Parte terza La tempesta

14

La gente è al buio, non sa cosa fare

Avevo una lanterna, oh ma si è spenta anche quella.

Tendo una mano. Spero che la tenderai anche tu.

Come vorrei stare al buio con te.

GREG BROWN, In the Dark With You

Alle cinque del mattino, nel parcheggio dell’aeroporto di Minneapolis, cambiarono vettura. Salirono fino all’ultimo piano, dove c’è un parcheggio a cielo aperto.

Shadow si liberò di manette, ceppi e uniforme arancione e infilò tutto nel sacchetto di carta marrone che aveva temporaneamente contenuto i suoi effetti personali, lo richiuse e lo gettò in un cestino dell’immondizia. Aspettavano da una decina di minuti quando un giovanotto con il tronco a botte sbucò da un’uscita dell’aeroporto e li raggiunse. Stava mangiando un sacchetto di patatine di Burger King. Shadow lo riconobbe immediatamente: aveva preso posto sul sedile posteriore della sua auto, quando erano usciti dalla House on the Rock per andare al ristorante, e il suono che aveva prodotto canticchiando era stato così profondo da far vibrare la macchina. Adesso sfoggiava una lunga barba bianca che lo faceva sembrare più vecchio.

Il giovanotto si ripulì le mani sui jeans e poi ne tese una a Shadow. «Ho saputo della morte del Padre» disse. «Pagheranno per questo, pagheranno caro.»

«Wednesday tuo padre?» domandò Shadow.

«Il Padre Universale» rispose l’altro. Aveva una voce profonda, gutturale. «Diglielo, dillo a tutti che nel momento del bisogno la mia gente ci sarà.»

Chernobog si liberò di un filo di tabacco che gli si era infilato tra i denti e lo sputò sul fango ghiacciato. «E quanti sareste in tutto? Dieci? Venti?»

La barba dell’uomo a botte scintillò. «Dieci di noi non valgono forse come cento dei loro? Chi può tenere testa alla mia gente, in battaglia? Comunque ai margini delle città viviamo numerosi. Qualcuno vive sulle montagne. Ce ne sono altri nelle Catskills, qualcuno anche nei parchi dei divertimenti in Florida. Tengono le loro asce affilate. Accorreranno a un mio richiamo.»

«Allora chiamali, Elvis» disse il signor Nancy. O perlomeno a Shadow sembrò che dicesse Elvis. Nancy si era cambiato e al posto dell’uniforme da sceriffo indossava un cardigan pesante, marrone, pantaloni di velluto a coste e mocassini di cuoio. «Chiamali. È quello che avrebbe desiderato il vecchio bastardo.»

«L’hanno tradito. L’hanno ammazzato. Ho riso dei suoi discorsi, invece mi sbagliavo. Nessuno di noi è al sicuro» disse l’uomo con un nome simile a Elvis. «Potete contare su di noi.» Diede a Shadow una pacca gentile sulla spalla che lo mandò quasi a gambe all’aria. Era come essere sfiorati delicatamente da una di quelle enormi sfere che vengono usate per le demolizioni.

Chernobog si stava guardando intorno. «Scusate la domanda, quale sarebbe il nostro nuovo mezzo di trasporto?»

L’uomo a botte indicò un pulmino. «Eccolo lì» disse.

Chernobog sbuffò incredulo. «Quello?»

Era un pulmino Volkswagen degli anni Settanta. Sul lunotto posteriore c’era la decalcomania di un arcobaleno.

«È un ottimo mezzo. Ed è l’ultima cosa che si aspettano di vedervi guidare.»

Chernobog fece il giro del pulmino. Poi cominciò a tossire, una tosse cavernosa da vecchio, da fumatore alle cinque del mattino. Si raschiò la gola, sputò, si massaggiò il petto per alleviare il dolore. «Sì. L’ultimo dei mezzi di trasporto sospettabili. Che cosa succede quando ci ferma la polizia in cerca di hippy e marijuana? Eh? Non siamo qui per un viaggio psichedelico, dobbiamo essere il più anonimi possibile.»

L’uomo con la barba aprì una portiera del pulmino. «Se vi fermano, danno un’occhiata, vedono che non siete hippy e vi lasciano andare. È un travestimento perfetto. Ed è l’unica vettura che sono riuscito a trovare con così poco preavviso.»

Chernobog sembrava intenzionato a polemizzare ancora, ma il signor Nancy intervenne con i suoi modi affabili. «Elvis, ci sei stato di grande aiuto. Te ne siamo grati. La nostra macchina però deve tornare a Chicago.»

«La lasceremo a Bloomington» rispose l’altro. «Se ne occuperanno i lupi. Non preoccupatevene.» Si rivolse a Shadow. «Ti faccio nuovamente le mie condoglianze e condivido il tuo dolore. Buona fortuna, se la veglia funebre toccherà a te, hai tutta la mia ammirazione e la mia pietà.» Gli strinse una mano con la sua, sembrava un guantone da baseball. Shadow sentì un gran male. «Diglielo al cadavere, quando lo vedi. Digli che Alviss figlio di Vindalf non cederà.»

Il pulmino odorava di patchouli, di incenso e tabacco. L’interno delle portiere e il pavimento erano rivestiti con una moquette rosa pallido.

«Chi era quello?» chiese Shadow mentre ingranava la prima per scendere dalla rampa.

«Te l’ha detto, è Alviss figlio di Vindalf. Il re dei nani. Il più grosso, il più forte e il più autorevole esponente del popolo dei nani.»

«Ma non è un nano» insistette Shadow. «E alto almeno uno e ottantacinque.»

«Il che fa di lui un gigante, per il suo popolo» disse Chernobog da dietro. «Il nano più alto d’America.»

«Cos’era quella storia della veglia?» chiese Shadow.

I due uomini non risposero. Shadow gettò un’occhiata al signor Nancy che fissava ostinatamente dal finestrino.

«Dunque? Ha parlato di una veglia. Avete sentito anche voi.»

Fu Chernobog a rompere il silenzio. «Non sei obbligato a farlo.»

«Fare cosa?»

«La veglia. Alviss parla troppo. Tutti i nani parlano troppo. Non pensarci neanche. Meglio che lasci perdere.»


Andare verso sud era come viaggiare nel tempo. C’era sempre meno neve, e il mattino dopo era scomparsa del tutto, quando entrarono in Kentucky. Lì l’inverno era finito, e stava già arrivando la primavera. Shadow cominciò a fantasticare su possibili equazioni… forse a ogni cento chilometri percorsi verso sud corrispondeva un giorno nel futuro.

Ne avrebbe parlato ai suoi compagni di viaggio, se il signor Nancy non fosse stato addormentato sul sedile accanto al suo mentre Chernobog, dietro, russava sonoramente.

Il tempo gli sembrava una costruzione mentale mutevole, in quel momento, un’illusione prodotta da lui stesso, guidando. Scoprì di essere via via sempre più consapevole, quasi dolorosamente consapevole, della presenza degli uccelli e di altri animali: vedeva i corvi sul ciglio della strada, o sul percorso del pulmino, che banchettavano con gli animali investiti; stormi di uccelli che attraversavano il cielo in formazioni che sembravano figure decifrabili, gatti che, sdraiati in un prato o appollaiati su un recinto, li guardavano passare.

Chernobog si svegliò sbuffando e si mise lentamente seduto. «Ho fatto uno strano sogno» disse. «Ho sognato di essere Bielebog, in realtà. Da sempre il mondo immagina che siamo due, il chiaro e l’oscuro, invece adesso che siamo entrambi vecchi scopro di esserci stato sempre e solo io, davo i doni alla gente e poi glieli portavo via.» Staccò il filtro da una Lucky Strike, infilò la sigaretta tra le labbra e l’accese.

Shadow abbassò il finestrino.

«Non ha paura del cancro ai polmoni?» gli chiese.

«Io sono il cancro. Non ho paura di me stesso.»

Nancy parlò. «Quelli come noi non si ammalano di cancro. Non ci viene l’arteriosclerosi né il morbo di Parkinson o la sifilide. Siamo duri da ammazzare.»

«Wednesday l’hanno ammazzato» disse Shadow.

Si fermò a fare benzina e poi, sebbene fosse molto presto, parcheggiò vicino a un ristorante per fare colazione. Non appena entrarono il telefono pubblico all’ingresso cominciò a squillare.

Fecero l’ordinazione a una signora anziana con un sorriso preoccupato che al loro arrivo stava leggendo un’edizione economica di What My Heart Meant di Jenny Kerton. La donna sospirò, andò a rispondere e disse «Sì». Poi si guardò alle spalle e aggiunse: «Sissignore. Sembra che siano arrivati. Aspetti un momento» e si avvicinò al signor Nancy.

«È per lei» disse.

«Grazie» rispose Nancy. «Signora, le mie patatine le voglio molto croccanti. Quasi bruciate.» Si avvicinò al telefono. «Sono io.»

«E cosa ti fa pensare che sia così stupido da fidarmi?» disse.

«Posso arrivarci. So dov’è.»

«Sì. Certo che lo vogliamo. Sai bene che lo vogliamo. E so anche che voi volete liberarvene. Perciò non raccontarmi stronzate.»

Riagganciò il ricevitore e tornò al tavolo.

«Chi era?» domandò Shadow.

«Non l’ha detto.»

«Che cosa volevano?»

«Propongono una tregua per consegnarci il corpo.»

«Mentono» disse Chernobog. «Ci vogliono attirare in trappola e poi ucciderci. Come hanno fatto con Wednesday. È quello che facevo anch’io, una volta» aggiunse con un tono tetramente orgoglioso.

«La consegna avverrà in campo neutrale» disse Nancy. «Completamente neutrale.»

Chernobog ridacchiò. Produsse un suono che somigliava a quello di un pallina di metallo che rimbalza in un teschio vuoto. «Anche questo dicevo una volta. Venite in un posto neutrale, dicevo, e poi durante la notte li assalivamo e li ammazzavamo tutti. Quelli sì che erano bei tempi.»

Il signor Nancy scrollò le spalle. Si dedicò alle sue patatine quasi bruciate e fece una smorfia di approvazione. «Mmm. Ottime.»

«Non ci possiamo fidare di loro» disse Shadow.

«Senti, sono più vecchio di te, più furbo e anche più bello» ribatté il signor Nancy picchiando sul fondo della bottiglia di ketchup e coprendo le patatine di salsa. «Mi posso procurare più fica in un pomeriggio di quella che tu riesci a rimediare in un anno. Ballo come un angelo, combatto come un orso braccato, sono astuto come una volpe e canto come un usignolo…»

«E…»

Nancy fissò Shadow con i suoi occhi scuri. «E loro devono disfarsi del corpo almeno quanto noi dobbiamo riprendercelo.»

«Non esiste un posto neutrale fino a questo punto» disse Chernobog.

«Esiste» ribatté il signor Nancy. «È il centro.»


Determinare quale sia il centro di qualcosa, qualunque cosa, è a dir poco problematico. Con le cose vive — gli esseri umani, per esempio, o i continenti — il problema diventa insolubile. Qual è il centro dell’uomo? E di un sogno? Nel caso degli Stati Uniti continentali, bisogna calcolare anche l’Alaska, quando si cerca il centro? Le Hawaii? Negli anni Trenta del ventesimo secolo qualcuno costruì un enorme modellino in cartone degli Stati Uniti, quarantotto stati, e per trovarne il centro lo appoggiò su uno spillo, fino a quando non riuscì a farlo stare in equilibrio.

Come più o meno chiunque avrebbe potuto immaginare, il centro esatto degli Stati Uniti continentali si trovava ad alcuni chilometri da Lebanon, Kansas, sul terreno dell’allevamento di suini di Johnny Grib. Negli anni Trenta gli abitanti di Lebanon si dichiararono pronti a piazzare un monumento in mezzo alla fattoria, ma Johnny Grib disse che non voleva milioni di turisti sul suo terreno, gli avrebbero spaventato i maiali, perciò il monumento dedicato al centro geografico degli Stati Uniti venne collocato tre chilometri a nord della cittadina. Costruirono un parco e in mezzo vi eressero un monumento di pietra con tanto di targa in ottone. Asfaltarono la strada fino alla città e, certi dell’afflusso turistico, accanto al monumento fecero costruire un motel. Poi restarono ad aspettare.

I turisti non arrivavano. Non arrivò nessuno.

Oggi il luogo è un triste parchetto con una camper-chiesetta che non sarebbe neanche in grado di ospitare una cerimonia funebre, e un desolato motel le cui finestre sembrano occhi ciechi.

«E così» concluse il signor Nancy mentre entravano a Humansville, Missouri (1084 ab.) «il centro esatto dell’America è un minuscolo parco in rovina, una chiesa vuota, un mucchio di pietre e un motel abbandonato.»

«Un allevamento di porci» disse Chernobog. «Hai appena detto che il centro vero era un allevamento di maiali.»

«Il problema non è quale sia il centro esatto» rispose il signor Nancy, «ma quale la gente pensa che sia. In ogni caso è tutto immaginario. Per questo è importante. La gente litiga soltanto su cose immaginarie.»

«La gente come me?» chiese Shadow. «O quelli come voi?»

Nancy non rispose e si sentì Chernobog ridacchiare, o forse sbuffare.

Shadow cercò di mettersi comodo, dietro. Aveva dormito troppo poco, ultimamente, e provava una brutta sensazione allo stomaco. Una sensazione peggiore di quella provata in prigione, peggiore di quella provata quando Laura gli aveva proposto di partecipare alla rapina. Peggio di qualsiasi cosa. Gli formicolava la nuca, aveva la nausea e, più volte, a ondate, paura.

Nancy uscì a Humansville, parcheggiò vicino a un supermercato. Entrò seguito da Shadow. Chernobog rimase ad aspettarli nel parcheggio fumando una sigaretta.

Un ragazzino con i capelli chiari stava riempiendo gli scaffali dei cereali.

«Ciao» lo salutò il signor Nancy.

«Ciao» rispose il ragazzo. «È vero? L’hanno ucciso davvero?»

«Sì» rispose Nancy. «L’hanno ucciso.»

Il ragazzo posò con forza sullo scaffale alcune scatole di Cap’n Crunch. «Pensano di poterci schiacciare come scarafaggi» disse. Portava intorno al polso un bracciale d’argento annerito. «Non è così facile, vero?»

«No» rispose il signor Nancy. «Non lo è.»

«Io ci sarò, signore» disse il giovane con gli occhi azzurro chiaro che fiammeggiavano.

«Lo so, Gwydion» disse Nancy.

Poi comperò alcune bottiglie grandi di Royal Crown Cola, sei rotoli di carta igienica, un pacchetto di sigaretti neri dall’aspetto pericoloso, qualche banana e una confezione di gomme da masticare Doublemint. «È un bravo ragazzo. È arrivato qui nel settimo secolo. Dal Galles.»

Il pulmino serpeggiò prima verso ovest e poi verso nord. La primavera cedette un’altra volta il posto alla fine dell’inverno. Il Kansas aveva il grigio tetro delle nuvole più solitarie, delle finestre vuote e dei cuori smarriti. Shadow era diventato esperto nella caccia alle stazioni radiofoniche, mediando tra le esigenze del signor Nancy, che apprezzava i microfoni aperti e la musica ballabile, e Chernobog, che preferiva la musica sinfonica — più tetra era e più sembrava contento — intervallata dai programmi delle stazioni evangeliche più fondamentaliste. A Shadow piacevano i pezzi classici pop.

Verso la fine del pomeriggio, su richiesta di Chernobog, si fermarono alla periferia di Cherryvale, Kansas (2464 ab.) e lì camminarono fino a un grande prato fuori città dove, tra gli alberi, c’erano ancora tracce di neve e l’erba aveva il colore della polvere.

«Aspettatemi qui» disse Chernobog.

Si avviò da solo in mezzo al prato e si fermò, nel vento di fine febbraio, per un po’. Poi rialzò la testa e cominciò a gesticolare.

«Sembra che stia parlando con qualcuno» disse Shadow.

«Sono fantasmi» rispose il signor Nancy. «In questo posto lo veneravano, un centinaio di anni fa. Facevano sacrifici di sangue, in suo onore, libagioni a colpi di martello. Dopo qualche tempo gli abitanti della cittadina cominciarono a farsi un’idea del perché tanti stranieri di passaggio non tornavano più. Qui venivano nascosti i corpi, una parte, perlomeno.»

Chernobog tornò. Sembrava che i suoi baffi fossero diventati più scuri, e tra i capelli grigi c’erano alcune ciocche nere. Sorrise, mettendo in mostra il dente di ferro. «Ah, come mi sento bene. Certe cose resistono, e il sangue resiste più a lungo di tutto.»

Tornarono tutti e tre insieme dove avevano parcheggiato il pulmino Volkswagen. Chernobog accese una sigaretta senza tossire. «Lo facevano con la mazza» spiegò. «Votan, lui parlava di forche e di lance, ma per me c’è una cosa sola…» Allungò un dito giallo di nicotina e batté con forza sulla fronte di Shadow, proprio in mezzo.

«La prego di non farlo» gli disse lui cortesemente.

«La prego di non farlo» gli rifece il verso Chernobog. «Un giorno prenderò la mia mazza e farò molto di peggio, amico mio, te lo ricordi?»

«Sì» rispose Shadow, «però se mi batte un’altra volta sulla fronte le spezzo la mano.»

Chernobog sbuffò. Poi disse: «Dovrebbero essere grati, quelli di qui. È diventato un posto molto potente. Già trent’anni dopo aver scacciato i miei, questa terra dava i natali alla più grande attrice del cinema che ci sia mai stata. La più grande».

«Judy Garland?» chiese Shadow.

Chernobog fece seccamente segno di no con la testa.

«Sta parlando di Louise Brooks» spiegò il signor Nancy.

Shadow decise di non indagare su chi fosse Louise Brooks. Invece disse: «Sentite un po’, quando Wednesday è andato a incontrarli avevano patteggiato una tregua».

«Sì.»

«E adesso noi stiamo andando a ritirare il suo corpo avendo patteggiato una tregua.»

«Sì.»

«E sappiamo che mi vogliono morto o comunque fuori gioco.»

«Ci vogliono tutti morti» disse Nancy.

«Quello che non capisco è perché riteniamo che oggi giocheranno pulito, se con Wednesday non l’hanno fatto.»

«Perché ci incontriamo al centro. È…» disse Chernobog. Aggrottò la fronte e poi continuò: «Come si dice il contrario di sacro?».

«Profano» rispose Shadow senza riflettere.

«No» disse Chernobog. «Voglio dire un posto che è meno sacro di qualsiasi altro posto al mondo. Con una sacralità negativa. Posti dove non si può costruire nessun tempio. Dove la gente non vuole andare e se ci va scappa appena può. Posti dove gli dèi mettono piede soltanto se ci sono costretti.»

«Non saprei» disse Shadow. «Non mi sembra che ci sia una parola per dirlo.»

«Tutta l’America è un po’ così» continuò Chernobog. «Per questo non siamo benvenuti. Però il centro è il punto peggiore. È come un campo minato dove tutti ci muoviamo con troppa circospezione per osare rompere la tregua.»

Avevano raggiunto il pulmino. Chernobog diede a Shadow una pacca affettuosa sul braccio. «Sta’ tranquillo» gli disse in tono cupo ma rassicurante. «Nessuno ti ucciderà. Nessuno oltre a me.»


Quella sera stessa, prima che facesse completamente buio, Shadow trovò il centro dell’America su un’insignificante collina a nordovest di Lebanon. Fece il giro della chiesetta su ruote e del monumento di pietra e alla vista del motel anni Cinquanta costruito al limitare del parco ebbe un tuffo al cuore. Davanti al motel era parcheggiata una Humvee nera, sembrava una jeep riflessa in uno specchio deformante, tarchiata e insulsa, brutta come un’autoblindo. Dentro l’edificio non c’era nemmeno una luce accesa.

Parcheggiarono anche loro e in quel momento un uomo con uniforme e berretto da autista uscì dal motel illuminato dai fari del pulmino. Si portò una mano alla visiera per salutarli, salì sulla Humvee e partì.

«Macchina grossa, cazzo piccolo» disse il signor Nancy.

«Credete che ci siano i letti, in questo posto?» chiese Shadow. «Non so da quanto non dormo in un letto. Qui sembra che aspettino solo la squadra dei demolitori.»

«Il motel appartiene ad alcuni cacciatori texani» spiegò il signor Nancy. «Ci vengono una volta all’anno non si sa a cacciare cosa. E impediscono che venga raso tutto al suolo.»

Scesero. Davanti al motel li aspettava una donna che Shadow non aveva mai visto. Era perfettamente truccata, perfettamente pettinata. Gli fece venire in mente quelle giornaliste dei programmi televisivi mattutini che passano il tempo sedute in studi che non assomigliano neanche lontanamente a un vero soggiorno.

«Lieta di conoscervi» disse. «Dunque… lei dev’essere Chernobog. Ho sentito molto parlare di lei. E lei è Anansi, sempre pronto a combinarne una, eh? Vecchio buontempone. E tu sei Shadow. Ci hai fatto fare una bella corsa, vero?» Gli strinse la mano con una presa decisa e lo guardò negli occhi. «Io sono Media. Molto piacere. Mi auguro di poter concludere la faccenda che ci attende nel modo migliore possibile.»

Le porte d’ingresso si spalancarono. «Non so perché, Toto» disse il ragazzo grasso che Shadow aveva conosciuto sulla limousine, «ma credo che questo non sia più il Kansas.»

«Invece lo è» ribatté il signor Nancy. «Anzi, oggi l’abbiamo attraversato praticamente tutto. Accidenti se è piatto.»

«Qui manca l’energia elettrica e non c’è acqua calda» disse il ragazzo grasso. «E voi tre avete bisogno di un bel bagno, senza offesa. Puzzate come se foste stati su quel pulmino per una settimana.»

«Non vedo la necessità di dire certe cose» intervenne la donna con garbo. «Siamo tra amici. Entrate, vi mostrerò dove si trovano le vostre stanze. Noi abbiamo occupato le prime quattro. Il vostro defunto amico è nella quinta. Tutte le altre sono vuote… potete scegliere quelle che preferite. Temo che non sia esattamente il Four Seasons, ma del resto che cosa lo è?»

Tenne aperta la porta per farli passare. Nell’ingresso c’era odore di muffa, polvere e decomposizione.

C’era anche un uomo, seduto nella penombra. «Avete fame?» chiese.

«Io ho sempre fame» rispose il signor Nancy.

«L’autista è andato a prendere hamburger per tutti» disse l’uomo. «Torna tra poco.» Alzò gli occhi. Faceva troppo buio per guardarsi in faccia, però disse ugualmente: «Tu sei Shadow, eh? Lo stronzo che ha ammazzato Woody e Stone?».

«No» rispose Shadow. «Li ha uccisi qualcun altro. Io ti conosco.» Era vero. Era stato dentro la sua testa. «Devi essere Town. Sei poi riuscito a scoparti la vedova di Wood?»

Town cadde dalla sedia. In un film sarebbe stata una scenetta divertente, nella vita reale fu soltanto una penosa goffaggine. Si rialzò di scatto e si avvicinò a Shadow che lo guardò dall’alto in basso. «Non cominciare niente se non sei pronto ad arrivare fino in fondo.»

Il signor Nancy gli mise una mano sul braccio. «La tregua, ricordi? Siamo nel centro.»

Town si allontanò e andò ad appoggiarsi al banco da cui prese tre chiavi. «In fondo al corridoio» disse. «Prendete.»

Consegnò le chiavi al signor Nancy e sparì tra le ombre del corridoio. Si sentì il rumore di una porta aperta e richiusa con un tonfo.

Nancy diede una chiave a Shadow e una a Chernobog. «Abbiamo una torcia, sul pulmino?» chiese Shadow.

«No» rispose Nancy. «È soltanto buio. Non devi aver paura del buio.»

«Non è il buio che mi fa paura, ma la gente che ci si nasconde.»

«Il buio è una bella cosa» disse Chernobog. Non sembrava avere alcuna difficoltà a vedere dove metteva i piedi e li condusse lungo il corridoio immerso nelle tenebre infilando le chiavi nelle toppe senza esitazioni. «Io sono alla dieci» disse. E poi aggiunse: «Media. Mi sembra di aver già sentito questo nome. Non è la donna che ha ucciso i figli?».

«La donna è un’altra» rispose il signor Nancy. «Il movente lo stesso.»

Nancy era nella stanza numero otto e Shadow di fronte, alla nove. La camera puzzava di umidità, era polverosa e abbandonata. C’era una rete e un materasso senza lenzuola. La luce dell’imbrunire che entrava dalla finestra la rischiarava debolmente. Shadow sedette sul materasso, si tolse le scarpe e si sdraiò. Aveva guidato troppo, negli ultimi giorni.

Forse dormì.


Stava camminando.

Un vento freddo gli incollava addosso i vestiti. I minuscoli fiocchi di neve erano quasi cristalli in polvere agitati dal vento.

C’erano alberi spogli, invernali. C’erano alte montagne su ogni lato. Era un tardo pomeriggio d’inverno: cielo e neve avevano raggiunto la stessa tonalità di rosso profondo. Più avanti — stabilire le distanze risultava impossibile in quella luce - guizzavano gialle e arancioni le fiamme di un falò.

Un lupo grigio lo precedeva lentamente.

Shadow si fermò. Anche il lupo sì fermò, e si voltò ad aspettarlo. Aveva un occhio che luccicava, di un verde giallastro. Shadow scrollò le spalle e ripartì in direzione delle fiamme. Il lupo riprese il suo lento incedere.

Il falò bruciava in un boschetto. Dovevano essere almeno duecento alberi, in due filari. Appese agli alberi c’erano delle sagome, e in fondo un edificio che somigliava vagamente a una barca capovolta. Era di legno, coperta di creature e facce lignee — draghi, grifi, troll e cinghiali - che danzavano al bagliore incerto delle fiamme.

Le fiamme erano talmente alte che Shadow non riusciva ad avvicinarsi al falò. Il lupo lo aggirò piano piano.

Al suo posto, sull’altro lato, spuntò un uomo che si appoggiava a un lungo bastone.

«Siamo a Uppsala, in Svezia» gli disse con una voce che gli era familiare. «Un migliaio di anni fa.»

«Wednesday?»

L’uomo continuò a parlare come se Shadow non esistesse. «Ogni anno, prima, e poi quando cominciò la decadenza e divennero indolenti ogni nove, venivano qui a fare i sacrifici. Il sacrificio dei nove. Ogni giorno, per nove giorni, appendevano nove animali agli alberi del boschetto. Uno degli animali era sempre un uomo.»

Si allontanò dal fuoco e Shadow lo seguì in direzione degli alberi. Avvicinandosi vide che le sagome appese ai rami si delineavano: gambe, occhi, lingue sporgenti e teste. Shadow scosse il capo: c’era qualcosa di minacciosamente triste in un toro appeso per il collo, uno spettacolo talmente surreale da risultare ridicolo. Passò davanti a un cervo, un cane lupo, un orso bruno e un baio con la criniera bianca, poco più grande di un pony. Il cane era ancora vivo: a intervalli di pochi secondi scalciava spasmodicamente e, con la corda intorno al collo, emetteva un fievole guaito.

L’uomo che Shadow stava seguendo impugnò il lungo bastone, che in realtà era una lancia, ma se ne rese conto solo quando la vide in movimento, e aprì la pancia del cane con un colpo secco, dall’alto in basso. I visceri fumanti si rovesciarono sulla neve. «Dedico questa morte a Odino» disse l’uomo formalmente.

«Non è che un gesto» spiegò voltandosi verso Shadow. «Ma i gesti significano tutto. La morte di un cane simboleggia la morte di tutti i cani. Mi davano nove uomini, però rappresentavano tutta l’umanità, tutto il sangue, tutto il potere. Non durò. Un giorno il sangue smise di scorrere. La fede senza il sacrificio basta fino a un certo punto. Deve scorrere il sangue.»

«Ti ho visto morire» disse Shadow.

«Quando si tratta di dèi» rispose la figura — adesso Shadow era proprio sicuro che si trattasse di Wednesday, nessun’altro metteva nelle parole quella gioia cinica e irritante — «non è la morte, ciò che conta. Conta la possibilità di risorgere. E quando il sangue scorre…» Indicò gli animali, gli uomini impiccati agli alberi.

Shadow non riusciva a capire se gli esseri umani gli sembravano più spaventosi degli animali: perlomeno gli uomini avevano capito a cosa stavano andando incontro. Puzzavano di alcol, come se fossero stati autorizzati ad anestetizzarsi, prima di pendere dalla forca, mentre gli animali erano stati semplicemente spinti a frustate fino all’albero, appesi ancora vivi e terrorizzati. Gli uomini sembravano giovani: nessuno aveva più di vent’anni.

«Chi sono, io?» domandò Shadow.

«Tu? Tu eri una possibilità. Parte di una grande tradizione. Anche se siamo entrambi troppo coinvolti per non morire, se necessario. Giusto?»

«Tu chi sei?» domandò ancora Shadow.

«La parte più difficile è la mera sopravvivenza» disse l’altro. Con uno strano orrore Shadow si rese conto che le fiamme del falò erano alimentate da ossa: costole e teschi con le orbite svuotate dal fuoco spuntavano qui e là tracciando nella notte scie colorate, verdi, gialle e blu, che crepitavano e si arroventavano. «Tre giorni appeso all’albero, tre nell’aldilà, tre per ritrovare la strada del ritorno.»

Le fiamme bruciavano troppo alte e luminose perché Shadow riuscisse a guardarle. Abbassò gli occhi tra il buio degli alberi.

Un colpo alla porta: adesso era la luce della luna a entrare dalla finestra. Shadow si mise a sedere con un sobbalzo. La voce di Media disse: «La cena è servita».

Si infilò le scarpe e uscì in corridoio. Qualcuno aveva trovato delle candele e la hall era rischiarata da una luce fioca. L’autista della Humvee entrò con un vassoio di cartone e un grosso sacchetto di carta. Indossava una lunga giacca e il berretto con visiera della divisa.

«Scusate per l’attesa» disse con voce roca. «Ho preso lo stesso menu per tutti: due hamburger, un sacchetto grande di patatine, Coca-Cola e apple pie. Io vado a mangiare in macchina.» Appoggiò i contenitori e uscì. La hall si riempì dell’odore di fast food. Shadow prese il sacchetto e distribuì i panini, i tovaglioli, le bustine di ketchup.

Mangiarono in silenzio mentre le fiamme delle candele tremolavano e la cera si consumava sibilando.

Shadow vide che Town lo guardava storto e sistemò la sedia in modo da dare le spalle al muro. Media mangiava il suo hamburger tenendo affettatamente il tovagliolo vicino alla bocca per non sporcarsi.

«Oh, fantastico» disse il ragazzo grasso. «Sono praticamente freddi.» Portava ancora gli occhiali da sole, una cosa inutile e sciocca, pensò Shadow, data l’oscurità.

«Mi dispiace» disse Town, «il McDonald’s più vicino è in Nebraska.»

Finirono i panini e le patatine tiepidi. Il ragazzo grasso addentò l’apple pie e il ripieno gli colò sul mento. Sorprendentemente era ancora caldo. «Ahi» esclamò. Si pulì con una mano leccandosi le dita. «Brucia! Bisognerebbe fargli una mega causa, per questo ripieno.»

Shadow gli avrebbe dato volentieri un pugno. Ne aveva voglia fin da quando l’altro l’aveva fatto colpire dal suo scagnozzo sulla limousine, dopo il funerale di Laura. Cercò di non pensarci. «Perché non prendiamo il corpo di Wednesday e ce ne andiamo?» chiese.

«A mezzanotte» risposero insieme il signor Nancy e il ragazzo grasso.

«Bisogna fare le cose secondo le regole» aggiunse Chernobog.

«Già» ribatté Shadow. «Peccato che nessuno me le spieghi. Non fate che parlarmi di queste cazzo di regole ma io non so neanche a che gioco state giocando.»

«Così abbiamo un asso nella manica» disse Media in tono brioso, «un vantaggio.»

«Secondo me è tutta una stronzata» disse Town. «Però se le regole li fanno contenti, bene, allora il mio dipartimento è contento e siamo contenti tutti.» Trangugiò rumorosamente la sua Coca-Cola. «Aspettiamo mezzanotte. Voi vi prendete il corpo e ve ne andate. Siamo tutti pappa e ciccia e vi facciamo anche ciao con la manina. Poi ricominciamo a darvi la caccia come ai topi, perché altro non siete.»

«Ehi» disse il ragazzo grasso rivolgendosi a Shadow, «mi è venuta in mente una cosa. Ti avevo detto di dire al tuo capo che ormai era superato, che apparteneva al passato. L’hai fatto?»

«Sì» disse Shadow. «E sai che cosa mi ha risposto? Mi ha risposto di dire a quel moccioso, se l’avessi rivisto, di ricordarsi che il futuro di oggi è il passato di domani.» Wednesday non aveva mai detto niente del genere, però a quella gente piacevano i cliché. Le lenti scure degli occhiali riflettevano i bagliori delle candele, come sguardi.

Il ragazzo grasso disse: «Questo posto è una vera fogna. Non c’è nessun potere. Non c’è campo. Voglio dire che se ti devi ricaricare, qui è come essere all’età della pietra». Finì di bere la bibita con la cannuccia, lasciò cadere il bicchiere sul tavolo e se ne andò.

Shadow si protese a raccogliere i rifiuti del ragazzo grasso per metterli nel sacchetto di carta. «Vado a vedere il centro dell’America» annunciò. Si alzò e uscì nella notte. Il signor Nancy lo seguì. Passeggiarono insieme senza parlare nel piccolo parco fino al monumento di pietra. Il vento soffiava a raffiche discontinue in tutte le direzioni. «Allora» disse Shadow, «adesso cosa succede?»

Una mezzaluna pallida li osservava sospesa nel cielo.

«Adesso faresti meglio a tornare in camera tua» rispose Nancy. «Chiudi la porta a chiave e cerca di dormire un po’. A mezzanotte ci consegnano il corpo. Poi leviamo le tende. Il centro non è stabile per nessuno.»

«Se lo dice lei.»

Nancy prese una boccata del suo sigaretto. «Non doveva andare così. Non doveva succedere niente di tutto ciò. Quelli come noi, sono…» Gesticolò con il sigaretto, come se gli servisse per trovare la parola giusta, poi lo usò per colpirla con un affondo «… elitari. Non siamo esseri socievoli. Neanch’io. Nemmeno Bacco. Non a lungo. Stiamo bene da soli, o nei nostri circoli esclusivi. Non ci troviamo bene con gli altri. Ci piace essere rispettati e venerati, a me piace che raccontino storie sul mio conto, storie in cui risalti la mia intelligenza. E una debolezza, lo so, sono fatto così. Ci piace essere importanti. In questi tempi bui invece non contiamo niente. Si assisterà alla nascita e alla caduta di altri dèi. Comunque questo rimane un paese che non tollera a lungo il divino. Brahma crea, Vishnu conserva, Shiva distrugge, e il terreno è sgombro perché Brahma possa ricominciare daccapo.»

«Che cosa sta cercando di dire?» domandò Shadow. «Che la lotta è finita? Basta con la guerra?»

Il signor Nancy sbuffò. «Ma sei fuori di testa? Hanno ucciso Wednesday. Lo hanno ammazzato e se ne vantano. Lo stanno raccontando in giro. Hanno trasmesso la scena su tutti i canali per chiunque avesse gli occhi per vedere. No, Shadow. La guerra è appena cominciata.»

Si piegò e spense il sigaretto configgendolo nella terra ai piedi del monumento come un’offerta votiva.

«Faceva sempre battute» disse Shadow. «Ora non ne fa più.»

«È difficile trovare la voglia di scherzare, adesso. Wednesday è morto. Vieni dentro?»

«Tra poco.»

Nancy si avviò verso il motel. Shadow allungò una mano per sfiorare il monumento. Passò le dita sulla targa di ottone freddo, poi si voltò incamminandosi verso la chiesetta bianca, ed entrò dalla porta spalancata. Nel buio sedette sulla panca più vicina all’ingresso, chiuse gli occhi e chinò la testa pensando a Laura, a Wednesday, al fatto di essere vivo.

Sentì un rumore secco alle spalle, uno stropiccio di piedi. Si voltò. Sulla soglia c’era una sagoma scura contro il cielo stellato. Un raggio di luna colpì il metallo della canna.

«Vuoi spararmi?» chiese.

«Cazzo… mi piacerebbe» disse Town. «E per autodifesa. Stavi pregando? Ti hanno convinto di essere dèi? Be’, non lo sono.»

«Non stavo pregando. Pensavo.»

«Secondo me» proseguì Town «sono mutazioni. Esperimenti evolutivi. Con un po’ di abilità ipnotica e qualche trucco riescono a far credere qualsiasi cosa. In verità non è niente di strabiliante. Robetta. E in fondo muoiono come tutti.»

«È sempre successo» rispose Shadow. Si alzò e Town fece un passo indietro. Shadow uscì dalla chiesetta distanziandolo. «Ehi» disse, «conosci Louise Brooks?»

«È un’amica tua?»

«No. Era un’attrice nata da queste parti.»

Town si fermò. «Forse ha cambiato nome e adesso si chiama Liz Taylor o Sharon Stone» suggerì volonteroso.

«Può darsi.» Shadow si incamminò in direzione del motel. Town gli stava alle calcagna.

«Tu dovresti essere in galera» gli disse. «Dovresti essere nel braccio della morte.»

«Non ho ucciso io i tuoi colleghi» rispose Shadow. «Però voglio dirti una cosa che mi hanno raccontato quand’ero dentro. Una cosa che non ho mai dimenticato.»

«Cioè?»

«In tutto il Vangelo c’è un solo uomo al quale Gesù promette personalmente un posto in Paradiso. Non a Pietro e Paolo né a nessuno degli altri ma a un ladrone inchiodato sulla croce. Perciò non disprezzare quelli che stanno nel braccio della morte. Magari sono al corrente di qualcosa che tu non sai.»

L’autista era in piedi vicino alla Humvee. «Buonanotte, signori» disse al loro passaggio.

«’notte» rispose Town. E poi, a Shadow: «Per quanto mi riguarda, io me ne sbatto di tutta questa storia. Faccio quello che mi ordina il signor World. E più facile».

Shadow percorse il corridoio fino alla camera numero nove.

Aprì la porta, entrò. «Scusi. Credevo che fosse la mia stanza.»

«Infatti» rispose Media. «Stavo aspettando te.» Al chiaro di luna della stanza intravedeva i capelli della donna, il viso pallido. Sedeva composta sul bordo del letto.

«Mi cercherò un’altra stanza.»

«Me ne vado subito» disse lei, «pensavo di cogliere l’occasione per farti un’offerta.»

«Va bene. Faccia la sua offerta.»

«Rilassati» disse lei con un tono suadente. «Sei così rigido, come se avessi inghiottito un manico di scopa. Senti, Wednesday è morto. Tu non devi niente a nessuno. Vieni con noi. Unisciti alla Squadra Vincente, è giunto il momento.»

Shadow rimase in silenzio.

«Possiamo renderti famoso, Shadow. Possiamo darti il controllo di ciò che la gente crede e dice, di quello che indossa e sogna. Vuoi diventare il prossimo Cary Grant? Noi siamo in grado di realizzare il tuo desiderio. Siamo in grado di farti diventare i futuri Beatles.»

«Come offerta, preferivo quella di vedere le tette di Lucy» disse Shadow. «Sempre che fosse lei.»

«Ah.»

«Adesso vorrei disporre della mia camera. Buonanotte.»

«Ovviamente» riprese la donna senza fare il minimo cenno di volersene andare, come se lui non avesse parlato, «possiamo anche agire al contrario. Possiamo farti andare tutto male e trasformarti per sempre in un tristo figuro. Potresti passare alla storia come un mostro, ricordato per sempre, sì, ma come Charles Manson, Hitler… cosa ne dici?»

«Senta signora, sono un po’ stanco, le sarei grato se se ne andasse.»

«Ti ho offerto il mondo» disse lei, «ricordatene, quando ti ritroverai a finire i tuoi giorni in una fogna.»

«Stia tranquilla, me ne ricorderò.»

La donna se ne andò lasciando una scia di profumo nell’aria. Shadow si sdraiò sul nudo materasso pensando a Laura, ma ogni immagine — Laura che gioca a frisbee, Laura che mangia una pallina di gelato senza cucchiaino, Laura che ridacchia sfilandogli davanti con la biancheria esotica comperata ad Anheim dov’era andata per un convegno sul futuro delle agenzie di viaggio — si trasformava sempre, nella sua mente, nell’immagine di Laura che succhia il cazzo a Robbie mentre un camion li travolge consegnandoli all’oblio. Poi gli sembrò di risentire le sue parole, e facevano ancora male.

Non sei morto, disse nel ricordo la voce pacata di Laura, però non sono così sicura che tu sia davvero vivo.

Bussarono alla porta. Shadow si alzò ad aprire. Era il ragazzo grasso. «Quegli hamburger» disse «erano schifosi. «Ma ci credi? Ottanta chilometri per il più vicino McDonald’s. Non avevo mai pensato che al mondo ci fosse un posto a ottanta chilometri dal più vicino McDonald’s.»

«Questa stanza sta diventando la Grand Central Station» disse Shadow. «Va bene, d’accordo, immagino che sarai venuto a offrirmi la libertà di Internet se passo dall’altra parte della barricata, o sbaglio?»

Il ragazzo grasso tremava. «No. Tu sei già spacciato. Tu… sei un manoscritto miniato in un gotico del cazzo. Non ti si potrebbe trovare un ipertesto nemmeno volendo. Io sono… sinaptico, tu sei sinottico…» Aveva uno strano odore, il ragazzo grasso. A Shadow tornò in mente il detenuto di cui non aveva mai saputo il nome nella cella di fronte alla sua che un giorno si era denudato completamente e aveva annunciato a tutti che era stato inviato a liberare i buoni come lui, per portarli su un’astronave d’argento fino a un pianeta perfetto. Dopo di che Shadow non lo aveva più visto. Il ragazzo grasso aveva lo stesso odore.

«Perché sei venuto nella mia camera?»

«Volevo parlare.» C’era un tono lamentoso nella sua voce. «E raccapricciante, la mia stanza. Solo per questo sono venuto. Ottanta chilometri per arrivare al più vicino McDonald’s, te l’immagini? Magari potrei restare qui da te.»

«E i tuoi amici della limousine? Quello che mi ha preso a pugni, per esempio? Perché non chiedi a lui di tenerti compagnia?»

«Qui i ragazzi non sono operativi. Siamo in una zona morta.»

«Manca ancora tempo a mezzanotte, e ancora di più all’alba. Forse è meglio se ti riposi un po’. Io ne ho bisogno.»

Il ragazzo grasso si limitò ad annuire e se ne andò.

Shadow chiuse la porta a chiave e tornò a sdraiarsi sul materasso.

Dopo qualche minuto cominciò il rumore. Gli ci volle un po’ per capire cos’era, aprì la porta e uscì in corridoio a verificare. Era il ragazzo grasso, nella sua stanza. Sembrava che stesse lanciando un oggetto enorme contro le pareti, e dal suono Shadow dedusse che l’oggetto doveva essere il suo corpo. «Sono poco!» singhiozzava, o forse «Sono porco». Shadow non riusciva a capire.

«Silenzio» sbraitò Chernobog dalla sua stanza in fondo al corridoio.

Shadow attraversò la hall e uscì dal motel. Era stanchissimo.

L’autista, in piedi accanto alla Humvee, era un’ombra scura con un berretto.

«Non riesce a dormire, signore?» chiese.

«No.»

«Vuole fumare una sigaretta?»

«No, grazie.»

«Le dispiace se fumo io?»

«Assolutamente no.»

L’autista accese con un Bic usa e getta e fu alla luce gialla della fiammella che Shadow lo vide in faccia, per la prima volta, in effetti e, riconoscendolo, cominciò a capire.

Conosceva quella faccia scarna. Sapeva che sotto il berretto con visiera c’erano i capelli color carota, tagliati a spazzola. Sapeva che se avesse sorriso, intorno alle labbra sarebbe apparso un reticolo di profonde cicatrici.

«Sembri in forma, ragazzo» disse.

«Low Key?» Shadow fissava circospetto il vecchio compagno di cella.

Le amicizie nate in prigione sono una bella cosa: ti aiutano a sopravvivere a luoghi atroci e a tempi bui. Però, davanti ai cancelli chiusi del penitenziario finiscono, e un vecchio compagno di cella che ricompare all’improvviso è, nel migliore dei casi, una fortuna con il rovescio della medaglia.

«Cazzo. Low Key Lyesmith» disse Shadow, e sentendo quello che aveva appena detto capì. «Loki» disse. «Loki Lie-Smith, fabbro di menzogne.»

«Sei lento» ribatté Loki, «però alla fine ci arrivi.» E mentre la bocca si piegava in un sorriso sfregiato, il suo sguardo ombroso sprigionava scintille.

Sedevano nella stanza di Shadow nel motel abbandonato, alle due estremità del letto. Dalla camera del ragazzo non arrivava più nessun rumore.

«Hai avuto fortuna a incontrarmi dentro» disse Loki. «Non ce l’avresti mai fatta a sopravvivere al primo anno, senza di me.»

«Perché non te ne sei andato quando ti pareva?»

«È più semplice scontare tutta la pena.» Dopo una pausa aggiunse: «Tu devi capire questa faccenda degli dèi. Non ha niente a che vedere con la magia. Riguarda te, ma nel senso di quello che la gente crede che tu sia. Riguarda il fatto di diventare l’essenza concentrata e ingigantita di te stesso. È come diventare tuono, o la potenza di un cavallo lanciato al galoppo, o la saggezza. Assorbì tutta la fede e diventi più grande, più forte, sovrumano. Ti cristallizzi». Si interruppe. «E poi un giorno si dimenticano di te, non credono più in te, non ti offrono sacrifici, se ne fregano, e in men che non si dica ti ritrovi a fare il gioco delle tre carte all’angolo tra Broadway e la Quarantatreesima.»

«Perché eri in cella con me?»

«Pura e semplice coincidenza.»

«E adesso fai l’autista per gli avversari.»

«Se vuoi definirli così. Dipende dal punto di vista. Per come la vedo io, faccio l’autista per la squadra vincente.»

«Però tu e Wednesday siete tutti e due… appartenete tutti e due al…»

«Al pantheon norreno? Apparteniamo entrambi al pantheon scandinavo. È questo che volevi dire?»

«Sì.»

«E dunque?»

Shadow esitò. «Dovevate essere amici, un tempo.»

«No? Mai stati amici. Non mi dispiace che sia morto. Ci impediva di andare avanti. Con la sua morte gli altri dovranno guardare in faccia la realtà: cambiare o soccombere, evolversi o perire. Lui non c’è più. La guerra è finita.»

Shadow lo guardò con aria perplessa. «Non puoi dire una stupidaggine simile» disse. «Sei sempre stato intelligente. La morte di Wednesday non metterà fine proprio a niente, anzi, spingerà tutti gli indecisi a saltare il fosso.»

«Mai mescolare metafore, Shadow. È una brutta abitudine.»

«Comunque è la verità. Cazzo. Con la sua morte, in un istante ha ottenuto quello che stava cercando di fare da mesi. Li ha fatti sentire tutti uniti. Ha dato loro qualcosa in cui credere.»

«Può darsi.» Loki scrollò le spalle. «Per quanto ne so io, dalla mia parte pensano tutti che con la scomparsa del piantagrane siano finite le grane. Comunque non sono affari miei. Io faccio l’autista.»

«Allora dimmi» riprese Shadow, «perché tutti si interessano a me? Si comportano come se fossi importante. Perché quello che faccio io deve avere qualche importanza?»

«Che sia dannato se ti posso rispondere. Per noi eri importante perché eri importante per Wednesday. In quanto alla ragione… credo che sia un altro dei piccoli misteri dell’esistenza.»

«Sono stufo di misteri.»

«Ah sì? A me pare che aggiungano qualcosa al mondo. Come un pizzico di sale nello stufato.»

«Così tu sei l’autista. Lavori per tutti?»

«Per chiunque abbia bisogno di me» disse Loki. «È un modo per guadagnarsi da vivere.»

Avvicinò il quadrante dell’orologio da polso agli occhi e premette un pulsante: una delicata luce azzurrognola gli illuminò il viso dandogli un aspetto stregato, stregonesco. «Mancano cinque minuti a mezzanotte» disse. «Vieni?»

Shadow fece un respiro profondo. «Vengo» rispose.

Percorsero il corridoio fino alla camera numero cinque.

Loki prese una scatola di fiammiferi dal taschino e ne accese uno usando l’unghia del pollice. Il bagliore improvvisò ferì gli occhi di Shadow. Lo stoppino di una candela si accese con un tremito. Poi un’altra. Loki ripeté l’operazione con un nuovo fiammifero continuando ad accendere i mozziconi di candela appoggiati sui davanzali, sulla testiera del letto e sul lavandino nell’angolo.

Il letto era stato spostato nel mezzo della stanza in modo che tutt’intorno ci fosse un po’ di spazio, tra il materasso e il muro. Era stato coperto con vecchie lenzuola del motel, piene di buchi e di macchie, e sopra le lenzuola giaceva Wednesday, perfettamente immobile.

Indossava il vestito chiaro che portava quando gli avevano sparato. Il lato destro della faccia, intatto, non era deturpato. La parte sinistra era uno sfigurato ammasso di carne, e sulla spalla e sul davanti della giacca c’erano macchie scure. Aveva le braccia distese lungo i fianchi. La sua espressione era tutt’altro che pacifica: sembrava ferito, ferito nell’anima; una ferita tremenda, profonda, piena di rabbia, odio e follia. E, a un certo livello, era un’espressione soddisfatta.

Shadow immaginò le abili mani del signor Jacquel che cancellavano quell’odio e quel dolore e ricostruivano il volto di Wednesday con cerone e cosmetici da impresario di pompe funebri, dandogli la pace e la dignità finali che perfino la morte gli aveva negato.

Comunque il corpo senza vita non sembrava più piccolo. E puzzava ancora leggermente di Jack Daniel’s.

Il vento delle pianure cominciava a soffiare: lo si sentiva ululare intorno al vecchio motel nel centro immaginario dell’America. Le fiammelle delle candele sul davanzale tremolarono.

Si sentirono dei passi lungo il corridoio. Qualcuno bussò a una porta dicendo «Facciamo in fretta, per favore. È arrivato il momento» e cominciarono a entrare tutti, a testa bassa.

Per primo Town, seguito da Media, dal signor Nancy e da Chernobog. Per ultimo il ragazzo grasso con ecchimosi recenti sulla faccia e le labbra in perenne movimento, come se stesse recitando qualcosa tra sé senza emettere suono. Shadow provò pena per lui.

Si disposero informalmente intorno al corpo, a distanza di un braccio uno dall’altro. L’atmosfera nella stanza era religiosa — religiosa in una maniera profonda e per Shadow completamente nuova. Gli unici suoni erano il vento e il crepitio delle candele.

«Siamo qui riuniti in un luogo senza dèi» cominciò Loki «per affidare il corpo di quest’individuo a coloro che ne disporranno in modo appropriato secondo il rito. Se qualcuno vuole dire qualcosa parli ora.»

«Io no di certo» disse Town. «Non l’ho mai incontrato, si può dire. E tutta questa storia non mi piace.»

Parlò Chernobog: «Le azioni hanno conseguenze. Lo sapete, vero? È soltanto l’inizio».

Il ragazzo grasso ridacchiò con una vocetta stridula, femminile. Disse: «D’accordo, d’accordo, ho capito». E tutto d’un fiato recitò:


Girando e girando nella spirale che si allarga

Il falco non può udire il falconiere;

Le cose crollano; il centro non può reggere…


Si interruppe di colpo, aggrottando la fronte. «Merda. Una volta la sapevo tutta.» Si sfregò le tempie con una smorfia e rimase in silenzio.

A quel punto tutti guardavano Shadow. Adesso il vento era un urlo e lui non sapeva cosa dire. Parlò: «È un ben misero momento. Metà dei presenti l’hanno ucciso o sono coinvolti nella sua morte. Ci consegnate il suo corpo. Benissimo. Era un irascibile vecchiaccio ma ho bevuto il suo idromele e lavoro ancora per lui. Nient’altro».

Media disse: «In un mondo dove si muore ogni giorno ritengo che sia importante ricordare che per ogni attimo di dolore che proviamo quando qualcuno ci lascia c’è un momento di gioia per un bimbo che nasce. Quel primo vagito è… magico, non trovate? Forse è difficile ammetterlo, ma gioia e dolore sono come il latte con i biscotti. Stanno bene insieme. Credo che dovremmo meditare tutti un attimino su queste parole».

Il signor Nancy si schiarì la gola e disse: «A quanto pare lo devo dire io, visto che nessun altro lo farà. Ci troviamo al centro di una terra che non ha tempo per gli dèi, e qui nel suo centro ne ha meno che mai. È una terra di nessuno, un luogo dove si osserva una tregua d’armi, e noi la rispettiamo. Non abbiamo scelta. Quindi voi ci consegnate il corpo del nostro amico. Noi lo accettiamo. Pagherete per questo, morte con morte, sangue per il sangue versato».

Town disse: «In ogni caso se ve ne andaste a casa a spararvi un colpo in testa risparmiereste tempo e fatica. Potreste fare a meno del mediatore».

«Vaffanculo» gli rispose Chernobog. «Vaffanculo tu e tua madre e il cavallo con cui sei arrivato. Tu non morirai nemmeno in battaglia. Nessun guerriero berrà il tuo sangue. Non sarà una creatura vivente a prendere la tua vita. Farai una fine miserabile. Creperai con un bacio sulla bocca e una menzogna nel cuore.»

«Piantala, vecchio» disse Town.

«La torbida corrente di sangue è scatenata, ovunque» intervenne il ragazzo grasso. «Credo che continui così.»

Il vento continuava a ululare.

«Prendetevelo» disse Loki. «È vostro. Abbiamo finito. Portate via il vecchio bastardo.»

Fece un gesto e Town, Media e il ragazzo grasso uscirono. Sorrise a Shadow: «Nessun uomo può dirsi felice, vero, ragazzo…?». Poi se ne andò anche lui.

«Adesso cosa succede?» chiese Shadow.

«Adesso lo prendiamo e ce lo portiamo via.».

Avvolsero il corpo in un lenzuolo del motel, lo avvolsero bene nel sudario improvvisato perché non si vedesse e per poterlo trasportare. I due uomini anziani si avvicinarono uno alla testa e uno ai piedi del cadavere, ma Shadow disse: «Lasciatemi provare». Si piegò sulle ginocchia, infilò le braccia sotto la sagoma e se la caricò sulle spalle. Si raddrizzò e trovò l’equilibrio. «Va bene» disse. «Ce l’ho. Mettiamolo dietro, nel pulmino.»

Chernobog sembrava sul punto di obiettare, invece tacque. Si sputò sul pollice e sull’indice e spense le candele. Shadow le sentì sibilare nella stanza sempre più buia.

Wednesday era pesante, ma camminando a un’andatura lenta e regolare Shadow riusciva a trasportarlo. Non aveva alternative. Le parole di Wednesday gli riecheggiavano in testa a ogni passo lungo il corridoio, e risentiva nella gola il sapore agrodolce dell’idromele. Mi proteggi. Mi trasporti da un posto all’altro. Fai le commissioni. In caso di emergenza, ma solo in caso di vera emergenza, fai del male a quelli a cui devi fare del male. Nell’improbabile ipotesi della mia morte farai la mia veglia funebre…

Il signor Nancy gli aprì le porte del motel, poi si affrettò a precederlo per aprire il portellone del pulmino. Gli altri quattro erano già in piedi accanto alla Humvee e li guardavano come se non vedessero l’ora di andarsene. Loki si era rimesso il berretto da autista. Il vento freddo strattonava Shadow e faceva sbattere il lenzuolo.

Lo adagiò il più delicatamente possibile.

Qualcuno gli batté un colpo sulla spalla. Si voltò. Era Town che tendeva una mano con qualcosa dentro.

«Tieni» disse. «Il signor World voleva che lo prendessi tu.»

Era un occhio di vetro attraversato da una crepa finissima e con una minuscola scheggia mancante.

«L’abbiamo trovato nella Masonic Hall quando abbiamo ripulito. Tienilo come portafortuna. Dio sa se non ne avrai bisogno.»

Shadow strinse l’occhio nella mano. Gli sarebbe piaciuto ribattere con una frase arguta ma Town era già tornato vicino alla Humvee e ci stava salendo e a lui non era venuto in mente niente di intelligente da dire.


Si diressero verso oriente e l’alba li sorprese a Princeton, nel Missouri. Shadow non aveva ancora dormito un minuto.

«Dove vuoi che ti lasciamo?» gli domandò Nancy. «Se fossi in te rimedierei un documento di identità e me ne andrei in Canada o in Messico.»

«Io rimango con voi» rispose Shadow. «È quello che avrebbe voluto lui.»

«Non lavori più per lui. È morto. Non appena avremo sistemato il suo corpo sarai libero di andartene.»

«E cosa dovrei fare?»

«Tieniti lontano dai guai, mentre la guerra è in corso» disse Nancy. Mise la freccia e svoltò a sinistra.

«Rimani nascosto per un po’» intervenne Chernobog. «Poi, quando la guerra sarà conclusa, vieni da me che portiamo a termine quella faccenda in sospeso.»

«Dove stiamo portando il corpo?»

«In Virginia. C’è un albero» disse Nancy.

«L’albero del mondo» disse Chernobog con cupa soddisfazione. «Ne avevamo uno anche dalle mie parti. Ma i nostri crescevano sottoterra, non sopra.»

«Lo mettiamo ai piedi dell’albero» continuò Nancy «e ce lo lasciamo. Tu sei libero e noi andiamo a sud. C’è una battaglia. Scorrerà il sangue. Molti moriranno. Il mondo cambierà, un pochino.»

«Non mi volete a combattere al vostro fianco? Sono forte. Mi difendo bene.»

Nancy si voltò verso di lui e sorrise, il primo vero sorriso che Shadow vedeva sulla sua faccia da quando era stato tirato fuori dalla Lumber County Jail. «Questa battaglia verrà combattuta quasi sempre in luoghi dove tu non puoi andare, che non puoi nemmeno sfiorare.»

«Nel cuore e nella mente della gente» spiegò Chernobog. «Come al grande carosello.»

«Dove?»

«La giostra» disse il signor Nancy.

«Oh. Capisco. Dietro le quinte. Come il deserto con le ossa.»

Il signor Nancy alzò la testa. «Ogni volta che decido che non hai il cervello neanche per fare due più due, riesci sempre a sorprendermi. Sì, infatti, è lì che si combatte la vera battaglia. Il resto saranno soltanto fulmini e saette.»

«Ditemi della veglia» insistette Shadow.

«Qualcuno deve rimanere con il corpo. È la tradizione. Troveremo qualcuno.»

«Lui voleva che lo facessi io.»

«No» disse Chernobog. «Ti ucciderebbe. Pessima, pessima idea.»

«Ah sì? In che modo mi ucciderebbe? Il fatto di restare con il cadavere?»

«Non è una cosa che vorrei per il mio funerale» disse il signor Nancy. «Quando muoio, vorrei essere lasciato in un posto caldo. E poi, quando qualche bella ragazza passerà vicino alla mia tomba, io l’afferrerò per le caviglie, come in quel film.»

«Non l’ho visto» disse Chernobog.

«Certo che l’hai visto. È alla fine. Il film con i liceali che vanno al ballo di fine anno.»

Chernobog scosse la testa.

Shadow disse: «Il film si intitola Carrie-Lo sguardo di Satana, signor Chernobog. Va bene, allora uno di voi mi parli della veglia».

«Spiegaglielo tu» disse Nancy, «io sto guidando.»

«Non ho mai sentito parlare di nessun film con un titolo simile. Diglielo tu.»

Nancy cominciò: «La persona che fa la veglia viene legata all’albero. Proprio come era stato legato Wednesday. E lì deve rimanere per nove giorni e nove notti. Senza cibo, senz’acqua. Completamente solo. Alla fine lo tirano giù, e se è sopravvissuto… be’, può capitare. Insomma così Wednesday avrà avuto la sua veglia».

Chernobog disse: «Magari Alviss ci potrebbe mandare uno dei suoi. Un nano è capace di farcela».

«Lo farò io» disse Shadow.

«No» rispose il signor Nancy.

«Sì.»

I due vecchi rimasero in silenzio. Poi Nancy domandò: «Perché?».

«Perché è il genere di cosa che farebbe una persona viva» rispose Shadow.

«Tu sei matto» disse Chernobog.

«Può darsi. Comunque la veglia di Wednesday è compito mio.»

Quando si fermarono a fare benzina Chernobog annunciò che si sentiva poco bene e voleva viaggiare davanti. A Shadow non dispiaceva spostarsi dietro, anzi, così poteva allungare meglio le gambe e magari dormire.

Proseguirono in silenzio. Shadow aveva preso una decisione, ed era una sensazione forte, strana.

«Ehi, Chernobog» disse il signor Nancy dopo un po’, «hai notato il ragazzo tecnologico, al motel? Non stava tanto bene. Deve aver giocato con qualcosa che gli si è ritorto contro. Questo è il problema più grosso con i nuovi ragazzi, credono di sapere tutto e poi si ritrovano con un guaio più forte di loro.»

«Bene» disse Chernobog.

Shadow si era completamente sdraiato sul sedile. Aveva l’impressione di essere diventato due persone, se non di più. C’era una parte di lui che si sentiva leggermente esilarata: aveva fatto qualcosa. Si era mosso. La cosa non avrebbe avuto valore, se lui non avesse avuto voglia di vivere, invece lui voleva vivere, e questo faceva una grande differenza. Sperava di sopravvivere all’esperienza, ma era disposto a morire, se necessario, per essere vivo. Per un momento pensò che era tutto molto buffo, anzi, che era la cosa più buffa del mondo e si chiese se Laura avrebbe apprezzato l’ironia della situazione.

C’era un’altra parte di lui — forse Mike Ainsel, pensò, scomparso nel nulla quando qualcuno aveva premuto un pulsante nella prigione di Lakeside — che stava ancora cercando di raccapezzarsi, di capire il disegno complessivo.

«Gli indiani nascosti» disse a voce alta.

«Cosa?» rispose la voce irritata e gracchiante di Chernobog dal sedile anteriore.

«Quei disegni che bisognava colorare da bambini. "Riuscite a trovare gli indiani nascosti nel disegno? In questo disegno ci sono dieci indiani, siete capaci di trovarli tutti?" A una prima occhiata si vedono soltanto la cascata, le rocce e gli alberi, poi se inclini un pochino il foglio vedi che quell’ombra è un indiano…» Sbadigliò.

«Dormi» suggerì Chernobog.

«Ma il disegno complessivo…» disse Shadow, e si addormentò sognando gli indiani nascosti.


L’albero si trovava in Virginia. Lontano da tutto, in un campo dietro una vecchia fattoria. Per arrivare guidarono per quasi un’ora oltre Blacksburg, in direzione sud, lungo strade che avevano nomi come Pennywinkle Branch e Rooster Spur. Si persero girando due volte in tondo; il signor Nancy e Chernobog si innervosirono con Shadow, e bisticciarono anche tra loro.

Si fermarono a chiedere indicazioni nel piccolo emporio a fondovalle, dove si biforcava la strada. Un vecchio uscì dal retrobottega e li fissò: indossava una tuta Oshkosh B’Gosh e nient’altro, nemmeno le scarpe. Chernobog si comprò un piedino di maiale in salamoia e andò a mangiarselo sul portico, mentre il vecchio con la tuta disegnava una cartina per il signor Nancy su un tovagliolo, indicandogli bene i punti in cui svoltare e le pietre miliari.

Ripartirono, sempre con il signor Nancy al volante, e arrivarono in dieci minuti. Sul cartello appeso al cancello c’era scritto FRASSINO.

Shadow scese per aprire il cancello. Il pulmino avanzò sobbalzando sui prati. Shadow richiuse il cancello. Camminò per sgranchirsi le gambe, mettendosi a correre quando vide che il pulmino si allontanava troppo, godendosi il piacere del movimento.

Durante il viaggio dal Kansas aveva perso la nozione del tempo. Avevano guidato per due giorni? O tre? Non lo sapeva.

Il corpo che avevano a bordo non era ancora entrato in fase di decomposizione. Si sentiva un leggero odore di Jack Daniel’s e di miele acido. Non era sgradevole. Di tanto in tanto Shadow tirava fuori l’occhio di vetro dalla tasca e lo guardava: la frattura era profonda, probabilmente provocata dall’impatto del proiettile, ma a parte la minuscola scheggia mancante su una zona dell’iride, la superficie era intatta. Lo faceva scorrere tra le dita, nascondendolo nel palmo, spingendolo. Sebbene fosse un macabro souvenir in qualche modo lo confortava, e sospettava che Wednesday avrebbe trovato divertente sapere che era finito nella sua tasca.

La fattoria era immersa nel buio, con porte e finestre chiuse. I prati erano incolti, con l’erba alta. Il tetto dell’edificio si stava sgretolando, era coperto di fogli di plastica neri. Superato un dosso Shadow vide l’albero.

Era grigio argenteo, più alto della fattoria. Era l’albero più bello che avesse mai visto: spettrale e insieme reale e quasi perfettamente simmetrico. Gli sembrò subito familiare: si chiese se l’avesse sognato, poi capì che no, lo aveva già visto molte volte, ne aveva visto una copia: il fermacravatta d’argento di Wednesday.

Il pulmino proseguì a balzelloni per fermarsi a circa sette metri dal tronco.

In piedi accanto all’albero c’erano tre donne. Dapprima Shadow pensò che fossero le Zarja, invece no, erano tre donne che non conosceva. Avevano l’aria stanca e annoiata, come se fossero lì ad aspettare da tempo immemorabile. Ciascuna teneva una scala di legno a pioli. La più robusta delle tre aveva anche un grosso sacco marrone. Sembravano bambole russe: una grande — come Shadow, forse più alta ancora — una media, e una talmente piccola e gobba che a una prima occhiata Shadow l’aveva scambiata per una bambina. Si somigliavano talmente che dovevano per forza essere sorelle.

La più piccola fece un inchino. Le altre due rimasero a guardare. Stavano fumando una sigaretta in tre e la finirono, poi una di loro spense il mozzicone su una radice.

Chernobog aprì il portellone del pulmino, la più alta delle tre donne lo raggiunse e sollevò il corpo di Wednesday come se fosse un sacco di farina, con grande disinvoltura, e lo portò fino all’albero. Lo adagiò a circa tre metri dal tronco, poi lo liberò del sudario insieme alle sorelle. Alla luce del sole l’aspetto di Wednesday era molto peggiore di quello che era sembrato al fioco bagliore delle candele nella camera del motel, e Shadow distolse subito gli occhi. Le donne gli rassettarono l’abito e poi lo appoggiarono su un angolo del lenzuolo per avvolgercelo di nuovo.

Si avvicinarono a Shadow.

Sei tu il prescelto? chiese la più grande.

Colui che piangerà il Padre Universale? chiese quella di altezza media.

Hai deciso di fare la veglia? chiese la più piccola.

Shadow annuì. In seguito non sarebbe riuscito a ricordare se aveva davvero sentito la voce delle tre donne. Forse aveva semplicemente capito cosa gli stavano chiedendo dall’espressione, dagli sguardi.

Il signor Nancy, che era entrato nella fattoria per usare il bagno, tornò verso l’albero. Stava fumando uno dei suoi sigaretti. Aveva un’aria pensierosa. «Shadow, non sei obbligato. Possiamo trovare qualcuno di più adatto.»

«La faccio io» si limitò a rispondere Shadow.

«E se tu morissi?» chiese il signor Nancy. «Se la veglia ti ammazzasse?»

«Allora mi avrà ammazzato.»

Il signor Nancy gettò il sigaretto nell’erba, arrabbiato. «Ti avevo detto che hai la segatura al posto del cervello, e te lo ripeto adesso. Non capisci che sto cercando di offrirti una via d’uscita?»

«Mi dispiace» disse Shadow, e non aggiunse altro. Nancy se ne tornò verso il pulmino.

Toccò a Chernobog avvicinarsi. Non aveva un’aria contenta. «Devi uscire vivo di qui. Fallo per me.» Poi gli picchiò delicatamente con le nocche sulla fronte dicendo: «Pum!». Gli diede una stretta a una spalla, gli batté una pacca su un braccio e andò a raggiungere il signor Nancy.

La donna grande, che sembrava rispondere al nome di Urtha o Urdar — Shadow non riusciva a pronunciarlo in modo per lei soddisfacente — gli spiegò a gesti che si doveva spogliare.

«Completamente?»

La donna grande scrollò le spalle. Shadow rimase in mutande e maglietta. Insieme le tre sorelle appoggiarono le scale all’albero. Gli indicarono una delle tre scale, dipinta a mano con fiori e foglie attorcigliati intorno ai due montanti.

Shadow salì i nove pioli e sollecitato dalle donne sedette su un ramo basso.

La donna media rovesciò sull’erba il contenuto del sacco: un groviglio di corde sottili e scure perché vecchie e sporche, e cominciò a separarle in base alla lunghezza, disponendole con cura accanto al corpo di Wednesday.

Adesso salirono sulle scale e cominciarono a far passare le corde, fermandole con nodi intricati ed eleganti, prima all’albero e poi intorno a Shadow. Senza alcun imbarazzo, come levatrici o infermiere o quelle pie donne che si prendono cura dei cadaveri, gli sfilarono maglietta e mutande, lo legarono, non troppo stretto, ma in modo sicuro e definitivo. Shadow si stupì di come le funi e i nodi sostenessero perfettamente il suo peso. Gli passavano sotto le braccia, tra le gambe, intorno alla vita, alle caviglie, al petto, fissandolo saldamente all’albero.

L’ultima corda venne passata, non stretta, intorno al collo. All’inizio si sentì scomodo, ma siccome il peso era ben distribuito, nessuna fune gli tagliava la carne.

Era sospeso con i piedi a un metro e mezzo da terra. L’albero, spoglio ed enorme, tendeva i suoi rami verso il cielo grigio, e la corteccia era levigata, argentea.

Le donne allontanarono le scale. Ci fu un momento di panico quando tutto il peso si appoggiò alle corde e il corpo si abbassò di qualche centimetro. Tuttavia Shadow non fiatò.

Le donne adagiarono il corpo di Wednesday avvolto nel lenzuolo del motel proprio ai piedi dell’albero e ve lo lasciarono.

Lo lasciarono lì solo.

15

Impiccami, O impiccami, e sarò morto e sepolto,

Impiccami, O impiccami, e sarò morto e sepolto,

Non mi dispiace essere impiccato ma è essere morto,

e sepolto così a lungo che non mi va.

Vecchia canzone popolare

Quel primo giorno legato all’albero, Shadow provò un disagio che soltanto con molta lentezza diventava dolore, o paura e, di tanto in tanto, un sentimento in bilico tra noia e apatia: un’accettazione supina, un’attesa.

Lui era appeso all’albero.

Il vento soffiava forte.

Dopo alcune ore qualche macchia fuggevole di colore cominciò a esplodergli davanti agli occhi, fioriture rosse e dorate che pulsavano di vita propria.

A poco a poco il dolore alle braccia e nelle gambe divenne intollerabile. Se rilassava gli arti lasciandosi andare in avanti, la corda intorno al collo, sostenendo il peso, lo soffocava e lui vedeva tutto ondeggiare. Perciò cercava di spingersi indietro, contro il tronco dell’albero. Sentiva battere forte il cuore, pompare aritmico il sangue nelle vene…

Gli si cristallizzarono smeraldi, zaffiri e rubini davanti agli occhi. Ansimava. La corteccia dell’albero era ruvida, contro la schiena. Nel freddo del pomeriggio il suo corpo nudo tremava, aveva la pelle d’oca.

È facile, gli disse qualcuno da un ricordo remoto. C’è un trucco. O crepi o ce la fai.

Il pensiero lo rallegrò e se lo ripeté nella testa come un mantra, come una filastrocca per bambini, da recitare a tempo con il battito del suo cuore.


È facile, c’è un trucco, o crepi o ce la fai.

È facile, c’è un trucco, o crepi o ce la fai.

È facile, c’è un trucco, o crepi o ce la fai.

È facile, c’è un trucco, o crepi o ce la fai.


Il tempo passava e la filastrocca non finiva mai. Gli pareva di sentirla. C’era qualcuno che ripeteva le parole, e si fermava, però, quando la bocca di Shadow era troppo secca, quando la lingua gli diventava dura come il cuoio. Provò a puntellarsi con i piedi al tronco, per riuscire a riempire i polmoni d’aria.

In quella posizione respirò fino a quando riuscì a resistere, poi si lasciò cadere di nuovo sulle funi e lì rimase, appeso all’albero.

Quando il cinguettio cominciò — un cinguettio irritato e carico di derisione — chiuse la bocca, spaventato all’idea di averlo prodotto lui; però il rumore continuava. Allora è il mondo che ride di me, pensò. Aveva la testa piegata da un lato e vide qualcosa percorrere velocemente il tronco per fermarsi proprio vicino al suo collo. Gli cinguettò fragorosamente nell’orecchio una parola che suonava come "ratatoskr". Shadow cercò di ripeterla ma aveva la lingua incollata al palato. Si girò lentamente a guardare il musetto grigio-marrone e le orecchie appuntite di uno scoiattolo.

Visto da vicino, lo scoiattolo è molto meno carino di quel che sembra da una certa distanza: aveva un’aria topesca e pericolosa, niente di tenero. I denti sembravano aguzzi. Shadow sperò che l’animaletto non lo considerasse una minaccia, o qualcosa di cui cibarsi. Non gli pareva che fossero carnivori, gli scoiattoli… ma del resto tante cose si erano rivelate completamente diverse da come immaginava…

Si addormentò.

Nelle ore immediatamente successive il dolore lo svegliò più volte strappandolo da un sogno buio in cui dei bambini morti galleggiavano verso di lui: avevano gli occhi gonfi, vitrei e rotondi come biglie, e lo rimproveravano di averli abbandonati. Un ragno lo svegliò camminandogli sulla faccia. Scosse la testa per mandarlo via, per spaventarlo, e ritornò ai suoi sogni: adesso c’era una creatura con la testa da elefante, un pancione, una zanna rotta, che si avvicinava in groppa a un enorme topo. Davanti a Shadow sollevò la proboscide e disse: «Se prima di cominciare questo viaggio tu mi avessi invocato, forse ti sarebbero stati risparmiati molti guai». Poi l’elefante prese il topo, che all’insaputa di Shadow era diventato minuscolo senza per questo aver cambiato dimensioni, e cominciò a passarselo da una mano all’altra, a farlo scorrere tra le dita, da un palmo all’altro, e Shadow non si sorprese quando alla fine il dio con la testa da elefante mostrò tutte e quattro le mani perfettamente vuote. Le scrollò, poi mosse le braccia, una dopo l’altra, con particolare scioltezza e restò a guardare Shadow con un’espressione impenetrabile.

«È nella proboscide» gli disse lui. Aveva visto bene la coda scomparire con un guizzo. L’uomo-elefante annuì con il testone e disse: «Sì. Nella proboscide o nel baule della macchina. Dimenticherai molte cose. Perderai molte cose. Darai via molte cose. Ma non perdere queste». Cominciò a piovere e Shadow, in preda ai brividi, bagnato fino alle ossa, fu scaraventato dal sonno profondo in uno stato di lucida veglia. I brividi si intensificarono fino a spaventarlo: tremava con più violenza di quanto avrebbe creduto possibile fare, una serie di brividi che erano quasi convulsioni. Si sforzò di smettere ma non ci riusciva, ì denti battevano, gli arti erano in preda a spasmi incontrollabili. Adesso sentiva anche un vero dolore, come una lama affondata in profondità che gli ricopriva il corpo di minuscole ferite invisibili, intime e intollerabili.


Aprì la bocca per catturare qualche goccia d’acqua con cui bagnare le labbra screpolate e la lingua secca; anche le corde che lo tenevano al tronco dell’albero si inumidirono. Vide il bagliore di un lampo così luminoso, un colpo troppo forte per gli occhi, che trasformò il mondo in un panorama potente: immagini e immagini persistenti. Poi tuono, scoppio, esplosione e rombo fragoroso, e, mentre il rombo echeggiava, la pioggia cominciò a scendere più intensa. Durante la notte i brividi cessarono; le lame di coltello vennero riposte nei loro foderi. Shadow non sentiva più freddo, o meglio sentiva soltanto freddo, però adesso il freddo era diventato parte di lui.

Era appeso all’albero, con i lampi che squarciavano il cielo e i rombi del tuono che si trasformavano in un fragore continuo con occasionali punte più alte, come bombe lontane esplose nella notte. Il vento lo sferzava, lo scorticava, cercava di strapparlo all’albero e Shadow, nel fondo dell’anima, capì che la tempesta era scoppiata davvero.

Una strana gioia lo assalì e cominciò a ridere, mentre la pioggia gli lavava il corpo nudo e i lampi saettavano e i tuoni scoppiavano così rumorosi da impedirgli di sentire la risata. Era esultante.

Era vivo. Non si era mai sentito così. Mai.

Se fosse morto, pensò, se fosse morto in quell’unico perfetto folle istante lì sull’albero, ebbene, ne sarebbe valsa la pena.

«Ehi!» gridò al temporale. «Ehi! Sono io! Sono qui!»

Spingendo una spalla contro il tronco riuscì a intrappolare un po’ d’acqua e girò la testa per berla, leccando, succhiando, e bevendo rideva di gioia e felicità, non di demenza, fino a quando non ci riuscì più, fino a quando non si lasciò andare, troppo sfinito per muoversi.

Per terra, ai piedi dell’albero, la pioggia aveva inzuppato il lenzuolo facendolo diventare quasi trasparente e lo aveva sollevato, allontanandone un lembo dal corpo. Shadow vedeva una mano di Wednesday, morta e cerea, la sagoma della sua testa; pensò alla Sindone conservata a Torino e si ricordò della ragazza sventrata sul tavolo di Jacquel a Cairo, poi come per ripicca contro il freddo scoprì che si sentiva caldo e comodo e che la corteccia dell’albero era diventata morbida. Si riaddormentò e sognò. Questa volta non riuscì a ricordare niente, del sogno.


L’indomani mattina il dolore non era più localizzato, non più confinato ai punti dove le funi gli segavano la carne, o dove la corteccia gli lacerava la pelle. Adesso era diffuso ovunque.

E aveva fame, morsi di fame lancinanti nel ventre. Gli pulsava la testa. Ogni tanto gli sembrava di avere smesso di respirare, immaginava che il suo cuore non battesse più. Allora tratteneva il respiro fino a quando non lo sentiva rumoreggiare nelle orecchie come l’oceano, fino a quando non era costretto a succhiare aria come chi riemerga in superficie dal profondo del mare.

Forse l’albero a cui l’avevano appeso si estendeva dall’inferno al paradiso, e lui era legato lì dall’eternità. Un falco marrone volò intorno ai rami più alti prima di andare ad appollaiarsi su un ramo rotto vicino a Shadow, poi riprese il suo volo verso occidente.

Il temporale, che all’alba era cessato, dopo qualche ora scoppiò di nuovo. Il cielo era interamente coperto di nuvole grige, cadeva una pioggerellina leggera. Il corpo ai piedi dell’albero sembrava essere rimpicciolito dentro il lenzuolo macchiato del motel, come una torta inzuppata che finisce di sciogliersi sotto la pioggia.

In certi momenti a Shadow sembrava di bruciare, in altri moriva di freddo.

Quando ricominciarono i tuoni credette di sentire il suono di tamburi e timpani oltre ai tonfi del cuore, e non capiva se erano dentro la sua testa o fuori.

Percepiva il dolore sotto forma di colore: il rosso dell’insegna al neon di un bar, il verde del semaforo in una notte di pioggia, l’azzurro di uno schermo televisivo quando i programmi sono finiti.

Dal tronco lo scoiattolo saltellò su una spalla di Shadow e gli affondò le unghie nelle carne. «Ratatoskr!» cinguettò. Gli sfiorò le labbra con la punta del naso. «Ratatoskr.» Tornò sull’albero con un balzo.

La pelle di Shadow bruciava come trafitta da aghi e spilli e formicolava dappertutto. Una sensazione intollerabile.

C’era la sua vita stesa lì sotto, sul lenzuolo-sudario del motel: letteralmente stesa, come gli oggetti di un picnic dada, di una scena surrealista: vedeva lo sguardo sconcertato di sua madre, l’ambasciata americana in Norvegia, gli occhi di Laura il giorno del matrimonio…

Ridacchiò, malgrado le labbra screpolate.

«Cosa c’è di così divertente, cucciolo?» gli chiese lei.

«Il giorno che ci siamo sposati» disse «avevi convinto l’organista a non suonare la marcia nuziale mentre percorrevi la navata, ma la colonna sonora di Scooby Doo. Ti ricordi?»

«Certo che ricordo, caro. "I would have made it too, if it wasn’t for those meddling kids"» canticchiò.

«Ti amavo tanto» disse Shadow.

Sentendo le labbra di lei sulle sue, tiepide, bagnate e vive, non fredde e morte, capì di avere un’altra allucinazione.

«Non sei qui, vero?»

«No» rispose lei. «Ma tu mi stai chiamando per l’ultima volta, e io sono arriverò.»

Adesso respirare era diventato più difficile. Le corde che gli segavano la carne erano un concetto astratto, come l’idea di libero arbitrio o eternità.

«Dormi, cucciolo» gli disse lei, ma forse era la sua stessa voce che sentiva, e si addormentò.


Il sole era una moneta di peltro in un cielo di piombo. Shadow impiegò un po’ di tempo prima di accorgersi di essere sveglio e di avere freddo. Però la parte che si rendeva conto di questo era molto lontana dal resto di lui. Chissà dove, lontano lontano, era consapevole di avere bocca e gola in fiamme, riarse, screpolate. A volte vedeva le stelle cadere dal cielo anche di giorno; altre volte uccelli grossi come camion che gli volavano addosso. Niente lo raggiungeva, niente lo toccava.

«Ratatoskr. Ratatoskr.» Il chiacchiericcio era diventato un rimbrotto.

Lo scoiattolo atterrò pesantemente affondandogli gli artigli nella spalla e lo guardò negli occhi. Shadow si domandò se fosse un’allucinazione: nelle zampette anteriori l’animale teneva un mezzo guscio di noce, come la tazza di una casa di bambola. Gli avvicinò la noce alle labbra, Shadow riconobbe l’acqua e istintivamente la succhiò. Le labbra screpolate, la lingua secca la assorbirono. Si inumidì tutta la bocca e poi inghiottì ciò che restava, non molto.

Lo scoiattolo balzò di nuovo sull’albero, lo percorse rapidamente fino a terra e dopo qualche secondo, o minuti, o ore, Shadow non ne aveva idea (tutti gli orologi mentali erano rotti, molle e ruote dentellate ormai gettate alla rinfusa sull’erba agitata dal vento), si arrampicò di nuovo cautamente sull’albero con la sua tazzina di guscio di noce e Shadow bevve l’acqua che gli aveva portato.

Il sapore fangoso e metallico gli rinfrescò la gola riarsa. Alleviava la fatica e placava la follia.

Dopo la terza noce non aveva più sete.

Allora cominciò a lottare, tirando le funi, lacerandosi nel tentativo di liberarsi, di scendere, di fuggire. Gemeva.

I nodi erano ben fatti. Non cedevano e ben presto Shadow si ritrovò un’altra volta sfinito.

Nel delirio divenne l’albero. Le radici sprofondavano nella terra, sprofondavano nel tempo, nelle sorgenti nascoste. Raggiunse la fonte della donna che si chiamava Urdhr, Passato. Era enorme, una gigantessa, una montagna sotterranea di donna, a guardia delle acque del tempo. Altre radici si diramavano in direzioni diverse. Luoghi segreti, in alcuni casi. Adesso quando aveva sete prendeva l’acqua direttamente dalle radici, assorbendola nel corpo del suo essere.

Aveva centinaia di braccia che terminavano con migliaia di dita protese verso il cielo. Il cielo era pesante sulle sue spalle.

Non è che il disagio fosse diminuito, adesso il dolore apparteneva alla figura appesa all’albero, non all’albero stesso. Nella sua follia ora lui era molto più dell’uomo, era l’albero ed era il vento che soffiava tra i rami spogli dell’albero del mondo; era il cielo grigio e le nubi che si addensavano; era Ratatoskr, lo scoiattolo che correva dalle radici più profonde ai rami più alti; era il falco con gli occhi folli seduto su un ramo spezzato a sorvegliare il mondo dall’alto; era il verme nell’albero.

Quando le stelle gli girarono intorno lui passò le sue mille mani sulle luci scintillanti, le accarezzò, le strinse tra le dita, le fece scomparire…


Un momento di lucidità in mezzo a dolore e follia: Shadow riaffiorò in superficie. Sapeva che non sarebbe durato a lungo. Il sole del mattino lo abbagliava. Chiuse gli occhi, rammaricandosi di non poterli proteggere.

Non mancava molto. Sapeva anche questo.

Quando riaprì gli occhi, vide che c’era un giovane appollaiato vicino a lui.

Aveva la pelle molto scura, la fronte alta e i capelli neri e ricci. Era seduto su un ramo più alto rispetto a Shadow, che lo poteva vedere solo allungando il collo. Doveva essere matto. Lo si capiva a prima vista.

«Sei nudo» gli confidò il matto con una vocetta stridula. «Sono nudo anch’io.»

«Vedo» gracchiò Shadow.

Il matto lo guardò, annuì. Roteò la testa in basso e di lato come se cercasse di farsi passare il torcicollo. Alla fine disse: «Mi conosci?».

«No.»

«Io sì, ti conosco. Ti ho visto a Cairo. E anche dopo. Piaci molto a mia sorella.»

«Sei…» il nome gli sfuggiva. Si nutre di animali investiti dalle automobili. «Sì. Sei Horus.»

Il matto annuì. «Horus» disse. «Sono il falco del mattino, lo sparviero del pomeriggio. Sono il sole, come te. E conosco il vero nome di Ra perché mia madre me l’ha detto.»

«Fantastico» rispose Shadow cortese.

Il matto fissò attentamente a terra senza parlare. Poi si lasciò cadere dall’albero.

Un falco cadde a piombo, all’improvviso, con un colpo d’ali, ritornò sull’albero stringendo tra gli artigli un piccolo coniglio. Si appollaiò su un ramo ancora più vicino.

«Hai fame?» domandò.

«No» rispose Shadow. «È strano, ma non ho fame.»

«Io sì» rispose il matto. Sbranò il coniglio in quattro e quattr’otto e quand’ebbe ripulito le ossa le rosicchiò e le buttò per terra insieme alla pelle. Percorse tutto il ramo fino a trovarsi a un braccio di distanza da Shadow, lo scrutò senza imbarazzo, ispezionandolo dalla testa ai piedi con grande attenzione. Si ripulì con il dorso della mano il sangue dal mento e dal petto.

Shadow pensò che fosse necessario dire qualcosa. «Ehi» cominciò.

«Ehi» ribatté il matto in piedi sul ramo, poi si girò dall’altra parte disegnando sul prato sottostante un arco di urina scura. Un lungo arco. Quand’ebbe finito, tornò ad accovacciarsi sul ramo.

«Come ti chiamano?» chiese Horus.

«Shadow» rispose lui.

Il matto annuì. «Tu sei l’ombra. Io sono la luce» disse. «Tutte le cose gettano un’ombra.» Poi aggiunse: «Tra poco cominceranno. Li ho visti arrivare. Stai morendo, vero?».

Shadow non riusciva più a parlare. Il falco prese lentamente il volo sulle correnti ascensionali.


Chiaro di luna.

Tossiva, una tosse secca e dolorosa come un pugnale nel petto e nella gola. Rantolò, annaspò in cerca d’aria.

«Ehi, cucciolo» chiamò una voce che conosceva.

Guardò in basso.

La luna tra i rami diffondeva una luce bianca e abbagliante, illuminando il prato a giorno, e lì vicino all’albero c’era una donna con un volto pallido e ovale. Il vento soffiava tra i rami.

«Ciao, cucciolo.»

Lui cercò di parlare invece tossì, una tosse profonda, che non finiva mai.

«Sai» disse lei con il tono di chi vorrebbe rendersi utile, «hai una brutta tosse.»

«Ciao, Laura».

Lei alzò gli occhi morti e gli sorrise.

«Come hai fatto a trovarmi?»

Laura rimase un attimo in silenzio al chiaro di luna, prima di dire: «Tu sei quanto di più vicino alla vita io abbia. Sei tutto ciò che mi rimane, l’unica cosa che non sia squallida, insulsa e deprimente. Saprei ritrovarti anche se mi gettassero in fondo all’oceano con gli occhi bendati. Anche se mi seppellissero mille chilometri sotto terra».

Shadow guardò la donna alla luce della luna e gli occhi gli si riempirono di lacrime.

«Ti tiro giù di lì» disse lei. «Passo un sacco di tempo a salvarti, non ti pare?»

Lui tossì di nuovo. Poi disse: «No, lasciami qua. Lo devo fare». Lei lo guardò e scosse la testa.

«Sei matto. Stai morendo, lassù. Rimarrai menomato, se non lo sei già.»

«Può darsi. Però sono vivo.»

«Sì» rispose lei dopo un attimo. «Credo di sì.»

«Me l’hai detto tu, nel cimitero.»

«Sembra passato tanto tempo, cucciolo.» Poi aggiunse: «Mi sento meglio qui, non fa così male. Sai che cosa intendo dire? Però sono completamente inaridita».

Il vento soffiò nella direzione di Shadow portandogli l’odore: una puzza di carne putrefatta, di morte e decomposizione, intensamente nauseante.

«Ho perso il lavoro» disse lei. «Facevo il turno di notte ma sembra che i clienti si lamentassero. Ho spiegato che ero malata, mi hanno risposto che non gliene importava niente. Ho tanta sete.»

«Le donne» disse lui. «Hanno l’acqua. Dentro la casa.»

«Cucciolo…» Laura sembrava spaventata.

«Diglielo… di’ alle donne che ti ho detto io di farti dare l’acqua…»

Il volto pallido lo fissò. «Devo andare.» Poi tossì, fece una smorfia e sputò sull’erba una massa biancastra che toccando terra si aprì e si allontanò strisciando.

Respirare era praticamente impossibile. Shadow sentiva una grande oppressione al petto e gli girava la testa.

«Rimani» disse quasi in un sussurro, non sapendo nemmeno se lei potesse sentirlo. «Ti prego, non andare via.» Ricominciò a tossire. «Stai con me, stanotte.»

«Rimango per un po’» rispose lei e poi, come una madre al suo bambino: «Niente può farti del male, se ci sono io a proteggerti. Lo sai, vero?».

Shadow tossì un’altra volta. Chiuse gli occhi, solo per un momento. Quando li riaprì la luna era tramontata e lui era solo.


La testa pulsava come se dovesse spaccarsi, di là d’ogni possibile sofferenza. Il mondo si dissolse in minuscole farfalle che gli svolazzavano intorno come una tempesta di sabbia multicolore e poi evaporavano nella notte.

Il lenzuolo bianco avvolto intorno al corpo ai piedi dell’albero sbatteva rumorosamente nel vento del mattino.

La testa non pulsava più. Tutto rallentò. Non c’era più niente che lo potesse far respirare. Il cuore cessò di battere.

L’oscurità nella quale piombò era profonda, illuminata da una sola stella, e conclusiva.

16

Lo so che barano. Ma è l’unico tavolo da gioco in città.

CANADA BILL JONES

Sparito l’albero, sparito il mondo, e sparito il cielo grigio del mattino. Adesso aveva il colore della mezzanotte. C’era una stella che brillava solitaria in alto, una luce violenta e intermittente, nient’altro. Fece un passo e quasi incespicò.

Shadow guardò in basso. C’erano dei gradini intagliati nella roccia che scendevano, gradini così enormi che solo i giganti potevano averli fatti e percorsi tanto tanto tempo prima.

Li imboccò e scese a balzi e saltelli. Il corpo gli doleva, ma era un indolenzimento dovuto all’inattività, non alle torture subite da un corpo appeso a un albero fino a morirne.

Osservò senza stupore che adesso era completamente vestito con un paio di jeans e una maglietta bianca. Era scalzo. Visse un momento di profondo déjà vu: era vestito così nell’appartamento di Chernobog la notte in cui Polunochnaja Zarja gli aveva parlato della costellazione chiamata il Carro di Odino. Aveva preso la luna dal cielo per lui.

All’improvviso capì che cosa sarebbe successo. Ci sarebbe stata Polunochnaja Zarja.

Lo stava aspettando in fondo ai gradini. La luna non era più alta nel cielo, ma ciò nonostante lei era immersa nel suo chiarore: i capelli erano sempre bianchi e splendenti, indossava la stessa camicia da notte di pizzo e cotone che portava quella notte a Chicago.

Sorrise vedendolo, e abbassò gli occhi come imbarazzata. «Ciao» disse.

«Ciao» rispose lui.

«Come stai?»

«Non lo so. Penso che forse è soltanto un altro strano sogno sull’albero. Da quando sono uscito di prigione ho fatto sogni assurdi.»

Il viso di lei era inargentato dalla luna (nel cielo nero e violaceo non c’era nessuna luna, e adesso, in fondo ai gradini, non si vedeva più nemmeno la stella solitaria) e aveva un’aria solenne e vulnerabile allo stesso tempo. Disse: «Tutte le tue domande troveranno una risposta, se è questo che vuoi. Ma una volta conosciute le risposte, non potrai più dimenticarle».

Alle sue spalle il sentiero si biforcava. Lui avrebbe dovuto decidere quale sentiero prendere, lo sapeva. Però prima doveva fare una cosa. Infilò una mano nella tasca dei jeans e con sollievo sentì il peso familiare della moneta. La tirò fuori tenendola tra indice e pollice: un dollaro con la testa della Libertà d’argento. «Questa è tua.»

In quel momento ricordò che in realtà i suoi indumenti si trovavano ai piedi dell’albero; le donne li avevano infilati nel sacco di juta da cui avevano preso le corde, poi l’avevano chiuso e la più alta ci aveva appoggiato sopra una grossa pietra perché non volasse via. E così Shadow sapeva che in realtà il dollaro della Libertà si trovava nella tasca dentro a quel sacco con sopra la pietra. Eppure l’aveva in mano, pesante, all’ingresso dell’aldilà.

Lei glielo prese con le sue dita affusolate.

«Grazie. Ti ha aiutato due volte a ritrovare la libertà» disse. «E adesso illuminerà il tuo cammino nei luoghi bui.»

Chiuse la mano intorno al dollaro, poi si allungò, l’appoggiò nell’aria, il più in alto possibile e lo lasciò andare. Invece di cadere, la moneta fluttuò fino a trovarsi a quasi mezzo metro sopra la testa di Shadow. Non era più una moneta d’argento. La Signora Libertà e la sua corona a spuntoni erano scomparse. Adesso la faccia che vedeva era quella liscia della luna in un cielo estivo.

Shadow non riusciva a capire se stesse guardando una luna delle dimensioni di un dollaro a circa mezzo metro dalla sua testa, o una luna grande come l’Oceano Pacifico a molte migliaia di chilometri. E non sapeva nemmeno se ci fosse qualche differenza tra le due cose. Forse era solo questione di punti di vista.

Guardò il sentiero che si biforcava davanti a lui.

«Quale devo prendere?» chiese. «Qual è il più sicuro?»

«Uno esclude l’altro» rispose lei, «nessuno dei due è sicuro. Quale strada preferisci imboccare: la via delle crude verità o delle menzogne consolatorie?»

«La via delle verità» rispose lui. «Ne ho passate troppe, non ne posso più di menzogne.»

Lei lo guardò con tristezza. «Ci sarà un prezzo da pagare.»

«Lo pagherò. Qual è?»

«Il tuo nome» disse lei. «Il tuo vero nome. Dovrai darlo a me.»

«Come?»

«Così.» Allungò una mano verso la sua testa. Lui sentì le dita che gli sfioravano la pelle e la penetravano, entravano nel cranio, le sentì rovistare nella testa. Qualcosa lo solleticò nel cranio e lungo la spina dorsale, poi lei tirò fuori la mano. Una fiamma come quella di una candela ma luminosa e bianca come luce al magnesio, tremolava sulla punta del suo indice.

«È il mio nome?» domandò lui.

Lei chiuse la mano e la luce scomparve. «Lo era.» Tese la mano e indicò il sentiero sulla destra. «Da questa parte. Per il momento.»

Senza nome, Shadow percorse il sentiero sulla destra illuminato dalla luna. Quando si voltò per ringraziare Polunochnaja Zarja vide soltanto tenebre. Gli sembrava di essere molto in profondità sotto terra ma quando guardò in alto nel buio vide che la minuscola luna brillava ancora.

Imboccò una curva.

Se questo era l’aldilà, pensò, assomigliava molto alla House on the Rock: in bilico tra diorama e incubo.

Stava osservando se stesso con indosso la divisa della prigione, nell’ufficio del direttore, mentre questi gli comunicava che Laura era morta in un incidente di macchina. Vedeva l’espressione sulla sua faccia, quella di un uomo abbandonato dal mondo. Lo ferì vedersi così, vedere quella vulnerabilità e la paura. Proseguì attraverso l’ufficio grigio del direttore e si ritrovò a guardare dalla vetrina del negozio di riparazioni video alla periferia di Eagle Point.

Tre anni prima. Sì.

Dentro il negozio, lo sapeva, c’era lui che stava picchiando a sangue Larry Powers e B.J. West, ammaccandosi le nocche, nel farlo: tra poco sarebbe uscito di lì con un sacchetto del supermercato pieno di banconote da venti dollari. Denaro che non avrebbero mai potuto accusarlo di avere rubato: era la sua parte, più un’aggiunta, perché non avrebbero dovuto cercare di fregarli così, lui e Laura. Lui era soltanto l’autista, però aveva fatto la sua parte, nella rapina. Aveva fatto tutto quello che gli aveva chiesto lei…

Al processo nessuno parlò della rapina, anche se tutti avrebbero voluto. Non potevano provare niente, se nessuno confessava. E nessuno confessò. L’accusa fu costretta ad accontentarsi delle lesioni personali ai danni di Powers e West. Mostrò le fotografie dei due uomini al loro arrivo nell’ospedale cittadino e Shadow non si difese, perché era più semplice. Né Powers né West sembravano in grado di ricordare quale fosse stato il motivo scatenante della rissa, però furono concordi nel riconoscere l’aggressore.

Nessuno parlò dei soldi.

Nessuno fece il minimo accenno a Laura, esattamente come voleva Shadow.

Si domandò se il sentiero delle bugie confortevoli sarebbe stato migliore. Si allontanò dalla strada di Eagle Point e seguendo il sentiero roccioso entrò in una stanza d’ospedale, un ospedale pubblico di Chicago, e sentì in bocca il sapore della bile. Si fermò. Non voleva vedere. Non voleva proseguire.

Nel letto d’ospedale sua madre stava morendo un’altra volta, com’era morta quando lui aveva sedici anni, infatti sì, eccolo lì, un sedicenne alto e goffo con la pelle color caffelatte deturpata dall’acne, seduto ai piedi del letto, incapace di guardarla, assorto nella lettura di un grosso tascabile. Shadow si domandò che libro fosse e fece il giro del letto per leggere il titolo. Si fermò tra letto e sedia guardando da uno all’altro, il ragazzone sprofondato nella sedia, il naso infilato nell’Arcobaleno della gravità, deciso a restare immerso in quella storia ambientata a Londra durante la Seconda guerra mondiale per sfuggire alla morte di sua madre. L’inventiva follia del romanzo non aveva rappresentato né una via di scampo né una scusa.

Gli occhi di sua madre erano chiusi nel sonno indotto dalla morfina: aveva creduto che si trattasse di un altro abbassamento di eritrociti, un altro periodo di dolore da sopportare, e invece avevano scoperto, troppo tardi, che si trattava di un linfoma. La sua pelle aveva una tonalità grigio-giallastra. A poco più di trent’anni sembrava molto vecchia.

Shadow avrebbe voluto riscuotersi, riscuotere quel ragazzo impacciato che era stato un tempo, costringerlo a prenderle una mano, a parlarle, a fare qualcosa prima che se ne andasse per sempre. Non poteva toccare se stesso. Continuò a leggere e sua madre morì con lui seduto accanto al letto, immerso nella lettura di un romanzone.

Dopo di allora aveva smesso di leggere. Non ci si può fidare dei libri. A che cosa servono, se non riescono a proteggerti da una cosa simile?

Shadow si allontanò dalla stanza d’ospedale, percorse il corridoio serpeggiante e si inoltrò nelle viscere della terra.

Riconosce subito sua madre e non riesce a credere quanto sia giovane, deve avere meno di venticinque anni, prima che il governo la congedasse per problemi di salute. Sono in casa, un altro appartamento dell’ambasciata da qualche parte nel Nord Europa. Lui si guarda intorno in cerca di un indizio e vede se stesso: un bambino piccolo con grandi òcchi grigio chiaro e i capelli scuri. Stanno litigando. Shadow non ha bisogno di sentire le parole per capire di che cosa discutono: era l’unico argomento su cui litigavano, dopotutto.

Parlami di mio padre.

È morto. Non farmi domande.

Chi era?

Dimenticalo. È morto e sepolto e non ci hai perso niente.

Voglio vedere una sua fotografia.

Non ho nessuna foto, dice lei a voce bassa e crudele e lui sa che se continuerà a fare domande lei si metterà a gridare o magari lo picchierà e siccome sa di non poter smettere con le domande si allontana lungo la galleria.

Il sentiero che stava seguendo curvò e serpeggiò ritornando su se stesso, come una pelle di serpente, viscere ritorte, tortuose radici di un albero, radici molto molto profonde. C’era una pozza d’acqua alla sua sinistra, sentiva lo sgocciolio da qualche parte in fondo alla galleria, gocce che increspavano appena la superficie specchiante. Si inginocchiò e bevve usando una mano per portare l’acqua alla bocca, poi proseguì finendo sotto le luci caleidoscopiche da discoteca di una sfera coperta di specchietti. Era come trovarsi nel centro esatto dell’universo, con tutte le stelle e i pianeti che giravano intorno, senza riuscire a sentire niente, né la musica né le conversazioni urlate sopra la musica, ed eccolo a fissare una donna che era esattamente come non era mai stata sua madre da quando l’aveva conosciuta lui, poco più di una bambina…

Sta ballando.

Shadow scoprì di non essere per niente sorpreso di riconoscere l’uomo che ballava con lei. Non era cambiato molto in trentatré anni.

Lei è ubriaca: Shadow se ne accorge subito. Non tanto, ma non è abituata a bere e tra circa una settimana prenderà una nave che la riporterà in Norvegia. Hanno bevuto qualche margarita, lei ha un po’ di sale sulle labbra e sul dorso della mano.

Wednesday non indossa vestito e cravatta, ma la spilla d’argento a forma d’albero appuntata sul taschino della camicia brilla quando le luci degli specchietti la raggiungono. Sono una bella coppia, considerata la differenza d’età. Nei movimenti di Wednesday c’è una grazia lupesca.

Stanno ballando un lento. Lui la stringe a sé e la sua mano, grande come una zampa, si appoggia alla gonna con un gesto possessivo, avvicinandola. Con l’altra mano la costringe ad alzare il mento e si baciano lì, sulla pista della sala da ballo, mentre le luci girano intorno a loro nel centro dell’universo.

Poco dopo escono. Lei barcolla un po’ e lui la sostiene.

Shadow affonda la testa tra le mani; non può seguirli, non intende assistere al proprio concepimento.

Le luci degli specchietti sono scomparse e adesso l’unica illuminazione è quella gettata dalla minuscola luna che risplende alta sopra la sua testa.

Ancora avanti. Alla curva del sentiero si fermò per un attimo a riprendere fiato.

Una mano gli accarezzava gentilmente la schiena, dita delicate gli spettinavano i capelli sulla nuca.

«Ciao» sussurrò una voce roca e felina alle sue spalle.

«Ciao» disse lui girandosi a guardarla.

Aveva i capelli castani e la pelle scura e gli occhi con quella tonalità ambrata del buon miele. Le pupille erano due fessure verticali.

«Ci conosciamo?» chiese lui stupito.

«Intimamente» rispose lei e sorrise. «Dormivo sempre sul tuo letto, e la mia gente ti ha sorvegliato.»

Si voltò verso il sentiero che si allungava davanti a lui e gli indicò le tre diramazioni. «Bene» disse, «se ne imbocchi una diventerai saggio. In fondo all’altra diventerai un uomo integro. Quell’altra ancora ti ucciderà.»

«Sono già morto, credo» rispose Shadow. «Sono morto sull’albero.»

Lei miagolò. «C’è un modo di essere morto, e un altro, e un altro ancora. È tutto relativo.» Poi sorrise. «Potrei fare una battuta sulle morte che camminano.»

«No» disse Shadow. «Non c’è bisogno.»

«Allora, da quale parte vuoi andare?»

«Non so».

Lei piegò la testa di lato con uno scatto felino e di colpo Shadow ricordò i graffi che gli aveva lasciato sulla schiena. Cominciò ad arrossire. «Se ti fidi di me» disse Bast, «scelgo io per te.»

«Mi fido» rispose lui senza esitazione.

«Vuoi sapere che cosa ti costerà?»

«Ho già perduto il mio nome.»

«Il nome non è per sempre. Ne è valsa la pena?»

«Sì. Forse. Non è stato facile. Ho avuto alcune rivelazioni diciamo molto personali.»

«Tutte le rivelazioni sono personali. Per questo risultano sospette.»

«Non capisco.»

«No, non capisci. Ti prenderò il cuore. Ne avremo bisogno più tardi» e allungò una mano. L’affondò dentro il suo petto e la estrasse con qualcosa color rubino che le pulsava tra le unghie appuntite. Era color sangue di piccione, fatto di pura luce. Si dilatava e si contraeva ritmicamente.

Lei chiuse la mano ed era scomparso.

«Prendi la via di mezzo» disse.

Shadow annuì e proseguì.

Adesso il sentiero stava diventando scivoloso. Il fondo roccioso era coperto da uno strato gelato. La luna brillava tra i cristalli di ghiaccio nell’aria: aveva un anello intorno che diffondeva luce. Era bellissima, ma rendeva il cammino più difficoltoso. Era un sentiero insidioso.

Raggiunse il punto dove si divideva.

Guardò alla prima diramazione con un senso di riconoscimento. Si trasformava in una grande sala, o una sequenza di sale, come un museo buio. Lo conosceva. Gli sembrava di sentire le lunghe eco di rumori leggeri, e il fruscio che fa la polvere quando si posa.

Era il luogo sognato quella prima notte quando Laura era andata a trovarlo nella stanza del motel, tanto tempo prima; l’interminabile sala degli dèi dimenticati e degli dèi della cui esistenza si era perduta ogni traccia.

Fece un passo indietro.

Imboccò l’altro sentiero cercando di scrutare avanti. C’era qualcosa di disneyano nel corridoio: pareti di plexiglas nero con le luci inserite all’interno. Luci colorate che lampeggiavano intermittenti creando, senza nessun motivo particolare, un’illusione di ordine, come fanno le luci della consolle di una navicella spaziale in un telefilm.

C’era rumore anche lì: un ronzio basso che sentiva vibrare nello stomaco.

Si fermò per guardarsi intorno. Nessuna delle due strade sembrava quella giusta. Non più. Aveva chiuso con i sentieri. La via di mezzo, indicata dalla donna gatto, quella era la sua.

Vi si diresse.

La luna cominciava a impallidire: i bordi diventavano più rosei, di lì a poco sarebbe tramontata. Il sentiero era incorniciato da una soglia enorme.

Shadow attraversò l’arco entrando in una zona oscura. L’aria era tiepida e odorava di polvere bagnata come una strada cittadina dopo la prima pioggia estiva.

Non aveva paura.

Non più. La paura era morta sull’albero, insieme a lui. Non rimaneva più paura, né odio o dolore. Non rimaneva più niente eccetto l’essenza.

Da lontano giunse un tonfo soffocato che echeggiò nella vastità del luogo. Shadow si sforzò di vedere senza riuscirci. Era troppo buio. Poi da dov’era venuto il rumore si alzò una luce spettrale e il mondo prese forma: si trovava in una caverna e davanti a lui c’era uno specchio d’acqua.

Il rumore di spruzzi si avvicinò, la luce divenne più forte mentre Shadow aspettava sulla riva. Di lì a poco si profilò un’imbarcazione bassa e piatta; c’era una lanterna bianca appesa al dritto di prua e un’altra riflessa nel vitreo specchio d’acqua. Una figura alta spingeva l’imbarcazione con una pertica e il rumore che Shadow aveva sentito era prodotto dalla pertica quando veniva sollevata e abbassata nell’acqua del lago sotterraneo.

«Ehilà» gridò Shadow. L’eco lo circondò all’improvviso: immaginò un coro di persone che gli davano il benvenuto, che lo chiamavano, ciascuno con una voce uguale alla sua.

La persona sulla barca non rispose.

Era molto alta e molto magra. L’uomo — sempre che si trattasse di un uomo — indossava una semplice tunica bianca e in cima al lungo collo gli si vedeva una testa pallida così poco umana che Shadow fu certo si trattasse di una maschera: era una piccola testa d’uccello con un lungo becco. Shadow era sicuro di aver già visto prima quella figura spettrale simile a un uccello. Rovistò nella memoria, e si rese conto con irritazione che continuava a tornargli in mente il meccanismo nella House on the Rock con lo spettro appena intravisto comparso dietro alla cripta a reclamare l’anima dell’ubriaco.

L’acqua gocciolava dalla pertica e dalla prua e la scia dell’imbarcazione increspava la superficie del lago. Era una barca di giunco.

Si avvicinò all’argine.

Il barcaiolo si appoggiò alla pertica e voltò lentamente la testa fino a guardare Shadow in faccia. «Salve» disse senza muovere il lungo becco. Era una voce maschile e, come tutto il resto accaduto fin lì in quella vita dopo la morte, familiare.

«Sali a bordo. Ho paura che ti bagnerai i piedi, succede sempre. È una vecchia imbarcazione. Se vengo più vicino rischio di sventrarla.»

Shadow si sfilò le scarpe ed entrò in acqua. Gli arrivava a metà polpaccio e dopo l’iniziale stupore la trovò sorprendentemente calda. Quando il barcaiolo gli tese una mano per aiutarlo a salire, lo scafo ondeggiò un po’ imbarcando acqua dalle basse fiancate laterali, poi si stabilizzò. L’uomo usò la pertica per allontanarsi da riva. Shadow rimase a guardare senza far niente, con i pantaloni fradici.

«Io ti conosco» disse alla creatura a prua.

«Senza dubbio» rispose il barcaiolo. La lampada a olio appesa alla prora emanava una luce tremula e il fumo faceva tossire Shadow. «Hai lavorato per me. Mi dispiace, abbiamo dovuto seppellire Lila Goodchild senza il tuo aiuto.» Era una vocetta pignola e irascibile.

Il fumo gli pungeva gli occhi. Shadow si asciugò le lacrime con la mano e attraverso il fumo intravide un uomo alto vestito di scuro, con gli occhiali dalla montatura d’oro. Quando il fumo si dissolse, il barcaiolo era di nuovo una creatura mezzo umana con la testa di un uccello di fiume.

«Il signor Ibis?»

«Sono contento di rivederti» disse la creatura con la voce di Ibis. «Sai che cos’è uno psicopompo?»

A Shadow sembrava di aver sentito quella parola, tanto tempo prima. Scosse la testa.

«È un termine colto per dire guida» spiegò il signor Ibis. «Vedi, noi abbiamo tante funzioni, tanti modi di esistere. Nella visione che io ho di me stesso, per esempio, sono uno studioso che vive appartato, scrive le sue storielle e sogna un passato che forse è esistito o forse no. Ed è così. Tuttavia, come molte delle persone con cui hai scelto di associarti in questo viaggio, svolgo anche la funzione di psicopompo. Scorto i vivi nel regno dei morti.»

«Pensavo di essere già nel regno dei morti» disse Shadow.

«No. Non ancora. Siamo in una fase preliminare.»

L’imbarcazione scivolava sulla superficie immobile dell’acqua sotterranea. Poi, senza muovere il becco, il signor Ibis continuò: «Voi parlate di vivi e morti come se si trattasse di due categorie che si escludono a vicenda, come se non si potesse avere un fiume che è anche strada, o una canzone che è anche colore».

«Infatti non si può» disse Shadow. «Vero?» Dall’altra sponda l’eco rimandava le sue parole in un sussurro.

«Devi ricordare» riprese il puntiglioso signor Ibis «che la vita e la morte sono due facce della stessa medaglia. Come testa e croce sulla moneta.»

«E se avessi una moneta truccata?»

«Non ce l’hai.»

Shadow rabbrividì. Poi, mentre attraversavano l’acqua scura, rivide le facce dei bambini che lo fissavano con aria di rimprovero: erano facce sature d’acqua, molli, con gli occhi ciechi, vitrei. Nella caverna sotterranea nessun vento increspava la nera superficie del lago.

«Sono morto, allora?» domandò Shadow. Si stava abituando all’idea. «Oppure morirò tra poco?»

«Siamo diretti alla Casa dei Morti. Ho espressamente richiesto di poterti accompagnare io.»

«Perché?»

«Sei un buon lavoratore. Perché no?»

«Perché…» Shadow cercò di mettere ordine nei pensieri. «Perché non ho mai creduto in voi. Perché non so niente della mitologia egizia. Perché non me l’aspettavo. Che cosa è successo a San Pietro e alle porte del Paradiso?»

La testa bianca dal lungo becco si mosse con gravita da un lato all’altro. «Il fatto che tu non credessi in noi non ha alcuna importanza» rispose il signor Ibis. «Noi abbiamo creduto in te.»

L’imbarcazione arrivò all’argine. Il signor Ibis scese in acqua e invitò Shadow a fare altrettanto. Dalla prua prese una cima e passò a Shadow la lanterna che aveva la forma di una luna crescente. Si arrampicarono sull’argine, dove il signor Ibis legò l’imbarcazione all’anello di metallo piantato nella roccia, poi prese la lampada e si incamminò agilmente. La teneva così alta da gettare grandi ombre per terra e sulle pareti di pietra.

«Hai paura?» gli domandò.

«Non esattamente.»

«Bene, cerca di coltivare sentimenti di sincero rispetto e terrore spirituale, mentre camminiamo, perché sono i più adeguati alla circostanza.»

Shadow non aveva paura. Era interessato, apprensivo, nient’altro. Non lo spaventava l’oscurità in movimento, né il fatto d’essere morto, non provò paura nemmeno davanti alla creatura con la testa di cane e grande come un silo di grano che li fissava. Però quando emise un profondo ruggito a Shadow si rizzarono i peli sul collo.

«Shadow» gli disse la creatura. «È giunto il tempo del giudizio.»

Shadow guardò verso l’alto. «Signor Jacquel?» chiamò.

Le mani di Anubi discesero, enormi e scure, afferrarono la testa di Shadow e l’avvicinarono alla sua.

Lo sciacallo lo studiò con occhi luminosi e scintillanti; lo esaminò con il distacco con cui il signor Jacquel aveva esaminato la ragazza morta sul tavolo. Shadow sapeva che gli stava estraendo tutte le colpe, gli sbagli, le debolezze, che li stava soppesando e misurando; che in un certo senso stava per essere sezionato, affettato e infine assaggiato.

Non sempre ricordiamo gli atti che non ci fanno onore. Li giustifichiamo, li ammantiamo di bugie o li seppelliamo sotto il pesante coperchio della rimozione. Tutte le cose che Shadow aveva fatto nella vita e di cui non andava fiero, tutte le cose che rimpiangeva di non aver fatto diversamente o di non aver fatto per niente, gli si presentarono davanti in un vortice di colpa e rimpianto e vergogna che non lasciava scampo. Era nudo e aperto come un cadavere sul tavolo del laboratorio, e l’oscuro Anubi, il dio sciacallo, era il suo prosettore, il suo accusatore, il suo giudice.

«Ti prego» disse Shadow. «Basta, ti prego.»

L’esame non era finito. Ogni bugia, ogni oggetto rubato, ogni ferita inflitta a un altro, tutti i piccoli crimini e i piccoli omicidi che si commettono in una giornata normale, ognuna di quelle piccole cose e altro ancora venne estratto da lui e portato alla luce dalla creatura con la testa di sciacallo, giudice dei morti.

Shadow cominciò a piangere con singhiozzi dolorosi, in piedi sul palmo scuro del dio. Era tornato bambino, debole e impotente come sempre.

Poi, senza preavviso, tutto finì. Shadow ansimava, continuando a singhiozzare, con il naso gocciolante; si sentiva ancora impotente, ma le mani lo riappoggiarono con cautela, quasi con tenerezza, sul pavimento roccioso.

«Chi ha il suo cuore?» ruggì Anubi.

«L’ho io» rispose una sorniona voce femminile. Shadow guardò in su. C’era Bast in piedi accanto alla creatura che non era più il signor Ibis, e teneva il suo cuore nella mano destra. Le illuminava il volto con una luce color rubino.

«Dallo a me» disse Thoth, il dio con la testa di ibis, prendendo il cuore tra le sue mani — non erano mani umane — e scivolando in avanti.

Anubi gli presentò una bilancia con due piatti.

«Allora è qui che verrò a sapere cosa mi aspetta?» sussurrò Shadow a Bast. «Paradiso, Inferno o Purgatorio?»

«Se la piuma è altrettanto pesante» rispose lei, «potrai sceglierti da solo la tua destinazione.»

«E se non lo è?»

Lei scrollò le spalle come se l’argomento la mettesse a disagio. Poi disse: «Allora daremo il cuore e l’anima in pasto ad Ammet, mangiatore di anime…».

«Forse» disse lui «c’è la possibilità di un lieto fine.»

«Non solo non esiste lieto fine» ribatté lei, «ma non c’è neanche una fine.»

Anubi posò con riverenza una piuma su un piatto della bilancia.

Poi mise il cuore di Shadow sull’altro. Qualcosa si mosse nell’ombra sotto la bilancia, qualcosa che Shadow non volle esaminare da vicino.

La piuma era pesante, ma anche il cuore di Shadow lo era, perciò i piatti ondeggiarono in maniera preoccupante.

Alla fine rimasero in equilibrio e la creatura nell’ombra si rintanò insoddisfatta.

«Allora è finita» disse Bast ansiosa. «Non resta che buttare un altro teschio nel mucchio. Peccato. Avevo sperato che ti potessi rendere utile nella difficile situazione attuale. È come guardare un incidente automobilistico al rallentatore e non poter fare niente per impedirlo.»

«Tu non ci sarai?»

Lei scosse la testa. «Non mi piace che siano altri a scegliere le battaglie per me» disse.

Seguì un silenzio, nella sconfinata Casa dei Morti, che echeggiò nell’oscurità sull’acqua.

Shadow domandò: «Allora posso scegliere dove andare?».

«Scegli» rispose Thoth. «Oppure sceglieremo noi per te.»

«No» disse Shadow. «Va bene. Tocca a me.»

«Dunque?» ruggì Anubi.

«Adesso voglio riposare. Riposare e basta. Nient’altro. Né Paradiso, né Inferno. Niente. Solo che abbia fine.»

«Ne sei sicuro?» chiese Thoth.

«Sì» rispose Shadow.

Il signor Jacquel aprì l’ultima porta, dietro alla quale non c’era niente. Né tenebre. Né oblio. Soltanto il nulla.

Shadow l’accettò senza riserve, e varcò la soglia entrando nel nulla con una gioia strana e violenta.

17

In questo paese tutto è su larga scala. I fiumi sono immensi, il clima estremo, le possibilità sconfinate, i tuoni e i fulmini terrificanti. I disordini fanno tremare le istituzioni del paese. Errori, cattiva condotta, perdite, disgrazie, rovina, tutto è su larga scala.

LORD CARLISLE a George Selwyn, 1778

Il luogo più importante del Sudest degli Stati Uniti d’America viene pubblicizzato su centinaia di vecchi fienili in tutta la Georgia e il Tennessee su fino al Kentucky. Mentre percorre una strada che attraversa serpeggiando la foresta, può capitare che un viaggiatore passi davanti a un fatiscente fienile rosso e veda dipinte sul tetto le parole

VISITATE ROCK CITY
L’OTTAVA MERAVIGLIA DEL MONDO

e sul tetto di un diroccato mungitoio poco distante, dipinto a lettere cubitali bianche

AMMIRATE I SETTE STATI A ROCK CITY
LA MERAVIGLIA DEL MONDO

Il viaggiatore potrebbe immaginare che Rock City sia proprio dietro l’angolo, quando invece si trova a una giornata di viaggio, sulla Lookout Mountain, a un tiro di schioppo dal confine, in Georgia, appena a sudovest di Chattanooga, nel Tennessee.

Lookout Mountain non è una grande montagna, somiglia piuttosto a una collina imponente. I chickamauga, un ramo dei cherokee, vivevano qui, quando arrivarono gli uomini bianchi; chiamavano la montagna Chattanoogee, che significa la montagna che finisce a punta.

Negli anni Trenta del diciannovesimo secolo, l’Indian Relocation Act di Andrew Jackson li esiliò dalla loro terra — i choctaw e i chickamauga e i cherokee e i chickasaw — e le truppe statunitensi costrinsero tutti quelli che riuscirono a trovare a percorrere più di mille e cento chilometri fino ai cosiddetti nuovi Territori Indiani, che un giorno sarebbero diventati l’Oklahoma, lungo la cosiddetta pista del pianto: un caso di genocidio spontaneo. Migliaia di uomini, donne e bambini morirono sulla pista. Del resto se sei il vincitore fai quello che vuoi e nessuno può dirti niente.

Perché chi controllava la Lookout Mountain controllava la terra, o così voleva la leggenda. Era un luogo sacro, dopotutto, e sopraelevato. Durante la Guerra Civile, la guerra tra gli stati, vi si combatté una battaglia importante proprio il primo giorno: la Battaglia sopra le nuvole. L’esercito dell’Unione fece l’impossibile e senza aver nemmeno ricevuto l’ordine scalò il Missionary Ridge e lo conquistò. I nordisti presero la montagna e il Nord vinse la guerra.

Vi sono grotte e gallerie, in alcuni casi molto antiche, sotto la montagna. Adesso sono quasi tutte chiuse, anche se tempo fa un imprenditore della zona fece fare degli scavi per trovare la cascata sotterranea che chiamò Ruby Falls. La si può raggiungere con un ascensore. È una meta turistica, anche se il posto che attrae più gente qui è Rock City, proprio sulla vetta.

Rock City si sviluppa come un giardino ornamentale sul fianco di una montagna: per visitarla si imbocca un sentiero che passa attraverso, sopra e in mezzo alle rocce. Si può dare il mais ai daini chiusi in un recinto, attraversare una specie di ponte tibetano e, nei rari giorni di sole, quando l’aria è perfettamente limpida, ammirare con un binocolo, per la modica cifra di un quarto di dollaro, il promesso panorama dei sette stati. Da lì il sentiero — discesa in uno strano inferno — conduce milioni e milioni di visitatori ogni anno fino alle grotte, dove possono guardare le bambole illuminate da luci ultraviolette nei diorami con ambientazioni da favola. Se ne vanno poi molto sconcertati, incerti sul motivo del loro viaggio, su ciò che hanno visto, sul fatto di essersi divertiti oppure no.


Arrivarono a Lookout Mountain da ogni punto degli Stati Uniti. Non erano turisti. Arrivarono in automobile, in aeroplano, in autobus e in treno, a piedi. Alcuni di loro vennero in volo, volando basso e soltanto nelle ore più buie della notte. Altri percorsero segrete vie sotterranee. Molti fecero l’autostop, scroccando un passaggio a qualche motociclista nervoso o a un camionista. Se si incontravano lungo la strada, nelle stazioni di servizio o nei ristoranti, quelli che avevano mezzi propri offrivano un passaggio a chi procedeva a piedi. Raggiunsero la montagna che erano stanchi e coperti di polvere. Guardando in su verso il pendio alberato videro, oppure immaginarono di vedere, i sentieri, i giardini e la cascata di Rock City.

Cominciarono a presentarsi nelle prime ore del mattino; al crepuscolo giunse una seconda ondata. Continuarono ad arrivare per giorni. Un malconcio U-Haul scaricò alcune vila e rusalka sfinite dal viaggio, con il trucco sciolto, le calze smagliate, gli occhi pesanti.

In un fitto boschetto alle pendici della montagna un anziano wampyr offrì una Marlboro a una creatura scimmiesca coperta soltanto di un’arruffata peluria arancione, che accettò benevola. Fumarono la sigaretta insieme, in silenzio.

Una Toyota Previa si fermò sul ciglio della strada: ne scesero sette cinesi, tra uomini e donne. Ciò che colpiva soprattutto di loro era l’aspetto pulito: indossavano quel genere di abito scuro che in certi paesi è un po’ la divisa dei funzionari governativi di rango inferiore. Mentre dalla vettura venivano scaricate enormi sacche da golf che contenevano spade con le lame decorate e le else laccate, bastoni finemente incisi e specchi, uno di loro, che teneva un taccuino in mano, fece l’inventario. Le armi vennero distribuite, spuntate sul taccuino, e alla consegna ciascun cinese firmò una ricevuta.

Un ex attore comico piuttosto famoso, creduto morto negli anni Venti, scese dalla sua macchina arrugginita e cominciò a spogliarsi: aveva le zampe di capra, e una coda corta e caprina.

Arrivarono quattro messicani tutti sorridenti, con i capelli neri e unti: si passavano una bottiglia nascosta in un sacchetto di carta marrone che conteneva un miscuglio di cioccolata in polvere, liquore e sangue.

Un uomo di bassa statura con la barba scura e una bombetta sulla testa, i ricciuti payess alle tempie e un lacero scialle di preghiera, giunse a piedi attraverso i campi. Precedeva di qualche metro il suo compagno che era alto il doppio di lui e aveva il colore grigio della buona argilla polacca: la parola incisa sulla sua fronte significava vita.

Continuarono ad arrivare. Si fermò anche un taxi da cui scesero parecchi rakshasa, i demoni del subcontinente indiano. Si misero subito a gironzolare fissando tutti in silenzio fino a quando non trovarono Mama-ji, che a occhi chiusi muoveva le labbra come in preghiera. Era l’unica con qualcosa di familiare, tuttavia, ricordando le antiche battaglie, esitarono ad avvicinarla. Lei accarezzò la collana di teschi intorno al collo e la sua pelle scura a poco a poco diventò nera, nera come il giaietto, lucida come l’ossidiana: aveva tirato le labbra mostrando i denti bianchi e molto aguzzi. Aprì tutti i suoi occhi e accolse i rakshasa come figli.

I temporali scoppiati negli ultimi giorni a nord e a est non avevano allentato la pressione e il senso di disagio che aleggiava nell’aria. I meteorologi locali annunciavano la presenza di perturbazioni capaci di generare tornado, e zone stabili di alta pressione. Di giorno faceva abbastanza caldo, ma le notti erano fredde.

Si raggrupparono spontaneamente in base alle nazionalità, a volte alla razza, al temperamento, perfino in base alla specie. Sembravano in apprensione, sembravano stanchi.

Qualcuno parlava. Ogni tanto si sentiva una risata sporadica, subito soffocata. Circolavano confezioni di birra da sei.

Vennero in quei prati anche alcuni uomini e donne del posto, con i corpi che si muovevano in modo strano: le loro voci, quando parlavano, erano quelle del loa che li possedeva: un uomo di colore alto parlava con la voce di Papa Legba che apre i cancelli, mentre Baron Samedi, il signore della morte voudón, aveva preso possesso del corpo di un’adolescente metallara di Chattanooga, probabilmente per via di quel cappello a cilindro di seta nera che portava spavaldamente in testa. La ragazza parlava con la voce profonda del Baron, fumava un sigaro di dimensioni enormi e impartiva ordini a tre gedé, i loa dei morti. I gedé abitavano i corpi di tre fratelli di mezza età armati di fucili, raccontavano storielle talmente sconce che erano i soli disposti a riderne, e lo facevano sguaiatamente.

Due donne chickamauga con i blue jeans unti d’olio e malconce giacche di pelle si aggiravano osservando la gente e i preparativi per la battaglia. A volte indicavano qualcuno o qualcosa e scuotevano la testa. Non intendevano prendere parte al conflitto imminente.

La luna spuntò a oriente, al suo quattordicesimo giorno. Era grande come metà del cielo, quasi rossa, proprio sopra le montagne. Mentre l’attraversava sembrò rimpicciolirsi e impallidire fino a rimanere sospesa in alto in alto come una lanterna.

Erano in tantissimi ad aspettare, al chiaro di luna, alle pendici della montagna.


Laura aveva sete.

A volte i vivi bruciavano nella sua mente in modo costante, come le fiamme delle candele, altre volte fiammeggiavano come torce. Ciò rendeva più facile evitarli, e quando serviva, più facile reperirli. Shadow bruciava in un modo così strano, con una luce tutta sua, su quell’albero. Una volta lo aveva rimproverato, mentre camminavano tenendosi per mano, per il fatto di non essere vivo. Aveva sperato di cogliere una scintilla di emozione, di vedere qualcosa.

Ricordava che camminandogli accanto si era augurata che capisse cosa stava cercando di dirgli.

Morendo su quell’albero Shadow era stato straordinariamente vivo.

Lo aveva osservato bene, mentre la vita lo abbandonava: era concentrato, reale. E le aveva chiesto di restare con lui, di passare la notte con lui. L’aveva perdonata… forse l’aveva perdonata. Non era importante. Shadow era cambiato, di questo poteva dirsi sicura.

Le aveva detto di andare alla fattoria, dove le avrebbero dato da bere. Era tutto spento e sembrava che dentro non ci fosse nessuno, però Shadow aveva detto che le donne si sarebbero prese cura di lei, quindi spinse la porta tra le proteste dei cardini arrugginiti. Qualcosa nel suo polmone sinistro si mosse, qualcosa che spingeva e si contorceva e le provocava la tosse.

Si ritrovò in uno stretto corridoio bloccato da un grande pianoforte polveroso. L’odore di umidità era intenso e stantio. Riuscì a passare infilandosi tra pianoforte e muro, aprì un’altra porta ed entrò in un soggiorno in rovina, zeppo di mobili rotti. Sulla mensola del camino bruciava una lampada a olio. C’era un fuoco di carbone acceso, benché dall’esterno lei non avesse visto il fumo né sentito l’odore. Il fuoco non riusciva a riscaldare la stanza gelata, ma Laura era pronta a riconoscere che non fosse colpa della stanza.

La morte le procurava una sofferenza che consisteva soprattutto di assenze: aveva sempre sete, un’arsura che le bruciava le cellule, nelle ossa un’assenza di calore assoluta. A volte si chiedeva se le fiamme scoppiettanti di una pira, o la soffice coltre scura della terra, non avrebbero potuto riscaldarla, se il freddo mare non sarebbe magari riuscito a dissetarla…

Si rese conto che la stanza non era disabitata. Sul vetusto sofà c’erano tre donne sedute come in uno strano allestimento in una galleria d’arte. Era un vecchio divano rivestito di velluto consunto, di un colore marrone che un tempo, centinaia di anni prima, doveva essere stato un vivace giallo canarino. Le donne seguirono con gli occhi l’ingresso di Laura senza dire niente.

Laura non si era aspettata di trovarle.

Qualche cosa si dimenò e le cadde nella cavità nasale. Cercò il fazzolettino di carta infilato nella manica e si soffiò il naso. Poi lo appallottolò e lo gettò nel fuoco con ciò che conteneva, restò a guardarlo mentre si accartocciava, anneriva e diventava una trina arancione. Guardò il verme che bruciava.

Poi si girò verso le donne sul divano che non avevano ancora mosso un muscolo né un capello. La fissavano e basta.

«Buon giorno. Questa è la vostra fattoria?» chiese.

La più alta delle tre annuì. Aveva le mani molto rosse e un’espressione impenetrabile.

«Shadow… l’uomo appeso all’albero… è mio marito… mi ha detto di dirvi di darmi un po’ d’acqua.» Qualcosa di enorme le si mosse nelle viscere, si contorse e poi tornò immobile.

La donna più piccola, che da seduta non arrivava a toccare con i piedi per terra, scese dal divano e uscì di corsa dalla stanza.

Laura sentì porte che si aprivano e chiudevano, e da fuori arrivarono degli scricchiolii, ognuno seguito da uno splash.

Di lì a poco la piccola donna ritornò. Portava con sé una brocca di coccio piena d’acqua che posò con attenzione sul tavolo. Poi si ritirò verso il divano. Si issò a fatica sul sofà e sedette accanto alle sorelle come prima.

«Grazie.» Laura si avvicinò al tavolo, si guardò intorno in cerca di una tazza o di un bicchiere, e non vedendoli afferrò la brocca. Era più pesante del previsto e conteneva un’acqua perfettamente limpida.

L’avvicinò alle labbra e cominciò a bere.

Era fredda come ghiaccio. Le gelò la lingua, i denti e l’esofago. Comunque lei continuò a berla, incapace di smettere, sentendosi gelare lo stomaco, le viscere, il cuore, le vene.

Scorreva dentro di lei come ghiaccio liquido.

Quando si rese conto con sorpresa che la brocca era vuota, la riappoggiò sul tavolo.

Le donne la osservavano con distacco. Dal giorno della sua morte Laura aveva smesso di pensare per metafore: le cose erano o non erano. Ma adesso, guardando le tre sorelle sul divano, pensò a una giuria, a tre scienziati che esaminavano una cavia da laboratorio.

All’improvviso fu scossa da un brivido convulso. Tese una mano verso il tavolo per sostenersi, ma il tavolo scivolò via tutto storto e quasi le sfuggì. Quando riuscì ad appoggiare la mano cominciò a vomitare. Vomitò bile e formalina, centopiedi e vermi. E poi iniziò a defecare e urinare: il suo corpo si svuotava con violenza. Avrebbe urlato, se avesse potuto, ma a quel punto le tavole polverose del pavimento le vennero incontro talmente in fretta e con tanta durezza che, se avesse respirato, le avrebbero mozzato il respiro di colpo.

Il tempo la travolse e la percorse vorticando come un turbine di sabbia. Mille ricordi affollati insieme: si era persa in un grande magazzino la settimana prima di Natale, non trovava più suo padre; adesso era seduta nel bar, da Chi-Chi’s, a ordinare un daiquiri alla fragola mentre osservava l’uomo con cui gli amici le avevano combinato un appuntamento, l’uomo-bambino, grande e grosso e serio serio, chiedendosi come baciasse; poi era nella macchina che si ribaltava e continuava a roteare mentre Robbie le urlava qualcosa fino a quando il palo non aveva fermato la corsa della vettura, ma non quella dei corpi che conteneva…

L’acqua del tempo, che nasce dalla sorgente del destino, il fonte di Urdhr, non è l’acqua della vita. Non esattamente. Alimenta le radici dell’albero del mondo, però. E nessun’altra acqua le è pari.

Quando si risvegliò nella stanza vuota Laura tremava. Il suo respiro disegnava nuvolette nell’aria del mattino. Sul dorso della mano c’era un graffio con una macchietta umida che aveva il colore rosso del sangue fresco.

E sapeva già dove doveva andare. Aveva bevuto l’acqua del tempo, che sgorga dalla sorgente del destino: vedeva la montagna.

Leccò il sangue sul dorso della mano meravigliandosi della saliva e si mise in marcia.


Era un’umida giornata di marzo, insolitamente fredda per la stagione. I temporali dei giorni precedenti avevano sferzato anche gli stati meridionali, il che voleva dire che a Rock City, sulla Lookout Mountain, i veri turisti erano pochi. Le luminarie natalizie erano state smontate, e i visitatori dell’estate non avevano ancora cominciato ad arrivare.

Comunque c’era una folla, perfino un pullman turistico arrivato quella mattina con decine di uomini e donne dalle abbronzature perfette e dai sorrisi scintillanti, rassicuranti. Sembravano giornalisti televisivi e ci si poteva quasi immaginare che fossero fatti di puntolini fosforescenti: quando si muovevano lasciavano macchie indistinte. Una Humvee nera era parcheggiata proprio di fronte all’ingresso.

Quelli della televisione percorrevano con aria decisa tutta Rock City, fermandosi a parlare tra loro con voci garbate e ragionevoli vicino alla roccia in equilibrio.

Non erano gli unici esseri umani di quest’ondata di visitatori. Chi avesse percorso i sentieri di Rock City quel giorno avrebbe forse notato persone che sembravano divi del cinema, altri che sembravano alieni, e altri ancora che sembravano soprattutto un’idea di persone, niente affatto persone reali. Li avrebbe potuti vedere, certo, ma più probabilmente non li avrebbe notati per niente.

Erano arrivati a Rock City a bordo di lunghe limousine, piccole automobili sportive e fuoristrada enormi. Molti di loro indossavano gli occhiali da sole con quell’atteggiamento di chi li porta d’abitudine anche in interni e non li toglie volentieri. C’erano abbronzature e abiti eleganti, occhiali e sorrisi e cipigli. Erano persone di tutte le fogge e le dimensioni, tutte le età e gli stili.

In comune avevano quell’aria molto particolare che dice: tu mi conosci, o forse mi dovresti conoscere. Una familiarità immediata che è anche una lontananza, un aspetto, un atteggiamento, la sicurezza che il mondo è fatto per loro e che li accoglie sempre a braccia aperte.

Il ragazzo grasso si muoveva tra questa gente trascinando i piedi come chi fosse riuscito a diventare famoso, celebre perfino al di là delle proprie aspettative, malgrado l’evidente mancanza di attitudine per i rapporti sociali. Il suo cappotto nero svolazzava nel vento.

Una creatura in piedi accanto alla bancarella delle bibite nella Mother Goose Court tossì per attirare la sua attenzione. Era una creatura enorme, con lame affilate come bisturi che gli spuntavano dalla faccia e dalle dita. Aveva una faccia cancerosa. «Sarà una grande battaglia» gli disse con voce glutinosa.

«Macché battaglia» rispose il ragazzo grasso. «Qui stiamo per assistere a un cambiamento di paradigma. Una riorganizzazione. Modalità come battaglia sono decisamente troppo Lao Tzu.»

La creatura cancerosa batté le palpebre. «Aspetta» fu tutto quello che disse.

«Comunque» riprese il ragazzo grasso, «sto cercando il signor World. L’hai visto?»

La cosa si grattò con una delle sue lame, il labbro inferiore tumorale spinto in fuori in un’espressione concentrata. Poi annuì. «Da quella parte» disse.

Il ragazzo grasso si allontanò senza ringraziare nella direzione indicata. La creatura cancerosa aspettò a parlare fino a quando il ragazzo non fu lontano.

«Sarà una battaglia, invece» disse a una donna con la faccia macchiata di puntolini fosforescenti.

Lei annuì e si protese verso di lui. «E lei come si sente, in vista dello scontro?» chiese in tono comprensivo.

Lui batté le palpebre e cominciò a raccontarglielo.

La Ford Explorer di Town era dotata di un sistema satellitare, un piccolo schermo collegato al satellite che dava la posizione della macchina. Ciò nonostante una volta a sud di Blacksburg, lungo le strade di campagna, Town riuscì a perdersi: quello che percorreva non assomigliava mai all’intrico di linee sullo schermo. Lungo un sentiero si fermò, abbassò il finestrino e chiese a una bianca grassa trascinata da un cane lupo nella passeggiata mattutina le indicazioni per arrivare alla fattoria del frassino.

La donna annuì, indicò un punto vago e gli spiegò come arrivarci. Town non riuscì a capire niente ma la ringraziò molto lo stesso, rialzò il finestrino e si allontanò approssimativamente nella direzione che lei gli aveva segnalato.

Guidò per altri quaranta minuti lungo strade di campagna che sembravano non finire mai, e che non erano mai quella che stava cercando. Aveva cominciato a mordersi il labbro inferiore.

«Sono troppo vecchio per queste cazzate» disse a voce alta apprezzando il tono da divo cinematografico con cui aveva pronunciato la battuta.

Correva veloce. Aveva lavorato quasi tutta la vita in un settore del governo conosciuto soltanto con le iniziali, e se una decina di anni prima avesse lasciato davvero l’incarico governativo per andare a lavorare nel settore privato era un argomento di discussione ancora aperto: a volte pensava di sì, a volte di no. Comunque erano solo gli sprovveduti a credere che ci fosse una differenza.

Era quasi sul punto di rinunciare, quando in cima a una collina vide il cancello con il cartello dipinto a mano. Come gli era stato detto c’era scritto soltanto: FRASSINO.

Si fermò, scese dalla Ford Explorer e slegò il filo di ferro che teneva chiuso il cancello. Poi tornò in macchina e lo superò.

Era come cucinare una rana, pensò. La metti nell’acqua e alzi la fiamma. Quando la rana s’accorge che c’è qualche cosa che non va è già cotta. Il mondo in cui lavorava era troppo strano. Non c’era terreno solido sotto i piedi, e l’acqua bolliva sempre violentemente in pentola. Quando era stato trasferito all’Agenzia sembrava tutto semplice, mentre adesso era tutto… non complicato, decise, bizzarro, sostanzialmente. Alle due di notte era andato nell’ufficio del signor World a ricevere gli ordini.

«Hai capito?» chiese il signor World porgendogli un coltello in un fodero di pelle scura. «Tagliami un ramo. Non è necessario che sia più lungo di cinquanta, sessanta centimetri.»

«Affermativo» disse lui. E poi: «Perché devo farlo, signore?».

«Perché te lo ordino» rispose piattamente il signor World.

«Trova l’albero. Esegui il lavoro. Raggiungimi a Chattanooga. Non perdere tempo.»

«E dello stronzo che ne facciamo?»

«Shadow? Se lo vedi evitalo. Non toccarlo. Non perdere tempo nemmeno a dargli una lezione. Non voglio che diventi un martire. Nello schema di gioco attuale non c’è posto per i martiri.» Sorrise, il solito sorriso sfregiato. Il signor World si divertiva con niente. Town lo aveva notato più di una volta. Lo aveva divertito interpretare la parte dell’autista in Kansas, dopotutto.

«Senta…»

«Niente martiri, Town.»

Town aveva annuito e, preso il coltello, aveva ingoiato la rabbia che gli montava dentro.

L’odio che Town provava per Shadow era ormai diventato parte di lui. Prima di addormentarsi vedeva la sua faccia solenne, il suo sorriso che non era proprio un sorriso, quel modo che Shadow aveva di sorridere senza sorridere e che a lui faceva venire la voglia di tirargli un pugno nella pancia, e anche mentre si addormentava sentiva di stringere le mascelle, le tempie che pulsavano, la gola che bruciava.

Percorse il prato, superò una fattoria abbandonata. Oltre il dosso vide l’albero. Parcheggiò e spense il motore. L’orologio del cruscotto segnava le sei e trentotto minuti. Lasciò le chiavi nel quadro e si avvicinò all’albero.

Era un grande albero. Le sue proporzioni sfuggivano a ogni scala di valori: Town non avrebbe saputo dire se era alto tre o venti metri. Aveva una corteccia grigia e levigata come una sciarpa di seta.

Al tronco era legato un uomo nudo, poco sollevato da terra, sostenuto da un reticolo di funi, e ai piedi dell’albero c’era qualcosa avvolto in un lenzuolo. Passandogli accanto Town spostò il lenzuolo con un piede e capì di cosa si trattava. La parte devastata della faccia di Wednesday lo guardò.

Town raggiunse l’albero, gli fece un giro intorno, allontanandosi dagli occhi chiusi della fattoria, poi abbassò la cerniera dei pantaloni e pisciò contro il grande tronco. Tirò su la cerniera. Ritornò verso la fattoria, trovò una scala a pioli allungabile, la portò vicino all’albero. Dopo averla appoggiata con cura al tronco si arrampicò.

Shadow era inerte, completamente abbandonato alle corde. Town si chiese se fosse vivo: il petto non si alzava e non si abbassava. Morto o quasi morto, non era importante.

«Ciao, pezzo di merda» gli disse a voce alta. Shadow non si mosse.

Town arrivò in cima alla scala e tirò fuori il coltello. Trovò un rametto che sembrava corrispondere alle richieste del signor World e cominciò a tagliarlo, poi finì di staccarlo spezzandolo con le mani. Era lungo circa sessanta centimetri.

Ripose il coltello nel fodero e cominciò a scendere. Quando si trovò proprio all’altezza di Shadow si fermò. «Dio come ti odio» disse. Gli sarebbe tanto piaciuto poter tirar fuori la pistola e sparargli, ma sapeva di non poterlo fare. Allora fece un movimento nell’aria con il bastone, come per colpire l’uomo appeso, un gesto istintivo che esprimeva tutta la sua frustrazione e la sua rabbia. Immaginò di avere in mano una lancia e di conficcargliela in un fianco.

«Andiamo» disse a voce alta. «È ora di tornare.» Poi pensò: primo sintomo di pazzia, quando si parla da soli. Fece ancora qualche gradino e saltò a terra con un balzo. Guardando il bastone che stringeva in mano si sentì come un ragazzino che gioca fingendo di avere una spada, o una lancia. Avrei potuto tagliare un ramo da un albero qualsiasi, pensò. Non doveva per forza essere questo. Chi cazzo se ne sarebbe accorto?

Poi pensò: il signor World se ne sarebbe accorto.

Riportò la scala alla fattoria e con la coda dell’occhio ebbe l’impressione di vedere qualcosa muoversi. Guardò dalla finestra: vide una stanza buia piena di mobili rotti, con l’intonaco cadente, e per un momento immaginò, come in sogno, di vedere tre donne sedute sul divano, al buio.

Una di loro stava lavorando a maglia. Una fissava proprio lui. Una sembrava addormentata. La donna che lo stava fissando gli sorrise, un sorriso enorme che sembrava tagliare la sua faccia in due, un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Poi alzò un dito, lo avvicinò al collo, lo appoggiò e lo fece scorrere delicatamente fino al lato opposto.

Questo aveva creduto di vedere nella stanza deserta che a una seconda occhiata sembrava contenere invece soltanto mobili rovinati e un pavimento coperto di polvere e sudiciume secco. Lì dentro non c’era nessuno.

Si sfregò gli occhi.

Tornò alla Ford Explorer e salì. Gettò il bastone sul sedile rivestito di pelle bianca accanto al suo e mise in moto. L’orologio sul cruscotto segnava le sei e trentasette. Town si accigliò e controllò l’orologio digitale da polso: le tredici e cinquantotto.

Fantastico, pensò. O sono stato su quell’albero per otto ore oppure ho fatto un viaggio di un minuto all’indietro nel tempo. Pensò questo, ma credendo in realtà che per qualche strana coincidenza i due orologi avessero entrambi smesso di funzionare.

Sull’albero, il corpo di Shadow cominciò a sanguinare. Dalla ferita nel fianco sgorgava sangue denso e scuro come melassa.


La cima di Lookout Mountain era coperta di nuvole.

Easter sedeva a una certa distanza dalla folla alle pendici della montagna e osservava l’alba illuminare le montagne a oriente. Aveva una catenella di nontiscordardime tatuati sul polso sinistro e li accarezzava distrattamente con il pollice della mano destra.

Un’altra notte era finita e non era successo niente. Continuavano ad arrivare, da soli o a coppie. La notte precedente aveva portato parecchie creature dal Sudovest, compresi due ragazzini grandi come un melo, e qualcosa a cui lei aveva dato soltanto un’occhiata ma che le era sembrata una testa disincarnata grande come un Maggiolino Volkswagen. Erano spariti negli alberi ai piedi della montagna.

Nessuno li disturbava. Nessuno dal mondo esterno sembrava notare la loro presenza: immaginava i turisti di Rock City che attraverso il binocolo da un quarto di dollaro fissavano quel caotico accampamento di cose e persone ai piedi della montagna senza vedere altro che alberi, arbusti e rocce.

Sentì l’odore di fumo e pancetta bruciata portati dal vento freddo dell’alba. Qualcuno in fondo all’accampamento cominciò a suonare l’armonica e la cosa la fece sorridere e rabbrividire. Nello zaino aveva un libro tascabile e aspettava che in cielo ci fosse abbastanza luce per poter leggere.

Appena sotto le nuvole vide due puntini: uno piccolo e uno un po’ più grande. Qualche goccia di pioggia le sfiorò il viso nel vento del mattino.

Una ragazza scalza sbucò dall’accampamento e venne verso di lei. Vicino a un albero si fermò, e raccolte le gonne si accovacciò. Quand’ebbe finito, Easter la chiamò.

La ragazza si avvicinò.

«Buongiorno, signora» disse. «La battaglia comincerà tra poco.»

Si sfiorò le labbra scarlatte con la lingua rosea. Portava sulla spalla un’ala di corvo nera legata a una cinghia di cuoio e una zampa di corvo appesa a una catena intorno al collo. Sulle braccia aveva tatuati ghirigori e nodi intricati.

«Come lo sai?»

La ragazza sorrise. «Sono Macha, delle Morrigan. Quando scoppia la guerra la sento nell’aria. Sono una dea della guerra e dico che oggi scorrerà il sangue.»

«Oh» disse Easter. «Bene, eccoci qua.» Stava osservando il puntino più piccolo che rotolava giù dal cielo come una pietra.

«Combatteremo e li uccideremo, a uno a uno» riprese la ragazza. «E prenderemo le loro teste come trofei e i corvi mangeranno i loro occhi e i cadaveri.» Il puntolino era diventato un uccello con le ali spiegate che volava sui venti tempestosi del mattino.

Easter piegò la testa. «È un sapere segreto di dea?» chiese. «Questa sicurezza su chi saranno i vincitori? Su chi prenderà le teste come trofeo?»

«No» rispose la ragazza. «Sento l’odore della battaglia, nient’altro. Comunque vinceremo, non è vero? Dobbiamo vincere. Ho visto quello che hanno fatto al Padre Universale. O loro o noi.»

«Già» disse Easter. «Immagino che sia così.»

La ragazza sorrise ancora nella luce fioca e ritornò verso il campo. Easter posò una mano per terra e toccò un germoglio verde che spuntava come una piccola lama. Il germoglio cominciò subito a crescere e ad aprirsi, con un movimento a spirale, trasformandosi, fino a quando sotto la mano ci fu la verde corolla di un tulipano. Con il sole alto il fiore si sarebbe aperto.

Easter guardò il falco. «Posso fare qualcosa per te?»

Il falco volava qualche metro sopra la sua testa, lentamente, poi planò per andare a posarsi vicino a lei. La guardò con i suoi occhi folli.

«Ciao, bellezza» gli disse Easter. «Qual è il tuo vero aspetto?»

Il falco zampettò verso di lei con aria incerta e non era più un falco, ma un giovane. La guardò, poi abbassò gli occhi. «Tu?» disse. Guardava ovunque, l’erba, il cielo, gli arbusti, ma non lei.

«Io» disse lei. «Che cosa posso fare per te?»

«Tu.» Il ragazzo si interruppe. Sembrava sforzarsi di organizzare i pensieri, la sua faccia era attraversata dalle espressioni più strane. Ha passato troppo tempo come un uccello, pensò lei. Ha dimenticato come ci si comporta. Aspettò pazientemente e alla fine lui disse: «Verresti con me?».

«Magari. Dove vorresti portarmi?»

«L’uomo sull’albero. Ha bisogno di te. Un fantasma l’ha colpito nel fianco. Il sangue è uscito, poi si è fermato. Credo che sia morto.»

«C’è in corso una guerra. Non posso andarmene a spasso.»

Il ragazzo nudo non disse niente, si spostò da un piede all’altro come se fosse incerto su dove appoggiare il peso, come se fosse abituato a stare sospeso nell’aria o appollaiato su un ramo ondeggiante, non con i piedi sulla solida terra. Poi disse: «Se lui se n’è andato per sempre, è tutto finito».

«Ma la battaglia…»

«Se lui è spacciato, l’esito della battaglia non ha più importanza.» Il giovane aveva tutta l’aria di aver bisogno di una coperta, di una tazza di caffè molto zuccherato e di qualcuno che lo portasse da qualche parte dove poter tremare e balbettare fino a quando non avesse ritrovato il senno. Teneva le braccia lungo i fianchi, rigide.

«Dov’è? Vicino?»

Il ragazzo fissò il tulipano e scosse la testa. «Molto lontano.»

«Be’» disse lei. «Qui hanno bisogno di me. Non posso andarmene così. E poi come pensi che potrei andarci? Non so volare come te.»

«No» rispose Horus. «Non puoi volare.» Poi guardò in alto con serietà e indicò l’altro punto che usciva dalle nubi sempre più nere e girava in tondo diventando sempre più grande. «Lui sì.»


Dopo altre ore inutili al volante Town odiava il sistema satellitare almeno quanto odiava Shadow. Non c’era passione nel suo odio, però. Aveva creduto che trovare la strada fino alla fattoria, fino al grande frassino argenteo, fosse un’impresa difficile, ma trovare la strada per tornare indietro si stava rivelando molto peggio. Indipendentemente dai sentieri che prendeva, dalla direzione in cui viaggiava lungo le strette strade di campagna — le tortuose strade secondarie della Virginia che dovevano essere nate, ne era sicuro, come sentieri per i cervi e le vacche — finiva sempre per ripassare di nuovo davanti alla fattoria, davanti al cartello dipinto a mano: FRASSINO.

Assurdo, no? Doveva soltanto fare la strada a ritroso, prendere a sinistra ogni volta che aveva preso a destra nel venire, e a destra ogni volta che aveva preso a sinistra.

Solo che l’ultima volta aveva fatto esattamente così e adesso rieccolo davanti alla fattoria. In cielo si stavano addensando nubi scure che annunciavano il temporale e benché fosse mattina faceva già buio come di notte; lo aspettava un lungo viaggio, di quel passo non sarebbe mai arrivato a Chattanooga entro il pomeriggio.

Il cellulare gli dava solo il messaggio Ricerca di rete. La cartina nel cassetto del cruscotto riportava le strade principali, Interstate e autostrade vere e proprie, ma sembrava non considerare altro. E non c’era in giro un’anima a cui chiedere. Le case erano molto lontane dalle strade, e sembravano tutte disabitate. Oltretutto la spia del carburante si stava spostando verso la riserva. Sentì il rombo lontano di un tuono e un’isolata goccia di pioggia cadde pesante sul parabrezza.

Perciò quando vide la donna che camminava lungo il ciglio della strada, Town sorrise involontariamente. «Grazie a dio» esclamò a voce alta, e le si avvicinò. Abbassò il finestrino. «Signora, mi scusi, credo di essermi perso. Può dirmi come si fa ad arrivare all’autostrada 81 da qui?»

Lei lo guardò e disse: «Sa, non credo di riuscire a spiegarglielo. Però se vuole posso accompagnarla». La donna era pallida, aveva i capelli lunghi e scuri tutti bagnati. «Salga» disse senza esitare Town. «Prima di tutto dobbiamo fare benzina.»

«Grazie» rispose lei. «Avevo proprio bisogno di un passaggio.» Salì. I suoi occhi erano straordinariamente azzurri. «C’è un bastone sul sedile» osservò stupita.

«Lo butti dietro. Dov’è diretta?» chiese. E poi: «Signora, se riesce a farmi arrivare a una pompa di benzina e sulla statale io l’accompagno fin sulla porta di casa».

«Grazie. Ma credo di andare più lontano di lei. Mi basta un passaggio fino alla statale, lì magari trovo un camionista con cui proseguire.» Sorrise, un sorriso deciso, un po’ obliquo. Town ne fu conquistato.

«Signora» le disse, «io sono meglio di qualsiasi camionista.» Sentiva il suo profumo: era inebriante e intenso, un po’ nauseante, come di magnolie o gigli, però non gli dispiaceva.

«Vado in Georgia» disse lei allora. «È molto lontano.»

«Io vado a Chattanooga. La porto più in là possibile.»

«Benissimo» disse lei. «Come si chiama?»

«Mi chiamano Mack» rispose il signor Town. Quando abbordava le donne nei bar a volte a questa dichiarazione faceva seguire la frase: «E quelle che mi conoscono bene mi chiamano Big Mack». In questo caso era meglio aspettare, con un viaggio così lungo davanti c’era tutto il tempo per conoscersi. «E tu come ti chiami?»

«Laura.»

«Bene, Laura, sono sicuro che diventeremo amici.»


Il ragazzo grasso trovò il signor World nella Rainbow Room, una sezione murata del sentiero che aveva incollate sui vetri pellicole di plastica colorate, verdi, rosse e gialle. Camminava impaziente da una finestra all’altra guardando un mondo di volta in volta dorato, rosso, verde. Aveva i capelli color carota, quasi rossi, tagliati a spazzola. Portava un impermeabile Burberry.

Il ragazzo grasso tossì. Il signor World alzò gli occhi.

«Mi scusi. Signor World?»

«Sì. E tutto a posto?»

Il ragazzo grasso aveva la bocca secca. Si leccò le labbra e disse: «Ho preparato tutto. Non ho ancora ricevuto la conferma dagli elicotteri».

«Quando sarà il momento arriveranno.»

«Bene» disse il ragazzo grasso. «Bene.» Rimase lì senza parlare ma con l’aria di non volersi muovere. Aveva un livido sulla fronte.

Dopo qualche istante il signor World disse: «Hai bisogno di qualcosa?».

Una pausa. Il ragazzo deglutì e annuì. «Infatti» disse. «Sì.»

«Preferisci che ne parliamo in privato?»

Il ragazzo annuì ancora.

Il signor World lo accompagnò nel suo centro operativo: un’umida grotta che conteneva il diorama di un gruppo di pixy ubriachi indaffarati a distillare un liquore con l’alambicco. Un cartello diceva ai turisti che era vietato l’ingresso durante i lavori di ristrutturazione. I due sedettero sulle sedie di plastica.

«Che cosa posso fare per te?» chiese il signor World.

«Sì. Okay. Ecco, due cose. Okay. Primo: cosa stiamo aspettando? E secondo: la seconda è più difficile. Senta… abbiamo i fucili. Bene. Abbiamo la potenza di fuoco. Loro… loro hanno delle spade del cazzo, coltelli, martelli e asce di pietra. Qualche cric. Noi abbiamo le bombe intelligenti.»

«Che però non useremo» precisò l’altro.

«Lo so. Ce l’ha già detto. Lo so. È fattibile. Però. Senta… da quando ho fatto quel lavoretto alla puttana di Los Angeles, mi sono sentito…»

Si interruppe facendo una smorfia, come se non volesse continuare.

«Ti sei sentito disturbato?»

«Sì. Bella parola. Disturbato. Infatti. Come in un istituto per adolescenti disturbati. Divertente. Sì.»

«E cos’è che ti disturba, esattamente?»

«Be’, noi combattiamo, vinciamo.»

«E questo è fonte di turbamento, per te? Personalmente lo trovo motivo di trionfo e felicità.»

«Sì, però moriranno comunque. Loro sono colombe migratrici, tilacini. Estinti, giusto? Chi se ne frega? Invece così sarà un bagno di sangue.»

Il signor World annuì.

Lo stava ascoltando. Bene. Il ragazzo grasso continuò: «Senta, non sono l’unico a pensarla in questo modo. Ne ho parlato con i ragazzi di Radio Modern che sono per trovare un accordo pacifico; e gli intoccabili sono quasi tutti del parere di lasciare che siano le leggi di mercato a risolvere il problema. Io sono… come dire… la voce della ragione».

«Davvero, lo sei. Sfortunatamente però ti mancano alcune informazioni.» Il sorriso che seguì quella frase era un sorriso sfregiato.

Il ragazzo batté le palpebre. «Signor World?» disse. «Che cosa è successo alle sue labbra?»

World sospirò. «La verità» disse «è che un giorno qualcuno le ha cucite. Tanto tempo fa.»

«Accidenti» disse il ragazzo grasso. «Come una storia di omertà.»

«Vuoi sapere che cosa stiamo aspettando? Perché non abbiamo attaccato la notte scorsa?»

Il ragazzo grasso annuì. Sudava, ma era un sudore freddo.

«Non abbiamo sferrato l’attacco perché sto aspettando un bastone.»

«Un bastone?»

«Esatto. Un bastone. E sai che cosa farò, con quel bastone?»

L’altro scosse la testa. «Okay. Me lo dica. Che cosa farà?»

«Potrei dirtelo» rispose il signor World gravemente, «però poi sarei costretto a ucciderti.» Strizzò l’occhio e la tensione nella stanza si allentò.

Il ragazzo grasso cominciò a ridacchiare, una risata interminabile, nasale. «Okay. Eh eh. Okay. Eh eh. Ho capito. Messaggio ricevuto sul pianeta tecnologico. Forte e chiaro. Nada, niente da fare.»

Il signor World scosse la testa e gli appoggiò una mano sulla spalla. «Ehi» disse, «vuoi saperlo davvero?»

«Sicuro.»

«Bene» disse il signor World, «visto che siamo amici, ecco cosa farò: prenderò il bastone e nel momento esatto in cui si scontreranno lo lancerò sopra gli eserciti. Quando io lo lancerò il bastone si trasformerà in una lancia. E mentre la lancia disegnerà un arco nel cielo proprio sopra la battaglia, io griderò "dedico questa battaglia a Odino".»

«Cosa? Perché?»

«Per il potere» rispose il signor World. Si grattò il mento. «E per il nutrimento. Una combinazione delle due cose. Vedi, l’esito della battaglia non conta. Ciò che importa è il caos, e il massacro.»

«Non capisco.»

«Te lo dimostro. Sarà così» disse. «Attenzione!»

Prese dalla tasca del Burberry un coltello da caccia con l’impugnatura di legno e con un movimento sciolto infilò la lama nella carne molle sotto il mento del ragazzo grasso spingendo verso l’alto, verso il cervello. «Dedico questa morte a Odino» disse, mentre la lama affondava.

Sulla mano gli cadde qualche cosa che non era veramente sangue e dietro gli occhi del ragazzo grasso si sentì un crepitio di scintille. L’odore che si diffuse nell’aria era quello di fili elettrici bruciati.

Il ragazzo grasso contrasse la mano e poi cadde. Aveva sul volto un’espressione stupita e infelice. «Guardalo» disse in tono colloquiale il signor World rivolgendosi all’aria. «Sembra che abbia appena visto una sequenza di zero e di uno trasformarsi in uno stormo di uccelli colorati che prende il volo.»

Non arrivò nessuna replica dal vuoto corridoio di roccia.

Il signor World si caricò il corpo sulla spalla come se non pesasse niente, aprì il diorama dei pixy, lo lasciò cadere accanto all’alambicco e lo coprì con il suo lungo impermeabile nero. Se ne sarebbe liberato quella sera, decise, e fece il suo sorriso sfregiato: nascondere un cadavere su un campo di battaglia era fin troppo facile. Nessuno gli avrebbe badato. Nessuno se ne sarebbe interessato.

Seguì qualche minuto di silenzio, poi nell’ombra una voce burbera che non era quella del signor World si schiarì la gola e disse: «Bell’inizio».

18

Cercarono di fermare i soldati, ma i soldati fecero fuoco uccidendoli entrambi. Perciò la canzone sbaglia, quando parla della prigione, è una licenza poetica. La realtà non corrisponde sempre alla poesia. La poesia non corrisponde sempre alla verità. Spesso è questione di metrica.

Commento di un cantante a The ballad of Sam Bass, in A Treasury of American Folklore

Niente di tutto quello che è stato raccontato fin qui potrebbe accadere davvero. Prendetela come una metafora, se la cosa vi fa sentire meglio. Le religioni sono per definizione delle metafore, dopotutto: Dio è un sogno, una speranza, una donna, un ironista, un padre, una città, una casa più grande, un orologiaio che ha perso il suo prezioso cronometro nel deserto, qualcuno che vi ama, o addirittura, contro ogni evidenza, un essere celeste il cui unico obiettivo è fare in modo che la vostra squadra di calcio o il vostro esercito vincano, oppure che i vostri problemi professionali o matrimoniali si risolvano e che voi possiate prosperare trionfando su ogni difficoltà.

Le religioni sono punti di osservazione che condizionano le vostre azioni, posizioni di vantaggio da cui osservare il mondo.

Quindi non sta accadendo niente di tutto quello che è stato raccontato fin qui. Cose simili non possono succedere. Non c’è una sola parola di verità. In ogni caso, quel che accadde dopo, accadde nel seguente modo:

Ai piedi della Lookout Mountain, sotto alberi che fornivano una scarsa protezione contro la pioggia, uomini e donne si erano riuniti intorno a un piccolo fuoco all’aperto e stavano litigando.

La dea Kalì con la sua pelle nera come l’inchiostro e i denti bianchi e aguzzi disse: «È arrivato il momento».

Anansi, con i guanti giallo limone e i capelli argentati, scosse la testa. «Possiamo aspettare. E siccome possiamo, dobbiamo.»

Dalla folla si alzò un mormorio di disapprovazione.

«No, ascoltate, ha ragione» disse un vecchio con i capelli color grigio ferro: Chernobog. Teneva una mazza appoggiata alla spalla. «Hanno il vantaggio di dominarci dall’alto, e anche il tempo ci è contro. Cominciare adesso è una pazzia.»

Una creatura che assomigliava in parte a un lupo e soprattutto a un essere umano grugnì e sputò per terra. «Quale momento più giusto per attaccare, dedushka? Dobbiamo aspettare che il tempo migliori, quando è evidente che attaccheremo? Io dico: andiamo adesso. Dico: affrettiamoci.»

«Tra noi e loro ci sono le nuvole» osservò Isten degli ungheresi. Aveva un bel paio di baffi neri, portava un cappello nero dalla tesa larga tutto impolverato, e ostentava il sorriso di un uomo che si guadagna da vivere vendendo rivestimenti di alluminio per tetti e grondaie ai pensionati, e che lascia sempre la città subito dopo aver incassato gli assegni senza aver finito il lavoro.

Un uomo molto elegante che fino a quel momento non aveva detto niente congiunse le mani, avanzò verso il fuoco ed espresse la sua opinione in modo succinto e chiaro, suscitando cenni di assenso e borbottii di intesa.

Dal gruppo delle donne guerriere, le Morrigan, si alzò una voce. Erano così vicine, nell’ombra, da sembrare un’unica composizione di arti tatuati di blu e ali di corvo. La voce disse: «Non importa se il momento è giusto o sbagliato. È il momento. Ci ammazzano. Meglio morire tutti insieme attaccando come dèi che fuggendo alla rinfusa come topi».

Seguì un altro mormorio, questa volta erano d’accordo proprio tutti. La donna guerriera aveva espresso l’opinione generale: il momento era arrivato.

«La prima testa è mia» disse un cinese molto alto con una collana di minuscoli crani al collo. Cominciò ad arrampicarsi con lentezza e determinazione portando sulla spalla un bastone che terminava con una lama ricurva come una luna d’argento.


Anche il Nulla non dura per sempre.

Forse, lì nel Nessundove, era stato per dieci minuti, o forse per diecimila anni. Non faceva differenza: il tempo era un concetto del quale non aveva più bisogno.

Non ricordava il suo vero nome. In quel luogo che non era un luogo si sentiva svuotato e ripulito.

Senza forma, vuoto.

Non era niente.

E in quel niente una voce lo chiamò: «Hohoka, cugino. Dobbiamo parlare».

Qualcosa che un tempo era stato un uomo di nome Shadow disse: «Sei Whiskey Jack?».

«Già» rispose l’altro dall’oscurità. «È difficile rintracciarti, da morto. Non sei andato in nessuno dei posti che avevo pensato. Ti ho cercato dappertutto prima che mi venisse l’idea di guardare qui. Dimmi, l’hai poi trovata la tua tribù?»

Shadow ripensò all’uomo e alla ragazza che ballavano sotto la sfera di cristallo. «Credo di aver trovato la mia famiglia. La tribù no, non mi pare.»

«Scusa se ti disturbo.»

«Lasciami in pace. Ho avuto quello che volevo. Sono spacciato.»

«Ti stanno venendo a cercare» disse Whiskey Jack. «Vogliono farti risuscitare.»

«Ma sono spacciato» insisté Shadow. «È tutto finito, per sempre.»

«Non bisogna mai dire niente del genere» disse Whiskey Jack. «Mai. Andiamo da me. Ti andrebbe una birra?»

A quel punto in effetti gli sarebbe piaciuta. «Certo.»

«Prendine una anche per me. C’è una ghiacciaia, fuori dalla porta.» Erano nella baracca di Whiskey Jack.

Shadow aprì la porta con mani che fino a pochi istanti prima non possedeva e vide una ghiacciaia di plastica piena di pezzi di ghiaccio del fiume con una dozzina di lattine di Budweiser. Ne prese un paio e sedette sulla soglia a guardare la valle.

Si trovavano in cima a una montagna, vicino a una cascata gonfia di neve sciolta che faceva un salto di venti o trenta metri sotto di loro. Il sole si rifletteva sulla brina che copriva gli alberi affacciati sulla pozza in fondo alla cascata.

«Dove siamo?»

«Dov’eri l’ultima volta che sei venuto da me» rispose Whiskey Jack. «A casa mia. Vuoi tenerti la mia birra in mano fino a quando non sarà calda?»

Shadow si alzò e gli passò la lattina. «L’altra volta non c’era nessuna cascata davanti a casa tua.»

Whiskey Jack non rispose. Aprì la lattina e in un unico sorso ingollò metà del contenuto. Poi disse: «Ti ricordi mio nipote Harry Bluejay? Il poeta? Quello che ha scambiato la sua Buick per la vostra Winnebago, te lo ricordi?».

«Certo. Non sapevo che fosse un poeta.»

Whiskey Jack alzò il mento con fierezza. «Il miglior poeta d’America.»

Finì la birra, ruttò e si prese un’altra lattina, mentre Shadow stava ancora aprendo la prima. Nel sole del mattino sedettero uno accanto all’altro su un sasso vicino a un gruppo di felci verde pallido, osservando la cascata e bevendo la birra. Per terra, nei punti dove le ombre non si accorciano mai, c’era ancora un po’ di neve.

Il terreno era umido e fangoso.

«Harry era diabetico» continuò Whiskey Jack. «Capita. Capita troppo spesso. Voi uomini bianchi venite in America, ci prendete la canna da zucchero, le patate, il granturco, poi ci rivendete le patatine fritte e il popcorn caramellato e noi ci ammaliamo.» Sorseggiò la birra riflettendo. «Le sue poesie avevano vinto anche un paio di premi. Nel Minnesota c’era qualcuno che voleva pubblicargli un libro. Stava andando a parlare proprio con loro su una macchina sportiva. Aveva barattato la vostra ’Bago con una Miata gialla. I dottori hanno detto che dev’essere entrato in coma mentre era al volante, è uscito di strada ed è andato a sbattere contro uno dei vostri cartelli stradali. Troppo pigri per guardare dove andate, per capire le indicazioni delle montagne e delle nuvole, avete bisogno di mettere cartelli dappertutto. E così Harry Bluejay se n’è andato a vivere per sempre con fratello Lupo. Perciò, mi sono detto, non c’era più niente che mi tenesse là. E sono venuto al Nord. Qui si pesca bene.»

«Mi dispiace per tuo nipote.»

«Anche a me. Così adesso vivo qui al Nord. Lontano dalle malattie dall’uomo bianco. Dalle strade dell’uomo bianco. Dai cartelli dell’uomo bianco. Dalle Miata gialle dell’uomo bianco. Dal popcorn caramellato dell’uomo bianco.»

«Anche dalla birra dell’uomo bianco?»

Whiskey Jack guardò la lattina. «Quando finalmente voi uomini bianchi ve ne andrete via lasciateci pure le fabbriche di birra Budweiser» disse.

«Dove siamo?» domandò Shadow. «Sono ancora sull’albero? Sono morto? Sono qua? Pensavo che fosse tutto finito. Che cosa è reale?»

«Sì» rispose Whiskey Jack.

«"Sì"? Che razza di risposta sarebbe "sì"?»

«Una buona risposta. Una risposta sincera.»

Shadow disse: «Sei un dio anche tu?».

Whiskey Jack scosse la testa. «Sono una leggenda. Facciamo quello che fanno gli dèi, con qualche cazzata in più, e nessuno ci venera. Raccontano un po’ di storie sul nostro conto, qualcuna ci mette in cattiva luce e qualche altra ci fa fare bella figura.»

«Capisco» disse Shadow, e più o meno capiva.

«Ascolta» disse Whiskey Jack, «questo non è un posto buono per gli dèi. Il mio popolo se n’è reso conto subito. Ci sono spiriti creatori che hanno trovato la terra, oppure l’hanno fatta o l’hanno cagata, ma pensaci un po’… chi è che vorrebbe adorare Coyote? Ha fatto l’amore con la Donna Porcospino e si è ritrovato con il cazzo come un puntaspilli. Se si metteva a discutere con i sassi lo fregavano loro.

«Quindi, sì, il mio popolo ha capito che dietro dev’esserci qualche cosa, un creatore, un grande spirito di qualche tipo, e quindi gli diciamo grazie, perché dire grazie va sempre bene. Però chiese non ne abbiamo mai costruite. Non ne abbiamo bisogno. La terra era la nostra chiesa. La terra era la religione. La terra era più antica e più saggia degli uomini che la calpestavano. Ci dava salmone e granturco e bufali e colombe migratrici. Ci dava il riso d’acqua e le felci. Ci dava i meloni, le zucche e i tacchini. E noi eravamo i figli della terra, proprio come il porcospino, la puzzola e la ghiandaia azzurra.»

Finì la seconda birra e indicò con un gesto in fondo alla cascata. «Se segui quel fiume, dopo un po’ arriverai ai laghi dove cresce il riso d’acqua. Quando è il periodo giusto ci puoi andare in canoa insieme a un amico, te lo raccogli, lo cucini, lo conservi, e resiste per tantissimo tempo. In ogni posto crescono cibi diversi. Molto più a sud ci sono gli aranci, i limoni e quelle cose molli e verdi che sembrano pere…»

«Avocado.»

«Avocado, giusto. Proprio loro. Quassù non crescono. Questa è la terra del riso d’acqua. Delle alci. Quello che sto cercando di dirti è che l’America è così. Non è un terreno fertile per gli dèi. Non crescono bene e basta. Sono come gli avocado che cercano di crescere nella terra del riso d’acqua.»

«Magari non cresceranno bene» rispose Shadow, ricordando qualcosa, «però si fanno la guerra.»

Quella fu la prima e unica volta che vide ridere Whiskey Jack. Sembrava che abbaiasse, in realtà, era una risata poco divertita. «Ehi, Shadow: se tutti i tuoi amici si buttano giù da una rupe, ti butti anche tu?»

«Può darsi.» Shadow stava bene. Non pensava che fosse soltanto merito della birra. Non riusciva a ricordare quando si era sentito altrettanto vivo, e integro.

«Non sarà una guerra.»

«Allora che cos’è?»

Whiskey Jack stritolò la lattina di birra tra le mani fino ad appiattirla completamente. «Guarda» disse, indicando la cascata. Il sole era alto e ne catturava gli spruzzi creando un nembo iridato che rimaneva sospeso nell’aria. Shadow pensò che non aveva mai visto niente di più bello.

«Sarà un bagno di sangue.»

A quel punto Shadow capì. Lo capì in tutta la sua cruda semplicità. Scosse la testa, poi cominciò a ridacchiare, scosse di nuovo la testa e scoppiò a ridere sonoramente senza riuscire a smettere.

«Stai bene?»

«Benissimo» rispose. «Solo che finalmente ho visto gli indiani nascosti. Non tutti, però qualcuno sì.»

«Allora probabilmente devono essere ho chunk, non sono mai stati capaci di nascondersi.» Guardò in alto verso il sole. «È tempo di tornare» disse. Si alzò.

«È una truffa per cui servono due uomini. Soci» disse Shadow. «Non in guerra. Giusto?»

Whiskey Jack gli batté una pacca sul braccio. «Non sei così stupido.»

Tornati alla baracca, Whiskey Jack aprì la porta. Shadow esitò. «Mi piacerebbe poter restare qui con te» disse. «Mi sembra un buon posto.»

«Ci sono tanti posti buoni» rispose l’altro. «Il senso è questo. Sta’ a sentire, gli dèi muoiono quando vengono dimenticati. Anche la gente. Però la terra rimane: i posti buoni e quelli cattivi. La terra non va da nessuna parte. Neanch’io.»

Shadow chiuse la porta. Qualcosa lo stava tirando. Era di nuovo solo nell’oscurità, ma l’oscurità diventava a poco a poco luminosa, sempre più luminosa, fino a quando non fu splendente e abbagliante come il sole.

Allora cominciò il dolore.


Easter camminava sul prato e al suo passaggio spuntavano i fiori.

Passò accanto a un luogo dove tanto tempo prima c’era stata una fattoria. Se ne vedevano ancora le mura spuntare tra giunchi ed erbacce come denti marci. Cadeva una pioggia leggera. Le nubi erano basse e scure e faceva freddo.

Poco dietro il punto dove sorgeva la fattoria c’era un albero, un enorme albero grigio argento nella sua spoglia veste invernale e, di fronte all’albero, nell’erba, brandelli di stoffa incolore. La donna si fermò, si chinò, e raccolse qualcosa di marrone e bianco: un frammento d’osso molto masticato che doveva essere appartenuto a un teschio umano. Lo ributtò nell’erba.

Poi guardò l’uomo appeso e sorrise ironica. «Nudi non sono poi così interessanti» disse. «Metà del divertimento consiste nello spogliarli. Come quando si aprono i regali e si sgusciano le uova.»

L’uomo con la testa di falco che camminava accanto a lei si guardò il pene e sembrò rendersi improvvisamente conto di essere nudo. Disse: «Io posso guardare il sole senza battere le palpebre».

«Ma che bravo» lo rassicurò Easter. «Dai, tiriamolo giù di lì.»

Le funi bagnate che tenevano Shadow legato all’albero erano ormai marce e cedettero al primo strattone. Il corpo scivolò verso le radici. I due lo afferrarono in caduta e lo trasportarono facilmente, benché fosse grande e grosso, e lo adagiarono sul prato grigio.

Il corpo era freddo, e non respirava. Sul fianco aveva una ferita con del sangue coagulato, come se fosse stato trafitto da una lancia.

«E adesso?»

«Adesso» rispose lei «lo riscaldiamo. Sai quello che devi fare.»

«Lo so. Non posso.»

«Se non eri disposto a dare una mano non avresti dovuto farmi venire fin qua.»

Easter allungò una mano candida e sfiorò i capelli corvini di Horus. Lui la guardò con grande concentrazione, poi cominciò a scintillare come la foschia provocata da un calore intenso.

Gli occhi di falco che la guardavano erano luminosi, color arancione, come se vi fosse stata ravvivata una fiamma estinta da tempo.

Il falco si alzò in volo salendo a spirale, volando intorno al prato tra le nuvole grige dove era nascosto il sole, e mentre saliva diventava una macchia, poi un puntino e poi più niente di visibile a occhio nudo, qualcosa che poteva soltanto essere immaginato. Le nubi cominciarono a sfaldarsi e a evaporare liberando una striscia di cielo azzurro attraverso la quale spuntò il sole. Il primo raggio che riuscì a penetrare le nubi e inondare il prato era bellissimo, ma la perfezione si dissolse, man mano che le nuvole scomparivano. Di lì a poco brillava sul prato un sole estivo di mezzogiorno che trasformava il vapore acqueo in umidità, e l’umidità in niente.

Inondò il corpo sdraiato sul prato con il radioso calore dei suoi raggi d’oro, lo accarezzò con sfumature rosa e di un caldo marrone.

La donna fece scorrere delicatamente le dita della mano destra sul petto del cadavere. Le sembrò di sentire un fremito, non proprio un battito, però… Lasciò la mano appoggiata sul cuore.

Piegò la testa, avvicinò la bocca alla bocca di Shadow e cominciò a respirare ritmicamente, poi il respiro diventò un bacio. Un bacio gentile che aveva il sapore delle piogge primaverili e dei fiori di campo.

La ferita nel fianco riprese a sanguinare, gocce di sangue liquido e scarlatto che rotolavano come rubini nella luce, e poi smise.

Lei baciò Shadow su una guancia e sulla fronte. «Alzati. È ora di alzarsi. È il momento decisivo. Non te lo vorrai perdere.»

Shadow batté le palpebre e poi aprì gli occhi: avevano il colore grigio della sera. La guardò.

Easter sorrise e ritrasse la mano.

«Mi hai riportato indietro» le disse. Lentamente, come se avesse dimenticato come si fa a parlare, e con un tono addolorato e stupito.

«Sì.»

«Ero spacciato. Già giudicato. Tutto finito. Mi hai riportato indietro. Come hai osato?»

«Mi dispiace.»

«Sì.»

Lui si alzò lentamente e trasalì, toccandosi il fianco con un’aria ancora più sconcertata: c’era qualche goccia di sangue fresco, ma nessuna ferita.

Shadow allungò una mano e per sostenerlo lei gli infilò un braccio sotto le ascelle. Lui guardò verso il prato come sforzandosi di ricordare i nomi delle cose che vedeva: i fiori nell’erba alta, le rovine della fattoria, i germogli, quasi una peluria sui rami dell’enorme albero argenteo.

«Ti ricordi?» chiese lei. «Ricordi quello che hai imparato?»

«Ho perduto il mio nome, e il cuore. Tu mi hai riportato indietro.»

«Mi dispiace» ripeté Easter. «Stanno per cominciare a combattere: i vecchi dèi e quelli nuovi.»

«Vuoi che combatta per voi? Hai perso il tuo tempo, allora.»

«Ti ho riportato indietro perché dovevo» rispose lei. «Adesso farai quello che devi. Tocca a te. Io ho fatto la mia parte.»

All’improvviso Easter divenne consapevole della nudità di Shadow, arrossì violentemente e distolse lo sguardo.


Protette dalla pioggia e dalle nuvole, le ombre si muovevano sul fianco della montagna, lungo i sentieri rocciosi.

Volpi bianche procedevano in compagnia di uomini dai capelli rossi, vestiti di verde. C’era un minotauro che avanzava accanto a uno pterodattilo con gli artigli di metallo. Un maiale, una scimmia e un essere demoniaco dai denti aguzzi salivano in compagnia di un uomo dalla pelle azzurra che teneva in mano un arco fiammeggiante, un orso con i fiori intrecciati nella pelliccia e un uomo con una corazza a maglia d’oro che aveva una spada fatta di occhi.

Il bellissimo Antinoo, amante di Adriano, saliva sulla montagna in testa a un manipolo di omosessuali vestiti di cuoio con i muscoli perfettamente scolpiti dagli steroidi.

Un ciclope dalla pelle grigia con un enorme smeraldo al posto dell’occhio avanzava a passo rigido precedendo alcuni uomini tozzi dalla carnagione scura, i volti impassibili e regolari come nelle incisioni azteche: uomini che conoscevano i segreti inghiottiti dalla giungla.

Un cecchino appostato sulla vetta prese la mira con calma e sparò sulla volpe bianca. Ci fu un’esplosione, una nuvoletta di cordite, l’odore della polvere da sparo si diffuse nell’aria umida. Il cadavere era quello di una giovane donna giapponese con la pancia sventrata, la faccia tutta coperta di sangue. Piano piano il cadavere svanì.

La gente continuava ad arrampicarsi sulla montagna a due zampe, a quattro zampe, senza zampe.


Il viaggio attraverso il territorio montagnoso del Tennessee era stato bello da mozzare il fiato quando non c’era il temporale e sfinente quando la pioggia scrosciava violenta. Town e Laura avevano chiacchierato per tutto il tragitto. Lui era incredibilmente felice di averla incontrata. Era come aver ritrovato un’amica, una vecchia amica molto amata e non più incontrata da anni. Avevano parlato di storia, di cinema, di musica, e si era scoperto che Laura era l’unica oltre a lui ad aver visto un film straniero degli anni Settanta (Town era sicuro che fosse spagnolo, mentre lei diceva polacco) intitolato Il manoscritto trovato a Saragozza, un film che Town cominciava a credere di aver sognato.

Quando Laura indicò il primo fienile con la scritta VISITATE ROCK CITY lui ridacchiò e ammise di essere diretto proprio lì. Lei disse: fantastico, aveva tanto desiderato visitare uno di quei posti, non ne aveva mai avuto il tempo e se n’era sempre rammaricata. Per questo adesso era in viaggio, per vivere un’avventura.

Lavorava in un’agenzia di viaggi, gli raccontò, era separata dal marito. Ammise di ritenere che non sarebbero più tornati assieme, e aggiunse che la colpa era sua.

«Non posso crederci.»

Lei sospirò. «È vero, Mack, non sono più la donna che aveva sposato.»

Be’, le disse lui, la gente cambia, e prima di rendersi conto che le stava ormai raccontando proprio tutto della sua vita, attaccò a parlare di Woody e Stone, di come insieme venivano chiamavati i tre moschettieri, e che gli altri due erano stati uccisi. Uno penserebbe che lavorando per il governo ci si dovrebbe abituare ai morti ammazzati, invece non ci si abitua mai.

E lei allungò una mano — talmente fredda che Town alzò il riscaldamento — e gli strinse forte la sua.

All’ora di pranzo si fermarono a mangiare del cattivo cibo giapponese mentre il temporale incombeva pesante su Knoxville, e a Town non dispiacque per niente che il servizio fosse lentissimo, la zuppa di miso fredda, il sushi tiepido.

Era felice che Laura avesse deciso di vivere la sua avventura proprio con lui.

«Be’» gli confidò lei, «detestavo l’idea di marcire, e lì dov’ero stavo proprio ammuffendo. Così sono partita senza macchina, senza carte di credito. Posso contare soltanto sulla gentilezza degli sconosciuti.»

«Non hai paura? Potresti finire nei guai, essere aggredita o morire di fame.»

Lei scosse la testa, poi disse con un sorriso esitante: «Però ho incontrato te, vero?». E lui non riuscì a trovare niente da obiettare.

Finito di mangiare corsero sotto il temporale fino all’automobile riparandosi la testa con dei giornali giapponesi e correndo ridevano, come bambini nella pioggia.

«Fin dove ti posso portare?» chiese lui quando furono di nuovo in macchina.

«Fin dove arrivi tu, Mack» rispose lei timidamente.

Town era proprio felice di non aver sfoderato la battuta su Big Mack. Quella donna non era una storia da bar di una notte, lo sapeva, nel profondo del cuore. Magari ci aveva messo cinquant’anni a trovarla, ma finalmente l’aveva trovata: era lei, quella donna magica e selvaggia con i lunghi capelli scuri.

Per Town era sbocciato l’amore.

«Senti…» le disse quando arrivarono a Chattanooga. I tergicristallo dipingevano con la pioggia una macchia grigia al posto della città. «E se ti prendessi una camera in un motel, per questa notte? La pago io. Quando ho finito la consegna… possiamo fare un bel bagno caldo insieme, per cominciare. Riscaldarti un po’.»

«Mi sembra un’idea meravigliosa» rispose Laura. «Che cosa devi consegnare?»

«Quel bastone» disse lui, e ridacchiò. «Sul sedile posteriore.»

«D’accordo» ribatté lei in tono ironico. «Non dirmi niente, se non vuoi, signor Mistero.»

Town era del parere che sarebbe stato meglio se lei avesse aspettato in macchina nel parcheggio di Rock City, mentre lui andava a consegnare il bastone. Imboccò la salita sotto la pioggia battente a cinquanta all’ora, con gli abbaglianti accesi. In fondo al parcheggio si fermò e spense il motore.

«Ehi, Mack, non mi abbracci nemmeno, prima di andare?» chiese lei con un sorriso.

«Ma sicuro» rispose il signor Town. L’abbracciò, e lei gli si rannicchiò contro il petto mentre la pioggia disegnava un complesso tatuaggio sul tetto della Ford Explorer. Lui inspirò l’odore dei capelli di Laura, qualcosa di vagamente sgradevole, sotto il profumo. Viaggiando ci si sporca sempre. Quel bagno, decise, era necessario a tutti e due. Si domandò se a Chattanooga non ci fosse un posto dove comprare le perle da bagno alla lavanda per cui andava pazza la sua prima moglie. Laura alzò la testa e gli accarezzò il collo.

«Mack… continuo a pensare a una cosa… non sei curioso di sapere cos’è successo ai tuoi amici? A Woody e Stone?»

«Sì» rispose lui avvicinando le labbra a quelle di lei per il loro primo bacio. «Certo che sono curioso.»

Così Laura glielo mostrò.


Shadow camminò intorno all’albero, piano piano, disegnando cerchi sempre più grandi. Ogni tanto si fermava a raccogliere qualcosa nel prato: un fiore o una foglia, un sassolino, un rametto o un filo d’erba. Lo esaminava con attenzione, concentrandosi completamente sulla natura legnosa del legno, su quella fogliacea della foglia.

Easter pensò che aveva lo sguardo dei neonati quando cominciano a mettere a fuoco.

Non osava rivolgergli la parola. Le sarebbe sembrato sacrilego. Continuò a osservarlo, benché esausta, e a interrogarsi.

A poco più di sei metri dall’albero, seminascosto dalle erbacce e dai rampicanti morti, Shadow trovò un sacco di juta. Lo prese, ne disfece i nodi, allentò il cordino che lo chiudeva.

Gli indumenti erano i suoi. Vecchi, ma ancora utilizzabili. Rigirò le scarpe tra le mani. Accarezzò la camicia di cotone, il maglione di lana, fissandoli da una distanza di milioni di anni.

Li indossò a uno a uno.

Infilò le mani in tasca e fu con aria perplessa che estrasse qualcosa che secondo Easter era una biglia bianca e grigia.

Disse: «Niente monete». Erano le prime parole che pronunciava dopo ore.

«Monete?» gli fece eco Easter.

Lui scosse la testa. «Mi tenevano le mani occupate.» Si chinò per mettersi le scarpe.

Una volta vestito aveva un’aria più normale. Grave, però. Easter si chiese quanto fosse andato lontano, e quanto gli fosse costato il ritorno. Non era il primo che riportava indietro, e sapeva che nel giro di poco tempo quello sguardo vecchio di milioni d’anni, carico dei ricordi e dei sogni riportati dall’albero, sarebbe stato cancellato dal contatto con il mondo materiale. Succedeva sempre così.

Lo condusse in fondo al prato dove la creatura che l’aveva portata fin là aspettava tra gli alberi.

«Non può trasportare tutti e due» gli disse. «Io torno a casa da sola.»

Shadow annuì. Sembrava che si stesse sforzando di ricordare qualcosa. Poi aprì la bocca e lanciò un grido di benvenuto e di gioia.

L’uccello del tuono aprì il suo becco crudele e ricambiò il benvenuto.

Sembrava un condor, a un’occhiata superficiale. Le piume nere avevano una sfumatura violacea, il collo era bianco. Il becco era nero, tremendo: un becco da rapace, fatto per lacerare. A riposo, fermo a terra con le ali ripiegate, era grande come un orso bruno, con la testa arrivava all’altezza della testa di Shadow.

In tono fiero Horus disse: «L’ho portato io. Vivono sulle montagne».

Shadow annuì. «Una volta ho sognato gli uccelli del tuono. Il sogno più pazzesco della mia vita.»

L’uccello aprì il becco ed emise un suono sorprendentemente gentile. «Hai sentito anche tu del mio sogno?» domandò Shadow.

Allungò una mano e gli accarezzò piano la testa. L’uccello del tuono gli si strinse accanto come un pony affettuoso. E allora Shadow gli grattò il collo su su fino alla cresta.

Si girò verso Easter: «Ti ha portato fin qua?».

«Sì» disse lei. «Puoi farti riportare indietro, se te lo permette.»

«Come si fa a cavalcarlo?»

«È facile. Se non cadi. È come cavalcare il fulmine.»

«Ci rivediamo là?»

Lei scosse la testa. «Io ho finito, tesoro» disse. «Tu vai a fare quello che devi fare. Sono stanca. Buona fortuna.»

Shadow annuì. «Whiskey Jack… l’ho visto dopo che ero morto. È venuto a cercarmi e abbiamo bevuto una birra insieme.»

«Sì» disse lei. «Ne sono sicura.»

«Ti rivedrò ancora?» chiese Shadow.

Easter lo guardò con gli occhi verdi come il granturco che matura e non rispose. Poi scosse bruscamente la testa. «Ne dubito.»

Shadow fece qualche goffo tentativo di salire sul dorso dell’uccello del tuono, gli pareva d’essere un topolino sopra un falco. Sentiva in bocca un sapore di aria pura, metallico e azzurro. Qualcosa crepitò. L’uccello del tuono allargò le ali e cominciò a batterle pesantemente. Mentre la terra si allontanava Shadow si aggrappò forte con il cuore che batteva all’impazzata.

Era esattamente come cavalcare il fulmine.


Laura prese il bastone dal sedile posteriore. Lasciò il signor Town accasciato sul volante, scese dalla Ford Explorer e si diresse sotto la pioggia all’ingresso di Rock City. La biglietteria era chiusa. Era aperta la porta del negozio di souvenir. La superò, passando davanti al negozietto di caramelle e alla mostra di casine per uccelli VISITATE ROCK CITY, ed entrò nell’ottava meraviglia del mondo.

Non la fermò nessuno, anche se durante il percorso incontrò parecchi uomini e donne, sotto l’acqua. Molti di loro avevano un’aria vagamente artificiale, certi sembravano addirittura luminosi. Percorse un ponte tibetano, superò il recinto dei cervi bianchi, e si infilò nel Fat Man’s Squeeze, dove lo stretto sentiero correva tra due alte pareti rocciose. Alla fine scavalcò una catena con un cartello su cui c’era scritto che quella zona di Rock City era chiusa al pubblico; entrò in una grotta dove su una sedia di plastica, davanti a un diorama di gnomi ubriachi, vide un uomo seduto. Stava leggendo il "Washington Post" alla luce di una piccola lanterna elettrica. Vedendola, l’uomo piegò il giornale e lo appoggiò sotto la sedia. Si alzò, era un uomo alto, con i capelli color carota tagliati a spazzola e un impermeabile costoso. Le fece un piccolo inchino.

«Ne deduco che il signor Town sia morto» disse. «Benvenuta, portatrice della lancia.»

«Grazie. Mi dispiace per Mack. Eravate amici?»

«Per niente. Doveva restare vivo, se voleva tenersi il lavoro. Comunque il bastone l’ha portato lei.» La guardò dall’alto in basso con due occhi in cui brillava la luce dei carboni ardenti. «Temo di essere in svantaggio nei suoi confronti. Qui in cima alla montagna mi chiamano signor World.»

«Io sono la moglie di Shadow.»

«Ma certo. La bella Laura» disse. «Avrei dovuto riconoscerti. Aveva le tue fotografie appese sopra il letto, nella cella che abbiamo condiviso. E, se me lo consenti, sei ancora più bella di quanto avresti il diritto di essere. Non ti dovresti trovare a uno stadio avanzato di decomposizione, ormai?»

«Era così» rispose lei con semplicità, «ma le tre donne alla fattoria mi hanno dato l’acqua del loro pozzo.»

World aggrottò la fronte. «Il fonte di Urdhr? Assolutamente impossibile.»

Lei indicò se stessa: era pallida, aveva le occhiaie profonde, ma era innegabilmente intera; se fosse stata un cadavere ambulante, doveva essere morta da poco.

«Non durerà» disse il signor World. «Le Norne ti hanno dato un piccolo assaggio del passato che ben presto si dissolverà nel presente, e allora quei graziosi occhi blu cadranno dalle orbite e scenderanno giù lungo le belle guance che non saranno più così belle. A proposito, il mio bastone. Puoi darmelo, per favore?»

Tirò fuori un pacchetto di Lucky Strike, prese una sigaretta e l’accese con un Bic nero.

«Potrei averne una?»

«Certo. Ti do una sigaretta se tu mi dai il bastone.»

«Se lo vuoi deve valere molto di più.»

Lui non disse niente.

«Io voglio risposte. Voglio sapere delle cose.»

World accese una sigaretta e gliela passò. Lei la prese e fece un tiro, poi batté le palpebre. «Quasi quasi mi sembra di sentirne il sapore. Forse sì.» Sorrise. «Mmm. La nicotina.»

«Perché sei andata dalle donne della fattoria?»

«È stato Shadow a dirmi di andare. Mi ha detto di andare a chiedere l’acqua.»

«Mi domando se sapesse che effetto ti avrebbe fatto. Probabilmente no. Comunque, è un bene che sia morto su quell’albero. Almeno so sempre dov’è. E so che è fuori gioco.»

«L’avete messo in trappola» disse lei. «Lo avete incastrato fin dall’inizio. È un uomo gentile, lo sai?»

«Sì. Lo so. Quando tutto sarà finito credo che dopo aver affilato ben bene un rametto di vischio andrò fino al frassino e glielo conficcherò in un occhio. Adesso dammi il mio bastone, per favore.»

«Perché lo vuoi?»

«Come ricordo di questa storiaccia» disse il signor World. «Non preoccuparti, non è vischio.» Sorrise. «Simboleggia una lancia, e in questo triste mondo il simbolo è la cosa.»

Dall’esterno giunsero rumori più forti.

«Da che parte stai?» chiese lei.

«È inlnfluente» rispose World. «Ma siccome me l’hai chiesto ti dirò che sto sempre dalla parte dei vincitori.»

Lei annuì e non si separò dal bastone.

Si girò per guardare fuori. In lontananza le sembrava di vedere tra le rocce più in basso qualcosa di luccicante e pulsante avviluppato intorno a un uomo magro con la barba e la faccia violacea che lo colpiva con il manico di una ramazza, tipo quelle che i mendicanti usano per pulire i vetri delle macchine ai semafori. Si sentì un grido e sparirono entrambe le creature.

«Va bene. Ti darò il bastone» disse lei.

La voce del signor World risuonò alle sue spalle: «Brava bambina» la rassicurò con un tono che era insieme condiscendente e indefinibilmente maschile. A Laura venne la pelle d’oca.

Rimase ferma davanti all’ingresso della grotta fino a quando non sentì il respiro di lui nell’orecchio. Doveva aspettare che fosse molto vicino. Il piano fin lì le era chiaro.


Il viaggio fu più che esilarante, fu elettrico.

Attraversarono il temporale saettando, balenando da una nuvola all’altra, muovendosi come il rombo del tuono, come la corrente violenta dell’uragano. Era un viaggio impossibile, un boato fragoroso. Non c’era paura: soltanto la potenza del temporale inarrestabile e devastante, e la gioia del volo.

Shadow affondò le dita nelle piume dell’uccello del tuono, sentì l’elettricità statica sulla pelle. Sulle mani gli correvano scintille blu come serpentelli. La pioggia gli bagnava la faccia.

«È eccezionale» gridò sopra il fragore della tempesta.

Come se l’avesse capito l’uccello salì più in alto, ogni battito d’ali un rombo di tuono, tuffandosi e riemergendo tra le nuvole scure.

«Nel mio sogno ti davo la caccia» disse Shadow mentre il vento gli strappava le parole. «Nel mio sogno dovevo riportare indietro una piuma.»

Sì. La parola risuonò come uno scoppiettio nella radio mentale. Venivano a cercarci per le piume, per provare d’essere uomini; e venivano anche per strapparci dalla testa la pietra, per far dono ai loro morti della nostra vita.

Un’immagine lo assalì: un uccello del tuono — una femmina, perché aveva un piumaggio marrone — giaceva morto sul fianco di una montagna. Accanto c’era una donna intenta a spaccargli la testa con un pezzetto di silice. Rovistò con le dita tra le schegge d’ossi e il cervello fino a quando non trovò una pietra trasparente e levigata che aveva il colore cupo del granato, con bagliori opalescenti, in profondità. La pietra aquilina, pensò Shadow. La donna l’avrebbe portata al figlioletto morto da tre giorni, gliel’avrebbe appoggiata sul petto freddo. Prima dell’alba il ragazzo sarebbe tornato a vivere, a giocare, il gioiello invece sarebbe stato grigio, opaco e morto come l’uccello a cui era stato rubato.

«Capisco» disse. L’animale gettò la testa all’indietro e gridò, il suo grido era il tuono.

Il mondo sotto di loro sfrecciava a lampi come in uno strano sogno.


Laura afferrò con forza il bastone e aspettò che l’uomo che le aveva detto di chiamarsi World si avvicinasse. Guardava la tempesta e le montagne verde scuro.

In questo triste mondo, pensò, il simbolo è la cosa. Esatto.

Sentì che lui le aveva appoggiato una mano sulla spalla destra.

Bene, pensò. Non vuole che mi preoccupi. Ha paura che getti il suo bastone giù dalla montagna, ha paura di perderlo.

Lei si appoggiò un pochino all’indietro fino a toccare con la schiena il petto di lui. Lui la circondò con il braccio sinistro. Era un gesto intimo. Teneva la mano sinistra aperta davanti a lei. Laura strinse ancora più forte le mani intorno all’estremità del bastone, espirò, concentrata al massimo.

«Dammelo, per favore» le disse lui all’orecchio.

«Sì. È tuo.» Poi, senza nemmeno sapere se significasse qualcosa, disse: «Dedico questa morte a Shadow» e si conficcò il bastone nel petto, proprio sotto lo sterno: lo sentì fremere tra le dita mentre si trasformava in una lancia.

Da quando era morta il confine fra sensazione e dolore si era esteso. Sentì la punta della lancia penetrarla e uscirle dalla schiena. Un momento di resistenza — spinse un altro po’ — e la punta penetrò anche il signor World. Avvertì il respiro caldo di lui sul collo, e un gemito di dolore e sorpresa, quando capì d’essere stato trafitto dalla lancia.

Non riconobbe le parole che disse, né la lingua in cui le pronunciò. Continuò a spingere la lancia attraverso il proprio corpo perché entrasse completamente in quello di lui.

Sentiva il suo sangue caldo sulla schiena.

«Puttana» le disse in inglese. «Lurida puttana.» Probabilmente la lama aveva perforato un polmone perché la sua voce suonava gorgogliante. Adesso il signor World cercava di muoversi e a ogni movimento spostava anche lei: erano uniti dalla lancia, infilzati come due pesci su uno spiedo. Adesso World aveva in mano un coltello con cui cercava di colpirla al petto e al seno senza riuscire a vedere dove.

A Laura non importava. Cos’è qualche coltellata per un cadavere?

Lo colpì con un pugno sul polso e il coltello volò sul pavimento. Lei lo allontanò con un calcio.

Adesso World piangeva e gemeva. Lo sentiva rovistare con le mani sulla sua schiena, aveva le sue lacrime calde sul collo; la schiena era inzuppata di sangue, che colava anche lungo le gambe.

«Dev’essere una scena pochissimo dignitosa» disse lei in un morto sussurro non senza un certo macabro umorismo.

Si accorse che lui incespicava, incespicò anche lei e poi scivolò nel sangue — tutto di World — che stava formando una pozzanghera sul pavimento della grotta. Caddero insieme.


L’uccello del tuono atterrò nel parcheggio di Rock City. Pioveva a dirotto e c’era una visibilità di tre metri scarsi. Shadow lasciò andare le piume dell’uccello, ricadde con un tonfo sull’asfalto bagnato e scivolò.

L’uccello scomparve in un baleno.

Shadow si rimise in piedi.

Il parcheggio era vuoto per tre quarti. Shadow si diresse all’ingresso passando davanti a una Ford Explorer marrone parcheggiata vicino a una parete rocciosa. Siccome c’era qualche cosa di molto familiare nell’automobile si fermò per dare un’occhiata e vide l’uomo rovesciato sul volante come addormentato.

Aprì la portiera.

L’ultima volta che aveva visto il signor Town era stato davanti al motel costruito nel centro dell’America. Adesso aveva un’aria sorpresa. Qualcuno gli aveva tagliato il collo con mani esperte. Lo toccò: era ancora tiepido.

Aleggiava un odore nell’abitacolo, debole come un profumo lasciato in una stanza tanti anni prima, un odore che lui avrebbe riconosciuto tra mille. Richiuse con un tonfo la portiera della Explorer e attraversò il parcheggio.

Mentre camminava sentì una fitta nel fianco, un dolore lancinante che durò soltanto un secondo, o forse meno, prima di scomparire.

Alla biglietteria non c’era nessuno. Attraversò l’edificio e sbucò nei giardini di Rock City.

Un tuono scoppiò con un boato scuotendo i rami degli alberi e riverberandosi nel cuore delle rocce più grandi, mentre la pioggia cadeva con fredda violenza. Benché fosse tardo pomeriggio sembrava già notte fonda.

La scia di una saetta squarciò le nubi e Shadow si chiese se fosse l’uccello del tuono che ritornava alla sua rupe scoscesa o soltanto una scarica atmosferica, oppure se le due idee, su un certo piano, non coincidessero, diventando la stessa cosa.

Effettivamente lo erano. Quello era il senso, dopotutto.

Una voce maschile. Shadow la sentì, e credette di distinguere le parole «… a Odino!».

Attraversò la Seven States Flag Court correndo sul lastrico reso più scivoloso dalla pioggia. Scivolò, infatti. Intorno alla montagna la nuvolaglia era densa, e nella tetra luce della tempesta di là della corte non si vedeva nemmeno uno degli stati promessi dalla pubblicità.

Nessun suono, il luogo sembrava deserto.

Gridò e immaginò di sentire qualcuno rispondere. Si diresse verso il luogo da cui gli era sembrato che provenisse la voce.

Nessuno. Niente. Soltanto una catena all’entrata di una caverna per impedire l’accesso ai visitatori.

La scavalcò. Si guardò intorno nell’oscurità.

Si sentiva formicolare dappertutto.

Nell’ombra alle sue spalle una voce molto bassa disse: «Non mi deludi mai».

Shadow non si voltò. «Strano. Deludo sempre me stesso, però. In continuazione.»

«Ti sbagli» ribatté la voce. «Hai fatto quello che dovevi fare e anche di più. Hai attirato su di te l’attenzione di tutti, in modo che non guardassero mai la mano in cui era nascosta la moneta. Si chiama indirizzo erroneo, giusto? E c’è una grande potenza nel sacrificio di un figlio, potenza più che sufficiente per far girare la ruota. A dire la verità sono orgoglioso di te.»

«Era una truffa. Un imbroglio combinato. Di vero non c’era niente. Era una trappola per un massacro.»

«Esattamente» disse la voce di Wednesday dall’ombra. «Era un tavolo dove si barava. Ma era anche l’unico tavolo da gioco in città.»

«Voglio Laura» disse Shadow. «Voglio Loki. Dove sono?»

Nessuna risposta. Una spruzzata di pioggia lo colpì. Un tuono risuonò poco lontano.

Si inoltrò nella grotta.

Loki Lie-Smith sedeva per terra con la schiena appoggiata a una gabbia metallica. Dentro la gabbia c’erano alcuni pixy ubriachi che armeggiavano con un alambicco. Aveva addosso una coperta che lasciava vedere soltanto la sua faccia, e le mani, pallide e lunghe, appoggiate sopra. Sulla sedia vicino a lui era stata appoggiata una lanterna elettrica. Le pile erano quasi scariche e gettava una debole luce giallina. Loki era pallido e malconcio.

I suoi occhi, però, i suoi occhi fiammeggiavano ancora mentre guardava Shadow attraversare la caverna e fermarsi a pochi passi da lui.

«Sei in ritardo» gli disse con una voce gutturale. «Ho scagliato la lancia. La battaglia è stata dedicata e ha avuto inizio.»

«Davvero?» chiese Shadow.

«Davvero» rispose Loki. «Perciò non ha più nessuna importanza quello che fai tu.»

Dopo un momento di riflessione Shadow disse: «La lancia che hai scagliato per scatenare lo scontro, come in tutta quella storia a Uppsala… è di questo che ti alimenti, vero?».

Silenzio. Sentiva l’altro respirare, rantolare.

«Ci sono arrivato finalmente» continuò. «Più o meno. Non sono sicuro quando, forse sull’albero, forse prima. È stato qualcosa che mi ha detto Wednesday a Natale.»

Loki si limitò a fissarlo da terra senza parlare.

«È un imbroglio che ha bisogno di due soci, per funzionare. Come la truffa del vescovo con la collana di diamanti e del poliziotto che lo arresta. Come quella del tizio con il violino e dell’altro che vuole comprarlo. Due uomini che apparentemente stanno su due fronti opposti e invece fanno lo stesso gioco.»

«Sei ridicolo» mormorò Loki.

«Perché? Ho apprezzato quello che hai fatto al motel. Niente male. Volevi essere presente per accertarti che andasse tutto secondo i tuoi piani. Io ti ho visto, ti ho perfino riconosciuto e ho capito chi eri in realtà. Eppure non sono riuscito a fare il collegamento tra te e il signor World.»

A quel punto Shadow alzò la voce: «Puoi uscire» disse in direzione della grotta. «Ovunque tu sia. Vieni fuori.»

Il vento ululò nell’ingresso della caverna portando dentro una spruzzata d’acqua. Shadow rabbrividì.

«Sono stufo di essere trattato come un cretino» disse. «Fatti vedere. Lascia che ti veda.»

Ci fu un mutamento nelle ombre in fondo alla caverna, una massa informe sembrò acquistare solidità e un’altra si agitò. «Tu sai troppe cose, ragazzo mio» disse il borbottio familiare di Wednesday.

«Non ti hanno ucciso, dunque.»

«Mi hanno ucciso» rispose la voce. «Altrimenti non avrebbe funzionato mai.» Era una voce debole, non proprio fievole, ma a Shadow faceva pensare a una vecchia radio mal sintonizzata su una stazione lontana. «Se non fossi morto davvero non saremmo mai riusciti a portarli tutti qui» continuò Wednesday. «Kalì e le Morrigan, gli albanesi di merda e… be’, li hai visti anche tu. È stata la mia morte a riunirli qui. Ero l’agnello sacrificale.»

«No» ribatté Shadow, «eri il capro traditore.»

L’apparizione nell’ombra vortice. «Niente affatto. Ciò implicherebbe da parte mia la volontà di tradire i vecchi dèi per gli dèi nuovi. E non è questo che stavamo facendo.»

«Per niente» sussurrò Loki.

«Lo vedo» disse Shadow. «Non volevate tradire qualcuno, voi tradivate tutti.»

«Direi che è esatto» rispose Wednesday. Sembrava soddisfatto di sé.

«Volevate un massacro. Un sacrificio di sangue. Un sacrificio di dèi.»

Il vento diventò più forte e l’ululato all’ingresso della caverna era un urlo lancinante che esprimeva un dolore incommensurabile.

«E perché no? Sono rimasto intrappolato in questa fottuta terra per quasi milleduecento anni. Il mio sangue è debole, ho bisogno di nutrimento.»

«E il tuo nutrimento è la morte» disse Shadow.

Adesso gli sembrava di riuscire a vedere Wednesday. Era una sagoma fatta di tenebra che diventava visibile soltanto quando Shadow distoglieva lo sguardo e ne coglieva la forma con la coda dell’occhio. «Mi nutro della morte che mi viene dedicata» disse Wednesday.

«Come la mia sull’albero.»

«Quella era una cosa speciale.»

«Anche tu ti nutrì di morte?» chiese Shadow a Loki.

Loki scosse debolmente la testa.

«No, ovviamente no. Il tuo nutrimento è il caos.»

Loki sorrise, un rapido sorriso sofferente, mentre negli occhi, con guizzi rapidi come quelli del pizzo che brucia nel fuoco, gli danzavano ancora fiamme arancioni.

«Senza di te non ce l’avremmo fatta» disse Wednesday da un angolo di visuale. «Sono stato con tante donne…»

«Avevi bisogno di un figlio.»

La voce di Wednesday risuonò come un’eco. «Avevo bisogno di te, ragazzo mio. Sì. Mio figlio. Sapevo che eri stato concepito, ma tua madre aveva lasciato il paese. Impiegammo molto tempo a ritrovarti. E quando ti ritrovammo eri in prigione. Dovevamo scoprire che cosa ti faceva muovere, quali tasti premere per riuscire a coinvolgerti, scoprire chi eri.» Loki sembrò per un momento soddisfatto di sé. «Avevi una moglie da cui tornare. Un ostacolo superabile.»

«Non era la donna adatta per te» continuò Loki in un sussurro. «Stavi meglio senza di lei.»

«Se solo non fosse stato necessario farla soffrire» disse Wednesday, e questa volta Shadow capì che cosa aveva inteso dire la prima volta.

«E se avesse avuto la… grazia… di restare morta» ansimò Loki. «Wood e Stone erano due bravi ragazzi. Ti sarebbe stata data una possibilità di fuga dal treno durante l’attraversamento del Dakota…»

«Dov’è Laura?» chiese Shadow.

Loki allungò un braccio e indicò il fondo della grotta.

«È andata da quella parte» disse, poi, senza preavviso, ricadde a faccia in giù sul pavimento.

Shadow allora vide ciò che la coperta gli aveva tenuto nascosto, la pozza, il buco nella schiena, l’impermeabile inzuppato che da chiaro era ormai diventato nero di sangue. «Che cos’è capitato?»

Loki non rispose.

Secondo Shadow non avrebbe mai più parlato.

«Gli è capitata tua moglie, figlio mio» rispose la voce lontana di Wednesday. Adesso era diventato più difficile vederlo, come se stesse sbiadendo nell’etere. «Ma la battaglia lo riporterà indietro. Come riporterà indietro me. Io sono un fantasma, e lui è cadavere. Comunque abbiamo vinto: il gioco era truccato.»

«I giochi truccati» gli ricordò Shadow «sono i più facili da battere.»

Non arrivò nessuna risposta e niente si mosse nell’ombra.

«Addio» disse, e poi aggiunse, «padre.» A quel punto la grotta era deserta. Completamente deserta.

Shadow tornò alla Seven States Flag Court e non trovò nessuno neanche lì, soltanto il rumore delle bandiere sferzate dal vento. Non c’erano persone armate di spade al Thousand-Ton Balanced Rock e nessuno a difendere il ponte Swing-a-long. Era solo.

Non c’era niente da vedere. Il luogo era deserto. Un campo di battaglia vuoto.

No. Non vuoto. Non esattamente.

Era Rock City, dopotutto, un luogo dove per migliaia di anni la gente era andata a pregare e a rendere grazie; oggi i turisti che percorrevano a milioni i sentieri tra i giardini e superavano barcollando il ponte facevano lo stesso effetto dell’acqua che fa girare milioni di ruote di preghiera. La realtà in quel luogo era soltanto apparente. Shadow sapeva dove si stava svolgendo la battaglia.

Perciò riprese a camminare. Ricordando come si era sentito sulla giostra, cercando di sentirsi di nuovo così…

Ricordò come aveva sterzato il volante della Winnebago per buttarla fuori strada ad angolo retto. Provò a ritrovare quella sensazione…

Accadde con facilità, in maniera perfetta.

Fu come spingere una membrana, come riemergere in superficie dall’acqua. Gli era bastato un passo per trasferirsi dal sentiero dei turisti sulla montagna a…

Alla realtà dietro le quinte.

Era sempre sulla montagna, questo rimaneva uguale, però era molto di più, era una vetta quintessenziale, la vera natura della vetta. Paragonata a quel luogo, la Lookout Mountain che aveva appena lasciato era un fondale dipinto, un modellino in cartapesta visto alla televisione… nient’altro che la rappresentazione, non la cosa in sé.

Questo era un luogo vero al cento per cento.

Le pareti rocciose formavano un anfiteatro naturale, i sentieri di pietra lo attraversavano e lo circondavano creando tortuosi ponti naturali che zigzagavano fra le pareti rocciose come in un disegno di Escher.

E il cielo…

Il cielo era scuro. Era illuminato, in realtà, e il mondo sotto risultava rischiarato da una striscia bianco verdognola più abbagliante del sole che si biforcava come uno squarcio luminoso.

Era un fulmine, si rese conto. Un lampo raggelato per sempre. La luce che gettava era dura e spietata: sbiancava le facce, scavava occhiaie profonde.

La tempesta infuriava.

I paradigmi stavano cambiando, lo sentiva. Il vecchio mondo, un mondo di infinita vastità, risorse illimitate e futuro, veniva messo a confronto con qualcosa di diverso, una rete di energie, di opinioni, di abissi.

La gente crede, pensò. È così che fanno gli uomini. Credono. E poi non si prendono la responsabilità della propria fede; evocano le cose e non si fidano delle evocazioni. Popolano le tenebre di spettri, dèi, elettroni, storie. La gente immagina e crede: ed è questa fede, questa fede solida come la roccia che fa accadere le cose.

La cima della montagna era un’arena, se ne accorse subito, e li vide schierati sui due fronti opposti.

Erano troppo grandi. Tutto era troppo grande in quel luogo.

C’erano i vecchi dèi: divinità con la carnagione scura come funghi secchi o rosea come la carne del pollo o gialla come le foglie d’autunno. Alcuni erano matti e alcuni erano sani. Shadow li riconobbe: li aveva già incontrati, loro o altri simili a loro. C’erano ifrit e pixy, nani e giganti. Vide la donna intravista nella camera buia della casa nel Rhode Island, con la massa di riccioli serpeggianti. Vide Mama-ji, conosciuta sulla giostra, con le mani coperte di sangue e un sorriso sulle labbra. Li conosceva tutti.

Riconobbe anche quelli nuovi, però.

C’era un uomo con un vestito di foggia antiquata e l’orologio da taschino che doveva essere un magnate della ferrovia. Aveva l’aria di non passarsela troppo bene. Gli si contraeva la fronte.

C’erano i grandi dèi grigi degli aeroplani, eredi dell’antico sogno di far volare qualcosa di più pesante dell’aria.

C’erano le divinità delle automobili: un contingente numeroso dall’aria seria, con il sangue sui guanti neri e sui denti cromati: destinatari di sacrifici umani su una scala mai sognata dai tempi degli aztechi. Anche loro sembravano a disagio. I mondi cambiano.

Altri avevano le facce come macchie fosforescenti: brillavano leggermente come di luce propria.

Shadow provò pena per tutti.

I nuovi ostentavano una certa arroganza, era evidente. Comunque avevano paura.

Temevano che se non fossero riusciti a tenere il passo con il mondo che cambia, se non fossero riusciti a ricreare, ridisegnare e ricostruire il mondo a loro immagine, sarebbero ben presto passati di moda.

I due eserciti si fronteggiavano con coraggio. Per ciascuno schieramento i nemici erano demoni, mostri, dannati.

Shadow notò che c’era stata una scaramuccia, le rocce erano già sporche di sangue.

Si stavano preparando per la battaglia vera, per lo scontro finale. Adesso o mai più, pensò. Se non si muoveva ora sarebbe stato troppo tardi.

In America tutto dura per sempre, disse una voce nel ricordo. Gli anni Cinquanta sono durati mille anni. Hai tutto il tempo che vuoi.

Shadow entrò nell’arena con un passo che era a metà disinvolto e a metà malfermo.

Sentiva gli occhi di tutti su di sé, occhi e cose che non erano occhi. Rabbrividì.

La voce del bufalo disse: Stai andando bene.

Shadow pensò: Cazzo, sono ritornato dal regno dei morti questa mattina, il resto sarà una passeggiata.

«Lo sapete» attaccò in tono colloquiale senza rivolgersi a nessuno in particolare «che questa non è una guerra? Non lo è mai stata, nemmeno nelle intenzioni. E se qualcuno lo crede si sta facendo delle illusioni.» Borbottii contrariati si levarono dai due fronti. Non aveva impressionato nessuno.

«Combattiamo per sopravvivere» disse sommessamente il minotauro da un lato dell’arena.

«Combattiamo per vivere» gridò una bocca dentro una colonna di fumo scintillante dalla parte opposta.

«Questa terra non è una terra adatta agli dèi» riprese Shadow. Come attacco non era Romani, Concittadini, Amici, comunque poteva andare. «Probabilmente lo sapete tutti meglio di me. I vecchi dèi vengono ignorati. I nuovi sono accolti e subito dimenticati per essere sostituiti con quello che viene dopo. Quando non venite dimenticati avete paura di essere superati, oppure siete stanchi di dipendere dal capriccio della gente.»

Adesso i borbottii erano meno forti. Aveva detto qualcosa su cui potevano concordare tutti. Doveva raccontarla adesso la storia, mentre aveva la loro attenzione.

«Un giorno un dio giunse da una terra molto lontana. Man mano che diminuiva la fede in lui diminuivano anche il suo potere e la sua influenza. Era un dio che acquisiva potenza dal sacrificio e dalla morte e, soprattutto, dalla guerra. La morte di chi cadeva in guerra gli veniva dedicata, nella terra d’origine interi campi di battaglia gli avevano dato potere e nutrimento.

«Adesso era vecchio. Tirava avanti facendo l’imbroglione, insieme a un altro dio del suo pantheon, un dio del caos e dell’inganno. Insieme imbrogliavano i creduloni. Insieme derubavano la gente.

«A un certo punto, forse cinquant’anni fa, forse cento, studiarono un piano, un piano per creare una riserva di potere a cui attingere liberamente. Qualcosa che li rendesse più forti di quanto erano mai stati. Dopotutto che cosa può essere più forte di un campo coperto di dèi caduti? Il gioco che giocavano si chiamava "Lasciamo che si facciano fuori tra loro".

«Capite?

«La battaglia che siete venuti a combattere oggi non avrà vincitori né vinti. Vittoria o sconfitta per lui non contano, non contano, per loro. Ciò che conta è che cadiate numerosi sul campo. Ciascuno di voi, morendo, gli darà potere. Da ogni caduto lui trarrà nutrimento. Mi capite?»

Un suono, una via di mezzo tra ruggito e tuono, come l’esplosione di un incendio, attraversò l’arena. Shadow guardò verso il punto da cui proveniva. Un uomo enorme con la pelle color mogano, il petto nudo, un cilindro sulla testa e un grosso sigaro in bocca, parlò con una voce profonda come la tomba. Baron Samedi disse: «D’accordo. Però Odino è morto veramente durante i colloqui di pace. I bastardi l’hanno ucciso. È morto. So riconoscere la morte, su questo non mi imbroglia nessuno».

«Naturalmente» rispose Shadow. «Ha dovuto morire davvero. Ha sacrificato il suo corpo fisico perché potesse scatenarsi la guerra. Dopo la battaglia sarebbe ritornato più potente che mai.» Qualcuno gridò: «Tu chi sei?».

«Ero… sono… suo figlio.»

Uno degli dèi, e Shadow sospettò che si trattasse di una droga, dal sorriso scintillante che aveva, disse: «Ma il signor World ha detto…».

«Non esiste nessun signor World. Non è mai esistita una persona del genere. Era soltanto un altro dei vostri, un bastardo che cercava di nutrirsi del caos che aveva scatenato.»

Gli credettero, lesse il dolore nei loro occhi.

Scosse la testa. «Sapete, credo di preferire la condizione umana a quella divina. Non abbiamo bisogno che credano in noi. Tiriamo avanti lo stesso. È così che va.»

In quel luogo elevato seguì un lungo silenzio.

E con un frastuono scioccante il fulmine raggelato nel cielo esplose e l’arena fu completamente immersa nell’oscurità.

Molte presenze scintillarono al buio.

Shadow si domandò se si sarebbero messi a discutere, se lo avrebbero attaccato, magari cercato di ucciderlo. Rimase ad aspettare qualche reazione.

Poi capì che si spegnevano le luci. Gli dèi se ne stavano andando, prima a piccoli gruppi, poi a gruppi più numerosi. Infine a centinaia.

Un ragno grande come un rottweiler gli si avvicinò sulle sette zampe, con la fila di occhi che brillava debolmente.

Shadow, pur sentendosi male, rimase dov’era.

Quando fu abbastanza vicino, il ragno parlò con la voce del signor Nancy: «Ottimo lavoro. Sono fiero di te. Ben fatto, ragazzo».

«Grazie» disse Shadow.

«Adesso dobbiamo riportarti indietro. Se ci resti troppo a lungo questo posto ti incasina la testa.»

Gli appoggiò una zampa scura e pelosa sulla spalla…


… e di nuovo nella Seven States Flag Court, il signor Nancy tossì. Gli teneva la mano destra sulla spalla. Aveva smesso di piovere. Con la sinistra si comprimeva il fianco come se fosse ferito. Shadow gli chiese se stava bene.

«Sono duro come un’unghia vecchia» rispose il signor Nancy. «Anche più duro.» Non sembrava felice, però, era un vecchio sofferente.

Ce n’erano decine, in piedi, seduti per terra, sulle panche. Alcuni erano feriti in modo grave.

In cielo Shadow sentì arrivare da sud un rumore sferragliante. Guardò il signor Nancy. «Sono elicotteri?»

L’altro annuì. «Non ti preoccupare di loro. Non preoccuparti più. Ripuliranno il casino e se ne andranno.»

«Bene.»

Shadow sapeva che c’era una parte del casino che voleva vedere personalmente, prima che venisse ripulito. Prese in prestito una torcia da un uomo con i capelli grigi che sembrava uno speaker del telegiornale in pensione e cominciò la ricerca.

Trovò Laura sdraiata per terra in una grotta laterale, accanto a un diorama di gnomi minatori usciti direttamente dalla fiaba di Biancaneve. La terra sotto di lei era inzuppata di sangue. Era sdraiata su un fianco, dove Loki doveva averla lasciata dopo essere riuscito a sfilare la lancia dai loro corpi.

Laura si comprimeva il petto con una mano. Aveva un’aria terribilmente vulnerabile e sembrava morta, ma Shadow era quasi abituato a vederla così.

Le si accovacciò accanto, le toccò una guancia con la mano e la chiamò per nome. Lei aprì gli occhi, alzò la testa e si girò a guardarlo.

«Ciao, cucciolo» disse con un filo di voce.

«Ciao, Laura. Cos’è successo?»

«Niente. Alcune cose. Hanno vinto?»

«Ho fermato la battaglia prima dell’inizio.»

«Il mio cucciolo intelligente. Quell’uomo, il signor World, ha detto che ti voleva conficcare un bastone nell’occhio. Non mi è piaciuto per niente.»

«È morto. L’hai ucciso tu, dolcezza.»

Lei annuì e poi disse: «Molto bene».

Chiuse gli occhi. Shadow le prese la mano gelida e la tenne nella sua. Dopo qualche tempo lei riaprì gli occhi.

«Hai mai scoperto come fare per riportarmi indietro dal regno dei morti?»

«Credo di sì» rispose lui. «Perlomeno un modo lo conosco.»

«Molto bene» disse lei. Gli strinse la mano. «E il contrario? Sai come fare per ottenere il contrario?»

«Il contrario?»

«Sì» sussurrò lei. «Mi pare di essermelo guadagnato.»

«Non voglio.»

Lei non disse niente, si limitò ad aspettare.

Shadow disse: «Va bene». Liberò la mano da quella di lei e l’avvicinò al suo collo.

«Bravo marito» disse Laura con orgoglio.

«Ti amo, piccola.»

«Ti amo, cucciolo» sussurrò in risposta.

Shadow strinse la mano intorno alla moneta d’oro appesa alla catenina e tirò. Cedette subito. Poi prese la moneta d’oro tra indice e pollice, vi soffiò sopra e aprì la mano.

Era scomparsa.

Laura aveva ancora gli occhi aperti ma non vedeva più.

Lui si chinò, la baciò delicatamente sulla guancia fredda, lei non rispose. Non se l’era aspettato, del resto. Si alzò e uscì dalla grotta per guardare nella notte.

La tempesta era passata. L’aria era fresca e pulita.

Domani, non ne dubitava, sarebbe stata una bellissima giornata.

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