“Questa città è un porto.”
Il generale alzò gli occhi verso i vapori rugginosi che affollavano il cielo. Gli scarichi industriali tingevano la sera di arancio e salmone, di toni porpora troppo ricchi di rosso. A ovest, astronavi da carico e navette che facevano la spola fra il pianeta e i centri stellari o i satelliti laceravano le nubi dirette verso lo spazio o verso l’astroporto. “È anche una città povera e sporca” pensò il generale girando l’angolo e schivando le immondizie sparse ovunque sul marciapiede.
Dopo l’invasione, ben sei embarghi rovinosi avevano strangolato ogni volta per mesi quella città il cui cordone ombelicale doveva pulsare al ritmo del commercio interstellare per poter sopravvivere. Esclusa dal resto dell’universo, come poteva esistere quella città? Sei volte negli ultimi vent’anni lui si era posto questa domanda. E la risposta? No, non poteva continuare a esistere.
Ondate di panico, rivolte, incendi, in due occasioni casi di cannibalismo…
Gli occhi del generale abbandonarono i profili delle torri di carico che spuntavano dietro la fragile monorotaia per spostarsi sugli edifici bui e sporchi. In quella zona le strade erano più strette, affollate di facchini, scaricatori, con alcuni spaziali nelle loro uniformi verdi e gruppetti di uomini e donne dai visi pallidi e dagli abiti decorosi che indubbiamente sbrigavano le intricate pratiche delle operazioni doganali. “Ora sono tranquilli, stanno andando a casa o al lavoro” pensò il generale. “Eppure, tutta questa gente vive da due decenni sotto l’incubo dell’Invasione. Durante gli embarghi questa gente è morta di fame, ha infranto vetrine e finestre, ha saccheggiato, è fuggita urlante sotto i getti degli idranti, ha strappato brani di carne dal braccio di qualche cadavere con denti decalcificati.”
“Ma chi è questo animale uomo?” Il generale si pose la domanda in astratto, per confondere le fila della memoria. Era più facile, essendo un generale, interrogarsi sull’“animale uomo” che sulla donna seduta in mezzo al marciapiede durante l’ultimo embargo, con il suo bimbo scheletrico stretto per una gamba, o sulle tre scarne adolescenti che lo avevano aggredito armate di rasoio in mezzo alla strada (“Vieni qui, bistecca” aveva sibilato una di loro fra i denti color del cuoio, puntando contro il suo petto la lama luccicante. “Vieni a prendermi, pranzetto…” E lui aveva usato il karate…), oppure sull’uomo cieco che aveva risalito urlando il viale.
Adesso erano uomini e donne dai visi pallidi e dagli abiti decorosi, che parlavano sottovoce e che esitavano sempre un istante prima di stendersi sul viso un’espressione improntata a pallidi e decorpsi ideali patriottici: lavorare per la vittoria sugli Invasori; Alona Star e Kip Rhyak erano magnifici in Holliday lo Spaziale, ma Ronald Quar restava senza dubbio il miglior attore drammatico del momento. Ascoltavano la musica di Hi Lite (oppure fingevano solo di ascoltarla, si chiese il generale, durante quelle danze così lente nel corso delle quali nessuno si toccava?). Un impiego alla Dogana era un buon lavoro, e sicuro… lavorare direttamente nei Trasporti era probabilmente una cosa più divertente e più eccitante, ma solo sullo schermo; e poi, in tutta sincerità, fra individui così strani…
Le persone più intelligenti e più raffinate discutevano la poesia di Rydra Wong.
Parlavano spesso dell’Invasione, con un centinaio di frasi ormai consacrate nell’uso da vent’anni di ripetizioni sui giornali o nei bollettini. Raramente facevano riferimento agli embarghi, e con una sola parola.
“Prendi uno qualsiasi di loro” pensò il generale “prendine un milione. Chi sono? Cosa vogliono? Cosa direbbero se avessero una possibilità di dire qualcosa?”
Rydra Wong era diventata la voce di quell’epoca. Il generale ricordò le poche righe di un’entusiastica recensione, e comprese quanto fosse paradossale la sua situazione: lui era un capo militare con un incarico puramente militare, e si stava dirigendo a incontrare la poetessa Rydra Wong.
I lampioni si accesero in quell’istante, e la sua immagine rimbalzò scintillante contro la vetrata del bar. “È vero, adesso non sono in uniforme.” Vide un uomo alto e muscoloso, con il viso granitico segnato dall’autorità dei suoi cinquant’anni. Si sentiva a disagio nell’abito borghese grigio. Fino ai trent’anni, la prima impressione che gli altri avevano ricevuto di lui era stata “grosso e impacciato”. In seguito (il cambiamento era coinciso con l’Invasione), l’impressione era mutata in “massiccio e autoritario”.
Se Rydra Wong si fosse recata da lui al Comando Amministrativo dell’Alleanza, il generale si sarebbe sentito sicuro di sé. Adesso, invece, vestiva panni civili al posto della sua divisa verde da spaziale. Quel bar gli era completamente sconosciuto. E lei era la più famosa poetessa di tutte le cinque galassie esplorate. Per la prima volta dopo tanto tempo, il generale si sentì nuovamente impacciato.
Entrò nel bar.
E sussurrò: — Dio mio, è bellissima, e nessuna delle altre donne qui dentro può starle alla pari. Non mi ero mai accorto che fosse così bella, neppure dalle fotografie…
Lei incontrò per un attimo i suoi occhi nel grande specchio dietro il banco e si girò verso di lui, scendendo dallo sgabello con un sorriso. Il generale si avvicinò e le sfiorò appena la mano, mentre sulla sua lingua danzavano incerte le parole Buonasera, signorina Wong. Ma non riuscì a pronunciarle, e dovette ingoiarle di nuovo. Ora lei sembrava sul punto di parlare.
Le pupille dei suoi occhi sembravano minuscoli dischi di rame battuto, e sulle labbra il rossetto aveva lo stesso colore…
— Babel-17 — disse lei. — Non l’ho ancora risolto, generale Forester.
Un vestito di maglia color indaco, e i suoi capelli come acqua notturna di torrente che scendesse su una spalla. Il generale disse: — Questa non è davvero una sorpresa per noi, signorina Wong.
“Non è una sorpresa?” pensò. “Basta guardarla mentre ora posa una mano sul banco, si appoggia allo sgabello, i suoi fianchi si muovono sotto la maglia azzurra, e a ogni suo gesto io rimango sbalordito, meravigliato. Sono io a essere così fuori esercizio, oppure è veramente lei a …”
— Ma io sono arrivata più avanti di voi militari. — La linea dolce della sua bocca si incurvò in una risata ancora più dolce.
— Considerando quello che mi avevano detto sul vostro conto, signorina Wong, anche questo non mi sorprende. — “Chi è questa donna?” pensò. Si era già posto questa domanda in merito a una popolazione astratta e aveva preteso una risposta dalla propria immagine riflessa. Ora si pose di nuovo la domanda, sul conto di Rydra Wong, pensando: “Gli altri non importano più, ma lei sì. È importante. Devo saperlo.”
— Per prima cosa, generale — stava dicendo lei — Babel-17 non è un codice.
La sua mente dovette fare un balzo indietro per tornare al soggetto della discussione. — Non è un codice? Ma pensavo che i Crittografi avessero già stabilito… — Si interruppe, poiché non era certo di quello che i Crittografi avessero stabilito, e perché aveva ancora bisogno di qualche istante per potersi strappare dalla visione di quegli zigomi alti, per ritirarsi dalle caverne dei suoi occhi. Irrigidendo i muscoli del viso, costrinse la mente verso Babel-17. L’Invasione: Babel-17 poteva essere una chiave per porre fine a quel flagello che durava da vent’anni. — Volete dire che in tutto questo tempo abbiamo cercato di decifrare un cumulo di cose senza senso?
— Non è un codice — ripeté lei. — È una lingua.
Il generale aggrottò la fronte. — Bene, in qualsiasi modo lo si voglia chiamare, codice o lingua, dobbiamo ancora scoprire quello che significa. Finché non riusciremo a comprenderlo saremo sempre fuori strada. — La stanchezza e le impressioni degli ultimi mesi avevano trovato un comodo rifugio nel suo ventre e avevano dato vita ad una bestia nascosta che di tanto in tanto agitava la coda, rendendo aspre le sue parole.
Il sorriso era scomparso dalle labbra di lei, e ora entrambe le mani erano appoggiate sul banco. Il generale avrebbe voluto ritrattare le sue parole dure. Lei disse: — Non mi pare che voi siate direttamente connesso con il Dipartimento Crittografico. — La voce era piatta, calmante.
Lui scosse il capo.
— Allora lasciate che vi spieghi. Fondamentalmente, generale Forester, esistono due tipi di codici. Nel primo, delle lettere, o dei simboli che stanno al loro posto, vengono mescolate e confuse secondo uno schema prestabilito. Nel secondo, lettere, parole o gruppi di parole sono sostituiti con altre lettere, simboli o parole. Un codice può essere formato in uno di questi due modi, o con una combinazione di entrambi, ma i codici risultanti hanno sempre una cosa in comune: una volta trovata la chiave, è sufficiente applicarla al codice e ne escono delle frasi logiche. Una lingua, invece, possiede una sua logica interna, una sua grammatica, un suo modo specifico di associare pensieri a parole che abbracciano diversi livelli di significato. Non esiste mai in questo caso una chiave che si possa usare per decifrare l’esatto significato. Tutt’al più ci si può avvicinare con una buona approssimazione.
— Intendete dire che Babel-17 deve essere decifrato in un’altra lingua?
— Niente affatto. Questa è la prima cosa che ho voluto controllare. Si può compilare una lista di probabilità su vari elementi e vedere se si accordano con i moduli di altre lingue, anche se gli elementi sono disposti in un ordine sbagliato. Ma non ha funzionato. Babel-17 è essa stessa una lingua che noi non comprendiamo.
— Mi pare — il generale Forester cercò di sorridere — che stiate cercando di dirmi che poiché non si tratta di un codice, ma bensì di una lingua aliena, potremmo anche arrenderci subito. — Se doveva essere una sconfitta, saperlo da lei era quasi un sollievo.
Ma lei scosse il capo. — Temo che mi abbiate del tutto fraintesa. Lingue sconosciute sono già state decifrate, prima d’ora, senza traduzioni: la lingua degli Hittiti, per esempio, e il Lineare B. Ma per proseguire nello studio di Babel-17, dovrò sapere molto di più.
Il generale inarcò le sopracciglia. — Cos’altro vi serve sapere? Vi abbiamo consegnato tutti i campioni in nostro possesso. Non appena ne avremo altri, certo…
— Generale, io devo essere informata di tutto quello che voi sapete su Babel-17; quando lo avete scoperto per la prima volta, in quali circostanze, ogni cosa che possa darmi un indizio sul suo contenuto.
— Vi abbiamo fornito tutte le informazioni che noi…
— Voi mi avete dato dieci pagine dattiloscritte piene di monconi con il nome in codice Babel-17, e mi avete chiesto che cosa significassero. Ora, con questo materiale non posso dirvelo. Ma con qualcosa d’altro, forse potrei. È semplice.
Il generale pensò: “Se fosse così semplice, se solo fosse così semplice, noi non avremmo mai cercato il vostro aiuto, Rydra Wong.”
Lei disse:
— Se fosse così semplice, se solo fosse così semplice, voi non avreste mai cercato il mio aiuto, generale Forester.
Lui sobbalzò, per un assurdo momento convinto che lei avesse letto nella sua mente. Ma non era possibile. Oppure sì?
— Generale Forester, il vostro Dipartimento Crittografico ha almeno scoperto che si tratta di una lingua?
— Se lo hanno fatto, non ne sono ancora stato informato.
— Sono quasi certa che loro non lo sanno. Io ho cercato di analizzare le possibili strutture grammaticali. Loro lo hanno fatto?
— No.
— Generale, benché quella gente sappia tutto a proposito dei codici, non conosce quasi nulla della reale natura del linguaggio. Questo genere di specializzazione idiota è stato uno dei motivi per cui mi sono rifiutata di lavorare con loro negli ultimi sei anni.
“Chi è questa donna?” si chiese ancora il generale. L’incartamento con il suo nome gli era stato portato quella mattina da un uomo della Sicurezza, ma lui lo aveva passato al suo aiutante e solo più tardi aveva notato che era stato stampigliato con un rosso ’Approvato’. Udì se stesso dire: — Forse, se mi raccontaste qualcosa di più sul vostro conto, signorina Wong, potrei parlare più liberamente. — Si accorse di aver pronunciato quelle parole con calma misurata e con sicurezza. Era illogico, eppure… lei lo stava forse guardando con ironia?
— Che cosa volete sapere?
— Quello che già conosco si riduce a ben poca cosa: il vostro nome, e il fatto che qualche tempo fa avete lavorato per il nostro Dipartimento Crittografico. So che quando ve ne siete andata eravate molto giovane, ma che la vostra reputazione era già notevole. Per questo motivo le persone che si ricordavano di voi, a sei anni di distanza, dopo aver perso inutilmente il sonno per un mese su Babel-17, hanno concluso all’unanimità dicendo: “Mandatelo a Rydra Wong”. — Fece una pausa. — E voi mi dite di avere già raggiunto qualche risultato. Dunque, avevano ragione.
— Beviamo qualcosa — disse lei.
Il barista fece una puntata nella loro direzione e si allontanò quasi subito, lasciando sul banco due bicchierini colmi di un liquido verde e torbido. Lei bevve un sorso, osservando il generale. “I suoi occhi” pensò il generale “sembrano inclinati come due ali colte di sorpresa.”
— Non sono nata sulla Terra — disse lei. — Mio padre era ingegnere alle comunicazioni sul Centro Stellare X-11-B appena oltre Urano. Mia madre faceva l’interprete presso il Tribunale dei Mondi Esterni. Fino ai sette anni sono stata la monella più viziata di tutto il Centro Stellare. Non c’erano molti altri bambini. Ci trasferimmo su Urano-XXVII nel ’52. A dodici anni conoscevo già sette lingue terrestri e riuscivo a farmi capire in altre cinque extraterrestri. Riuscivo a imparare le lingue così come altre persone imparavano i testi delle canzoni più in voga. I miei genitori morirono durante il secondo embargo.
— Eravate su Urano durante l’embargo?
— Sapete che cosa successe?
— So che i Pianeti Esterni furono colpiti molto più duramente di quelli Interni.
— Allora non lo sapete. Comunque, sì, fu molto più duro. — Tirò un profondo sospiro, a quei ricordi che ancora la sorprendevano. — Temo che un solo bicchiere sia troppo poco per farmi parlare di queste cose. Quando uscii dall’ospedale, c’era la possibilità che avessi sofferto lesioni cerebrali.
— Lesioni cerebrali…?
— Dovreste conoscere gli effetti della denutrizione. Aggiungeteci un’epidemia di neurosciatica.
— So di quell’epidemia.
— Comunque, venni mandata sulla Terra presso una coppia di zii per essere sottoposta a neuroterapia. Solo che non ne ebbi alcun bisogno. Non so se la causa sia stata psicologica o fisiologica, ma uscii da quella situazione dotata di una memoria verbale totale. C’ero andata molto vicina anche negli anni precedenti della mia vita, e così non mi parve poi tanto strano. Ma adesso possedevo anche un controllo perfetto delle tonalità.
— Di solito questo fenomeno non si accompagna a una velocissima capacità di calcolo e a una memoria eidetica? Sono qualità fondamentali per un crittografo.
— Sono una buona matematica, ma non un calcolatore lampo. Ho riflessi veloci per sollecitazioni visive e le relazioni spaziali (sogni in technicolor e cose del genere) ma la mia memoria totale è strettamente verbale. Avevo già incominciato a scrivere, a quell’epoca. Durante l’estate accettai un incarico del governo per alcune traduzioni e incominciai a interessarmi di codici. In poco tempo mi accorsi che avevo una certa… abilità. Io non sono una buona crittografa: non ho la pazienza per lavorare e sudare sangue su una cosa scritta da qualcun altro. E inoltre sono nevrotica come l’inferno; un’altra ragione per la quale sono passata alla poesia. Ma la mia “abilità” era in un certo senso una cosa che spaventava. Quando dovevo lavorare sodo per qualche incarico che in realtà non mi interessava minimamente e avevo un paio di supervisori che non la smettevano di venirmi a respirare sul collo per controllare il mio lavoro, non so come, ma di colpo tutte le mie nozioni di crittografia e di decodificazione mi passavano velocissime dinanzi agli occhi, e per me era facilissimo leggere la pagine che mi stavano davanti e dire il loro significato. E tutto per non sentirmi poi stanca e impoverita per un lavoro che non mi piaceva.
Lanciò un’occhiata al proprio bicchiere.
— Di solito quell’abilità arrivava a un punto che io riuscivo sempre a controllare, ma ogni volta mi dava una sensazione strana. Allora avevo diciannove anni e una reputazione che mi indicava come la ragazzina che poteva spezzare ogni mistero. Immagino che fosse dovuto ai miei studi sulla struttura del linguaggio, e che per quello mi riuscisse più facile riconoscere i moduli… È la stessa cosa che mi è successa per Babel-17. Ho sentito che esisteva un certo ordine grammaticale, e che non si trattava di un accostamento di parole affidate al caso.
— E perché avete abbandonato il Dipartimento?
— Vi ho già spiegato due motivi. Il terzo è stato semplicemente dettato, una volta acquistata la padronanza della mia abilità, dal desiderio di usarla per i miei scopi personali. A diciannove anni ho lasciato l’Esercito e mi sono… be’ sposata, cominciando a scrivere sul serio. Tre anni più tardi è uscito il mio primo libro. — Alzò le spalle, mentre un sorriso leggero le distendeva i lineamenti.
— Per tutto quello che mi è successo dopo, leggete le mie poesie. È tutto lì.
— E sui mondi di cinque galassie, oggi, la gente scava fra le immagini della vostra ispirazione cercando le risposte agli enigmi della grandezza, dell’amore e dell’isolamento. — Quelle tre ultime parole spiccarono nella sua frase come tre vagabondi su un carro bestiame. Lei gli era dinanzi, splendida; qui, lontano dal suo ambiente e dalla sua uniforme, lui si sentiva disperatamente isolato. Ed era anche disperatamente inn… No!
Era impossibile e ridicolo e troppo semplice spiegare a quel modo ciò che gli pulsava dietro gli occhi e gli faceva tremare le mani. — Volete bere ancora qualcosa? — Un gesto di difesa automatico. Ma lei lo avrebbe interpretato come un atto educato e impersonale. Oppure no? Il barista venne e se ne andò.
— I mondi di cinque galassie — ripeté lei. — È tutto così strano. Ho solo ventisei anni. — I suoi occhi si fissarono su qualcosa al di là dello specchio. Non aveva bevuto che metà del suo primo bicchiere.
— A quest’età, Keats era già morto.
Lei sospirò. — Questa è un’epoca strana. Costruisce quasi di colpo i suoi eroi, giovanissimi, poi altrettanto rapidamente li lascia cadere nel nulla.
Lui annuì in silenzio, ricordando quella mezza dozzina di cantanti, attori, e anche scrittori, che negli ultimi dieci o vent’anni erano stati considerati geni per un anno, due, tre, e poi erano scomparsi. Anche la fama di quella donna era un fenomeno che durava da solo tre anni.
— Io sono parte del mio tempo — disse lei. — Mi piacerebbe riuscire a trascendere il mio tempo, ma temo che il mio tempo sia troppo intimamente connesso a ciò che io sono. — La sua mano si allontanò dal bicchiere sul ripiano di mogano. — Anche per voi militari le cose non devono essere molto diverse. — Sollevò la fronte. — Vi ho dato ciò che volevate?
Lui annuì. Era più facile mentire con un gesto che con una parola.
— Bene. Ora, generale Forester, che cos’è Babel-17?
Lui si guardò intorno alla ricerca del barista, ma un bagliore improvviso gli fece riportare gli occhi al viso di lei: il bagliore era soltanto un suo sorriso, ma con la coda dell’occhio lui l’aveva scambiata per una luce.
— Ecco — offrì lei, spingendo verso di lui il secondo bicchiere intatto. — Non me la sento di finirlo.
Il generale lo prese, bevve un sorso. — L’Invasione, signorina Wong… dev’essere una cosa collegata in qualche modo all’Invasione.
Lei si appoggiò a un gomito, ascoltando con gli occhi socchiusi.
— Tutto è cominciato con una serie di incidenti… almeno, dapprima sembravano incidenti. Ora siamo certi si trattasse di sabotaggio. Si sono ripetuti regolarmente in tutto il territorio dell’Alleanza dal dicembre ’68. Alcuni a bordo di navi da guerra, altri nei cantieri della Marina Spaziale, e hanno sempre provocato la perdita di materiale di primaria importanza. Per due volte, esplosioni hanno causato la morte di diversi alti ufficiali. In altre occasioni, invece, questi “incidenti” hanno avuto luogo in impianti industriali che producevano materiale bellico essenziale.
— Ma qual è il punto di collegamento fra tutti questi “incidenti”, al di fuori del fatto che avevano tutti a che fare con la guerra? Con la nostra attuale economia, è difficile trovare una sola industria che non sia connessa in qualche modo alla guerra.
— La cosa che li collega, signorina Wong, è Babel-17.
Lui la osservò mentre finiva il suo bicchiere e lo deponeva precisamente sul circolo umido sul banco.
— Appena prima, durante, e subito dopo ogni incidente, l’area colpita viene letteralmente affollata di messaggi radio che vanno e vengono da sorgenti non identificate. Parecchi messaggi sono su una lunghezza d’onda vicina ai duecento metri, ma vi sono anche emissioni improvvise attraverso i canali iperstatici che coprono distanze di alcuni anni luce. Abbiamo trascritto i testi delle trasmissioni durante gli ultimi tre “incidenti” e abbiamo dato loro il nome codice Babel-17. Questo è tutto. C’è qualcosa di utile in quello che ho detto?
— Sì. Esiste una buona probabilità che queste trasmissioni siano le istruzioni per i sabotaggi da parte di qualcuno che dirige gli “incidenti”…
— … Ma nessuno è stato capace di cavarci nulla! — Ormai era al limite dell’esasperazione. Non trasmettono altro all’infuori di quell’infernale balbettio a velocità doppia del normale! Alla fine qualcuno ha notato certe ripetizioni negli schemi che potevano suggerire un codice. I crittografi hanno pensato che fosse una buona traccia, ma in un mese non sono riusciti a capirci nulla. E hanno deciso di chiamare voi.
Parlando, il generale l’aveva osservata mentre lei rifletteva. Ora, Rydra sollevò gli occhi. — Generale Forester, vorrei esaminare le registrazioni originali di quei messaggi radio, e mi servirebbe anche un resoconto dettagliato, secondo per secondo se è disponibile, degli incidenti sincronizzati con le registrazioni.
— Non so se…
— Se non avete nulla di simile, cercate di ottenerne uno durante il prossimo “incidente”. Se quei garbugli radiofonici sono conversazioni, devo essere in grado di poter capire di cosa parlano. Forse non ve ne siete accorto, ma nella copia che i crittografi mi hanno inviato non c’è nessuna distinzione fra le voci. Cioè, io mi sono ridotta a lavorare sulla trascrizione di qualcosa che è completamente privo di punteggiatura e che non possiede neppure una pausa fra le varie parole.
— Posso farvi ottenere ciò che volete, all’infuori delle registrazioni originali…
— Voglio proprio quelle. Devo farne una trascrizione accurata, usando il mio equipaggiamento personale.
— Ve ne farò preparare una nuova, in base alle vostre specificazioni.
Lei scosse il capo. — Devo farlo io stessa, o non posso prometterle nulla. Esiste il problema delle distinzioni fonemiche e omofoniche. I vostri esperti non si erano neppure accorti che si trattava di una lingua, e non è certo loro venuto in mente di…
Lui la interruppe. — Quali distinzioni?
— Conoscete il modo in cui certi orientali confondono i suoni di R e L quando parlano una lingua occidentale, non è vero? Questo accade perché in molte lingue orientali R e L sono omofoniche, cioè considerate come uno stesso suono, e perfino scritte e sentite nello stesso modo… proprio come succede in inglese con il gruppo th all’inizio di they e di theater.
— E quale differenza di suono vi sarebbe fra queste due parole?
— Fate la prova. Pronunciatele e ascoltate. Una è sonora e l’altra sorda. Sono distinte come V e F, ma in inglese sono omofoniche e si è abituati a sentirle come se fossero lo stesso fonema.
— Oh!
— Ora capite il problema che si pone a uno “straniero” che debba trascrivere una lingua che lui non sa parlare; potrebbe fare troppe distinzioni fonetiche, o troppo poche.
— Voi come contate di procedere?
— Con le mie conoscenze dei sistemi fonetici di molte altre lingue e con l’intuito.
— Di nuovo la vostra “abilita”?
Lei sorrise. — Immagino di sì.
Poi sembrò restare in attesa di una sua approvazione. Ma cosa avrebbe potuto negarle lui? Per un attimo si era lasciato distrarre dalle sottigliezze della sua voce.
— Certo, signorina Wong — disse. — Siete la nostra esperta. Venite domani al Dipartimento e avrete libero accesso a tutto ciò che vi serve.
— Grazie, generale Forester. Vi porterò anche il mio rapporto ufficiale.
Lui rimase immobile nel fascio statico del suo sorriso. “Ora devo andare” pensò disperato. “Oh, devo riuscire a dirle ancora qualcosa.” — D’accordo, signorina Wong. A domani, allora. — “Ancora qualcosa, qualsiasi cosa…”
Strappò a fatica il suo corpo dal banco (“Devo voltarle le spalle”) senza riuscire a dire altro, neppure grazie, arrivederci, ti amo. Andò verso la porta, mentre i suoi pensieri si acquietavano. “Chi è questa donna?” Oh, le cose che avrebbe dovuto dirle… “sono stato brusco, militaresco, efficiente. Ma quanti altri pensieri e parole avrei voluto donarle.” La porta si aprì, e la sera sfiorò i suoi occhi con lunghe dita blu.
“Dio mio” pensò, mentre l’aria fredda gli colpiva il viso “tutto questo mi ribolliva dentro e lei non ne sa nulla! Non le ho detto nulla!” Da qualche parte, nel profondo, anche le parole nulla, sei ancora salvo. Ma più forte, in superficie, la vergogna per il proprio silenzio. Non le aveva detto assolutamente nulla…
Rydra si alzò, le mani sull’orlo del banco, fissando lo specchio. Il barista si avvicinò per prendere i bicchieri vuoti. Mentre allungava le mani per prenderli, si accigliò bruscamente.
— Signorina Wong?
Gli occhi di lei erano fissi.
— Signorina Wong, non vi…
Le nocche delle sue mani erano bianche, e sotto gli occhi del barista il pallore risalì lungo le mani facendole sembrare di cera tremolante.
— C’è qualcosa che non va signorina Wong?
Lei voltò di scatto il viso nella sua direzione. — Te ne sei accorto? — La sua voce era un sussurro rauco, duro, sarcastico, spossato. Si allontanò dal banco e andò verso la porta, si fermò qualche istante a tossire, poi corse fuori.
— Mocky, aiutami!
— Rydra? — Il dottor Markus T’mwarba sollevò di scatto la testa dal cuscino. Nell’oscurità, il volto di lei spiccava al centro del rettangolo luminoso sopra il letto. — Dove sei?
— Qui sotto, Mocky. Ti prego, devo parlarti.
Il suo viso agitato scivolava da una parte all’altra dello schermo, cercando di evitare il suo sguardo. Lui strizzò gli occhi a quel bagliore, poi li riaprì lentamente. — Vieni di sopra.
Il viso di Rydra scomparve.
Lui annaspò con una mano verso il pannello di controllo e una soffice luce invase la sontuosa camera da letto. Respinse la coperta dorata, appoggiò i piedi sul morbido tappeto di pelliccia e raccolse una tunica di seta nera dalla colonna di bronzo cesellato. Se la gettò sulla schiena, e il tessuto biologico si distese lentamente sulle spalle modellandosi intorno al torace. Sfiorò di nuovo il pannello al centro della grande cornice rococò e sulla parete si aprì uno sportello di alluminio. Una caffettiera fumante e una caraffa di liquore scivolarono verso di lui.
Un altro gesto fece gonfiare le poltrone sul pavimento. E mentre il dottor T’mwarba si girava verso il cubicolo dell’ingresso, questo mandò un leggero scricchiolio e due ali di mica scivolarono nelle pareti, lasciando entrare Rydra con il fiato mozzo.
— Caffè? — Le chiese lui, e spinse la caffettiera che, sostenuta dal campo di forza, veleggiò verso di lei.
— Mocky, lui… io…?
— Bevi il tuo caffè.
Lei ne riempì una tazza, ma la fermò a mezza strada dalle labbra. — Niente sedativi?
— Crème de cacao o Crème de café? — Lui le mostrò due piccoli bicchieri. — A meno che tu non ritenga anche l’alcol un sedativo. Oh, deve essere rimasto ancora un po’ di salsiccia e fagioli della cena. Ho avuto gente.
Lei scosse il capo. — Solo cacao.
Il bicchiere seguì la caffettiera lungo il fascio. — Ho avuto una giornata veramente spaventosa. — Unì le mani. — Non ho potuto lavorare per tutto il pomeriggio, a cena avevo ospiti che volevano discutere a tutti i costi e che dopo essersene andati mi hanno sommerso di chiamate. Mi ero infilato a letto dieci minuti fa. — Le sorrise. — Com’è andata la tua serata?
— Mocky, è… è stato terribile.
Il dottor T’mwarba sorseggiò il suo liquore. — Bene. Altrimenti non ti avrei perdonato di avermi svegliato.
Lei si sforzò di sorridere. — P…posso sempre e…contare sulla tua c…comprensione, Mocky.
— Tu puoi contare su di me per il buon senso e per qualche persuasivo consiglio psichiatrico. Comprensione? Mi dispiace, ma non dopo le undici e mezzo di sera. Ora siediti. Cosa è successo? — Un movimento della mano fece spuntare dietro a Rydra una comoda poltrona. L’orlo le sfiorò le gambe e lei sedette. — Ora smettila di balbettare. Hai superato per sempre questo stato quando avevi quindici anni. — La sua voce era gentile e sicura.
Rydra mandò giù un altro sorso di caffè. — Il codice, ricordi il codice sul quale stavo lavorando?
Il dottor T’mwarba si abbassò verso una larga amaca di pelle e si spinse indietro i capelli bianchi che gli cadevano sulla fronte, ancora arruffati dal sonno. “Ricordo che ti era stato chiesto di lavorare su qualcosa per conto del governo. E che tu non ne sembravi molto soddisfatta.”
— Appunto. E… bene, non è stato il codice… che fra l’altro è una lingua… ma quello che è successo questa sera. Io… io ho parlato con il generale Forester, è successo… voglio dire, è successo ancora, e io lo sapevo!
— Sapevi che cosa?
— Come l’ultima volta, io sapevo quello che lui stava pensando!
— Leggevi nella sua mente?
— No. No, era come l’ultima volta! Io sapevo, da quello che lui stava facendo, quello che lui era sul punto di dire…
— Hai già tentato di spiegarmelo un’altra volta, ma ancora non capisco cosa sia successo, a meno che tu non stia parlando di una specie di telepatia.
Lei scrollò con furia il capo.
Il dottor T’mwarba fissò attentamente la punta delle sue dita e si spinse indietro con le spalle. Improvvisamente Rydra cominciò a parlare con voce piatta:
“Ora incomincio ad avere una chiara idea di quello che stai dicendo, mia cara, ma devi cercare di spiegarlo ancora con le tue stesse parole. Era questo che stavi per dire, non è vero, Mocky?”
T’mwarba inarcò le bianche estremità delle sue sopracciglia.
— Sì. Era proprio questo. E dici di non aver letto nella mia mente? Me lo hai dimostrato almeno una dozzina di volte.
— Io so quello che tu stai per dire; e tu non sai quello che io sono sul punto di dire. Non è giusto! — Fu quasi sul punto di alzarsi dalla poltrona.
Poi, insieme, dissero: — È per questo che sei un’ottima poetessa.
E solo lei proseguì: — Lo so, Mocky. Un poeta estrae dalla propria testa le cose che danno vita alle sue poesie e le presenta alla gente nella speranza che tutti le possano capire. Ma non è questo che io faccio negli ultimi dieci anni. Sai quello che faccio? Io ascolto le persone che mi circondano, mi immergo nei loro mezzi pensieri e nelle sensazioni mutilate che non riescono ad esprimere. Questo mi ferisce profondamente. Così vado a casa e lucido queste sensazioni, le levigo, le rendo raffinate con l’aggiunta di un metro ritmico e le faccio scintillare finché non mi feriscono più. Questa è la mia poesia. Io conosco ciò che la gente vuole dire, e lo dico al posto loro.
— La voce della tua epoca — mormorò T’mwarba.
Lei disse qualcosa di irripetibile e abbassò la testa. Quando la rialzò, c’erano delle lacrime sulle sue palpebre inferiori. — Quello che io voglio dire, quello che io vorrei esprimere, è… — Di nuovo scosse lentamente il capo. — Non riesco a dirlo.
— Se vuoi continuare a essere una poetessa, dovrai farlo.
Lei annuì. — Mocky, fino all’anno scorso io non sapevo neppure di scrivere le idee di qualcùn altro. Pensavo che fossero le mie.
— Ogni giovane scrittore che valga qualcosa deve passarci attraverso. È così che imparerai a servirti della tua arte.
— Ma adesso io ho qualcosa da dire che è soltanto mia. Non sono tutte le solite cose che pensano gli altri, abbellite ed esposte in maniera originale. E non sono soltanto violente contraddizioni di quello che loro pensano e dicono, ma sono cose nuove, e io sono spaventata a morte.
— Tutti i giovani scrittori che incominciano a maturare provano queste sensazioni.
— È facile ripeterlo, Mocky. Ma per me è difficile dirlo.
— Bene, questo significa che lo stai imparando proprio ora. Perché non mi racconti esattamente come funziona questo tuo… processo di conoscenza?
Lei rimase silenziosa per una decina di secondi. — Va bene. Tenterò ancora. Appena prima di lasciare il bar, stasera, stavo fissando lo specchio e il barista che mi era venuto vicino mi ha chiesto se c’era qualcosa che non andava.
— Aveva sentito che eri turbata?
— Non aveva “sentito” un accidente. Stava guardando le mie mani. Le avevo appoggiate all’orlo del banco e mi stavano diventando bianche per la tensione. Non c’era bisogno che fosse un genio per capire che qualcosa andava storto.
— I baristi sono molto sensibili a questo tipo di segnali inconsci. Fa parte del loro mestiere. — Finì lentamente il suo caffè. — Così le tue dita stavano diventando bianche? Che cosa ti aveva detto il generale, oppure cosa non ti aveva detto, dopo essere stato sul punto di farlo?
Sulla guancia di Rydra un muscolo sussultò due volte, il dottor T’mwarba si chiese se quel gesto fosse dovuto semplicemente al suo nervosismo.
— È un uomo vivace, un po’ duro, ma piuttosto efficiente — spiegò lei. — Probabilmente non è sposato, e ha alle spalle una carriera militare che giustifica la sua insicurezza in certi momenti. Dev’essere sui cinquanta. È entrato nel bar dove avevamo appuntamento e ha socchiuso per un attimo gli occhi nel vedermi; teneva le braccia rigide lungo i fianchi, ma ho visto che le sue dita si torcevano mentre rallentava il passo per avvicinarsi a me. Poi gli ultimi tre passi li ha fatti quasi di corsa, e mi ha stretto la mano come se temesse che la mia potesse spezzarsi.
Il sorriso di T’mwarba si tramutò in una risata. — Si è innamorato di te!
Lei annuì.
— Ma perché ciò dovrebbe sconvolgerti? Penso che dovresti invece sentirtene lusingata.
— Oh, lo ero! — Rydra si sporse in avanti. — Io ero lusingata. E potevo anche seguire il corso dei suoi pensieri. Una volta, mentre lui stava tentando di concentrarsi sul codice, Babel-17, gli ho anche detto quello che lui stava pensando, solo per lasciargli capire che ero così vicina a lui. Ed è stato allora che mi sono accorta che lui prendeva in considerazione la possibilità che io leggessi nella sua mente.
— Aspetta un momento. Questa è la parte che non capisco. Come facevi a sapere esattamente quello che lui pensava?
Rydra appoggiò il viso al palmo di una mano. — Me lo ha confermato lui. Io gli ho detto qualcosa a proposito delle informazioni che mi servivano per decifrare la lingua, e lui non voleva darmele. Ho insistito che senza di esse non avrei potuto proseguire il mio lavoro, e che il problema era semplice. Lui allora ha sollevato il capo per una frazione di secondo… per evitare di scuoterlo negativamente. Se avesse scosso il capo e contemporaneamente stretto le labbra, cosa pensi che avrebbe voluto dire?
Il dottor T’mwarba sospirò. — Che non era così semplice come tu pensavi?
— Esatto. Ma lui ha fatto un altro gesto, senza muovere le labbra. Cosa significava quello?
T’mwarba scrollò il capo.
— Ha evitato quel gesto perché ha collegato il fatto che non si trattava per nulla di una faccenda così semplice alla mia presenza in quel posto. Quindi, per reazione, ha sollevato il capo.
— Qualcosa come: Se fosse così semplice, non avremmo bisogno di voi — suggerì alla fine T’mwarba.
— Perfetto. Ora, mentre lui alzava la testa, c’è stata una brevissima esitazione a mezza strada. Capisci che cosa significava?
— No.
— Se fosse così semplice… ecco la pausa… se solo fosse così semplice, noi non avremmo mai cercato il vostro aiuto. E io gliel’ho detto; poi lui ha irrigidito la mascella…
— Per la sorpresa?
— … Sì. È stato allora che si è chiesto per un secondo se io non avessi letto nella sua mente.
Il dottor T’mwarba si agitò inquieto sull’amaca. — È troppo esatto, Rydra. Tu mi stai descrivendo un saggio di lettura muscolare, tecnica che può benissimo essere accurata e rivelatrice, specialmente se si conosce l’area logica sulla quale sono puntati i pensieri del soggetto. Ma è ancora troppo esatto. Cerca di ritornare indietro al motivo che ti ha sconvolta. Il tuo pudore è stato offeso in qualche modo dalle attenzioni di questo… rude spaziale?
Lei si distese sulla poltrona senza mostrare nessuna traccia di modestia oltraggiata. Il dottor T’mwarba si mordicchiò nervosamente un labbro e si chiese se in quel momento lei lo capisse.
— Non sono più una bambina — mormorò Rydra. — E comunque, lui non stava pensando a nulla di male. Te l’ho già detto, mi sentivo lusingata dai suoi pensieri. E quando gli ho fatto quello scherzetto, cercavo solo di fargli capire che gli ero vicina. Pensavo davvero che lui fosse affascinante. E se fosse stato in grado di vedere chiaro in me come facevo io in lui, si sarebbe accorto che le sue attenzioni non mi spiacevano affatto. Solo quando se ne è andato…
T’mwarba sentì la voce di Rydra farsi più dura.
— … quando se ne è andato, il suo ultimo pensiero è stato: “Lei non ne sa nulla. Non le ho detto nulla”.
I suoi occhi si incupirono… no, le palpebre si erano socchiuse e i suoi occhi sembravano più neri del solito. Tmwarba lo aveva già visto succedere migliaia di volte, da quel giorno in cui gli avevano condotto una magra bambina artistica di dodici anni che doveva essere sottoposta a neuroterapia. A quella aveva fatto seguito una psicoterapia, e in seguito era nata l’amicizia. La meticolosità di osservazione di Rydra si era puntata su di lui, prima che sugli altri, e quella era stata la prima volta che lui era riuscito a comprendere la meccanica del fenomeno. Solo quando la terapia era stata ritenuta chiusa ufficialmente la sua sorprendente capacità aveva avuto campo libero per mettersi alla prova, e solo allora lui aveva potuto studiarla più da vicino. Cosa significava quell’incupirsi dello sguardo se non un cambiamento? Lui sapeva perfettamente di presentare innumerevoli punti nella sua personalità che lei sapeva leggere come un microscopio. Ricco com’era, dedito a una certa vita mondana, aveva conosciuto parecchie persone non certo inferiori a lei come reputazione. E quella reputazione non gli aveva mai suscitato alcun timore. Ma spesso lei ci riusciva.
— Pensava che io non avessi capito. Pensava di non avermi detto nulla. E io mi sentivo furiosa. Ero ferita. Tutte le incomprensioni che legano il mondo e tengono separata ogni persona dalle altre si erano radunate intorno a me e si agitavano come serpenti, aspettavano che io le districassi, le spiegassi, e io non potevo. Non conoscevo le parole adatte, la grammatica, la sintassi. E…
Qualcosa di strano stava succedendo sul suo viso orientale dagli occhi obliqui, ed egli si sforzò di afferrare quella cosa. — Sì?
— … Babel-17.
— Quella lingua?
— Sì. Conosci quella che io chiamo la mia “abilità”?
— Quando interpreti subito il senso di una lingua straniera?
— Be’, il generale Forester mi ha detto che il materiale in mio possesso non costituisce un monologo, ma un dialogo, cosa che prima non sapevo. Questo coincideva con certe sensazioni che avevo avuto. Mi pareva quasi di poter distinguere dove le voci cambiavano, e allora…
— Ne hai compreso il significato?
— Molto più che non questo pomeriggio. Ma c’è qualcosa ih questa lingua che spaventa molto di più me del generale Forester.
Lei fece di sì con la testa.
— Cosa?
Il muscolo sulla guancia di Rydra si agitò di nuovo. — Per prima cosa, io credo di sapere dove avverrà il prossimo incidente.
— Incidente?
— Sì. Il prossimo sabotaggio che stanno preparando gli Invasori, sempre che si tratti davvero di loro, cosa di cui non mi sento molto sicura. Ma la lingua stessa… è… strana.
— In che modo?
— È piccola — cercò di spiegare lei. — Compatta. Unita… questo non significa nulla per te? In una lingua, voglio dire?
— Concisione? — chiese il dottor T’mwarba. — Ho sempre pensato che fosse un’ottima qualità, per una lingua parlata.
— Sì — e la sibilante affermazione si trasformò in un respiro affrettato. — Mocky, ho paura!
— E perché?
— Perché sono sul punto di tentare una cosa, e non so se ne sarò capace.
— Se il tuo tentativo è meritevole, non dovresti avere paura. Di che cosa si tratta?
— L’ho deciso quando mi trovavo ancora nel bar, ma ho pensato che prima avrei dovuto parlarne con qualcuno. E questo voleva dire che l’unica persona alla quale potevo rivolgermi eri tu.
— Avanti.
— Voglio risolvere da sola questa faccenda di Babel-17.
T’mwarba inclinò il capo, senza dire nulla.
— Devo farlo, per trovare chi parla questa lingua, e sapere da dove proviene, e che cosa sta cercando di dire.
Lui spostò la sua testa dall’altra parte.
— Per quale motivo? Be’, molti libri di testo dicono che una lingua è un meccanismo per l’espressione dei pensieri. Ma la lingua stessa è pensiero. Il pensiero costituisce l’informazione e la forma che essa si sceglie. La forma concretizza una lingua, e la forma di Babel-17 è… sorprendente.
— Che cosa ti sorprende in questa lingua?
— Mocky, quando si impara un’altra lingua, si impara il modo in cui un altro popolo vede il proprio mondo, l’universo intero.
Lui annuì.
— E quando io guardo questa lingua, incomincio a vedere… troppo.
— Mi sembra molto poetico.
Rydra scoppiò a ridere. — Questo lo dici sempre per riportarmi con i piedi sulla terra.
— Il che non devo fare troppo spesso. I buoni poeti tendono a essere pratici, e aborrono il misticismo. — T’mwarba fece una pausa. — Va bene. Ma ancora non capisco come conti di risolvere il mistero di Babel-17.
— Vuoi davvero saperlo? — Le mani di Rydra scivolarono sulle ginocchia. — Acquisterò un’astronave, metterò insieme un equipaggio e mi recherò sulla scena del prossimo incidente.
— Questo va bene, hai la licenza per la guida interstellare. Ma puoi affrontare la spesa?
— Il governo mi sovvenzionerà.
— Oh, perfetto. Ma perché vuoi farlo?
— Conosco almeno una mezza dozzina di lingue degli Invasori. Babel-17 non ne fa minimamente parte. Non è neppure una delle lingue dell’Alleanza. Voglio trovare chi la parla… soprattutto perché voglio trovare chi, o che cosa, nell’universo pensa secondo questi schemi. Pensi che ci riuscirò, Mocky?
— Bevi un’altra tazza di caffè — le consigliò lui, e risospinse verso di lei la caffettiera. — Questa è una buona domanda. Ci sono molti fattori da considerare. Tu non sei certo la persona più stabile di questo mondo, ma possiedi quello speciale tipo di psicologia adatto al controllo di una ciurma spaziale. I tuoi documenti, se ben ricordo, sono stati il risultato di quel tuo… ehm, bizzarro matrimonio, un paio di anni fa. Ma finora ti sono serviti soltanto con equipaggi automatici. Per un viaggio di questo tipo, non dovresti ricorrere a personale dei Trasporti?
Lei annuì. — Sia mio padre sia mia madre appartenevano ai Trasporti. Lo sono stata anch’io fino all’embargo.
— È vero. Supponi che io ti dica: “Sì, penso che ce la farai”. Cosa faresti?
— Ti risponderei “grazie”, e partirei domani.
— E ora supponi che io ti dica che vorrei una settimana di tempo per esaminare i tuoi psico-indici con un microscopio, mentre tu te ne staresti buona buona nel mio appartamento a riposare, senza avere contatti con nessuno: cosa faresti?
— Ti direi “grazie”, e partirei domani.
T’mwarba sogghignò. — Allora perché mi fai perdere tempo?
— Perché… — Rydra alzò le spalle. — Perché domani sarò occupata e non avrò il tempo per salutarti.
— Oh! — La smorfia si sciolse subito in un sorriso.
E T’mwarba ricordò per l’ennesima volta l’episodio della gracula indiana.
Rydra, tredicenne, magra e sgraziata, era entrata di corsa attraverso la tripla porta della serra, con quella nuova cosa chiamata sorriso che ora aveva imparato a far nascere sulle labbra. E lui si sentiva ogni volta paternamente orgoglioso di quel gracile corpicino accanto al suo, che gli era stato affidato solo sei mesi prima e che ora ritornava a essere quello di una ragazzina allegra. Una ragazzina dai capelli ancora corti e dagli scoppi di ira immotivati, ma piena di curiosità e di carezze per i due porcellini d’India che aveva soprannominato Zolletta e Zollettino. Il sole penetrava nella sala dal soffitto trasparente, e attraverso le larghe pareti di vetro si poteva ammirare il giardino. Lei gli aveva chiesto:
— Quello che uccello è, Mocky?
E lui, sorridendo alla bambina chiazzata di sole nei suoi pantaloncini bianchi e nell’inutile maglietta, aveva risposto: — È una gracula. Prova a dirle ciao. Ti risponderà.
Il grande occhio nero era morto come un chicco d’uva, con appena una punta di spillo di luce nell’angolo della cornea. Le piume scintillavano al sole e il becco aguzzo come un ago riposava semiaperto sulla lingua. Rydra aveva inclinato il capo per fissare l’uccello negli occhi, e aveva sussurrato: — Ciao?
Il dottor T’mwarba lo aveva addestrato per due settimane, nutrendolo con vermi freschi, per fare una sorpresa a Rydra. L’uccello si era chinato a fissarla dalla sua spalla sinistra e aveva gracchiato: — Ciao, Rydra, fuori è una bella giornata e io sono felice.
Un urlo.
E del tutto inaspettato.
Lui aveva pensato che la bambina si sarebbe messa a ridere. Ma il viso di Rydra era sconvolto, e la bambina agitava le braccia contro qualcosa che non c’era, vacillando all’indietro finché non era caduta. Lui era subito corso a sollevare la piccola e isterica figura dal pavimento, mentre la voce gracchiante dell’uccello sovrastava ancora i suoi lamenti che si spegnevano: — fuori è una bella giornata e io sono felice.
T’mwarba aveva già assistito prima ad acuti attacchi di quel genere, ma questo lo aveva scosso come nessun altro. Quando lei era stata in grado di parlare, più tardi, aveva detto solamente, fra le labbra ancora bianche: — Mi ha fatto paura!
E la cosa sarebbe finita lì, se tre giorni dopo quel dannato uccello non si fosse liberato per andare a impigliarsi nell’antenna a rete che lui e Rydra avevano installato insieme nel giardino per consentire alla bambina di ascoltare le comunicazioni iperstatiche delle astronavi da trasporto in quel settore della galassia. L’uccello si era impigliato con un’ala e una zampa nelle maglie, e dibattendosi aveva cominciato a urtare contro un cavo elettrico scoperto, facendo schizzare scintille visibili anche alla luce del giorno. — Dobbiamo tirarlo fuori! — aveva gridato Rydra. Teneva le dita premute contro la bocca e i suoi occhi non lasciavano per un solo istante la gracula, e lui l’aveva vista impallidire sotto l’abbronzatura. — Ora me ne occupo io, tesoro — le aveva detto lui. — Tu cerca di non pensarci.
— Ma se colpisce ancora un paio di volte quel filo, morirà!
Lui l’aveva sentita appena, perché era corso dentro a cercare una scala. Al suo ritorno, si era immobilizzato. Rydra si era arrampicata su per l’alberello di catalpa fino all’altezza del filo. Quindici secondi più tardi lui la osservava sporgersi di lato, ritirare la mano, tentare di nuovo di raggiungere le nere penne scarruffate. Lui sapeva maledettamente bene che Rydra non aveva nessuna paura dei cavi scoperti; in pratica li aveva installati da sola. Un’altra pioggia di scintille. Allora Rydra si sporse con maggiore decisione. Un minuto dopo stava correndo attraverso il cortile, stringendo l’uccello arruffato all’estremità di un braccino teso. Il suo viso sembrava essere stato immerso in un bagno di calce.
— Prendilo tu, Mocky — aveva sussurrato con un filo di voce da dietro le labbra tremanti — prima che dica qualcosa e io mi senta male.
Così anche adesso, a tredici anni di distanza, qualcos’altro le stava parlando, e lei diceva di essere spaventata. Lui sapeva fino a quale punto potesse giungere la sua paura, ma sapeva anche con quanto coraggio lei fosse in grado di affrontarla.
Le disse: — Arrivederci. Sono contento che tu mi abbia svegliato. Mi sarei infuriato come un galletto colto di sorpresa da un acquazzone se tu non fossi venuta.
— Tocca a me ringraziarti, Mocky — disse lei. — Ho ancora molta paura.
Danil D. Appleby, che raramente pensando a se stesso usava il proprio nome (era un funzionario della Dogana che si prendeva molto sul serio), osservò l’ordine attraverso le sue lenti dalla montatura metallica e si passò una mano sui capelli rossi tagliati a spazzola. — Be’, dice che potete farlo, se lo volete.
— E…?
— Ed è firmato dal generale Forester.
— Quindi mi aspetto che voi collaboriate.
— Ma io devo approvare…
— Allora seguitemi e approvate sul posto. Non ho tempo per inviare un rapporto e aspettare che venga esaminato da una mezza dozzina di persone.
— Ma non ci sono altri modi…
— Sì, ci sono. Venite con me.
— Ma, signorina Wong, io di solito non cammino per la città dei Trasporti di notte.
— A me piace. Avete paura?
— Non esattamente. Ma…
— Devo ottenere un’astronave e un equipaggio per domani mattina. E questa è la firma del generale Forester. Va bene?
— Immagino di sì.
— Allora venite. Devo farvi approvare la mia ciurma. — Così, mentre Rydra insisteva e il funzionario protestava, lasciarono insieme il palazzo di bronzo e vetro.
Attesero sei minuti alla stazione della monorotaia; quando ne discesero, le strade erano diventate più strette e il cielo era affollato da un incessante flusso e riflusso di navi da trasporto. Magazzini e cantieri di riparazione, negozi e oscure pensioni dalle minuscole camerette. Sboccarono in una via più larga, rumoreggiante di traffico, di scaricatori e di spaziali. Sorpassarono le sgargianti insegne al neon dei locali più costosi e dei ristoranti che offrivano le specialità di molti mondi, e quelle più squallide di alcuni bar e di miseri bordelli. Nella folla, il funzionario della Dogana doveva allungare il passo e farsi largo a spintoni per non lasciarsi distanziare da Rydra che procedeva spedita.
— Ma dove avete intenzione di trovare…?
— Il mio pilota? È la prima cosa che intendo cercare. — Si arrestò a un angolo e infilò le mani nelle tasche dei pantaloni di pelle, guardandosi intorno.
— Avete già in mente qualcuno in particolare?
— Sto pensando a diverse persone. Da questa parte. — Girarono in una strada lunga e stretta, ancora più affollata e scintillante di luci della precedente.
— Ma dove stiamo andando? Conoscete questa sezione della città?
Rydra scoppiò a ridere e, prendendolo sottobraccio, come un’esperta ballerina che conducesse quella danza fece voltare l’ometto verso una scala di ferro.
— Qui dentro?
— Non siete mai stato prima in questo locale? — gli chiese lei, con una specie di ansia innocente che per un attimo diede al funzionario l’impressione di essere la sua scorta.
Scosse il capo.
Dallo scantinato del caffè sbucò… un uomo, dal viso color ebano, e con gemme rosse e verdi sistemate sulla pelle di quasi tutto il corpo, sul petto, sul viso e sulle braccia. Due membrane rugiadose, pure ingioiellate, pendevano dalle sue braccia e si agitarono come due ali sottili quando lui li raggiunse di corsa sui gradini metallici.
Rydra gli strinse una spalla. — Salve, Lome!
— Capitano Wong! — La voce era alta, squillante, e i denti bianchissimi appuntiti come aghi. Le sue orecchie aguzze si spinsero in avanti. — Che cosa fate qui?
— Lome, Ottone combatte stanotte?
— Volete vederlo? Se la deve sbrigare col Drago d’Argento, ma sarà un incontro equilibrato. Ehi, capitano, vi ho cercata per tutto Deneb. Ho anche comprato il vostro libro: non ho potuto leggere molto, ma l’ho comprato. E non vi ho trovata. Dove siete stata in questi sei mesi?
— A terra, insegnavo all’Università. Ma ora torno a viaggiare.
— E volete Ottone come pilota? Passereste per la via di Specelli?
— Esatto.
Lome le pose un braccio nero sulle spalle e la sua ala scintillante avvolse Rydra.
— Perché non passate per Cesare e non prendete Lome come pilota? Conoscete già Cesare… — Fece una smorfia per scusarsi e scosse il capo. — Nessuno lo conosce meglio di voi.
— Quando lo farò non mancherai. Ma per ora è Specelli.
— Allora con Ottone siete in buone mani. Avete già lavorato prima con lui?
— Ci siamo ubriacati insieme, quando abbiamo passato una settimana in quarantena su uno dei planetoidi di Cygni. Mi è sembrato un tipo che sapeva quello che diceva.
— Parlare, parlare, parlare — la derise bonario Lome. — Già, ora vi ricordo bene, il capitano che parla sempre. Andate pure a vedere lottare quel figlio d’un cane; vi accorgerete di quello che è capace di fare.
— È quello che intendo fare, annuì Rydra. Poi si girò verso il doganiere, che si schiacciò contro la ringhiera di ferro. “Dio” pensò lui “vuole presentarmi!”
Ma lei soffocò un mezzo sorriso e tornò a voltarsi.
— Ci vedremo, Lome, quando sarò di ritorno.
— Già, già, lo avete detto un paio di volte, ormai. Ma in sei mesi non vi ho vista una sola volta. — Scoppiò a ridere. — Ma mi piacete, signora capitano. Portatemi alla nebulosa di Cesare, un giorno o l’altro, e vi mostrerò qualcosa.
— Quando andrò, tu verrai con me, Lome.
Un sogghigno aguzzo. — Devo andarmene, eh? Allora arrivederci, signora capitano… — si inchinò, portando una mano alla fronte per salutarla. — Capitano Wong. — E se ne andò.
— Non avreste dovuto lasciarvi impaurire — disse Rydra al funzionario.
— Ma era… — Mentre cercava una parola adatta, lui si chiese: “Come fa a saperlo?” — Da quale dei cinque inferni è sbucato quell’uomo?
— È un terrestre. Anche se credo sia nato a mezza strada fra Arcturus e un pianeta del Centauro. E se lui dice la verità, sua madre doveva essere una Lumaca. Ma Lome racconta molte storie.
— Volete dire che tutta quella chincaglieria è dovuta a un intervento di chirurgia cosmetica?
— Già. — Rydra cominciò a scendere gli scalini verso il seminterrato.
— Ma perché diavolo si conciano a quel modo? Sembrano usciti da un libro di magia nera. È per questo che la gente normale non vuole avere nulla a che fare con loro.
— I marinai sono abituati ai tatuaggi. E poi, Lome non ha altro da fare. Dubito che abbia avuto un ingaggio da pilota negli ultimi quarant’anni.
— Non è un buon pilota? Ma allora, tutto quel parlare della nebulosa di Cesare…?
— Oh, sono certa che lui la conosce bene. Ma ormai dovrebbe avere centoventi anni, e dopo gli ottanta i riflessi sono troppo lenti; è la fine della carriera per un pilota. Lome si accontenta di fare la spola fra un porto e l’altro, è informato di tutto quello che succede a ognuno di noi e certi suoi pettegolezzi sono interessanti.
Entrarono nel caffè e si trovarono su una rampa metallica che sovrastava le teste dei clienti, al banco o ai tavoli, da un’altezza di nove metri. Nel centro della sala sembrava librarsi una enorme sfera di quindici metri di diametro, fumosa e indefinita sotto la luce dei riflettori. Rydra occhieggiò per un istante la sfera e lanciò uno sguardo al doganiere.
— I giochi non sono ancora cominciati.
— Volete dire quei combattimenti?
— Esatto.
— Ma è illegale!
— La legge non è mai stata approvata. Dopo averla discussa, hanno preferito rimandare la votazione.
— Oh!
Mentre scendevano fra la folla gioviale, il funzionario sbatté gli occhi. Parecchi clienti erano uomini e donne del tutto comuni, ma i risultati della chirurgia cosmetica erano tali e così numerosi da allibirlo. — Non ero mai stato prima in un luogo simile! — mormorò affranto. Rettili e creature anfibie discutevano e ridevano frammisti a grifoni e a sfingi dalla pelle metallica.
— Volete lasciare qui i vostri abiti? — sorrise la ragazza del guardaroba. La sua pelle era di un verde tenue, e l’enorme crocchia dei capelli sembrava di cotone rosa. Le labbra, i seni e l’ombelico scintillavano.
— No, grazie — rifiutò in fretta il doganiere.
— Toglietevi almeno le scarpe e la camicia — gli consigliò Rydra, sbottonandosi la camicetta. — La gente penserà che siete strano. — Lei si chinò, slacciò i sandali e li tese sopra la cassa. Aveva appena iniziato a sfibbiare la cintura dei pantaloni, quando colse il suo sguardo disperato. Allora sorrise, e riallacciò la cintura.
Lui si tolse lentamente la giacca, la camicia e la maglietta. Era sul punto di slacciarsi le scarpe, quando qualcuno lo afferrò per un braccio. — Ehi, doganiere!
Si alzò, fissando l’uomo nudo e massiccio, sul suo viso butterato c’era un sogghigno simile a una fenditura su una corteccia sporca. Il suo unico ornamento era costituito da minuscoli scarafaggi meccanici luminosi che sciamavano in formazioni rigorose sul petto, sulle spalle e sulle membra. — Come, scusate?
— Cosa stai combinando qui doganiere?
— Signore, io non vi do fastidio.
— E nemmeno io ti rompo le scatole. Vieni a bere, doganiere. Mi sento amichevole.
— Vi ringrazio di cuore, ma dovrei…
— Io sono amichevole. Tu non lo sei. Se tu non vuoi essere amichevole, doganiere, allora nemmeno io voglio esserlo.
— Ma non sono solo… — Lanciò un’occhiata impotente a Rydra.
— Andiamo. Berrete tutt’e due. Offro io. Veramente amichevole, dannazione.
L’altro braccio si diresse verso le spalle di Rydra, ma lei gli bloccò il polso. Le dita si spalancarono lasciando intravedere lo stellarimetro graduato inserito chirurgicamente nel palmo della mano. — Navigatore?
Lui annuì, e Rydra lasciò andare il polso.
— Perché stanotte sei così “amichevole”?
L’uomo, piuttosto ubriaco, scosse il capo. Portava i capelli annodati in una ispida treccia nera che gli cadeva sull’orecchio sinistro. — Mi piace il doganiere. E mi piaci anche tu.
— Grazie. Offrici quel bicchiere e ti offrirò qualcosa anch’io.
Mentre il viso butterato annuiva pesantemente, gli occhi verdi si strinsero. L’uomo le pose una mano fra i seni e sollevò il disco d’oro che pendeva dalla catenella. — Capitano Wong?
Lei annuì.
— Meglio non scherzare con voi, allora. — Rise. — Venite, capitano, e offrirò a voi e al doganiere qualcosa che vi farà sentire allegri. — Fece loro strada fino al banco.
Il liquore verde che in locali più rispettabili veniva versato in piccoli bicchieri, qui era servito in boccali.
— Se volete scommettere sull’incontro fra Ottone e il Drago e mi date vincente il Drago, vi spacco la faccia. Scherzando, naturalmente, capitano.
— Non sono qui per scommettere — disse Rydra. — Cerco uomini. Conosci Ottone?
— Ero il navigatore durante il suo ultimo viaggio. Siamo tornati una settimana fa.
— E tu sei amichevole per la stessa ragione che lo fa combattere stasera?
— Potreste anche metterla così.
Il doganiere al suo fianco si grattò la clavicola con aria meravigliata.
— L’ultimo viaggio di Ottone deve essere finito male — gli spiegò Rydra. — Ora l’equipaggio è senza lavoro, e Ottone si esibirà stanotte. — Poi si girò di nuovo verso il Navigatore. — Ci saranno molti capitani a contrattarlo?
L’uomo spinse la lingua contro il labbro superiore, socchiuse un occhio e abbassò il capo. Poi alzò le spalle.
— Finora sono l’unica?
Un cenno di assenso, un lungo sorso di liquore.
— Come ti chiami?
— Calli, Navigatore-Due.
— Dove sono i tuoi Uno e Tre?
— Tre dev’essere da qualche parte di sopra, a sbronzarsi. Uno era una deliziosa ragazza di nome Cathy O’Higgins. È morta. — Finì di colpo il bicchiere e fece un cenno per un altro.
— Questo lo offro io — disse Rydra. — Perché è morta?
— Siamo incappati negli Invasori. Io, Tre, Ottone e il nostro Occhio siamo stati i soli a cavarcela. Tutti gli altri morti compresa la nostra Lumaca. Una Lumaca maledettamente in gamba. Capitano, è stato un viaggio infame. L’Occhio ha avuto un collasso, dopo la perdita del Naso e dell’Orecchio. Avevano vissuto insieme discorporati per dieci anni. Ron, Cathy e io formavamo l’altro trio soltanto da un paio di mesi ma anche così… — Scosse il capo. — È stato infame.
— Manda a chiamare il tuo Tre — disse Rydra.
— Perché?
— Sto cercando un equipaggio completo.
Calli corrugò la fronte. — Ma non abbiamo più il nostro Uno.
— E volete restare a marcire qui per sempre? Andate alla Morgue.
Calli bofonchiò. — Se volete vedere il mio Tre, seguitemi.
Rydra sospirò accomodante, e il doganiere si infilò dietro a loro.
— Ehi, scemo, girati.
Il ragazzo che si voltò sullo sgabello del bar poteva avere diciannove anni.
Il doganiere pensò subito a un groviglio di bende metalliche. Calli era un uomo grande e grosso, dall’aspetto in fondo rassicurante…
— Capitano Wong, questo è Ron, il migliore Tre che sia mai uscito dal Sistema Solare.
… Ma Ron era piccolo, magro, fisicamente affilato e inquietante: i muscoli del petto sembravano lamine metalliche dissimulate sotto una pelle di cera; lo stomaco e il ventre corrugati rigidamente, le braccia come cavi intrecciati. Perfino i muscoli facciali sporgevano sui lati posteriori delle mascelle, inturgiditi, quasi cozzando ad angolo inusitato contro i due separati cordoni del collo. I capelli erano stopposi e spettinati, gli occhi di zaffiro, ma l’unico intervento di chirurgocosmesi evidente era costituito dalla rosa che gli cresceva rigogliosa sulla spalla. Lanciò un rapido sorriso e si toccò la fronte con l’indice in segno di saluto. Le sue unghie erano rosicchiate fino alla carne, su dita simili a frammenti annodati di corda bianca.
— Il Capitano Wong sta cercando un equipaggio.
Ron si mosse sullo sgabello, sollevando leggermente la testa; tutti i muscoli del suo corpo si mossero insieme come serpenti nel latte.
Il funzionario della Dogana vide gli occhi di Rydra spalancarsi. Non comprendendo quella sua reazione, decise di ignorarla.
— Non abbiamo più il nostro Uno — mormorò Ron. Di nuovo quel suo sorriso rapido e triste.
— Ma supponendo che io ve ne trovassi un altro?
I due Navigatori si scambiarono un’occhiata.
Calli si girò verso Rydra, soffregandosi una narice con il pollice. — Capitano, voi sapete come funziona un trio come il nostro…
Rydra sollevò la destra e l’incrociò con l’altra mano, stringendola. — Così, dovete essere. Naturalmente la mia scelta è soggetta alla vostra approvazione.
— Be’, è molto difficile per qualcun altro…
— È impossibile, lo so. Infatti la scelta sta a voi. Io posso solo dare suggerimenti. Ma i miei suggerimenti sono sempre maledettamente buoni. Cosa rispondete?
Il pollice di Calli si spostò dal naso al lobo dell’orecchio. Sospirò — Non potreste farci un’offerta migliore.
Rydra fissò Ron.
Il ragazzo sollevò un piede sullo sgabello, poi, abbracciandosi il ginocchio, la squadrò da sopra la rotula. — Io dico, vediamo chi suggerite.
Lei annuì. — Giusto.
— Lo sapete, i lavori per un trio spezzato non sono facili. — Calli pose una mano sulla spalla di Ron.
— Sì, ma…
Rydra levò lo sguardo verso l’alto. — Ora guardiamo l’incontro.
Accanto a loro, altra gente alzò gli occhi. Ai tavoli, i clienti seduti inclinarono gli schienali dei loro sedili e si distesero comodamente.
Il boccale di Calli mandò un rumore secco sul banco. Ron alzò entrambi i piedi sullo sgabello e si appoggiò all’indietro contro il banco.
— Ma che cosa stanno guardando? — chiese il doganiere. Rydra gli pose una mano sul collo e gli solleticò la nuca; lui si mise a ridere e inconsciamente sollevò la testa. Allora il respiro gli si mozzò in gola.
Il globo fumoso appeso nella cripta si era acceso di luci colorate. Tutt’intorno la sala si era oscurata. Migliaia di watt si accesero nei riflettori e illuminarono la sfera, rimbalzando sui visi sottostanti mentre il fumo contenuto nel globo svaniva lentamente.
— Cosa sta succedendo? — domandò il doganiere. — È la dentro che combatteranno…?
Rydra si mosse ancora, sfiorandogli leggermente la bocca con una mano, e lui quasi ingoiò la propria lingua; ma si acquietò.
E il Drago d’Argento comparve nella sfera, le ali mulinanti nel fumo, le piume argentee affilate come lame, i larghi fianchi scattanti ricoperti di scaglie; il suo corpo alto tre metri ondeggiò e si contorse nel campo antigravitazionale. Le palpebre d’argento scoprirono gli occhi verdi, mentre le labbra dello stesso colore si increspavano in un sogghigno. — È una donna! — sussurrò il doganiere.
Un tamburellare ritmico di dita schioccanti salì in segno di apprezzamento dal pubblico sottostante.
Poi il fumo si agitò ancora nel globo…
— Quello è il nostro Ottone! — esclamò Calli.
… E Ottone sbadigliò lentamente, scuotendo il capo, e i denti a sciabola scintillarono, i muscoli guizzarono sulle spalle e lungo il corpo; artigli di ottone lunghi una dozzina di centimetri uscirono dai morbidi cuscinetti gialli che sostituivano le dita. Un fascio di bande metalliche gli ricopriva il ventre e la coda irta di punte batteva contro la parete della sfera. La folta criniera, tagliata corta per non offrire presa all’avversario, ondeggiava come acqua dorata.
Calli afferrò la spalla del doganiere. — Schiocca le tue dita, uomo! Quello è il nostro Ottone!
Il doganiere, che non era mai stato capace di farlo, si ruppe quasi una mano.
Il globo fiammeggiò rosso. I due piloti si squadrarono, da due estremità opposte della sfera. Le voci si zittirono. Il doganiere abbassò lo sguardo sulle persone che lo circondavano e incontrò tutti i loro volti tesi verso l’alto. Il Navigatore Tre era appollaiato in posizione fetale sullo sgabello del bar. Rame ambiguo; anche Rydra abbassò gli occhi sulle braccia sottili e sulle cosce striate del ragazzo con la rosa sulla spalla.
Sopra, i due contendenti si curvarono, tesi, ondeggianti. Un improvviso movimento del Drago, e Ottone si spinse indietro, poi dalla parete si lanciò in avanti. Il doganiere si afferrò a qualcosa.
I due corpi si urtarono, si intrecciarono, urtarono contro una parete e rimbalzarono. Il pubblico cominciò a battere i piedi. Braccio contro braccio, le gambe intrecciate fra di loro, di colpo Ottone volteggiò lontano dal Drago e fu scagliato contro la parete superiore dell’arena. Scuotendo il capo, si raddrizzò. Sotto, attento, il Drago si girò con una piroetta, agitando eccitato le ali. Ottone si staccò dalla parete, fece un mezzo giro con il corpo, e colpì il Drago con i piedi giunti. Lei vacillò all’indietro, flagellando l’aria con le ali. I denti a sciabola di Ottone mancarono il colpo con uno schiocco secco.
— Che cosa stanno cercando di fare? — chiese con un sussurro il doganiere. — Come si può capire chi sta vincendo? — Guardò di nuovo in basso. La cosa che poco prima aveva afferrato era la spalla di Calli.
— Quando uno dei due riesce a lanciare l’altro contro una parete e a toccare con un braccio o con una gamba, di rimbalzo, la parete opposta — gli spiegò Calli senza neppure abbassare lo sguardo — è una caduta, cioè un punto segnato.
Il corpo del Drago d’Argento scattò all’improvviso come una molla spezzata e Ottone schizzò lontano, andando a colpire la parete della sfera. Ma mentre lei arretrava per il contraccolpo, pronta ad assorbire l’urto contro l’altra parete con una gamba, perse l’equilibrio e anche l’altra gamba sfiorò la superficie trasparente.
Tutti avevano trattenuto il respiro nella sala, e ora si alzavano qua e là schiocchi incoraggianti. Ottone fu di nuovo all’attacco, la colpì e la sospinse contro la parete, ma il suo rimbalzo fu troppo brusco e anche lui toccò la parete con entrambe le gambe e un braccio.
Ancora una torsione al centro della sfera. Il Drago ringhiò, si tese fino allo spasimo, scosse la scaglie. Ottone la fissò quasi sdegnoso, trapassandola con i suoi occhi simili a due monete d’oro, e con un colpo di reni si spinse all’indietro, poi in avanti. Lei vacillò sotto il colpo della sua spalla e andò a urtare il globo. Ottone rimbalzò lentamente, toccò con una mano la parete opposta e si diede una leggera spinta.
Il globo scintillò brevemente di luce verde, e Calli picchiò un pugno sul banco. — Guardatelo, come si sistema quella puttana in lamé d’argento!
Uncinandosi le gambe a vicenda e dandosi colpi violenti, i due corpi si univano e si allontanavano. Altre due cadute, ma nulle. Poi, il Drago d’Argento diede una vigorosa testata nel torace a Ottone, e questi rinculò fino alla parete, mentre l’avversario toccava la parte opposta del globo con un piede solo. Sotto, la folla impazzì.
— È stato un fallo! — esclamò Calli, scuotendo il doganiere al suo fianco. — Dannazione è stato un fallo! — Ma il globo lampeggiò ancora verde. Ufficialmente, la seconda caduta era a favore del Drago.
Per alcuni secondi, con prudenza, i due nuotarono nella sfera. Per due volte il Drago tentò di attaccare, e Ottone fu costretto a usare gli artigli e a incassare i colpi nello stomaco.
— Ma perché non reagisce? — gridò Calli disperato. — Lei lo sta stuzzicando a morte. Afferrala e combatti!
Quasi a rispondergli. Ottone si lanciò di nuovo a colpire con la spalla l’avversario; il che sarebbe stato un’ottima mossa se il Drago non gli avesse afferrato il braccio e deviato lo slancio, mandandolo a sbattere contro la superficie di plastica.
— Ma questo non può farlo! — Stavolta era il doganiere. Afferrò Calli per una spalla. — Può farlo? Non credo che dovrebbero permettere… — Ma dovette mordersi la lingua perché Ottone, con un balzo inaspettato, aveva artigliato alle spalle la donna e le aveva dato un colpo formidabile, sbattendola come un fagotto contro la parete e rimbalzando nel contempo nella direzione opposta.
— Ce l’ha fatta! — gridò Calli. — Due su tre!
La luce verde scintillò nel globo, accolta da una marea di applausi.
— Ha vinto? — domandò il doganiere. — Ha vinto lui?
— Ascolta! Certo che ha vinto! Ehi, andiamo a vederlo. Venite, capitano!
Rydra si era già mossa per attraversare la folla. Con un salto, Ron le fu dietro, e Calli li seguì trascinando con sé il doganiere. Una scala ricoperta di piastrelle nere li condusse in una stanza dove un piccolo gruppo di uomini e donne circondava Condor, una grande creatura dorata e scarlatta, in attesa di combattere contro Ebano che passeggiava solo in un angolo. La porta dell’arena si spalancò e Ottone fece il suo ingresso, sudato e sbuffante.
— Ehi — lo chiamò Calli. — Sei stato grande, ragazzo. E questo capitano vuole parlarti.
Ottone si stirò, poi li squadrò tutti e quattro, mentre un brontolio sordo gli saliva dal petto. Scosse il capo indeciso, ma infine la riconobbe e i suoi occhi dorati si spalancarono. — Ca’itano Wong! — La bocca, allargata chirurgicamente per permettere l’inserimento delle zanne, era incapace di formulare le labiali esplosive che non fossero sonore. — Come vi sono sembrato, stasera?
— Abbastanza in gamba per volerti come pilota attraverso la via di Specelli. — Lei gli tolse un fiocco giallo da dietro un orecchio. — Una volta mi hai detto che ti sarebbe piaciuto mostrarmi quello che sapevi fare.
— Già — annuì Ottone. — Ma credo ancora che questo sia un sogno. — Si strappò i cenci metallici che gli scendevano sui lombi e si strofinò il collo e le braccia con un asciugamano, poi colse lo sguardo meravigliato del doganiere sui suoi denti a sciabola. — Soltanto chirurgocosmesi. — E continuò ad asciugarsi.
— Consegnagli il tuo psico-indice — gli disse Rydra. — e lui lo visterà subito.
— Questo vuol dire che ’artiremo domani, ca’itano?
— All’alba.
Da una tasca della sua cintura, Ottone estrasse una sottile lamina metallica. — Ecco qua, doganiere.
Il doganiere esaminò attentamente i caratteri runici incisi sulla piastrina. Poi tolse dalla tasca posteriore la sua tavoletta da ricalco e annotò il cambiamento dell’indice di stabilità, ma decise di attendere più tardi per integrare la somma esatta. La pratica gli diceva che già così quell’indice era al disopra del limite accettabile. — Signorina Wong, voglio dire capitano Wong,… e per quel che riguarda i loro documenti? — Si girò verso Calli e Ron.
Ron s’infilò una mano dietro la schiena e si grattò coscienziosamente una scapola. — Finché non avremo trovato un Navigatore Uno, non ci sarà bisogno di preoccuparsi per noi. — Il suo duro viso di adolescente ostentava una espressione bellicosa.
— Li controlleremo più tardi — disse Rydra. — Ora abbiamo altra gente da trovare.
— State cercando una ciurma al com’leto? — chiese Ottone.
Rydra annuì. — Cosa mi dici dell’Occhio che è ritornato con voi?
Ottone scosse tristemente il capo. — Ha ’erso il suo Orecchio e Naso. Formavano un terzetto molto unito, davvero, ca’itano. Ha resistito soltanto sei ore, e se ne è tornato alla Morgue.
— Capisco. Puoi consigliarmi qualcuno?
— Nessuno in ’articolare. Solo di fare una visita al Settore Discor’orato e di vedere quello che succede.
— E se volete un equipaggio per domani mattina, faremo meglio ad andarci subito — disse Calli.
— Andiamo — acconsentì Rydra.
Mentre si avvicinavano ai piedi della rampa, il funzionario della Dogana chiese: — Il Settore Discorporato?
— Perché? Cosa c’è che non va? — Rydra era con lui nell’ultima fila del gruppo.
— È così… non so. Non mi piace l’idea.
Rydra scoppiò a ridere. — A causa dei morti? Quelli non vi faranno del male.
— So anche che è illegale, per persone vive, entrare nel Settore Discorporato.
— Soltanto in alcune parti — lo corresse Rydra, e anche gli altri scoppiarono in una risata. — Noi non entreremo nelle sezioni illegali… se ci sarà possibile.
— Rivolete indietro i vostri abiti? — domandò loro la ragazza del guardaroba.
Parecchie persone avevano fermato Ottone per congratularsi con lui, dandogli dei colpi nei fianchi e schioccando entusiasticamente le dita. Ora lui prese la sua cappa biologica e l’infilò dalla testa; il tessuto si distese sulle sue spalle, gli avvolse il collo, si drappeggiò morbido intorno alle braccia e alle cosce robuste. Poi Ottone salutò la folla e imboccò la rampa che portava all’esterno.
— Ma si può davvero giudicare l’abilità di un pilota guardandolo lottare? — si informò il doganiere dopo essersi accostato a Rydra.
Lei annuì col capo. — Su una astronave, il sistema nervoso del pilota è collegato direttamente ai controlli. L’intero passaggio in iperstasi consiste in una lotta continua fra il pilota e i mutamenti di stasi. Si può quindi giudicare dai suoi riflessi la sua abilità di controllare un corpo artificiale. Un Trasportatore con un po’ di esperienza potrebbe dirvi con esattezza come si comporterà il suo sistema nervoso alle prese con le correnti iperstatiche.
— Ne avevo già sentito parlare, naturalmente, ma questa è stata la prima volta che vedevo qualcosa di simile. È stato… eccitante.
— Sì — mormorò Rydra.
Mentre raggiungevano la piazzola in cima alla scala, i riflettori illuminarono di nuovo il globo. Condor ed Ebano entrarono fluttuando nella sfera dei combattimenti.
Sul marciapiede, Ottone si mise a quattro zampe e rimase al fianco di Rydra. — Cosa contate di fare ’er la squadra e la Lumaca?
— Se possibile, vorrei trovare una squadra che avesse fatto un viaggio solo.
— E ’erché così inesperta?
— Voglio addestrarla a modo mio. I gruppi più vecchi tendono a essere troppo rigidi.
— Ma una squadra con un solo viaggio alle s’alle ’uò diventare un bel ’roblema ’er la disci’lina. E in ’iù, ne sanno meno di una ’isciata, almeno così ho sentito dire. Non sono mai stato con gente di quel ti’o.
— Finché non mi daranno fastidi, non mi preoccupo. E comunque, se volessi una squadra subito, mi basterebbe chiederlo alla Marina.
Ottone annuì. — Avete già fatto la richiesta?
— Volevo prima trovare il mio pilota, e sentire se aveva preferenze.
Sotto il lampione all’angolo della strada c’era un telefono pubblico. Rydra si infilò sotto la cupola di plastica che proteggeva l’apparecchio. Un paio di minuti più tardi stava già dicendo: — …una squadra pronta per la partenza all’alba di domani. Vistate le loro piastrine per la via di Specelli. So che il preavviso è breve, ma non mi serve un gruppo particolarmente esperto. Anche un solo viaggio può bastare. — Guardò verso di loro sporgendo il capo dalla cupola e strizzò un occhio. — Bene. Richiamerò più tardi per avere i loro psico-indici da approvare. Sì, ho un funzionario della Dogana con me. Grazie.
Uscì sorridendo da sotto la cupola. — La via più breve per il Settore Discorporato passa per di là.
Le strade si restrinsero intorno a loro, intrecciandosi le une nelle altre, deserte. Poi una distesa di cemento dove affusolate torrette di metallo si alzavano verso il cielo, si incrociavano fra di loro, si ingarbugliavano come tanti comignoli. Fili metallici formavano ovunque una scintillante ragnatela. Tralicci che spargevano una luce bluastra spiccavano fra le mezze ombre.
— È questo…? — iniziò appena il doganiere. Poi rimase silenzioso. Procedendo, il gruppo rallentò il passo. Contro l’oscurità del cielo, luci rosse scoppiettavano improvvise fra le torrette.
— Cosa…?
— È solo un transfer. Vanno tutta la notte — spiegò Calli. Un lampo verde schioccò alla loro sinistra.
— Transfer?
— È un veloce scambio di energie prodotto dalla risistemazione delle creature discorporate — aggiunse con tono noncurante il Navigatore Due.
Avevano incominciato a muoversi fra i tralicci, quando una luce vacillante prese a coagularsi di fronte a loro. Argento intessuto di rossi fuochi brillanti attraverso lo smog delle industrie circostanti. Tre figure presero forma: donne, scheletri traslucidi imbevuti di luce, si mossero verso di loro con gli occhi vuoti.
Gelidi artigli sfiorarono la schiena del doganiere, perché dietro i corpi di quelle apparizioni si poteva intravedere la solida struttura di un traliccio.
— I loro visi — mormorò. — Non appena si distoglie lo sguardo dai loro visi, non si riesce più a ricordarli. Quando li guardo, mi sembrano simili ai visi di altre persone, ma appena sposto gli occhi… — Trattenne il respiro, mentre una di quelle figure gli passava accanto. — Non riesco a ricordarli! — Rimase a fissarle mentre si allontanavano. — Morte? — scosse il capo. — Sono dieci anni che appongo visti sugli psico-indici di tutti i lavoratori dei Trasporti, corporei e non corporei. E non mi sono mai avvicinato abbastanza a una di quelle anime senza corpo per poterle parlare. Oh sì, ho visto delle fotografie e a volte ne ho intravista qualcuna delle meno fantastiche per la strada. Ma questo…
— Ci sono certi lavori… — la voce di Calli era appesantita dall’alcool quasi quanto le sue spalle dai muscoli — …certi lavori, su una nave da Trasporto, che degli esseri umani vivi non possono compiere.
— Lo so, lo so — esclamò il doganiere. — Così voi usate quelli morti.
— Esatto — annuì Calli. — Persone come l’Occhio, l’Orecchio e il Naso. Se un uomo vivo dovesse analizzare tutto quello che passa in quelle frequenze iperstatiche… be’, prima morirebbe, e poi diventerebbe pazzo.
— Conosco la teoria — replicò bruscamente il doganiere.
Di colpo Calli strinse fra le dita una guancia del doganiere e lo tirò più vicino al suo viso butterato. — Tu non conosci un accidente, doganiere. — Il tono era ritornato lo stesso del loro primo incontro al caffè. — Ricorda, tu ti nascondi nella tua gabbietta alla Dogana, e la tua gabbietta è al sicuro sulla crosta della Terra, la Terra è tenuta ben stretta dal Sole, e il Sole segue tranquillo la sua strada verso Vega, tutto secondo una bella e pacifica spirale… — Agitò un braccio verso la notte che li circondava, dove la Via Lattea si sarebbe stesa sopra una città meno illuminata. — E tu non sei mai libero! — Allontanò con uno scatto improvviso la piccola testa occhialuta. — Ehhh! Tu non hai nulla da dirmi!
Colmo di disgusto, il navigatore pizzicò un cavo di fissaggio che da un traliccio scendeva sul marciapiede di cemento. Si udì un twang morbido e profondo. La nota bassa risvegliò qualcosa di indefinito nella gola del doganiere, qualcosa che salì fino alla bocca con il sapore metallico di un oltraggio meritato.
Avrebbe voluto ribattere per difendersi, ma ora gli occhi di rame di Rydra erano puntati sul suo volto, quasi vicini come lo era stato il volto butterato dello spaziale. Lei mormorò:
— Faceva parte di un terzetto molto raro nel nostro genere. Un’unione intima, chiusa e molto precaria, una specie di relazione emotiva e sessuale con due altre persone che erano divenute parte della sua anima. E una di loro è appena morta. — Le sue parole erano dolci e calme, gli occhi intenti a non perdere il contatto con i suoi. L’ira che gli ribolliva dentro ne fu attenuata, ma non riuscì a evitare un sibilo: — Pervertiti!
Ron inclinò leggermente il capo e i suoi muscoli si tesero. — Ci sono certi lavori — mormorò echeggiando la sintassi di Calli — certi lavori, su una nave da Trasporto, che non si possono affidare a due persone sole. Sono troppo complicati. — La sua voce mostrava stupore e freddezza.
— Lo so. — Poi pensò: “Ho ferito il ragazzo.” Calli si appoggiò a un palo. Qualcosa d’altro si stava agitando nella gola del doganiere.
— Ora voi avete qualcosa da dire — lo aiutò Rydra.
Lei sapeva, e la sorpresa fece leva sulle sue labbra. I suoi occhi scivolarono da Ron a Calli. — Mi dispiace per la vostra perdita.
Le sopracciglia di Calli si sollevarono per un istante, poi la sua espressione ritornò indecifrabile. — Anche a me dispiace… per te.
Ottone intervenne. — Stanotte dovrebbe esserci una riunione transfer nel centro del Settore, a meno di mezzo chilometro da qui. Ci saranno senz’altro tutti i ti’i di Occhio, Orecchio e Naso che ci tornerebbero utili ’er la rotta di S’ecelli. — Sogghignò tra le zanne al doganiere. — Quella è una delle sezioni illegali. Le allucinazioni, là dentro, non sono molto ’iacevoli. Con l’ego si ritrovano, molti cor’orei non riescono a resistere, ma le ’ersone sane di mente non hanno di questi ’roblemi.
— Se è una cosa illegale, preferirei aspettare qui il vostro ritorno — disse il doganiere. — Dovrete soltanto passare a riprendermi e io visterò i loro indici.
Rydra annuì. Calli gettò un braccio intorno al petto del pilota e l’altro sulle spalle di Ron. — Andiamo, capitano, se volete racimolare la vostra ciurma entro domani mattina.
— Se non troveremo entro un’ora quello che cerchiamo, saremo comunque di ritorno — disse Rydra.
Il funzionario della Dogana li guardò scomparire fra le torri sottili.
…richiamare dalle mura crepate il colore della terra spezzato nell’acqua di sorgente dei suoi occhi. La figura sbatte le ciglia e mormora qualcosa.
Lui disse: — Un funzionario, signora. Un funzionario della Dogana.
Sorpresa alla sua repentina risposta, dapprima timore, poi una vaga ombra di divertimento. — Da quasi dieci anni — rispose lui. — E voi da quanto siete discorporata?
La figura si avvicinò, e i suoi capelli gli portarono un profumo presente nella memoria. Gli stessi lineamenti trasparenti lo riportarono indietro nel tempo. Lei mosse le labbra, parole nuove, che lo fecero ridere.
— Sì, questa è una cosa del tutto nuova per me. Ma questa incertezza che regola tutto ciò che sembra succedere, non colpisce anche voi?
Ancora la sua risposta, insieme adulatrice e sbarazzina.
— Be’, è vero — sorrise lui. — Per voi non penso sia la stessa cosa.
La sua disinvoltura sembrò contagiarlo; e sia che lei scherzasse prendendogli la mano, o che lui si stupisse del proprio coraggio sfiorando la sua, l’apparizione era reale sotto le sue dita, e la pelle morbida e liscia.
— Siete troppo audace. Voglio dire, non sono abituato a vedere delle donne appena conosciute… che si comportano in questo modo.
La sua logica affascinante gielo spiegò di nuovo, facendolo sentire più vicino a lei, sempre più vicino, finché anche le sue dolci canzonature non furono che una musica incantevole.
— Be’, sì, siete senza corpo e certe cose non hanno valore. Ma…
E lei lo interruppe, con una parola, o un bacio, uno sguardo, un sorriso, senza che lui si accorgesse di essere stato toccato, ma riportandone una specie di luminoso stupore, paura, eccitazione; la sensazione di quel corpo contro il suo, qualcosa di completamente nuovo. Lui lottò per trattenerla, per mantenere soprattutto dentro di sé quel ricordo, ma si sentiva debole, almeno quanto si indeboliva via via il contatto di quella figura. Lei se ne stava andando! E ora sembrava ridere, come se…
Rimase immobile mentre la risata si allontanava, e uno smarrimento angosciato gli si infiltrò nella mente facendo sfumare la sua coscienza…
Quando gli altri ritornarono, Ottone gridò: — Buone notizie! Abbiamo trovato quello che volevamo.
— L’equipaggio arriverà fra poco — aggiunse Calli. Rydra gli tese le tre piastrine metalliche. — Si presenteranno alla nave due ora prima… ma cos’è successo?
Danil D. Appleby allungò una mano per prendere le piastrine. — Io… lei — e non poté dire altro.
— Chi? — chiese Rydra. La preoccupazione che lui le leggeva sul viso stava scalzando dalla sua mente anche i più piccoli ricordi di quello che era successo, e questo non gli piaceva.
Calli scoppiò in una risata. — Una succube! Mentre noi eravamo via, è stato agganciato da una succube!
— Già! — Ottone ridacchiò. — Guardatelo! — Anche Ron si mise a ridere.
— Era una donna… credo. Posso ricordare quello che io ho detto…
— Quanto ti ha preso? — gli domandò Calli.
— Preso?
Ron scosse il capo. — Non credo che lo sappia.
Calli sogghignò al Navigatore Tre e poi al doganiere. — Dai un’occhiata al portafogli.
— Come?
— Dagli un’occhiata.
Incredulo, lui si frugò in una tasca. Aprì la busta metallica. — Dieci… Venti… Ma io ne avevo almeno cinquanta quando sono uscito dal caffè!
Calli si batté le cosce ridendo. Poi si avvicinò al doganiere e gli pose un braccio intorno alle spalle. — Diventerai un vero uomo dei Trasporti, dopo che ti sarà successo ancora un paio di volte.
“Ma lei… io…” La sua mente era stata derubata di tutti i ricordi, e questo vuoto gli bruciava non meno di una delusione d’amore. Il portafogli depredato era una sciocchezza. I suoi occhi si gonfiarono di lacrime. — Ma lei era… — e la confusione soffocò la fine della frase.
— Che cos’era, amico? — gli chiese Calli.
— Lei… era. — Quella era l’unica verità.
— Anche senza cor’o, ’ossono fregare gli ingenui — mormorò Ottone. — E di solito tentano di farlo con dei metodi s’orchi. Sarei imbarazzato, se dovessi dirti quante volte è successo anche a me.
— Vi ha lasciato abbastanza per arrivare a casa — intervenne Rydra. — Per il resto, vi rimborserò io.
— No, non…
— Andiamo, capitano. È stato lui a goderne, e ora tocca a lui pagare, eh, doganiere?
Tossicchiando imbarazzato, l’uomo annuì.
— Allora date un’occhiata a quegli indici — consigliò Rydra. — Dobbiamo ancora trovare una Lumaca e il Navigatore Uno.
A un telefono pubblico, Rydra richiamò la Marina. Sì, era già stata radunata una squadra. E con loro veniva raccomandata una Lumaca. — Benissimo — disse Rydra, e tese il ricevitore al doganiere. Questi fece comunicare gli indici psichici e li unì a quelli dell’Occhio, dell’Orecchio e del Naso che Rydra gli aveva consegnato. Poi eseguì l’integrazione finale. La Lumaca sembrava particolarmente indicata. — Mi pare un coordinatore di talento — arrischiò il doganiere.
— Non si riesce mai ad avere una Lumaca tro’’o buona. Specialmente con una squadra nuova del mestiere. — Ottone scosse vigorosamente la testa. — È sem’re un ’roblema far filare diritto i ragazzi.
— Questo dovrebbe riuscirci facilmente. Possiede il più alto indice di compatibilità che io abbia mai visto.
— Ma qual è il suo quoziente di ostilità? — chiese Calli. — All’inferno la compatibilità! È capace di rifilarti una pedata nel culo quando ne hai bisogno? Il doganiere scrollò le spalle. — Pesa centoventi chili ed è alto solo un metro e settanta. Avete mai conosciuto una persona grassa che sotto il suo lardo non fosse maligna come un topo?
— Questo volevo! — esclamò Calli con una risata.
— Dove andremo a curare l’altra ferita? — domandò Ottone a Rydra.
Lei alzò le sopracciglia con aria interrogativa.
— Intendevo a cercare il ’rimo navigatore — spiegò Ottone.
— Alla Morgue.
Ron ebbe un brivido, Calli sembrò meravigliato. Le piccole cimici luminose formarono una collana intorno al suo collo, poi si riversarono sul petto poderoso. — Capitano, sapete che il nostro primo navigatore deve essere una ragazza disposta a…
— E lo sarà — rispose Rydra.
Lasciarono il Settore Discorporato e salirono sulla monorotaia per attraversare i tortuosi recessi della Città dei Trasporti, poi Costeggiarono lo spazioporto. L’oscurità dietro i finestrini era solcata da luci di segnalazione bluastre. Le astronavi si sollevavano con sfolgorii bianchi, azzurri a quella distanza, e si trasformavano in stelle sanguigne nell’aria rugginosa.
Per i primi venti minuti, scherzarono fra di loro cercando di sovrastare il ronzio dei motori. Il soffitto fluorescente spandeva una luminosità verdastra sui loro visi, sui loro grembi. Uno dopo l’altro, il doganiere li osservò diventare silenziosi mentre l’inerzia si trasformava in una vertiginosa propulsione. Lui non aveva neppure aperto bocca, tentando ancora di ricordare quella creatura e il suo volto, le sue parole e la sua forma. Eppure tutto restava lontano, una vaga presenza frustrante, come il perduto fantasma di un amore.
Quando discesero sulla piattaforma scoperta della Stazione di Thule, un vento caldo spirava da est. Le nuvole si erano spezzettate al cospetto di una luna d’avorio, e ghiaia e granito inargentavano le siepi incolte. Dietro di loro si stendeva la nebbia rossastra della città; davanti, nella notte ormai indebolita dal respiro del mattino, si alzava la nera costruzione della Morgue.
Scesero la gradinata e si incamminarono lentamente attraverso il parco di pietra. Il giardino di acqua e roccia era innaturale nell’oscurità. Non vi cresceva nulla.
Alla porta, le larghe piastre metalliche nude e prive di una qualsiasi luce erano una macchia nell’oscurità circostante. — Come si entra? — chiese il doganiere, mentre insieme salivano i bassi gradini.
Rydra sollevò il disco di capitano che portava al collo e lo appoggiò contro un altro disco sulla porta. Si udì un ronzio, e la luce divise in due l’ingresso mentre i battenti scivolavano di lato. Rydra entrò, e gli altri la seguirono.
Calli fissò la volta metallica sopra il proprio capo. — E pensare che in questo posto c’è abbastanza carne congelata dei Trasporti da accontentare le richieste di un centinaio di stelle e di tutte le loro flotte.
— Ci sono anche molti dipendenti della Dogana — disse il doganiere.
— Ma perché qualcuno dovrebbe chiamare indietro un doganiere che ha deciso di schiacciare un sonnellino? — domandò Ron con candida ingenuità.
— Già, perché mai? — insisté Calli.
— Certe volte è stato fatto — rispose seccamente il doganiere.
— Ma più raramente che per i Trasporti — intervenne Rydra. — Oggi, il lavoro svolto dalla Dogana nei traffici stellari è piuttosto una scienza. Mentre quello svolto nello spazio attraverso i livelli di iperstasi è ancora un’arte. Forse fra un centinaio d’anni saranno entrambi due rami della stessa scienza, ma in questo momento una persona che conosce bene la sua arte è un po’ più rara di un’altra che ha imparato alcune regole scientifiche. Inoltre, esiste una lunga tradizione. La gente dei Trasporti è abituata a morire e a essere richiamata indietro, per lavorare di nuovo con vivi e morti. Ma questo è più difficile da accettare per la Dogana. Da questa parte per i Suicidi.
Lasciarono il vestibolo per infilarsi nel corridoio che portava al deposito. Il pavimento in leggera salita li condusse in un vasto salone illuminato da luci invisibili. Lungo le pareti, in insenature rettangolari che arrivavano a trenta metri di altezza, file di bare di vetro dai riflessi metallici. Nelle bare, al di là dello stesso cristallo brinato, si intravedevano sagome oscure e immobili. Sembrava la tana di un ragno.
— Ciò che non capisco in questa faccenda — sussurrò il doganiere — è il fatto che possano essere chiamati indietro. Ma allora chiunque muoia può essere richiamato in un corpo? Avete ragione, capitano Wong, fra noi della Dogana è piuttosto indelicato parlare di cose… come questa.
— Qualunque suicida che decide di staccarsi dal proprio corpo attraverso i normali canali della Morgue, può essere richiamato indietro. Ma in caso di morte violenta, quando la Morgue ottiene il corpo troppo tardi, oppure quando l’età è troppo avanzata, sui centocinquant’anni, allora la morte è permanente. Qui, tuttavia, con i mezzi adeguati, lo schema cerebrale del suicida viene registrato, e chiunque lo voglia può avere accesso alle abilità intellettuali del morto, mentre la cosiddetta coscienza se ne va dovunque debba andare.
Poco distante, un cristallo-archivio alto più di tre metri scintillava come quarzo rosa. — Ron — chiamò Rydra — E anche tu, Calli.
I due Navigatori si avvicinarono perplessi.
— Conoscete qualche Primo Navigatore che si è suicidato di recente e che noi potremmo…?
Rydra scosse il capo negativamente. Fece passare una mano dinanzi alla cellula del cristallo-archivio, e sullo schermo concavo alla sua base comparvero alcune parole. Fermò le dita. — Navigatore Due… — Girò la mano. — Navigatore Uno… — Si arrestò e cominciò a muovere la mano in una direzione diversa. — …maschio, maschio, maschio, femmina. Ora, Calli e Ron, parlatemi.
— Huh? Di che cosa?
— Di voi stessi, di quello che volete.
Gli occhi di Rydra si spostarono dallo schermo all’uomo e al ragazzo che le stavano accanto, tornando poi allo schermo.
— Be’… — Calli si grattò la testa.
— Carina — disse Ron. — Voglio che sia carina. — Si spinse leggermente in avanti, con un’intensa luce negli occhi azzurri.
— Oh, sì — intervenne Calli — ma non deve essere una dolce e paffuta ragazza irlandese con i capelli neri e gli occhi di agata e le lentiggini che sbucano fuori dopo solo quattro giorni di sole. E non deve avere una voce sdolcinata e carezzevole che ti fa andare su di giri anche mentre ti passa i risultati dei suoi calcoli, e ti fa sciogliere le ossa quando ti prende la testa e la stringe sul seno e ti dice quanto lei abbia bisogno di sentirsi…
— Calli! — il grido di Ron.
E il colosso si fermò, con un pugno affondato nello stomaco, respirando a fatica.
La mano di Rydra si spostò di qualche centimetro sul lato del cristallo. I nomi sullo schermo oscillavano avanti e indietro.
— Ma carina — ripeté Ron. — E che ami gli sport, che le piaccia lottare, quando siamo a terra. Cathy non era molto atletica. E io ho sempre pensato che per me sarebbe stato molto meglio, se lei lo fosse stata. Mi sento più a mio agio, con la gente che può lottare con me. Però deve essere anche seria, soprattutto sul lavoro. E che sia rapida come Cathy. Solo…
Le dita di Rydra si mossero un po’ più a sinistra. — Solo — continuò Calli, togliendo il pugno dallo stomaco e respirando più facilmente — che deve essere una persona intera, una nuova persona. Non qualcuno che sia per metà quello che noi ricordiamo di un’altra persona.
— Sì — disse Ron. — Che sia un buon navigatore, e che ci ami.
— …che ci possa amare — lo corresse Calli.
— Se lei fosse come voi la vorreste e contemporaneamente se stessa — domandò Rydra, con la mano incerta fra due nomi sullo schermo — voi potreste amarla?
Un attimo di esitazione, poi il lento assenso del colosso e il rapido annuire del ragazzo.
Rydra staccò la mano dal cristallo, e un nome scintillò sullo schermo.
— Mollya Twa, Navigatore Uno. — Seguirono i numeri di riconoscimento, e Rydra li batté sulla tastiera a fianco dello schermo.
Venti metri sopra le loro teste, qualcosa lampeggiò. Una delle centinaia di migliaia di bare di vetro stava scendendo sostenuta da un fascio a induzione. Sulla piattaforma di richiamo spuntarono numerosi gruppi di minuscoli cilindri dalle punte luccicanti. La bara si posò sulla piattaforma, il contenuto nascosto dalla brina e dai fiori esagonali di ghiaccio all’interno del cristallo. Le punte luminose dei cilindri si agganciarono nella parte inferiore della bara con una serie di schiocchi metallici.
La brina si sciolse di colpo e per un attimo la superficie interna del cristallo rimase annebbiata, per poi ricoprirsi subito di goccioline. Tutti si avvicinarono per vedere.
Striscia nera contro nero. Un movimento, dietro il vetro scintillante; poi il vetro scivolò via, scoprendo la sua pelle calda e scura, i suoi larghi occhi terrorizzati.
— Va tutto bene — la rassicurò Calli toccandole una spalla. Lei alzò la testa per guardare la sua mano, poi la lasciò ricadere sul cuscino. Ron si sporse su di lei.
— Salve?
— Ehm… signorina Twa? — mormorò Calli. — Siete viva, ora. Volete amarci?
— Ninyi ni nani? — Il suo viso sembrava stupito. — Niko wapi hapa?
Ron si sollevò meravigliato. — Non penso che parli inglese.
— Sì, lo so — sogghignò Rydra. — Ma tranne questo, è perfetta. In questo modo avrete il tempo di conoscervi, prima di capire le vostre reciproche sciocchezze. Le piace lottare, Ron.
Ron tornò a guardare la giovane donna nella bara. I suoi capelli color grafite erano tagliati corti come quelli di un ragazzo, e le labbra piene erano bluastre per il freddo. Ti piace la lotta?
— Ninyi ni nani? — domandò lei di nuovo.
Calli tolse la mano dalla sua spalla e fece un passo indietro. Ron si grattò la testa e aggrottò la fronte.
— Allora? — chiese Rydra.
Calli alzò le spalle. — A essere sinceri, non lo sappiamo.
— Gli strumenti di navigazione hanno comandi standard. A bordo non vi saranno problemi di comunicazione.
— È carina — mormorò Ron. — Sei carina. Non aver paura. Ora sei viva.
— Ninaogapa! — Lei strinse la mano di Calli. — Jee, ni usiku au mchana? — Aveva gli occhi spalancati.
— Ti prego non aver paura! — Ron si chinò accanto a lei e le strinse il polso teso verso Calli.
— Sielwi lungha yenu. — Poi scosse il capo, un gesto non di negazione, ma solamente di stupore. — Sikuyuweni nivi nani. Ninaogapa.
E velocemente, Calli e Ron annuirono rassicuranti.
Rydra si infilò fra di loro e parlò.
Dopo un lungo silenzio, la donna annuì lentamente.
— Dice che verrà con voi. Ha perso gli altri due membri del suo trio sette anni fa, anche loro a causa dell’Invasione. È per questo che è venuta qui e si è uccisa. Dice che vuole venire con voi. Volete prenderla?
— Ha ancora paura — disse Ron. — Per favore, non fare così. Io non ti farò del male. E neppure Calli.
— Se lei vuole venire — stabilì Calli — noi la prenderemo.
Il doganiere tossicchiò. — Dove posso trovare il suo psico-indice?
— Sullo schermo sotto il cristallo-archivio.
Il doganiere tornò verso il cristallo. — Be’… — Tolse di tasca la tavoletta da ricalco e cominciò a trascrivere gli indici. — C’è voluto un po’ di tempo, ma avete trovato tutti quanti.
— Ora integrate — gli disse Rydra.
Lui obbedì. Poi alzò gli occhi, quasi incerto fra lo stupore e l’ammirazione. — Capitano Wong, credo davvero che abbiate trovato il vostro equipaggio!
Caro Mocky,
quando riceverai questa mìa, sarò già partita da due ore. Manca mezz’ora all’alba e voglio dirti qualcosa, ma non intendo svegliarti una seconda volta. Piuttosto nostalgicamente, ho deciso di partire con la vecchia astronave di Fobo, la Rimbaud (il nome è stata un’idea di Muels, ricordi?). Almeno, su di lei mi sentirò come a casa; vi ho lasciato un cumulo di buoni ricordi. Parto fra venti minuti.
Posizione attuale: sono seduta su una sedia pieghevole nella cabina d’osservazione che si affaccia sul campo. Il cielo è tutto chiazzato di stelle verso ovest, e comincia a diventare grigio a est. Intorno a me si levano i neri aghi delle altre navi che devono partire. A oriente si intravedono, deboli, i segnali luminosi al limite del campo. È tutto calmo ora. Soggetto dei miei pensieri: una notte febbrile in compagnia di una ciurma che mi ha fatto scorrazzare avanti e indietro per la Città dei Trasporti fino alla Morgue. All’inizio era un po’ pesante e rumorosa, ma verso la fine si è calmata abbastanza. Per scegliere un buon pilota devi vederlo lottare. Un capitano attento può dirti con esattezza che razza di pilota sia una persona che lotta nell’arena. Basta solo osservare i suoi riflessi, anche se io non sono poi così esperta.
Ricordi quello che mi hai detto a proposito della lettura muscolare? Forse avevi più ragione di quanto io non pensassi. Questa notte ho incontrato un ragazzo, un Navigatore, che assomiglia all’offerta di laurea di Brancusi, o forse a quello che Michelangelo si augurava fosse il corpo dell’uomo. È nato nella Città dei Trasporti, e almeno in apparenza sembra sapere bene come deve lottare un pilota. Così l’ho osservato mentre lui a sua volta guardava lottare il mio pilota, e dai suoi fremiti e dai suoi sobbalzi ho avuto un’analisi completa di quello che stava succedendo nell’arena sopra la mia testa.
Tu conosci la teoria di De Faure per la quale gli psicoindici hanno le loro tensioni muscolari corrispondenti (una ripresa della vecchia ipotesi di Wilhelm Reich sull’armatura muscolare): ci ho pensato parecchio questa notte. Il ragazzo di cui ti parlavo faceva parte di un terzetto infranto, due uomini e una ragazza, e la ragazza è morta a causa degli Invasori. Gli altri due sono stati sul punto di farmi piangere. Ma non l’ho fatto. Invece li ho portati alla Morgue e ho trovato loro un rimpiazzo. Una strana faccenda. Sono certa che per tutta la loro vita penseranno che sono una strega. Comunque, i requisiti basilari erano indicati nell’archivio: un Navigatore Uno femmina che avesse perso due uomini. Ma come accomodare gli indici? Ho letto quelli di Ron e Calli guardandoli parlare e muoversi. I corpi della Morgue sono archiviati per ordine di psico-indici, così ho soltanto dovuto sentire quale era quello adatto a loro. La scelta finale è stata però un colpo di genio, se posso dirlo da sola. C’erano sei giovani donne fra le quali ero incerta, e non potevo più scegliere a orecchio, fidandomi solo delle mie sensazioni. Una di loro era una ragazza della Provincia di N’Gonda, nella Pan-Africa. Si era suicidata sette anni prima, dopo aver perso i due mariti durante un attacco degli Invasori ed essere tornata sulla Terra durante un embargo. Certo ricordi come erano i rapporti politici di allora fra Pan-Africa e Americasia. Ero certa che non sapesse l’inglese. L’abbiamo svegliata, e infatti lei non ne conosceva una parola. Ora, può darsi che i loro indici siano per il momento un po’ contrastanti, ma dando loro il tempo di conoscersi e di capire le rispettive lingue, io sono pronta a giurare che si troveranno benissimo insieme. Astuta, non trovi? E ora Babel-17, la vera ragione di questa lettera. Ti avevo detto di averla decifrata a sufficienza per sapere dove si sarebbe scatenato il prossimo attacco. I Cantieri di Guerra dell’Alleanza ad Armsedge. Volevo anche che tu sapessi dove me ne sto andando, nel caso che ti tornasse utile. Parlare e parlare e parlare: quale specie di mente può parlare come quella lingua riesce a fare? E perché? Sono ancora spaventata… come una bambina a una gara di ortografia. Ma ci sto prendendo gusto. La mia squadra è arrivata un’ora fa. Sono tutti quanti pazzi, adorabili, pigri ragazzacci. Fra pochi minuti dovrò dare gli ultimi ordini alla mia Lumaca (un gaglioffo grasso con gli occhi neri come la sua barba; si muove lentamente ma pensa in fretta). Tu sai, Mocky, che io, radunando questo equipaggio, ero interessata a un’unica cosa (oltre alla competenza, è naturale, e tutti sono estremamente efficienti): dovevano essere persone alle quali io potessi parlare. E con loro posso farlo.
Con affetto,
Rydra
Luce ma nessuna ombra. Il generale se ne stava immobile sul disco-slitta, fissando la nave nera e il cielo che impallidiva sempre più. Giunto alla base dell’astronave, scese dal disco metallico largo una sessantina di centimetri ed entrò nell’ascensore. Salì i trenta metri che lo separavano dal portello d’accesso. Lei non era nella cabina del comandante. Uscendone, incappò in un uomo grasso e barbuto che gli indicò la scala per il portello di carico con un cenno della mano. Salì allora lungo la scaletta. Il fiato cominciò a mancargli quando non era ancora a metà strada, ma si fece forza.
Lei tolse i piedi dalla paratia e si raddrizzò sulla sedia di tela con un sorriso. — Generale Forester, ero certa che vi avrei visto questa mattina. — Stava ripiegando l’orlo di una lettera.
— Volevo vedervi… e il respiro gli mancò del tutto. Dovette fare uno sforzo per continuare: … prima che partisse.
— Anch’io volevo vedervi.
— Mi avevate detto che se vi avessi consentito di condurre a vostro modo questa spedizione, mi avreste informato sulla destinazione che…
— Il mio rapporto, che credo troverete soddisfacente, è stato spedito la scorsa notte e ora si trova sul vostro tavolo al Quartier Generale Amministrativo dell’Alleanza… o ci sarà fra meno di un’ora.
— Oh. Capisco.
Lei sorrise. — Dovrete fare in fretta. Partiamo fra pochi minuti.
— Già. Ma devo partire anch’io stamattina, e ho già ricevuto un riassunto del vostro rapporto pochi minuti fa per telefono. Volevo soltanto dirvi… — e non riuscì a dire nulla.
— Generale Forester, una volta ho scritto una poesia che si intitolava Consiglio A Chi Volesse Amare I Poeti.
Il generale dischiuse i denti senza separare le labbra.
— Mi pare che cominciasse così:
Giovane uomo, lei a morsi ti strapperà la lingua.
Dolce signora, lui vi ruberà le mani…
“Potete leggervi il resto. È nel mio secondo libro. Se non siete disposto a perdervi un poeta sette volte al giorno, scoprirete che è un’impresa frustrante come poche altre.”
Lui disse semplicemente: — Sapevate che io…
— Lo sapevo allora e lo so ora. E ne sono felice.
Il fiato perduto fece ritorno, e al viso del generale successe una cosa strana: sorrise. — Quando ero soldato semplice, signorina Wong, ed eravamo tutti confinati nelle nostre baracche, si parlava sempre di ragazze e ragazze e ragazze. E a volte, qualcuno diceva, di una di loro: era così bella da non dovermi dare nulla, solo promettermi qualcosa. — Lasciò che la sua abituale rigidezza gli scivolasse dalle spalle come un abito smesso, e per un attimo sembrò completamente rilassato. — È quello che io sto provando ora.
— Grazie per avermelo detto — mormorò Rydra. Voi mi piacete, generale. E vi prometto che sarà ancora così la prossima volta che ci rivedremo.
— Io… vi ringrazio. Penso che questo sia tutto. Solo ringraziarvi… per averlo capito, e per questa promessa. Poi disse: “Devo andarmene, ora, non è vero?”
— Il decollo è fra dieci minuti.
— La vostra lettera — si offrì lui. — La spedirò io per voi.
— Grazie. — Lei gliela tese, lui le prese la mano, e per un istante brevissimo, con una pressione leggerissima, gliela strinse. Poi si girò, e uscì. Qualche minuto più tardi, lei lo vide allontanarsi sul suo disco-slitta che scivolava leggero sul cemento, mentre a Oriente il sole prendeva a divorare il cielo.