delle fronde, il gorgoglio del ruscello e lo squittio distante di qualche scoiattolo.


Se hai qualche rancore, disse Glaedr, allora parla e non accanirti sulla tua rabbia come se fosse un vecchio osso senza più nulla da rosicchiare.


Saphira si agitò, e a Eragon parve di sentirla ringhiare. Le scoccò un'occhiata, poi, sforzandosi di controllare il tumulto di emozioni, chiese: «L'ultima volta che sono stato qui, sapevate chi era mio padre?»


Oromis annuì. «Sì.»


«E sapevate che Murtagh era mio fratello?»


Oromis annuì ancora una volta. «Lo sapevamo, ma...»


«E allora perché non me lo avete detto?» esclamò Eragon, balzando in piedi e rovesciando la sedia. Batté un pugno sulla coscia e si allontanò di qualche passo, lo sguardo perso fra le ombre della foresta intricata. Quando si volse, la sua rabbia crebbe nel vedere che Oromis non sembrava affatto turbato. «Me lo avreste mai detto? Mi tenevate nascosta la verità sulla mia famiglia per timore che mi distraesse dall'addestramento? O avevate paura che sarei diventato come mio padre?» D'un tratto, lo folgorò un pensiero ancora peggiore. «O pensavate che non valesse nemmeno la pena di dirmelo? E Brom, lo sapeva? Aveva scelto di nascondersi a Carvahall per me? Perché ero figlio del suo nemico? Non potete aspettarvi che io creda che sia una coincidenza, il fatto che lui e io vivevamo a poche miglia l'uno dall'altro, e che Arya mi abbia mandato per puro caso l'uovo di Saphira sulla Grande Dorsale.»


«Quello di Arya è stato un caso» disse Oromis. «All'epoca non sapeva della tua esistenza.» Eragon strinse il pomolo della sua spada da nano, ogni muscolo del corpo teso come la corda di un arco. «Quando Brom vide Saphira per la prima volta, ricordo che disse qualcosa fra sé e sé in merito al fatto di non essere sicuro se sarebbe finita in farsa o tragedia. All'epoca pensai che alludesse al fatto che un contadino qualunque come me era diventato il primo nuovo Cavaliere da più di cent'anni. Ma non si riferiva a questo, vero? Si stava chiedendo se fosse una farsa o una tragedia che il figlio minore di Morzan fosse destinato a diventare l'erede del mantello dei Cavalieri!


«Per questo tu e Brom mi avete addestrato, per essere un'arma contro Galbatorix in modo che potessi pagare per la malvagità di mio padre? È questo che sono per voi? Un pareggio di conti?» Prima che Oromis potesse rispondere, Eragon imprecò e disse: «Tutta la mia vita è stata una bugia! Dal momento in cui sono nato, nessuno, tranne Saphira, mi ha voluto con sé: non mi ha voluto con sé mia madre, Garrow, la zia Marian, e nemmeno Brom. Brom era interessato a me solo per Morzan e Saphira. Sono sempre stato solo e soltanto una seccatura. Ma qualunque cosa voi pensiate di me, io non sono mio padre, né mio fratello, e non seguirò i loro passi.» Poggiando le mani sul bordo del tavolo, Eragon si protese in avanti. «Non ho intenzione di tradire gli elfi o i nani o i Varden per Galbatorix, se è questo che vi preoccupa. Farò ciò che devo, ma d'ora in poi non avrete né la mia lealtà né la mia fiducia. Io non...»


La terra e l'aria furono scosse dal ringhio di Glaedr, che sollevò il labbro di sopra, scoprendo completamente le zanne. Hai fondati motivi per fidarti di noi più che di chiunque altro, cucciolo d'uomo, disse, e la sua voce rimbombò come un tuono nella mente di Eragon. Se non fosse stato per i nostri sforzi, saresti morto da un pezzo.


Poi, con sua grande sorpresa, Eragon sentì che Saphira si rivolgeva a Oromis e Glaedr. Diteglielo. Lo allarmò la tristezza che percepì nei suoi pensieri.


Saphira? chiese, perplesso. Dirmi cosa?


Lei lo ignorò. Questa discussione non ha motivo di essere. Non prolungate oltre il tormento di Eragon.


Oromis inarcò un sopracciglio. «Lo sai?»


Sì.


«Sa cosa?» urlò Eragon, sul punto di sguainare la spada e minacciarli tutti finché non si fossero spiegati.


Con un dito affusolato, Oromis indicò la sedia rovesciata. «Siediti.» Quando Eragon restò in piedi, troppo colmo di rabbia e di risentimento per obbedire, Oromis sospirò. «Capisco che per te sia difficile, Eragon, ma se insisti nel fare domande e poi ti rifiuti di ascoltare le risposte, la frustrazione sarà la tua unica ricompensa. Ora, per favore, siediti, così che possiamo parlare di tutto questo in maniera civile.»


Fulminandolo con un'occhiata, Eragon raddrizzò la sedia e si sedette di schianto. «Perché?» chiese. «Perché non mi avete detto che mio padre era Morzan, il primo dei Rinnegati?»


«In primo luogo» disse Oromis «dovremmo ritenerci fortunati se assomiglierai a tuo padre, e io credo che davvero gli somigli, oltretutto. E come stavo per dirti prima che m'interrompessi, Murtagh non è tuo fratello, ma il tuo fratellastro.»


Il mondo prese a vorticare intorno a Eragon. La sensazione di vertigine era così intensa che dovette afferrare il bordo del tavolo per tenersi fermo. «Il mio fratellastro... Ma allora chi...?»


Oromis prese un mirtillo da una delle scodelle, lo contemplò per un momento, poi lo mangiò. «Glaedr e io non volevamo tenertelo nascosto, ma non abbiamo avuto scelta. Avevamo entrambi promesso, con il più vincolante dei giuramenti, che non ti avremmo mai rivelato l'identità di tuo padre o del tuo fratellastro, né avremmo discusso della tua famiglia, a meno che tu stesso non avessi scoperto la verità, o se l'identità dei tuoi parenti ti avesse messo in pericolo. Quello che Murtagh ti ha rivelato durante la battaglia delle Pianure Ardenti soddisfa entrambe le condizioni, tanto che adesso possiamo parlarne liberamente.»


Tremando per lo sforzo di contenere l'emozione, con un filo di voce Eragon chiese: «Oromis-elda, se Murtagh è mio fratello soltanto a metà, allora chi è mio padre?»


Cerca nel tuo cuore, Eragon, disse Glaedr. Tu sai già chi è, e lo sai da molto tempo.


Eragon scosse il capo. «Non lo so! Non lo so! Vi prego...» Uno sbuffo di fumo e fiamme uscì dalle narici di Glaedr. Ma è ovvio. Tuo padre è Brom.

DESTINO DI AMANTI

Eragon fissò il drago dorato a bocca aperta. «Ma come...?» esclamò. Prima che Oromis o Glaedr avessero modo di rispondergli, si voltò verso Saphira e sia con la mente che con la voce disse: «Lo sapevi? E mi hai lasciato credere per tutto questo tempo che Morzan fosse mio padre? Anche se questo... anche se io...» Ansimando forte, Eragon balbettò e lasciò la frase in sospeso, incapace di parlare in modo coerente. Fu travolto da una marea di ricordi di Brom che spazzò via ogni altro pensiero. Riconsiderò il significato di ogni parola ed espressione di Brom, e in quell'istante tutto gli fu chiaro. Voleva ancora delle spiegazioni, ma non gli servivano per confermare la rivelazione di Glaedr, perché fin dentro al midollo sapeva che quello che aveva detto il drago era vero.

Sussultò quando Oromis gli toccò la spalla. «Eragon, devi calmarti» disse l'elfo con voce serena e rassicurante. «Ricorda le tecniche di meditazione che ti ho insegnato. Controlla il respiro, concentrati, lascia fluire la tensione dalle membra nel terreno sotto di te... Ecco, così. Ancora. E respira profondamente.»

Le mani di Eragon smisero di tremare e il suo cuore rallentò mentre seguiva le istruzioni di Oromis. Quando ebbe di nuovo la mente limpida e sgombra, guardò ancora Saphira e le chiese in tono sommesso: «Tu lo sapevi?»

Saphira sollevò la testa dal terreno. Oh, Eragon, volevo dirtelo. Mi addolorava vedere come le parole di Murtagh ti tormentavano, ma non potevo aiutarti. Ci ho provato... tante volte... ma come Oromis e Glaedr, anch'io avevo giurato nell'antica lingua di tenerti nascosta l'identità di Brom, e non potevo infrangere il mio giuramento.

«Qu-quando te l'ha detto?» disse Eragon, così turbato che continuava a parlare ad alta voce.


Il giorno dopo che gli Urgali ci attaccarono vicino a Teirm, mentre eri ancora privo di sensi.

«Fu allora che ti disse come contattare i Varden a Gil'ead?»

Sì. Prima di sapere cosa Brom volesse dirmi, mi fece giurare di non parlartene mai a meno che tu non lo scoprissi da solo. Con mio rimpianto, accettai.

«Ti disse altro?» domandò Eragon, in preda a una nuova rabbia. «Altri segreti che dovrei sapere, tipo che Murtagh non è il mio unico fratello, o magari come sconfiggere Galbatorix?»

Nei due giorni che io e Brom passammo dando la caccia agli Urgali, Brom mi raccontò i particolari della sua vita, in modo che se fosse morto, e se tu fossi venuto a sapere del vostro legame di parentela, avresti scoperto che tipo d'uomo era tuo padre e perché si comportò così. Inoltre Brom mi diede un regalo per te.

Un regalo?

Un ricordo di lui che ti parlava come tuo padre e non come Brom il cantastorie.


«Prima che Saphira condivida questo ricordo con te» disse Oromis, ed Eragon capì che la dragonessa aveva permesso all'elfo di ascoltare le sue parole, «credo sia meglio che tu sappia come si sono svolti gli eventi. Vuoi ascoltarmi un momento, Eragon?»


Eragon esitò, senza sapere che cosa voleva, poi annuì.


Levando il calice di cristallo, Oromis bevve un sorso di vino, poi lo riappoggiò sul tavolo e disse: «Come sai, sia Brom che Morzan erano miei apprendisti. Brom, più giovane di tre anni, aveva una così alta considerazione di Morzan che gli permetteva di umiliarlo, di comandarlo a bacchetta e di trattarlo dall'alto in basso.»


Con voce rauca, Eragon disse: «È difficile immaginare Brom che si lascia comandare da qualcuno.»


Oromis annui con un rapidissimo movimento della testa, come un uccello. «Già, eppure era così. Brom amava Morzan come un fratello nonostante il suo comportamento. Fu solo quando Morzan tradì i Cavalieri consegnandoli a Galbatorix, e i Rinnegati uccisero la sua Saphira, che Brom si accorse della vera natura di Morzan. Per quanto fosse forte il suo affetto per lui, quel sentimento parve una candela rispetto a un incendio, paragonato all'odio che lo sostituì. Brom giurò di opporsi a Morzan comunque e dovunque, di annullare i suoi risultati e di soffocare le sue ambizioni nell'amaro rimpianto. Tentai di dissuaderlo dall'intraprendere un sentiero così pieno di odio e di violenza, ma lui era impazzito di dolore per la morte di Saphira e non volle ascoltarmi.


«Nel corso dei decenni successivi, l'odio di Brom non si affievolì, né lui pensò mai di rinunciare a deporre Galbatorix, uccidere i Rinnegati e, sopra ogni altra cosa, ripagare Morzan di tutte le sofferenze che gli aveva inflitto. Brom era l'ostinazione incarnata, il suo nome un incubo per i Rinnegati e un faro di speranza per coloro che avevano ancora il coraggio di resistere all'Impero.» Oromis guardò verso la bianca linea dell'orizzonte e bevve un altro sorso di vino. «Sono fiero di quello che riuscì a fare da solo, senza l'aiuto del suo drago. È sempre rincuorante per un maestro veder eccellere uno dei suoi allievi, anche se... Ma sto divagando. Accadde poi, una ventina d'anni fa, che i Varden cominciarono a ricevere dalle loro spie all'interno dell'Impero rapporti riguardanti le attività di una misteriosa donna nota come la Mano Nera.»


«Mia madre» mormorò Eragon.


«La tua e di Murtagh» disse Oromis. «In un primo momento, i Varden non sapevano niente di lei, tranne il fatto che era estremamente pericolosa e fedele all'Impero. Col tempo, e dopo grandi spargimenti di sangue, capirono che lei serviva solo e soltanto Morzan, che la usava per portare i suoi ordini in ogni angolo dell'Impero. Quando lo venne a sapere, Brom decise di uccidere la Mano Nera per colpire Morzan. Siccome i Varden non potevano predire dove tua madre sarebbe apparsa ogni volta, Brom raggiunse il castello di Morzan e lo tenne d'occhio finché non fu in grado di escogitare un modo per infiltrarsi nella fortezza.»


«Dov'era il castello di Morzan?»


«È, non era, il castello c'è ancora. Galbatorix adesso lo usa per sé. Si trova fra le colline ai piedi della Grande Dorsale, ben nascosto vicino alla sponda nord-occidentale del Lago di Leona.»


Eragon disse: «Jeod mi ha raccontato che Brom s'introdusse nel castello fingendosi uno dei servitori.»


«Proprio così, e non fu un'impresa facile. Morzan aveva cinto la fortezza con centinaia d'incantesimi per proteggerla dai nemici. Obbligava tutti quelli che lo servivano a pronunciare giuramenti di fedeltà, e spesso con il loro vero nome. Tuttavia, dopo molti esperimenti, Brom riuscì a trovare una breccia nelle difese di Morzan che gli permise di procurarsi un posto da giardiniere nella sua proprietà, e fu allora che incontrò per la prima volta tua madre.»


Guardandosi le mani, Eragon disse: «E poi la sedusse per ferire Morzan, immagino.»


«Nient'affatto» rispose Oromis. «Può darsi che quella fosse la sua intenzione all'inizio. Ma poi accadde qualcosa che né lui né tua madre avevano previsto: s'innamorarono. Qualunque affetto tua madre avesse provato per Morzan all'epoca era già svanito, cancellato dal crudele trattamento che lui riservava a lei e al loro figlio appena nato, Murtagh. Non conosco l'esatta sequenza degli avvenimenti, ma a un certo punto Brom rivelò a tua madre la sua vera identità. Invece di tradirlo, lei cominciò a passare ai Varden informazioni su Galbatorix, Morzan e il resto dell'Impero.»


«Ma Morzan non le aveva fatto giurare fedeltà nell'antica lingua?» obiettò Eragon. «Come ha potuto rivoltarsi contro di lui?»


Un sorriso affiorò sulle sottili labbra di Oromis. «Ha potuto perché Morzan le aveva concesso maggiori libertà rispetto ai suoi servitori, affinché lei usasse la propria astuzia e il proprio spirito d'iniziativa per svolgere i compiti che lui le assegnava. Nella sua arroganza, Morzan credeva che il suo amore gli avrebbe garantito la sua lealtà più di qualsiasi giuramento. E poi non era più la stessa donna che si era legata a Morzan; diventare madre e conoscere Brom le avevano mutato il carattere al punto che il suo vero nome cambiò, cosa che la liberò dai vincoli precedenti. Se Morzan fosse stato più accorto... avrebbe potuto evocare un incantesimo che lo avvertisse nel caso in cui lei avesse mancato alle promesse... così avrebbe capito di aver perso il controllo su di lei. Ma questo è sempre stato un difetto di Morzan: era capace d'inventare astuti incantesimi, che però spesso fallivano perché, nella fretta, dimenticava qualche dettaglio cruciale.»


Eragon si accigliò. «Perché mia madre non lasciò Morzan quando ne ebbe l'occasione?»


«Dopo tutto quello che aveva fatto per conto di Morzan, sentiva che era suo dovere aiutare i Varden. Ma, cosa più importante, non poteva abbandonare Murtagh con suo padre.»


«E perché non l'ha portato con sé?»


«Se fosse stato in suo potere, sono sicuro che l'avrebbe fatto. Morzan capì che il bambino gli dava un enorme controllo su tua madre. La costrinse a lasciare Murtagh alle cure di una balia e le permise di fargli visita solo di tanto in tanto. Quello che Morzan non sapeva è che durante quelle visite lei andava a trovare anche Brom.»


Oromis si volse a guardare una coppia di rondini che volteggiavano nel cielo azzurro. Di profilo, i suoi lineamenti fini e angolosi ricordarono a Eragon l'espressione di un falco o di un gatto. Continuando a fissare le rondini, Oromis disse: «Nemmeno tua madre poteva sapere in anticipo dove Morzan l'avrebbe mandata di volta in volta, né quando sarebbe ritornata al castello. Perciò Brom doveva restare nella proprietà per lunghi periodi, se voleva rivederla. Per circa tre anni restò a servizio nel castello come giardiniere. Di tanto in tanto, sgattaiolava fuori per mandare un messaggio ai Varden o per comunicare con le sue spie in tutto l'Impero, ma altrimenti non lasciava mai le terre di Morzan.»


«Tre anni! Non aveva paura che Morzan potesse vederlo e riconoscerlo?»


Oromis distolse gli occhi dal cielo e tornò a guardare Eragon. «Brom era bravissimo nei travestimenti, ed erano passati molti anni da quando lui e Morzan si erano trovati faccia a faccia l'ultima volta.»


«Capisco.» Eragon si rigirò il calice fra le mani, osservando come la luce si rifrangeva attraverso il cristallo. «E poi cosa accadde?»


«Poi» disse Oromis «accadde che uno degli agenti di Brom a Teirm prese contatto con un giovane studioso di nome Jeod che desiderava unirsi ai Varden e che sosteneva di avere prova dell'esistenza di un tunnel segreto che conduceva alla parte del castello di Urû'baen costruita dagli elfi. Brom pensò a ragione che la scoperta di Jeod era troppo importante per trascurarla, così fece i bagagli, salutò gli altri servitori e partì alla volta di Teirm il più in fretta possibile.»


«E mia madre?»


«Era partita un mese prima per una nuova missione per conto di Morzan.»


Sforzandosi di unire in una visione d'insieme tutti i racconti frammentari ascoltati da persone diverse, Eragon disse: «E così... Brom s'incontrò con Jeod e quando si fu convinto che il tunnel c'era davvero, fece in modo che uno dei Varden cercasse di rubare le tre uova di drago che Galbatorix teneva a Urû'baen.»


Il volto di Oromis si adombrò. «Purtroppo, per ragioni che non sono mai state chiarite del tutto, l'uomo che scelsero per il compito, un certo Hefring di Furnost, riuscì a rubare un solo uovo, quello di Saphira, dal tesoro di Galbatorix. Però, una volta messe le mani sull'uovo, fuggì sia dai Varden che dai servi di Galbatorix. Vistosi tradito, Brom fu costretto a passare sette mesi in cerca di Hefring, battendo il paese in lungo e in largo nel disperato tentativo di recuperare Saphira.»


«In quell'arco di tempo mia madre andò in segreto a Carvahall dove mi diede alla luce cinque mesi dopo?»


Oromis annuì. «Tu eri stato concepito poco prima che tua madre partisse per la sua ultima missione. Quindi Brom non sapeva niente delle sue condizioni mentre inseguiva Hefring e l'uovo di Saphira. Quando alla fine Brom e Morzan si affrontarono a Gil'ead, Morzan chiese a Brom se fosse lui il responsabile della scomparsa della Mano Nera. È comprensibile che Morzan sospettasse il coinvolgimento di Brom, visto che a lui si doveva la morte di diversi Rinnegati. Dal canto suo, Brom dedusse che era successo qualcosa di terribile a tua madre. In seguito mi raccontò che fu proprio quella convinzione a dargli la forza e il coraggio necessari a uccidere Morzan e il suo drago. Una volta che li ebbe sconfitti, Brom prese dal cadavere di Morzan l'uovo di Saphira - perché Morzan aveva trovato Hefring e gli aveva sottratto l'uovo - e poi lasciò la città, fermandosi solo per nascondere Saphira dove sapeva che i Varden l'avrebbero trovata.»


«Allora è per questo che Jeod pensava che Brom fosse morto a Gil'ead» disse Eragon.


Ancora una volta Oromis annuì. «Pieno di paura, Brom non osò aspettare i compagni. Anche nell'ipotesi che tua madre fosse viva e stesse bene, Brom temeva che Galbatorix decidesse di fare di Selena la propria Mano Nera, e a quei punto lei non avrebbe mai più avuto la possibilità di sfuggire all'Impero.»


Eragon sentì salire le lacrime agli occhi. Quanto doveva amarla Brom per abbandonare tutto e tutti non appena seppe che lei era in pericolo.


«Da Gil'ead, Brom cavalcò fino al castello di Morzan, fermandosi solo per dormire. Ma per quanto spingesse il cavallo al galoppo sfrenato, fu comunque troppo lento. Quando arrivò al castello, scoprì che tua madre era tornata due settimane prima, malata e indebolita dal suo misterioso viaggio. I guaritori di Morzan avevano cercato di salvarla, ma nonostante i loro sforzi, lei era morta solo un paio d'ore prima che Brom arrivasse.»


«Così non la rivide?» chiese Eragon, con un nodo alla gola.


«No, mai più.» Oromis fece una pausa e la sua espressione si addolcì. «Credo che perderla sia stato per Brom un dolore immenso, paragonabile solo a quello che provò alla morte del suo drago. Un dolore che spense gran parte del fuoco che gli ardeva nell'anima. Tuttavia non si arrese, né impazzì di rabbia come gli era capitato dopo che i Rinnegati avevano ucciso l'omonima di Saphira. Decise invece di scoprire la ragione della morte di tua madre e di punire, se possibile, i responsabili. Interrogò i guaritori di Morzan e li obbligò a descrivere i disturbi di tua madre. Dai loro racconti, e dai pettegolezzi che circolavano fra la servitù del castello, Brom arguì la verità sulla gravidanza di tua madre. Animato dalla speranza, cavalcò fino all'unico posto dove sapeva di dover cercare: la casa di tua madre a Carvahall. E lì ti trovò, affidato alle cure dei tuoi zii.


«Tuttavia Brom non rimase a Carvahall. Non appena si fu assicurato che nessuno a Carvahall sapesse che tua madre era stata la Mano Nera e che tu non eri in imminente pericolo di vita, tornò in segreto nel Farthen Dûr, dove si rivelò a Deynor, all'epoca capo dei Varden. Deynor fu sorpreso di vederlo perché fino a quel momento tutti avevano creduto che fosse morto a Gil'ead. Brom lo convinse a tenere nascosta la sua esistenza, tranne che a poche persone scelte, e poi...»


Eragon alzò un dito. «Ma perché? Perché fingere di essere morto?»


«Brom voleva vivere abbastanza per istruire il nuovo Cavaliere, e sapeva che l'unico modo per evitare di essere assassinato per aver ucciso Morzan era che Galbatorix lo credesse già morto e sepolto. Per giunta, Brom non voleva attirare l'attenzione su Carvahall. Intendeva stabilirsi lì per starti vicino, come appunto fece, ma non voleva che l'Impero venisse a sapere della tua esistenza.


«Mentre si trovava nel Farthen Dûr, Brom aiutò i Varden a negoziare l'accordo con la regina Islanzadi per la spartizione fra elfi e umani della custodia dell'uovo, e per l'addestramento del nuovo Cavaliere se e quando l'uovo si fosse schiuso. Poi accompagnò Arya nel suo viaggio dal Farthen Dûr a Ellesméra con l'uovo. Quando arrivò, raccontò a Glaedr e a me quello che io ti sto dicendo adesso, affinché non andasse perduta la verità sul vostro legame di parentela nel caso che lui fosse morto. Quella fu l'ultima volta che lo vidi. Da Ellesméra, Brom tornò a Carvahall dove si presentò come bardo e cantastorie. Tu sai meglio di me che cosa accadde in seguito.»


Oromis tacque e per un momento nessuno parlò.


Lo sguardo fisso a terra, Eragon ripensò a tutto quello che Oromis aveva detto e cercò di capire i propri sentimenti. Alla fine disse: «Ed è davvero Brom mio padre, non Morzan? Voglio dire, se mia madre era la compagna di Morzan, allora...» Lasciò la frase in sospeso, troppo imbarazzato per continuare.


«Tu sei figlio di tuo padre» disse Oromis «e tuo padre è Brom. Su questo non c'è ombra di dubbio.»


«Nessuno?»


Oromis scosse il capo. «Nessuno.»


Eragon si sentì girare la testa e si accorse che stava trattenendo il fiato. Con un lungo respiro, disse: «Credo di capire perché...» S'interruppe per riempire i polmoni. «... perché Brom non mi ha detto niente prima che trovassi l'uovo di Saphira. Ma perché non mi ha detto niente nemmeno dopo? E perché costrinse voi e Saphira al segreto? Non mi voleva come figlio? Si vergognava di me?»


«Non posso fingere di sapere le ragioni di tutto quello che ha fatto Brom, Eragon. Ma di una cosa sono sicuro: Brom non avrebbe desiderato altro che chiamarti figlio e allevarti, ma non osò rivelare la vostra parentela nel timore che l'Impero lo scoprisse e cercasse di ferirlo attraverso di te. E tutto considerato la sua prudenza fu più che motivata. Guarda come Galbatorix ha cercato di catturare tuo cugino Roran per costringerti alla resa.»


«Però avrebbe potuto dirlo a mio zio» protestò Eragon. «Garrow non lo avrebbe mai venduto all'Impero.»


«Riflettici, Eragon. Se tu fossi cresciuto con Brom e voci sulla sua sopravvivenza avessero raggiunto le orecchie delle spie di Galbatorix, sareste dovuti fuggire entrambi da Carvahall per salvarvi la vita. Tenendoti nascosta la verità, Brom sperava di proteggerti da questi pericoli.»


«Però non c'è riuscito, e siamo comunque dovuti fuggire da Carvahall.»


«Già» disse Oromis. «L'errore di Brom, se vogliamo considerarlo tale, anche se io credo abbia portato più bene che male, è stato di non riuscire a separarsi del tutto da suo figlio. Se avesse avuto la forza di resistere all'impulso di tornare a Carvahall, tu non avresti mai trovato l'uovo di Saphira e i Ra'zac non avrebbero ucciso tuo zio; molte cose che non sono successe sarebbero successe, e molte cose che sono successe non sarebbero successe. Ma Brom non ha potuto estirparti dal suo cuore.»


Eragon serrò la mascella, scosso dai brividi. «E quando seppe che Saphira si era schiusa per me?»


Oromis esitò e la sua espressione serafica in qualche modo s'incrinò. «Non ne sono sicuro, Eragon. Può darsi che Brom volesse ancora proteggerti dai suoi nemici, e che non te l'abbia rivelato per la stessa ragione per cui non ti ha portato direttamente dai Varden: perché sarebbe stato troppo per te. Forse aveva intenzione di dirtelo poco prima di raggiungere i Varden. Se vuoi la mia opinione, però, credo che Brom abbia tenuto la bocca chiusa non perché si vergognava di te, ma perché si era abituato a vivere con i suoi segreti ed era restio a separarsene. E perché, ma questa non è che una congettura, non era sicuro di come avresti reagito alle sue parole. Secondo quanto dici tu stesso, non vi conoscevate molto bene prima di fuggire insieme da Carvahall. È possibile che avesse paura che tu lo avresti odiato se ti avesse rivelato di essere tuo padre.»


«Odiato?» esclamò Eragon. «Non lo avrei mai odiato, anche se... forse non gli avrei creduto.»


«E ti saresti fidato di lui dopo una simile rivelazione?»


Eragon si morse l'interno della guancia. No, non mi sarei fidato.


Oromis proseguì. «Brom fece del suo meglio, date le circostanze più che difficili. Prima di tutto doveva tenervi entrambi in vita, e istruirti e consigliarti perché non usassi i tuoi poteri per scopi egoistici come Galbatorix. In questo Brom se l'è cavata egregiamente. Può darsi che non sia stato il padre che volevi che fosse, ma ti ha lasciato un'eredità quale nessun figlio ha mai ricevuto.»


«Non ha fatto niente più di quanto avrebbe fatto per chiunque fosse diventato il nuovo Cavaliere.»


«Questo non ne sminuisce il valore» osservò Oromis. «Ma ti sbagli: Brom ha fatto per te più di quanto avrebbe fatto per chiunque altro. Per convincerti, ti basti pensare a come si è sacrificato per salvarti la vita.»


Con l'unghia dell'indice destro Eragon giocherellò col bordo del tavolo, seguendo un piccolo rilievo formato da uno degli anelli del legno. «È stato davvero un caso che Arya mi abbia mandato Saphira?»


«Sì» confermò Oromis. «Un caso, ma non una coincidenza. Invece di mandare l'uovo al padre, Arya l'ha fatto comparire davanti al figlio.»


«Com'è possibile, se non sapeva della mia esistenza?»


Oromis si strinse nelle spalle ossute. «Nonostante migliaia di anni di studio, ancora non sappiamo predire o spiegare tutti gli effetti della magia.»


Eragon continuò a passare il dito sul piccolo rilievo nel tavolo. Ho un padre, pensò. L'ho visto morire e non avevo idea di chi fosse... «I miei genitori» disse un attimo dopo «si sono mai sposati?»


«So perché lo chiedi, Eragon, e non so se la mia risposta ti soddisferà. Il matrimonio non è un'usanza elfica, e le sue sottigliezze spesso mi sfuggono. Nessuno ha unito le mani di Brom e Selena in matrimonio, ma so che loro si consideravano marito e moglie. Se sei saggio, non devi temere che gli altri della tua razza ti chiamino bastardo, ma devi essere contento di sapere che sei figlio dei tuoi genitori, e che entrambi hanno dato la vita perché tu potessi vivere.»


Eragon fu sorpreso dalla propria calma. Per tutta la vita aveva fatto ipotesi sull'identità di suo padre. Quando Murtagh gli aveva detto che era Morzan, la rivelazione lo aveva sconvolto quanto la morte di Garrow. Anche quando Glaedr aveva dichiarato che suo padre invece era Brom, Eragon era rimasto colpito allo stesso modo, ma il trauma non era durato a lungo, forse perché questa volta la notizia non era così terribile. Nella sua strana calma, pensò che avrebbe potuto impiegare anni prima di essere certo dei propri sentimenti verso i genitori. Mio padre era un Cavaliere e mia madre la compagna e la Mano Nera di Morzan.


«Potrò dirlo a Nasuada?» chiese.


Oromis aprì le mani. «Dillo a chi vuoi; puoi fare quello che ti pare col tuo segreto. Dubito che correresti più rischi di quanti già non ne corri adesso, se anche tutto il mondo sapesse che sei il figlio di Brom.»


«Murtagh» disse Eragon. «Lui è convinto che siamo veri fratelli. Me l'ha detto nell'antica lingua.»


«E sono sicuro che anche Galbatorix lo pensa. Sono stati i Gemelli a scoprire che tua madre e la madre di Murtagh erano la stessa persona, e l'hanno riferito al re. Ma non hanno potuto informarlo del coinvolgimento di Brom, perché nessuno fra i Varden ne era a conoscenza.»


Eragon levò lo sguardo verso la coppia di rondini che volteggiava sulle loro teste e si concesse un sorriso beffardo.


«Perché sorridi?» gli chiese Oromis.


«Non sono certo che capiresti.»


L'elfo si strinse le mani in grembo. «È vero, forse non capirei. Ma non potrai mai saperlo se almeno non provi a spiegarlo.»


Eragon impiegò qualche istante a trovare le parole. «Quando ero più giovane, prima di tutto questo» e fece un ampio gesto per indicare Saphira e Oromis e Glaedr e il mondo in generale «mi divertivo a immaginare che, a causa della sua grande bellezza e intelligenza, mia madre fosse stata portata nelle corti dei nobili di Galbatorix. Immaginavo che avesse viaggiato di città in città, e cenato con i conti e le dame nei loro castelli e che... be', che si fosse innamorata perdutamente di un uomo ricco e potente ma che, per qualche ragione, fosse stata costretta a nascondermi a lui e ad affidarmi a Garrow e a Marian, e che un giorno sarebbe tornata per dirmi chi ero e che non aveva mai voluto separarsi da me.»


«Non è tanto diverso da ciò che è successo» disse Oromis.


«No, infatti, ma... immaginavo che mia madre e mio padre fossero persone importanti e che anche io in qualche modo lo fossi. Il destino mi ha concesso ciò che volevo, ma la verità non è così grandiosa e felice come credevo. Ecco perché sorridevo. Sorridevo della mia inconsapevolezza, e di quanto era improbabile tutto quello che invece mi è capitato.»


Una leggera brezza soffiò sulla radura, facendo frusciare l'erba ai loro piedi e agitare i rami della foresta. Eragon osservò l'erba ondeggiare per qualche istante, poi chiese in tono sommesso: «Mia madre era una brava persona?»


«Non posso saperlo, Eragon. La sua è stata una vita complicata. Sarebbe sciocco e arrogante da parte mia pensare di poter giudicare una persona di cui so così poco.»


«Ma io ho bisogno di sapere!» Eragon congiunse le mani, premendo le dita fra i calli sulle nocche. «Quando chiesi a Brom se la conosceva, lui disse che era una donna fiera e dignitosa e che aiutava sempre i poveri e quelli meno fortunati di lei. Ma come poteva? Come poteva essere quella persona e al contempo la Mano Nera? Jeod mi ha raccontato certe cose... cose orribili, tremende... che lei ha fatto mentre era al servizio di Morzan. Era cattiva, allora? Non le importava che fosse Galbatorix a governare? E soprattutto, perché seguì Morzan?»


Oromis tacque un istante. «L'amore può essere una maledizione terribile, Eragon. È capace di renderti cieco e non farti vedere i più grandi difetti di una persona. Dubito che tua madre fosse del tutto consapevole della vera natura di Morzan quando lasciò Carvahall per andare con lui, e in seguito lui non le permise più di disobbedire ai suoi ordini. Divenne la sua schiava in tutto e per tutto, e fu solo cambiando la propria identità che poté sfuggire al suo controllo.»


«Ma Jeod ha detto che lei provava piacere a fare quello che faceva come la Mano Nera.»


Una lieve espressione di sdegno alterò i lineamenti di Oromis. «I racconti delle atrocità passate spesso sono esagerati e distorti, faresti bene a ricordartelo. Nessuno tranne tua madre sa esattamente ciò che fece o perché o che cosa provava al riguardo, e lei non è più tra i vivi per raccontarlo.»


«Ma a chi dovrei credere?» implorò Eragon. «A Brom o a Jeod?»


«Quando hai chiesto a Brom di tua madre, lui ti ha detto quelle che pensava fossero le sue principali qualità. Il mio consiglio è di fidarti di lui, che la conosceva a fondo. Se questo non risolve i tuoi dubbi, ricorda che qualunque crimine lei abbia commesso mentre agiva come la Mano di Morzan, alla fine passò dalla parte dei Varden e fece di tutto per proteggerti. Sapendo questo, non dovresti tormentarti oltre sulla natura del suo carattere.»


Spinto dalla brezza, un ragno appeso a un filo di seta passò davanti agli occhi di Eragon, dondolando avanti e indietro su invisibili correnti d'aria. Quando il ragno fu sparito dalla visuale, Eragon disse: «La prima volta che siamo stati a Tronjheim, Angela l'indovina mi ha detto che era il wyrd di Brom fallire in ogni cosa che tentava, tranne che nell'uccidere Morzan.»


Oromis inclinò il capo. «Qualcuno potrebbe pensarla così. Qualcun altro potrebbe concludere che Brom realizzò tante cose importanti e difficili. Dipende da come scegli di vedere il mondo. Di rado le parole degli indovini sono facili da decifrare. Secondo la mia esperienza, le loro predizioni non portano mai alla pace della mente. Se vuoi essere felice, Eragon, non pensare a quello che sarà o a quello su cui non hai controllo, ma pensa piuttosto al momento presente, e a quello che sei in grado di cambiare.»


Eragon fu attraversato da un pensiero. «Blagden» disse, riferendosi al corvo bianco compagno della regina Islanzadi. «Anche lui sa di Brom, è così?»


Oromis inarcò un sopracciglio sottile. «Davvero? Io non gliene ho mai parlato. È una creatura volubile, su cui non si può fare affidamento.»


«Il giorno in cui io e Saphira siamo partiti per le Pianure Ardenti, mi recitò un indovinello. Non ricordo ogni verso con precisione, ma era qualcosa su uno di due che è uno, mentre uno potrebbe essere due. Forse alludeva al fatto che Murtagh e io condividiamo soltanto uno dei genitori.»


«Può essere» disse Oromis. «Blagden era qui a Ellesméra quando Brom mi raccontò di te. Non mi sorprenderebbe scoprire che quel ladro dal becco affilato si era appollaiato su un albero vicino durante la nostra conversazione: ha il brutto vizio di origliare. Ma può darsi che l'indovinello sia stato il risultato di uno dei suoi sporadici attacchi di preveggenza.»


Glaedr si mosse, e Oromis si volse a guardare il drago dorato. L'elfo si alzò dalla sedia con un movimento fluido, dicendo: «Frutta, noci e pane vanno bene per placare la fame, ma dopo un viaggio del genere dovresti mangiare qualcosa di più sostanzioso. Ho una zuppa sul fuoco che richiede la mia attenzione. Non scomodarti, prego, te la porto non appena è pronta.» Con passo felpato, Oromis si avviò alla capanna coperta di corteccia e scomparve all'interno. Non appena la porta intagliata si chiuse alle sue spalle, Glaedr sospirò e abbassò le palpebre, come se volesse dormire.


Regnò il silenzio, interrotto soltanto dal fruscio dei rami scossi dal vento.

L'EREDITÀ

Eragon rimase seduto al tavolo rotondo per diversi minuti, poi si alzò e camminò fino al ciglio della rocca di Tel'naeír, dove guardò la foresta che si estendeva un migliaio di piedi sotto di lui. Con la punta di uno stivale spinse giù un ciottolo e lo osservò rimbalzare lungo la parete di roccia finché non scomparve inghiottito dagli alberi.

Un ramo si spezzò quando Saphira gli si avvicinò da dietro e si accovacciò al suo fianco. Le squame della dragonessa lo inondarono di centinaia di riflessi azzurrini. Lei guardò dalla stessa parte e gli chiese: Sei arrabbiato con me?

No, figurati. Capisco che non potevi rompere un giuramento fatto nell'antica lingua... Solo, avrei voluto che fosse stato Brom a dirmelo e che non avesse sentito il bisogno di nascondermi la verità.

Saphira volse la testa verso di lui. Come ti senti, Eragon?


Lo sai bene.


Fino a qualche minuto fa sì, ma ora non più. Sei diventato immobile, e

guardare nella tua mente è come sbirciare in un lago troppo profondo per poterne scorgere il fondo. Che cosa c'è dentro di te, piccolo mio? Rabbia? Felicità? O non hai emozioni da condividere?

Dentro di me c'è rassegnazione, disse lui, voltandosi a guardarla. Non posso cambiare chi sono i miei genitori; mi ci ero già rassegnato dopo le Pianure Ardenti. Quello che è, è. E non serve a niente digrignare i denti dalla rabbia. Sono... contento, immagino, che Brom sia mio padre. Ma non ne sono sicuro... È una cosa troppo grande da accettare tutta insieme.

Magari quello che ho da darti ti aiuterà. Vorresti vedere il ricordo che Brom ha lasciato per te, o preferisci aspettare?


No, niente attese, disse lui. Se rimandiamo, potrebbe non esserci più un'altra occasione.


Allora chiudi gli occhi e lascia che ti mostri ciò che accadde una volta.


Eragon fece come lei gli aveva detto, e da Saphira cominciò a fluire una corrente di sensazioni: paesaggi, rumori, odori, e altro ancora, tutto quello che lei aveva sperimentato al momento del ricordo.


Davanti a sé Eragon vide una radura nella foresta, da qualche parte fra le colline ai piedi del versante occidentale della Grande Dorsale. L'erba era fitta e rigogliosa, e festoni di licheni giallognoli pendevano dagli alti alberi inclinati, coperti di muschio. Per via delle piogge che dall'oceano arrivavano nell'entroterra, lì i boschi erano molto più verdi e umidi di quelli della Valle Palancar. Visti attraverso gli occhi di Saphira, i verdi e i rossi erano più attenuati di come sarebbero apparsi agli occhi di Eragon, mentre ogni sfumatura di blu risplendeva più intensa del normale. L'odore del terreno umido e del legno marcio impregnava l'aria.


Al centro della radura c'era un albero caduto, e sopra l'albero caduto era seduto Brom.


Il cappuccio del mantello era gettato all'indietro in modo da lasciargli il capo scoperto. Aveva la spada adagiata in grembo. Il bastone contorto, inciso di rune, era appoggiato al tronco. L'anello Aren scintillava sulla sua mano destra.


Per un lungo momento Brom rimase immobile, poi rivolse gli occhi socchiusi al cielo e il suo naso aquilino gettò una lunga ombra sul volto. Risuonò la sua voce rauca, ed Eragon vacillò, sentendosi fuori dal tempo.


"Il sole sempre traccia il suo arco da orizzonte a orizzonte, e la luna sempre lo segue, e i giorni sempre si susseguono l'uno dopo l'altro, indifferenti alle vite che consumano." Abbassando gli occhi, Brom guardò dritto verso Saphira e, attraverso di lei, verso Eragon. "Malgrado gli sforzi, nessun essere sfugge alla morte per sempre, nemmeno gli elfi o gli spiriti. Per tutto c'è una fine. Se mi stai guardando, Eragon, allora la mia fine è giunta e io sono morto e tu sai che io sono tuo padre."


Da una saccoccia legata al fianco, Brom trasse la sua pipa, la riempì d'erba di cardo e l'accese, mormorando piano: "Brisingr." Aspirò diverse volte per far prendere la fiamma prima di ricominciare a parlare. "Se mi stai vedendo, Eragon, spero che tu sia felice e in salute, e che Galbatorix sia morto. Anche se penso che sia poco probabile; dopotutto sei un Cavaliere dei Draghi e un Cavaliere dei Draghi non potrà mai riposare finché ci sarà ingiustizia sulla terra."


Gli sfuggì un risolino mentre scuoteva il capo, la barba che ondeggiava come acqua. "Ah, non ho tempo per dire nemmeno la metà di ciò che vorrei: avrei il doppio dell'età che ho adesso prima di arrivare alla fine. Per amore di brevità, darò per scontato che Saphira ti abbia già parlato di come tua madre e io ci siamo conosciuti, di come Selena morì e di come mi ritrovai a Carvahall. Vorrei che tu e io avessimo questa conversazione a faccia a faccia, Eragon, e forse l'avremo, e Saphira non avrà bisogno di condividere questo ricordo con te, ma ne dubito. Le sofferenze dei miei anni mi pesano, Eragon, e sento scorrermi nelle membra un freddo che non ho mai provato prima. Credo che sia perché adesso le cose sono passate nelle tue mani. Ci sono ancora molte cose che spero di realizzare, ma nessuna per me stesso, solo per te, e tu arriverai a eclissare tutto ciò che ho fatto. Ne sono sicuro. Tuttavia, prima che la tomba si chiuda su di me, volevo almeno per una volta poterti chiamare figlio... Mio figlio... Da quando sei nato, Eragon, ho desiderato rivelarti chi fossi. È stato un piacere impareggiabile per me guardarti crescere, ma anche una tortura impareggiabile, per via del segreto che serbavo nel cuore."


Brom scoppiò a ridere, un suono aspro e secco. "Be', a quanto pare non sono riuscito a tenerti al sicuro dall'Impero, vero? Se ancora ti chiedi chi sia responsabile della morte di Garrow, non devi cercarlo altrove, perché siede qui. È stata la mia idiozia. Non sarei mai dovuto tornare a Carvahall. E ora guarda: Garrow è morto, e tu sei un Cavaliere dei Draghi. Ti avverto, Eragon, attento alla persona di cui ti innamori, perché il destino sembra riservare un morboso interesse per la nostra famiglia."


Stringendo le labbra attorno al cannello della pipa, Brom trasse qualche boccata d'erba di cardo, soffiando da un lato il fumo bianco. L'odore pungente arrivò forte nelle narici di Saphira.


"Ho la mia parte di rimpianti, ma tu non sei uno di essi, Eragon. Potrai anche fare delle sciocchezze ogni tanto, come lasciar scappare quei maledetti Urgali, ma non sei più idiota di me alla tua età." Annuì. "Anzi, sei molto meno idiota, direi. Sono orgoglioso di averti come figlio. Più orgoglioso di quanto tu possa immaginare. Non avrei mai pensato che saresti diventato un Cavaliere come me, né desideravo questo futuro per te, ma vederti con Saphira, ah, mi fa venir voglia di cantare al sole come un gallo."


Brom trasse un'altra boccata. "Capisco che potresti essere arrabbiato perché ho tenuto questo segreto. Non posso dire che sarei stato felice di scoprire il nome di mio padre in questo modo. Ma che ti piaccia o no, siamo una famiglia, tu e io. E visto che non ho potuto riservarti le attenzioni che avrei dovuto come padre, ti darò invece la sola cosa che posso darti, ed è un consiglio. Odiami se vuoi, Eragon, ma ascolta bene quello che ti dirò, perché so di che cosa parlo."


Con la mano libera, Brom strinse il fodero della spada, le vene gonfie sul dorso della mano. Sistemò la pipa a un angolo della bocca. "Bene. Il mio è un duplice consiglio. Qualunque cosa tu faccia, proteggi le persone che ami. Senza di loro, la vita è più misera di quanto tu possa immaginare. È una cosa ovvia, lo so, ma non per questo meno vera. Questa è la prima parte del mio consiglio. Quanto al resto... Se sei tanto fortunato da aver già ucciso Galbatorix, o se qualcuno è già riuscito a tagliare la gola di quel traditore, allora, congratulazioni. In caso contrario, ricorda che Galbatorix è il tuo più grande e pericoloso nemico. Fino al giorno della sua morte, né tu né Saphira avrete pace. Potete nascondervi negli angoli più sperduti della terra, ma a meno che non vi uniate all'Impero, un giorno sarete costretti ad affrontare Galbatorix. Mi dispiace, Eragon, ma questa è la verità. Ho combattuto contro molti maghi e diversi Rinnegati, e finora ho sempre sconfitto i miei avversari." Le rughe sulla sua fronte si fecero più profonde. "Be', tranne una volta, ma è successo perché non ero ancora del tutto maturo. Comunque la ragione per cui ho sempre vinto è che uso il cervello, a differenza di molti. Non sono un grande stregone, e nemmeno tu lo sei in confronto a Galbatorix, ma quando si tratta di un duello fra maghi, l'intelligenza è più importante della forza. Per sconfiggere un altro mago non bisogna scagliarsi alla cieca contro la sua mente. No! Per assicurarti la vittoria, devi capire come il tuo nemico interpreta le informazioni e reagisce. Soltanto allora capirai qual è il suo punto debole, e lì colpirai. Il trucco non è inventare un incantesimo a cui nessuno ha mai pensato; il trucco è trovare un incantesimo che il tuo nemico ha trascurato e usarlo contro di lui. Il trucco non è aprire una breccia nelle difese della sua mente; il trucco è scivolare sotto o intorno a quelle barriere. Nessuno è onnisciente, Eragon. Ricordatelo. Galbatorix potrà anche avere un potere immenso, ma non può prevedere ogni possibilità. Qualunque cosa tu faccia, devi continuare a pensare in maniera fluida, libera. Non ti aggrappare a una convinzione tanto da tralasciare altre possibilità. Galbatorix è pazzo, quindi imprevedibile, ma nei suoi ragionamenti ci sono delle falle che in una persona normale non ci sono. Se riesci a trovarle, Eragon, forse allora tu e Saphira potrete sconfiggerlo."


Brom abbassò la pipa, serio in volto. "Spero che ce la facciate. Il mio più grande desiderio è che tu e Saphira viviate una vita lunga e feconda, libera dalla paura di Galbatorix e dell'Impero. Vorrei poterti proteggere da tutti i pericoli che ti minacciano, ma ahimè, non è nelle mie possibilità. Quello che posso fare è darti il mio consiglio e insegnarti ciò che posso ora, mentre sono ancora qui... figlio mio. Qualunque cosa ti succeda, sappi che ti voglio bene e che anche tua madre te ne voleva. Che le stelle ti proteggano, Eragon Bromsson."


Mentre le sue ultime parole riecheggiavano nella mente di Eragon, il ricordo si dissolse lasciandosi dietro una vuota oscurità. Eragon aprì gli occhi e con un certo imbarazzo si accorse che lacrime gli scorrevano lungo le guance. Proruppe in una risatina soffocata e si asciugò col bordo della tunica. Brom temeva davvero che l'odiassi, disse, e tirò su col naso.


Sei più tranquillo adesso? chiese Saphira.


Sì, disse Eragon, e levò il capo. Penso proprio di sì. Alcune delle cose che ha fatto Brom non le condivido, ma sono fiero di chiamarlo padre e di portare il suo nome. Era un grande uomo... Mi addolora soltanto di non aver avuto la possibilità di parlare con i miei genitori da figlio.


Almeno hai potuto passare del tempo con Brom. Io non ho avuto la stessa fortuna. Sia mio padre che mia madre sono morti molto tempo prima che il mio uovo si schiudesse. Tutto quello che ho avuto sono i ricordi confusi di Glaedr.


Eragon le posò una mano sul collo e si consolarono a vicenda, contemplando la foresta degli elfi dal ciglio della rupe di Tel'naeír.


Poco dopo, Oromis emerse dalla capanna con due scodelle di zuppa, ed Eragon e Saphira voltarono le spalle alla rupe e lentamente tornarono al piccolo tavolo davanti all'immensa mole di Glaedr.

ANIME DI PIETRA

Quando Eragon spinse da parte la scodella ormai vuota, Oromis disse calmo: «Ti piacerebbe vedere un fairth di tua madre?»


Eragon rimase per un istante impietrito, sorpreso. «Sì, moltissimo.»


Dalle pieghe della tunica bianca Oromis trasse una tavoletta sottile di ardesia grigia e gliela passò.


Eragon accarezzò la pietra fredda e levigata. Sapeva che dall'altro lato avrebbe trovato una perfetta immagine di sua madre, dipinta per magia da un elfo con dei pigmenti fissati sull'ardesia molti anni prima. Ebbe un brivido d'inquietudine: aveva sempre desiderato vedere sua madre, ma ora che gli si presentava l'opportunità aveva paura di restare deluso. Facendo uno sforzo, voltò la lastra di ardesia e colse - chiara come vista da una finestra - l'immagine di un giardino di rose rosse e bianche illuminate dai pallidi raggi dell'alba. Un sentiero di ghiaia correva attraverso le aiuole di rose, e al centro del sentiero c'era una donna inginocchiata, con le mani a coppa intorno a una rosa bianca che annusava, gli occhi chiusi, l'ombra di un sorriso sulle labbra. È bellissima, pensò. La sua espressione era tenera e dolce, anche se portava indumenti di pelle imbottiti, bracciali e schinieri anneriti, una spada e un pugnale alla cintola. Nella forma del suo volto Eragon scorse un accenno dei propri tratti, e anche una certa rassomiglianza con Garrow, il fratello di lei.


L'immagine era affascinante. Posò la mano sulla superficie del fairth: avrebbe dato qualsiasi cosa per potervi penetrare e toccarle il braccio.


Mamma.


Oromis disse: «Brom mi ha dato il fairth perché lo custodissi, prima di partire per Carvahall, e ora io lo do a te.»


Senza alzare lo sguardo, Eragon disse: «Puoi continuare a conservarlo per me? Ho paura di romperlo, con tutti i nostri viaggi e combattimenti.»


La pausa che seguì catturò l'attenzione di Eragon. Alzò lo sguardo dal ritratto della madre e notò che Oromis aveva l'aria melanconica e preoccupata. «No, Eragon, non posso. Dovrai trovare un modo per portare il fairth con te.»


Perché? avrebbe voluto chiedere Eragon, ma la tristezza negli occhi di Oromis lo dissuase.


Poi il vecchio elfo disse: «Non potrai restare qui a lungo, e abbiamo ancora molte cose di cui discutere. Devo indovinare di quale argomento vuoi parlare adesso, o me lo dici?»


A malincuore, Eragon posò il fairth sul tavolo a faccia in giù. «Tutte e due le volte che ci siamo battuti con Murtagh e Castigo, Murtagh si è mostrato molto più potente di quanto dovrebbe essere un qualsiasi umano. Sulle Pianure Ardenti ci ha sconfitti perché io e Saphira non ci eravamo resi conto della sua forza. Se il suo cuore non avesse ceduto per quel breve istante, a quest'ora saremmo prigionieri a Urû'baen. Una volta mi hai detto che sai come Galbatorix è diventato tanto potente. Vuoi dircelo adesso, maestro? Per la nostra sicurezza, dobbiamo saperlo.»


«Non spetta a me dirvelo» rispose Oromis.


«E allora a chi?» domandò Eragon. «Non puoi...»


Alle spalle di Oromis, Glaedr aprì uno dei suoi liquidi occhi profondi, largo quanto uno scudo rotondo, e disse: A me. La fonte del potere di Galbatorix risiede nei cuori dei draghi. Da noi ruba la sua forza. Senza il nostro aiuto, Galbatorix sarebbe stato sconfitto dagli elfi e dai Varden tanto tempo fa.


Eragon corrugò la fronte. «Non capisco. Perché mai aiutereste Galbatorix? E come potreste? Ci sono soltanto quattro draghi e un uovo in Alagaësia... o no?»


Molti dei draghi i cui corpi furono uccisi da Galbatorix e dai Rinnegati oggi sono ancora vivi.


«Ancora vivi...?» Sbigottito, Eragon scoccò un'occhiata a Oromis, ma l'elfo rimase in silenzio, il volto imperscrutabile. Ancora più sconcertante era il fatto che Saphira non sembrava condividere la sua confusione.


Il drago dorato appoggiò la testa sulle zampe per guardarlo meglio; le squame sfregarono l'una sull'altra. A differenza delle maggior parte delle creature, disse, la coscienza di un drago non risiede solo nel suo cranio. Nel nostro petto si trova un oggetto duro come una pietra preziosa, simile per composizione alle nostre squame, chiamato Eldunarí, che significa "il cuore dei cuori". Quando un drago nasce, il suo Eldunarí è vuoto e opaco. Di solito resta così per tutta la vita del drago e si dissolve insieme a lui quando muore. Tuttavia, se vogliamo, possiamo trasferire la nostra coscienza nell'Eldunarí. Allora esso acquista lo stesso colore delle nostre squame e comincia a risplendere come brace. In tal caso, l'Eldunarí supererà il decadimento della carne e l'essenza del drago potrà continuare a vivere all'infinito. Un drago può anche liberare il suo Eldunarí mentre è ancora in vita. Così facendo, il corpo di un drago e la sua coscienza possono esistere separatamente pur restando legati. Questo si rivela molto utile in determinate circostanze, ma ci espone anche a un grosso pericolo, perché chiunque possieda il nostro Eldunarí possiede anche la nostra anima, e può obbligarci a fare il suo volere, comprese le cose più terribili.


Le implicazioni delle parole di Glaedr sbalordirono Eragon. Spostando lo sguardo su Saphira, le domandò: Lo sapevi già?


Le squame del collo ondeggiarono quando la dragonessa fece uno strano movimento serpentino con la testa. Sono sempre stata consapevole del mio cuore dei cuori. L'ho sempre sentito dentro di me, ma non ho mai pensato di parlartene.


E perché no, dato che è così importante?


Ti verrebbe mai in mente di dire che possiedi uno stomaco, Eragon? O un cuore, o un fegato, o qualsiasi altro organo? Il mio Eldunarí è parte integrante del mio essere. Non ho mai considerato la sua esistenza degna di nota... almeno non fino a quando siamo venuti l'ultima volta a Ellesméra.


Allora sapevi tutto!


Sapevo qualcosa. Glaedr mi aveva accennato al fatto che il mio cuore dei cuori era molto più importante di quanto immaginassi, e mi avvertì di proteggerlo, per evitare di consegnarmi per sbaglio nelle mani dei nostri nemici. Più di questo non mi ha spiegato, ma da allora ho dedotto gran parte di quello che adesso ci ha rivelato.


Però hai continuato a pensare che non valesse la pena parlarmene? domandò Eragon.


Io volevo parlartene, ruggì lei, ma come per Brom, Glaedr mi chiese di giurare che non ne avrei parlato con nessuno, nemmeno con te.


E tu accettasti?


Mi fido di Glaedr e mi fido di Oromis. Perché, tu no?


Eragon si accigliò e si voltò verso l'elfo e il drago dorato. «Perché non ce lo avete svelato prima?»


Stappando il fiasco di vino, Oromis si riempì di nuovo il calice e disse: «Per proteggere Saphira.»


«Proteggerla? Da cosa?»


Da te, disse Glaedr. Eragon fu così stupito e offeso da non riuscire a protestare prima che Glaedr proseguisse. Allo stato selvatico, un drago veniva informato del suo Eldunarí da uno degli anziani quando era grande abbastanza da capirne l'uso. In questo modo, un drago non avrebbe infuso tutto se stesso nel suo cuore dei cuori senza comprendere l'enorme entità del suo gesto. All'epoca dei Cavalieri si diffuse una diversa consuetudine. I primi anni di collaborazione fra un drago e un Cavaliere sono fondamentali per creare un sano rapporto fra i due, e i Cavalieri scoprirono che era meglio aspettare che i nuovi Cavalieri e draghi si conoscessero bene prima d'informarli dell'Eldunarí. Altrimenti, nella sventata follia della giovinezza, un drago avrebbe potuto decidere di liberare il suo cuore dei cuori solo per affascinare o impressionare il proprio Cavaliere. Quando noi rinunciamo al nostro Eldunarí, rinunciamo all'incarnazione fisica del nostro stesso essere. E non possiamo rimetterlo al suo posto, nel nostro corpo, una volta che ne è uscito. Un drago non dovrebbe prendere alla leggera la separazione dalla propria coscienza, perché cambierà il modo in cui vivrà il resto della sua vita. Anche se dovesse durare per altri mille anni.


«Tu hai ancora dentro di te il tuo cuore dei cuori?» chiese Eragon.


L'erba intorno al tavolo si curvò sotto il getto d'aria bollente che eruttò dalle narici di Glaedr. Non dovresti fare questa domanda a nessun drago, se non a Saphira. Non farmela mai più, cucciolo d'uomo.


Sebbene il rimbrotto di Glaedr lo avesse fatto avvampare, Eragon ebbe la prontezza di rispondere come si conveniva, con un inchino della testa e le parole: «No, maestro.» Poi chiese: «Che cosa succede se l'Eldunarí si rompe?»


Se un drago ha già trasferito la propria coscienza nel suo cuore dei cuori, allora morirà di vera morte. Glaedr batté le ciglia con un sonoro schiocco, le palpebre che si aprirono e si chiusero rapidamente sull'iride screziata. Prima del nostro patto con gli elfi, tenevamo i nostri cuori nelle Du Fells Nàngoröth, le montagne al centro del deserto di Hadarac. Poi, dopo che i Cavalieri si furono stabiliti sull'isola di Vroengard ed ebbero costruito un deposito per gli Eldunarí, sia i draghi selvatici che i draghi con un Cavaliere affidarono i loro cuori ai Cavalieri perché li custodissero.


«Fu così dunque» disse Eragon «che Galbatorix s'impossessò degli Eldunarí?»


Contrariamente a quanto si aspettava, fu Oromis a rispondere. «Sì, ma non tutti. Era passato così tanto tempo da quando qualcuno aveva minacciato i Cavalieri che molti del nostro ordine avevano smesso di preoccuparsi di proteggere gli Eldunarí. All'epoca in cui Galbatorix si ribellò contro di noi, era abbastanza comune che il drago di un Cavaliere liberasse il proprio Eldunarí per pura praticità.»


«Praticità?»


Chiunque abbia uno dei nostri cuori, disse Glaedr, può comunicare con il drago cui appartiene, per quanto lontani siano. Tutta Alagaësia potrebbe separare un drago da un Cavaliere, e tuttavia se il Cavaliere ha con sé l'Eldunarí del drago, i due possono condividere i pensieri con la stessa facilità con cui comunicate tu e Saphira adesso.


«Inoltre» intervenne Oromis «un mago che possiede un Eldunarí può attingere alla forza del drago per arricchire i suoi incantesimi, ovunque si trovi quel drago. Quando...»


Un colibrì dai colori brillanti interruppe la conversazione sfrecciando sul tavolo. Con le ali velocissime che sembravano un'unica macchia pulsante, l'uccello si librò sulle scodelle di frutta e bevve avidamente il succo di un mirtillo schiacciato, poi si alzò in volo di scatto e scomparve fra i tronchi della foresta.


Oromis riprese a parlare. «Quando Galbatorix uccise il suo primo Cavaliere, rubò anche il cuore del suo drago. Nel corso degli anni in cui Galbatorix si diede alla macchia, spezzò la mente del drago e la piegò al suo volere, probabilmente con l'aiuto di Durza. E quando Galbatorix diede inizio alla vera insurrezione, con Morzan al suo fianco, era già più forte della maggior parte degli altri Cavalieri. La sua forza non era soltanto magica, ma anche mentale, perché la forza della coscienza dell'Eldunarí aumentava la sua.


«Galbatorix non cercò solo di uccidere i Cavalieri e i draghi. Il suo scopo era d'impossessarsi del maggior numero possibile di Eldunarí, o rubandoli ai Cavalieri, o torturando un Cavaliere finché il suo drago non cedeva il proprio cuore dei cuori. Quando ci rendemmo conto di quello che stava facendo, ormai era diventato troppo potente per fermarlo. Galbatorix fu aiutato dal fatto che molti Cavalieri viaggiavano non solo con l'Eldunarí del proprio drago, ma anche con gli Eldunarí di draghi il cui corpo non esisteva più, perché spesso si erano stancati di starsene rinchiusi in un deposito e desideravano l'avventura. E naturalmente, quando saccheggiò insieme ai Rinnegati la città di Doru Araeba, sull'isola di Vroengard, Galbatorix s'impossessò dell'intera collezione di Eldunarí lì custoditi.


«Galbatorix è riuscito ad arrivare dov'è oggi usando contro l'intera Alagaësia il potere e la saggezza dei draghi. All'inizio riusciva a controllare soltanto alcuni degli Eldunarí che aveva catturato. Non è facile sottomettere un drago, per quanto tu sia potente. Non appena Galbatorix sconfisse i Cavalieri e s'insediò sul trono di Urû'baen, si dedicò alla sottomissione del resto dei cuori, uno dopo l'altro.


«Riteniamo che il compito lo tenne occupato per i successivi quarant'anni, durante i quali si disinteressò agli affari di Alagaësia. È questo il motivo per cui il Surda riuscì a staccarsi dall'Impero. Quando ebbe finito, Galbatorix uscì dalla sua reclusione per riprendere il controllo dell'Impero e dei territori confinanti. Per chissà quale ragione, dopo due anni e mezzo di massacri e devastazioni si ritirò di nuovo a Urû'baen, e da allora lì è rimasto, concentrato su un progetto noto soltanto a lui. Sono molti i suoi vizi, ma non spreca il suo tempo nella dissolutezza. Questo è quanto le spie dei Varden hanno scoperto. Di più non sappiamo.»


Assorto nei suoi pensieri, Eragon guardava lontano. Finalmente tutte le storie che aveva sentito sul potere innaturale di Galbatorix acquistavano un senso. Si sentì rianimare da un lieve ottimismo, mentre diceva tra sé e sé: Non so come, ma se riuscissimo a sottrarre gli Eldunarí al suo controllo, Galbatorix non avrebbe più potere di un qualsiasi Cavaliere dei Draghi. Anche se era una piccola speranza, fu rincuorato dalla scoperta che il re aveva un punto debole, per quanto minimo.


Mentre continuava a riflettere, gli venne in mente un'altra domanda. «Perché nelle storie antiche non ho mai sentito parlare dei cuori dei draghi? I bardi e gli studiosi ne parlerebbero, se fossero così importanti.»


Oromis posò una mano sul tavolo e disse: «Di tutti i segreti di Alagaësia, quello degli Eldunarí è uno dei meglio custoditi, perfino fra la mia stessa gente. Da sempre i draghi hanno lottato per nascondere i loro cuori al resto del mondo. Ne rivelarono l'esistenza solo dopo il magico patto stretto fra le nostre due razze, e anche allora soltanto a pochi prescelti.»


«Ma perché?»


Ah, disse Glaedr, non ci piaceva il fatto di dover avere dei segreti, ma se l'esistenza degli Eldunarí fosse diventata di dominio pubblico, qualsiasi farabutto avrebbe tentato di rubarne uno e alla fine qualcuno ci sarebbe riuscito. Era un'eventualità da scongiurare a tutti i costi.


«C'è un modo in cui un drago si può difendere attraverso il proprio Eldunarí?» domandò Eragon.


L'occhio di Glaedr scintillò più del solito. Una domanda pertinente. Un drago che ha rigettato l'Eldunarí, ma che ha il corpo ancora vivo, può difendere il suo cuore con gli artigli e le zanne e la coda e le ali. Un drago il cui corpo e morto, ovviamente non ha mezzi per difenderlo. La sua unica arma e l'arma della mente e forse, se è il momento giusto, l'arma della magia, che però non sappiamo comandare a nostro piacimento. Questa è una delle ragioni per cui molti draghi scelsero di non prolungare la propria esistenza dopo la morte della carne. Non essere capace di muoverti quando vuoi, non poter percepire il mondo che ti circonda se non attraverso le menti degli altri, ed essere in grado di influenzare il corso degli eventi soltanto con i pensieri o con rari e imprevedibili lampi di magia... sarebbe un'esistenza difficile per qualunque creatura, ma lo è soprattutto per i draghi, che sono le più libere fra tutte le creature.


«Ma allora perché lo hanno fatto?» chiese Eragon.


A volte è successo per caso. Quando sentiva che il corpo stava per abbandonarlo, un drago poteva farsi prendere dal terrore e cercare rifugio nel suo Eldunarí. Oppure, quando un drago aveva espulso il proprio cuore prima di morire, non poteva far altro che continuare a esistere. Ma nella maggior parte dei casi i draghi che scelsero di vivere nel loro Eldunarí erano quelli vecchi oltre misura, persino più vecchi di quanto siamo io e Oromis adesso, tanto vecchi che la carne aveva smesso di avere importanza per loro e si erano chiusi in se stessi nella speranza di trascorrere il resto dell'eternità a riflettere su problemi che i più giovani non potevano comprendere. Noi onoravamo e tenevamo in gran conto i cuori dei cuori di quei draghi per la loro enorme saggezza e intelligenza. Era comune per i draghi selvatici e i draghi dei Cavalieri, come anche per i Cavalieri stessi, chiedere loro consiglio su questioni importanti. Che Galbatorix li abbia resi schiavi è un atto crudele e malvagio oltre ogni immaginazione.


Ho una domanda io, adesso, disse Saphira; i suoi pensieri pulsavano forte nella mente di Eragon. Se uno della nostra razza si confina nel suo Eldunarí, deve continuare a esistere o è possibile che, non sopportando più quella condizione, si separi dal mondo per passare nelle tenebre?


«Non può farlo da solo» disse Oromis. «A meno che un'improvvisa ispirazione magica non gli permetta di infrangere l'Eldunarí dall'interno, e a quanto ne so è accaduto molto di rado. L'unica alternativa è che il drago convinca qualcun altro a rompere l'Eldunarí per lui. Questa mancanza di controllo è un altro dei motivi per cui i draghi esitavano a trasferirsi nel cuore dei cuori: per paura di restare intrappolati in una prigione da cui non c'è scampo.»


Eragon percepì il disgusto di Saphira all'idea di fare una fine simile. Lei non ne parlò, e invece chiese: Quanti Eldunarí ha in suo potere Galbatorix?


«Non conosciamo il numero esatto» disse Oromis «ma stimiamo che siano molte centinaia.»


Un brivido di eccitazione percorse il corpo scintillante di Saphira. Quindi dopotutto la nostra razza non sta per estinguersi?


Oromis esitò, e fu Glaedr a rispondere. Piccola mia, disse, ed Eragon trasalì nell'udire quell'epiteto, anche se la terra fosse coperta di Eldunarí, la nostra razza sarebbe comunque condannata. Un drago conservato nel suo Eldunarí è sempre un drago, ma non possiede gli stimoli della carne né gli organi con cui soddisfarli: non può riprodursi.


Eragon sentì pulsare la base del cranio e cominciò ad avvertire il peso dei quattro giorni di viaggio. La stanchezza gli rendeva difficile trattenere un pensiero per più di qualche istante; alla minima distrazione gli scivolavano via dalla mente.


La punta della coda di Saphira si contrasse. Non sono così ignorante da credere che gli Eldunarí possano generare prole. Però mi conforta sapere che non sono così sola come pensavo una volta. La nostra razza potrà essere destinata all'estinzione, ma almeno ci sono più di quattro draghi vivi al mondo, che siano ancora nella loro carne oppure no.


«È vero» disse Oromis, «ma sono prigionieri di Galbatorix come Murtagh e Castigo.»


Liberarli mi dà uno scopo per cui combattere, insieme al desiderio di recuperare l'ultimo uovo, disse Saphira.


«È una cosa per cui combatteremo entrambi» disse Eragon. «Siamo la loro unica speranza.» Si massaggiò la fronte con il pollice, poi disse: «C'è ancora qualcosa che non capisco.»


«Sì?» disse Oromis. «Che cosa ti cruccia?»


«Se Galbatorix attinge il proprio potere da quei cuori, come producono l'energia che lui sfrutta?» Eragon fece una pausa, cercando un modo migliore per porre la domanda. Indicò le rondini che volteggiavano nel cielo. «Ogni essere vivente mangia e beve per sostenersi, perfino le piante. Il cibo ci fornisce l'energia di cui il nostro corpo ha bisogno per funzionare, e fornisce anche l'energia che ci serve per operare la magia, sia che ci affidiamo alla nostra forza per evocare un incantesimo sia che ricorriamo alla forza di un altro. Ma come fanno gli Eldunarí? Non hanno ossa né muscoli né pelle, giusto? Non possono mangiare, vero? E allora come sopravvivono? Da dove proviene la loro energia?»


Oromis sorrise, i lunghi denti lucidi come porcellana smaltata. «Dalla magia.»


«Dalla magia?»


«Se si definisce la magia come la manipolazione dell'energia, cosa che è in effetti, allora sì, dalla magia. Da dove di preciso gli Eldunarí attingano questa energia è un mistero sia per noi che per i draghi; nessuno ne ha mai identificato la sorgente. Può darsi che assorbano la luce del sole come le piante o che prendano la forza vitale dalle creature vicine. Qualunque sia la risposta, è stato dimostrato che quando il corpo muore e il drago trasferisce la propria coscienza nel cuore dei cuori, porta con sé anche i residui di forza contenuti nel corpo prima che smettesse di funzionare. In seguito, la riserva di energia aumenta in maniera costante per un periodo compreso fra i cinque e i sette anni, finché non raggiunge la pienezza del suo potere, che è immenso. La quantità complessiva di energia che un Eldunarí può contenere dipende dalle dimensioni del cuore: più vecchio è il drago, più grande sarà il suo Eldunarí, più energia potrà assorbire prima di saturarsi.»


Ripensando a quando lui e Saphira avevano combattuto contro Murtagh e Castigo, Eragon disse: «Galbatorix deve aver dato a Murtagh diversi Eldunarí. Solo così si spiega l'incredibile aumento della sua forza.»


Oromis annuì. «Siete fortunati che Galbatorix non gli abbia prestato più cuori, altrimenti Murtagh avrebbe avuto gioco facile a sopraffare voi, Arya, e tutti gli altri stregoni dei Varden.»


Eragon si ricordò di come entrambe le volte in cui lui e Saphira si erano scontrati con Murtagh e Castigo aveva avuto l'impressione che la mente di Murtagh contenesse molti esseri. Condivise il ricordo con Saphira e disse: Devo aver percepito gli Eldunarí... Chissà dove li teneva Murtagh. Castigo non trasportava bisacce, e non ho visto nessuno strano rigonfiamento sotto i vestiti di Murtagh.


Non lo so, disse Saphira. Non credi che Murtagh si riferisse agli Eldunarí quando ha detto che invece di strapparti il cuore sarebbe stato meglio strappargli i suoi cuori? Cuori, non cuore.


Hai ragione! Forse stava tentando di avvertirmi. Eragon trasse un profondo respiro e stirandosi sciolse il nodo che gli serrava le scapole, poi si appoggiò allo schienale. «A parte gli Eldunarí di Saphira e di Glaedr, ce ne sono altri che Galbatorix non ha catturato?»


Oromis fece una smorfia e una ragnatela di piccole rughe gli si formò intorno agli angoli della bocca. «Nessuno, che io sappia. Dopo la caduta dei Cavalieri, Brom andò in cerca di eventuali Eldunarí sfuggiti a Galbatorix, ma senza esito. E in tutti gli anni che ho passato a perlustrare Alagaësia con la mente non ho mai colto un pensiero o un sussurro provenire da un Eldunarí. Quando Galbatorix e Morzan sferrarono il primo attacco contro di noi, gli Eldunarí erano stati tutti catalogati e nessuno di loro scomparve senza spiegazione. È inconcepibile che ci sia una grossa scorta di Eldunarí ad attenderci da qualche parte.»


Sebbene Eragon non si fosse aspettato una risposta diversa, rimase ugualmente deluso. «Un'ultima domanda; mi risulta che quando un Cavaliere o un drago morivano, il compagno superstite in genere si lasciava morire o si suicidava subito dopo. E che quelli che non lo facevano comunque impazzivano dal dolore. Dico bene?»


Sì, disse Glaedr.


«Ma che cosa succedeva invece se il drago rigettava il cuore dei cuori prima di morire?» Eragon sentì il terreno tremare attraverso le suole degli stivali mentre il drago dorato cambiava posizione.


Glaedr rispose: Se un drago sperimentava la morte del corpo, ma il suo cavaliere era ancora vivo, insieme diventavano noti come Indlvarn. La transizione non era molto piacevole per il drago, ma molti Cavalieri e draghi riuscirono ad adattarsi al cambiamento e continuarono a servire l'ordine con successo. Se però era il Cavaliere a morire, allora spesso il drago distruggeva il proprio Eldunarí o, se il suo corpo era già morto, faceva in modo che fosse un altro a infrangerlo, così si uccideva e seguiva il proprio Cavaliere nel vuoto. Ma non tutti. Alcuni draghi furono in grado di superare la perdita, così come alcuni Cavalieri, fra cui Brom, e continuarono a servire il nostro ordine per molti anni, sia attraverso la carne che attraverso il loro cuore dei cuori.


Ci avete dato molto su cui meditare, Glaedr, Oromis-elda, disse Saphira. Eragon annuì ma rimase in silenzio, troppo preso a riflettere su quanto era stato detto.

LE MANI DI UN GUERRIERO

Eragon addentò una dolce fragola matura, lo sguardo perso nelle imperscrutabili profondità del cielo. Quando ebbe finito di mangiarla, appoggiò il picciolo sul vassoio davanti a sé e lo spinse al centro con la punta dell'indice, poi fece per parlare.

Ma Oromis lo precedette e disse: «E adesso, Eragon?»


«Adesso?»


«Abbiamo parlato a lungo degli argomenti che più ti premevano. E adesso cosa volete fare tu e Saphira? Non potete trattenervi a lungo a Ellesméra, perciò mi chiedo che cos'altro sperate di ottenere con la vostra visita. O pensate di ripartire già domattina?»

«Avevamo sperato» disse Eragon «di poter continuare il nostro addestramento, ma questo ovviamente non è possibile perché non abbiamo tempo. Però c'è qualcos'altro che vorrei fare.»

«E sarebbe?»


«Maestro, non ti ho raccontato tutto quello che mi è successo quando ero a Teirm con Brom.» Così Eragon raccontò al vecchio elfo di come la curiosità lo aveva portato nella bottega di Angela, di come lei gli aveva letto il futuro e del consiglio che alla fine gli aveva dato Solembum.


Oromis si picchiettò le labbra con un dito, meditabondo. «Nel corso dell'ultimo anno ho sentito nominare questa indovina con crescente frequenza, sia da parte tua che dai rapporti sui Varden di Arya. Questa Angela sembra bravissima a comparire dove e quando stanno per verificarsi eventi importanti.»


Già, bravissima, confermò Saphira.


Oromis continuò. «Il suo comportamento mi ricorda molto quello di una maga umana che una volta visitò i palazzi di Ellesméra, anche se non si faceva chiamare Angela. È per caso una donna minuta, con una gran massa di riccioli scuri, occhi vivaci e un'intelligenza tanto acuta quanto bizzarra?»


«L'hai descritta alla perfezione» disse Eragon. «È la stessa persona?»


Oromis fece un piccolo movimento con la mano sinistra. «Se è lei, si tratta di una persona straordinaria... Quanto alle sue profezie, non starei a pensarci troppo. Che si avverino o no, e senza saperne di più, nessuno di noi può influenzarne l'esito.


«Ma quello che ha detto il gatto mannaro è degno di maggior considerazione. Purtroppo non so spiegare nessuna delle sue affermazioni. Non ho mai sentito parlare di un luogo chiamato la Volta delle Anime e, anche se la rocca di Kuthian mi suona familiare, non riesco a ricordare dove ho sentito o visto quel nome. Cercherò nelle mie pergamene, ma l'istinto mi dice che non lo troverò nelle scritture elfiche.»


«E che mi dici dell'arma sotto l'albero di Menoa?»


«Non so niente nemmeno di quella, Eragon. E io conosco ogni storia di questa foresta. In tutta la Du Weldenvarden ci sono forse soltanto due elfi la cui conoscenza della foresta supera la mia. M'informerò, ma sospetto che sarà un tentativo inutile.» Quando Eragon espresse la sua delusione, Oromis disse: «Mi pare di capire che tu abbia bisogno di un giusto rimpiazzo per Zar'roc, e in questo posso aiutarti. Oltre alla mia, Naegling, noi elfi abbiamo conservato altre due spade dei Cavalieri dei Draghi: Arvindr e Tàmerlein. Arvindr è custodita nella città di Nädindel, che tu non hai il tempo di visitare. Ma Tàmerlein si trova qui a Ellesméra. È un tesoro del Casato di Valtharos, e anche se il signore del palazzo, Lord Fiolr, non se ne separerebbe mai volentieri, credo che te la darebbe se gliela chiedessi con rispetto. Vi organizzerò un incontro per domattina.»


«E se la spada non dovesse andar bene?» chiese Eragon.


«Speriamo che non accada. Manderò anche un messaggio a Rhunön la metalliera, avvertendola che potresti passare da lei domani sul tardi.»


«Ma Rhunön ha giurato che non avrebbe più forgiato spade.»


Oromis sospirò. «Già, ma il suo parere sarà lo stesso importante. Se c'è qualcuno che può consigliarti l'arma giusta, è lei. E se dovesse piacerti Tàmerlein, sono sicuro che Rhunön vorrebbe darle comunque un'occhiata prima che te la porti via. Sono passati più di cento anni da quando Tàmerlein è stata usata per l'ultima volta in battaglia, e potrebbe aver bisogno di qualche piccola calibratura.»


«Non potrebbe essere un altro elfo a forgiarmi una lama?»


«No» disse Oromis. «Non se si tratta di eguagliare l'eccellenza di Zar'roc o di qualsiasi altra spada rubata che Galbatorix abbia scelto d'impugnare. Rhunön è uno dei membri più anziani della nostra razza, ed è stata lei a forgiare tutte le spade del nostro ordine.»


«È vecchia quanto i Cavalieri?» esclamò Eragon, stupefatto.


«Anche di più.»


Eragon tacque un momento. «Che cosa dobbiamo fare fino a domani, maestro?»


Oromis guardò Eragon e Saphira, poi disse: «Andate a visitare l'albero di Menoa. So che non sarete in pace finché non lo avrete fatto. Vedete se riuscite a trovare l'arma di cui ha parlato il gatto mannaro. Quando avrete soddisfatto la vostra curiosità, ritiratevi nella casa sull'albero che i servitori di Islanzadi tengono sempre pronta per voi. Domani faremo quel che possiamo.»


«Maestro, abbiamo così poco tempo...»


«Siete fin troppo stanchi per altre sollecitazioni quest'oggi. Fidati, Eragon, è meglio che ti riposi. Penso che le ore che ti separano da domani ti aiuteranno ad accettare le cose di cui abbiamo parlato. Anche secondo i parametri di re, regine e draghi, questa nostra conversazione non è stata una chiacchierata leggera.»


Malgrado le rassicurazioni di Oromis, Eragon si sentiva a disagio all'idea di trascorrere il resto del giorno senza far niente. Era così agitato che avrebbe voluto continuare a lavorare, anche se sapeva di dover recuperare le forze.


Si agitò sulla sedia, e quel movimento tradì la sua indecisione; Oromis sorrise e disse: «Se ti aiuta a calmarti, Eragon, ti prometto una cosa. Prima che tu e Saphira torniate dai Varden, potrai scegliere un tipo di magia, e nel breve tempo che ci resta t'insegnerò tutto quello che posso in merito.»


Con il pollice Eragon rigirò l'anello che portava all'indice e ponderò l'offerta, cercando di decidere quale fra tutte le branche della magia avrebbe voluto imparare. Infine disse: «Mi piacerebbe imparare a convocare gli spiriti.»


Un'ombra passò sul volto di Oromis. «Manterrò la mia parola, Eragon, ma la negromanzia è un'arte oscura e indecente. Non dovresti cercare di controllare altri esseri per i tuoi scopi. Anche senza considerarne l'immoralità, si tratta di una disciplina eccezionalmente pericolosa e complicata. Un mago impiega almeno tre anni di intensi studi prima di poter sperare di convocare gli spiriti senza esserne posseduto.


«La negromanzia non è come le altre arti magiche, Eragon; con essa tu cerchi di costringere esseri incredibilmente potenti e ostili a obbedire ai tuoi comandi, esseri che dedicano ogni istante della loro prigionia a trovare una breccia nel vincolo che li lega per potersi ribellare e soggiogarti per vendetta. In tutta la storia, non c'è mai stato uno Spettro che sia stato anche un Cavaliere. E di tutti gli orrori che hanno tormentato questa bella terra, un simile abominio potrebbe essere il peggiore, peggiore persino di Galbatorix. Ti prego, scegli un altro argomento, meno pericoloso per te e per la nostra causa.»


«Allora» disse Eragon «potresti insegnarmi il mio vero nome?»


«Le tue richieste» disse Oromis «si fanno sempre più difficili, Eragonfiniarel. Potrei riuscire a indovinare il tuo vero nome, se volessi.» L'elfo dai capelli argentei scrutò Eragon con uno sguardo intenso e magnetico. «Sì, credo che ci riuscirei. Ma non lo farò. Il vero nome può essere di grande importanza quando si tratta di magia, ma non è una magia in sé e per sé, e quindi non rientra nella mia promessa. Se il tuo desiderio è capirti meglio, Eragon, allora cerca di scoprire il tuo vero nome da solo. Se te lo dicessi io, tu potresti usarlo, ma lo faresti senza la saggezza che invece acquisteresti nel corso del viaggio interiore per scoprirlo. Una persona deve guadagnarsi l'illuminazione, Eragon. Non ti viene data da altri, per quanto possano essere persone stimate e riverite.»


Eragon giocherellò con l'anello per un altro momento, poi sospirò e scosse il capo. «Non so. Le mie domande si sono esaurite.»


«Ne dubito» sorrise Oromis.


Eragon non riusciva a concentrarsi. Il suo pensiero tornava sempre agli Eldunarí e a Brom. Ancora una volta si stupì della strana catena di eventi che avevano portato Brom a stabilirsi a Carvahall, e che in seguito avevano fatto diventare lui stesso un Cavaliere dei Draghi. Se Arya non avesse,.. S'interruppe e sorrise mentre gli balenava un'idea. «Insegnami a spostare un oggetto da un luogo all'altro in un attimo, come ha fatto Arya con l'uovo di Saphira.»


Oromis annuì. «Ottima scelta. L'incantesimo è impegnativo ma ha diversi utilizzi. Sono sicuro che ti servirà nella tua lotta contro Galbatorix e l'Impero. Arya stessa può attestarne l'efficacia.»


Oromis sollevò il calice dal tavolo e lo mise in controluce, ammirando la trasparenza del vino per qualche istante, poi, posando di nuovo il calice, disse: «Prima che ti avventuri nella città, devi sapere che colui che hai mandato a vivere qui è arrivato, qualche tempo fa.»


Ci volle un attimo prima che Eragon capisse a chi si riferiva. «Sloan è qui a Ellesméra?» chiese, stupito.


«Vive da solo in un piccolo capanno sulla riva di un ruscello, alla periferia occidentale di Ellesméra. Aveva la morte addosso quando piombò qui dalla foresta, barcollando, ma abbiamo curato le ferite della sua carne, e adesso sta di nuovo bene. Gli elfi in città gli portano cibo e vestiti e si assicurano che non gli manchi nulla. Lo scortano ovunque desideri andare, e a volte gli leggono qualcosa ad alta voce, ma di solito preferisce starsene da solo, senza rivolgere la parola a chi gli si avvicina. Due volte ha cercato di andarsene, ma i tuoi incantesimi glielo hanno impedito.»


Mi sorprende che sia arrivato qui così in fretta, disse Eragon a Saphira.


La costrizione che gli hai imposto deve essere stata più forte di quanto pensassi.


Già. In tono sommesso Eragon chiese: «Avete ritenuto opportuno restituirgli la vista?»


«No.»


L'uomo piangente è spezzato dentro, disse Glaedr. Non riesce a vedere abbastanza chiaro perché i suoi occhi gli siano di qualche utilità.


«Devo andare a fargli visita?» chiese Eragon, non sapendo che cosa Oromis e Glaedr si aspettassero.


«Devi deciderlo tu» rispose Oromis. «Incontrarti di nuovo potrebbe soltanto sconvolgerlo. Però tu sei responsabile della sua punizione, Eragon, e sarebbe sbagliato dimenticarti di lui.»


«No, maestro, non lo dimenticherò.»


Con un rapido movimento, Oromis spostò la sedia più vicina a Eragon. «Il giorno invecchia e non voglio trattenerti oltre, per non farti perdere ore preziose di riposo, ma c'è un'altra cosa che desidero fare prima che tu te ne vada. Le tue mani, me le faresti vedere? Vorrei capire che cosa dicono di te.» E tese i palmi aperti.


Allungando le braccia, Eragon posò le mani su quelle di Oromis e fremette al contatto delle dita sottili dell'elfo sui polsi. I calli sulle nocche di Eragon proiettarono lunghe ombre sul dorso delle sue mani mentre Oromis le inclinava da un lato e dall'altro. Poi, con una leggera ma decisa pressione, le voltò per esaminare i palmi e i polpastrelli.


«Che cosa vedi?» chiese Eragon.


Oromis rigirò di nuovo le mani e gli indicò i calli. «Adesso hai le mani di un guerriero, Eragon. Bada che non diventino le mani di un uomo che si compiace della carneficina della guerra.»

L'ALBERO DELLA VITA

Dalla rupe di Tel'naeír, Saphira sorvolò a bassa quota la foresta ondeggiante finché non ebbe raggiunto la radura dove si trovava l'albero di Menoa. Largo quanto un centinaio di tronchi di pino messi insieme, svettava verso il cielo come un possente pilastro sormontato da una chioma gigantesca del diametro di migliaia di piedi. Dall'enorme tronco coperto di muschio un tappeto di radici nodose e contorte si irradiava per più di dieci acri prima di penetrare nella profondità del terreno molle, scomparendo sotto gli alberi della foresta. Intorno all'albero di Menoa l'aria era umida e fredda, e una rada ma perenne bruma scivolava dall'intrico di aghi, bagnando le ampie felci ammassate alla base del tronco. Scoiattoli rossi correvano lungo i rami dell'antico albero, e gli allegri richiami e i cinguettii di centinaia di uccelli risuonavano dalle profondità del denso fogliame. L'intera radura era pervasa da un senso di vigile presenza, perché l'albero conteneva i resti dell'elfa un tempo conosciuta come Linnëa, la cui coscienza ora guidava la crescita di quel tronco e della foresta circostante.

Eragon cercò fra le radici qualcosa che gli indicasse la presenza di un'arma, ma come la volta precedente, non trovò nulla da portare con sé in battaglia. Raccolse un pezzetto di corteccia dal tappeto di muschio ai suoi piedi e lo mostrò a Saphira. Che ne dici? chiese. Se lo impregno a sufficienza di incantesimi, ci potrei uccidere un soldato?

Potresti uccidere un soldato con uno stelo d'erba, se volessi, rispose lei. Però se ti trovassi contro Murtagh e Castigo, o contro il re e il suo drago nero, sarebbe come attaccarli con un filo di lana bagnata.

Hai ragione,

disse lui. E lo gettò via.

Secondo me, disse lei, non dovresti renderti ridicolo solo per dimostrare che le parole di Solembum erano vere.


No, ma se voglio trovare quest'arma forse dovrei affrontare il problema in modo diverso. Come hai sottolineato, potrebbe benissimo trattarsi di una pietra, o di un libro, o di un qualsiasi tipo di lama. Un bastone ricavato da un ramo dell'albero di Menoa sarebbe un'arma potente, immagino.


Ma non terrebbe testa a una spada.


No... E non oserei staccare un ramo senza prima chiederne il permesso all'albero, e non ho proprio idea di come fare per convincerla a soddisfare la mia richiesta.


Saphira inarcò il collo sinuoso e alzò lo sguardo sull'albero, poi scrollò la testa e le spalle per liberarsi dalle gocce che si erano accumulate sui bordi affilati delle sue squame sfaccettate. Eragon strillò e fece un salto indietro, schermandosi il volto con il braccio quando lo spruzzo d'acqua fredda lo investì. Se una creatura cercasse di far male all'albero di Menoa, disse Saphira, dubito che vivrebbe abbastanza da rimpiangere l'errore.


I due setacciarono la radura ancora per diverse ore. Eragon continuava a sperare che si sarebbero imbattuti in qualche cavità o fessura fra le radici contorte dove avrebbero visto spuntare lo spigolo di una cassa sepolta che custodiva una spada. Visto che Murtagh ha Zar'roc, la spada di suo padre, pensò Eragon, mi spetterebbe di diritto la spada che Rhunön forgiò per Brom.


Sarebbe anche del colore giusto, aggiunse Saphira. La sua dragonessa, la mia omonima, era blu anche lei.


Alla fine, disperato, Eragon espanse la mente verso l'albero di Menoa e cercò di attirare l'attenzione della sua coscienza sonnolenta, per spiegare cosa cercava e chiederle aiuto. Ma fu come tentare di comunicare con il vento o la pioggia, perché l'albero non si accorse di lui più di quanto lui non si sarebbe accorto di una formica che agitava le antenne vicino ai suoi stivali.


Delusi, Eragon e Saphira lasciarono l'albero di Menoa proprio mentre il disco del sole baciava l'orizzonte. Dalla radura Saphira volò fino al centro di Ellesméra, dove planò atterrando nella stanza da letto della casa sull'albero che gli elfi avevano preparato per loro. La casa era un insieme di camere rotonde appollaiate sulla corona di un albero massiccio, a centinaia di piedi dal suolo.


Un pasto di frutta, verdure, fagioli cotti e pane aspettava Eragon nella stanza da pranzo. Dopo aver mangiato, invece di gettarsi sul letto preferì accoccolarsi accanto a Saphira sulla pedana rivestita di coperte che era il suo giaciglio. Mentre Saphira piombava in un sonno profondo, lui rimase sveglio a osservare le stelle sorgere e schierarsi nel cielo sulla foresta illuminata dalla luna, e pensò a Brom e al mistero di sua madre. Più tardi, quella notte, scivolò nel suo ormai abituale sonno vigile, dove parlò con i suoi genitori. Non riuscì a sentire che cosa dicevano, perché le loro voci erano basse e indistinte, ma in qualche modo percepì l'amore e l'orgoglio che provavano per lui, e sebbene sapesse che non erano altro che fantasmi della sua mente inquieta, da allora conservò per sempre il ricordo del loro affetto.

All'alba, un'esile elfa guidò Eragon e Saphira attraverso i sentieri di Ellesméra fino alla residenza della famiglia Valtharos. Mentre passavano fra i tronchi scuri dei pini torreggianti, Eragon fu colpito da quanto fosse vuota e silenziosa la città rispetto alla loro ultima visita; scorse solo tre elfi fra gli alberi, tre figure alte e aggraziate che si allontanarono a passi felpati.

Quando gli elfi vanno in guerra, osservò Saphira, pochi restano a casa. Già.


Lord Fiolr li aspettava in una sala dal soffitto a volta, illuminata da diversi fuochi fatui fluttuanti. Aveva il viso lungo e severo e più spigoloso di quello della maggior parte degli elfi, tanto che i suoi lineamenti ricordarono a Eragon una lancia dalla punta sottile. Indossava una tunica verde e oro dal colletto alto e svasato, come la cresta piumata di un uccello esotico. Nella sinistra impugnava uno scettro di legno bianco che recava incisi i glifi della Liduen Kvaedhí. In cima allo scettro era incastonata una perla lucente.


Lord Fiolr fece un profondo inchino, ed Eragon lo imitò. Poi si scambiarono i saluti rituali degli elfi ed Eragon ringraziò il signore così generoso da permettergli d'ispezionare la spada Tàmerlein.

Lord Fiolr disse: «Da lungo tempo Tàmerlein è un trofeo prezioso della mia famiglia, e mi sta particolarmente a cuore. Conosci la sua storia, Ammazzaspettri?»

«No» rispose Eragon.


«La mia compagna era la saggia e bellissima Naudra, e suo fratello, Arva, era un Cavaliere dei Draghi al tempo della Caduta. Naudra era in visita da lui a Ilirea quando Galbatorix e i Rinnegati si abbatterono sulla città come una tempesta dal nord. Arva combatté insieme agli altri Cavalieri per difendere Ilirea, ma Kialandí dei Rinnegati gli inflisse un colpo mortale. Mentre giaceva morente sui bastioni di Ilirea, Arva consegnò la sua spada Tàmerlein a Naudra perché potesse difendersi. Con Tàmerlein, Naudra si aprì un varco fra i Rinnegati e fuggì, tornando qui accompagnata da un drago e un Cavaliere, anche se morì subito dopo a causa delle ferite riportate.»


Lord Fiolr accarezzò lo scettro e dalla perla scaturì un tenue bagliore. «Tàmerlein per me è preziosa come l'aria che respiro. Preferirei separarmi della mia vita piuttosto che separarmi da lei. Purtroppo, né io né i miei discendenti siamo degni di maneggiarla. Tàmerlein è stata forgiata per un Cavaliere, e Cavalieri noi non siamo. Te la presto volentieri, Ammazzaspettri, affinché ti aiuti a combattere Galbatorix. Però Tàmerlein resterà proprietà del Casato di Valtharos, e tu devi promettermi di restituirmi la spada se mai io o uno dei miei eredi te la chiederemo.»


Eragon diede la sua parola e Lord Fiolr condusse lui e Saphira fino al lungo, lucido tavolo che cresceva dal legno vivente del pavimento. In fondo al tavolo c'era una rastrelliera ornata dov'era esposta Tàmerlein col suo fodero.


La lama di Tàmerlein era di un verde intenso, ricco, così come il suo fodero. Un grande smeraldo ne adornava il pomolo, le decorazioni erano d'acciaio brunito e una serie di glifi correva lungo la guardia crociata. Dicevano in elfico: Io sono Tàmerlein, portatrice del sonno finale. La spada era lunga quanto Zar'roc, ma aveva la lama più larga, la punta più arrotondata e l'elsa più pesante. Era un'arma bella e letale, ma a Eragon bastò una sola occhiata per capire che Rhunön aveva forgiato Tàmerlein per una persona con uno stile di combattimento diverso dal suo, uno stile che faceva più affidamento sulla violenza dei colpi che sulle rapide ed eleganti tecniche che Brom gli aveva insegnato.


Non appena le dita di Eragon si chiusero intorno all'impugnatura di Tàmerlein, si accorse che era troppo grande per la sua mano e in quel momento seppe che non era la spada per lui: non gli dava la sensazione di essere il proseguimento del suo braccio, com'era successo con Zar'roc. Malgrado ciò, Eragon esitò, sapendo che sarebbe stato difficile trovare una spada altrettanto bella. Arvindr, l'altra spada citata da Oromis, si trovava in una città a centinaia di miglia di distanza.


Saphira disse: Non prenderla. Se devi portare una spada in battaglia, se la tua vita e la mia dipendono da essa, allora dev'essere perfetta, niente di meno. E poi non mi piacciono le condizioni che Lord Fiolr ha posto per darcela.


E così Eragon rimise Tàmerlein sulla rastrelliera e si scusò con Lord Fiolr spiegando perché non poteva accettare la spada. L'elfo dalla faccia aguzza non parve troppo deluso; al contrario, a Eragon parve di scorgere un lampo di soddisfazione nei fieri occhi di Fiolr.

Dalla dimora della famiglia Valtharos, Eragon e Saphira s'inoltrarono negli oscuri recessi della foresta fino alla galleria di alberi di sanguinella che conduceva al patio centrale della casa di Rhunön. Quando emersero dalla galleria, Eragon sentì il tintinnio di un martello su uno scalpello e vide Rhunön seduta su una panca nella fucina al centro del patio. L'elfa era impegnata a scolpire un blocco di lucido acciaio. Eragon non riuscì a capire che cosa stava realizzando, perché il pezzo era ancora grezzo e impreciso.

«E così, Ammazzaspettri, sei ancora vivo» disse Rhunön senza sollevare lo sguardo dal suo lavoro. La sua voce stridette come una serie di mole dentellate. «Oromis mi ha detto che Zar'roc ti è stata presa dal figlio di Morzan.»

Eragon trasalì e annuì. «Sì, Rhunön-elda. Me l'ha portata via sulle Pianure Ardenti.»


«Bah.» Rhunön si concentrò sul lavoro, battendo il martello sul cesello a una velocità sovrumana. Poi si fermò e disse: «Zar'roc ha trovato il suo legittimo proprietario, dunque. Non approvo l'uso che ne fa... come si chiama? Ah, sì... Murtagh, ma ogni Cavaliere merita una spada adeguata e non riesco a pensare a una spada migliore per il figlio di Morzan che quella dello stesso Morzan.» L'elfa scoccò un'occhiata a Eragon da sotto la fronte rugosa. «Cerca di capirmi, Ammazzaspettri, non avrei avuto nulla in contrario se tu avessi tenuto Zar'roc, ma mi farebbe molto più piacere che tu avessi una spada fatta apposta per te. Zar'roc può averti servito bene, ma non aveva la forma giusta per il tuo corpo. Per non parlare di Tàmerlein. Saresti uno sciocco se credessi di poterla maneggiare.»


«Come vedi, non l'ho presa.»


Rhunön annuì e ricominciò a martellare. «Be', allora bravo.»


«Se Zar'roc è la spada giusta per Murtagh» disse Eragon «allora non sarebbe quella di Brom l'arma giusta per me?»


Rhunön corrugò le sopracciglia. «Undbitr? Perché ti è venuta in mente la spada di Brom?»


«Perché Brom era mio padre» disse Eragon, e provò un brivido nel dirlo.


«Le cose stanno così, dunque?» Mettendo da parte martello e scalpello, Rhunön uscì da sotto la tettoia della fucina e si fermò davanti a Eragon. Era un po' curva per tutti i secoli che aveva passato china sul suo lavoro, e perciò sembrava un pollice o due più bassa di lui. «Uhm, sì, mi pare di vedere una certa somiglianza. Era un tipo schietto, Brom. Diceva quello che pensava senza tanti giri di parole. Mi piaceva molto. Non sopporto com'è diventata la mia razza. Sono tutti troppo cortesi, troppo raffinati, troppo perbene. Ha! Ricordo quando gli elfi ridevano e combattevano come creature normali. Ora sono così controllati che certi sembrano non provare più emozioni di una statua di marmo!»


Saphira disse: Ti riferisci a com'erano gli elfi prima che le nostre razze si unissero?


Rhunön volse il viso accigliato verso Saphira. «Squamediluce. Benvenuta. Sì, parlavo dell'epoca prima del patto fra elfi e draghi. I cambiamenti che ho visto nelle nostre razze da allora si potrebbero credere a stento possibili, ma così è andata, ed eccomi qui, una delle poche ancora in grado di ricordare com'eravamo prima.»


Poi Rhunön tornò a guardare Eragon. «Undbitr non è la risposta ai tuoi bisogni. Brom perse la sua spada durante la Caduta dei Cavalieri. Se non si trova nella collezione di Galbatorix, allora potrebbe essere stata distrutta, o trovarsi sepolta da qualche parte, sotto i resti delle ossa putrefatte disseminate su un campo di battaglia da tempo dimenticato. E se anche qualcuno riuscisse a individuarla, tu non potresti recuperarla in tempo per affrontare i tuoi nemici.»


«E allora che cosa dovrei fare, Rhunön-elda?» chiese Eragon. Le raccontò del falcione che aveva scelto quando si trovava fra i Varden, di come lo aveva rinforzato con gli incantesimi e di quanto era successo nelle gallerie sotto il Farthen Dûr.


Rhunön sbuffò. «No, così non funziona mai. Una volta che una lama è stata forgiata e temprata, puoi anche proteggerla con un'infinità di incantesimi, ma non riuscirai mai a rendere il metallo più resistente. Un Cavaliere ha bisogno di qualcosa di meglio: una lama che resista agli impatti più violenti e alla maggior parte degli incantesimi. No. Bisogna cantare gli incantesimi sul metallo fuso mentre lo si estrae dal minerale, e poi anche mentre lo si forgia, allo scopo di alterare e migliorare la struttura stessa del metallo.»


«Ma come posso procurami una spada simile?» chiese Eragon. «Me ne faresti una tu, Rhunön-elda?»


Le rughe sottili sul volto di Rhunön si fecero più profonde. L'elfa tese un braccio e si massaggiò il gomito; i muscoli dell'avambraccio nudo si contrassero. «Sai che ho giurato di non creare mai più un'arma finché campo.»


«Lo so.»


«Il mio giuramento mi vincola; non posso romperlo, anche se lo volessi.» Continuando a stringersi il gomito, Rhunön tornò alla panca e si sedette davanti alla scultura. «E perché dovrei, Cavaliere dei Draghi? Dimmelo. Perché dovrei liberare nel mondo un'altra sterminatrice d'anime?»


Scegliendo con cura le parole, Eragon disse: «Perché se lo facessi, potresti contribuire alla fine al regno di Galbatorix. Non ti sembra giusto che io lo uccida con una spada da te forgiata, quando è stato con le tue spade che lui e i Rinnegati hanno ucciso così tanti draghi e Cavalieri? Tu odi il modo in cui hanno usato le tue armi. Quale maniera migliore per pareggiare i conti che forgiare lo strumento che segnerà la fine di Galbatorix?»


Rhunön incrociò le braccia e guardò il cielo. «Una spada... una nuova spada. Dopo così tanto tempo, esercitare di nuovo la mia arte per...» Abbassando lo sguardo, sporse il mento verso Eragon e disse: «È possibile, dico possibile, che ci sia un modo per aiutarti, ma è inutile pensarci perché non posso provarci.»


Perché no? chiese Saphira.


«Perché non ho il metallo che mi serve!» ruggì Rhunön. «Non penserete che abbia forgiato le spade dei Cavalieri con un metallo qualsiasi? No! Tanto tempo fa, mentre vagavo nella Du Weldenvarden, m'imbattei nei frammenti di una cometa caduta sulla terra. Erano composti da un minerale metallifero che non assomigliava a niente che avessi maneggiato prima, perciò lo portai con me nella fucina e lo raffinai, scoprendo che la lega d'acciaio risultante era più resistente, più dura e allo stesso tempo più flessibile di qualunque altra di origine terrestre. Chiamai il metallo acciaioluce, per la sua straordinaria brillantezza, e quando la regina Tarmunora mi chiese di forgiare la prima spada dei Cavalieri, usai l'acciaioluce. In seguito, ogni volta che ne avevo l'occasione, setacciavo la foresta in cerca di altri frammenti di metallo astrale. Non ne trovavo spesso, ma quando mi capitava lo mettevo da parte per i cavalieri.


«Col passare dei secoli, i frammenti divennero sempre più rari, finché non cominciai a pensare che non ce ne fossero più. Mi ci vollero ventiquattro anni per trovare l'ultimo giacimento. Con quello forgiai sette spade, fra cui Undbitr e Zar'roc. Dalla Caduta dei Cavalieri ho cercato soltanto un'altra volta l'acciaioluce, ed è stato stanotte, dopo che Oromis mi ha parlato di te.» Rhunön scosse il capo e i suoi occhi acquosi indugiarono su Eragon. «Ho battuto la foresta in lungo e in largo, e ho lanciato molti incantesimi di ricerca e recupero, ma non ho trovato nemmeno una piccolissima scheggia di acciaioluce. Se riuscissimo a procurarcene un po', allora potremmo cominciare a pensare a una spada per te, Ammazzaspettri. Altrimenti questa discussione è superflua.»


Eragon fece un inchino all'elfa e la ringraziò per il tempo che gli aveva dedicato, poi insieme a Saphira lasciò il patio e s'inoltrò nella galleria verde e frondosa di alberi di sanguinella.


Mentre camminavano a fianco a fianco verso una radura da cui Saphira potesse decollare, Eragon disse: Acciaioluce... Dev'essere questo che intendeva Solembum. Dev'esserci dell'acciaioluce sotto l'albero di Menoa.


E lui come lo sapeva?


Forse gliel'ha detto l'albero. Ma che importa?


Acciaioluce o no, disse lei, come faremo a raggiungere qualunque cosa sia nascosta sotto le radici dell'albero di Menoa? Non possiamo tagliarle, e non sapremmo nemmeno da dove iniziare.


Devo pensarci.

Dalla radura vicino alla casa di Rhunön, Saphira ed Eragon sorvolarono Ellesméra per tornare alla rupe di Tel'naeír, dove li aspettavano Oromis e Glaedr. Quando Saphira atterrò, Eragon smontò, e la dragonessa azzurra e il drago dorato balzarono dalla rupe e risalirono a spirale verso il cielo, volando senza una meta precisa, godendo semplicemente l'una della presenza dell'altro.

Mentre i due draghi danzavano fra le nuvole, Oromis insegnò a Eragon a trasportare con la magia un oggetto da un posto all'altro senza che l'oggetto percorresse fisicamente la distanza fra i due punti. «La maggior parte delle forme di magia» disse Oromis «richiede una dose maggiore di energia quanto più è grande la distanza fra te e il tuo obiettivo. Ma la regola non vale in questo particolare caso. Mandare questo sasso che ho in mano dall'altra parte del ruscello richiede la stessa quantità di energia che mandarlo fino alle Isole Meridionali. Per questa ragione, l'incantesimo è utilissimo quando con la magia devi trasportare un oggetto attraverso una distanza così grande che ti ucciderebbe se dovessi farlo nello spazio. D'altra parte è un incantesimo molto debilitante, ed è preferibile evocarlo solo quando tutto il resto ha fallito. Spostare qualcosa di grosso come l'uovo di Saphira, per esempio, ti lascerebbe privo delle forze per muoverti.»

Poi Oromis insegnò a Eragon le parole dell'incantesimo con le diverse varianti, e quando Eragon ebbe memorizzato la formula a un livello di perfezione tale da soddisfare Oromis, l'elfo gli chiese di spostare la piccola pietra che aveva in mano.

Non appena Eragon ebbe pronunciato l'incantesimo, il sasso scomparve dal palmo di Oromis e un istante dopo riapparve al centro della radura in un lampo di luce blu, accompagnato da un forte boato e una vampata d'aria bollente. Eragon trasalì per il fragore, poi si aggrappò al ramo di un albero vicino per non cadere, con le ginocchia che gli tremavano e una sensazione di gelo per tutto il corpo. Con il cuoio capelluto che gli formicolava, guardò il sasso che giaceva in un cerchio d'erba carbonizzata e appiattita e si ricordò di quando aveva visto l'uovo di Saphira per la prima volta.

«Bravo» commentò Oromis. «Ora, sai dirmi perché il sasso ha prodotto quel rumore quando si è materializzato sull'erba?»


Eragon prestò molta attenzione a quello che Oromis gli diceva, ma durante tutta la lezione continuò a riflettere sull'albero di Menoa. Sapeva che anche Saphira ci stava pensando, mentre volava alta nel cielo. Ma più ci pensava, più disperava di riuscire a trovare la soluzione.


Quando ebbe finito d'insegnargli a spostare gli oggetti, Oromis gli chiese: «Visto che hai rifiutato l'offerta di Tàmerlein di Lord Fiolr, tu e Saphira vi tratterrete ancora a lungo a Ellesméra?»


«Non lo so, maestro» rispose Eragon. «Vorrei fare ancora un tentativo con l'albero di Menoa, ma se non ci riesco, allora immagino di non avere altra scelta che tornare dai Varden a mani vuote.»


Oromis annuì. «Prima di partire, torna qui con Saphira un'ultima volta.»


«Sì, maestro.»


Mentre Saphira volava con Eragon in groppa verso l'albero di Menoa, disse: Non ha funzionato prima, perché dovrebbe funzionare adesso?


Perché sì. E poi, hai un'idea migliore?


No, ma non mi piace. Non sappiamo come potrebbe reagire. Ricorda: prima che Linnëa si cantasse nell'albero, aveva ucciso il giovane uomo che l'aveva tradita. Potrebbe ricorrere di nuovo alla violenza.


Non lo farà, se ci sei tu lì a proteggermi.


Uhm.


Levando una debole corrente d'aria, Saphira atterrò su una radice a forma di nocca, a diverse centinaia di piedi di distanza dalla base dell'albero di Menoa. Al suo arrivo, gli scoiattoli che abitavano sull'enorme pino lanciarono acuti squittii per avvertire i fratelli.


Eragon scese sulla radice e si strofinò i palmi sulle cosce, poi mormorò: «Be', non perdiamo tempo.» Con passi felpati risalì la radice fino al tronco, aprendo le braccia per tenersi in equilibrio. Saphira lo seguì più adagio; i suoi artigli scheggiavano e crepavano la corteccia dove camminava.


Eragon si accovacciò su un tratto di legno scivoloso e infilò le dita in una fenditura del tronco per non cadere. Aspettò che Saphira arrivasse, poi chiuse gli occhi, inspirò a fondo l'aria fredda e umida e indirizzò i pensieri verso l'albero.


L'albero di Menoa non fece alcun tentativo per impedirgli di toccare la sua mente, perché la sua coscienza era così vasta e aliena, e talmente intrecciata col resto della vita vegetale della foresta, che non aveva bisogno di difendersi. Chiunque volesse prendere il controllo dell'albero avrebbe dovuto estendere il suo dominio mentale su una parte enorme della Du Weldenvarden, un'impresa che nessun individuo da solo poteva sperare di compiere.


Eragon sentì provenire dall'albero una sensazione di calore e di luce e avvertì la pressione della terra sulle radici nel raggio di centinaia di iarde. Sentì la brezza muoversi nell'intrico di rami, e un rivolo di linfa viscosa che stillava da un piccolo taglio nella corteccia, e ricevette una moltitudine d'impressioni analoghe dalle altre piante che l'albero di Menoa sorvegliava. In confronto alla consapevolezza che l'albero aveva mostrato di possedere durante l'Agaetí Blödhren, adesso sembrava quasi addormentato; l'unico pensiero che Eragon percepì era così lungo e lento che non riuscì a decifrarlo.


Facendo appello a tutte le sue risorse, Eragon inviò un grido mentale all'albero: Ti prego, ascoltami, possente albero! Ho bisogno del tuo aiuto! L'intero paese è in guerra, gli elfi hanno lasciato la sicurezza della Du Weldenvarden, e io non ho una spada con cui combattere! Il gatto mannaro Solembum mi ha detto di cercare sotto l'albero di Menoa quando avessi avuto bisogno di un'arma. Be', quel momento è giunto! Ti prego, ascoltami, o madre della foresta! Aiutami nella mia ricerca! Mentre parlava, Eragon inviò alla coscienza dell'albero immagini di Castigo, Murtagh e delle armate imperiali. Saphira rafforzò quelle immagini con il potere della propria mente, aggiungendo altri ricordi.


Eragon non si affidò solo alle parole e alle immagini. Da dentro se stesso e da Saphira fece confluire nell'albero una forte corrente di energia: un regalo di buona fede che sperava sarebbe riuscito a risvegliarne la curiosità.


Passarono diversi minuti e ancora l'albero non reagiva, ma Eragon non voleva arrendersi. Le piante, pensò, si muovono a un ritmo più lento rispetto agli umani e agli elfi; c'era da aspettarsi che l'albero di Menoa non rispondesse subito alla loro richiesta.


Non possiamo sacrificare altre forze, disse Saphira. Non se vogliamo tornare dai Varden in tempo.


Eragon annuì e arrestò a malincuore il flusso di energia.


Mentre continuavano a implorare l'albero di Menoa, il sole raggiunse lo zenit e poi cominciò a discendere; le nuvole si gonfiarono, si rimpicciolirono, si rincorsero nel cielo. Gli uccelli sfrecciavano fra gli alberi, gli scoiattoli squittivano irritati, le farfalle svolazzavano da un posto all'altro, e una fila di formiche rosse marciò accanto allo stivale di Eragon trasportando piccole larve bianche.


Alla fine Saphira ringhiò e ogni uccello nei dintorni fuggì terrorizzato. Ne ho abbastanza di star qui a fare tutti questi complimenti! dichiarò. Sono un drago, e non permetterò a un albero di ignorarmi.


«No, aspetta!» gridò Eragon, che aveva percepito le sue intenzioni. Ma Saphira non lo ascoltò. Fatto qualche passo indietro, si accovacciò e affondò gli artigli nella radice dell'albero, poi, con un potente strattone, staccò tre grosse strisce di legno. Vieni fuori e parla con noi, elfa-albero! ruggì. Gettò indietro la testa come un serpente pronto a colpire ed eruttò dalle fauci una colonna di fiamme che avvolse il tronco in una tempesta di fuoco azzurro e bianco. Coprendosi la faccia, Eragon balzò via per sfuggire al calore.


«Saphira, fermati!» urlò, orripilato.


Mi fermerò quando ci risponderà.


Una fitta pioggia di gocce d'acqua si riversò a terra. Guardando in alto, Eragon vide i rami del pino tremare e ondeggiare sempre più forte: l'aria riverberò del gemito di legno contro legno. Nello stesso istante, una gelida brezza gli investì le guance, ed Eragon ebbe l'impressione di sentire un sordo brontolio sotto i piedi. Guardandosi attorno, notò che gli alberi che orlavano la radura sembravano più alti e più inclinati verso l'interno, con i rami contorti che si allungavano verso di lui come artigli.


Eragon ebbe paura.


Saphira... disse, e piegò le ginocchia, pronto a fuggire o a combattere.


Serrando le fauci, Saphira interruppe il getto di fuoco e distolse lo sguardo dall'albero di Menoa. Non appena ebbe scorto l'anello di alberi minacciosi, le sue squame ondeggiarono e si rizzarono come il pelo di un gatto irritato. Ringhiò contro la foresta, volgendo il capo da un lato all'altro, poi dispiegò le ali e cominciò ad allontanarsi dall'albero di Menoa. Presto, sali sulla mia schiena.


Prima che Eragon riuscisse a fare un solo passo, una radice larga quanto il suo braccio spuntò dal terreno e gli si arrotolò intorno alla caviglia sinistra, immobilizzandolo. Radici ancora più grosse sbucarono ai lati di Saphira e le afferrarono le zampe e la coda, inchiodandola sul posto. Saphira ruggì infuriata e inarcò il collo, pronta a sputare fuoco di nuovo.


Le fiamme nella sua bocca tremolarono e si spensero quando una voce risuonò nelle loro menti, un lento sussurro che a Eragon ricordò un fruscio di foglie: Chi osa disturbare la mia pace? Chi osa mordermi e bruciarmi? Ditemi chi siete, così saprò chi ho ucciso.


Eragon si lasciò sfuggire una smorfia di dolore quando la radice gli si strinse ancora di più intorno alla caviglia. Ancora un po' più di pressione e gli avrebbe spezzato l'osso. Io sono Eragon Ammazzaspettri e questa è la dragonessa cui sono legato, Saphira Squamediluce.


E allora morite, Eragon Ammazzaspettri e Saphira Squamediluce.


Aspetta! disse Eragon. Non ho finito di presentarci.


Seguì un lungo silenzio, poi la voce disse: Continua.


Io sono l'ultimo Cavaliere dei Draghi di Alagaësia, e Saphira è l'ultima dragonessa esistente. Siamo forse gli unici che possono sconfiggere Galbatorix, il traditore che ha distrutto i Cavalieri e conquistato metà Alagaësia.


Perché mi hai ferita, drago? sospirò la voce.


Saphira scoprì i denti e rispose: Perché non volevi parlare con noi, elfaalbero, e perché Eragon ha perso la sua spada e un gatto mannaro gli ha detto di guardare sotto l'albero di Menoa quando gli fosse servita un'arma. Abbiamo guardato e guardato, ma non riusciamo a trovarla da soli.


Allora muori invano, drago, perché non ci sono armi sotto le mie radici.


Nel disperato tentativo di far parlare ancora l'albero, Eragon disse: Crediamo che il gatto mannaro intendesse l'acciaioluce, il metallo astrale che Rhunön usa per forgiare le lame dei Cavalieri. Senza di esso non può farmi una spada.


La radura s'increspò di ondulazioni mentre il tappeto di radici si spostava. Il movimento fece scappare fuori dalle tane e dai nascondigli centinaia di conigli, topi, arvicole, toporagni e altre piccole creature che, in preda al panico, andarono a rifugiarsi nel folto della foresta.


Con la coda dell'occhio Eragon vide decine di elfi correre verso la radura, i capelli che fluttuavano al vento come vessilli di seta. Silenziosi come fantasmi, gli elfi si fermarono sotto i rami degli alberi che delimitavano la radura a osservare lui e Saphira, senza fare una mossa per avvicinarsi o soccorrerli.


Eragon stava per chiamare Oromis e Glaedr con la mente, quando la voce tornò a farsi sentire. Il gatto mannaro sapeva il fatto suo. C'è un frammento di acciaioluce proprio ai margini delle mie radici, ma voi non lo avrete. Mi avete morso e bruciato, e io non vi perdono.


L'eccitazione suscitata dalla notizia dell'esistenza del minerale si stemperò nell'angoscia. Ma Saphira è l'ultima dragonessa! esclamò Eragon. Non puoi ucciderla!


I draghi sputano fuoco, mormorò la voce, e un fremito percorse gli alberi intorno alla radura. I fuochi si devono spegnere.


Saphira ruggì ancora e disse: Se non riusciremo a fermare l'uomo che ha distrutto i Cavalieri dei Draghi, lui verrà qui e brucerà la foresta che ti circonda e poi distruggerà anche te, elfa-albero. Però se ci aiuti forse potremo fermarlo.


Un forte stridio riecheggiò nell'aria quando due rami sfregarono fra di loro. Se prova a uccidere le mie amate piantine, allora morirà. Nessuno è forte come l'intera foresta. Nessuno può sperare di sconfiggere la foresta, e io parlo a nome della foresta.


L'energia che ti abbiamo dato non basta a sanare le tue ferite? chiese Eragon. Non ti basta come risarcimento?


L'albero di Menoa non rispose, ma si limitò a esaminare la mente di Eragon scivolando fra i suoi pensieri come un alito di vento. Che cosa sei, Cavaliere? disse l'albero. Conosco ogni creatura che vive in questa foresta, ma non ne ho mai incontrata una come te.


Non sono un elfo né un umano. Sono qualcosa a metà. I draghi mi hanno cambiato durante la Celebrazione del Giuramento di Sangue.


Perché ti hanno cambiato, Cavaliere?


Perché potessi combattere meglio Galbatorix e il suo Impero.


Ricordo di aver sentito un'alterazione nel mondo durante la celebrazione, ma non credevo che fosse importante... Tutto adesso mi sembra poco importante, tranne il sole e la pioggia.


Eragon disse: Guariremo il tuo tronco e la tua radice, se ciò ti soddisfa, ma ti prego, possiamo avere l'acciaioluce?


Gli altri alberi scricchiolarono e gemettero come anime in pena, e poi, fievole e tremolante, la voce tornò: Mi darai ciò che voglio in cambio, Cavaliere dei Draghi?


Sì, disse Eragon sènza esitare. Era pronto a pagare qualsiasi prezzo pur di avere una spada da Cavaliere.


La chioma dell'albero di Menoa si fece immobile e per lunghi minuti nella radura regnò un assoluto silenzio. Poi il terreno cominciò a tremare, e le radici davanti a Eragon presero a contorcersi e a strusciare l'una contro l'altra, perdendo frammenti di corteccia mentre si facevano da parte per sgombrare un piccolo spazio di terra. Dal terreno cominciò a spuntare quello che sembrava un blocco di ferro corroso, lungo circa due piedi e largo un piede e mezzo. Non appena il minerale emerse completamente dal nero e fertile suolo, Eragon sentì una debole fitta al basso ventre. Trasalì e si massaggiò lo stomaco, ma il disagio momentaneo era già svanito. A quel punto, la radice che gli serrava la caviglia si allentò, ritirandosi nel terreno, e lo stesso fecero quelle che trattenevano Saphira.


Ecco il tuo metallo, mormorò l'albero di Menoa. Prendilo e vattene...


Ma... iniziò a chiedere Eragon.


Va'... disse l'albero di Menoa, la voce sempre più fievole. Va'... E la coscienza dell'albero si ritrasse da lui e da Saphira, sprofondando sempre più in se stessa finché Eragon ne riuscì a percepire a stento la presenza. Intorno a loro, i pini minacciosi tornarono nella posizione abituale.


«Ma...» disse Eragon ad alta voce, confuso dal fatto che l'albero di Menoa non gli avesse detto che cosa voleva.


Ancora perplesso, si chinò sul minerale, infilò le dita sotto il masso venato di metallo e lo sollevò fra le braccia, sbuffando per il peso. Stringendolo al petto, volse le spalle all'albero di Menoa e cominciò la lunga camminata verso la casa di Rhunön.


Saphira lo affiancò e annusò l'acciaioluce. Avevi ragione, disse. Non avrei dovuto aggredirla.


Almeno abbiamo ottenuto l'acciaioluce, disse Eragon. E l'albero di Menoa, be', non so che cosa ha ottenuto lei, ma noi abbiamo ciò per cui siamo venuti. Ed è questo che conta.


Gli elfi si allinearono lungo il sentiero che Eragon aveva scelto di seguire, fissando lui e Saphira con un'intensità tale da fargli formicolare la nuca e decidere di affrettare il passo. Gli elfi non dissero una parola, ma continuarono a fissarlo con i loro occhi a mandorla come se stessero guardando un pericoloso animale che si aggirava fra le loro case.


Uno sbuffo di fumo uscì dalle narici di Saphira. Se Galbatorix non ci uccide prima, disse, penso che verrà il giorno in cui ci pentiremo di quello che abbiamo fatto oggi.

LA MENTE SUL METALLO

«Dove l'hai trovato?» esclamò Rhunön, quando Eragon entrò barcollando nel patio della casa e lasciò cadere il masso di acciaioluce ai suoi piedi.


Eragon le raccontò in breve di Solembum e dell'albero di Menoa.


Accovacciandosi davanti al minerale, Rhunön ne accarezzò la superficie butterata; le sue dita indugiarono sulle venature di metallo che screziavano la roccia. «Siete stati molto sciocchi o molto coraggiosi nel mettere alla prova l'albero di Menoa. Non è una con cui si scherza.»


Ce n'è abbastanza per una spada? chiese Saphira.


«Per parecchie spade, se l'esperienza non m'inganna» disse Rhunön, rialzandosi. L'elfa scoccò un'occhiata alla fucina al centro del patio, poi batté le mani, gli occhi ardenti di desiderio e determinazione. «Facciamola, allora! Ti serve una spada, Ammazzaspettri? Benissimo, ti darò una spada come non se n'è mai vista una in Alagaësia.»


«E il tuo giuramento?» chiese Eragon.


«Per adesso non ci pensare. Quando dovete tornare dai Varden, voi due?»


«Saremmo dovuti partire il giorno stesso che siamo arrivati» rispose Eragon.


Rhunön rimase un attimo in silenzio, pensierosa. «Allora dovrò fare in fretta quello che in genere faccio con calma, e dovrò usare la magia per ottenere ciò che altrimenti mi richiederebbe settimane di lavoro manuale. Tu e Squamediluce mi aiuterete.»


Non era una domanda, ma Eragon annuì. «Stanotte non ci riposeremo, ma ti prometto, Ammazzaspettri, che entro domattina avrai la tua spada.» Piegando le ginocchia, Rhunön sollevò senza alcuno sforzo il masso e lo portò alla panca dove c'era la sua scultura abbozzata.


Eragon si tolse la tunica e la camicia per non rovinarle, e al loro posto Rhunön gli diede un panciotto attillato e un grembiule di tessuto trattato in modo da non poter prendere fuoco. Rhunön si vestì in modo simile. Quando Eragon le chiese dei guanti, l'elfa scoppiò a ridere e scosse il capo. «Solo un fabbro maldestro usa i guanti.»


Poi Rhunön lo condusse in una bassa stanzetta, simile a una grotta, incassata in uno dei tronchi che formavano la sua casa. All'interno c'erano sacchi di carbonella e cumuli sparsi di mattoni d'argilla biancastri. Servendosi di un incantesimo, Eragon e Rhunön sollevarono diverse centinaia di mattoni e li portarono fuori, accanto alla fucina, poi fecero lo stesso con i sacchi di carbonella, ciascuno largo quanto il torace di un uomo.


Quando Rhunön ritenne di avere abbastanza materiale, lei ed Eragon costruirono un forno. Era una struttura complessa e, dato che Rhunön si rifiutava di ricorrere troppo alla magia, il progetto sottrasse loro gran parte del pomeriggio. Dapprima scavarono una fossa rettangolare profonda cinque piedi che riempirono con strati di sabbia, ghiaia, argilla, carbonella e cenere, lasciando diversi spazi e canaletti per eliminare l'umidità che altrimenti avrebbe abbassato la temperatura del fuoco. Quando il contenuto della buca ebbe raggiunto il livello del terreno, ci costruirono sopra un trogolo di mattoni, usando come malta una miscela d'acqua e argilla avanzata. Rhunön entrò in casa e ne uscì con una coppia di mantici che collegarono ai fori alla base del forno.


Poi fecero una pausa per bere e mangiare qualche boccone di pane e formaggio.


Dopo il breve ristoro, Rhunön collocò una manciata di ramoscelli nel trogolo, li accese mormorando una parola e quando le fiamme furono bene avviate, mise sul fondo alcuni ciocchi di quercia stagionata. Per quasi un'ora accudì il fuoco, alimentandolo con la cura di un giardiniere che coltiva le rose, finché la legna fu bruciata completamente trasformandosi in un letto di carboni. Allora Rhunön fece un cenno a Eragon e disse: «Adesso!»


Eragon sollevò il blocco di minerale e con estrema cautela lo abbassò nel trogolo. Quando il calore sulle dita divenne insopportabile, lasciò andare il blocco e balzò indietro, mentre una fontana di scintille si levava turbinando come uno sciame di lucciole. Sul minerale e sul carbone rovesciò una spessa coltre di carbonella per attizzare il fuoco.


Eragon si spazzolò la polvere di carbonella dalle mani e afferrò i manici di uno dei mantici, cominciando a pompare come faceva Rhunön sull'altro lato del forno. Insieme ravvivarono il fuoco con un flusso regolare d'aria per far aumentare la temperatura.


Le squame del petto e del collo di Saphira sprizzavano abbaglianti lampi di luce mentre le fiamme danzavano nel forno. Si accucciò a parecchie iarde di distanza, gli occhi fissi sul cuore pulsante del fuoco. Potrei aiutarvi, lo sapete, disse. Mi ci vorrebbe giusto un minuto per sciogliere il minerale.


«Sì» disse Rhunön, «ma se lo sciogliessimo troppo in fretta, il metallo non si combinerebbe con la carbonella e non diventerebbe abbastanza duro e flessibile per una spada. Risparmia il tuo fuoco, dragonessa. Ci servirà più tardi.»


Con il calore del forno unito allo sforzo di azionare il mantice, Eragon si ritrovò ben presto coperto da un velo di sudore; le sue braccia nude risplendevano alla luce del fuoco.


Di tanto in tanto, lui o Rhunön abbandonavano il mantice per spalare un nuovo strato di carbonella sul fuoco.


Il lavoro era monotono e dopo un po' Eragon perse la cognizione del tempo. Il costante ruggito delle fiamme, il mantice stretto fra le mani, il fruscio dell'aria soffiata e la presenza vigile di Saphira erano le uniche cose di cui fosse consapevole.


Così trasalì quando Rhunön disse: «Dovrebbe bastare. Lascia pure il mantice.»


Eragon si asciugò la fronte e la aiutò a togliere i carboni incandescenti dal forno per poi versarli in un barile pieno d'acqua. A contatto dell'acqua i carboni sfrigolarono e sprigionarono un odore acre.


Quando finalmente sul fondo del trogolo comparve la pozza rosseggiante di metallo fuso - le scorie e le altre impurità erano state eliminate durante il processo - Rhunön la coprì con un strato alto un pollice di sottile cenere bianca, poi appoggiò la pala su un lato del forno e andò a sedersi sulla panca. «E adesso?» chiese Eragon, sedendosi al suo fianco.


«Adesso aspettiamo.»


«Cosa?»


Rhunön indicò il cielo dove la luce del sole morente tingeva di rosso, oro e viola i brandelli di nuvole passeggere. «Quando lavoriamo il metallo dev'essere più buio, se vogliamo giudicarne il colore con esattezza. Inoltre l'acciaioluce ha bisogno di tempo per raffreddarsi in modo che sia morbido e facile da modellare.»


Allungando le mani dietro la testa, Rhunön sciolse il laccio che le teneva i capelli, poi li raccolse e li legò di nuovo. «Nel frattempo parliamo della tua spada. Come combatti, con una o con due mani?»


Eragon rifletté un minuto, poi disse: «Dipende. Se posso scegliere preferisco brandire la spada con una mano e portare lo scudo con l'altra. D'altro canto le circostanze non mi sono sempre state favorevoli, e spesso ho dovuto combattere senza scudo. In quel caso, mi piace impugnare l'elsa con entrambe le mani, per imprimere maggiore potenza al colpo. Il pomolo di Zar'roc era abbastanza grande da poterlo stringere anche con la sinistra, se dovevo, ma l'incastonatura del rubino era scomoda e non mi permetteva una presa sicura. Sarebbe bello avere un'elsa leggermente più lunga.»


«Ne deduco che non vuoi una vera spada a due mani» disse Rhunön.


Eragon scosse il capo. «No, sarebbe troppo grande per combattere al coperto.»


«Dipende dalla lunghezza dell'elsa e della lama insieme, ma tutto sommato hai ragione. Che cosa ne diresti invece di una spada a una mano e mezza?»


L'immagine della prima spada di Murtagh gli attraversò la mente. E sorrise. Perché no? pensò Eragon. «Sì, una spada a una mano e mezza sarebbe perfetta.»


«E quanto vorresti che fosse lunga la lama?»


«Non più lunga di quella di Zar'roc.»


«Mmm. Vuoi una lama dritta o curva?»


«Dritta.»


«Hai delle preferenze per il guardamano?»


«Nessuna in particolare.»


Con le braccia incrociate, Rhunön abbassò il mento sul petto e socchiuse gli occhi, le labbra strette in una smorfia di concentrazione. «E quanto dovrebbe essere larga la lama? Ricordati, non importa quanto sia stretta, la spada non si spezzerà.»


«Magari un po' più larga di Zar'roc vicino alla guardia.»


«Perché?»


«Penso che sarebbe più elegante.»


Un'aspra risata rauca proruppe dalla gola di Rhunön. «E questo in che cosa migliora l'uso della spada?»


Eragon si agitò a disagio sulla panca, a corto di parole.


«Non chiedermi di creare un'arma in base all'aspetto» lo ammonì Rhunön. «Un'arma è uno strumento, e se è bella, è bella perché è funzionale. Una spada che non sa adempiere al proprio compito ai miei occhi sarebbe brutta anche se avesse una bella forma e fosse adorna delle gemme più preziose e delle incisioni più elaborate.» L'elfa arricciò le labbra e le sporse in fuori mentre rifletteva. «Dunque, ricapitolando... una spada che vada bene sia per gli sfrenati combattimenti in campo aperto che per difenderti nelle strette gallerie del Farthen Dûr. Una spada per tutte le occasioni, di discreta lunghezza, quindi, tranne che per l'elsa che dovrà essere più lunga della media.»


«Una spada per uccidere Galbatorix» disse Eragon.


Rhunön annuì. «E in quanto tale dovrà essere ben protetta contro la magia...» Affondò di nuovo il mento nel petto. «Le armature sono molto migliorate nell'ultimo secolo, perciò la punta dovrà essere più stretta di quanto non fossi solita fare, per trapassare le placche e le maglie e scivolare negli interstizi fra i vari pezzi. Mmm.» Da una borsa legata al fianco Rhunön trasse uno spago annodato con cui prese diverse misure delle mani e delle braccia di Eragon. Poi estrasse un attizzatoio di ferro dalla fucina e glielo lanciò. Lui lo afferrò al volo con una mano e inarcò un sopracciglio, stupito. L'elfa gli fece un cenno con l'indice puntato e disse: «Avanti, ora. In piedi, fammi vedere come ti muovi con una spada.»


Uscendo da sotto la tettoia della fucina, Eragon obbedì, mostrandole le diverse mosse che Brom gli aveva insegnato. Dopo qualche minuto sentì un clangore di metallo sulla pietra. Rhunön tossì e disse: «Oh, che disastro.» Gli si piazzò davanti impugnando un secondo attizzatoio, la fronte solcata da un fiero cipiglio. Si portò l'attrezzo davanti al viso in segno di saluto e disse: «In guardia, Ammazzaspettri!»


L'attizzatoio sibilò nell'aria quando Rhunön gli si avventò contro con un fendente, che Eragon parò saltando di lato. L'attizzatoio che aveva in mano vibrò con violenza quando le due sbarre di metallo cozzarono. Duellarono per qualche minuto. Per quanto fosse evidente che l'elfa non tirava di scherma da un pezzo, Eragon la trovò lo stesso un'avversaria formidabile. Alla fine furono costretti a smettere perché il morbido ferro degli attizzatoi si era piegato, tanto che le sbarre erano storte come i rami di un tasso.


Rhunön prese i due attizzatoi ormai inutilizzabili e li posò sulla pila degli attrezzi rotti. Tornò indietro, sollevò il mento e disse: «Ora so esattamente che forma dovrà avere la tua spada.»

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