Anche Roran uscì, allacciandosi la cintura. Tossì e strizzò gli occhi a sua volta. «Che cosa ti porta qui?» chiese al cugino appena smontato da Saphira.

In tutta fretta, Eragon gli spiegò dell'imminente partenza e fece loro capire quanto era importante che mantenessero il segreto con gli altri abitanti del villaggio. «Non importa se si offenderanno perché mi rifiuto di vederli: non potete rivelare loro la mia assenza, nemmeno a Horst o a Elain. Piuttosto che pronunciare una sola parola sul piano di Nasuada, preferisco che pensino che sono diventato uno zoticone ingrato. Ve lo chiedo per il bene di coloro che si sono schierati contro l'Impero. Lo farete?»

«Non ti tradiremo mai, Eragon» rispose Katrina. «Non dubitarne.» Poi Roran lo informò che anche lui stava per partire.


«Dove vai?» esclamò Eragon.


«La nuova destinazione mi è stata assegnata pochi minuti fa. Andiamo

da qualche parte su a nord, oltre le linee nemiche, a saccheggiare i convogli dell'Impero che trasportano i rifornimenti.»

Eragon osservò prima Roran, serio e determinato, già in tensione al pensiero della battaglia; poi Katrina, che cercava di nascondere la preoccupazione; infine Saphira, dalle cui narici, mentre respirava, uscivano piccole lingue di fuoco tremolanti. «E così ci separeremo tutti.» Ciò che evitò di dire, benché l'idea aleggiasse su di loro come un sudario, era che forse non si sarebbero mai più rivisti in questa vita.

Roran lo afferrò per l'avambraccio, tirandolo verso di sé, e lo strinse per un istante. Poi si allontanò e lo fissò dritto negli occhi. «Guardati le spalle, fratello. Galbatorix non è il solo a cui piacerebbe infilarti un coltello nelle costole non appena ti volti.»

«Sì, e tu fai come me. E se ti ritrovi faccia a faccia con uno stregone, corri dalla parte opposta. Gli incantesimi di difesa che ho evocato per te non dureranno in eterno.»

Katrina lo abbracciò e gli sussurrò: «Non stare via troppo a lungo.» «No.»


Poi i due sposi andarono da Saphira e posarono entrambi la fronte sul

suo lungo muso ossuto. Il petto della dragonessa vibrava mentre emetteva una nota bassa di gola. Roran, gli disse, ricordati di non commettere l'errore di risparmiare i tuoi nemici. E tu, Katrina, non rimuginare troppo su ciò che non puoi cambiare. Non farà che aumentare la tensione. Con un fruscio di pelle e squame, Saphira dispiegò le ali e avvolse i tre in un caldo abbraccio, separandoli dal resto del mondo.

Quando le riaprì, Roran e Katrina si fecero da parte ed Eragon si arrampicò in sella. Poi salutò i cugini con un groppo in gola e continuò ad agitare la mano anche dopo aver preso il volo. Batté le palpebre per schiarirsi la vista, si appoggiò alla punta cervicale davanti a sé e guardò il cielo di traverso.

Andiamo alle cucine? chiese Saphira.


Sì.


Saphira salì di qualche centinaio di piedi prima di puntare verso il quadrante sud-ovest dell'accampamento, dove da file di forni e immensi focolari si levavano colonne di fumo. Mentre la dragonessa fluttuava verso uno spiazzo tra due tende aperte, ognuna lunga cinquanta piedi, li investì una lieve corrente d'aria. La colazione era già terminata, e quando Saphira atterrò con un fragoroso tonfo, il luogo era deserto.

Eragon corse ai focolari dietro i tavoli di legno, seguito a ruota dalla dragonessa. Le centinaia di uomini indaffarati, che badavano al fuoco, macellavano la carne, rompevano le uova, impastavano il pane, rimestavano paioli di ferro colmi di liquidi misteriosi, strofinavano enormi pile di pentole e padelle sporche o erano impegnati nell'infinita fatica di cucinare per i Varden non li degnarono della minima attenzione. Che cos'erano mai un drago e il suo Cavaliere al confronto delle impietose necessità della vorace creatura dalle mille bocche la cui fame si affannavano a saziare?

Un uomo corpulento con il pizzetto brizzolato, abbastanza basso da poter essere scambiato per un nano, trotterellò verso Eragon e Saphira e fece loro un veloce inchino. «Sono Quoth Merrinsson. Come posso aiutarvi? Se vuoi, Ammazzaspettri, abbiamo del pane appena sfornato.» Gli indicò una doppia fila di pagnotte che riposavano su un vassoio su un tavolo vicino.

«Se puoi darmela, mezza pagnotta la accetto volentieri» rispose Eragon. «Tuttavia non è per placare la mia fame che sono qui. Saphira vorrebbe qualcosa da mangiare, ma non abbiamo tempo di andare a caccia.»

Quoth guardò sopra la spalla di Eragon e vide l'imponente mole della dragonessa. «Di solito quanto mangia la...? Ah, scusate: di solito quanto mangi, Saphira? Posso darti subito sei porzioni di carne arrosto, e altre sei tra cinque minuti. È abbastanza, o...?» Deglutì, facendo sobbalzare il pomo d'Adamo.

Saphira emise un dolce gorgoglio e Quoth, strillando, fece un balzo indietro. «Se è possibile, preferirebbe un animale vivo» gli spiegò Eragon.


Con voce stridula, Quoth rispose: «Se è possibile? Oh, ma certo, quello che volete.» Annuì, strizzando il grembiule tra le mani sporche di grasso. «Tutto è possibile, Ammazzaspettri, Saphira. Non per questo mancherà il cibo sulla tavola di re Orrin oggi pomeriggio, no, no.»


E un barile di idromele, disse la dragonessa a Eragon.


Mentre lui ripeteva la richiesta a Quoth, attorno alle iridi dell'uomo comparvero dei cerchi bianchi. «Te-temo che i nani abbiano comprato quasi tutte le no-nostre scorte di i-idromele. Ne sono rimasti so-solo pochi barili, e sono riservati al re...» Quando una fiamma lunga quattro piedi uscì dalle narici di Saphira e bruciò l'erba davanti alla dragonessa, il povero Quoth sussultò. Dagli steli anneriti si levarono intricate volute di fumo. «Ve ne fa-faccio portare uno su-subito. Se vo-volete seguirmi, vi accompagno dove c'è il be-bestiame, così potrete sce-scegliere il capo migliore.»


Aggirando il fuoco, i tavoli e i gruppi di uomini indaffarati, il cuoco li condusse a una serie di grandi recinti di legno che racchiudevano maiali, bovini, oche, capre, pecore, conigli e un gran numero di cervi selvatici che i cacciatori dei Varden avevano catturato durante le loro incursioni nelle foreste che circondavano l'accampamento. Vicino ai recinti c'erano stie piene di polli, anatre, colombi, quaglie, pernici e altri pennuti. Tutto quello starnazzare, cinguettare, tubare e gracchiare creava una cacofonia così stridente che Eragon digrignò i denti, infastidito. Per evitare di essere sopraffatto dai pensieri e dai sentimenti di tutte quelle creature, fece in modo di chiudere la mente a chiunque, tranne che a Saphira.


I tre si fermarono a un centinaio di piedi dai recinti, per evitare che la presenza della dragonessa scatenasse il panico tra le bestie imprigionate. «C'è qualcosa di tuo gradimento?» le chiese Quoth, guardandola e strofinandosi le mani con nervosa destrezza.


Mentre passava in rassegna i recinti, Saphira inspirò e disse a Eragon: Poveretti... sai, non è che abbia poi tanta fame. Sono andata a caccia solo l'altroieri e non ho ancora finito di digerire gli ossi del cervo che ho mangiato.


Stai ancora crescendo, e in fretta anche. Devi nutrirti, ti farà bene.


No, se poi mi rimane tutto sullo stomaco.


Scegli qualcosa di piccolo, allora. Un maiale, magari.


Non sarebbe di alcun aiuto per te. No... Prenderò quella.


Gli trasmise mentalmente l'immagine di una mucca di media grandezza con il fianco sinistro chiazzato di bianco.


Dopo che Eragon gli ebbe indicato l'animale, Quoth richiamò a gran voce una fila di uomini che stavano oziando accanto ai recinti. Due di loro allontanarono la mucca dal resto della mandria, le fecero passare una corda attorno alla testa e la trascinarono riluttante verso la dragonessa. A trenta piedi di distanza, la mucca puntò le zampe e si accucciò terrorizzata, poi cercò di liberarsi e fuggire. Prima che ci riuscisse, Saphira coprì la distanza che le separava a balzi. Vedendola correre verso di loro con le fauci spalancate, i due uomini si gettarono a terra.


Mentre la mucca si voltava per fuggire, la dragonessa la colpì sul fianco, abbattendola, poi la bloccò con le zampe divaricate. La mucca emise un solo muggito di terrore prima che le fauci della dragonessa le si chiudessero sul collo. Scuotendo violentemente la testa, le spezzò la spina dorsale. Poi si fermò, si chinò sulla vittima e guardò Eragon, in attesa.


Lui chiuse gli occhi ed espanse la mente per raggiungere la mucca, i cui sensi erano già svaniti nell'oblio, anche se il corpo era ancora vivo e la carne pulsava di energia vitale, persino più intensa per la scarica di paura che l'aveva attraversata pochi attimi prima. Ciò che stava per fare era ripugnante, ma senza indugio Eragon posò una mano sulla cintura di Beloth il Savio e trasferì più energia possibile dal corpo della mucca nei dodici diamanti nascosti. Gli ci vollero solo pochi secondi.


Poi annuì verso Saphira. Fatto.


Eragon ringraziò gli uomini per l'aiuto e li congedò.


Mentre la dragonessa divorava il suo pasto, Eragon si sedette con la schiena contro il barile di idromele e osservò i cuochi. Ogni volta che uno di loro o un assistente decapitava un pollo o sgozzava un maiale o una capra o qualsiasi altro animale, trasferiva l'energia della creatura morente nella cintura di Beloth il Savio. Era un compito orribile, perché gli animali erano ancora vivi quando ne toccava la coscienza, e lui si sentiva travolgere da un lamentoso vortice di paura e confusione che gli faceva battere il cuore all'impazzata e gli imperlava la fronte di sudore; a quel punto, il suo unico desiderio era guarire quegli esseri sofferenti. Ma sapeva che erano destinati a morire, altrimenti i Varden avrebbero patito la fame. Nelle ultime battaglie aveva esaurito la scorta di energia e voleva fare rifornimento prima di partire per quel viaggio così lungo e pieno di insidie. Se Nasuada gli avesse consentito di rimandare la partenza di un'altra settimana, avrebbe potuto ricaricare i diamanti traendo l'energia dal proprio corpo, recuperando le forze prima di correre nel Farthen Dûr, ma nelle poche ore rimaste era impossibile. E se anche non avesse fatto altro che restare disteso a letto e riversare il fuoco dalle sue membra nelle gemme, non sarebbe riuscito a raccoglierne tanto quanto quello che gli stava fornendo la moltitudine di animali destinati alla mensa.


A quanto sembrava, i diamanti della cintura di Beloth il Savio potevano assorbire una quantità di energia quasi illimitata, così si fermò solo quando non riuscì più a tollerare la prospettiva di immergersi negli ultimi spasmi vitali di quelle povere bestie. Tremante e sudato dalla testa ai piedi, si chinò, le mani sulle ginocchia, e fissò il terreno fra i piedi, sforzandosi di non vomitare. Nei suoi pensieri si insinuarono immagini che non appartenevano ai suoi ricordi: Saphira che sorvolava il Lago Leona portandolo in groppa, loro due che si tuffavano nell'acqua fresca e limpida, una nube di candide bolle che gli scorreva davanti, il piacere condiviso di volare e nuotare e giocare insieme.


Prese a respirare con più calma e guardò Saphira che, accucciata fra i resti della mucca, ne sgranocchiava il teschio. Sorrise e le comunicò la sua gratitudine per l'aiuto.


Adesso possiamo andare, le disse.


Saphira deglutì e rispose: Prendi anche la mia forza. Potresti averne bisogno.


No.


Guarda che tanto stavolta non la spunti. Insisto.


Anch'io. Non ti lascerò qui indebolita e impreparata per la battaglia. E se Murtagh e Castigo attaccano oggi? Dobbiamo essere entrambi pronti a combattere da un momento all'altro. Tu sarai più in pericolo di me, perché Galbatorix e l'Impero crederanno che io sia con te.


Sì, ma tu sarai solo con un Kull nel bel mezzo di una landa selvaggia.


Sono abituato tanto quanto te alle lande selvagge. Essere lontano dalla civiltà non mi spaventa. Quanto al Kull... be', non so se riuscirei a batterne uno in una gara di lotta, ma le mie difese mi proteggeranno da eventuali tradimenti... Ho abbastanza energia, Saphira. Non serve che tu me ne dia altra.


La dragonessa lo guardò, soppesò le sue parole, poi alzò una zampa sporca di sangue e cominciò a leccarla per ripulirla. Benissimo, allora la terrò per me... Gli angoli della sua bocca parvero piegarsi in un abbozzo di sorriso. Poi abbassò la zampa e disse: Ti dispiacerebbe far rotolare fin qui il barile? Con un grugnito, Eragon si alzò e obbedì. Saphira sfoderò un artiglio e aprì due buchi sul coperchio, da cui filtrò il dolce aroma della bevanda a base di mele e miele. Quindi inarcò il collo quanto bastava perché la testa fosse proprio sopra il barile, lo afferrò tra le robuste mandibole, lo sollevò e versò il contenuto gorgogliante nel gozzo. Infine lasciò cadere a terra il barile vuoto, che si frantumò in mille pezzi; uno dei cerchi di ferro rotolò per diverse iarde. Arricciando il labbro di sopra, Saphira scosse la testa, per un attimo trattenne il fiato e poi starnutì così forte che picchiò il naso a terra: dalla bocca e dalle narici eruttò un bolo di fuoco.


Eragon strillò per la sorpresa e balzò via, sventolando il bordo fumante della tunica. Il lato destro della faccia gli scottava. Saphira, stai più attenta! esclamò.


Scusa. La dragonessa abbassò la testa e si strofinò il muso sporco di terra su una zampa davanti, grattandosi le narici. L'idromele pizzica.


Ormai dovresti saperlo, brontolò Eragon mentre le si arrampicava in groppa.


Dopo essersi grattata il muso con la zampa un'altra volta, Saphira spiccò il volo con un balzo e fluttuando sopra l'accampamento dei Varden riportò Eragon alla sua tenda. Lui smontò e rimase a guardarla. Nessuno dei due disse nulla per un po', lasciando che fossero le emozioni condivise a parlare. Saphira batté le palpebre ed Eragon si disse che aveva gli occhi più lucidi del normale. Questa è una prova, gli disse. Se la superiamo, ne usciremo più forti, io come drago e tu come Cavaliere.


Dobbiamo essere capaci di dare il meglio di noi anche da soli, se necessario, altrimenti saremo sempre in svantaggio rispetto agli altri.


Sì. Saphira scavò nella terra con gli artigli serrati. Saperlo non allevia il dolore, comunque. Un brivido le corse lungo il corpo sinuoso. Scosse le ali. Che il vento ti gonfi le ali e il sole splenda sempre alle tue spalle. Che il tuo sia un viaggio rapido e piacevole, piccolo mio.


A presto, la salutò Eragon.


Sentiva che se fosse rimasto con lei anche solo un altro istante non sarebbe mai riuscito ad andarsene, così si voltò di scatto e senza guardarsi indietro spari nel buio della sua tenda. Benché ormai il contatto tra loro fosse diventato una parte integrante di sé, come carne della propria carne, lo troncò di netto. Ben presto sarebbero stati troppo lontani per avvertire uno la mente dell'altra, e lui non desiderava affatto prolungare il dolore del congedo. Rimase dov'era per un attimo, stringendo l'elsa del falcione e ondeggiando come se avesse le vertigini. Già lo pervadeva il sordo dolore della solitudine e senza la confortante presenza della coscienza di Saphira si sentì minuscolo e isolato. È già successo una volta; posso farlo di nuovo, pensò, e si costrinse a raddrizzare le spalle e a levare il mento.


Da sotto la branda estrasse lo zaino che aveva utilizzato tornando dall'Helgrind. Vi ripose il tubo di legno intarsiato avvolto nella stoffa che conteneva la pergamena con il poema composto per l'Agaetí Blödhren, che Oromis aveva copiato per lui nella sua più elegante calligrafia; il fiasco di faelnirv magico e l'astuccio di steatite contenente il nalgask, anch'essi doni di Oromis; il librone che gli aveva regalato Jeod, il Bornia abr Wyrda; la cote e la striscia di cuoio per affilare le lame e, dopo qualche esitazione, i diversi pezzi dell'armatura. In caso di bisogno, la gioia che proverò nell'averla con me sarà superiore alla disperazione che provo adesso all'idea di doverla portare in spalla fino al Farthen Dûr, si disse. O almeno così sperava. Invece prese il libro e la pergamena perché, dopo tanto viaggiare, era giunto alla conclusione che il modo migliore per evitare di perdere oggetti a cui teneva era non separarsene.


Gli unici capi di vestiario che decise di portare furono un paio di guanti, che ficcò dentro l'elmo, e il pesante mantello di lana, nel caso avesse fatto freddo durante la notte. Tutto il resto rimase avvolto nelle bisacce sulla sella di Saphira. Se sono un membro del Dûrgrimst Ingeitum a tutti gli effetti, pensò, mi daranno abiti appropriati non appena arriverò alla Rocca di Bregan.


Poi chiuse lo zaino e vi legò in cima l'arco privo di corda e la faretra. Stava per allacciare nello stesso punto anche il falcione, ma si rese conto che, se si fosse piegato di lato, la spada sarebbe potuta scivolare fuori dal fodero. Così lo fissò sul retro dello zaino, sistemandolo in modo che l'elsa gli spuntasse tra il collo e la spalla destra, pronta per essere sguainata subito all'occorrenza.


Si infilò in spalla lo zaino, varcò le barriere della propria mente e sentì l'energia scorrergli nel corpo, e da lì nei dodici diamanti incastonati nella cintura di Beloth il Savio. Attingendo a quel flusso di forza, mormorò l'incantesimo che aveva pronunciato una sola volta, quello che respingeva la luce attorno a sé e lo rendeva invisibile. Mentre evocava la formula magica, si sentì indebolire da un lieve velo di fatica.


Quando si guardò il busto e le gambe, non vedere nulla tranne le impronte degli stivali nella terra fu un'esperienza sconcertante. Ora viene la parte più difficile, pensò.


Andò in fondo alla tenda, squarciò la stoffa resistente con il coltello da caccia e sgattaiolò fuori. Agile come un gatto ben nutrito, Blödhgarm lo stava aspettando fuori. Inclinò la testa verso il punto in cui immaginava si trovasse Eragon e gli sussurrò: «Arrivederci, Ammazzaspettri», poi si apprestò a pronunciare cinque o sei parole nell'antica lingua per riparare lo squarcio.


Eragon si avviò lungo il sentiero tra due file di tende, cercando di fare meno rumore possibile. Ogni volta che si avvicinava qualcuno, si scostava e restava immobile, sperando che non si notassero le impronte lasciate dalle sue orme nella terra o nel prato. Maledisse il fatto che il terreno fosse tanto secco; per quanto li appoggiasse con delicatezza, i suoi stivali tendevano a sollevare nuvolette di polvere. Cosa sorprendente, l'invisibilità diminuì il suo senso dell'equilibrio; non vedendosi le mani e i piedi, continuava a calcolare in modo impreciso le distanze e a cozzare contro qualsiasi cosa, quasi come se si fosse scolato troppa birra.


Nonostante avanzasse incerto, raggiunse la fine dell'accampamento in un tempo ragionevole e senza destare alcun sospetto. Si fermò dietro un barile per raccogliere l'acqua piovana, in un punto in cui l'ombra avrebbe nascosto le sue impronte, e studiò i bastioni e i canali fiancheggiati da pali aguzzi che proteggevano il fianco orientale dei Varden. Se fosse stato dalla parte opposta, per quanto invisibile, entrare e sfuggire alle tante sentinelle sarebbe stato difficilissimo. Ma poiché le trincee e i bastioni erano stati progettati per respingere i nemici e non per imprigionare gli alleati, uscire era un'impresa molto più semplice.


Eragon attese finché le due sentinelle più vicine non si voltarono, poi si lanciò in avanti, dandosi più spinta possibile con le braccia. Impiegò appena pochi istanti ad attraversare il centinaio di piedi che separavano il barile dal declivio del terrapieno, che poi risalì in fretta, come un sasso fatto rimbalzare a pelo d'acqua. Arrivato in cima, piantò bene i piedi nel terreno; poi saltò, e agitando le braccia superò le linee di difesa dei Varden. Si librò in aria per lo spazio di tre silenziosi battiti del cuore, poi atterrò, e gli scricchiolarono le ossa.


Non appena ebbe recuperato l'equilibrio, si distese a terra e trattenne il fiato. Una delle sentinelle di ronda si fermò, ma non sembrava che avesse notato nulla di strano, e infatti dopo un po' riprese a camminare. Eragon esalò un respiro e sussurrò: «Du deloi lunaea», poi sentì che l'incantesimo cancellava le orme lasciate dai suoi stivali.


Ancora invisibile, si rialzò e si allontanò di buon passo dall'accampamento, attento a calpestare solo ciuffi d'erba in modo da non sollevare altra terra. Più si allontanava dalle sentinelle, più veloce correva, finché non si lanciò al galoppo, più rapido di un cavallo.


Quasi un'ora dopo discese a saltelli il ripido crinale di un fosso che il vento e la pioggia avevano scavato nel prato, dove scorreva un rigagnolo fiancheggiato di giunchi e mazzesorde. Eragon lo seguì, mantenendosi a una certa distanza dal molle, umido terriccio vicino all'acqua per evitare di lasciare tracce, finché il fiumiciattolo non si trasformò in un piccolo stagno. Lì, seduto a torso nudo su un masso accanto alla riva, riconobbe il profilo di un Kull.


Via via che Eragon si faceva strada attraverso il campo di mazzesorde, il rumore delle foglie e degli steli avvertì il Kull della sua presenza. La creatura volse l'immensa testa cornuta verso di lui, annusando l'aria. Era Nar Garzhvog, il capo degli Urgali alleati dei Varden.


«Tu!» esclamò Eragon, tornando visibile.


«Salve, Spadarossa» borbottò Garzhvog. L'Urgali sollevò le muscolose membra e il torso gigantesco, e si erse in tutta la sua altezza di otto piedi e mezzo, la pelle grigia sopra i muscoli vibrante alla luce del sole di mezzodì.


«Salve, Nar Garzhvog» rispose Eragon. «E i tuoi arieti? Se vieni con me, chi li comanderà?» gli chiese, confuso.


«Il mio fratello di sangue, Skgahgrezh. Non è un Kull, ma ha le corna lunghe e il collo massiccio. È un ottimo condottiero.»


«Capisco... Perché sei voluto venire, comunque?»


L'Urgali sollevò il mento squadrato e si schiarì la gola. «Tu sei Spadarossa. Non devi morire, altrimenti gli Urgralgra - o Urgali, come ci chiamate voi - non potranno vendicarsi di Galbatorix e la nostra razza scomparirà. Ecco perché correrò insieme a te. Sono il migliore tra i nostri combattenti. Ho sconfitto quarantadue arieti in una volta sola.»


Eragon annuì, per niente dispiaciuto dalla piega che avevano preso gli eventi. Tra tutti gli Urgali, Garzhvog era quello di cui si fidava di più, perché ne aveva messo alla prova la coscienza prima della battaglia delle Pianure Ardenti e aveva scoperto che, almeno secondo i criteri della sua razza, era onesto e affidabile. Finché non deciderà che il suo onore gli impone di sfidarmi a duello, tra noi non sorgeranno motivi di conflitto.


«Molto bene, Nar Garzhvog» disse, stringendosi la cinghia dello zaino in vita. «Che si sappia, non è mai successo nella storia che uno come me e uno come te corressero insieme.»


Garzhvog ridacchiò tra sé. «Forza, andiamo, Spadarossa.»


Insieme si rivolsero a est e insieme partirono alla volta dei Monti Beor. La corsa di Eragon era lieve e veloce, mentre l'Urgali lo seguiva a grandi falcate. Un suo passo corrispondeva a due passi di Eragon, e la terra tremava sotto il suo peso imponente. In cielo, nubi gonfie di pioggia si ammassavano all'orizzonte, facendo presagire una tempesta torrenziale, e i falchi che volavano in circolo a caccia di prede lanciavano il loro verso malinconico.

OLTRE LE COLLINE E I MONTI


Eragon e Nar Garzhvog corsero per due giorni di fila, notte compresa, fermandosi solo per dissetarsi e liberare il corpo dei suoi rifiuti.

Alla fine Garzhvog disse: «Spadarossa, ho bisogno di mangiare e di dormire.»


Eragon si appoggiò a un ceppo lì vicino, ansimando, e annuì. Non voleva cedere per primo, ma era affamato e stanco quanto il Kull. Poco dopo aver lasciato l'accampamento dei Varden, aveva scoperto di riuscire a batterlo in velocità per le prime cinque miglia; poi, quanto a resistenza, l'Urgali non era da meno, e addirittura lo superava.


«Vengo a caccia con te» gli propose.


«Non serve. Tu accendi un grande fuoco; al cibo penso io.»


«D'accordo.»


Dopo che Garzhvog si fu incamminato verso un boschetto di betulle a nord, Eragon slegò la cinghia dello zaino e con un sospiro di sollievo lo posò a terra vicino al ceppo. «Accidenti a questa armatura» bofonchiò. Nemmeno entro i confini dell'Impero aveva corso tanto con quel peso sulle spalle. Non aveva immaginato che sarebbe stata un'impresa così ardua. Gli facevano male i piedi e la schiena e, quando tentò di accucciarsi, le ginocchia si rifiutarono di piegarsi.


Cercando di non badare alla scomodità che gli dava il non potersi chinare, prese a raccogliere erba e rami secchi, che poi ammucchiò su un fazzoletto di terra asciutto e roccioso.


Lui e Garzhvog si trovavano a est della punta meridionale del Lago Tüdosten. Il suolo era umido e la vegetazione rigogliosa, con prati d'erba alta sei piedi, in cui vagavano branchi di cervi, gazzelle e buoi selvatici dal manto nero, con grandi corna rivolte all'indietro. Eragon sapeva che la zona era così ricca per la presenza dei Monti Beor, che contribuivano alla formazione di enormi banchi di nubi che si spostavano per molte leghe sulle pianure al di là della catena montuosa, portando la pioggia in luoghi altrimenti aridi come il deserto di Hadarac.


Benché i due avessero già corso per un impressionante numero di leghe, Eragon era deluso. Tra il fiume Jiet e il Lago Tüdosten avevano perso molte ore a nascondersi e deviare in modo da non essere visti. Ora che si erano lasciati il lago alle spalle, sperava che avrebbero aumentato l'andatura. Nasuada non aveva previsto questo ritardo, vero? Oh, no. Pensava che sarei riuscito a correre a rotta di collo dall'accampamento al Farthen Dûr. Ah! Diede un calcio a un ramo davanti a sé, poi continuò a raccogliere legna, borbottando.


Un'ora dopo, quando Garzhvog tornò, Eragon era seduto di fronte al fuoco lungo una iarda e ampio due piedi che aveva acceso e fissava le fiamme, cercando di resistere in tutti i modi alla tentazione di scivolare nel mondo dei sogni a occhi aperti e riposare. Non appena alzò la testa, gli scricchiolò il collo.


Garzhvog avanzava verso di lui con la carcassa di una bella cerva bene in carne sotto il braccio sinistro. Come se non pesasse più di un sacco di stracci, sollevò l'animale e ne conficcò la testa sulla forcella di un albero a una ventina di iarde dal fuoco. Poi prese un coltello e cominciò a ripulire la carcassa.


Eragon si alzò - le sue giunture parevano di pietra - e si avvicinò all'ariete barcollando.


«Come hai fatto a ucciderla?» gli chiese.


«Con la fionda» ringhiò l'altro.


«Vuoi cuocerla allo spiedo? O gli Urgali mangiano la carne cruda?»


Garzhvog volse il capo e scrutò Eragon da dietro il corno sinistro a spirale, un occhio giallo incavato che brillava di chissà quale enigmatica emozione. «Non siamo bestie, Spadarossa.»


«Non ho detto questo.»


L'Urgali grugnì e tornò al suo lavoro.


«Ci vorrà una vita per cucinarlo allo spiedo» commentò Eragon.


«Pensavo di farlo stufato, e quello che avanza si potrà friggere su una pietra.»


«Stufato? E come? Non abbiamo una pentola.»


Garzhvog si chinò e si pulì la mano destra per terra, poi dalla sacca che aveva in vita estrasse uno strano oggetto di forma quadrata, ripiegato più volte, e lo lanciò a Eragon.


Lui cercò di prenderlo, ma era così stanco che lo mancò. Sembrava un vello enorme. Non appena lo raccolse da terra, il quadrato si aprì: aveva la forma di un sacco, largo un piede e mezzo e profondo tre. Il bordo era rinforzato con una spessa striscia di cuoio su cui erano cuciti anelli di metallo. Eragon rovesciò il contenitore, sbalordito da tanta morbidezza e dal fatto che non ci fossero cuciture.


«Che cos'è?»


«Lo stomaco dell'orso che ho ucciso l'anno in cui mi sono spuntate le corna. Appendilo a qualcosa o mettilo in un buco per terra, poi riempilo d'acqua e buttaci dentro delle pietre bollenti. Le pietre scalderanno l'acqua. Sentirai che delizia.»


«Ma la pelle non brucia?»


«Non è mai successo.»


«È magico?»


«Niente magia. Solo pellaccia dura.» Mentre afferrava la cerva per i fianchi e, con un solo movimento, le spezzava l'osso pelvico in due, Garzhvog sbuffò. Per sfondare lo sterno usò il coltello.


«Dev'essere stato un orso enorme» disse Eragon.


Garzhvog emise uno strano suono di gola, una sorta di ruk ruk. «Era più grosso di me adesso, Ammazzaspettri.»


«Hai ucciso anche quello con la fionda?»


«L'ho strangolato a mani nude. Nel rito di iniziazione all'età adulta devi dimostrare il tuo coraggio, e non sono ammesse armi.» Garzhvog tacque un momento, il coltello infilzato nella carcassa fino all'elsa. «A nessuno di noi verrebbe mai in mente di cercare di uccidere un orso. Perlopiù andiamo a caccia di lupi o di capre di montagna. Ecco perché io sono diventato il capo.»


Eragon lasciò a lui il compito di preparare la carne e tornò al fuoco. Accanto a esso scavò un buco e vi depositò lo stomaco dell'orso, infilando dei pezzi di legno nei cerchi di metallo per bloccarlo. Poi raccolse una dozzina di sassi grandi quanto mele e li gettò nel fuoco. In attesa che si scaldassero, usò la magia per riempire d'acqua i due terzi della pelle, poi ricavò un paio di pinze da un giovane salice e un pezzo di pelle nodosa.


Quando i sassi furono rosso ciliegia, gridò: «Sono pronti!»


«Buttali nell'acqua» rispose Garzhvog.


Servendosi delle pinze, Eragon recuperò quelli più vicini e obbedì. Al contatto con il calore, la superficie dell'acqua esplose in volute di vapore. Altri due, e l'acqua giunse a ebollizione.


Garzhvog vi gettò dentro due manciate di carne, poi insaporì lo stufato con un paio di abbondanti pizzichi di sale presi dalla sacca che aveva in vita e diversi rametti di rosmarino, timo e altre erbe selvatiche che aveva trovato durante la caccia. Poi piazzò una lastra piatta di scisto accanto al fuoco. Quando fu calda al punto giusto, vi appoggiò sopra le strisce di carne.


Mentre il cibo cuoceva, i due ricavarono dei cucchiai dal ceppo su cui Eragon aveva posato lo zaino.


La fame protrasse a dismisura il tempo di attesa, almeno per Eragon, ma in verità lo stufato fu pronto in pochi minuti. Lui e Garzhvog mangiarono voraci come lupi. Eragon divorò il doppio di quanto non fosse mai riuscito a mangiare prima e il resto fu ripulito dall'ariete, che si abbuffava come sei uomini corpulenti.


Poi Eragon si sdraiò, appoggiandosi ai gomiti, e fissò le lucciole brillanti che erano comparse lungo il limitare del boschetto di betulle e si rincorrevano disegnando linee contorte. Da qualche parte una civetta chiurlò, un suono dolce e rauco. Le prime stelle punteggiarono il cielo viola.


Eragon fissò un punto nel vuoto e pensò a Saphira, poi ad Arya, poi a tutte e due; infine chiuse gli occhi. Le tempie gli pulsavano a ritmo regolare. Sentì uno scricchiolio; riaprì gli occhi e dalla parte opposta della pelle dell'orso vide che Garzhvog si puliva i denti con l'estremità appuntita di un femore. Eragon gli guardò i piedi nudi - l'Urgali si era tolto i sandali prima di mangiare - e con sua grande sorpresa notò che aveva sette dita.


«Anche i nani hanno sette dita» gli fece notare.


Garzhvog sputò un pezzo di carne nella brace. «Non lo sapevo. Sai, non ho mai avuto tutta questa voglia di guardare i piedi di un nano.»


«Non ti pare curioso che gli Urgali e i nani abbiano quattordici dita mentre gli elfi e gli umani ne hanno dieci?»


Garzhvog arricciò le labbra carnose in un ringhio. «A parte le dita dei piedi, non abbiamo niente in comune con quei ratti di montagna senza corna, Spadarossa. Si vede che quando crearono il mondo, agli dei piacque così. Non ci sono altre spiegazioni.»


Per tutta risposta, Eragon grugnì e tornò a guardare le lucciole. Poi disse: «Raccontami una storia di cui la tua razza va fiera, Nar Garzhvog.»


Il Kull rifletté un momento, poi si tolse l'osso di bocca. «Tanto tempo fa» cominciò «viveva una giovane Urgralgra di nome Maghara. Aveva le corna che brillavano come pietra lucida, i capelli che le scendevano fin oltre la vita e con la sua risata riusciva a incantare gli uccelli e a chiamarli a sé dai loro nidi negli alberi. Ma non era bella. Anzi, era proprio brutta. Nel suo villaggio viveva un ariete fortissimo. Aveva ucciso quattro avversari in incontri di lotta e ne aveva sconfitti ventitré. Tuttavia, anche se grazie alle sue imprese si era conquistato una vasta fama, non aveva ancora scelto una compagna. Maghara desiderava essere la prescelta, ma lui non l'avrebbe mai nemmeno degnata di uno sguardo perché era brutta; e poiché sapeva di essere brutta, Maghara non riusciva a vedere quanto fossero lucenti le sue corna, o splendidi i suoi lunghi capelli, o quanto fosse bello sentirla ridere. Con il cuore infranto, Maghara scalò la montagna più alta della Grande Dorsale e invocò l'aiuto di Rahna, la madre di tutti noi, colei che ha inventato il telaio e l'aratro, colei che ha innalzato i Monti Beor mentre era in fuga dal grande drago. Rahna, Colei che ha le Corna Dorate, rispose e le chiese perché l'aveva chiamata. "Fammi diventare bella, o Madre Onorata, così che possa ammaliare l'ariete che bramo" le rispose Maghara. "Non serve essere bella, Maghara. Hai corna lucenti, lunghi capelli e una deliziosa risata. Con queste qualità conquisterai un ariete che non sia così sciocco da guardare solo il viso di una femmina" le disse Rahna, però Maghara si buttò a terra e insisté: "Non sarò felice finché non avrò lui, Madre Onorata. Ti prego, fammi diventare bella." Rahna sorrise e rispose: "Se esaudisco la tua richiesta, bambina mia, come pensi di ripagarmi?" E Maghara: "Ti darò ciò che vuoi."


«Rahna fu soddisfatta, così la fece diventare bella. Quando Maghara tornò al villaggio, tutti la ammirarono. Grazie al suo nuovo viso, l'ariete che amava la scelse come compagna ed ebbero molti figli e vissero felici per sette anni. Poi Rahna andò da lei e le disse: "Hai trascorso sette anni insieme all'ariete che volevi. Sei felice?" E Maghara rispose: "Sì." Allora Rahna continuò: "Sono venuta a riscuotere la mia ricompensa." Si guardò intorno nella casa di pietra, afferrò il primogenito di Maghara e disse: "Prendo lui." Maghara implorò Colei che ha le Corna Dorate di risparmiarlo, ma lei fu irremovibile. Alla fine Maghara prese la mazza del compagno e fece per colpire la dea, ma l'arma le si frantumò fra le mani. Per punizione Rahna la privò della bellezza e se ne andò con il primogenito verso il suo palazzo, dove risiedono i quattro venti. Chiamò il bambino Hegraz, lo allevò e lo fece diventare uno dei più potenti guerrieri che mai abbiano camminato su questa terra. La morale della storia è che non bisogna mai opporsi al proprio destino, perché si finisce sempre col perdere ciò che abbiamo di più caro.»


Eragon guardò il fulgido profilo della luna crescente apparire sopra l'orizzonte a est. «Raccontami dei vostri villaggi.»


«Cosa vuoi sapere?»


«Tutto. Quella volta, quando entrai nella tua mente e in quella di Khagra e di Otvek, trovai centinaia di immagini, ma ne ricordo solo una manciata e comunque non nei dettagli. Sto cercando di dare un senso a ciò che vidi allora.»


«Potrei dirti un sacco di cose» grugnì Garzhvog. Con gli occhi grevi e pensierosi, si passò lo stuzzicadenti improvvisato attorno a una zanna e disse: «Prendiamo dei tronchi e scolpiamo su di essi i musi degli animali e le montagne, poi li conficchiamo nel terreno accanto alle nostre case per spaventare gli spiriti delle foreste. A volte sono così ben fatti che sembrano vivi. Quando entri in uno dei nostri villaggi, ti senti addosso gli occhi degli animali...» Trattenne l'osso fra le dita, poi continuò a muoverlo avanti e indietro nella bocca. «Accanto alla soglia di ogni capanna appendiamo il namna. È un lembo di stoffa grande quanto la mia mano aperta. Ce ne sono di tutti i colori e descrivono la storia della famiglia che vive in quella capanna. Solo i tessitori più anziani e abili possono aggiungere qualche particolare o ripararne uno se è danneggiato...» L'osso gli scomparve nel pugno. «Nei mesi invernali, chi ha una compagna lavora con lei al tappeto del focolare. Ci vogliono almeno cinque anni per finirlo, dunque alla fine sai se hai scelto la compagna giusta.»


«Non ho mai visto uno dei vostri villaggi» disse Eragon. «Devono essere ben nascosti.»


«E ben difesi, anche. Pochi di coloro che vedono le nostre case sopravvivono per raccontarlo.»


Concentrandosi sul Kull, Eragon gli chiese, con una punta di nervosismo nella voce: «Come hai fatto a imparare la nostra lingua? C'erano esseri umani tra voi? Li tenevate come schiavi?»


Garzhvog ricambiò lo sguardo senza battere ciglio. «Noi non abbiamo schiavi, Spadarossa. Ciò che so lo strappo dalle menti degli uomini contro cui combatto e poi lo condivido con il resto della mia tribù.»


«Hai ucciso molti umani, vero?»


«Anche tu hai ucciso molti Urgralgra, Spadarossa. Ecco perché dobbiamo essere alleati; altrimenti la mia razza non sopravviverà.»


Eragon incrociò le braccia. «Quando io e Brom eravamo sulle tracce dei Ra'zac, passammo da Yazuac, un villaggio vicino al fiume Ninor. Trovammo tutti gli abitanti ammucchiati al centro, morti. In cima alla pila di cadaveri c'era un neonato infilzato su una lancia. Fu la cosa più brutta che avessi mai visto. E a ucciderli erano stati gli Urgali.»


«Prima che mi spuntassero le corna» replicò Garzhvog, «mio padre mi portò in uno dei nostri villaggi lungo la frangia occidentale della Grande Dorsale. Trovammo la nostra gente torturata, bruciata e massacrata. Gli abitanti di Narda ci avevano scoperti e avevano attaccato di sorpresa il villaggio insieme a molti soldati. Della nostra tribù non si salvò nessuno... È vero che amiamo la guerra più di altre razze, Spadarossa, e spesso questa è stata la nostra rovina. Le donne non ci prendono nemmeno in considerazione come compagni se prima non dimostriamo il nostro valore in battaglia e non abbiamo ucciso almeno tre nemici. E la gioia che si prova nel combattere è impareggiabile. Ma benché amiamo le imprese d'armi, non significa che non siamo consapevoli dei nostri errori. A meno che la nostra razza non riesca a cambiare, se dovesse sconfiggere i Varden, Galbatorix ci ucciderà tutti, mentre sarete tu e Nasuada a ucciderci nel caso in cui foste voi ad avere la meglio su quel traditore dalla lingua biforcuta. Non ho forse ragione, Spadarossa?»


Eragon annuì. «Sì.»


«Non è bene rimuginare sugli errori del passato, dunque. Se non riusciamo a superare ciò che hanno fatto i nostri popoli, non ci sarà mai pace tra umani e Urgralgra.»


«Immaginiamo di sconfiggere Galbatorix e che Nasuada dia alla tua razza la terra che avete chiesto. Come dovremmo comportarci se fra vent'anni i vostri figli cominciassero a saccheggiare e a uccidere per fare colpo sulle femmine? La vostra storia insegna che è andata così ogni volta che gli Urgali hanno siglato accordi di pace.»


Con un profondo sospiro, Garzhvog rispose: «In quel caso c'è da sperare che ci siano ancora degli Urgralgra oltreoceano, e che siano più saggi, perché di noi in questa landa non resterà più nessuno.»


Per tutta la notte nessuno dei due proferì più parola. Garzhvog si rannicchiò su un fianco e dormì con l'immensa testa posata a terra, mentre Eragon si avvolse nel mantello, sedette con la schiena appoggiata al ceppo e fissò le stelle che a rilento andavano e venivano nel suo mondo di sogni a occhi aperti.

Alla fine del giorno dopo arrivarono in vista dei Monti Beor. All'inizio non erano altro che forme spettrali all'orizzonte, spigolosi pannelli bianchi e viola; ma via via che però calava la sera, la distante catena montuosa acquistò consistenza, ed Eragon riuscì a distinguere la scura striscia di alberi che correva lungo la base e, sopra, quella ancora più ampia e scintillante di neve e ghiaccio, a sua volta sormontata dalle vette di nuda pietra grigia, così alte che non vi cresceva alcuna vegetazione e nemmeno vi cadeva la neve. Eragon rimase sopraffatto dalle dimensioni dei Monti Beor, proprio come la prima volta che li aveva visti. L'istinto continuava a dirgli che non poteva esistere nulla di così immenso, eppure gli occhi non lo ingannavano. Le montagne erano alte in media dieci miglia, alcune perfino di più.

Eragon e Garzhvog non si fermarono per la notte ma continuarono a correre con il buio e per tutto il giorno dopo. Al mattino il cielo era terso; a causa della presenza dei Monti Beor, però, il sole non si vide prima di mezzogiorno, quando fece capolino all'improvviso fra due picchi, e raggi di luce grandi quanto le montagne si riversarono sulla terra ancora avvolta in quello strano crepuscolo. Allora Eragon si fermò sulla riva di un ruscello e contemplò la vista, rapito e silenzioso, per diversi minuti.

Via via che aggiravano la vasta catena montuosa, il viaggio cominciò a sembrargli disagevole come quando era volato da Gil'ead al Farthen Dûr con Murtagh, Saphira e Arya. Gli parve anche di riconoscere il luogo dove si erano accampati dopo aver attraversato il Deserto di Hadarac.

I giorni e le notti si alternavano interminabili con insostenibile lentezza e strabiliante velocità, perché ogni ora era identica a quella prima, il che induceva Eragon a chiedersi se la loro impresa si sarebbe mai conclusa e se ampie parti di essa fossero mai davvero accadute.

Quando arrivarono alla bocca dell'enorme crepaccio che divideva in due le montagne per molte leghe, da nord a sud, svoltarono a destra e passarono in mezzo ai freddi picchi imperturbabili. Arrivati al fiume Zannadorso, che sgorgava dalla stretta vallata che portava al Farthen Dûr, guadarono le gelide acque e proseguirono verso sud.

Quella sera, prima di avventurarsi a est nel cuore delle montagne, si accamparono vicino a un laghetto e riposarono le membra esauste. Garzhvog uccise un altro cervo con la fionda, stavolta un maschio, e mangiarono entrambi a volontà.

Saziata la fame, mentre era chino a riparare un buco sul fianco dello stivale, Eragon sentì un ululato spettrale che gli fece battere il cuore all'impazzata. Si guardò intorno nel paesaggio buio e, allarmato, scorse il profilo di una grossa bestia che saltellava sui ciottoli intorno al laghetto.

«Garzhvog» chiamò Eragon a fior di labbra, poi fece per prendere il falcione dallo zaino. Il Kull raccolse da terra un sasso grande come un pugno, caricò la tasca di cuoio della fionda e poi, ergendosi in tutta la sua altezza, aprì le fauci e ululò nella notte finché nella landa circostante non risuonò l'eco del suo coraggioso grido di sfida.

La bestia si fermò, poi riprese a camminare più lentamente, annusando il terreno qua e là. Quando entrò nell'alone di luce del fuoco, Eragon trattenne il respiro. Di fronte a loro c'era un lupo grigio grande come un cavallo, con due sciabole al posto delle zanne e ardenti occhi gialli che seguivano ogni loro movimento. Le zampe del lupo erano larghe come scudi.

Uno Shrrg!

pensò.

Mentre il gigantesco lupo perlustrava l'accampamento, muovendosi quasi senza far rumore nonostante la stazza, Eragon pensò a come si sarebbero comportati gli elfi con un animale selvatico e declamò nell'antica lingua: «Fratello Lupo, non è nostra intenzione farti del male. Stanotte il nostro branco riposa, non caccia. Ti invitiamo a condividere con noi il nostro cibo e il calore del nostro rifugio fino a domattina.» Sentendolo, lo Shrrg si fermò e ruotò le orecchie in avanti.

«Spadarossa, che cosa fai?» grugnì Garzhvog.


«Non attaccare per primo.»


La bestia dal massiccio dorso avanzò piano, facendo vibrare la punta del

grosso naso umido. Avvicinò il muso irsuto al fuoco, incuriosito dal dimenarsi delle fiamme, poi raggiunse i resti di carne e viscere sparsi a terra dove Garzhvog aveva macellato il cervo. Si accucciò e addentò i bocconi di cibo, poi si alzò e, senza voltarsi, si allontanò nelle profondità della notte.

Eragon si rilassò e ripose il falcione nel fodero. Garzhvog, tuttavia, rimase in piedi dov'era, le labbra scoperte in un ringhio, le orecchie tese e lo sguardo concentrato in cerca di anomalie nell'oscurità circostante.

Alle prime luci dell'alba i due lasciarono l'accampamento e si avviarono di corsa verso est, entrando nella valle che li avrebbe condotti al Monte Thardûr.

Mentre passavano sotto i rami della fitta foresta che proteggeva l'interno della catena montuosa, l'aria divenne molto più fresca e il soffice letto di aghi di pino per terra attutì i loro passi. Gli orridi alberi scuri che li sovrastavano altissimi sembravano osservarli mentre si facevano strada tra i grossi tronchi e aggiravano le radici contorte che spuntavano dalla terra umida, alte due, tre e spesso quattro piedi. Grandi scoiattoli neri zampettavano tra i rami, squittendo a gran voce. Un folto strato di muschio ricopriva gli alberi morti e caduti. Felci e lamponi e altre frondose piante verdi crescevano rigogliose accanto a funghi di ogni forma, dimensione e colore.

Non appena Eragon e Garzhvog si ritrovarono all'interno della lunga vallata, il mondo rimpicciolì. Attorno a loro incombevano gigantesche montagne, tanto grandi quanto opprimenti, e il cielo era una remota, irraggiungibile striscia di mare blu, così lontana come Eragon non l'aveva mai vista. Poche nubi sfilacciate sfioravano le spalle delle montagne.

Circa un'ora dopo mezzogiorno, quando tra gli alberi riecheggiò una serie di terribili ruggiti, i due rallentarono. Eragon sguainò il falcione e Garzhvog raccolse da terra una liscia pietra di fiume e la caricò nella tasca della fionda.

«È un orso delle caverne» dichiarò. Un verso furioso e acuto, simile al rumore di metallo contro metallo, sottolineò le sue parole. «E c'è anche un Nagra. Dobbiamo stare attenti, Spadarossa.»

Procedettero lentamente, e ben presto scorsero degli animali sul dorso di una montagna, parecchie centinaia di piedi più su di dove erano loro in quel momento. Un branco di cinghiali rossicci con larghe zanne taglienti correvano in modo disordinato davanti a un'immensa massa di pelo marrone-argenteo, dotata di artigli uncinati e denti aguzzi, che si muoveva a gran velocità. All'inizio la distanza ingannò Eragon, ma poi paragonò gli animali agli alberi accanto a loro e si rese conto che rispetto ai cinghiali uno Shrrg non era altro che un nanerottolo, e che l'orso era grande quasi quanto la sua casa nella Valle Palancar. I cinghiali lo avevano azzannato ai fianchi, che sanguinavano, ma a quanto pareva l'attacco era riuscito solo a farlo infuriare ancora di più. Ritto sulle zampe, l'orso ruggì e schiacciò un cinghiale con una delle sue immense zampe, scaraventandolo da parte e squarciandogli il manto. Per tre volte la bestia tentò di rialzarsi e per tre volte l'orso la colpì, finché quella non cedette e rimase immobile. Mentre l'orso si chinava per banchettare con la preda, gli altri cinghiali si rifugiarono strillando sotto gli alberi, risalirono la montagna e si allontanarono.

Sbalordito dalla forza dell'orso delle caverne, Eragon seguì Garzhvog che entrava lentamente nel campo visivo dell'animale. Alzando il muso insanguinato dal ventre della vittima, l'orso li guardò con i suoi occhietti luccicanti, poi decise che non costituivano una minaccia e riprese a mangiare.

«Credo che nemmeno Saphira riuscirebbe ad avere la meglio su un mostro del genere» mormorò Eragon.


Garzhvog emise un piccolo grugnito. «Un drago sputa fuoco. Un orso delle caverne no.»


Nessuno dei due distolse lo sguardo dall'orso finché non fu scomparso dietro gli alberi, e perfino allora tennero le armi a portata di mano, non sapendo quali altri pericoli avrebbero potuto incontrare.


Quando ormai il giorno scivolava nel pomeriggio, udirono un altro suono. Qualcuno rideva. Eragon e Garzhvog si fermarono, poi l'ariete alzò un dito e con sorprendente rapidità si infilò in un fitto muro di vegetazione, strisciando verso la risata. Eragon lo seguì, Camminando con cautela, trattenendo il respiro per paura che questo tradisse la loro presenza.


Sbirciò attraverso un cespuglio di foglie di sanguinella e accanto a un sentiero battuto che correva sul fondo della vallata vide tre bambini nani che, tra strilli e risate, giocavano a lanciarsi dei legnetti. Non c'erano adulti nei paraggi. Eragon rimase a distanza di sicurezza, poi sbuffò ed esaminò il cielo: a circa un miglio da lì scorse diversi pennacchi di fumo bianco.


Garzhvog gli si accucciò accanto, spezzando un ramoscello, e si guardarono negli occhi. «Spadarossa, qui ci separiamo» disse l'ariete.


«Non verrai alla Rocca di Bregan con me?»


«No. Il mio compito era proteggerti. Se ti accompagno oltre, i nani non avranno più fiducia in te. Il Monte Thardûr è vicino e sono sicuro che nessuno oserà farti del male durante il tragitto.»


Eragon si strofinò la base del collo e guardò prima Grazhvog e poi il fumo a est. «Tornerai subito dai Varden?»


Con una risatina sommessa, Garzhvog rispose: «Sì, ma forse non così veloce come all'andata.»


Senza sapere che cosa dire, con la punta dello stivale Eragon staccò il bordo marcio di un ceppo, sotto cui apparve una covata di larve bianche aggrovigliate nei cunicoli che avevano scavato. «Non farti mangiare da uno Shrrg o da un orso... Altrimenti poi mi tocca scovare quella bestiaccia e ucciderla, e non ne ho proprio il tempo.»


Garzhvog avvicinò i pugni alla fronte ossuta. «Che i tuoi nemici si prostrino davanti a te, Spadarossa.» Poi si alzò, si voltò e si allontanò a grandi balzi. Ben presto la foresta inghiottì la sagoma ingombrante del Kull.


Eragon si riempì i polmoni della fresca aria di montagna, poi si fece strada nella fitta boscaglia. Quando emerse dal folto di felci e sanguinella, i minuscoli bambini nani rimasero pietrificati, un'espressione cauta sui faccini rubicondi. Allargando le braccia, Eragon disse: «Sono Eragon Ammazzaspettri, Figlio di Nessuno. Cerco Orik, figlio di Thrifk, alla Rocca di Bregan. Potete portarmi da lui?» Vedendo che i bambini non rispondevano, si rese conto che non capivano la sua lingua. «Sono un Cavaliere dei Draghi» continuò, parlando piano e sottolineando ogni parola. «Eka eddyr aí Shur'tugal... Shur'tugal... Argetlam.»


Ai bambini si illuminarono gli occhi. «Argetlam!» esclamarono pieni di stupore. «Argetlam!» Gli corsero incontro, avvolgendogli le gambe con le loro braccine corte, e gli tirarono i vestiti, gridando di gioia. Eragon li fissò e si rese conto che gli si stampava in volto uno sorriso sciocco. I bambini lo afferrarono per le mani e lui si lasciò guidare lungo il sentiero. Anche se non capiva nulla, continuavano a parlargli nella lingua dei nani e a raccontargli ciò che non poteva comprendere, ma si divertì ad ascoltare.


Quando uno di loro - una femmina, forse - protese le braccia verso di lui, Eragon la prese e se la issò sulle spalle, e non appena lei gli tirò i capelli sussultò. La piccola proruppe in una risata acuta e dolce, ed Eragon sorrise di nuovo. Così equipaggiato e accompagnato, si incamminò verso il Monte Thardûr e da lì alla Rocca di Bregan, dove viveva Orik, il suo fratello adottivo.

♦ ♦ ♦


PER IL MIO AMORE

Roran fissò il tondo sasso levigato che teneva fra le mani. Si accigliò, frustrato.


«Stenr rïsa!» grugnì a fior di labbra.


Il sasso si rifiutò di muoversi.


«Che stai facendo, Fortemartello?» gli chiese Carn, lasciandosi cadere sul ceppo accanto a Roran.


Roran infilò il sasso nella cintura, poi accettò il pane e il formaggio che gli aveva portato lo stregone e rispose: «Niente. Cercavo di distrarmi.»


Carn annuì. «Tutti lo fanno prima di una missione.»


Mentre Roran mangiava, il suo sguardo vagò tra i compagni d'armi. Erano trenta, lui compreso, tutti guerrieri dalla scorza dura. Ognuno aveva un arco e molti anche una spada, ma solo in pochi avevano deciso di combattere con una lancia, una mazza o un martello. Roran intuì che sette o otto dovevano essere all'incirca suoi coetanei, mentre gli altri erano molto più vecchi. Il più anziano era il capitano, Martland Barbarossa, il deposto duca di Thun: aveva visto trascorrere tanti inverni che ormai la sua leggendaria barba era diventata argentea, anzi, sembrava ricoperta di ghiaccio.


Dopo essersi unito al contingente di Martland, Roran si era presentato nella sua tenda. Il duca era basso e, avendo trascorso una vita a cavalcare e a maneggiare spade, aveva membra forti. La barba che gli aveva meritato il soprannome era folta e ben curata e gli arrivava a metà del petto. Dopo aver osservato Roran, il conte aveva detto: "Lady Nasuada mi ha detto grandi cose di te, ragazzo, e ho sentito molto altro dai miei uomini, per non parlare di voci, pettegolezzi, dicerie e cose simili. Lo sai com'è che funziona, no? Non c'è dubbio, hai compiuto gesta degne di nota: affrontare i Ra'zac nel loro covo, per esempio, è stata un'impresa davvero non da poco. Certo, potevi contare sull'aiuto di tuo cugino, eh? Forse con la gente del tuo villaggio sei abituato a fare il bello e il cattivo tempo, ma adesso sei uno dei Varden, ragazzo. Anzi, adesso sei uno dei miei guerrieri. Non siamo la tua famiglia. Non siamo i tuoi vicini di casa. E non dare per scontato che siamo tuoi amici. Il nostro compito è eseguire gli ordini di Nasuada, e li eseguiremo, qualunque sia il nostro giudizio in merito. Finché presterai servizio sotto di me, farai ciò che ti dico, quando te lo dico e come te lo dico, o giuro sulle ossa della mia povera mamma... che possa riposare in pace... che ti frusterò di persona fino a spellarti vivo, e non m'importa un fico secco di chi sei parente. Hai capito?"


"Sissignore!"


"Ottimo. Se ti comporterai bene, dimostrerai di avere buon senso e soprattutto se venderai cara la pelle, tra i Varden potrai fare carriera in fretta: basta essere determinati. Tuttavia sarò io a decidere se ritenerti degno di comandare un manipolo di uomini. Ma non credere nemmeno per un istante... per un solo maledetto istante, capito?... di potermi adulare e conquistarti così i miei favori. Che io ti piaccia o che tu mi odi sono affari tuoi. L'unica cosa che mi interessa è che tu ci sappia fare."


"Tutto chiaro, signore!"


"Sì, lo spero proprio, Fortemartello. Lo scopriremo presto. Adesso va', presentati da Ulhart, il mio braccio destro."


Roran ingoiò gli ultimi tozzi di pane e li accompagnò con un sorso di vino preso dalla bisaccia. Avrebbe preferito consumare un pasto caldo, quella sera, ma erano in pieno territorio nemico e se avessero acceso il fuoco i soldati dell'Impero avrebbero potuto individuarli. Con un sospiro allungò le gambe. Negli ultimi tre giorni aveva cavalcato Fiammabianca dal tramonto all'alba e gli facevano male le ginocchia.


Nei recessi della mente, giorno e notte Roran sentiva una debole ma costante pressione, un prurito che lo spingeva sempre nella stessa direzione: Katrina. La fonte di quella sensazione era l'anello che gli aveva dato Eragon. Gli era di grande conforto sapere che grazie a esso lui e Katrina si sarebbero sempre potuti ritrovare in qualunque punto di Alagaësia, anche se fossero diventati entrambi sordi e ciechi.


Accanto a sé sentì Carn borbottare frasi nell'antica lingua e sorrise. Era il loro stregone, mandato per assicurarsi che non venissero uccisi da un mago nemico con un semplice cenno della mano. Da qualche compagno Roran aveva appreso che non era molto potente, anzi, per lanciare un incantesimo doveva sforzarsi, e non poco, ma compensava la propria debolezza inventando formule magiche di straordinaria astuzia e insinuandosi nelle menti degli avversari con abilità. Carn era magro, sia di viso sia di corpo, teneva gli occhi sempre socchiusi e aveva l'aria nervosa e impulsiva. A Roran era piaciuto subito.


Di fronte a lui, altri due uomini, Halmar e Ferth, erano seduti davanti alla loro tenda. Halmar diceva all'altro: «Allora, quando i soldati vennero a prenderlo, lui radunò gli uomini all'interno della sua proprietà e diede fuoco alle pozze d'olio che i servi avevano versato, intrappolando così i soldati e facendo credere a chi arrivò dopo che fossero tutti morti carbonizzati. Ma ci pensi? Uccise cinquecento soldati in un colpo solo, e senza sguainare nemmeno la spada!»


«Come fece a fuggire?» chiese Ferth.


«Il nonno di Barbarossa era un gran bastardo, oh, sì, ma era anche molto astuto. Aveva fatto scavare un tunnel che dal palazzo arrivava fino al fiume più vicino. Passando di lì, Barbarossa riuscì a mettere in salvo la sua famiglia e tutti i suoi servitori, poi li portò nel Surda, dove re Larkin diede loro rifugio. Passarono molti anni prima che Galbatorix scoprisse che erano ancora vivi. Siamo fortunati a essere con lui, puoi starne certo. Ha perso solo due battaglie, e in entrambi i casi per colpa della magia.»


Vedendo arrivare Ulhart in mezzo alla fila di sedici tende, Halmar tacque. Il veterano dal volto arcigno si fermò a gambe larghe, immobile come una quercia con le radici ben piantate in terra, e passò in rassegna le tende per verificare che non mancasse nessuno all'appello. «Il sole è tramontato, tutti a dormire» ordinò. «Si parte due ore prima dell'alba. Il convoglio dev'essere sette miglia a nord-ovest da qui. Se arriviamo in tempo, li attaccheremo non appena cominciano a muoversi. Uccidiamo tutti, appicchiamo il fuoco e poi torniamo indietro. Sapete come fare, no? Fortemartello, tu vieni con me. Fai qualche sciocchezza e ti sventro come un pesce con un amo aguzzo.» Gli uomini ridacchiarono. «Forza, andate a dormire.»

Il vento sferzava Roran in pieno volto. Il sangue gli pulsava forte nelle vene, tanto da soffocare ogni altro suono. Fiammabianca era lanciato al galoppo. Il suo campo visivo era limitato; non vedeva nulla, a parte due soldati in sella a giumente marroni accanto al penultimo carro della carovana dei rifornimenti.

Levando il martello sopra la testa, gridò con tutte le sue forze. I due soldati vennero colti alla sprovvista e presero ad armeggiare con le armi e gli scudi. A uno di loro cadde la lancia e l'uomo si chinò a raccoglierla.


Roran tirò le redini per rallentare il passo di Fiammabianca, poi si alzò sulle staffe e, portatosi a fianco del primo soldato, lo colpì sulla spalla, squarciandogli la cotta di maglia. L'uomo gridò, e il braccio gli ricadde lungo il corpo. Roran lo finì con un colpo di rovescio.


Recuperata la lancia, l'altro soldato cercò di colpire Roran al collo, e quello si riparò abbassandosi dietro lo scudo rotondo. Ogni volta che la punta della lancia cozzava contro il legno, lo scudo vibrava. Roran strinse le gambe attorno ai fianchi di Fiammabianca, che si impennò, poi prese a nitrire e a scalciare con gli zoccoli ferrati. Lo stallone colpì il soldato al petto, strappandogli la tunica rossa. Non appena il cavallo si fu calmato, Roran fece roteare il martello di lato e gli squarciò la gola.


Lasciandolo agonizzante a terra, spronò Fiammabianca verso il carro successivo, dove Ulhart stava combattendo da solo contro tre soldati. Ogni carro era tirato da quattro buoi, e mentre Fiammabianca superava il carro appena conquistato, il bue in prima fila voltò la testa, infilando la punta del corno nella gamba destra di Roran, che si ritrovò con il fiato mozzato dal dolore. Fu come se un ferro incandescente gli avesse perforato la carne; Roran guardò in basso e vide penzolare un lembo dello stivale con un brandello di pelle e muscoli appeso.


Lanciando un altro grido bellicoso, raggiunse il più vicino dei tre soldati contro cui stava lottando Ulhart e lo abbatté con un solo colpo di martello. L'altro soldato però riuscì a schivare il suo affondo, girò il cavallo e fuggì.


«Prendilo!» gli gridò Ulhart, ma lui si era già lanciato all'inseguimento.


Il soldato in fuga conficcò gli speroni nella pancia del cavallo fino a farlo sanguinare, ma nonostante quella disperata crudeltà non poté competere con Fiammabianca. Mentre lo stallone sfrecciava a un'incredibile velocità, Roran si abbassò. Compreso che era impossibile sperare di fuggire, il soldato tirò le redini, si voltò e lo colpì con la sciabola. Roran alzò il martello e riuscì a deviare appena in tempo la lama affilata come un rasoio. Poi fece roteare l'arma sopra la testa, ma il soldato la schivò e lo colpì alle braccia e alle gambe altre due volte. Roran imprecò a fior di labbra. Il soldato era ovviamente più esperto di lui con la spada; se non fosse riuscito a sconfiggerlo nel giro di qualche secondo, l'avrebbe ucciso di sicuro.


Il soldato doveva avere intuito il proprio vantaggio, perché i suoi attacchi si fecero ancora più serrati. In ben tre occasioni Roran fu certo che la sciabola del suo avversario l'avrebbe colpito, ma ogni volta all'ultimo momento la lama lo mancava, deviata da una forza invisibile. Allora si ricordò con riconoscenza degli incantesimi di difesa pronunciati da Eragon.


Non sapendo che altro fare, si affidò alla sorpresa: protese il collo e la testa e gridò «Buh!» come se volesse spaventare qualcuno in un corridoio buio. Il soldato trasalì e Roran si chinò e gli piantò il martello nel ginocchio sinistro. L'uomo impallidì dal dolore. Prima che potesse riprendersi, Roran lo colpì all'altezza del coccige e poi, mentre l'altro gridava e inarcava la schiena, pose fine alle sue sofferenze con una rapida mazzata alla testa.


Rimase seduto un momento, senza fiato, poi tirò le redini di Fiammabianca e lo spronò al piccolo galoppo verso il convoglio. Guardandosi intorno rapido, attratto da ogni minimo movimento, Roran fece il punto della situazione. Gran parte dei soldati erano già morti, così come i civili che conducevano i carri. Vicino alla testa del convoglio, Carn era in piedi di fronte a un uomo alto con una lunga veste; tranne qualche piccolo fremito di tanto in tanto, unico segnale dell'invisibile duello in corso, erano entrambi immobili. Roran vide l'avversario di Carn cadere a terra.


A metà convoglio, tuttavia, cinque soldati intraprendenti si erano asserragliati all'interno di tre carri senza buoi disposti a triangolo, e sembrava che riuscissero a tenere in scacco Martland Barbarossa e altri dieci Varden. Quattro di loro erano armati di lancia; il quinto prese a scoccare frecce, obbligandoli a riparare dietro il carro più vicino. L'arciere aveva già ferito parecchi avversari: alcuni erano caduti da cavallo, altri erano riusciti a restare in sella abbastanza a lungo da trovare un rifugio.


Roran si accigliò. Non potevano permettersi di perdere tempo su una delle strade più battute dell'Impero, e poi andavano troppo a rilento. Il tempo era tiranno.


Tutti i soldati erano rivolti a ovest, la direzione da cui i Varden avevano attaccato. Oltre a Roran, nessuno si era portato dalla parte opposta del convoglio; dunque i nemici ignoravano che stava per attaccarli da est.


Escogitò un piano. In altre circostanze l'avrebbe scartato perché ridicolo e impraticabile, ma in quel momento gli parve l'unica azione che avrebbe potuto porre fine a quel momento di stallo. Non si preoccupò di considerare il pericolo che lui stesso avrebbe corso; quando la carica era cominciata, la paura di morire o di restare ferito era svanita.


Lanciò Fiammabianca al galoppo. Afferrò il bordo della sella, posò appena le punte degli stivali sulle staffe e tese i muscoli. Quando fu a una cinquantina di piedi dal triangolo di carri, si diede una spinta, si issò sulla sella e rimase accucciato. Gli ci vollero tutta l'abilità e la concentrazione di cui era capace per mantenere l'equilibrio. Come aveva previsto, Fiammabianca diminuì la velocità e virò di lato a mano a mano che i carri si avvicinavano.


Non appena lo stallone si fu voltato, Roran lasciò le redini e balzò giù da cavallo, spiccando un gran salto e atterrando sul carro rivolto a est. Si sentì lo stomaco sottosopra. Colse di sfuggita il volto dell'arciere, gli occhi rotondi profilati di bianco, poi gli si avventò contro e rovinarono entrambi a terra. Il corpo del nemico attutì la sua caduta. Mettendosi in ginocchio, Roran levò lo scudo e lo piantò tra l'elmo e la tunica del soldato, spezzandogli il collo; poi si alzò.


Gli altri quattro soldati reagirono con lentezza. Quello a sinistra fece l'errore di cercare di portare con sé la lancia nel triangolo formato dai carri, ma la lunga arma si incastrò tra il retro di un carro e la ruota davanti di un altro, e gli si spezzò fra le mani. Roran gli si avventò contro. Il soldato cercò di battere in ritirata, ma i carri gli bloccavano la via di fuga. Roran fece roteare il martello e lo colpì sotto il mento.


Il secondo soldato fu più astuto. Lasciò andare la lancia e tentò di sfoderare la spada che teneva alla cintura, ma riuscì solo a sguainare la lama per metà prima che Roran lo colpisse al petto.


Ormai il terzo e il quarto soldato erano pronti per affrontarlo. Puntarono su di lui, le spade tese, un ghigno in volto. Roran cercò di schivarli, ma la gamba ferita lo tradì; inciampò e cadde su un ginocchio. Riuscì a bloccare con lo scudo un fendente, poi si gettò in avanti e fracassò il piede di uno dei due soldati con il lato piatto del martello. L'uomo crollò a terra imprecando e un istante dopo Roran gli fracassò il volto; poi cadde di schiena, anche se sapeva che l'ultimo soldato era proprio dietro di lui.


Pietrificato, rimase disteso a braccia e gambe aperte.


Il soldato era sopra di lui con la spada tesa, la punta della lama scintillante a meno di un pollice dalla sua gola.


Dunque è giunta la mia ora, pensò.


Poi attorno al collo dell'uomo comparve un braccio nerboruto, che lo strattonò all'indietro. Il soldato emise un grido strozzato mentre dal petto gli spuntavano la lama di una spada e uno schizzo di sangue, poi crollò a terra, inerte, e dietro di lui apparve Martin Barbarossa. Il duca aveva il respiro affannoso e la barba e il petto insanguinati.


Poi infilzò la spada nel terreno, si appoggiò sul pomello e osservò la carneficina all'interno del triangolo di carri. Annuì. «Sì, credo che tu ci sappia fare.»

Roran si sedette in fondo a un carro, mordendosi la lingua mentre Carn gli tagliava il resto dello stivale per sfilarglielo. Cercando di ignorare le stilettate di dolore alla gamba, guardò gli avvoltoi volargli in circolo sopra la testa e si concentrò sui ricordi di casa sua, nella Valle Palancar.

Mentre Carn esaminava in profondità lo squarcio, grugnì.


«Mi dispiace, ma devo ispezionare la ferita» gli disse lo stregone. Roran continuò a fissare gli avvoltoi e non rispose. Un minuto dopo,

Carn pronunciò una serie di parole nell'antica lingua, e trascorso qualche secondo Roran avvertì che le fitte si trasformavano in un dolore sordo e continuo. Poi guardò la gamba e scoprì che era perfettamente guarita.

Per lo sforzo di curare lui e altri due uomini prima, il mago era grigio in volto e tremava. Si accasciò contro il carro, abbracciandosi il busto, un'espressione nauseata in viso.

«Stai bene?» gli chiese Roran.

Carn alzò appena le spalle. «Dammi un attimo e mi riprenderò... Il bue ti ha lacerato solo la parte esterna dell'osso della gamba. Ho curato la ferita solo in superficie, ma non avevo la forza per guarirla completamente. Ti ho dato dei punti per tenere insieme la pelle e il muscolo, così sanguineranno meno e non ti faranno troppo male. I punti non reggeranno a lungo; ma la carne deve guarire da sola.»

«Quanto tempo ci vorrà?»


«Una settimana, forse due.»


Roran si infilò ciò che restava dello stivale. «Eragon mi ha circondato di

incantesimi per proteggermi da eventuali ferite. Oggi mi hanno salvato la vita diverse volte. Perché non mi hanno protetto dal corno del bue?»

«Non lo so» rispose Carn sospirando. «È impossibile essere pronti per ogni eventualità. Ecco perché la magia è così pericolosa. Se tralasci anche un solo aspetto di un incantesimo magari non succede niente di grave, al massimo ti indebolisce un po', ma nella peggiore delle ipotesi può avere conseguenze terribili che non avevi previsto. Accade anche ai migliori maghi. Forse c'era qualcosa che non andava negli incantesimi di tuo cugino, una parola sbagliata o una frase mal costruita: ecco perché il bue è riuscito a ferirti.»

Roran scese dal carro e raggiunse zoppicando la testa del convoglio per verificare l'esito della battaglia. Cinque Varden erano stati feriti, lui compreso, e altri due erano morti: uno lo conosceva appena, mentre con l'altro, Ferth, aveva parlato in diverse occasioni. Dei nemici, invece, non era sopravvissuto nessuno.

Si fermò accanto ai primi due soldati che aveva ucciso e ne esaminò i cadaveri. Sentì un sapore amaro in bocca e gli si rivoltò lo stomaco per la repulsione. Quanti ne ho uccisi... non lo so più. Capì che nella follia della battaglia delle Pianure Ardenti aveva perso il conto delle vittime lasciate sul campo. Rimase turbato dal fatto di non sapere nemmeno più quante persone aveva ucciso. Devo massacrare interi campi di esseri umani per recuperare ciò che l'Impero mi ha tolto? Poi gli sovvenne un pensiero ancora più sconcertante: E se anche ci riuscissi, come potrei tornare nella Valle Palancar e vivere in pace dopo che la mia anima è stata macchiata dal sangue di centinaia di persone?

Chiuse gli occhi e rilassò tutti i muscoli del corpo per cercare di calmarsi. Ho ucciso per amore. Ho ucciso per amore di Katrina, di Eragon e di tutti gli abitanti di Carvahall, e anche dei Varden e di questa nostra terra. Per questo amore, se necessario sono disposto ad attraversare un oceano di sangue.

«Mai visto niente di simile, Fortemartello» esclamò Ulhart. Roran si riebbe e si trovò davanti il guerriero brizzolato che teneva Fiammabianca per le redini. «Nessuno sarebbe stato così pazzo da inventarsi un trucchetto come quello... Oh! Saltare sui carri! E uno su mille sarebbe sopravvissuto per raccontarlo. Ottimo lavoro. Sta' attento, però. Non penserai di potertene andare in giro a fare il funambolo e combattere da solo contro cinque soldati e aspettarti di vedere la prossima estate, eh? Fatti furbo, e sii più cauto.»

«Lo terrò a mente» rispose Roran, prendendo il cavallo dal suo superiore.


Dopo aver sbaragliato l'ultimo soldato, i guerrieri rimasti incolumi erano andati di carro in carro, e usando i coltelli avevano aperto i fagotti e descritto il contenuto a Martland, il quale aveva preso nota di tutto così che Nasuada potesse studiare le informazioni e forse carpire qualche indizio sui piani futuri di Galbatorix. Roran osservò gli uomini esaminare gli ultimi carri, che contenevano sacchi di farina e mucchi di uniformi. Poi sgozzarono i buoi sopravvissuti, inondando la strada di sangue. A Roran dispiacque di uccidere quelle povere bestie, ma capiva quanto fosse importante privarne l'Impero e, se glielo avessero chiesto, avrebbe impugnato il coltello lui stesso. Avrebbero potuto portarli con sé fino all'accampamento dei Varden, ma erano troppo lenti e ingombranti. I cavalli dei soldati nemici invece sarebbero riusciti a tenere il passo; così ne catturarono quanti più possibile e li legarono dietro i loro.


Poi uno degli uomini prese una torcia imbevuta di resina dalle bisacce fissate alla sella e dopo aver armeggiato per qualche istante con la pietra focaia e l'acciaio la accese. Cavalcò avanti e indietro lungo il convoglio, appiccò il fuoco a ciascun carro e infine gettò la torcia nell'ultimo della fila.


«In sella!» gridò Martland.


Mentre montava su Fiammabianca, Roran sentì pulsare la gamba ferita. Spronò lo stallone e raggiunse Carn, mentre il resto degli uomini si disponeva in coppie dietro il duca.


Martland partì al trotto, seguito a ruota dal gruppo, e si lasciò alle spalle i carri in fiamme, una fila di gemme luccicanti allineate lungo la strada deserta.

♦ ♦ ♦


UNA FORESTA DI PIETRA

Dalla folla si levò un'ovazione.


Eragon era seduto sugli spalti di legno che i nani avevano costruito fuori dai bastioni della Rocca di Bregan. Il forte era arroccato su una spalla arrotondata del Monte Thardûr, a oltre un miglio di altitudine dal fondo della valle nebbiosa. Da lì si vedeva a leghe di distanza in ogni direzione, almeno fino alle creste delle montagne, che bloccavano la visuale. Come Tronjheim e le altre città dei nani che Eragon aveva visitato, la Rocca di Bregan era tutta di pietra, un granito rossastro che dava alle stanze e ai corridoi un senso di calore. La Rocca era un solido e imponente edificio di cinque piani che terminava con una torre campanaria a cielo aperto, sormontata da una goccia di vetro larga quanto due nani e sorretta da quattro coste di granito che si univano a formare una sorta di montatura appuntita. La goccia, come gli aveva spiegato Orik, era una versione ingrandita delle lanterne senza fiamma dei nani, e in caso di emergenza la sua luce dorata poteva illuminare l'intera valle. I nani la chiamavano Az Sindriznarrvel, la Gemma di Sindri. Ammassate tutto intorno sorgevano i numerosi alloggi per la servitù e per i guerrieri del Dûrgrimst Ingeitum, e altre strutture di vario genere, come stalle, forge e un tempio dedicato a Morgothal, il dio del fuoco adorato dai nani, il patrono dei fabbri. Sotto le alte mura lisce, disseminate nelle radure dentro la foresta, c'erano decine di fattorie di pietra da cui si levavano spirali di fumo.


Orik aveva mostrato e spiegato a Eragon tutto ciò e molto altro dopo che i tre bambini nani lo avevano scortato nel cortile della rocca, gridando «Argetlam!» a chiunque fosse a portata d'orecchio. Orik lo aveva accolto come un fratello, poi l'aveva portato ai bagni e gli aveva procurato una veste porpora scuro e una banda dorata da mettere sulla fronte.


Infine lo sorprese presentandogli Vedra, una nana dagli occhi luminosi, il viso tondo come una mela e i capelli lunghi, sua moglie da soli due giorni. Mentre Eragon, sbalordito, faceva loro le congratulazioni, Orik spostò il peso del corpo da un piede all'altro e disse: «Mi è spiaciuto che tu non abbia potuto partecipare alla cerimonia. Ho chiesto a uno dei nostri stregoni di cercare Nasuada e le ho domandato se poteva far avere il mio invito a te e a Saphira, ma si è rifiutata; temeva che ti distraesse dall'incarico imminente. Non mi sento di biasimarla, ma avrei voluto che nonostante questa guerra fossi venuto alle mie nozze, così come mi sarebbe piaciuto partecipare a quelle di tuo cugino, perché adesso siamo tutti parenti, se non per vincoli di sangue, almeno davanti alla legge.»


Con un forte accento, Vedra aggiunse: «Ti prego di considerarmi tua sorella, Ammazzaspettri. Per quanto in mio potere, alla Rocca di Bregan sarai sempre trattato come uno di famiglia e potrai rifugiarti da noi ogni volta che ne avrai bisogno, fosse anche Galbatorix in persona a darti la caccia.»


Eragon si inchinò, commosso dalla sua offerta. «È molto gentile da parte tua.» Poi le chiese: «Se non sono troppo indiscreto, perché tu e Orik avete scelto di sposarvi proprio adesso?»


«Avremmo dovuto celebrare le nozze questa primavera, ma...» disse Vedra.


«Ma gli Urgali hanno attaccato il Farthen Dûr» continuò Orik con i suoi soliti modi bruschi «e poi Rothgar mi ha spedito insieme a te a Ellesméra. Quando sono tornato qui e le famiglie del clan mi hanno accettato come loro grimstborith, abbiamo pensato che fosse il momento ideale per rendere ufficiale il nostro fidanzamento e diventare marito e moglie. Forse nessuno di noi sopravviverà fino al prossimo anno, dunque perché temporeggiare?»


«E così sei diventato capoclan» disse Eragon.


«Sì. Scegliere il nuovo leader del Dûrgrimst Ingeitum è stata una faccenda controversa - abbiamo discusso per più di una settimana - ma alla fine le famiglie hanno accettato che fossi io a seguire le orme di Rothgar e a prenderne il posto, in quanto suo unico erede.»


Eragon, seduto accanto a Orik e a Vedra, divorava il pane e la carne di montone che gli avevano portato i nani, osservando la gara in corso. Orik gli aveva spiegato che, secondo la tradizione, una famiglia di nani benestante deve organizzare dei giochi per intrattenere gli invitati al ricevimento di nozze. La famiglia di Rothgar era così ricca che la festa proseguiva ormai da tre giorni ed era previsto che continuasse per altri quattro. Le discipline in programma erano diverse: lotta, tiro con l'arco, scherma, gare di forza fisica e il Ghastar, che stavano ammirando proprio in quel momento.


Dalle estremità opposte di un campo erboso, due nani si lanciarono di corsa l'uno contro l'altro in groppa a una Feldûnost bianca. Le capre di montagna cornute attraversarono il prato a balzi di una settantina di piedi ciascuno. Il nano sulla destra aveva un piccolo scudo legato al braccio sinistro, ma non portava armi. L'altro invece non aveva scudi ma era pronto a scagliare un giavellotto.


Mentre la distanza tra le barbebianche diminuiva, Eragon trattenne il fiato. Quando furono a meno di trenta piedi l'una dall'altra, il nano con la lancia tagliò l'aria col braccio e scagliò la sua arma contro l'avversario. L'altro non si riparò con lo scudo, ma tese la mano e con incredibile destrezza afferrò il giavellotto per il manico e poi lo brandì sopra la testa. La folla riunita intorno ai recinti esplose in un grido roboante, a cui si unì anche Eragon, battendo le mani con vigore.


«Che abilità!» esclamò Orik, poi rise e scolò il boccale di idromele; la sua lucente cotta di maglia brillava al sole della sera. Indossava un elmo impreziosito con oro, argento e rubini, e sulle dita sfoggiava cinque grossi anelli. Alla vita gli pendeva l'immancabile ascia. Vedra era abbigliata in maniera ancora più ricca: indossava un sontuoso vestito con inserti di tessuto ricamato, al collo portava fili di perle e d'oro lavorato e tra i capelli un pettine d'avorio con incastonato uno smeraldo grande quanto il pollice di Eragon.


Una fila di nani si alzò e diede fiato a una sezione di corni ricurvi; le loro note bronzee echeggiarono in lontananza tra le montagne. Poi un nano con il petto ampio quanto un barile fece un passo avanti e nella sua lingua annunciò il vincitore della gara appena conclusa e i nomi dell'ultima coppia di contendenti pronta ad affrontarsi a Ghastar.


Quando il maestro di cerimonia tacque, Eragon si chinò e chiese a Vedra: «Ci accompagnerai anche tu al Farthen Dûr?»


Lei scosse la testa e fece un gran sorriso. «Non posso. Devo restare qui a occuparmi degli affari dell'Ingeitum mentre Orik non c'è, così al suo ritorno non troverà i guerrieri affamati e i forzieri saccheggiati.»


Ridacchiando, Orik tese il boccale verso uno dei servitori in piedi a diverse iarde di distanza. Mentre il nano correva a una brocca per riempirglielo di idromele, disse a Eragon con orgoglio: «Vedra non esagera. Lei non è solo mia moglie, è anche... Ah, non ci sono parole per descriverla. È la grimstcarvlorss del Dûrgrimst Ingeitum. Significa... sì, insomma, "colei che si occupa della casa", "colei che amministra il focolare". È compito suo assicurarsi che le famiglie del nostro clan paghino le decime stabilite alla Rocca di Bregan, che le nostre greggi siano condotte ai pascoli giusti nel momento giusto, che le nostre scorte di cibo e di grano non diminuiscano troppo, che le donne dell'Ingeitum producano abbastanza stoffa, che i nostri guerrieri siano bene equipaggiati, che i nostri fabbri abbiano sempre ferro da fondere e, in poche parole, che il nostro clan sia organizzato come si deve perché possa prosperare e crescere. Tra noi c'è un detto: "Con una brava grimstcarvlorss il tuo clan prospererà, mentre"...»


«... "mentre con una maldisposta tutto in rovina finirà"» concluse Vedra.


Orik sorrise e le prese una mano tra le sue. «E Vedra è la migliore grimstcarvlorss che ci sia. Non è un titolo ereditario. Se si vuole ricoprire quel ruolo, bisogna dimostrare di meritarselo. È raro che la moglie di un grimstborith sia grimstcarvlorss. Io sono stato molto fortunato.» Lui e Vedra protesero le teste e si stropicciarono i nasi l'uno contro l'altro. Eragon distolse lo sguardo, sentendosi solo ed escluso. Poi Orik si scostò dalla moglie, bevve un sorso di idromele e continuò: «La nostra storia è ricca di celebri grimstcarvlorss. Si dice spesso che l'unica cosa di cui siamo capaci noi capiclan è dichiararci guerra a vicenda e che le grimstcarvlorss ne siano contente, perché finché litighiamo tra noi non abbiamo il tempo di immischiarci negli affari del clan.»


«Andiamo, Skilfz Delva» lo rimproverò Vedra. «Lo sai che non è vero. Almeno non nel nostro caso.»


«Mmm» rispose Orik, e toccò la fronte della moglie con la sua. Si sfregarono i nasi un'altra volta.


Sentendo la folla prorompere in una frenesia di fischi e acclamazioni, Eragon rivolse l'attenzione alla gara. Uno dei concorrenti aveva perso il controllo e all'ultimo momento aveva fatto deviare la sua Feldûnost da un lato: al momento stava cercando di sfuggire all'avversario. Il nano con il giavellotto lo rincorse facendo per due volte il giro dei recinti. Quando si ritrovarono di nuovo vicini, si alzò sulle staffe e scagliò la lancia, colpendo il nano codardo dietro la spalla. Con un grido, il malcapitato cadde dalla capra, poi afferrò la lama e il manico del giavellotto conficcato nella carne. Un guaritore lo raggiunse di corsa. Un momento dopo, tutti voltarono le spalle allo spettacolo.


Orik arricciò il labbro in una smorfia di disgusto. «Bah! Passeranno anni prima che la sua famiglia riesca a cancellare l'onta del disonore. Mi dispiace che tu abbia dovuto assistere a questo deprecabile spettacolo, Eragon.»


«Non è mai piacevole vedere qualcuno umiliarsi a quel modo.»


I tre rimasero seduti in silenzio per le due gare seguenti, poi Orik colse Eragon di sorpresa, lo afferrò per la spalla e gli chiese: «Ti piacerebbe vedere una foresta pietrificata?»


«Non esistono simili prodigi, a meno che non siano sculture.»


Orik scosse il capo; gli brillavano gli occhi. «Non è una scultura, ed esiste davvero. Te lo chiedo di nuovo: ti piacerebbe vedere una foresta pietrificata?»


«Se non mi stai prendendo in giro... sì.»


«Ah, sono felice che tu abbia accettato. No, non sto scherzando: ti prometto che domani tu e io cammineremo tra alberi di granito. È una delle meraviglie dei Monti Beor. Ogni ospite del Dûrgrimst Ingeitum dovrebbe avere l'opportunità di visitarla.»

L'indomani mattina Eragon si alzò dal lettino troppo piccolo nella stanza di pietra con il soffitto basso e i mobili grandi la metà del giusto, si lavò il viso in una bacinella di acqua gelida e, come d'abitudine, espanse la mente verso Saphira, ma avvertì solo i pensieri dei nani e degli animali all'interno della rocca e tutto intorno. Allora barcollò e si chinò in avanti, aggrappandosi al bordo della bacinella, sopraffatto da una sensazione di isolamento. Rimase così, incapace di muoversi e di pensare, finché non vide tutto rosso e strane macchie non gli balenarono davanti agli occhi. Con un sussulto, espirò e riempì di nuovo i polmoni.

Mi era mancata già durante la discesa dall'Helgrind, pensò, ma almeno allora sapevo che stavo tornando da lei più veloce che potevo. Adesso invece mi sto allontanando e non so quando saremo di nuovo insieme.

Recuperato il controllo, si vestì e si incamminò per i tortuosi corridoi della roccaforte, inchinandosi ai nani che incontrava, i quali da parte loro lo salutavano ripetendo con vigore l'appellativo: «Argetlam!».

Trovò Orik e altri dodici nani nel cortile della rocca, intenti a sellare una fila di robusti pony il cui fiato caldo formava bianchi pennacchi nell'aria gelida. Circondato da quegli omini bassi e corpulenti, Eragon si sentì un gigante.

Orik lo salutò. «Se vuoi cavalcare, abbiamo un asino nelle stalle.» «No, se per voi fa lo stesso io vengo a piedi.»


Orik si strinse nelle spalle. «Come desideri.»


Quando furono pronti per partire, Vedra discese gli ampi scalini di pietra

all'ingresso del salone principale della Rocca di Bregan, lo strascico del vestito dietro di sé, e diede a Orik un corno d'avorio decorato con filigrana d'oro attorno al bocchino e al padiglione. «Apparteneva a mio padre quando cavalcava con il Grimstborith Aldhrim. Te lo affido, affinché tu possa ricordarmi nei giorni a venire» gli disse. Aggiunse dell'altro nella lingua dei nani, a voce così bassa che Eragon non riuscì a sentire, poi lei e Orik si toccarono la fronte. Ritto in sella, il nano diede fiato al corno. Ne uscì una nota profonda e struggente, che aumentò di volume finché l'aria nel cortile non parve vibrare come una corda mossa dal vento. Una coppia di corvi si levò gracchiando dalla torre. Sentendo il suono del corno, a Eragon si raggelò il sangue. Cominciò ad agitarsi sul posto, ansioso di partire.

Rivolto un ultimo sguardo a Vedra, Orik spronò il pony, uscì al trotto dai cancelli principali della roccaforte e puntò a est, verso l'inizio della valle, seguito a ruota da Eragon e dagli altri dodici nani.

Procedettero per tre ore lungo un sentiero ben tracciato sul fianco del monte Thardûr e poi salirono ancora più in alto. I nani spronarono i pony al massimo delle loro possibilità, ma quando Eragon era libero di correre, li batteva comunque in velocità. Pur frustrato, si trattenne dal lamentarsi, perché era chiaro che con i suoi ospiti avrebbe viaggiato più lentamente che non con un elfo o un Kull.

Rabbrividì e si strinse nel mantello. Il sole doveva ancora sorgere sui Monti Beor e una fredda umidità si diffondeva nella valle, anche se mancavano solo poche ore a mezzogiorno.

Raggiunsero una piatta distesa di granito larga più di un migliaio di piedi, delimitata sulla destra da una ripida scogliera di colonne ottagonali. Veli di tremula foschia oscuravano l'estremità del campo di pietra.

Orik alzò una mano e disse: «Guardate, Az Knurldrâthn.»

Eragon si incupì. Per quanto si sforzasse, non riusciva a scorgere nulla di interessante in quel luogo spoglio. «Non vedo nessuna foresta pietrificata.»


Orik scese dal pony e consegnò le redini al guerriero alle sue spalle, poi disse: «Vieni con me, Eragon.»


Si incamminarono insieme verso il mobile banco di nebbia, ed Eragon dovette rallentare perché il nano riuscisse a stargli dietro. La foschia gli baciava il viso, fresca e umida. Il vapore divenne così fitto da oscurare il resto della valle e li avvolse in un grigio paesaggio indistinto, dove perfino l'alto e il basso sembravano concetti arbitrari. Per nulla scoraggiato, Orik avanzò sicuro. Eragon tuttavia si sentiva disorientato e un po' incerto, e camminava tenendo una mano davanti a sé per evitare di urtare contro qualcosa celato nella nebbia.


Orik si fermò sul bordo di uno stretto crepaccio che deturpava la lastra di granito su cui si trovavano e gli chiese: «Cosa vedi adesso?»


Eragon strizzò gli occhi e si guardò intorno, ma la nebbia sembrava uniforme come prima. Stava quasi per dire che non vedeva ancora niente, ma poi notò una lieve irregolarità nella foschia, un tenue gioco di luci e ombre che manteneva la propria forma anche mentre la nebbia fluttuava. Notò altre zone statiche: strani angoli astratti a contrasto che formavano oggetti irriconoscibili.


«Non...» cominciò, quando un alito di vento gli scompigliò i capelli. Incoraggiata appena da quell'improvvisa brezza, la nebbia si diradò e i giochi d'ombra si rivelarono tronchi di grossi alberi cinerei dai rami nudi e mutilati. Eragon e Orik erano circondati da decine di alberi, gli scheletri pallidi di un'antica foresta. Eragon premette il palmo contro un tronco. La corteccia era fredda e dura come sasso, e recava macchie di pallidi licheni. Fu percorso da un brivido. Benché non fosse superstizioso, quella spettrale foschia, la misteriosa penombra e poi la comparsa degli alberi, cupi, carichi di presagi e misteriosi accesero in lui una scintilla di paura.


Si inumidì le labbra e chiese: «Com'è possibile?»


Orik si strinse nelle spalle. «Alcuni sostengono che Gûntera li abbia deposti qui quando creò Alagaësia dal nulla. Altri invece affermano che sono opera di Helzvog, perché la pietra è il suo elemento preferito, e vuoi che il re della pietra non avesse alberi pietrificati nel suo giardino? Tuttavia c'è chi sostiene che questi alberi un tempo fossero come gli altri, ma che eoni fa una grande catastrofe li seppellì e con il passare del tempo il legno diventò terra e la terra pietra.»


«È davvero possibile?»


«Solo gli dei lo sanno con certezza. Chi se non loro può sperare di comprendere i perché e i come del mondo?» Orik si voltò. «I nostri antenati scoprirono il primo albero mentre scavavano in questa zona per estrarre il granito, più di un migliaio di anni fa. L'allora grimstborith del Dûrgrimst Ingeitum, Hvalmar Manomonca, bloccò gli scavi e chiese ai suoi uomini di estrarre gli alberi dalla roccia a colpi di scalpello. Dopo che ne ebbero liberati una cinquantina, Hvalmar si rese conto che potevano esserci centinaia, perfino migliaia di alberi pietrificati sepolti sotto il fianco del Monte Thardûr: così ordinò di abbandonare il progetto. Questo luogo tuttavia ha catturato fin da subito l'immaginazione della nostra razza e da allora i knurlan di ogni clan vengono qui e si danno un gran daffare per liberare sempre più alberi dalla morsa del granito. C'è chi ha dedicato la propria vita a questa impresa. È diventata tradizione mandare qui i figli ribelli a scalpellare almeno un paio d'alberi sotto la supervisione di un mastro muratore.»


«Che noia.»


«Sì, ma così hanno tutto il tempo di pentirsi dei loro errori.» Orik accarezzò con una mano la barba intrecciata. «Quando avevo trentaquattro anni ed ero una testa calda, anch'io trascorsi qui alcuni mesi.»


«E ti sei pentito?»


«Eta. No. In effetti è stata... una noia. Quando mi resi conto che dopo tutte quelle settimane avevo liberato dal granito solo un ramo, fuggii e mi unii a un gruppo di Vrenshrrgn...»


«Cioè nani del clan Vrenshrrgn?»


«Sì, knurlagn del clan Vrenshrrgn, proprio così, Lupi della Guerra o Lupi di Guerra, che dir si voglia nella tua lingua. Dunque, una volta mi ubriacai di birra e mentre loro stavano cacciando dei Nagran decisi che anch'io dovevo uccidere un cinghiale e portarlo a Rothgar per placare la sua ira. Non fu certo una cosa saggia: perfino i nostri guerrieri più abili temevano i Nagran, e io ero ancora un ragazzo. Non appena mi schiarii la mente, mi maledissi per la mia follia, ma ormai avevo giurato, dunque non avevo altra scelta se non rispettare la parola data.»


Quando Orik fece una pausa, Eragon gli chiese: «E cosa accadde?»


«Oh, con l'aiuto dei Vrenshrrgn uccisi un Nagra, ma il cinghiale mi ferì a una spalla e mi scaraventò tra i rami di un albero vicino. I Vrenshrrgn dovettero riportarci entrambi, il Nagra e me, alla Rocca di Bregan. Rothgar fu molto contento del cinghiale, e io... be', nonostante le medicazioni dei nostri migliori guaritori, trascorsi un mese a letto. Rothgar stabilì che fosse una punizione sufficiente per aver sfidato i suoi ordini.»


Eragon osservò il nano. «Ti manca, eh?»


Orik rimase un istante con il mento appoggiato contro l'ampio petto. Poi levò l'ascia e colpì il granito con l'estremità dell'impugnatura, producendo uno schiocco acuto che echeggiò tra gli alberi. «Sono trascorsi quasi due secoli da quando la nostra nazione venne tormentata da una dûrgrimstvren, una guerra tra clan, Eragon. Ma per la barba nera di Morgothal, adesso siamo sull'orlo di un'altra crisi.»


«Proprio adesso?» esclamò Eragon, inorridito. «La situazione è davvero così grave?»


Orik si accigliò. «Peggio di quanto pensi. La tensione tra i clan non è mai stata così alta, non che io ricordi, almeno. La morte di Rothgar e l'invasione dell'Impero a opera di Nasuada sono servite a infiammare gli animi, a inasprire antiche rivalità e a rafforzare chi crede sia una follia affidare il nostro destino ai Varden.»


«Come possono crederlo, dopo che Galbatorix ha già attaccato Tronjheim con gli Urgali?»


«Perché c'è chi crede che sia impossibile sconfiggerlo, e queste argomentazioni hanno molto seguito tra la nostra gente» rispose Orik. «In tutta onestà, Eragon, sei in grado di dirmi che, se tu e Saphira doveste affrontare Galbatorix in questo preciso istante, sareste in grado di batterlo?»


Eragon sentì una morsa alla gola. «No.»


«Come pensavo. Quanti osteggiano i Varden sono accecati dalla minaccia di Galbatorix. Sostengono che se ci fossimo rifiutati di dare rifugio ai Varden e se non avessimo accettato te e Saphira nella nostra bella Tronjheim, il re non avrebbe avuto alcun motivo per dichiararci guerra. Dicono che se ce ne stiamo per conto nostro e restiamo nascosti nelle nostre caverne e nei nostri cunicoli non avremo nulla da temere. Ma non si rendono conto che la fame di potere di Galbatorix è insaziabile e che lui non si darà pace finché non avrà tutta Alagaësia ai suoi piedi.» Orik scosse la testa; strinse la lama dell'ascia tra le grosse dita, e i muscoli dei suoi avambracci si gonfiarono e si tesero. «Non permetterò che la nostra gente viva rannicchiata in un cunicolo come un coniglio spaventato in attesa che il lupo cattivo si metta a scavare e la divori. Dobbiamo continuare a combattere nella speranza di trovare un modo per uccidere Galbatorix. E non permetterò che la nostra nazione venga fatta a pezzi da una guerra tra clan. Date le circostanze, un'altra dûrgrimstvren distruggerebbe la nostra civiltà e forse condannerebbe anche i Varden.» Con la mascella serrata, Orik si volse verso Eragon. «Per il bene del mio popolo, è mia intenzione salire al trono. I clan Gedthrall, Ledwonnû e Nagra mi hanno già confermato il loro sostegno. Tuttavia molti altri si frappongono tra me e la corona; non sarà facile raccogliere abbastanza voti da riuscire a diventare re. Eragon, devo sapere se tu mi appoggerai.»


Il Cavaliere incrociò le braccia e camminò fino a un albero, poi a quello dopo, infine tornò indietro. «Se lo faccio, gli altri clan si potrebbero rivoltare contro di te. Stai per chiedere al tuo popolo di allearsi con i Varden e in più di accettare fra loro un Cavaliere dei Draghi, cosa che non hanno mai tollerato prima e dubito vogliano fare proprio adesso.»


«Sì, qualcuno potrebbe ribellarsi, ma potrei anche ottenere altri voti. Lascia che sia io a giudicare. Desidero solo sapere se mi appoggerai. Perché tanta esitazione?»


Eragon fissò una radice ritorta che spuntava dal granito accanto ai suoi piedi, evitando di incrociare lo sguardo di Orik. «Tu hai a cuore il bene del tuo popolo, e a ragione. Ma io ho preoccupazioni più grandi, che comprendono il bene dei Varden e degli elfi e di chiunque si opponga a Galbatorix. Se le probabilità che tu vinca sono limitate e se c'è un altro capoclan più favorito, e non ostile ai Varden...»


«Ma non esiste un grimstborith più solidale con la loro causa di me!»


«Non sto mettendo in dubbio la tua amicizia» protestò Eragon. «Ma se le cose dovessero prendere la piega di cui parlavo, e il mio sostegno potesse garantire a un altro capoclan di ottenere il trono, per il bene del tuo popolo e per il bene di tutta Alagaësia non dovrei appoggiare il nano che ha le maggiori probabilità di vittoria?»


Con voce tombale, Orik rispose: «Hai prestato un giuramento di sangue sul Knurlnien, Eragon. Secondo la legge del nostro regno, per quanto gli altri possano contestarlo, sei un membro del Dûrgrimst Ingeitum. Ciò che ha fatto Rothgar adottandoti non ha precedenti nella nostra storia e non può essere cancellato a meno che, in qualità di capoclan, io non ti bandisca. Se ti ribelli a me, Eragon, mi umilierai di fronte alla nostra razza e nessuno si fiderà mai più della mia autorità. Inoltre confermerai ai tuoi detrattori che non ci si può fidare di un Cavaliere dei Draghi. I membri di un clan non si schierano a tradimento con quelli di un altro. Non si fa, a meno che tu non voglia svegliarti una notte con un pugnale nel cuore.»


«Mi stai minacciando?» gli chiese Eragon, con la stessa calma.


Orik imprecò e abbatté di nuovo l'ascia contro il granito. «No! Non alzerei mai una mano contro di te! Sei mio fratello adottivo, sei l'unico Cavaliere immune all'influenza di Galbatorix, e che io sia maledetto se non mi sono affezionato a te durante i nostri viaggi insieme. Ma ciò non significa che gli altri membri dell'Ingeitum sarebbero altrettanto indulgenti. La mia non è una minaccia; è un dato di fatto. Devi capirlo, Eragon. Se al nostro clan giunge voce che hai dato il tuo sostegno a un altro, potrei anche non riuscire a fermarli. Benché tu sia nostro ospite e le regole dell'ospitalità ti proteggano, se dici una sola parola contro l'Ingeitum il clan ti considererà un traditore, e non è nostra abitudine accogliere tra noi un traditore. Mi capisci, Eragon?»


«Che cosa ti aspetti che faccia?» gridò il giovane. Allargo le braccia e prese a camminare avanti e indietro di fronte a Orik. «Ho prestato giuramento a Nasuada, e questi sono gli ordini che mi ha dato.»


«Ma ti sei impegnato anche con il Dûrgrimst Ingeitum!» ruggì Orik.


Eragon si fermò e fissò il nano. «Vuoi che condanni l'intera Alagaësia solo perché tu possa mantenere la tua posizione?»


«Non insultarmi!»


«E tu non chiedermi l'impossibile! Ti appoggerò se avrai buone possibilità di salire al trono, altrimenti no. Come tu ti preoccupi del Dûrgrimst Ingeitum e della tua razza, io devo preoccuparmi di Alagaësia.» Eragon si accasciò contro il gelido tronco di un albero. «Ma non posso nemmeno permettermi di offendere te e il tuo - anzi, il nostro - clan o il regno dei nani.»


In tono più gentile, Orik rispose: «Un'alternativa c'è. Ti complicherebbe le cose, ma almeno così risolveresti il tuo dilemma.»


«E quale sarebbe, questa miracolosa soluzione?»


Infilando di nuovo l'ascia nella cintura, Orik lo raggiunse, lo afferrò per gli avambracci e lo fissò da sotto le sopracciglia cespugliose. «Fidati di me, farò la cosa giusta, Eragon Ammazzaspettri. Concedimi la tua lealtà come se fossi davvero nato nel Dûrgrimst Ingeitum. Chi risponde a me non dovrebbe mai avere la sfrontatezza di parlare contro il proprio capo e a favore di un altro. Se un grimstborith commette un errore, la responsabilità è solo sua, ma non significa che io sia insensibile al tuo dilemma.» Abbassò lo sguardo per un momento, poi proseguì: «Fidati: se non posso essere re, non mi lascerò accecare dalla prospettiva del potere al punto da non accorgermi che il mio tentativo è destinato a fallire. In quel caso - ma so che non accadrà - darò il mio sostegno a uno degli altri candidati di mia spontanea volontà, perché desidero meno di te veder eleggere un capoclan ostile ai Varden. E se dovessi aiutare a promuovere la vittoria di un altro, la posizione e il prestigio che metterò al servizio di quel capoclan dovrà, per sua propria natura, includere anche te, poiché fai parte dell'Ingeitum. Hai fiducia in me, Eragon? Mi accetterai come grimstborith al pari degli altri miei sudditi che mi hanno giurato fedeltà?»


Eragon sospirò, appoggiò la testa contro il ruvido albero e guardò i rami contorti e bianchi come ossa avvolti nella foschia sopra di sé. Fiducia. Tra tutte le cose che avrebbe potuto chiedergli Orik, era la più difficile da concedere. Gli voleva bene, ma sottomettersi all'autorità del nano quando la posta in gioco era così alta significava privarsi della propria libertà, una prospettiva che aborriva. E poi avrebbe dovuto rinunciare a parte della propria responsabilità per il destino di Alagaësia. Si sentiva sull'orlo di un precipizio, e anche se Orik gli stava dicendo che il salto che lo attendeva era di pochi piedi, Eragon non riusciva a mollare la presa per paura di cadere e di firmare così la propria condanna.


«Non sarò uno stupido servitore da comandare a bacchetta. Se si tratta del Dûrgrimst Ingeitum, ti cedo volentieri il campo, ma per tutto il resto non avrai alcun ascendente su di me» precisò rivolto a Orik.


Il nano annuì, serio. «Non è la missione che ti ha affidato Nasuada e nemmeno chi potresti uccidere nella lotta contro l'Impero a preoccuparmi. No, ciò che mi tiene sveglio la notte quando invece dovrei dormire profondamente come Arghen nella sua caverna è immaginarti mentre tenti di influenzare la votazione dei clan. Le tue intenzioni sono nobili, lo so, ma non sei un esperto della nostra politica, per quanto Nasuada possa averti istruito. Questo riguarda me, Eragon. Lascia che organizzi io le cose nella maniera che riterrò più opportuna. È ciò a cui mi ha preparato Rothgar per tutta la vita.»


Eragon sospirò e, con la netta sensazione di essere caduto nel precipizio, replicò: «Benissimo, allora. Per la successione farò ciò che vuoi, Grimstborith Orik.»


Sul volto del nano si dipinse un largo sorriso. Strinse con più forza gli avambracci di Eragon e poi lo lasciò andare. «Grazie. Non sai che cosa significa per me. Sei molto gentile, davvero, non lo dimenticherò, nemmeno se vivrò fino a duecento anni e avrò una barba così lunga che striscerà per terra.»


Suo malgrado, Eragon ridacchiò. «Be', spero che non diventi tanto lunga, altrimenti non faresti che inciampare!»


«Chi lo sa» rispose Orik, ridendo. «E poi credo che Vedra me la taglierebbe se solo mi arrivasse alle ginocchia. Ha opinioni molto precise sulla lunghezza appropriata di una barba.»

Guidati da Orik, i due lasciarono la foresta pietrificata e si incamminarono nella foschia incolore che vorticava attorno ai tronchi calcificati. Ritrovarono i dodici guerrieri e poi cominciarono a ridiscendere il fianco del Monte Thardûr. Giunti in fondo alla valle, procedettero in fila indiana verso il lato opposto, e poi i nani condussero Eragon a un tunnel così ben nascosto nella parete di roccia che da solo non ne avrebbe mai trovato l'ingresso.

Fu con rammarico che salutò il pallido sole e la fresca aria di montagna per imboccare il tunnel oscuro. Il passaggio era largo otto piedi e alto sei, gli sembrava minuscolo, e, come tutti i tunnel dei nani che aveva visto, proseguiva diritto come un fuso a perdita d'occhio. Si voltò appena in tempo per vedere Farr chiudere la lastra di granito che fungeva da porta, poi il gruppo si ritrovò immerso nella notte. Un momento dopo, non appena i nani ebbero estratto dalle bisacce le lanterne senza fiamma, apparvero quattordici globi luccicanti di diversi colori. Orik ne consegnò uno a Eragon.

Si avviarono sotto le radici della montagna. Gli zoccoli dei pony colmavano il tunnel di echi fragorosi che sembravano gridare contro di loro come spettri infuriati. Eragon fece una smorfia, sapendo che avrebbero sentito quel fracasso fino al Farthen Dûr, dove si concludeva il tunnel, a molte leghe di distanza. Si strinse nelle spalle e afferrò con più forza gli spallacci dello zaino. Quanto avrebbe voluto librarsi alto nel cielo con Saphira...

♦ ♦ ♦


LA MORTE CHE RIDE

Roran si accucciò e sbirciò tra gli intricati rami del salice.


Mentre il crepuscolo calava rapido, a duecento iarde da Roran cinquantatré individui tra soldati e civili alla guida dei carri delle provviste consumavano la cena seduti intorno a tre focolari. Si erano accampati per la notte su un ampio terrapieno erboso accanto a un fiume senza nome. I carri erano disposti in un semicerchio approssimativo attorno ai fuochi. Decine di buoi legati con una corda pascolavano dietro l'accampamento e di tanto in tanto muggivano. Una ventina di iarde più in là, tuttavia, dal terreno si ergeva una sorta di terrazza di terra soffice, che vanificava ogni possibilità di attacco o di fuga da quella parte.


Che cosa avevano in mente? si domandò Roran. Trovandosi in territorio nemico, era prudente accamparsi in un punto ben protetto, di solito con una formazione rocciosa naturale alle spalle. Tuttavia bisognava fare attenzione a scegliere un luogo da cui si potesse fuggire in caso di imboscata. Così, invece, per Roran e gli altri guerrieri al comando di Martland sarebbe stato un gioco da ragazzi sbucare dalla boscaglia in cui si erano nascosti e imprigionare le forze dell'Impero nel punto dove la terrazza e il fiume si incontravano, per poi eliminarle senza difficoltà. Roran rimase sbalordito dal fatto che uomini così addestrati potessero commettere un simile errore. Forse vengono dalla città, pensò. O forse sono solo inesperti. Si accigliò. Ma allora perché affidare proprio a loro una missione così cruciale?


«Hai visto trappole?» chiese. Non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che Carn era dietro di lui, insieme a Halmar e ad altri due. A parte i quattro spadaccini che si erano aggiunti alla compagnia di Martland per sostituire chi era morto o aveva subito ferite troppo gravi nell'ultimo confronto, Roran aveva già combattuto a fianco di tutti gli uomini del gruppo. Certo, non andava d'accordo con ognuno di loro, ma credeva in quei suoi compagni al punto da affidare loro la sua vita, e la cosa era reciproca. Era un legame che andava oltre l'età o l'educazione. Dopo la prima battaglia, Roran era rimasto sorpreso da quanto si sentiva legato ai suoi compagni e dal calore con cui lo ricambiavano.


«Non mi pare» mormorò Carn. «Ma allora...»


«Potrebbero aver inventato nuovi incantesimi a te sconosciuti, sì, sì. Hanno con loro un mago?»


«Non ne sono sicuro, ma credo di no.»


Roran scostò un ramo per vedere meglio com'erano disposti i carri. «Non mi piace» bofonchiò. «Nell'altro convoglio il mago c'era, in questo no. Perché?»


«Noi maghi siamo meno di quanti immagini...»


«Mmm.» Roran si grattò la barba, ancora turbato dall'apparente mancanza di buonsenso che i soldati nemici dimostravano. È possibile che ci stiano invitando ad attaccare? Non mi sembrano preparati a fronteggiare un attacco, ma spesso l'apparenza inganna. Che razza di trappola ci avranno mai preparato? Non c'è nessun altro nel giro di trenta leghe; l'ultima volta che Murtagh e Castigo sono stati avvistati avevano lasciato Feinster ed erano diretti a nord. «Da' il segnale» ordinò a Carn. «Che si siano accampati qui non mi convince, però. Dillo a Martland. O sono un branco di idioti, o contano su qualche protezione invisibile: una magia, magari, oppure un altro trucchetto del re.»


Silenzio. Poi Carn rispose: «Fatto. Martland dice che condivide i tuoi timori, ma a meno che tu non voglia tornare da Nasuada con la coda tra le gambe, dobbiamo tentare la sorte.»


Roran borbottò e distolse lo sguardo dai soldati nemici. Con un cenno del capo indicò agli altri uomini di tornare a carponi dove avevano lasciato i cavalli.


Poi si alzò e montò in sella a Fiammabianca.


«Ehi, piano, bello» gli sussurrò, accarezzandolo, mentre il cavallo scuoteva la testa. Nella fioca luce, la criniera e il manto di Fiammabianca rilucevano come argento. Per l'ennesima volta, Roran desiderò che il suo stallone fosse meno appariscente: magari rossiccio, come un baio, o nocciola.


Staccò lo scudo dalla sella, infilò il braccio nelle cinghie e prese il martello dalla cintura.


Deglutì, avvertendo la solita tensione alle spalle, e strinse con più forza l'impugnatura dell'arma.


Quando tutti e cinque furono pronti, Carn alzò un dito, socchiuse le palpebre e arricciò le labbra, come se stesse parlando tra sé. Un grillo friniva poco lontano.


Poi aprì gli occhi di scatto. «Ricordate di tenere lo sguardo a terra finché non vi si abitua la vista, e comunque non fissate mai il cielo.» Poi cominciò a recitare nell'antica lingua parole incomprensibili, vibranti di energia.


Roran si riparò con lo scudo e guardò di traverso la sella mentre una luce pura e bianca, intensa come il sole di mezzogiorno, illuminava il paesaggio attorno. Intuì che quel bagliore partiva da un punto sopra l'accampamento, ma resistette alla tentazione di scoprire dove fosse di preciso.


Gridando, calciò Fiammabianca nelle costole e mentre lo stallone balzava in avanti si chinò sulla criniera. Carn e gli altri guerrieri fecero altrettanto, brandendo le armi. Roran venne frustato dai rami, poi finalmente Fiammabianca uscì dal folto degli alberi e si lanciò al galoppo verso l'accampamento.


Due altri gruppi di cavalieri li seguirono rumoreggiando, uno capitanato da Martland, l'altro da Ulhart.


Soldati e civili gridarono allarmati e si coprirono gli occhi. Barcollando come se fossero diventati ciechi all'improvviso, cercarono a tentoni le armi sforzandosi di prendere posizione per respingere l'attacco.


Roran non provò nemmeno a rallentare la corsa di Fiammabianca. Anzi, lo spronò ancora di più, si alzò sulle staffe e si tenne saldo con tutte le sue forze mentre lo stallone superava con un salto lo stretto spazio tra due carri. Quando toccarono terra, Roran batté i denti. Fiammabianca prese a scalciare e a sollevare spruzzi di terra, che finirono in uno dei falò, sollevando uno sbuffo di scintille.


Anche il resto del gruppo saltò i carri come lui. Contando sul fatto che gli altri si sarebbero occupati dei soldati alle sue spalle, Roran si concentrò su quelli davanti. Puntando Fiammabianca contro uno di loro, lo colpì con l'estremità del martello e gli ruppe il naso, riducendogli il volto a una maschera di schizzi rossi. Lo eliminò con un secondo colpo alla testa, poi parò il fendente di un altro soldato.


Più oltre lungo i carri disposti a semicerchio anche Martland, Ulhart e i loro uomini entrarono nell'accampamento tra schiocchi di zoccoli, in un clangore di armi e armature. Un cavallo nitrì e cadde ferito da una lancia.


Roran parò un secondo affondo del soldato, che poi colpì alla mano, costringendolo a lasciar cadere l'arma. Senza indugi, gli assestò un altro fendente, fracassandogli lo sterno e facendolo crollare a terra, ansante, ferito a morte.


Roran si girava e si rigirava sulla sella in attesa dell'avversario successivo. I suoi muscoli vibravano di frenetica eccitazione; ogni dettaglio gli appariva nitido e chiaro, come intagliato nel vetro. Si sentiva invincibile, invulnerabile. Perfino il tempo parve dilatarsi e rallentare, tanto che una falena confusa che gli fluttuò accanto gli sembrò quasi volare nel miele.


Poi due mani lo afferrarono da dietro, strattonandolo per l'usbergo di maglia, lo disarcionarono e lo fecero cadere sulla dura terra, lasciandolo senza fiato. Gli si offuscò la vista e per un istante vide tutto nero. Quando si riprese, si ritrovò seduto sul petto il primo soldato che lo aveva attaccato; lo stava strangolando. Il nemico era proprio davanti alla fonte luminosa che Carn aveva creato in cielo e un alone bianco gli circondava la testa e le spalle, lasciando i tratti del viso così in ombra che Roran non distingueva nulla della sua faccia se non il candore dei denti.


Vedendolo ormai boccheggiante, il soldato serrò ancora di più le dita attorno alla gola di Roran, che cercò a tastoni il martello, invano. Tendendo il collo per evitare di essere ucciso, sfilò il pugnale dalla cintura e lo conficcò nell'usbergo, poi nei gambali e infine tra le costole dell'avversario.


Il soldato non batté ciglio e non mollò la presa.


Anzi, continuò a ridere. Sentendo quel gorgoglio angosciante, più orribile di qualunque altra cosa avesse mai udito, a Roran si serrò lo stomaco dalla paura. Lo ricordava bene, quel suono; l'aveva già sentito guardando i Varden combattere contro gli uomini che non provavano dolore sul prato accanto al fiume Jiet. In un baleno comprese perché i soldati avevano scelto un accampamento così stravagante. Per loro essere in trappola oppure no è irrilevante: tanto non soffrono.


All'improvviso Roran vide tutto rosso e davanti agli occhi presero a danzargli tante stelline gialle. Ormai prossimo a perdere i sensi, sfilò il pugnale e colpì a caso verso l'alto, conficcandolo nell'ascella del soldato, poi rigirò la lama nella ferita. Fiotti di sangue caldo gli schizzarono sulla mano, ma quello non parve accorgersene. Quando gli prese la testa e gliela sbatté con forza a terra, Roran vide il mondo esplodere in macchie di colori pulsanti. Una volta. Due. Tre. Roran cercò di liberarsi muovendo i fianchi, invano. Cieco e disperato, infierì dove credeva si trovasse la faccia del soldato, e infatti sentì il pugnale entrare nella morbida carne. Lo estrasse piano, poi lo affondò di nuovo nello stesso punto e stavolta avvertì l'urto della lama contro l'osso.


La pressione attorno al collo svanì.


Roran rimase disteso dov'era, ansimante, poi si girò su un fianco e vomitò; gli bruciava la gola. Tra colpi di tosse e rantoli si rialzò a fatica: il soldato era disteso immobile accanto a lui, con il pugnale che gli spuntava dalla narice destra.


«Mirate alla testa!» gridò Roran, nonostante la gola in fiamme. «Alla testa!»


Lasciò il pugnale conficcato nel naso dell'uomo e raccolse da terra il martello, poi afferrò anche una lancia abbandonata e la impugnò con la mano con cui di solito reggeva lo scudo. Superato il soldato morto con un balzo, corse verso Halmar, che stava combattendo con tre soldati ad un tempo. Prima che si accorgessero di lui, Roran colpì alla testa i due nemici più vicini con tanta violenza che gli elmi si aprirono in due. Lasciò il terzo a Halmar, e corse verso il soldato a cui aveva rotto lo sterno e che credeva ormai morto. Lo trovò seduto contro la ruota di un carro, che sputava sangue rappreso e cercava di incordare un arco.


Gli trafisse un occhio con la lancia. Quando sfilò la lama, sulla punta rimasero appiccicati brandelli di materia grigia.


Allora ebbe un'idea. Scagliò la lancia contro un uomo con la tunica rossa dalla parte opposta del fuoco più vicino, impalandolo all'altezza del petto, poi infilò il manico del martello sotto la cintura e finì di incordare l'arco sottratto all'altro soldato. Appoggiando la schiena contro un carro, cominciò a scoccare frecce contro i nemici per tutto l'accampamento, cercando di colpirli al volto, alla gola o al cuore, quando aveva fortuna, o almeno di azzopparli, così che i suoi compagni potessero finirli senza difficoltà. Se non altro, pensò, un soldato ferito sarebbe morto dissanguato prima della fine del combattimento.


L'iniziale compostezza dell'attacco era degenerata nella più totale confusione. I Varden erano dispersi e sgomenti, qualcuno in sella al proprio destriero, altri a piedi, quasi tutti insanguinati. Almeno cinque erano morti quando i soldati che credevano di avere massacrato erano tornati a colpirli. In quell'ammasso convulso di corpi era impossibile stabilire quanti nemici restassero in vita, ma Roran calcolò che erano comunque più di loro, all'incirca venticinque. Potrebbero farci a pezzi a mani nude mentre cerchiamo di colpirli, si disse. Cercò Fiammabianca in quel trambusto e vide il cavallo bianco al fiume, accanto a un salice, le narici dilatate, lo orecchie piatte contro il cranio.


Roran uccise altri quattro soldati e ne ferì più di una ventina. Quando gli furono rimaste due sole frecce, scorse Carn all'estremità opposta dell'accampamento, che duellava con un soldato vicino a una tenda in fiamme. Tese la corda dell'arco finché le piume della freccia non gli solleticarono l'orecchio, e colpì il nemico in pieno petto; quando quello vacillò, Carn poté mozzargli la testa.


Roran gettò via l'arco e gli corse incontro, brandendo il martello e gridando: «Non li puoi uccidere con la magia?»


Per un istante Carn riuscì solo ad ansimare, poi scosse il capo e rispose: «Ogni mio incantesimo si è rivelato vano.» La luce emanata dalla tenda in fiamme gli indorava un lato del volto.


Roran imprecò. «Insieme, allora!» gridò, levando lo scudo.


I due avanzarono spalla a spalla verso il gruppo di guerrieri più vicino, un manipolo di otto uomini che avevano circondato tre Varden. I minuti seguenti furono un spasmo di armi scintillanti, membra dilaniate e improvvise fitte di dolore per Roran. I soldati si stancavano più lentamente degli altri uomini, non si sottraevano allo scontro e non arretravano mai, nemmeno dopo aver ricevuto le ferite più orribili. Il combattimento era così faticoso che a Roran tornò la nausea, e non appena cadde anche l'ottavo soldato si piegò su se stesso e vomitò un'altra volta; poi sputò per ripulirsi la bocca dalla bile.


Uno dei Varden che avevano cercato di liberare era morto, trafitto alle reni da un coltello, ma i due sopravvissuti unirono le loro forze a Carn e Roran e insieme caricarono il drappello in arrivo.


«Spingeteli verso il fiume!» gridò Roran. Pensava che l'acqua e il fango ne avrebbero limitato i movimenti e che forse così i Varden sarebbero riusciti a ottenere il controllo della situazione.


Non molto distante, Martland era riuscito a radunare i dodici Varden ancora a cavallo e metteva in pratica il suggerimento di Roran.


I soldati e i pochi civili ancora vivi non si arrendevano, però. Anzi, respinsero gli uomini a piedi con gli scudi e scagliarono lance contro i cavalli; ma nonostante la loro violenta resistenza, i Varden li costrinsero a indietreggiare un passo alla volta finché gli uomini dalla tunica cremisi non si ritrovarono immersi nella rapida corrente fino alle ginocchia, mezzi accecati dall'insolita luce che brillava in cielo.


«Serrate i ranghi!» gridò Martland, smontando da cavallo e piazzandosi a gambe aperte sul limitare dell'argine. «Non devono riconquistare la riva!»


Roran si accucciò, conficcò i talloni nel terreno soffice finché non ebbe trovato una posizione comoda e attese l'attacco del corpulento soldato che gli stava di fronte, a diversi piedi di distanza. Con un ruggito, questi balzò fuori dalle gelide acque basse e fece roteare la spada contro di lui, ma Roran parò l'affondo con lo scudo e rispose con un colpo di martello, che a sua volta il soldato bloccò con il proprio scudo, cercando poi di ferirlo alle gambe. Per diversi secondi continuarono a menare fendenti, senza che nessuno dei due riuscisse a colpire l'avversario. Alla fine Roran gli dilaniò l'avambraccio sinistro, facendolo arretrare di alcuni passi. Il soldato si limitò a sorridere e poi scoppiò in una risata raggelante, priva di gioia.


Roran si chiese se lui o qualcuno dei suoi compagni sarebbe sopravvissuto alla notte. È più difficile uccidere uno di loro che un serpente. Non possiamo farli a brandelli, e continuano ad attaccarci anche se colpiamo i loro organi vitali. Il pensiero successivo svanì non appena il soldato gli si avventò di nuovo contro, la spada scalfita che tremolava nella pallida luce come una lingua di fuoco.


Da lì in poi la battaglia si trasformò in un incubo. La strana luce maligna dava all'acqua e ai soldati un aspetto soprannaturale, esangue, e proiettava sulla superficie del fiume lunghe ombre sottili e affilate come rasoi, mentre dietro e tutto intorno regnava la notte più buia. Roran continuava a respingere i soldati che uscivano barcollando dall'acqua per ucciderlo, li colpiva con il martello finché non avevano più le sembianze di esseri umani; tuttavia non morivano. A ogni colpo, grosse chiazze tonde di sangue nero punteggiavano le acque del fiume come macchie d'inchiostro versato, poi la corrente le trasportava via. La spaventosa monotonia di ogni attacco lasciava Roran intontito e terrorizzato. Per quanto si affannasse, c'era sempre un altro nemico mutilato pronto a falciarlo e pugnalarlo. E continuavano a risuonare le risatine folli di quegli uomini che sapevano di essere morti e tuttavia mantenevano una parvenza di vita anche se i Varden martoriavano loro il corpo.


E poi, il silenzio.


Roran rimase accucciato dietro lo scudo, con il martello a mezz'aria, ansante, madido di sudore e inzuppato di sangue. Trascorse un minuto prima che si accorgesse che nell'acqua non c'era più nessuno. Guardò a destra e a sinistra tre volte, incredulo all'idea che alla fine i soldati fossero davvero morti, e pace all'anima loro. Un cadavere galleggiava accanto a lui nell'acqua scintillante.


Quando una mano gli afferrò il braccio, emise un grido inarticolato. Si voltò di scatto, ringhiando e ritraendosi, ma poi si accorse che era Carn. Pallido e insanguinato, lo stregone gli stava parlando. «Abbiamo vinto, Roran! Eh? Sono tutti morti! Li abbiamo sconfitti!»


Roran lasciò cadere il braccio e gettò la testa all'indietro, troppo stanco perfino per sedersi. Si sentiva... era come se avesse i cinque sensi più affinati del consueto, e tuttavia le emozioni erano spente e mute, ammassate da qualche parte dentro di lui, nel profondo. Era felice che fosse così, altrimenti sarebbe impazzito, pensò.


«Radunatevi e ispezionate i carri!» gridò Martland. «Prima vi sbrigate, prima potremo andarcene da questo luogo maledetto! Carn, occupati di Weimar. Quel taglio non mi piace per niente.»


Con un enorme sforzo di volontà, Roran si voltò e si trascinò lungo l'argine del fiume fino al carro più vicino. Battendo le palpebre per allontanare il sudore che gli colava dalla fronte, vide che del contingente iniziale solo nove uomini erano ancora in grado di reggersi sulle loro gambe. Allontanò quel pensiero dalla mente. Non è il momento di piangere.


Mentre Martland Barbarossa attraversava l'accampamento disseminato di cadaveri, un soldato che sembrava morto si volse e gli mozzò la mano destra. Con un movimento così armonioso che pareva l'avesse provato e riprovato all'infinito, Martland gli allontanò la spada con un calcio, poi si inginocchiò, sfilò un pugnale dalla cintura e glielo conficcò in un orecchio, uccidendolo. Il viso paonazzo, Martland si ficcò il moncherino sotto l'ascella sinistra e allontanò chiunque gli corresse incontro. «Lasciatemi stare! È una ferita da nulla. Salite su quei carri, scansafatiche che non siete altro! Se non vi muovete, rimarremo qui così a lungo che la barba mi diventerà bianca come la neve. Forza!» Vedendo che Carn si rifiutava di eseguire l'ordine, Martland si accigliò e gridò: «Vattene di qui o ti farò frustare per insubordinazione, hai la mia parola.»


Carn raccolse la mano mozzata, che si muoveva ancora. «Forse riesco a riattaccarla, ma mi serve qualche minuto.»


«Ah, al diavolo! Dammela!» esclamò il duca, e gliela portò via, poi la nascose sotto la tunica. «Finiscila di agitarti tanto per me e vedi piuttosto di salvare Weimar e Lindel. Potrai tentare di riattaccarla quando saremo lontani da questi mostri.»


«Potrebbe essere troppo tardi» commentò Carn.


«Il mio era un ordine, stregone, non una richiesta!» tuonò Martland. Mentre Carn indietreggiava, strinse con i denti la manica della tunica attorno al braccio mutilato, che poi infilò di nuovo sotto l'ascella sinistra. Aveva il viso imperlato di sudore. «Bene! Che razza di malefici oggetti sono nascosti in quegli stramaledetti carri?»


«Corda!» gridò qualcuno.


«Whisky!» gridò un altro.


Martland grugnì. «Ulhart, prendi nota al posto mio.»


Roran aiutò gli altri a rovistare tra le merci, urlando a Ulhart che cosa trovava. Macellarono i buoi e diedero fuoco ai carri, come l'altra volta. Infine radunarono i cavalli e montarono in groppa, legando i feriti alle selle.


Quando furono pronti per partire, Carn fece dei gesti verso il bagliore nel cielo e mormorò una lunga, intricata parola. La notte avvolse il mondo intero. Roran alzò la testa e scorse una pulsante immagine di Carn impressa sulle stelle fioche, poi, quando si fu abituato all'oscurità, vide le delicate sagome grigie di migliaia di falene disorientate disperse nel cielo, come le ombre delle anime degli uomini.


Col cuore gonfio di dolore, spronò Fiammabianca e si allontanò dai resti del convoglio.

♦ ♦ ♦


SANGUE SULLE ROCCE

Frustrato, Eragon si precipitò fuori dalla camera circolare sepolta sotto il centro di Tronjheim e sbatté la porta di quercia con un sonoro boato.


Si fermò con le mani sui fianchi in mezzo al corridoio a volta e fissò il pavimento di piastrelle rettangolari di agata e giada. Da quando lui e Orik erano arrivati in città, tre giorni prima, i tredici capiclan non avevano fatto altro che discutere di argomenti a suo parere futili: quale clan aveva il diritto di far pascolare le proprie greggi in un determinato appezzamento di terreno divenuto oggetto di contesa, per esempio. Mentre li ascoltava dibattere su punti oscuri del loro codice legislativo, spesso Eragon aveva voglia di gridare che si stavano comportando da stupidi ciechi, e se non avessero accantonato subito quelle frivole preoccupazioni e scelto un nuovo sovrano senza altri indugi, avrebbero condannato l'intera Alagaësia a sottostare al comando di Galbatorix.


Ancora perso nei suoi pensieri, si incamminò lungo il corridoio, degnando di ben poca attenzione le quattro guardie che lo seguivano ovunque andasse e i nani che incontrava e che lo salutavano utilizzando molteplici varianti dell'appellativo "Argetlam". La peggiore di tutti i capiclan è forûnn, decise. Era la grimstborith del Dûrgrimst Vrenshrrgn, un potente clan bellicoso, e aveva chiarito fin dall'inizio della consulta che aspirava a ottenere il trono per sé. Solo un altro clan, l'Urzhad, si era schierato apertamente a suo favore, ma la nana era intelligente, astuta e capace di volgere quasi ogni situazione a proprio vantaggio, come aveva dimostrato in ben più di un occasione durante i precedenti incontri. Potrebbe rivelarsi un'ottima regina, riconobbe Eragon, ma è così enigmatica che è impossibile sapere se una volta eletta sosterrà i Varden. Si concesse un sorriso malizioso. Era sempre a disagio quando parlava con lei. I nani la consideravano una bellezza mozzafiato e in effetti era davvero notevole anche secondo i canoni umani. Inoltre sembrava nutrire una sorta di infatuazione per Eragon, che però lui non riusciva a interpretare. In ogni loro conversazione, Íorûnn insisteva nel fare allusioni alla storia e alla mitologia dei nani che il Cavaliere non comprendeva ma che, a quanto pareva, divertivano oltremodo Orik e i suoi compagni.


Oltre a Íorûnn, si erano fatti avanti altri due aspiranti al trono: Gannel, il capo del Dûrgrimst Quan, e Nado, il capo del Dûrgrimst Knurlcarathn. In qualità di custodi della religione dei nani, i membri del Quan godevano di un'enorme influenza, ma fino a quel momento avevano ottenuto solo il sostegno del Dûrgrimst Ragni Hefthyn e del Dûrgrimst Ebardac, quest'ultimo devoto alla ricerca scientifica. Di contro, Nado aveva creato una coalizione più forte, che comprendeva i Feldûnost, i Fanghur e gli Az Sweldn rak Anhûin.


Se Íorûnn sembrava interessata al trono solo per soddisfare la propria sete di potere e Gannel non pareva di per sé ostile ai Varden, benché non si mostrasse mai nemmeno troppo cordiale, Nado, invece, si opponeva apertamente e con veemenza a qualsiasi tipo di impegno con Eragon, Nasuada, l'Impero, Galbatorix, la regina Islanzadi e, almeno così sembrava, ogni altro essere vivente fuori dai Monti Beor. I membri del Knurlcarathn lavoravano la pietra e non avevano pari quanto a risorse minerarie e operai di cui avvalersi, perché tutti gli altri clan dipendevano dalla loro competenza per costruire tunnel e abitazioni, e perfino l'Ingeitum aveva bisogno di loro per estrarre il ferro che serviva ai fabbri. E se il tentativo di Nado non fosse andato a buon fine, Eragon sapeva che molti capi degli altri clan minori che ne condividevano la posizione avrebbero fatto a gara per prendere il suo posto. Gli Az Sweldn rak Anhûin, per esempio, che Galbatorix e i Rinnegati avevano quasi spazzato via durante la rivolta, si erano dichiarati nemici giurati di Eragon in occasione della sua visita alla città di Tarnag e anche adesso, durante la consulta, avevano dimostrato in ogni modo possibile il loro implacabile odio nei confronti suoi, di Saphira e di tutto ciò che aveva a che fare con draghi e Cavalieri. Anzi, si erano opposti perfino alla presenza di Eragon, anche se era ammesso dalla legge in vigore nel regno, e avevano costretto gli altri capiclan a esprimere il proprio parere in merito, ritardando così la riunione di sei inutili ore.


Un giorno o l'altro dovrò trovare il modo di riappacificarmi con loro, pensò Eragon, o mi vedrò costretto a portare a termine ciò che Galbatorix ha lasciato incompiuto. Mi rifiuto di vivere tutta la vita nella paura degli Az Sweldn rak Anhûin. Poi, come aveva già fatto negli ultimi giorni, attese la risposta di Saphira, e rendendosi conto che non poteva arrivare si sentì trafiggere il cuore da una ben nota fitta di infelicità.


Quanto solide fossero le alleanze tra i clan, tuttavia, era una questione incerta. Né Orik né Íorûnn né Gannel né Nado godevano di un sostegno sufficiente a garantirsi la vittoria ai voti, e dunque erano tutti indaffarati a cercare di conservare la fedeltà di quei clan che avevano già promesso loro di aiutarli e nel contempo di soffiare sostenitori agli avversari. Nonostante l'importanza del momento, Eragon trovava tutto noioso e deludente al di là dell'umana sopportazione.


Grazie alle spiegazioni di Orik, comprese che prima di eleggere il nuovo sovrano i capiclan dovevano stabilire tramite un voto se erano pronti a scegliere un nuovo re o una nuova regina. Per essere dichiarata valida, l'elezione preliminare doveva ottenere almeno nove voti a favore. Fino a quel momento nessun capoclan, Orik compreso, si era sentito tanto sicuro da andare al voto. Come aveva detto Orik, era la parte più delicata della procedura di successione, e in qualche caso si era protratta per un tempo lunghissimo.


Mentre rifletteva sul da farsi, Eragon vagò senza meta per il dedalo di stanze sotto Tronjheim finché non si ritrovò in una sala polverosa, con cinque archi neri su un lato e il bassorilievo di un orso inferocito alto venti piedi sull'altro. La bestia aveva le zanne d'oro e due rubini rotondi e sfaccettati al posto degli occhi.


«Dove siamo, Kvîstor?» domandò. La sua voce riecheggiò cupa nella stanza. Avvertiva i pensieri di molti nani ai livelli superiori, ma non aveva idea di come raggiungerli.


Il capo delle guardie, un giovane di non più di una sessantina d'anni, fece un passo avanti. «Queste stanze furono scavate millenni fa dal Grimstnzborith Korgan quando Tronjheim era ancora in costruzione. Da allora non le abbiamo usate spesso, tranne quando tutto il nostro popolo si riunisce all'interno del Farthen Dûr.»


Eragon annuì. «Potete riportarmi di sopra?»


«Ma certo, Argetlam.»


Dopo parecchi minuti di cammino a passo sostenuto, si ritrovarono davanti a un'ampia scalinata con i gradini bassi, a misura di nano, che sbucava dal terreno e portava a un passaggio nel quadrante sud-ovest della base di Tronjheim. Da lì Kvîstor guidò Eragon fino a uno dei quattro corridoi - quello meridionale, come gli altri lungo un miglio - che dividevano Tronjheim in corrispondenza dei punti cardinali.


Era lo stesso punto da cui lui e Saphira erano entrati la prima volta parecchi mesi prima, e fu con uno strano senso di nostalgia che lo percorse, diretto al centro della città-montagna. Era come se nel frattempo fosse invecchiato di molti anni.


Il corridoio alto quattro piani brulicava di nani di ogni clan. Eragon era sicuro che si fossero accorti di lui, ma non tutti lo degnarono di attenzione, e meno male: almeno si sarebbe risparmiato lo sforzo di ricambiare altri saluti.


Quando vide una fila di membri dell'Az Sweldn rak Anhûin attraversare il corridoio, si irrigidì. Loro volsero le teste tutti insieme per guardarlo, rabbuiati dietro i veli viola che indossavano sempre in pubblico. L'ultimo nano della fila sputò per terra verso Eragon, poi si infilò sotto un arco e raggiunse i suoi fratelli. Impossibile dire se fosse uomo o donna.


Se Saphira fosse qui, non oserebbero essere così sgarbati, pensò.


Dopo mezz'ora arrivò in fondo al maestoso corridoio. Era già stato lì molte altre volte, ma non appena ebbe superato l'arco fiancheggiato da colonne di onice nera alte quanto tre uomini e sormontate da zirconi gialli e fu entrato nella camera circolare nel cuore di Tronjheim, venne sopraffatto da un senso di timore e meraviglia.


Il diametro della stanza era di circa mille piedi e sul pavimento di lucida corniola era inciso un martello circondato da dodici stelle d'argento, lo stemma del Dûrgrimst Ingeitum e del primo re dei nani, Korgan, che aveva scoperto il Farthen Dûr scavando in cerca di oro. Di fronte a lui, alla sua destra e alla sua sinistra, partivano altri tre corridoi che conducevano ad altrettante sale. Priva di soffitto, la camera saliva fino al picco di Tronjheim, un miglio più in alto, e da lì si apriva nella rocca dei draghi, in cui avevano soggiornato lui e Saphira prima che Arya rompesse lo Zaffiro Stellato, e, più oltre, nel disco blu scuro del cielo, che sembrava distante al di là di ogni umana immaginazione, racchiuso dal cratere del Farthen Dûr, la montagna cava alta dieci miglia che celava Tronjheim al resto del mondo.


Solo una scarsa quantità di luce solare giungeva fino alla base di Tronjheim. La Città dell'Eterno Crepuscolo, la chiamavano gli elfi. Fatta eccezione per un'abbagliante trentina di minuti prima e dopo mezzogiorno in piena estate, era così buio che i nani ne illuminavano gli interni con un numero infinito di lanterne senza fiamma. Ce n'erano a migliaia. Ne splendeva una sul lato esterno di ogni colonna a sostegno degli archi lungo ciascun livello della città-montagna, e ne erano state montate molte altre davanti all'ingresso di stanze misteriose e sconosciute e davanti a Vol Turin, la Scala Infinita, che saliva a spirale fino alla sommità. L'effetto era suggestivo e spettacolare. Le lanterne brillavano di mille colori, e sembrava che l'interno della camera fosse punteggiato di gemme luccicanti.


Tanta meraviglia tuttavia impallidiva di fronte allo splendore di un vero gioiello, il più grande di tutti: Isidar Mithrim. Sul pavimento della camera i nani avevano costruito un'impalcatura di legno del diametro di sessanta piedi, e all'interno della gabbia di quercia fatta su misura stavano ricomponendo con la massima cura e delicatezza, pezzo per pezzo, lo Zaffiro Stellato. I frammenti erano conservati in scatole prive di coperchio riempite di lana grezza, ognuna con un'etichetta che recava scritta una fila di rune filiformi. Le scatole erano disposte lungo una vasta porzione del lato occidentale dell'ampia sala. Almeno trecento nani erano chini sopra di esse e si davano un gran daffare per riunire i frammenti e dare loro un ordine. Vicino all'impalcatura, un altro gruppo si prendeva cura della gemma scheggiata e costruiva strutture lignee.


Eragon li osservò lavorare per qualche minuto, poi si avviò verso la sezione di pavimento che Durza aveva scalfito quando lui e i suoi guerrieri Urgali erano entrati a Tronjheim dai tunnel sotterranei. Con la punta dello stivale batté sulla pietra lucida. Non c'era più alcuna traccia del danno. I nani avevano fatto un lavoro splendido ed erano riusciti a cancellare le cicatrici lasciate dalla battaglia del Farthen Dûr, ma Eragon sperava che avrebbero commemorato l'evento con un cippo o una lapide, perché credeva importante che le generazioni future non dimenticassero il sanguinoso prezzo pagato dai nani e dai Varden nella lotta contro Galbatorix.


Mentre camminava verso l'impalcatura, fece un cenno del capo a un nano smilzo dalle dita agili in piedi sopra una piattaforma affacciata sullo Zaffiro Stellato. Lo conosceva: era Skeg. Apparteneva al Dûrgrimst Gedthrall, ed era a lui che re Rothgar aveva affidato il restauro del tesoro più prezioso del suo popolo.


Skeg gli fece segno di raggiungerlo. Mentre si arrampicava sulle assi grezze, Eragon si ritrovò di fronte una scintillante gamma di spire oblique e appuntite quanto aghi, di bordi luccicanti e sottili come carta e di superfici increspate. La parte superiore dello Zaffiro Stellato gli ricordava la patina ghiacciata del fiume Anora nella Valle Palancar alla fine dell'inverno, quando si era già sciolta e riformata diverse volte ed era pericoloso calpestarla a causa dei dossi e dei crepacci provocati dagli sbalzi di temperatura. L'unica differenza era che i resti dello zaffiro non erano bianchi, azzurri o trasparenti, ma di un delicato rosa screziato di arancio scuro.


«Come va?» chiese Eragon.


Skeg si strinse nelle spalle e sventolò in aria le mani come se fossero due farfalle. «Va come deve andare, Argetlam. Per ottenere la perfezione ci vuole tempo.»


«A me sembra che stiate facendo grossi progressi, e in fretta, anche.»


Con l'indice ossuto, Skeg si tamburellò il naso largo e piatto. «La parte superiore di Isidar Mithrim, che adesso vedi al contrario, si è rotta in pezzi grossi, dunque è facile rimetterli insieme. Ma il fondo...» Skeg scosse il capo; il suo viso rugoso era addolorato. «La forza dell'impatto, i pezzi che spingevano contro la faccia della gemma, che schizzavano via da Arya e dalla dragonessa Saphira, che cadevano su di te e su quello Spettro dal cuore nero... i petali si sono frantumati in schegge ancora più piccole. E proprio la rosa, Argetlam, è il fulcro della gemma. È la parte più complessa e più bella di Isidar Mithrim. Ed è ridotta in mille pezzi. Se non riusciamo a rimettere ogni minuscolo frammento al suo posto, tanto vale dare tutte le briciole a qualche gioielliere perché siano montati sugli anelli delle nostre madri.» Le parole gli sgorgavano di bocca come acqua da un boccale troppo colmo. Gridò qualcosa nella sua lingua a un nano che stava trasportando una scatola, poi si tirò la barba bianca e chiese a Eragon: «Ti hanno mai raccontato come fu tagliato Isidar Mithrim nell'Età di Herran?»


Eragon esitò e ripensò alle lezioni di storia di quando era a Ellesméra. «So che è stato Dûrok.»


«Sì, proprio Dûrok Ornthrond, Occhio di Lince, come direste nella vostra lingua. Non fu lui a scoprire lo zaffiro, però; lui si limitò a estrarlo dalla roccia, tagliarlo e lucidarlo. Trascorse cinquantasette anni a lavorare sulla Rosa Stellata. La gemma lo ammaliava più di qualsiasi altra cosa. Ogni notte si chinava su Isidar Mithrim e lavorava fino al mattino, poiché era deciso a creare non solo un'opera d'arte ma qualcosa che avrebbe toccato il cuore di chiunque l'avesse ammirata e che gli avrebbe garantito un posto d'onore al tavolo degli dei. Tale era la sua devozione che, dopo trentadue anni, quando sua moglie gli disse che l'avrebbe lasciato se non avesse condiviso l'impegno con i suoi apprendisti, Dûrok non disse una parola, le voltò le spalle e continuò a modellare i contorni di un petalo che aveva cominciato all'inizio dell'anno.


«Dûrok tagliò Isidar Mithrim finché non fu soddisfatto di ogni linea e curva. Alla fine posò il panno con cui l'aveva lucidato, fece un passo indietro e disse: "Che Gûntera mi protegga, ho finito." E cadde a terra, senza vita.» Skeg si colpì il petto con un tonfo cupo. «Il suo cuore cedette. E comunque non avrebbe avuto motivo di vivere. Ecco che cosa stiamo cercando di ricostruire, Argetlam: cinquantasette anni di ininterrotta dedizione di uno dei più abili artisti che il nostro popolo abbia mai generato. Se non riusciamo a ricomporre Isidar Mithrim esattamente com'era, l'impresa di Dûrok risulterà sminuita agli occhi di chi ancora non ha ammirato la Rosa Stellata.» Si colpì la coscia con un pugno per dare più enfasi al concetto.


Eragon si appoggiò alla balaustra davanti a sé, che gli arrivava ai fianchi, e osservò cinque nani dalla parte opposta della gemma calare a pochi piedi dai bordi affilati dello zaffiro un sesto nano legato a un'imbracatura di corda, che rovistò nella tunica, estrasse una scheggia di Isidar Mithrim da una bustina di pelle e, prendendola con minuscole pinze, la depositò in una piccola fessura sotto di sé.


«Se l'incoronazione si tenesse fra tre giorni, Isidar Mithrim sarebbe pronto?» chiese Eragon.


Skeg tamburellò con le dieci dita sulla balaustra una melodia che Eragon non riuscì a riconoscere. Poi rispose: «Se non fosse stato per l'offerta della tua dragonessa, non saremmo mai andati così spediti. Questa fretta ci è estranea, Argetlam. A differenza di voi umani, non è nella nostra natura correre a destra e a manca come formiche agitate. Tuttavia faremo del nostro meglio perché sia pronto in tempo per l'incoronazione. Fra tre giorni, hai detto? Be', se così fosse non mi farei troppe illusioni. Ma se si riuscisse a posticiparla alla fine della settimana, credo che potremmo farcela.»


Eragon lo ringraziò per la sua previsione, poi si congedò. Seguito dalle guardie, andò verso uno dei tanti refettori della città-montagna, una stanza lunga e bassa con tavoli di pietra su un lato, e sull'altro forni di steatite presi d'assalto da nani affaccendati.


Eragon consumò un lauto pasto a base di pane, pesce dei laghi sotterranei, funghi e una specie di purea di tubero che aveva già assaggiato a Tronjheim ma di cui ignorava la provenienza. Prima di cominciare a mangiare, però, servendosi degli incantesimi che gli aveva insegnato Oromis, controllò che il cibo non fosse avvelenato.


Mentre inghiottiva l'ultima crosta di pane accompagnandola con un sorso di birra leggera e allungata con acqua, entrò Orik con un contingente di dieci guerrieri, che si disposero in modo da sorvegliare entrambi gli ingressi. Orik invece si sedette con un sospiro esausto sulla panca di pietra di fronte a Eragon. Puntò i gomiti sul tavolo e si strofinò il viso con le mani.


Eragon pronunciò parecchi incantesimi per impedire che qualcuno origliasse, poi gli chiese: «Un'altra battuta d'arresto?»


«No, no, niente affatto. È solo che queste consulte sono molto faticose.»


«L'ho notato.»


«E tutti hanno notato la tua delusione» rispose Orik. «D'ora in avanti devi controllarti di più, Eragon. Se riveli le tue debolezze non fai che avvalorare la loro causa. Io...» Tacque non appena un nano corpulento si avvicinò ciondolando e gli servì un piatto fumante.


Eragon si accigliò. «Ma sei un po' più vicino al trono? Abbiamo guadagnato terreno dopo tutte queste chiacchiere estenuanti?»


Masticando il pane, Orik alzò un dito. «E anche tanto, direi. Non essere così triste! Dopo che te ne sei andato, Havard ha acconsentito ad abbassare la tassa sul sale che il Dûrgrimst Fanghur vende all'Ingeitum in cambio dell'accesso estivo al nostro tunnel che porta a Nalsvrid-mérna, così potranno cacciare i cervi rossi che si radunano intorno al lago nei mesi più caldi dell'anno. Avresti dovuto vedere come ha digrignato i denti Nado quando Havard ha accettato la mia offerta!»


«Bah!» sbottò Eragon. «Tasse, cervi... Che c'entra tutto questo con il successore di Rothgar? Sii sincero con me, Orik. Qual è la tua posizione rispetto agli altri capiclan? E fino a quanto si trascinerà questa storia? Ogni giorno che passa diventa sempre più probabile che l'Impero scopra la nostra messinscena e che Galbatorix attacchi i Varden mentre io non sono là a respingere Murtagh e Castigo.»


Orik si pulì la bocca in un angolo della tovaglia. «La mia posizione è abbastanza salda. Nessun grimstborithn gode del sostegno necessario per chiedere il voto, ma io e Nado abbiamo il maggior seguito. Se uno di noi riuscirà a conquistarsi altri due o tre clan, la bilancia penderà subito a suo favore. Havard ha già molti dubbi. Non sarà così difficile convincerlo a passare dalla nostra parte. Stasera spezzeremo il pane insieme a lui e vedrò che cosa posso fare per incoraggiarlo.» Orik divorò un boccone di fungo arrosto, poi continuò: «Quanto alla fine della consulta, se siamo fortunati ci vorrà ancora una settimana, altrimenti due.»


Eragon imprecò a fior di labbra. Era così teso che aveva lo stomaco sottosopra, che brontolava e minacciava di rigettare il pasto che aveva appena consumato.


Orik tese un braccio e lo afferrò per un polso. «Non c'è niente che tu o io possiamo fare per accelerare la decisione, dunque non turbarti. Concentrati sulle cose che puoi cambiare e lascia che il resto faccia il suo corso, eh?» Poi lo lasciò andare.


Eragon espirò lentamente e appoggiò gli avambracci sul tavolo. «Lo so. È che abbiamo pochissimo tempo, e se dovessimo fallire...»


«Quel che sarà, sarà» rispose Orik, poi sorrise, ma aveva lo sguardo triste e vuoto. «Nessuno può sfuggire al fato.»


«Non puoi prendere il trono con la forza? So che non ci sono abbastanza truppe a Tronjheim, ma con il mio aiuto chi potrebbe fermarti?»


Orik si bloccò con il coltello a mezz'aria tra il piatto e la bocca, poi scosse il capo e riprese a mangiare. Tra un morso e l'altro disse: «Una manovra simile si rivelerebbe disastrosa.»


«Perché?»


«C'è davvero bisogno che te lo spieghi? Tutto il popolo ci si rivolterebbe contro e così, invece di assumere il controllo della nazione, erediterei un titolo senza valore. Se ciò dovesse accadere, non scommetterei nemmeno una spada sbeccata che arriveremmo a vedere il volgere dell'anno.»


«Ah.»


Orik non aggiunse altro finché non ebbe terminato il cibo che aveva nel piatto. Poi scolò una lunga sorsata di birra, ruttò e riprese: «Siamo in bilico su un ventoso sentiero di montagna, su entrambi i lati del quale si apre un dirupo profondo un miglio. Tra noi sono in molti a odiare e temere i Cavalieri dei Draghi a causa dei crimini che Galbatorix, i Rinnegati e ora anche Murtagh hanno commesso contro il nostro popolo. E sono in molti a temere il mondo oltre le montagne, i tunnel e le grotte in cui ci nascondiamo.» Fece ruotare il boccale sul tavolo. «Nado e l'Az Sweldn rak Anhûin non fanno che peggiorare la situazione. Giocano sulla paura dei loro affiliati e ne avvelenano la mente contro di te, i Varden e re Orrin... L'Az Sweldn rak Anhûin è l'incarnazione di tutto ciò che bisognerà eliminare se dovessi diventare re. In un modo o nell'altro dobbiamo trovare un sistema per dissipare le preoccupazioni loro e di quelli come loro: anche una volta sul trono dovrò ascoltarli per non perdere l'appoggio dei clan. Per quanto forte, un re o una regina è sempre alla mercé dei clan, così come i grimstborithn sono alle mercé delle famiglie appartenenti al loro clan.» Orik rovesciò indietro la testa e scolò la birra, poi posò la tazza sul tavolo con uno schiocco sonoro.


«C'è qualcosa che potrei fare, qualche tradizione da onorare o qualche cerimonia da officiare per placare le ire di Vermûnd e dei suoi seguaci?» chiese Eragon, riferendosi al capo dell'Az Sweldn rak Anhûin. «Ci deve essere qualcosa che posso fare per mettere a tacere i loro sospetti e porre fine a questa faida.»


Orik rise e si alzò. «Potresti morire.»

L'indomani mattina presto, Eragon si sedette contro la parete ricurva della stanza circolare sotto il centro di Tronjheim insieme a un gruppo scelto di guerrieri, consiglieri, servitori e membri delle famiglie dei capiclan che avevano il privilegio di assistere alla consulta. I capiclan erano seduti su scranni intarsiati di legno massiccio intorno a un tavolo circolare che, come la maggior parte degli oggetti pregiati nei livelli più bassi della cittàmontagna, recava l'insegna di Korgan e dell'Ingeitum.

Al momento aveva la parola Gàldhiem, il grimstborith del Drûmgrimst Feldûnost. Era basso, perfino per un nano - non superava i due piedi di altezza - e indossava una veste ricamata d'oro, rosso scuro e blu notte. A differenza dei membri dell'Ingeitum, non si tagliava né si intrecciava la barba, che gli penzolava sul petto come un intrico di rovi. In piedi sulla sedia, picchiò il pugno guantato sul tavolo lustro e ruggì: «Eta! Narho ûdim etal os isû vond! Narho ûdim etal os formvn mendûnost brakn, az Varden, hrestvog dûr grimstnzhadn! Az Jurgenvren qathrid né dômar oen etal...»

«No» sussurrò nell'orecchio a Eragon il suo interprete, un certo Hûndfast. «Non permetterò che accada. Non lascerò che quegli sciocchi imberbi dei Varden distruggano il nostro paese. La Guerra dei Draghi ci ha indeboliti e non...»

Annoiato, Eragon trattenne a stento uno sbadiglio. Passò in rassegna uno per uno i nani seduti al tavolo di granito. Si soffermò su Nado, che aveva il volto tondo e i capelli biondo chiaro e annuiva in segno di approvazione al discorso tonante di Gàldhiem; poi su Havard, che si puliva con la punta di un pugnale le unghie delle due dita rimastegli nella mano destra; su Vermûnd, imperscrutabile dietro il velo viola, a parte la fronte corrucciata; su Gannel e Ûndin, che bisbigliavano tra loro mentre Hadfala, una nana di una certa età a capo del Dûrgrimst Ebardac, il terzo membro dell'alleanza di Gannel, guardava accigliata la pergamena fitta di rune che portava con sé a ogni incontro; infine su Manndraâth, il capo del Dûrgrimst Ledwonnû, seduto di profilo, il lungo naso adunco in bella mostra; su Thordris, la grimstcarvlorss del Drûmgrist Nagra, di cui vedeva solo gli ondulati capelli rossicci, raccolti in una treccia lunga due volte lei che le scendeva oltre le spalle e si raccoglieva sul pavimento; sul retro della testa di Orik, seduto di lato; su Freowin, grimstborith del Dûrgrimst Gedthrall, un nano molto corpulento con gli occhi fissi sul ceppo di legno che stava intagliando a forma di corvo ingobbito; poi su Reidamar, capo del Dûrgrimst Urzhad che rispetto a Freowin era asciutto e in ottima forma, aveva gli avambracci muscolosi e indossava usbergo di maglia ed elmo a ogni riunione; infine su Íorûnn, che possedeva una bella carnagione nocciola scuro sciupata da una sottile cicatrice a forma di mezzaluna sopra lo zigomo sinistro; che aveva i capelli setosi e lucenti raccolti sotto un elmo d'argento cesellato a forma di testa di lupo ringhioso; che indossava una veste vermiglia e una collana di scintillanti smeraldi incastonati in quadrati d'oro su cui erano incisi i tratti di arcane rune.

Íorûnn si accorse che Eragon la stava guardando e subito le si dipinse sulle labbra un sorriso pigro. Con voluttuosa naturalezza ammiccò verso di lui, chiudendo uno degli occhi a mandorla per un paio di istanti.

Eragon arrossì; si sentiva pizzicare le guance e gli scottava la punta delle orecchie. Distolse lo sguardo e lo posò di nuovo su Gàldhiem, ancora impegnato a pontificare, il petto in fuori simile a quello di un piccione impettito.

Come gli aveva chiesto Orik, rimase impassibile per tutta la durata dell'incontro, nascondendo le proprie reazioni ai presenti. Quando la riunione si interruppe per il pasto, raggiunse di corsa Orik e gli sussurrò all'orecchio, così che nessuno potesse sentire: «Non aspettarmi al tuo tavolo. Ne ho abbastanza di stare seduto a sentire fandonie. Vado a esplorare i tunnel sotterranei.»

Orik annuì, distratto, poi gli disse: «Fa' come vuoi. Cerca solo di essere qui alla ripresa dei lavori; per quanto possano essere noiose queste discussioni, non sarebbe conveniente se le perdessi.»

«Come vuoi.»

Eragon scivolò fuori dalla sala insieme alla calca di nani ansiosi di pranzare e si riunì alle quattro guardie in corridoio, che stavano giocando a dadi con alcuni guerrieri oziosi appartenenti ad altri clan. Con le guardie al seguito, Eragon prese una direzione a caso e si lasciò guidare dai piedi; intanto architettava diversi metodi per unire le varie fazioni avversarie in una sola contro Galbatorix. Esasperato, arrivò alla conclusione che erano tutti troppo forzati: era assurdo credere che avrebbero funzionato.

Eragon prestò ben poca attenzione ai nani che incontrava nei tunnel, a parte bofonchiare qualche saluto di tanto in tanto, come richiedevano le minime regole di cortesia, fiducioso che Kvîstor avrebbe saputo riportarlo nella sala della consulta. Pur non osservando l'ambiente circostante nei minimi dettagli, seguì ogni creatura vivente che riusciva a sentire nel raggio di parecchie centinaia di piedi, fino al più minuscolo ragno dietro la ragnatela nell'angolo di una stanza, per non farsi sorprendere.

Quando finalmente si fermò, fu stupito di ritrovarsi nella stessa stanza polverosa che aveva scoperto nei vagabondaggi del giorno prima. A sinistra c'erano gli stessi cinque archi neri che conducevano a caverne sconosciute, a destra il bassorilievo che ritraeva la testa e le spalle di un orso inferocito. Divertito da quella coincidenza, si avvicinò alla scultura di bronzo e guardò le fauci scintillanti dell'animale, chiedendosi che cosa l'avesse riportato proprio lì.

Un momento dopo sbirciò nel corridoio che si apriva oltre l'arco centrale. L'angusto passaggio era privo di lanterne e sprofondava nel dolce oblio dell'oscurità. Espandendo la mente, Eragon ispezionò tutto quel tunnel e parecchie altre sale abbandonate su cui si apriva. Gli unici abitanti erano cinque o sei ragni e una moltitudine di falene, millepiedi e grilli ciechi. «C'è nessuno?» gridò Eragon, poi tese l'orecchio mentre il corridoio gli restituiva l'eco della sua voce via via più bassa. «Kvîstor, in quest'ala antica non vive nessuno?» chiese alla guardia.

Il nano rispose: «Sì, qualcuno c'è. Qualche bizzarro knurlan, per esempio, che preferisce la solitudine al tocco della mano di una moglie o al suono di una voce amica. Se ti ricordi, Argetlam, fu proprio uno di loro ad avvisarci dell'arrivo degli Urgali. Inoltre, benché non ne parliamo spesso, qui sotto vive chi ha infranto le leggi della nostra terra ed è stato bandito dal proprio capoclan, a rischio di pena di morte per un anno o, se l'offesa è grave, per il resto della vita. Per noi sono come morti viventi; se li incrociamo fuori dalle nostre terre, li evitiamo, e se li scopriamo entro i nostri confini, li impicchiamo.»

Quando Kvîstor ebbe finito di parlare, Eragon gli fece capire che era pronto per andarsene. La guardia si mise alla testa del gruppo e il Cavaliere la seguì oltre la porta dalla quale erano entrati, con gli altri tre alle loro spalle. Non avevano percorso più di venti piedi quando Eragon sentì dietro di sé un flebile rumore di passi strascicati, così sommesso che Kvîstor non parve nemmeno sentirlo.

Si voltò. Alla luce ambrata delle lanterne senza fiamma montate su entrambi i lati del corridoio vide correre verso di loro sette nani vestiti di nero, il viso coperto da maschere anch'esse nere e i piedi avvolti in stracci, a una velocità che pensava fosse di dominio esclusivo degli elfi, degli Spettri e di altre creature nel cui sangue scorre la magia. Nella destra tenevano lunghi pugnali affilati con pallide lame che scintillavano multicolori, come prismi, e nella sinistra scudi di metallo dalla cui borchia si levavano punte aguzze. Le loro menti, come quelle dei Ra'zac, erano inaccessibili.

Saphira!

fu il suo primo pensiero; poi si ricordò che era solo.

Voltandosi per fronteggiare i nani vestiti di nero, Eragon portò la mano all'elsa del falcione e fece per avvisare i suoi compagni.


Troppo tardi.


Mentre la prima parola gli risuonava ancora in gola, tre di quegli strani nani afferrarono l'ultima delle guardie e la colpirono con i pugnali scintillanti. Più veloce di ogni discorso o pensiero consapevole, Eragon si immerse nel flusso della magia con tutto se stesso e senza affidarsi all'antica lingua per dare forma al suo incantesimo modificò la trama del mondo in uno schema a lui più gradito. Le tre guardie tra lui e gli assalitori, quasi attirate da fili invisibili, gli precipitarono ai piedi, incolumi ma disorientate.


Eragon sussultò per l'improvviso calo di forza.


Due nani vestiti di nero gli si avventarono contro e cercarono di colpirlo al ventre con i loro pugnali assetati di sangue. Brandendo il falcione, schivò entrambi i colpi, sbalordito dalla rapidità e dalla ferocia degli aggressori. Una delle sue guardie balzò in avanti, gridando e facendo roteare l'ascia contro i potenziali assassini. Prima che Eragon potesse afferrarla per l'usbergo di maglia e metterla al sicuro, una lama bianca, che si contorceva come una fiamma spettrale, le trapassò il collo muscoloso. Mentre il nano cadeva, Eragon scorse il suo viso e rimase sconvolto nello scoprire che si trattava di Kvîstor; la gola, squarciata dal pugnale, brillava di un liquido rosso.


Non posso permettere loro di farmi nemmeno un graffio, si disse Eragon.


Infuriato per la morte di Kvîstor, colpì l'assassino così in fretta che non ebbe nemmeno il tempo di scansarsi e gli crollò ai piedi senza vita.


«Restate dietro di me!» gridò Eragon con tutta la sua forza alle altre guardie.


Via via che la sua voce riverberava lungo il corridoio, sul pavimento e sulle pareti si aprirono sottili crepe e dal soffitto caddero scaglie di pietra. I nani all'attacco esitarono di fronte al potere sconfinato della sua voce; poi ripresero l'offensiva.


Eragon indietreggiò di parecchie iarde in modo da avere abbastanza spazio per reagire senza essere intralciato dai cadaveri, poi si accucciò e brandì il falcione facendolo oscillare avanti e indietro, come un serpente pronto ad attaccare. Il cuore gli batteva al doppio della velocità e nonostante il combattimento fosse appena cominciato già gli mancava il respiro.


Il corridoio era largo otto piedi, abbastanza perché i sei nemici che restavano lo potessero attaccare tutti insieme. Si separarono: due tentarono di colpirlo ai fianchi, uno a destra e l'altro a sinistra, mentre il terzo si lanciò alla carica, colpendolo alle braccia e alle gambe a velocità frenetica.


Non volendo affrontare quei nani come avrebbe fatto se avessero brandito normali spade, Eragon si chinò per prendere lo slancio e balzò in avanti, poi fece una mezza giravolta e colpì il soffitto con i piedi. Con un'altra mezza giravolta atterrò carponi una iarda dietro di loro. Mentre gli si scagliavano contro, Eragon avanzò di un passo e li decapitò con un solo colpo di rovescio.


I pugnali caddero a terra tintinnando un istante prima delle teste.


Superando con un salto i corpi mutilati, Eragon si volse mentre era ancora in volo e atterrò nel punto da cui era partito.


Appena in tempo.


Un soffio di vento gli solleticò il collo quando la punta di un pugnale gli sfiorò la gola. Un'altra lama gli lacerò il risvolto dei pantaloni. Eragon trasalì e fece roteare il falcione, cercando di guadagnare spazio per combattere. I miei incantesimi di difesa avrebbero dovuto respingere le spade! pensò, sbalordito.


Posò il piede in una pozza di sangue vischioso e scivolò, cadendo di schiena e lasciandosi sfuggire un grido. Batté la testa sul pavimento di pietra e il colpo gli diede subito la nausea. Lucine azzurre presero a balenargli davanti agli occhi. Si sentì mancare il respiro.


Le tre guardie sopravvissute balzarono sopra di lui e insieme fecero roteare le asce per proteggerlo ed evitare il morso dei pugnali luccicanti.


Eragon non impiegò molto a riprendersi. Balzò in piedi e rimproverandosi per non averci pensato prima gridò un incantesimo intessuto con nove delle dodici parole di morte che Oromis gli aveva insegnato. Tuttavia dovette abbandonare la magia subito dopo averla liberata, perché i nani vestiti di nero erano protetti da numerose difese. Se avesse avuto qualche minuto in più, forse sarebbe riuscito ad aggirarle o a sconfiggerle, ma in quella battaglia dove ogni istante sembrava durare un'ora ci sarebbero voluti giorni. Avendo fallito con la magia, concentrò i pensieri in una lancia solida come il ferro e la scagliò dove avrebbe dovuto trovarsi la coscienza di uno dei nani, ma la sua energia fu respinta da una sorta di armatura mentale diversa da tutte quelle che il Cavaliere aveva visto prima di allora: liscia e senza giunture, immune dalle preoccupazioni tipiche di una creatura mortale impegnata in una lotta all'ultimo sangue.


Qualcuno li protegge, si disse. Questi sette nani non combattono da soli.


Puntando un piede, scattò in avanti e con il falcione trafisse il primo in un ginocchio, che prese a sanguinare. Il nano barcollò e le guardie di Eragon puntarono su di lui, afferrandolo per le braccia, così che non potesse brandire la malefica lama, poi lo abbatterono con le asce.


Il più vicino degli ultimi due assalitori alzò lo scudo per parare il colpo che Eragon stava per assestargli. Facendo appello a tutte le sue forze, il Cavaliere cercò di spezzare in due lo scudo e il braccio che lo reggeva, come aveva fatto spesso con Zar'roc, ma nella concitazione del momento non aveva tenuto conto dell'inesplicabile rapidità dei nani. Vedendo il falcione avvicinarsi al bersaglio, il nano inclinò lo scudo di lato in modo da deviare il colpo.


Il falcione rimbalzò sulla superficie e poi sulla punta d'acciaio dello scudo, sollevando due sbuffi di scintille. Il contraccolpo fu più forte del previsto e il falcione andò a conficcarsi nella parete, trascinando con sé il braccio di Eragon. Con un suono cristallino, la lama si frantumò in una decina di pezzi. Dall'elsa spuntava ormai solo un punteruolo di metallo sbeccato lungo sei pollici.


Sgomento, Eragon lasciò cadere l'arma ormai inutilizzabile, afferrò il bordo dello scudo del nano e lo strattonò avanti e indietro, cercando con ogni mezzo di frapporlo tra sé e il pugnale impreziosito da un alone di colori traslucidi. Il nano era incredibilmente forte; rispondeva colpo su colpo a tutti gli affondi di Eragon e riuscì perfino a farlo indietreggiare di un passo. Liberando la mano destra ma tenendo ancora lo scudo con la sinistra, Eragon caricò il braccio libero e lo colpì con più forza possibile, perforando l'acciaio temprato come se fosse di legno marcio. Grazie ai calli sulle nocche, non provò alcun dolore.


La forza del colpo scaraventò il nano contro la parete opposta. La testa ciondolante sull'osso del collo rotto, cadde al suolo come una marionetta a cui siano stati tagliati i fili.


Eragon estrasse la mano dal foro irregolare nello scudo, graffiandosi con il metallo ritorto, e sfoderò il coltello da caccia.


Un attimo dopo l'ultimo dei nani vestiti di nero gli si avventò addosso. Eragon schivò il suo pugnale due, tre volte, e infine gli trapassò la manica imbottita, provocandogli un taglio dal gomito al polso. Il nano sibilò di dolore, gli occhi azzurri inferociti sotto la maschera di tessuto. Gli assestò una serie di affondi: il suo pugnale fischiava nel vuoto così veloce da essere quasi invisibile, e infatti Eragon dovette balzare via per evitare quella lama mortale. Il nano non si arrese. Eragon riuscì a schivarlo per diverse iarde, poi nel tentativo di aggirare un cadavere inciampò, finì contro una parete ferendosi la spalla e cadde.


Con una risata malvagia, il nano balzò, abbassando il pugnale verso il petto indifeso di Eragon che, levando un braccio nel futile tentativo di proteggersi, rotolò lungo il corridoio. Sapeva bene di avere esaurito le sue riserve di fortuna e di non poter più fuggire.


Fatto un giro su se stesso, si ritrovò faccia a faccia con il nano e scorse il pallido pugnale abbattersi su di lui come un fulmine dal cielo. Poi, con suo grande stupore, la punta della lama sfregò contro una delle lanterne senza fiamma montate alle pareti. Eragon si voltò e fuggì prima di vedere che cosa sarebbe accaduto, ma un istante dopo gli parve che una mano incandescente lo colpisse da dietro, scaraventandolo per una ventina di piedi lungo il corridoio, contro lo spigolo di un arco. L'urto gli provocò una nuova serie di tagli e ferite. Un boato lo assordò; come se qualcuno gli infilasse delle schegge nei timpani. Eragon si coprì le orecchie con le mani, si rannicchiò e prese a ululare.


Quando il frastuono e il dolore furono cessati, abbassò le mani e si rimise in piedi barcollando, stringendo i denti via via che le ferite si destavano con una miriade di sensazioni poco piacevoli. Stordito e confuso, osservò il luogo dov'era avvenuta l'esplosione.


Il corridoio era annerito di fuliggine per un tratto di almeno dieci piedi. Morbidi fiocchi di cenere fluttuavano nell'aria, calda come all'interno di una forgia accesa. Il nano che aveva tentato di colpirlo giaceva a terra tra gli spasmi, il corpo ricoperto di ustioni. Una convulsione, un'altra ancora, e poi giacque immobile. Le tre guardie di Eragon erano state scaraventate fin dove arrivava la fuliggine. Le vide alzarsi a tentoni, le orecchie e le bocche spalancate che sanguinavano, le barbe bruciacchiate e scompigliate. L'orlo delle cotte era incandescente, ma a quanto pareva il rivestimento di pelle sotto l'armatura li aveva protetti dal calore.


Eragon fece un passo avanti, poi si fermò e gemette per una lancinante fitta di dolore in mezzo alle scapole. Cercò di ruotare il braccio all'indietro per verificare l'entità della ferita, ma più la pelle si tendeva più il dolore diventava insopportabile. Sul punto di perdere i sensi, si appoggiò alla parete. Guardò di nuovo il nano carbonizzato. Temo di avere un'ustione del genere sulla schiena.


Si sforzò di concentrarsi e recitò due degli incantesimi per guarire le bruciature che gli aveva insegnato Brom durante il loro viaggio. Quando cominciarono a fare effetto, fu come se dell'acqua fredda gli scorresse sulla schiena, alleviando il bruciore. Trasse un sospiro di sollievo e si raddrizzò.


«Siete feriti?» chiese ai soldati che avanzavano verso di lui zoppicando.


Il primo nano si incupì, si toccò l'orecchio destro e scosse la testa.


Eragon imprecò a fior di labbra e solo allora si accorse che non poteva sentirlo. Attingendo di nuovo alle scorte di energia del suo corpo, pronunciò un incantesimo per restituire l'udito a tutti. Mentre la magia volgeva al termine, un prurito irritante gli si insinuò nelle orecchie per poi svanire insieme all'incantesimo.


«Siete feriti?»


Il nano sulla destra, un soldato corpulento con la barba biforcuta, tossì e sputò un grumo di sangue rappreso, poi grugnì: «Niente che il tempo non possa curare. E tu, Ammazzaspettri?»


«Sopravviverò.»


Tastando il terreno a ogni passo, Eragon si avventurò nell'area annerita e si inginocchiò accanto a Kvîstor, sperando di poter salvare il nano dalla stretta della morte, ma dopo aver contemplato di nuovo le sue ferite capì che era impossibile.


Chinò il capo, amareggiato dal ricordo del recente spargimento di sangue. Si rialzò. «Perché la lanterna è esplosa?»


«Sono piene di calore e di luce, Argetlam, e se si rompono tutto fuoriesce all'istante. Quando succede è meglio non farsi trovare nei paraggi» rispose una delle guardie.


Indicando i cadaveri degli assalitori, Eragon chiese: «Sapete a quale clan appartengono?»


Il nano con la barba biforcuta rovistò tra i vestiti e poi esclamò: «Barzûl! Non portano insegne riconoscibili, Argetlam, ma indossano questo.» Mostrò un braccialetto di crini di cavallo intrecciato e luccicanti gemme lisce di ametista.


«Che cosa significa?»


«Questa particolare varietà di ametista» spiegò il nano, picchiettando su una delle gemme con un'unghia sporca di fuliggine «si trova solo in quattro punti dei Monti Beor, tre dei quali appartengono all'Az Sweldn rak Anhûin.»


Eragon si accigliò. «È stato Grimstborith Vermûnd a ordinare questo attacco?»


«Non posso dirlo con certezza, Argetlam. Forse questi braccialetti sono stati lasciati da un altro clan per far ricadere la colpa dell'aggressione su Vermûnd. Ma... se dovessi, scommetterei un carico d'oro che i responsabili sono gli Az Sweldn rak Anhûin.»


«Che siano maledetti, chiunque siano» mormorò Eragon. Per far cessare il tremore alle mani strinse i pugni. Con lo stivale scostò uno dei pugnali multicolori degli assassini. «Gli incantesimi che proteggevano queste armi e quegli... quegli uomini...» - li indicò con un cenno del capo - «... sì, insomma, uomini, nani, qualunque cosa siano, devono aver richiesto un'enorme quantità di energia, e non riesco nemmeno a immaginare quanto debba essere complessa la formula magica. Pronunciarla dev'essere stato difficile e pericoloso...» Eragon fissò le guardie a una a una e poi disse: «Non lascerò che questo attacco e la morte di Kvîstor rimangano impuniti, lo giuro davanti a voi. Quando scoprirò quale - o quali - clan hanno assoldato questi assassini dalla faccia di sterco, quando avrò appreso i loro nomi, i colpevoli rimpiangeranno di aver solo pensato di colpire me e di conseguenza il Dûrgrimst Ingeitum. Ve lo giuro come Cavaliere dei Draghi e membro effettivo del clan, e se qualcuno ve lo chiede, ripeterò il mio giuramento davanti a chiunque.»


I nani si inchinarono e quello con la barba forcuta ribatté: «Ai tuoi ordini, Argetlam. Onori la memoria di Rothgar con le tue parole.»


Poi un altro aggiunse: «Qualunque clan sia stato, ha violato le leggi dell'ospitalità; ha attaccato un ospite. Definirli sorci sarebbe un complimento; sono menknurlan.» Poi sputò per terra, e gli altri lo imitarono.


Eragon camminò fino ai resti del suo falcione. Si inginocchiò nella fuliggine e con la punta di un dito toccò uno dei pezzi di metallo, seguendone il profilo sbeccato. Devo aver colpito lo scudo e la parete con tanta forza da vanificare perfino l'incantesimo che avevo utilizzato per rafforzare l'acciaio, pensò.


E poi: Mi serve una spada.


Mi serve la spada di un Cavaliere.

♦ ♦ ♦


UNA QUESTIONE DI PROSPETTIVA

Il caldo vento del mattino che soffiava sulla pianura, del tutto diverso da quello che soffiava sulle colline, cambiò.


Saphira aggiustò l'angolazione delle ali per compensare il cambio di velocità e di pressione dell'aria che sosteneva il suo peso, migliaia di piedi sopra la terra bagnata dal sole. Chiuse le doppie palpebre per un momento, crogiolandosi nel soffice letto del vento e nel calore dei raggi mattutini che cadevano sul suo lungo corpo sinuoso. Immaginò come la luce facesse scintillare le sue squame, e la meraviglia di quanti la vedevano volare in circolo nel cielo, e canticchiò di piacere, felice, perché sapeva di essere la creatura più bella di tutta Alagaësia. Chi poteva sperare di eguagliare la magnificenza delle sue squame, della sua lunga coda affusolata, delle sue ali, così eleganti e ben fatte, degli artigli ricurvi e delle lunghe zanne bianche con cui poteva spezzare il collo di un bue selvatico in un solo morso? Certo non Glaedr dalle squame d'oro, che aveva perso una zampa in occasione della caduta dei Cavalieri. E nemmeno Castigo o Shruikan, perché erano entrambi schiavi di Galbatorix e la servitù forzata ne aveva distorto la mente. Un drago che non è libero di fare ciò che vuole non è più un drago. E poi erano maschi e per quanto un maschio potesse essere maestoso, non sarebbe mai riuscito a incarnare lo stesso ideale di bellezza. No, era la creatura più meravigliosa di tutta Alagaësia, e così doveva essere.


Saphira si scrollò per l'eccitazione dalla base del collo fino alla punta della coda. Era un giorno perfetto. Il calore del sole la faceva sentire avvolta in un nido di braci. Aveva la pancia piena, il cielo era terso e non doveva occuparsi di null'altro se non di stare in guardia da eventuali nemici desiderosi di combattere, ma lo faceva comunque, per abitudine.


Tanta felicità aveva solo un difetto, ma era un difetto vistoso, e più ci rifletteva più la sua insoddisfazione cresceva; avrebbe voluto che Eragon fosse lì a condividere quella giornata con lei. Grugnì e lanciò a fauci strette una breve fiammata azzurra, riscaldando l'aria davanti a sé, poi serrò la gola, tranciando di netto la corrente di fuoco liquido. Le pizzicava la lingua per via delle fiamme. Quando Eragon, il suo compagno di mente e di cuore, si sarebbe messo in contatto con Nasuada da Tronjheim? Quando le avrebbe chiesto di raggiungerlo? Lei aveva insistito perché obbedisse alla regina e andasse tra quelle montagne, così alte che nemmeno lei riusciva a raggiungerne la vetta, ma era trascorso troppo tempo e ora provava un senso di freddo e vuoto allo stomaco.


È calata un'ombra sul mondo, pensò. Ecco cosa mi ha turbato. Eragon ha un problema. È in pericolo, oppure lo è stato poco fa. E io non posso aiutarlo. Non era un drago selvatico. Da quando il suo uovo si era dischiuso, aveva condiviso la sua vita con Eragon e senza di lui era come se le mancasse metà di se stessa. Se fosse morto perché lei non era lì a proteggerlo, non avrebbe avuto altra ragione di vita se non la vendetta. Sapeva che avrebbe fatto a pezzi i suoi assassini e poi avrebbe sorvolato la nera città del traditore rompiuova che l'aveva tenuta imprigionata per tanti decenni, e avrebbe fatto del suo meglio per ucciderlo, anche se ciò avesse comportato per lei la morte certa.


Saphira grugnì di nuovo e tentò di azzannare un passerotto tanto folle da volare troppo vicino a lei. Lo mancò, e il pennuto schizzò via e continuò per la sua strada indisturbato, inasprendo l'umore già pessimo della dragonessa. Per un momento considerò l'idea di inseguirlo, poi decise che non valeva la pena di affannarsi tanto per quell'insignificante mucchietto di ossa e piume. Non era un granché nemmeno come spuntino.


Seguendo la direzione del vento e piegando la coda dalla parte opposta per facilitare la virata, fece un giro su se stessa ed esaminò il terreno sottostante e le piccole creature che correvano a nascondersi alla sua vista aguzza da cacciatrice. Perfino da quell'altezza - migliaia di piedi - riuscì a contare quante penne aveva sul dorso un piccolo di falco che volava rasente ai campi di grano a ovest del fiume Jiet. Vide l'ammasso sfuocato di pelo marrone di un coniglio che correva a mettersi in salvo nella tana. Distinse il piccolo branco di cervi accucciati sotto i rami dei cespugli di ribes lungo un emissario del fiume Jiet. E udì i versi acuti degli animali spaventati che allertavano i propri simili della sua presenza. Quelle grida incerte la gratificavano; era giusto che il suo cibo avesse paura di lei. Se mai fosse stato il contrario, avrebbe capito che era giunta l'ora di morire.


Una lega più in là, risalendo la corrente, i Varden erano ammassati a ridosso del fiume come un branco di cervi rossi sul ciglio di una scogliera. Erano arrivati al guado il giorno prima e da allora forse un terzo degli uomini e degli Urgali - che erano amici - e dei cavalli - che non poteva mangiare - l'aveva già attraversato. L'esercito si muoveva così a rilento che a volte Saphira si chiedeva se gli umani trovassero il tempo di fare altre cose oltre a viaggiare, considerata la brevità delle loro vite. Sarebbe più comodo se potessero volare, pensò, e si chiese perché non lo facessero. Volare era un gioco da ragazzi; che le altre creature preferissero restare con i piedi e le zampe piantati per terra non cessava mai di meravigliarla. Perfino Eragon rivendicava il proprio attaccamento al suolo, soffice o duro che fosse, anche se sapeva che avrebbe potuto raggiungerla in cielo in qualunque momento solo pronunciando qualche parola nell'antica lingua. E poi non sempre comprendeva le azioni dei bipedi, che avessero le orecchie rotonde o a punta, le corna, o che fossero così bassi che avrebbe potuto schiacciarli con una zampa.


Un fugace movimento a nord-est catturò la sua attenzione, così virò, incuriosita. Vide una fila di quarantacinque cavalli esausti avanzare a fatica verso i Varden. La maggior parte era senza cavaliere, dunque passò un'altra mezz'ora prima che le venisse in mente che si poteva trattare del gruppo di Roran di ritorno dall'incursione, e a quel punto ormai i volti dei cavalieri erano ben visibili. Si domandò che cosa fosse successo per ridurre in quel modo il numero dei soldati e provò una momentanea fitta di inquietudine. Non era legata a Roran, ma Eragon gli voleva bene e tanto bastava perché anche lei se ne preoccupasse.


Espandendo la propria coscienza verso il gruppo scompaginato di Varden, cercò la musica della mente di Arya, e non appena l'elfa si accorse della sua presenza e le concesse di accedere ai suoi pensieri, le disse: Roran arriverà nel tardo pomeriggio. La sua compagnia è stata decimata, però. Durante il viaggio dev'essersi abbattuta su di loro qualche grave calamità.


Grazie, Saphira. Informerò Nasuada.


Non appena si fu allontanata dalla mente di Arya, sentì il tocco indagatore di Blödhgarm, l'elfo con la pelliccia da lupo. Non sono appena uscita dall'uovo, lo rimbrottò. Non devi controllarmi ogni due minuti.


Ti porgo le mie più umili scuse, Bjartskular, ma ormai mancavi da parecchio tempo e qualcuno potrebbe cominciare a chiedersi perché tu e...


Sì, lo so, grugnì lei. Riducendo l'apertura alare, si inclinò verso il basso e prese a scendere piano a spirale verso il fiume ingrossato. Sarò lì tra poco.


Inarcò le ali, che si fecero più tese a mano a mano che il vento premeva con immensa forza contro le membrane. Rallentò fin quasi a fermarsi, poi accelerò di nuovo, galleggiando un centinaio di piedi sopra l'acqua marrone. Battendo le ali di tanto in tanto per restare in quota, risalì il fiume, attenta a eventuali sbalzi di pressione dell'aria fresca che avrebbero potuto sospingerla in una direzione inaspettata o, peggio ancora, contro gli alberi aguzzi o il duro suolo.


Sorvolò i Varden radunati accanto al fiume, abbastanza in alto perché il suo arrivo non spaventasse i loro stupidi cavalli. Poi, planando, atterrò in uno spiazzo vuoto tra le tende che Nasuada aveva ordinato di ricavare apposta per lei e attraversò l'accampamento fino alla tenda di Eragon, dove Blödhgarm e gli altri undici elfi al suo comando la stavano aspettando. Li salutò strizzando l'occhio e schioccando la lingua, poi si accoccolò davanti alla tenda, rassegnata ad appisolarsi in attesa che facesse buio, proprio come avrebbe fatto se lei ed Eragon fossero dovuti partire per una delle solite missioni notturne. Stare lì distesa giorno dopo giorno era noioso, ma anche indispensabile per far credere a tutti che Eragon era ancora tra i Varden; dunque non si lamentava, anche se dopo dodici o più ore passate sulla dura terra a inzaccherarsi le squame si sentiva come se avesse combattuto contro un migliaio di soldati, distrutto una foresta a colpi di zanne, artigli e fiamme, volato fino alla nausea o raggiunto i confini di terra, acqua e aria.


Borbottando tra sé, raspò con gli artigli per rendere un po' più soffice il giaciglio, infine appoggiò il muso sulle zampe distese e chiuse le palpebre interne per riposare e insieme tenere d'occhio chi si avvicinava. Una libellula le ronzò sopra la testa e per l'ennesima volta Saphira si domandò chi fosse stato così folle da dare a quegli stupidi insetti alati un nome tanto leggiadro. Avere le ali non sempre è sinonimo di eleganza, grugnì; poi si abbandonò a un sonno leggero.

Quando sentì gli schiamazzi e le grida di benvenuto, da cui dedusse che Roran e i suoi compagni avevano raggiunto l'accampamento, il grande disco infuocato del sole era prossimo all'orizzonte. Si alzò. Come già in precedenza, Blödhgarm per metà cantò e per metà sussurrò un incantesimo con cui creò un sosia immateriale di Eragon, che poi fece uscire dalla tenda e salire sul dorso della dragonessa, un'imitazione perfetta che pareva dotata di vita propria. A prima vista l'apparizione era impeccabile, ma non aveva una sua coscienza, e se qualcuno degli agenti di Galbatorix avesse cercato di ascoltarne i pensieri avrebbe scoperto l'inganno all'istante. Il successo della messinscena dipendeva dunque da Saphira, che doveva trasportare il fasullo Eragon per tutto l'accampamento e farlo sparire il più in fretta possibile, e dalla speranza che la reputazione del Cavaliere fosse così formidabile da scoraggiare eventuali spioni clandestini intenzionati a carpirgli informazioni sui Varden.

Saphira si avviò a grandi falcate per l'accampamento, con i dodici elfi che correvano stretti attorno a lei. Al suo passaggio, gli uomini si facevano da parte e gridavano: «Salute a te, Ammazzaspettri!» e «Salute a te, Saphira!», e lei sentì accendersi nella pancia un tiepido calore.

Quando arrivò al padiglione di Nasuada, rosso come la crisalide di una farfalla, si accovacciò e infilò la testa nella solita fessura. Blödhgarm riattaccò con il suo dolce canto e il sosia di Eragon scese dalla dragonessa, entrò e non appena fu al sicuro dalla vista dei curiosi che sbirciavano si dissolse nel nulla.

«Credi che ci abbiano scoperti?» gli chiese Nasuada dal suo alto scranno.


L'elfo fece un elegante inchino. «Non ne sono sicuro, Lady Nasuada. Prima di poter rispondere alla tua domanda, dobbiamo aspettare di vedere se l'Impero fa qualche mossa per sfruttare l'assenza di Eragon.»


«Grazie, Blödhgarm. È tutto.»


Con un altro inchino l'elfo si ritirò e prese posizione diverse iarde dietro Saphira, proteggendole il fianco.


Saphira si accoccolò sulla pancia e cominciò a leccarsi le squame intorno al terzo artiglio della zampa davanti, dove si erano accumulate orrende strisce bianche: l'argilla secca in cui ricordava di essersi impantanata mentre mangiava l'ultima preda.


Meno di un minuto dopo, Martland Barbarossa, Roran e un altro uomo che non riconobbe entrarono nel padiglione rosso e si inchinarono a Nasuada. Saphira interruppe le pulizie per saggiare l'aria con la lingua e colse l'odore aspro del sangue rappreso e quello acre del sudore, il puzzo dei cavalli misto all'aroma del cuoio e, debole ma inequivocabile, l'intenso, pungente afrore della paura. Riesaminò il terzetto e vide che l'uomo con la lunga barba rossa aveva perso la mano destra, poi tornò a staccarsi l'argilla dalle squame.


Mentre Saphira riportava ogni squama all'originaria brillantezza, prima Martland, poi l'altro uomo, Ulhart, e infine Roran narrarono una storia di sangue e armi e uomini che ridevano e si rifiutavano di morire quando giungeva la loro ora ma insistevano nel voler combattere perfino dopo che Angvard li aveva richiamati a sé. Com'era sua abitudine, Saphira rimase in silenzio mentre Nasuada e Jörmundur, il suo consigliere alto e magro, domandavano ai guerrieri i dettagli di quella missione sventurata. Sapeva che a volte Eragon si stupiva che non partecipasse più attivamente alle conversazioni. I motivi del suo silenzio erano semplici: prima di tutto si sentiva a suo agio solo quando comunicava con Eragon, Arya o Glaedr, e poi secondo lei la maggior parte delle discussioni non erano altro che inutili perdite di tempo. Che avessero le orecchie rotonde o a punta, le corna o fossero bassi, i bipedi le sembravano dei perditempo senza speranza. Brom non aveva mai esitato: ecco perché le piaceva tanto. Per lei le scelte erano facili: se c'era qualcosa che poteva fare per migliorare la situazione, lo faceva, altrimenti no, e ogni altra parola spesa sull'argomento era inutile rumore. Non si preoccupava mai del futuro, tranne quando si trattava di Eragon.


Concluse le domande, Nasuada espresse il proprio dispiacere a Martland per l'incidente alla mano, poi congedò lui e Ulhart, ma non Roran, a cui disse: «Hai dimostrato ancora una volta il tuo valore, Fortemartello. Sono molto fiera di te.»


«Grazie, mia signora.»


«I nostri migliori guaritori si occuperanno di lui, però Martland avrà comunque bisogno di molto tempo per riprendersi. E non può comandare incursioni simili con una mano sola. Da questo momento dovrà servire i Varden dalle retrovie, non più in prima linea. Potrei fargli avere una promozione e nominarlo mio consigliere militare. Jörmundur, che cosa ne pensi?»


«Un'idea eccellente, mia signora.»


Nasuada annuì soddisfatta. «Ciò significa che devo trovare un altro capitano al servizio del quale dovrai combattere, Roran.»


«Mia signora, perché non scegli me? Le ultime due missioni e i risultati ottenuti non sono forse stati di tuo gradimento?»


«Se continuerai a distinguerti come hai fatto finora, Fortemartello, l'incarico sarà presto tuo. Ma devi essere paziente e aspettare ancora. Due sole missioni, per quanto sbalorditive, non possono rivelare appieno il carattere di un uomo. Quando c'è di mezzo il mio popolo, preferisco agire con estrema cautela. Ti devi adeguare al mio volere.»


Roran strinse l'impugnatura del martello infilato nella cintura, le vene e i tendini della mano in rilievo, però mantenne un tono educato. «Ma certo, Lady Nasuada.»


«Molto bene. Più tardi manderò un paggio a informarti sulla tua prossima destinazione. E cerca di consumare un lauto pasto non appena tu e Katrina avrete finito di festeggiare il tuo ritorno. È un ordine, Fortemartello. Hai l'aria di uno che sta per svenire.»


«Come desideri, mia signora.»


Roran fece per andarsene, ma Nasuada alzò una mano e lo richiamò. «Ora che hai combattuto contro questi uomini che non provano dolore fisico, credi che sarebbe più facile sconfiggerli se potessimo contare anche noi sulla stessa resistenza?»


Roran esitò, poi scosse la testa. «La loro forza è la loro debolezza. Non si difendono come farebbero se temessero il morso di una spada o la punta di una freccia, e così non badano alla propria vita. Sì, è vero, continuano a combattere anche dopo che un uomo normale sarebbe a terra morto stecchito, e non è un vantaggio da poco in battaglia, ma è anche vero che ne muoiono molti di più proprio perché non si proteggono il corpo in maniera adeguata. Nella loro insensibile sicurezza, cadono in trappole e pericoli che noi invece faremmo di tutto per evitare. L'importante è che il morale dei Varden rimanga alto; sono sicuro che con la tattica giusta riusciremo a prevalere su questi mostri che ridono. Se fossimo come loro, ci massacreremmo a vicenda senza accorgercene né preoccuparcene, perché il nostro spirito di sopravvivenza verrebbe meno. Io la penso così.»


«Grazie, Roran.»


Quando se ne fu andato, Saphira chiese: Ancora nessuna notizia di Eragon?


Nasuada scosse il capo. «No, ancora nulla, e il suo silenzio comincia a preoccuparmi. Se non ci avrà cercato entro dopodomani, chiederò ad Arya di mandare un messaggio a uno degli stregoni di Orik per avere sue notizie. Se Eragon non riesce ad accelerare la fine della consulta tra i clan, temo che non potremo più contare sull'alleanza dei nani per le battaglie future. L'unica cosa positiva di un risultato così disastroso sarebbe che Eragon tornasse da noi senza indugio.»


Quando Saphira fu pronta a lasciare il padiglione rosso crisalide, Blödhgarm evocò di nuovo il sosia di Eragon e glielo sistemò sul dorso. La dragonessa ritrasse la testa e, come aveva già fatto prima, attraversò l'accampamento a grandi falcate, seguita a ruota dagli agili elfi.


Raggiunta la tenda di Eragon, l'ombra colorata del Cavaliere vi entrò e poi svanì. Saphira si accucciò e si rassegnò ad aspettare la fine della giornata nella più totale monotonia. Prima di riprendere il suo sonnellino, pur con riluttanza, espanse la mente verso la tenda di Roran e Katrina e insisté finché lui non ebbe abbassato le barriere attorno alla propria coscienza.


Saphira? domandò Roran.


Conosci qualcun altro come me?


Certo che no. È solo che mi hai colto di sorpresa. Sono... be', al momento sono un po' occupato.


Esaminò il colore delle sue emozioni e di quelle di Katrina e la conclusione a cui giunse la divertì. Volevo solo dirti che sono felice che tu sia tornato sano e salvo.


I pensieri di Roran si fecero d'improvviso confusi, da caldi che erano divennero gelidi, e parve in difficoltà a formulare una risposta coerente. Alla fine disse: È molto gentile da parte tua, Saphira.


Se puoi, vieni a trovarmi domani, così potremo parlare con più calma. Mi innervosisco, a stare qui seduta tutto il giorno. Potresti raccontarmi qualcosa su com'era Eragon prima che facessi schiudere il mio uovo tra le sue mani.


Sarebbe... sarebbe un onore.


Soddisfatta di aver dato il benvenuto a Roran e di avere obbedito alle fondamentali regole di cortesia in vigore tra i bipedi con le orecchie rotonde, e rincuorata nel sapere che l'indomani sarebbe stata una giornata un po' meno noiosa del solito, perché era impensabile che qualcuno osasse ignorare la richiesta di un drago, Saphira si sistemò come meglio poté sulla nuda terra. Come spesso le capitava, avrebbe tanto voluto trovarsi ancora nel soffice nido dell'alloggio di Eragon a Ellesméra, dentro l'albero sferzato dal vento. Sospirò, si lasciò sfuggire uno sbuffo di fumo, poi si addormentò e sognò di volare più in alto che mai.


Batté le ali finché non ebbe superato le irraggiungibili vette dei Monti Beor. Poi volò in circolo per un po', ammirando tutta Alagaësia sotto di sé. Infine la colse un irrefrenabile desiderio di salire ancora più su; allora riprese a dare colpi d'ala e in un batter d'occhio, almeno così le parve, superò la luna abbagliante finché nel cielo scuro non rimasero che lei e le stelle argentee. Si librò lassù per un intervallo di tempo indefinito, regina del mondo sottostante, luminoso come un gioiello; poi però l'inquietudine fece breccia nel suo cuore e la dragonessa gridò i suoi pensieri:


Eragon, dove sei?

♦ ♦ ♦


BACIAMI DOLCEMENTE

Al risveglio, Roran si liberò dalle morbide braccia di Katrina e si sedette a torso nudo sul bordo della branda che condividevano. Sbadigliò e si stropicciò gli occhi, poi guardò la pallida striscia di luce del fuoco che filtrava tra i due lembi di stoffa all'ingresso e si sentì ottuso e stordito per la stanchezza accumulata. Avvertì un brivido di freddo, ma rimase dov'era, immobile.

«Roran» lo chiamò Katrina con voce assonnata, poi si sollevò appoggiandosi a un braccio e con l'altro lo cercò. Quando gli passò la mano sulla schiena e gli accarezzò il collo, lui non reagì. «Dormi. Hai bisogno di riposare. Fra non molto dovrai ripartire.»

Roran scosse il capo senza guardarla.


«Che c'è?» gli chiese Katrina. Si mise a sedere, gli coprì le spalle con una coperta, poi si appoggiò a lui, la guancia calda contro il suo braccio. «Sei preoccupato per il nuovo capitano o per la destinazione che ti assegnerà Nasuada?»


«No.»


Katrina rimase in silenzio un istante. «Ogni volta che te ne vai, mi sembra che a ritornare sia una parte sempre più piccola di te. Sei diventato così cupo e silenzioso... Sai che puoi dirmi che cosa ti turba, per quanto terribile. Lo sai, vero? Sono la figlia di un macellaio, e ho visto anch'io molti uomini cadere in battaglia.»


«Che cosa mi turba?» esclamò Roran, e le parole gli si strozzarono in gola. «Non ci voglio pensare mai più.» Serrò i pugni, il respiro incerto. «Un vero guerriero non si sentirebbe così.»


«Un vero guerriero non combatte perché vuole ma perché deve» rispose lei. «Un uomo che brama la guerra, che si diverte a uccidere, è un bruto e un mostro. Per quanta gloria conquisti sul campo di battaglia, non sarebbe migliore di un lupo rabbioso, sempre pronto a scagliarsi contro i suoi amici e la sua famiglia quanto contro i nemici.» Gli scostò i capelli dalla fronte e gli accarezzò la testa, piano, con dolcezza. «Una volta mi hai detto che tra le storie di Brom La canzone di Gerand era la tua preferita: per questo combatti con un martello invece che con una spada. Ti ricordi che a Gerand non piaceva uccidere ed era riluttante all'idea di imbracciare di nuovo le armi?»


«Sì.»


«E tuttavia era considerato il più grande guerriero della sua epoca.» Katrina gli prese le guance tra le mani e gli volse il viso verso di sé, in modo che fosse costretto a guardarla negli occhi severi. «E tu sei il più grande guerriero che conosca, qui e in qualunque altra parte del mondo.»


Con la bocca asciutta, Roran rispose: «Ed Eragon, o...?»


«No. Eragon, Murtagh, Galbatorix, gli elfi... non valgono nemmeno la metà di te, perché loro marciano in battaglia forti di incantesimi sulle labbra e di un potere che eccede di gran lunga il nostro. Ma tu...» - e lo baciò sul naso - «... tu sei solo un uomo. Affronti i tuoi nemici contando solo sulle tue gambe. Non sei un mago, eppure hai sconfitto i Gemelli. Sei veloce e forte quanto può esserlo un uomo, tuttavia non hai rinunciato ad attaccare i Ra'zac nel loro covo e a liberarmi dal loro sotterraneo.»


Roran deglutì. «Sì, ma c'erano gli incantesimi di Eragon a proteggermi.»


«Ora non più. E poi a Carvahall non avevi difese, ma sei forse fuggito davanti ai Ra'zac?» Vedendo che il marito non rispondeva, Katrina proseguì: «Tu sei solo un uomo, ma hai fatto cose che nemmeno Eragon o Murtagh sarebbero mai riusciti a eguagliare. Ai miei occhi questo ti rende il più grande guerriero di Alagaësia... Non conosco nessun altro a Carvahall che avrebbe viaggiato per mari e monti pur di salvarmi.»


«Tuo padre.»


La sentì rabbrividire. «Sì, è vero» sussurrò. «Ma non sarebbe mai stato capace di convincere altri a seguirlo come hai fatto tu.» Lo abbracciò forte. «Qualunque cosa tu abbia visto o fatto, io sarò sempre con te.»

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