Nota del traduttore
I nomi degli dèi sono teofanie, e questo libro è pieno di dèi. Si è scelto di usare la grafia dei nomi con cui essi sono più comunemente noti, anche se non sempre corrisponde alla grafia italiana corretta.
I confini del nostro paese, signore? Ebbene, signore, a nord confiniamo con l’aurora boreale, a est con il sole nascente, a sud con la processione degli equinozi e a ovest con il Giorno del Giudizio.
Era in prigione da tre anni, Shadow. E siccome era abbastanza grande e grosso e aveva sufficientemente l’aria di uno da cui è meglio stare alla larga, il suo problema era più che altro come ammazzare il tempo. Perciò faceva ginnastica per tenersi in forma, imparava i giochi di prestigio con le monete e pensava un sacco a sua moglie e a quanto la amava.
L’aspetto più positivo del fatto di essere in prigione, secondo lui — forse l’unico aspetto positivo — era una certa sensazione di sollievo. Sollievo all’idea di aver toccato il fondo. Non si doveva più preoccupare di essere preso, perché era già stato preso. Non aveva più paura di ciò che avrebbe potuto riservargli il futuro, perché il passato vi aveva già provveduto.
Non era importante, se si era davvero colpevoli del reato per cui ti avevano messo dentro. Gli uomini che aveva incontrato in quei tre anni non si davano pace: c’era sempre un particolare che le autorità avevano frainteso, pensavano, qualcosa che secondo loro avevi fatto mentre tu non l’avevi fatto per niente, oppure non esattamente nel modo in cui dicevano. La sola cosa importante era che ti avevano beccato.
Se n’era accorto durante i primi giorni, quando tutto gli risultava nuovo, dal gergo al cibo, infimo. Sotto l’infelicità e l’orrore estremo della sua nuova condizione provava un senso di sollievo.
Shadow aveva sempre cercato di parlare il meno possibile. A metà del secondo anno aveva esposto la sua teoria al compagno di cella, Low Key Lyesmith.
Low Key, un truffatore del Minnesota con la bocca sfregiata, gli aveva sorriso. «Sì. È vero. Se sei stato condannato a morte è addirittura meglio, e ti ricordi perfino delle barzellette sui tizi che scalciano via gli stivali quando gli stringono il cappio intorno al collo, perché gli amici dicevano sempre che sarebbero morti con gli stivali addosso.»
«Sarebbe una barzelletta?» aveva chiesto Shadow.
«Cazzo se lo è. Umorismo patibolare. Il migliore sulla piazza.»
«Quand’è che hanno impiccato qualcuno l’ultima volta, in questo stato?»
«E io come faccio a saperlo?» Lyesmith portava i capelli color carota così corti che gli si vedevano le linee del cranio. «Però ti posso dire una cosa. Quando hanno smesso di impiccare la gente questo paese ha cominciato ad andare a rotoli. Niente pendagli da forca. Niente buon esempio.»
Shadow si era limitato a scrollare le spalle. Lui non ci vedeva niente di romantico, in un’esecuzione capitale.
Se non vieni condannato a morte, aveva deciso, e se tutto va bene, la galera non è altro che uno stato di momentanea sospensione, e questo per due ragioni. Primo, la vita riesce a filtrare dentro la prigione. Non c’è limite al peggio. La vita continua. Secondo, se tieni duro a un certo punto ti dovranno rilasciare.
I primi tempi il momento del rilascio era troppo lontano perché Shadow potesse immaginarlo. Poi era diventato una speranza remota e aveva imparato a dire a se stesso "passerà anche questo" quando la galera, come succede sempre, diventava insopportabile. Un giorno il magico portone si sarebbe aperto e lui ne avrebbe varcato la soglia. Perciò segnava i giorni sul calendario con gli uccelli del Nordamerica, l’unico in vendita nello spaccio, e il sole tramontava e sorgeva senza che lui lo vedesse. Si esercitava con i giochi di prestigio illustrati in un manuale scovato in quella terra desolata che era la biblioteca del penitenziario, faceva ginnastica e mentalmente stilava la lista delle cose che avrebbe fatto appena fuori.
Con il passare del tempo la lista era diventata sempre più corta. Dopo due anni era ridotta a tre punti.
Primo, un bagno. Un bel bagno come si deve in una vasca piena di schiuma. Immerso nell’acqua forse avrebbe letto il giornale. Forse, però. A volte pensava di sì, a volte di no.
Secondo, si sarebbe asciugato, e poi avrebbe infilato l’accappatoio. Forse anche un paio di pantofole. L’idea delle pantofole gli piaceva. Se fosse stato un fumatore a quel punto avrebbe acceso la pipa, ma non fumava. Presa in braccio la moglie ("Cucciolo" avrebbe strillato lei fingendo di essere terrorizzata e provando un autentico piacere, "che cosa fai?"), l’avrebbe portata in camera da letto chiudendo la porta. In caso di fame avrebbero ordinato una pizza a domicilio.
Terzo, usciti dalla camera da letto, un paio di giorni dopo, magari, lui si sarebbe comportato bene, tenendosi lontano dai guai per il resto dei suoi giorni.
«E saresti felice, così?» gli aveva chiesto Low Key Lyesmith. Erano nell’officina a montare i beccatoi per gli uccelli, attività appena più interessante della punzonatura delle targhe automobilistiche.
«Nessun uomo può dirsi felice» aveva risposto Shadow «fino a quando non è morto.»
«Erodoto. Vedo che stai imparando.»
«Chi cazzo è Erodoto?» aveva chiesto l’Iceman unendo le pareti del beccatoio per passarlo a Shadow che le imbullonava e le avvitava con forza.
«Un greco morto.»
«La mia ultima fidanzata era greca» aveva detto l’Iceman. «Non puoi neanche immaginartela, la merda che si mangiava a casa sua. Tipo riso avvolto nelle foglie. Porcate così.»
L’Iceman aveva le dimensioni e la forma di un distributore di Coca-Cola, gli occhi azzurri e i capelli così biondi da sembrare bianchi. Aveva pestato a sangue un tizio colpevole di aver dato una palpatina alla sua ragazza nel locale dove lei ballava e lui faceva il buttafuori. Gli amici del tizio avevano chiamato la polizia che dopo aver arrestato l’Iceman aveva scoperto che diciotto mesi prima lui non era rientrato in carcere da un permesso di lavoro.
«Che cosa dovevo fare?» aveva chiesto addolorato raccontando a Shadow la sua triste storia. «Gliel’avevo detto che era la mia ragazza. Dovevo lasciare che mi mancasse di rispetto? Eh? Dovevo lasciarglielo fare? Cioè, cazzo, le stava mettendo le mani dappertutto.»
«Vai a spiegarglielo» aveva risposto Shadow, senza aggiungere altro. Aveva capito subito che in prigione ognuno sconta la sua pena e cerca di farsi gli affari suoi.
Non ti mettere nei guai. Sconta la tua pena e tieni duro.
Qualche mese prima Lyesmith gli aveva prestato una logora edizione economica delle Storie di Erodoto. «Non è noioso. È forte» gli aveva detto quando Shadow aveva dichiarato che non leggeva libri. «Leggitelo, e poi mi dici com’è.»
Shadow aveva cominciato a leggerlo anche se controvoglia e, suo malgrado, se n’era appassionato.
«Greci» aveva concluso l’Iceman con disgusto. «E quello che dicono su di loro non è neanche vero. Quando ho provato a metterglielo nel culo la mia ragazza mi ha quasi cavato gli occhi.»
Un giorno, senza preavviso, Lyesmith era stato trasferito. Aveva lasciato a Shadow il libro di Erodoto. Nascosta tra le pagine c’era una moneta da cinque centesimi. Le monete erano vietate, in prigione; potevi affilarne i bordi e aprire la faccia a qualcuno, in una rissa. Shadow non voleva un’arma, voleva solo qualcosa per tenere le mani occupate.
Non era superstizioso. Credeva solo in quello che vedeva, però da qualche settimana sentiva la catastrofe aleggiare sopra la prigione con la stessa precisione con cui l’aveva sentita nei giorni precedenti la rapina. Nello stomaco un senso di vuoto che doveva essere la paura di tornare nel mondo, si ripeteva, ma non ne era sicuro. Era più paranoico della sua media, e in galera la media è molto alta perché è l’arte della sopravvivenza. Era diventato più quieto, più ombroso che mai. Si scoprì a studiare il linguaggio del corpo dei secondini e degli altri detenuti in cerca di un indizio della catastrofe che stava per abbattersi, perché non aveva dubbi, stava per abbattersi.
Mancava un mese alla sua scarcerazione. Era seduto in un ufficio freddo davanti a un uomo di bassa statura con una voglia di vino sulla fronte. L’uomo dall’altra parte della scrivania aveva la pratica aperta sotto il naso e teneva in mano una penna a sfera. L’estremità della penna era stata orribilmente rosicchiata.
«Hai freddo, Shadow?»
«Sì. Un po’.»
L’uomo scrollò le spalle. «È il regolamento. Il riscaldamento non si accende fino al primo di dicembre. Si spegne il primo di marzo. Non lo faccio io, il regolamento.» Sfiorò con l’indice il foglio fissato con le graffette nel raccoglitore. «Hai trentadue anni?»
«Sissignore.»
«Sembri più giovane.»
«Faccio una vita sana.»
«Qui dice che sei un detenuto modello.»
«Ho imparato la lezione, signore.»
«Davvero?» L’uomo scrutò Shadow con attenzione e la voglia sulla fronte si abbassò. Shadow pensò di esporre alcune delle sue teorie sul carcere ma si trattenne. Annuì, invece, e si concentrò per mostrarsi adeguatamente contrito.
«Qui dice che hai moglie.»
«Si chiama Laura.»
«Come vanno le cose?»
«Bene. È venuta a trovarmi tutte le volte che ha potuto… il viaggio è lungo. Ci scriviamo e quando posso le telefono.»
«Che mestiere fa?»
«Lavora in un’agenzia di viaggi. Manda la gente in giro per il mondo.»
«Come vi siete conosciuti?»
Shadow non riusciva a capire dove l’altro volesse arrivare. Prese in considerazione l’ipotesi di rispondergli che non erano affari suoi, come aveva conosciuto Laura, invece disse: «Era la migliore amica della moglie del mio migliore amico. Hanno combinato un appuntamento e ci siamo piaciuti».
«E hai un lavoro che ti aspetta?»
«Sissignore. Il mio amico, Robbie, quello che mi ha presentato Laura, è proprietario della Muscle Farm, la palestra dove lavoravo come istruttore. Dice di avermi tenuto il posto.»
L’altro inarcò un sopracciglio. «Sul serio?»
«Dice che secondo lui funzionerà alla grande come richiamo per i vecchi frequentatori e in più attirerà i duri che vogliono diventare ancora più duri.»
L’uomo sembrò soddisfatto. Rosicchiò l’estremità della penna e voltò il foglio.
«Cosa provi riguardo al tuo reato?»
Shadow scrollò le spalle. «Sono stato uno stupido» disse, e lo pensava davvero.
L’uomo con la voglia sulla fronte sospirò e spuntò una voce dal suo elenco. Poi sfogliò la documentazione di Shadow. «Come torni a casa?» chiese. «Prendi il Greyhound?»
«In aereo. Avere una moglie che fa l’agente di viaggio è utile.»
L’uomo aggrottò di nuovo la fronte increspando la voglia. «Ti ha spedito il biglietto?»
«Non ce n’è bisogno. Basta il numero della prenotazione. Il biglietto è elettronico. Devo solo presentarmi all’aeroporto con un documento, tra un mese, e sono a casa.»
L’uomo annuì, scarabocchiò un appunto, poi chiuse l’incartamento e appoggiò la penna. Due mani pallide andarono a posarsi come rosei animaletti sul ripiano grigio della scrivania. Le congiunse, unì gli indici e fissò Shadow con i suoi acquosi occhi color nocciola.
«Sei fortunato» disse. «Hai una donna da cui tornare e un lavoro che ti aspetta. Puoi gettarti quest’esperienza alle spalle. Ti è stata data una seconda possibilità. Cerca di trarne profitto.»
Non tese la mano a Shadow, alzandosi, ma del resto Shadow non si era aspettato che lo facesse.
L’ultima settimana era la peggiore. In un certo senso perfino peggio di tutti e tre gli anni messi insieme. Shadow si chiedeva se fosse colpa del clima opprimente, immoto e freddo. Sentiva avvicinarsi un temporale che non scoppiava mai. Aveva i nervi a pezzi e una gran fifa e nella pancia la sensazione che qualcosa stesse andando molto male. Il cortile dove i detenuti facevano ginnastica era battuto da raffiche di vento. A Shadow sembrava di sentire aria di neve.
Telefonò alla moglie a carico del destinatario perché le società dei telefoni prevedono una tassa di tre dollari per ogni chiamata fatta dai penitenziari. È per questo che gli operatori sono sempre così gentili con i detenuti, secondo lui: sanno bene che sono loro a pagargli lo stipendio.
«C’è qualcosa che non va» disse a Laura. Ma prima le aveva detto qualcos’altro. Le aveva detto «Ti amo», perché è una cosa bella da dire, quando è sincera, e per Shadow lo era.
«Ciao» rispose lei. «Ti amo anch’io. Cosa c’è che non va?»
«Non so. Magari è per via del tempo. Se scoppiasse il temporale forse andrebbe tutto meglio.»
«Qui è bello. Non sono ancora cadute le foglie. Se non arriva il temporale farai in tempo a vederle, quando torni.»
«Tra cinque giorni» disse Shadow.
«Centoventi ore e sarai a casa.»
«È tutto a posto, lì? C’è qualche problema?»
«No, va tutto bene. Stasera vedo Robbie. Stiamo organizzando la festa di bentornato, vogliamo farti una sorpresa.»
«Una sorpresa?»
«Certo. Tu non ne sai niente, hai capito?»
«Niente di niente.»
«Bravo marito» disse lei e Shadow si accorse di sorridere. Era dentro da tre anni ma Laura riusciva ancora a strappargli un sorriso.
«Ti amo, piccola.»
«Ti amo, cucciolo.»
Shadow riagganciò.
Quando si erano sposati lei gli aveva detto che desiderava un cucciolo, ma il padrone di casa aveva messo subito in chiaro che il regolamento condominiale vietava esplicitamente agli inquilini di tenere animali. «Ehi» le aveva detto Shadow, «sarò io il tuo cucciolo. Che cosa vuoi che faccia? Che ti morda le pantofole? O che pisci sul pavimento della cucina? Che ti lecchi il naso o ti annusi in mezzo alle gambe? Scommetto che non c’è niente di quello che può fare un cucciolo che non sono capace di fare anch’io!» E sollevandola come se fosse una piuma aveva cominciato a leccarle il naso mentre lei ridacchiava tra gli strilli e l’aveva portata a letto.
Nella sala mensa Sam Fetisher si avvicinò furtivo e sorrise, mettendo in mostra i suoi denti da vecchio. Sedette accanto a Shadow e cominciò a mangiare i maccheroni al formaggio.
«Dobbiamo parlare» disse.
Sam Fetisher era uno degli uomini più neri che Shadow avesse mai visto. Poteva avere sessanta come ottant’anni. E comunque Shadow aveva conosciuto fumatori di crack di trent’anni che sembravano più vecchi di lui.
«Cosa c’è?»
«C’è una tempesta in arrivo» rispose Sam.
«Sembrerebbe. Può darsi che nevichi.»
«Non una tempesta di neve. Più brutta. Ti avverto, ragazzo, quando scoppierà sarai più al sicuro qui dentro che in mezzo a una strada.»
«Ho scontato la mia pena» disse Shadow. «Venerdì esco.»
Sam Fetisher lo fissò. «Di dove sei?» chiese.
«Eagle Point. Nell’Indiana.»
«Sei un bugiardo di merda. Voglio dire di che origini sei. I tuoi da dove vengono?»
«Da Chicago» rispose Shadow. Sua madre aveva vissuto a Chicago, da ragazza, e lì era morta, una mezza eternità prima.
«Io ti ho avvertito. Ne sta arrivando una di quelle brutte. Sta’ alla larga dai guai, ragazzo-ombra. È come… come si chiamano quelle cose su cui vanno in giro i continenti? Placche qualcosa?»
«Placche tettoniche?» buttò lì Shadow.
«Quelle. Placche tettoniche. È come quando si spostano, quando l’America settentrionale va a sbattere contro quella meridionale, non è che ti ci vorresti trovare in mezzo. Afferri il concetto?»
«Nemmeno un po’.»
L’altro strizzò lentamente un occhio scuro. «Cazzo, dopo non venirmi a dire che non ti avevo avvertito» disse infilandosi in bocca una cucchiaiata di tremolante gelatina arancione.
«Non lo farò.»
Shadow trascorse la notte semisveglio, l’orecchio teso ai grugniti e al russare del nuovo compagno di cella che dormiva nella branda sotto la sua. A qualche cella di distanza un detenuto gemeva e ululava singhiozzando come una bestia ferita e di tanto in tanto qualcuno gli gridava di darci un taglio. Shadow si sforzò di non sentirli più, si lasciò sommergere dai minuti vuoti che passavano lentamente.
Ancora due giorni. Quarantotto ore, cominciando con la colazione a base di fiocchi d’avena e caffè della prigione e un secondino di nome Wilson che gli batte un colpo sulla spalla più forte del necessario: «Shadow? Vieni con me».
Shadow si fece un esame di coscienza. Era a posto, il che, aveva avuto occasione di osservare, in una prigione non vuol dire che non si è nei guai fino al collo. Camminavano fianco a fianco, detenuto e secondino, i passi che risuonavano sul pavimento di metallo e cemento.
Shadow sentiva in gola il sapore della paura, amaro come caffè freddo e stantio. La cosa tremenda stava per succedere…
Una voce in un angolo del cervello gli sussurrava che volevano affibbiargli un altro anno, o schiaffarlo in isolamento, oppure tagliargli le mani, o la testa. Si diede dello stupido, però il suo cuore continuava a battere come se dovesse esplodere.
«Io non ti capisco, Shadow» disse Wilson senza fermarsi.
«Che cosa non capisce, signore?»
«Non capisco te. Sei troppo quieto, cazzo. Troppo educato. Ti comporti come i vecchi, invece hai… Quanti anni hai? Venticinque, ventotto?»
«Trentadue, signore.»
«E cosa saresti? Un ispanico? Uno zingaro?»
«Non che io sappia, signore. È possibile.»
«Magari hai un po’ di sangue negro. Sei di sangue negro, Shadow?»
«Non è escluso, signore.» Shadow si teneva dritto e guardava davanti a sé, concentrato a non farsi saltare i nervi dal secondino.
«Ah sì, eh? Be’, quello che so è che mi fai senso.» Wilson aveva i capelli di un biondo rossiccio, la carnagione rossiccia e il sorriso rossiccio. «Tra poco sarai fuori di qui.»
«Spero di sì, signore.»
Superarono un paio di posti di controllo dove Wilson mostrò il tesserino di identificazione. Percorsa una rampa di scale si trovarono davanti alla porta dell’ufficio del direttore. C’era scritto il suo nome — G. Patterson — in caratteri neri, e accanto al battente c’era un semaforo in miniatura.
La luce era rossa.
Wilson premette un pulsante sotto il semaforo.
Rimasero ad aspettare in silenzio per un paio di minuti. Shadow continuava a ripetersi che era tutto a posto, che venerdì mattina avrebbe preso l’aereo per Eagle Point, ma non riusciva a crederci.
La luce rossa si spense e si accese il verde. Wilson aprì la porta. Entrarono.
In quei tre anni Shadow aveva avuto poche occasioni di vedere il direttore. La prima volta Patterson stava facendo visitare il penitenziario a un uomo politico. In un’altra occasione, durante una consegna generale, aveva fatto un discorso ai detenuti a gruppi di cento: la prigione era sovraffollata, aveva detto, e siccome sarebbe rimasta sovraffollata, avrebbero fatto meglio a farci l’abitudine.
Visto da vicino, Patterson era ancora più brutto. Aveva una faccia troppo lunga, e portava i capelli grigi tagliati a spazzola. Puzzava di Old Spice. Alle sue spalle c’era uno scaffale pieno di libri, tutti con la parola "carcere" nel titolo sulla costa; la scrivania era immacolata e vuota, fatta eccezione per un telefono e un calendario con le vignette di "Far Side", di quelli a cui si strappa la pagina giorno per giorno. All’orecchio sinistro portava un apparecchio acustico.
«Siediti, prego.»
Shadow sedette. Wilson rimase in piedi dietro di lui.
Il direttore aprì un cassetto e ne estrasse una pratica che appoggiò sulla scrivania.
«Qui c’è scritto che sei stato condannato a sei anni per aggressione e lesioni personali con le aggravanti. Ne hai scontati tre. Venerdì dovresti essere rilasciato.»
Dovrei? Lo stomaco di Shadow si contrasse. Quanti anni gli avrebbero fatto fare ancora… uno? Due? Tutti e tre? Si limitò a dire: «Sì, signore».
Il direttore si passò la lingua sulle labbra. «Cos’hai detto?»
«Ho detto "Sissignore."»
«Shadow, ti rilasciamo questo pomeriggio. Un paio di giorni prima della data prevista.» Shadow annuì, aspettando il colpo basso. Il direttore guardò il foglio aperto sulla scrivania. «Questo è arrivato dal Johnson Memorial Hospital di Eagle Point… Tua moglie. È morta questa mattina all’alba. Un incidente automobilistico. Mi dispiace.»
Shadow annuì.
Wilson lo riaccompagnò in cella senza parlare. Aprì la porta e lo fece entrare. Poi disse: «È come lo scherzo della notizia buona e di quella cattiva, no? La buona notizia è che ti facciamo uscire prima, quella cattiva è che tua moglie è morta». Rise, come se lo trovasse davvero divertente.
Shadow non aprì bocca.
Raccolse le sue cose come inebetito, regalò quasi tutto. Lasciò l’Erodoto di Low Key e il manuale dei giochi di prestigio e, con uno spasimo momentaneo, abbandonò anche i dischetti di metallo che aveva trafugato dal laboratorio. Non gli sarebbero serviti più, perché c’erano le monete vere, fuori. Si fece la barba. Indossò vestiti civili. Attraversò una fila interminabile di porte, consapevole del fatto che non avrebbe mai più varcato quelle soglie, sentendosi vuoto, dentro.
La pioggia scendeva a raffiche violente dal cielo grigio, una pioggia gelata che lo pungeva in faccia, e il soprabito leggero era già inzuppato mentre si avvicinavano all’ex pulmino scolastico che li avrebbe portati nella città più vicina.
Quando arrivarono al pulmino erano bagnati fradici. Erano in otto a lasciare il carcere. Dentro ne rimanevano mille e cinquecento. Shadow prese posto e rabbrividì fino a quando non cominciò a funzionare il riscaldamento, chiedendosi che cosa avrebbe fatto, adesso, e dove sarebbe andato.
Figure spettrali gli affollavano la mente, non invitate. Con l’immaginazione stava lasciando una prigione diversa in un altro tempo, un tempo molto lontano.
Era rimasto chiuso in una stanza buia troppo a lungo: la barba era incolta e i capelli un groviglio. I secondini lo avevano accompagnato giù per una scala di pietra grigia e su una piazza piena dei colori accesi di cose e persone. Era giorno di mercato e il rumore e le luci lo frastornavano mentre socchiudeva gli occhi per difendersi dal sole che inondava la piazza; annusava l’aria umida e salmastra e tutti i buoni odori del mercato, e alla sua sinistra il sole scintillava riflesso nell’acqua…
Il pulmino si fermò con un sobbalzo a un semaforo rosso.
Il vento ululava e i tergicristalli si trascinavano pesanti di pioggia, trasformando la città in un’imbrattatura umida, rossa e gialla. Benché fosse primo pomeriggio di là del finestrino sembrava già notte.
«Merda» disse il suo vicino cercando di togliere con la mano la condensa dal vetro per guardare una passante tutta bagnata che correva sul marciapiede. «C’è la figa, là fuori.»
Shadow deglutì. Gli venne in mente che non aveva ancora pianto, che in effetti non aveva provato niente. Niente lacrime. Nessun dolore. Zero.
Si ritrovò a pensare a un certo Johnnie Larch che era stato in cella con lui durante i primi tempi e che gli aveva raccontato di essere uscito, una volta, dopo cinque anni dietro le sbarre, con in tasca cento dollari e un biglietto aereo per Seattle, dove viveva la sorella.
Arrivato all’aeroporto aveva mostrato il biglietto all’impiegata e lei gli aveva chiesto la patente.
Gliel’aveva data. Era una patente scaduta da un paio d’anni. L’impiegata aveva detto che non era valida come documento di identità. Lui le aveva risposto che forse non era valida come patente di guida ma certamente bastava per identificarlo, e comunque chi cazzo credeva che fosse, se non era lui?
Lei gli aveva detto di non alzare la voce.
Lui le aveva ordinato di dargli la carta d’imbarco perché altrimenti se ne sarebbe pentita. Non aveva nessuna intenzione di farsi mancare di rispetto in quel modo. In galera non ti lasci mancare di rispetto.
Allora lei aveva premuto un pulsante e nel giro di pochi secondi gli agenti di sicurezza dell’aeroporto erano intervenuti e l’avevano convinto ad andarsene senza fare storie, e siccome lui non se ne voleva andare era seguito un alterco.
Risultato, a Seattle Johnnie Larch non c’era mai arrivato. Aveva passato due giorni nei bar della città, e una volta finiti i cento dollari aveva rapinato un distributore di benzina con una pistola giocattolo per pagarsi da bere, finché la polizia lo aveva beccato mentre pisciava per strada. Nel giro di poco tempo era tornato dentro a scontare il resto della pena nonché un extra per il lavoretto al distributore.
La morale della storia, secondo Johnnie Larch, era questa: mai far incazzare quelli che lavorano all’aeroporto.
«Sei sicuro che il concetto non sia più tipo: "Il genere di comportamento che funziona in particolari ambienti, come quello carcerario, può non funzionare o rivelarsi addirittura dannoso all’esterno di quell’ambiente?"» aveva domandato Shadow, finito di ascoltarlo.
«No, da’ retta a me, amico: non far incazzare quelle troie dell’aeroporto.»
Shadow quasi sorrise, immaginando la scena. La sua patente era valida ancora per qualche mese.
«Stazione degli autobus! Tutti fuori!»
L’edificio puzzava di piscio e birra rancida. Shadow salì su un taxi e chiese al conducente di portarlo all’aeroporto. Gli disse anche che gli avrebbe dato una mancia di cinque dollari se avesse guidato senza parlare. Arrivarono in venti minuti senza scambiare nemmeno una parola.
Poi attraversò incespicando il terminal troppo illuminato. Il fatto di avere una prenotazione elettronica lo preoccupava. Il suo biglietto era fissato per venerdì, e non sapeva se gli avrebbero potuto spostare la prenotazione. Tutto quello che aveva a che fare con l’elettronica gli sembrava magico e quindi capace di scomparire in qualsiasi momento.
Comunque era tornato in possesso del suo portafoglio, dopo tre anni, con dentro alcune carte di credito scadute e una Visa che, scoprì con piacere, era ancora valida fino alla fine di gennaio. Aveva il numero della prenotazione e la certezza che una volta a casa tutto si sarebbe, chissà come, aggiustato. Laura doveva essere viva. Forse si era trattato di un imbroglio per farlo uscire qualche giorno prima. Oppure di un caso di omonimia: il corpo estratto dai rottami apparteneva a un’altra Laura Moon.
Oltre le vetrate dell’aeroporto vedeva i fulmini. Shadow si accorse che tratteneva il respiro, come se aspettasse qualcosa. Il rombo distante del tuono. Espirò.
Una donna bianca lo fissava da dietro il banco con l’aria stanca.
«Buongiorno» le disse. Sei la prima estranea in carne e ossa con la quale parlo da anni. «Ho la prenotazione di un biglietto elettronico. Sarebbe per venerdì, ma devo partire oggi. C’è stato un decesso nella mia famiglia.»
«Mmm. Mi dispiace.» La donna digitò sulla tastiera, fissò lo schermo del monitor e digitò qualcos’altro. «Nessun problema. C’è posto sul volo delle tre e mezzo. Può darsi che parta in ritardo a causa del maltempo, quindi tenga d’occhio il tabellone. Ha bagagli?»
Le mostrò la sacca che portava a tracolla. «Non devo fare il check-in per questa, vero?»
«No. La tenga pure. Ha un documento di identità?»
Shadow le fece vedere la patente. Non era un aeroporto grande, ma lo stupiva la quantità di gente che vi si aggirava senza fare niente. Osservò qualcuno appoggiare i bagagli per terra con disinvoltura, portafogli infilati nelle tasche, borsette incustodite sotto le sedie. Fu soltanto allora che si rese conto di non essere più in prigione.
Trenta minuti all’imbarco. Comperò una fetta di pizza e il formaggio fuso gli bruciò le labbra. Prese il resto e andò verso i telefoni. Chiamò Robbie alla Muscle Farm, ma gli rispose la segreteria telefonica.
«Ciao Robbie» disse. «Dicono che Laura è morta. Mi hanno fatto uscire prima. Sto tornando a casa.»
Poi, visto che ci si può sempre sbagliare, lo sapeva per esperienza diretta, compose il numero di casa e ascoltò la voce registrata di Laura.
"Ciao, non sono in casa oppure non posso rispondere. Lasciate un messaggio e vi richiamerò. Buona giornata."
Shadow non riuscì a lasciare un messaggio.
Rimase seduto su una seggiola di plastica vicino al cancello stringendo la sacca così forte da farsi male alla mano.
Pensò alla prima volta che l’aveva vista. Non sapeva nemmeno il suo nome. Era l’amica di Audrey Burton. Era con Robbie in un séparé del Chi-Chi quando lei era entrata dietro Audrey e lui era rimasto a fissarla. Aveva i capelli lunghi, castani, e gli occhi così azzurri che Shadow aveva erroneamente creduto si trattasse di lenti a contatto colorate. Lei aveva ordinato un daiquiri alla fragola insistendo per farglielo assaggiare, e quando lui l’aveva provato era scoppiata a ridere felice.
A Laura piaceva che gli altri provassero quello che piaceva a lei.
Quando le aveva dato il bacio della buonanotte le sue labbra sapevano di daiquiri alla fragola e da quel momento in poi non aveva più desiderato baciare nessun’altra.
Una voce femminile annunciò che il volo era pronto per l’imbarco e la fila di Shadow fu proprio la prima a essere chiamata. Aveva un posto in coda, con un sedile vuoto accanto. La pioggia batteva incessante contro la fusoliera: Shadow immaginò un gruppo di bambinetti che lanciavano giù dal cielo manciate di piselli secchi.
Quando cominciò il decollo si addormentò.
Era in un luogo buio, e la cosa che lo stava fissando aveva una testa di bufalo orribilmente pelosa, ed enormi occhi acquosi. Il corpo era quello di un uomo, lucido d’olio.
«Cambiamenti in vista» disse il bufalo senza muovere le labbra. «Vi sono alcune decisioni da prendere.»
Il bagliore delle fiamme si rifletteva sulle pareti umide della caverna.
«Dove mi trovo?»
«Nella terra e sottoterra» rispose l’uomo-bufalo. «Sei dove attendono coloro che sono stati dimenticati.» I suoi occhi erano liquide biglie nere, e la voce un rombo dall’altro mondo. Puzzava come una vacca bagnata. «Credi» disse la voce tonante, «se vuoi sopravvivere devi credere.»
«Credere? A cosa?»
L’uomo-bufalo fissò Shadow e si issò, enorme, con occhi di bragia. Aprì la bocca maculata che all’interno era rossa per via del fuoco che bruciava dentro, sottoterra.
«A tutto» ruggì.
Il mondo vorticò e si capovolse e Shadow era di nuovo sull’aeroplano ma continuava ugualmente a vorticare. Qualche fila più avanti una donna gridò poco convinta.
I fulmini saettavano con bagliori accecanti. Il comandante comunicò che avrebbe cercato di guadagnare quota per allontanarsi dal temporale.
L’aeroplano sobbalzava procedendo a scossoni e Shadow si domandò con freddezza se sarebbe morto. Sembrava possibile, stabilì, anche se improbabile. Guardò fuori del finestrino l’orizzonte squarciato dai lampi.
Poi si riappisolò e sognò di essere ancora in prigione e che durante la coda per entrare nella sala mensa Low Key gli sussurrava che qualcuno aveva pagato un killer per ucciderlo, ma Shadow non poteva sapere chi era né perché, e quando si risvegliò si stavano preparando all’atterraggio.
Scese barcollando dall’aeroplano, battendo le palpebre per svegliarsi.
Tutti gli aeroporti si somigliano, pensò. E secondario il luogo in cui sorgono, è sempre un aeroporto: piastrelle e passaggi e toilette, cancelli, edicole e luci al neon. Anche questo sembrava un aeroporto qualsiasi. Il problema era che non si trattava dell’aeroporto dov’era diretto. Era più grande, molto più affollato, con un numero di cancelli decisamente troppo alto.
«Signora, mi scusi.»
L’impiegata alzò gli occhi dal foglio. «Prego?»
«In che aeroporto siamo?»
Lei lo guardò perplessa, come per capire se parlasse sul serio e infine disse: «St Louis».
«Ero diretto a Eagle Point.»
«Infatti. Ma è atterrato qui per via del maltempo. Non l’hanno annunciato?»
«È possibile. Mi sono addormentato.»
«Deve parlare con quel signore con la giacca rossa.»
Era un uomo alto quasi quanto Shadow e sembrava appena uscito dal ruolo del padre di famiglia in una sitcom degli anni Settanta. Digitò qualcosa sulla tastiera del computer e poi gli disse di correre — «Corra!» — al cancello in fondo al terminal.
Shadow attraversò di corsa l’aeroporto, ma quando arrivò al cancello lo trovò chiuso. Restò a osservare di qua dal vetro l’aereo che si allontanava.
La donna all’assistenza clienti (piccola e scura di pelle, con un neo sul naso) si consultò con una collega e fece una telefonata. («Niente da fare, l’imbarco per il suo volo è già chiuso. L’hanno cancellato dal tabellone.») Poi stampò una carta d’imbarco nuova. «Questa la porterà a destinazione» gli disse. «Telefoniamo al cancello per dire che l’aspettino.»
A Shadow sembrava di essere diventato il pisello che viene fatto saltare fra le tre tazze, o una carta mescolata nel mazzo. Attraversò di nuovo l’aeroporto correndo e si trovò più o meno nel punto da cui era appena tornato.
Al cancello un ometto gli ritirò la carta d’imbarco. «La stavamo aspettando» dichiarò staccando la matrice e restituendogli il pezzetto con il numero del posto assegnato, il 17D. Shadow si affrettò a salire e lo sportello dell’aeroplano si chiuse alle sue spalle.
Attraversò la prima classe, quattro posti in tutto, di cui tre occupati. L’uomo con la barba, vestito di chiaro, seduto accanto al posto libero della prima fila, gli sorrise e alzò il braccio picchiettando con un dito sul quadrante dell’orologio. Shadow proseguì.
Sì, d’accordo, ti sto facendo fare tardi, pensò. Mi auguro che sia l’ultima delle tue preoccupazioni.
L’aeroplano gli sembrava pieno, mentre percorreva il corridoio diretto verso la coda, anzi, scoprì che lo era davvero e che al 17D era già seduta una donna di mezza età. Shadow le mostrò la carta e lei gli mostrò la sua: erano identiche.
«Può sedersi, per favore?» chiese la hostess.
«No» rispose lui. «Temo di no.»
La hostess fece schioccare la lingua e controllò le due carte, poi ingiunse a Shadow di seguirla e gli indicò il posto vuoto della prima classe. «A quanto pare è il suo giorno fortunato» disse. «Desidera bere qualcosa? C’è ancora un po’ di tempo prima del decollo e se lo merita, dopo lo spavento di trovarsi senza posto.»
«Mi piacerebbe una birra. Di qualsiasi marca.»
La hostess si allontanò.
L’uomo vestito di chiaro seduto accanto a lui picchiettò di nuovo con l’unghia sul quadrante dell’orologio. «Sei in ritardo» disse, e gli fece un grande sorriso che non esprimeva alcuna simpatia.
«Prego?»
«Pensavo che non ce l’avremmo fatta.»
La hostess servì la birra a Shadow.
Per un attimo lui pensò che l’altro fosse matto, poi decise che si riferiva all’aeroplano. «Mi dispiace averla fatta aspettare» disse in tono cortese. «Ha molta fretta?»
Il velivolo cominciò la manovra di allontanamento dal cancello e la hostess venne a ritirare il bicchiere. L’uomo in chiaro le sorrise e disse: «Non preoccuparti del mio, me lo tengo stretto» e lei gli lasciò il bicchiere di Jack Daniel’s protestando debolmente che era contro i regolamenti della compagnia aerea. («Lascia che sia io a deciderlo, mia cara.»)
«Il tempo è certamente un fattore essenziale. Comunque no, non ho fretta. Mi preoccupavo soltanto che non riuscissi a farcela.»
«Molto gentile da parte sua.»
L’aeroplano scaldava i motori, ancora fermo ma tutto teso al decollo.
«Gentile un corno» rispose l’uomo in chiaro. «Ho un lavoro per te, Shadow.»
Un rombo e il piccolo velivolo sobbalzò in avanti respingendo Shadow contro lo schienale. Si erano staccati da terra e le luci dell’aeroporto fuggivano sotto di loro. Guardò il suo vicino.
Aveva i capelli più grigi che rossi e la barba, corta, più rossa che grigia. Una faccia scabra, squadrata, con gli occhi di un grigio chiarissimo. Indossava un vestito costoso, color gelato alla vaniglia squagliato. La cravatta, di seta, era grigio scuro, fermata da una spilla d’argento a forma di albero: fusto, rami e radici profonde.
Durante il decollo non fece cadere neppure una goccia di Jack Daniel’s.
«Non vuoi chiedermi che tipo di lavoro?»
«Come fa a sapere il mio nome?»
L’uomo ridacchiò. «Oh, sapere come si chiama la gente è la cosa più facile del mondo. Un pizzico di cervello, un pizzico di fortuna e un pizzico di memoria. Chiedimi che tipo di lavoro.»
«No» rispose Shadow. La hostess gli portò un’altra birra e lui la sorseggiò.
«Perché no?»
«Sto tornando a casa, dove ho un lavoro che mi aspetta. Non ne voglio un altro.»
Il sorriso ruvido dell’uomo non cambiò, ma adesso sembrava palesemente divertito. «A casa non ti aspetta nessun lavoro» disse. «Non c’è niente, per te. Mentre io ti sto offrendo un impiego perfettamente rispettabile, ben pagato, con un certo margine di sicurezza e considerevoli premi di indennità. Se vivi abbastanza a lungo posso perfino pagarti i contributi. Ti interessa?»
«Deve aver visto il mio nome sulla borsa.»
L’uomo non fece commenti.
«Chiunque lei sia» riprese Shadow, «non poteva sapere che avrei preso proprio questo volo. Non lo sapevo neanch’io, e se non fossi atterrato all’aeroporto di St Louis non sarei nemmeno qui. Io credo che lei sia un buontempone, o forse una specie di truffatore. Comunque, direi che la cosa migliore è interrompere subito questa conversazione.»
L’uomo scrollò le spalle.
Shadow prese la rivista di bordo ma l’aereo procedeva a scatti e sobbalzi, rendendo difficile la lettura. Le parole gli attraversavano la mente volteggiando come bolle di sapone senza lasciare traccia.
Il suo vicino sorseggiava tranquillamente il Jack Daniel’s a occhi chiusi.
Shadow lesse la lista dei canali di musica disponibili sui voli transoceanici e studiò la mappa del mondo dove le linee percorse dalla compagnia aerea erano disegnate in rosso. Poi finì di leggere la rivista e, seppure con riluttanza, la chiuse e la ripose nella tasca del sedile.
L’uomo aprì gli occhi. C’era qualcosa di strano nei suoi occhi, pensò Shadow. Uno era più scuro dell’altro. Anche lui lo stava guardando. «A proposito» disse, «mi dispiace per tua moglie, Shadow. Una grave perdita.»
Fu sul punto di dargli un pugno, invece prese un profondo respiro. ("Come ti ho già detto, è meglio non far incazzare quelle troie all’aeroporto" disse Johnnie Larch da un ricordo, "perché potrebbero farti risbattere dentro in un amen.") Contò fino a cinque.
«Dispiace anche a me» disse.
L’uomo scosse la testa. «Se solo non fosse stato necessario farla soffrire» disse, e sorrise.
«È morta in un incidente d’auto» replicò Shadow. «Ci sono modi peggiori per morire.»
L’altro scosse di nuovo la testa, lentamente. Per un momento a Shadow sembrò incorporeo; come se l’interno dell’aeroplano fosse di colpo molto reale e il suo vicino no.
«Shadow, non è uno scherzo. Non è un trucco. Posso pagarti meglio di chiunque altro. Sei un ex detenuto. Non faranno la fila per assumerti.»
«Senti, signor non-so-come-cazzo-ti-chiami» disse Shadow sovrastando il frastuono dei motori, «i soldi di tutto il mondo non basterebbero.»
Il sorriso diventò più largo e a Shadow tornò in mente un documentario sugli scimpanzé in cui veniva spiegato che quando scimmie e scimpanzé sorridono in realtà mostrano i denti per esprimere odio, aggressività o terrore. Il sorriso di uno scimpanzé è da interpretare come una minaccia.
«Lavora per me. Qualche rischio c’è, è ovvio, ma se sopravvivi potrai avere tutto quello che il tuo cuore desidera. Potresti diventare il prossimo re d’America. Adesso, dimmi chi potrebbe ricompensarti con tanta generosità?»
«Ma chi sei?»
«Ah, sì. Siamo nell’era dell’informazione — signorina, potrebbe servirmi un altro Jack Daniel’s? Poco ghiaccio — anche se ovviamente non è mai stato diverso. Informazione e conoscenza: due valute che non sono mai andate fuori corso.»
«Ti ho domandato chi sei.»
«Vediamo. Be’, visto che oggi è sicuramente il mio giorno, perché non mi chiami Wednesday? Sono il signor Wednesday. Anche se, considerato il tempo, potresti addirittura chiamarmi Thursday. Che ne dici?»
«Ma come ti chiami, veramente?»
«Lavora per me e lavora bene» rispose l’uomo in chiaro «e magari te lo dirò. Ecco qua. Questa è la mia offerta. Pensaci su. Nessuno pretende che tu dica immediatamente di sì senza neanche sapere se stai per finire in una vasca piena di piraña o in pasto agli orsi. Prenditi tutto il tempo che ti serve.» Chiuse gli occhi e si appoggiò allo schienale.
«Non c’è niente da decidere» disse Shadow. «Tu non mi piaci. Non voglio lavorare per te.»
«Come ho già detto» rispose l’uomo senza aprire gli occhi, «non c’è fretta. Prenditi tutto il tempo necessario.»
L’aeroplano atterrò con uno scossone e alcuni passeggeri scesero. Shadow guardò dal finestrino: era un piccolo aeroporto in mezzo al nulla e prima di arrivare a Eagle Point c’erano altri due scali intermedi. Gettò un’occhiata all’uomo vestito di chiaro, il signor Wednesday. Sembrava addormentato.
Impulsivamente si alzò, afferrò la borsa e imboccò il corridoio. Scese la scaletta e a passo regolare attraversò la pista bagnata, diretto verse le luci del terminal. Cadeva una pioggia leggera.
Prima di entrare nell’edificio si fermò e si voltò a guardare. Nessun altro era sceso, dopo di lui. Entrò e noleggiò un’automobile, una piccola Toyota rossa, scoprì una volta arrivato nel parcheggio.
Aprì la cartina che gli avevano fornito in dotazione e la spalancò sul sedile accanto al suo. Eagle Point si trovava a circa trecentottanta chilometri.
Il temporale era passato, ammesso che fosse arrivato fin lì. Faceva freddo e il cielo era sereno. Le nuvole correvano davanti alla luna e per un attimo Shadow non capì cosa si stesse muovendo, se erano le nubi o la luna.
Guidò per un’ora e mezzo verso nord.
Si stava facendo tardi. Aveva fame e quando si rese conto di essere veramente affamato prese la prima uscita ed entrò nella città di Nottamun (1301 ab.). Fece il pieno di benzina all’Amoco e chiese alla cassiera annoiata dove poteva trovare qualcosa da mangiare.
«Al Jack’s Crocodile Bar. A ovest sulla County Road N.»
«Crocodile Bar?»
«Sì. Secondo Jack il coccodrillo dà un tono al locale.» Sul retro di un volantino color malva che pubblicizzava la vendita di polli arrosto, vendita il cui ricavato sarebbe stato devoluto a favore di una bambina bisognosa di un rene nuovo, gli disegnò il percorso per arrivare. «Ci sono un paio di coccodrilli, un serpente e una di quelle cose tipo lucertolone.»
«Un’iguana?»
«Esattamente.»
Attraversò la città, oltre un ponte, e dopo altri tre chilometri si fermò di fronte a una costruzione rettangolare con l’insegna luminosa della Pabst.
Il parcheggio era semivuoto.
Dentro, l’aria era densa di fumo e dal jukebox uscivano le note di Walking After Midnight. Shadow si guardò in giro per scovare i coccodrilli ma non riuscì a trovarli. Si chiese se la donna dell’area di servizio non lo avesse preso in giro.
«Cosa le preparo?» chiese il barista.
«Una birra alla spina e un hamburger completo. Con le patatine.»
«Un piatto di chili per cominciare? È il miglior chili dello stato.»
«Va bene. Dov’è il bagno?»
L’uomo indicò la porta d’angolo. Sopra lo stipite c’era una testa di alligatore imbalsamata. Shadow entrò.
Era un bagno pulito, ben illuminato. Prima di tutto Shadow si diede un’occhiata intorno, un’ispezione dettata dalla forza dell’abitudine. ("Ricordati, Shadow, mentre stai pisciando non ti puoi difendere" disse Low Key, pacato come sempre, nel ricordo.) Entrò nell’orinatoio di sinistra. Abbassò la cerniera e con grande sollievo pisciò per un’eternità leggendo il ritaglio di giornale appeso ad altezza occhi, con foto di Jack in compagnia di due alligatori.
Dall’orinatoio alla sua destra — eppure era certo di non aver sentito entrare nessuno — arrivò un cortese grugnito.
Visto in piedi l’uomo vestito di chiaro era più imponente di come gli era sembrato sull’aeroplano. Era alto quasi come Shadow, e Shadow era un colosso. Fissava dritto davanti a sé. Finì di pisciare, diede una scrollatina per liberarsi delle ultime gocce e chiuse la cerniera.
Poi sorrise come una volpe bloccata da una recinzione di filo spinato. «Allora» disse, «il tempo per pensare ce l’hai avuto. Lo vuoi o no il mio lavoro?»
Altrove, in America
Los Angeles, ore 23.26
In una stanza rosso scuro — il colore delle pareti è quello del fegato crudo — c’è una donna alta vestita come il personaggio di un fumetto con il sedere fasciato da un paio di shorts di seta attillatissimi e i seni prorompenti dalla camicia gialla annodata stretta. Porta i capelli neri legati in una crocchia alta sulla testa. In piedi accanto a lei c’è un uomo di bassa statura con una maglietta verde oliva e un paio di costosi blue jeans. Nella mano destra stringe un portafogli e un cellulare Nokia con la mascherina bianca rossa e blu.
Nella stanza rossa c’è un letto con le lenzuola di satin, bianche, e un copriletto color sangue di bue. Ai piedi del letto un tavolino di legno sul quale è appoggiata una statuetta di pietra dai fianchi enormi con sembianze femminili e, davanti, un candeliere.
La donna porge all’uomo una piccola candela rossa. «Tieni» dice. «Accendila.»
«Io?»
«Sì. Se vuoi avermi.»
«Dovevo farmi fare un pompino in macchina e via.»
«Può darsi» risponde lei. «Allora non mi vuoi?» Fa scorrere le mani dalle cosce al seno in un gesto di presentazione, come se stesse dimostrando un prodotto nuovo.
Una sciarpa di seta rossa sopra la lampada d’angolo tinge di rosso anche la luce.
L’uomo la guarda sbavando, poi prende la candela e la ficca nel candeliere. «Hai da accendere?»
Lei gli passa una scatola di fiammiferi. Lui ne prende uno, accende lo stoppino: la fiamma ondeggia e poi si stabilizza, la statua di donna senza testa, tutta fianchi e seno, sembra muoversi.
«Metti i soldi sotto la statua.»
«Cinquanta sacchi.»
«Sì. Adesso vieni qui e amami.»
Lui sbottona i blue jeans e si sfila la maglietta verde oliva. Lei gli massaggia le spalle con le sue dita scure, poi lo fa voltare e comincia a usare le mani, la lingua.
Lui ha l’impressione che la luce nella camera rossa sia diventata più fioca, e che ci sia solo la candela, che brucia con una bella fiamma, a illuminarla.
«Come ti chiami?» le chiede.
«Bilqis» risponde lei alzando la testa. «Con la Q.»
«Con che?»
«Non importa.»
Adesso lui trattiene il respiro. «Voglio mettertelo dentro» dice. «Lasciatelo mettere dentro.»
«D’accordo, dolcezza. Come vuoi. Però tu devi fare qualcosa per me.»
«Ehi» ribatte lui già sulle sue. «Sono io che pago, non dimenticartelo.»
Lei gli si mette cavalcioni e sussurra: «Lo so, dolcezza, lo so, tu mi paghi e invece dovrei essere io a pagare te, guardati, sono veramente una donna fortunata…».
Lui increspa le labbra come per dire che non è tipo da farsi incantare da quei discorsi da puttana, che non si fa fregare; lei è una prostituta, cazzo, mentre lui è praticamente un produttore, e sa tutto sulle fregature che si tirano all’ultimo minuto, però lei non vuole altri soldi. «Dolcezza» gli dice, «mentre mi scopi, mentre mi sbatti dentro quel grosso cazzo duro, mi potresti adorare?»
«Cosa dovrei fare?»
Lei si muove avanti e indietro: strofina la testa turgida del pene contro le labbra bagnate della vulva.
«Mi potresti chiamare dea? Mi potresti adorare? Mi potresti venerare con il tuo corpo?»
Lui sorride. Tutto lì? Ognuno è libero di eccitarsi come gli pare. «Ma certo» dice. Lei fa scivolare una mano tra le gambe e se lo infila dentro.
«Ti piace, vero, dea?» annaspa lui.
«Venerami, dolcezza» risponde Bilqis, la prostituta.
«Sì. Venero i tuoi seni e i tuoi capelli e la tua figa. Venero le tue cosce e i tuoi occhi e la tua bocca rossa come le ciliegie…»
«Sì…» cantilena lei, cavalcandolo.
«Venero i tuoi capezzoli dai quali scorre il latte della vita. Il tuo bacio è dolce come il miele e le tue carezze bruciano come il fuoco e io le venero.» Adesso le sue parole sono diventate più ritmiche, seguono il movimento dei corpi. «Portami il desiderio del mattino e la pace e la benedizione della sera. Lascia che cammini al buio senza incontrare pericoli e che venga di nuovo fino a te e ti dorma accanto e faccia ancora l’amore con te. Ti venero con tutto me stesso, con tutta la mia mente, con tutti i miei sogni e il mio…» si interrompe, prende fiato. «Ma cosa fai? E stranissimo. Stranissimo veramente…» e guarda in basso cercando di vedere il punto dove i loro corpi si congiungono, ma lei gli mette un dito sotto il mento e lo costringe ad alzare la testa in modo che possa vedere solo la sua faccia e il soffitto.
«Continua a parlare, dolcezza» gli dice. «Non ti fermare. Non è bello?»
«Una cosa così bella non l’avevo mai provata» le risponde lui in tutta sincerità. «I tuoi occhi sono stelle che bruciano nel…, merda, firmamento, e le tue labbra gentili come onde lambiscono la sabbia e io le venero» e adesso spinge sempre più a fondo dentro di lei; si sente elettrizzato, come se tutta la parte inferiore del suo corpo avesse ricevuto una scarica ad alto voltaggio: fallico, congestionato, beato.
«Concedimi il tuo dono» borbotta senza più rendersi conto di quello che dice, «il tuo dono più autentico e fammi sentire sempre. … sempre così… ti prego… io…»
E poi quando il piacere arriva all’apogeo dell’orgasmo, la sua mente esplode nel vuoto e tutto il suo essere si fonde con il perfetto nulla mentre sprofonda, continua a sprofondare…
A occhi chiusi, in preda agli spasmi, si abbandona all’istante, poi gli sembra di rollare, e di essere appeso a testa in giù, benché continui a provare piacere.
Apre gli occhi.
Sforzandosi di ritrovare il senno e la ragione pensa al momento della nascita e senza paura, in un attimo di perfetta lucidità post-coitale, si domanda se ciò che vede è realtà o illusione.
Ecco cosa vede:
È entrato dentro di lei fino al petto e mentre osserva incredulo e meravigliato lo spettacolo lei gli appoggia le mani sulle spalle e imprime una leggera pressione.
Il corpo di lui scivola ancora più dentro.
«Ma come fai?» chiede, o pensa di chiedere, ma forse lo pensa soltanto.
«Sei tu che lo fai, dolcezza» sussurra lei. Lui sente le labbra della vulva stringerglisi intorno al petto e alla schiena, costringendolo, avvolgendolo. Si domanda che cosa penserebbero, se lo vedessero. Si domanda perché non ha paura. E poi capisce.
«Ti venero con il mio corpo» sussurra, mentre lei lo spinge dentro del tutto. La vulva gli accarezza la faccia e i suoi occhi scivolano nell’oscurità.
Lei si distende sul letto come un’enorme gattona e sbadiglia. «Sì» dice. «Proprio così.»
Il cellulare Nokia suona, una trasposizione elettronica dell’Inno alla gioia. Lei lo prende e se l’avvicina all’orecchio.
Ha il ventre piatto, la vulva piccola, chiusa. Un velo di sudore le imperla la fronte e il labbro superiore.
«Pronto?» dice. E poi aggiunge: «No, dolcezza, non c’è. È andato via».
Spegne il telefono prima di adagiarsi completamente sul letto nella camera rossa, si stira un’altra volta, chiude gli occhi e si addormenta.
La portarono al cimitero
in una vecchia e grande Cadillac
La portarono al cimitero
e ve la lasciarono.
«Mi sono preso la libertà» disse Wednesday nel bagno del Jack’s Crocodile Bar mentre si lavava le mani «di ordinare anche per me e di far servire al tuo tavolo. Dopotutto ci sono molte cose di cui dobbiamo discutere.»
«Non mi pare» rispose Shadow. Si asciugò le mani con la carta, l’appallottolò e la gettò nel cestino.
«Ti serve un lavoro» disse Wednesday. «La gente non assume ex detenuti. Quelli come voi li fanno sentire a disagio.»
«Ho un lavoro che mi aspetta. Un ottimo lavoro.»
«Ti riferisci alla Muscle Farm?»
«Può darsi.»
«Allora niente da fare. Non c’è nessun lavoro che ti aspetta. Robbie Burton è morto e senza di lui è morta anche la Muscle Farm.»
«Sei un bugiardo.»
«Certo. Un grande bugiardo. Il migliore sulla piazza. Ma su questo argomento ti sto dicendo la verità, ho paura.» Infilò una mano in tasca, tirò fuori un quotidiano ripiegato e lo diede a Shadow. «A pagina sette» disse. «Torna di là. Puoi leggerlo al tavolo.»
Shadow spalancò la porta. Nel bar l’aria era densa e azzurra di fumo, e nel jukebox i Dixie Cups suonavano Iko Iko. Riconoscendo la vecchia canzone per bambini Shadow sorrise.
Il barista indicò un tavolo d’angolo già apparecchiato con una scodella di chili e un hamburger da una parte e, di fronte, una bistecca al sangue con patate fritte.
Look at my king all dressed in red,
Iko Iko all day,
I bet you five dollars he’ll kill you dead,
Jockamo-feena-nay.
Sedette e appoggiò il giornale sul tavolo. «Questo è il mio primo pasto da uomo libero. La tua pagina sette la leggerò quando avrò finito di mangiare.»
Finì l’hamburger, migliore di quelli che preparavano in prigione. Anche il chili era buono, decise dopo un paio di cucchiaiate, ma non il migliore dello stato.
Laura sapeva prepararlo alla perfezione. Usava carne magra, fagioli marroni, carote tagliate a pezzettini, una bottiglia circa di birra scura e peperoni piccanti a fettine. Lasciava cuocere il tutto per un po’, poi aggiungeva vino rosso, succo di limone e un pizzico di aneto fresco e infine misurava e aggiungeva il peperoncino in polvere. Più di una volta lui le aveva chiesto di fargli vedere come lo cucinava: osservava con attenzione, dal momento in cui lei affettava le cipolle e le faceva imbiondire nell’olio d’oliva. Aveva perfino trascritto dettagliatamente la ricetta e durante un fine settimana in cui lei non c’era aveva provato a prepararlo da solo. Era venuto buono, certamente commestibile, ma niente a che vedere con il chili di Laura.
La notizia di cronaca a pagina sette era il primo resoconto sulla morte di sua moglie che aveva occasione di vedere. Laura Moon, ventisette anni, secondo il giornale, e Robbie Burton, trentanove, si trovavano sull’Interstate a bordo dell’automobile di Robbie quand’erano finiti sotto le ruote di un tir che aveva scaraventato la macchina sul ciglio della strada.
La squadra di soccorso aveva estratto i corpi di Robbie e Laura dai rottami. Erano morti prima di arrivare in ospedale.
Shadow ripiegò il giornale e lo spinse sul tavolo, verso Wednesday, intento a ingozzarsi con una bistecca talmente cruda da far sospettare che il fuoco non l’avesse mai nemmeno sfiorata.
«Tieni. Riprenditelo.»
Al volante c’era Robbie. Doveva essere ubriaco, anche se l’articolo non ne parlava. Shadow immaginò l’espressione di Laura quando si era resa conto che Robbie era troppo ubriaco per guidare. La scena si svolgeva nella sua mente senza che lui potesse fare niente per fermarla: Laura che urlava… che urlava a Robbie di fermarsi, poi il tonfo contro il camion, il botto e lo strappo…
… la loro macchina capovolta sul ciglio della strada, vetri in frantumi, come ghiaccio e diamanti scintillanti alla luce dei fanali, pozze di sangue rosso rubino sull’asfalto. Due corpi estratti dai rottami, ordinatamente adagiati uno accanto all’altro.
«Allora?» chiese Wednesday. Aveva divorato la bistecca come se stesse morendo di fame. Adesso stava attaccando le patatine con grandi forchettate.
«Hai ragione» disse Shadow. «Non ce l’ho più un lavoro.»
Prese dalla tasca una moneta da venticinque centesimi. La gettò in aria sfiorandola con un dito mentre si staccava dalla mano, facendola esitare come se stesse per girarsi, poi l’afferrò e la schiacciò sul dorso della mano.
«Testa o croce?» disse.
«Perché?»
«Non voglio lavorare per qualcuno più sfortunato di me. Avanti.»
«Testa» disse Wednesday.
«Mi dispiace» rispose Shadow senza nemmeno guardare la moneta. «È croce. Era un tiro truccato.»
«Sono i più facili da battere» disse Wednesday agitando un dito tozzo. «Da’ un’occhiata.»
Shadow guardò la moneta. La faccia rivolta verso l’alto era testa.
«Devo aver sbagliato» disse perplesso.
«Non buttarti giù così» ribatté Wednesday con un sorriso. «Tieni conto che io sono un tipo molto, molto fortunato.» Poi alzò lo sguardo. «Ma chi l’avrebbe mai detto, Mad Sweeney. Bevi qualcosa con noi?»
«Southern Comfort e Coca, liscio» disse una voce alle spalle di Shadow.
«Vado a ordinare.» Wednesday si alzò e partì diretto verso il bancone.
«A me non chiedi cosa bevo?» gli gridò Shadow.
«Lo so che cosa bevi» rispose, ed era già al bar. Patsy Cline ricominciò a cantare Walking After Midnight.
L’uomo del Southern Comfort e Coca sedette accanto a Shadow. Aveva una corta barba rossiccia. Indossava una giacca di jeans coperta di toppe colorate sopra una maglietta sporca. Sul davanti c’era scritto:
Portava un berretto da baseball su cui era stampato:
Aprì un pacchetto di Lucky Strike morbide con un’unghia sporca, prese una sigaretta per sé e ne offrì una a Shadow che fu sul punto di accettare, automaticamente. Non fumava — ma una sigaretta è pur sempre un’ottima merce di scambio — poi si ricordò che non era più in galera. Fece segno di no con la testa.
«Lavori per il nostro amico, allora?» domandò l’uomo barbuto. Non era del tutto sobrio, ma nemmeno ubriaco, per il momento.
«Pare di sì. E tu cosa fai?»
L’uomo barbuto accese la sigaretta. «Io sono un leprecauno» disse con una smorfia.
Shadow non sorrise. «Veramente? Allora dovresti bere Guinness.»
«Stereotipi. Bisogna iniziare a pensare fuori dagli schemi. In Irlanda c’è molto di più della Guinness.»
«Non hai un accento irlandese.»
«Sono in questo cazzo di posto da troppo tempo.»
«Ma sei irlandese, d’origine?»
«Te l’ho detto. Sono un leprecauno. I leprecauni non vengono da Mosca.»
«No, non mi pare.»
Wednesday tornò al tavolo con tre bicchieri tenuti disinvoltamente in una mano sola grande come una zampa. «Southern Comfort e Coca per te, Mad Sweeney, amico mio, e un Jack Daniell per me. E per te questo, Shadow.»
«Che cos’è?»
«Assaggialo.»
Aveva un colore bruno dorato e quando ne prese un sorso Shadow sentì sulla lingua un sapore agrodolce. Un retrogusto alcolico con una strana miscela di sapori. Gli ricordava un po’ il liquore che qualche detenuto distillava clandestinamente dentro un sacco dell’immondizia usando frutta marcia, pane, zucchero e acqua, però era più dolce e molto più esotico.
«Va bene» disse. «L’ho assaggiato. Che cos’è?»
«Idromele» rispose Wednesday. «Alcol e miele. La bevanda degli eroi. La bevanda degli dèi.»
Shadow ne prese un altro sorso. Sì, il miele c’era, decise. Era uno dei sapori. «Assomiglia un po’ ai cetrioli in salamoia» disse. «Sì, sembra salamoia dolce.»
«Sembra piscio di ubriaco diabetico» convenne Wednesday. «Io lo detesto.»
«Perché vuoi farlo bere a me, allora?» domandò Shadow, non a torto.
Wednesday lo fissò con i suoi occhi così male assortiti. Shadow stabilì che uno dei due era di vetro, ma non riusciva a capire quale. «Ti ho portato l’idromele da bere perché così vuole la tradizione. E in questo preciso momento abbiamo bisogno di tutte le tradizioni che riusciamo a mettere assieme per suggellare il nostro accordo.»
«Non abbiamo fatto nessun accordo.»
«Certo che l’abbiamo fatto. Adesso tu lavori per me. Mi proteggi. Mi trasporti da un posto all’altro. Fai le commissioni. In caso di emergenza, ma solo in caso di vera emergenza, fai del male a quelli a cui devi fare del male. Nell’improbabile ipotesi della mia morte farai la mia veglia funebre. E in cambio io provvederò a soddisfare tutte le tue necessità.»
«Ti sta imbrogliando» disse Mad Sweeney grattandosi la barba ispida. «È un imbroglione.»
«Certo che sono un imbroglione» disse Wednesday. «È per questo che ho bisogno di qualcuno che mi protegga.»
La canzone nel jukebox arrivò alla fine e per un attimo il locale rimase silenzioso, ogni conversazione sospesa.
«Una volta qualcuno mi ha detto che questi momenti in cui tutti tacciono insieme si verificano sempre a un’ora e venti o meno venti» disse Shadow.
Sweeney indicò l’orologio appeso sopra il banco del bar, stretto tra le mascelle enormi e indifferenti di una testa imbalsamata di alligatore. Erano le undici e venti.
«Ecco» disse Shadow. «Chissà perché succede.»
«Io lo so» rispose Wednesday. «Bevi il tuo idromele.»
Shadow trangugiò il resto del liquore in un sorso. «Forse col ghiaccio starebbe meglio.»
«Non è detto» rispose Wednesday. «È sempre tremendo.»
«Proprio così» convenne Mad Sweeney. «Mi scuso per un attimo, signori, ma mi trovo nell’impellente necessità di una lunga pisciata.» Si alzò e si allontanò, alto in maniera impossibile. Doveva essere più di due metri e dieci, stabilì Shadow.
Una cameriera passò lo strofinaccio sul tavolo e portò via i piatti vuoti. Wednesday le chiese un secondo giro per tutti, anche se questa volta l’idromele di Shadow doveva essere con ghiaccio.
«Comunque» riprese, «ti ho detto cosa voglio da te.»
«Ti piacerebbe sapere che cosa voglio io?» chiese Shadow.
«Niente mi renderebbe più felice.»
La cameriera portò da bere. Shadow sorseggiò l’idromele con ghiaccio. Non era migliorato, anzi, il ghiaccio ne accentuava l’asprezza e tratteneva il sapore più a lungo sulla lingua. Comunque, cercò di consolarsi, non sembrava particolarmente alcolico. Non era pronto per ubriacarsi. Non ancora.
Fece un respiro profondo.
«Va bene» disse. «La mia vita, che negli ultimi tre anni è stata tutt’altro che della migliore qualità, ha preso improvvisamente una bruttissima piega. Ho alcune cose da fare. Voglio andare al funerale di Laura. Voglio dirle addio. Dovrò occuparmi della sua roba. Se dopo mi vuoi ancora comincio a lavorare per te a cinquecento dollari la settimana.» Aveva sparato la cifra a caso. Gli occhi di Wednesday non lasciavano trasparire niente. «Se andiamo d’accordo, dopo sei mesi me ne dai mille la settimana.»
Si prese una pausa. Era il discorso più lungo che avesse fatto da anni. «Dici che forse sarà necessario fare del male a qualcuno. Be’, lo farò se cercheranno di fare del male a te. Ma non colpisco nessuno né per piacere né per soldi. Non tornerò dentro. Una volta mi è bastata.»
«Non succederà» disse Wednesday.
«No. Non mi succederà.» Finì l’idromele e di colpo si domandò se non fosse stato il liquore a sciogliergli la lingua. Ma le parole uscivano come acqua da un idrante rotto in estate, e nemmeno se ci avesse provato sarebbe riuscito a fermarle. «Tu non mi piaci, Wednesday, o qualunque sia il tuo vero nome. Non siamo amici. Non so come hai fatto a scendere da quell’aereo senza che io ti vedessi. Non so come sei riuscito a seguirmi fin qui. Ma a quanto pare non ho alternative. Quando avremo finito me ne andrò per conto mio. E se mi fai incazzare me ne vado prima. Fino ad allora lavorerò per te.»
«Molto bene» disse Wednesday. «Allora abbiamo stretto un patto. Siamo tutti d’accordo.»
«Diciamo di sì» disse Shadow. In fondo al locale Mad Sweeney stava mettendo le monete nel jukebox. Wednesday si sputò sul palmo della mano e la tese. Shadow scrollò le spalle. Lo imitò e ricambiò la stretta. Wednesday strinse con forza. Shadow fece altrettanto. Dopo qualche secondo cominciò a provare dolore. Wednesday indugiò ancora un istante e poi mollò la presa.
«Bene» disse. «Bene. Molto bene. Allora, un ultimo bicchiere di fetente idromele per suggellare l’accordo e siamo a posto.»
«Per me Southern Comfort e Coca» disse Sweeney tornando barcollante dal jukebox.
Cominciò Who Loves the Sun? dei Velvet Underground. A Shadow sembrò strano che in un jukebox ci fosse una canzone del genere, molto improbabile. Ma del resto tutta la serata aveva preso una piega improbabile.
Prese dal tavolo la moneta che aveva usato per fare testa o croce apprezzando, mentre la faceva passare tra indice e pollice della mano destra, la sensazione di una moneta ben fresata tra le dita. Con un rapido movimento finse di prenderla con la sinistra mentre in realtà la impalmava con disinvoltura nella destra. Chiuse la sinistra intorno a un immaginario quarto di dollaro, poi ne prese un secondo con la destra, tra indice e pollice e, mentre fingeva di lasciarlo cadere nella sinistra, fece scivolare la moneta nascosta nella destra colpendo l’altra. Il tintinnio doveva confermare l’illusione che le due monete fossero entrambe nella mano sinistra, mentre adesso si trovavano al sicuro nella destra.
«Giochi di prestigio con le monete?» chiese Sweeney alzando la testa e rizzando la barba arruffata. «Be’, guarda questo, allora.»
Prese un bicchiere vuoto dalla tavola. Poi allungò una mano e afferrò dall’aria una grossa e lucente moneta d’oro. La lasciò cadere dentro il bicchiere. Prese dal nulla un’altra moneta d’oro e la gettò nel bicchiere facendola tintinnare contro la prima. Poi ne prese una dalla fiamma della candela fissata al muro, un’altra dalla sua barba, una terza dalla mano sinistra di Shadow, vuota, e a una a una le lasciò cadere dentro il bicchiere. Poi vi strinse sopra le dita e soffiò con forza, e parecchie altre monete d’oro caddero dalla sua mano nel bicchiere. Infilò il bicchiere pieno di monete appiccicose di liquore nella tasca della giacca e batté sulla tasca per dimostrare che era inequivocabilmente vuota.
«Ecco, questo sì che è un bel giochino per te.»
Shadow, che lo aveva osservato con estrema attenzione, piegò la testa. «Voglio sapere come hai fatto.»
«L’ho fatto» rispose Sweeney con l’aria di confidare un gran segreto «con ostentazione ed eleganza. Ecco come ho fatto.» Rise silenziosamente barcollando sui tacchi e scoprendo i denti radi.
«Sì» disse Shadow. «Davvero. Me lo devi insegnare. Secondo i trucchi che ho letto io, per fare "Il sogno dell’avaro" devi aver nascosto le monete nella mano che tiene il bicchiere, lasciandole cadere mentre fai comparire e scomparire quelle nella mano destra.»
«Mi sembra complicato un casino» rispose Mad Sweeney. «Prenderle dall’aria è più facile.»
«Idromele per te, Shadow. Io continuo con il Jack Daniel’s, e per il nostro scroccone irlandese…?»
«Una birra in bottiglia, preferibilmente scura» rispose Sweeney. «Scroccone, eh?» Alzò il bicchiere in un brindisi rivolto a Wednesday. «Che la tempesta passi sopra le nostre teste lasciandoci tutti vivi e vegeti» disse ingollando il contenuto in un colpo.
«Bel brindisi» disse Wednesday. «Ma non andrà così.»
Davanti a Shadow venne appoggiato un altro bicchiere di idromele.
«Devo bere anche questo?»
«Ho paura di sì. Suggella il nostro accordo. Tre è il numero magico, giusto?»
«Merda» esclamò Shadow e trangugiò l’idromele in due sorsi. Il sapore di salamoia dolciastra gli riempì la bocca.
«Ecco fatto» disse Wednesday. «Adesso sei con me.»
«Allora» disse Sweeney, «vuoi sapere il trucco?»
«Sì» rispose Shadow. «Le tenevi nella manica?»
«Nemmeno una.» Sweeney ridacchiò ondeggiando e saltellando come uno smilzo vulcano barbuto pronto a eruttare, tutto compiaciuto delle proprie fiammate. «È la cosa più semplice del mondo. Facciamo a pugni, se vinci tu te lo spiego.»
Shadow scosse la testa. «Passo.»
«Questa è bella» disse Sweeney rivolto alla sala. «Il vecchio Wednesday si prende una guardia del corpo ma il tipo ha così paura che non riesce neanche ad alzare la guardia.»
«Non voglio fare a pugni con te» ammise Shadow.
Sweeney vacillava e sudava. Giocherellò con la punta del berretto, poi afferrò una moneta dall’aria e l’appoggiò sul tavolo. «È oro, se per caso te lo stavi domandando» disse. «È tuo se fai a botte con me, anche se perdi, e perderai. Un omone grande e grosso come te… chi l’avrebbe detto che eri uno schifoso codardo?»
«Ti ha già risposto che non vuole» disse Wednesday. «Vattene via, Mad Sweeney. Prenditi la tua birra e lasciaci in pace.»
Invece Sweeney gli si avvicinò di un passo. «Mi hai chiamato scroccone, vero, vecchia creatura maledetta? Tu, vecchio forcaiolo senza cuore.» Era rosso di rabbia.
Wednesday alzò le mani in un gesto di pace. «Sciocchezze, Sweeney. Bada a come parli.»
Sweeney lo guardò con gli occhi fiammeggianti. Poi, con la gravità di un uomo molto ubriaco, disse: «Tu hai assoldato un codardo. Che cosa farebbe se ti saltassi addosso, secondo te?».
Wednesday si girò verso Shadow. «Ne ho avuto abbastanza. Occupatene tu.»
Shadow si alzò in piedi e guardò in su per vedere Mad Sweeney in faccia: ma quanto era alto? «Ci stai dando fastidio» disse. «Sei ubriaco. Penso che te ne dovresti andare.»
Un lento sorriso illuminò Sweeney. «Eccoci» disse. E lo colpì con un pugno enorme sotto l’occhio destro che gli fece fare un balzo all’indietro. Shadow vedeva macchie di luce e sentiva un gran male.
E così la rissa cominciò.
Sweeney combatteva senza stile, senza tecnica, animato soltanto dall’entusiasmo per la lotta, menando una gran quantità di ganci che mancavano e colpivano il bersaglio a casaccio.
Shadow boxava in difesa, attento a bloccare i colpi o a evitarli. A un certo punto fu acutamente consapevole di avere un pubblico. I tavoli vennero spostati, tra le proteste dei clienti, per creare spazio ai due contendenti. Shadow sentiva su di sé gli occhi di Wednesday che non lo lasciavano un istante, il suo sorriso senza allegria. Era evidente che si trattava di una prova, ma che genere di prova?
In prigione aveva imparato che ci sono due modi di fare a botte: il genere "stammi lontano", in cui si fa più scena possibile, e quello brutale, vero, rapido e spietato, che finisce nel giro di pochi secondi.
«Ehi, Sweeney» disse senza fiato, «perché ci stiamo picchiando?»
«Per il piacere di farlo» rispose l’altro, sobrio, o perlomeno non visibilmente ubriaco. «Per il puro profano piacere di picchiarci. Non senti la gioia che ti scorre nelle vene, che si risveglia come linfa in primavera?» Gli sanguinava un labbro. E a Shadow una nocca.
«Allora, com’è che fai apparire le monete?» chiese. Ondeggiò e si scansò, prendendo sulla spalla un pugno diretto al naso.
«Te l’ho detto prima» borbottò Sweeney. «Ma non c’è peggior cieco — ahi! Ben piazzato! — di chi non vuol sentire.»
Shadow lo colpì al mento costringendolo ad arretrare contro un tavolo, e i bicchieri vuoti e i portacenere si frantumarono a terra. In quel momento lo avrebbe potuto finire.
Diede un’occhiata a Wednesday, che gli fece un cenno di assenso, poi guardò Mad Sweeney, steso sotto di lui. «Abbiamo finito?» chiese. L’altro esitò, poi annuì. Shadow lasciò la presa e arretrò di alcuni passi. Ansante, Sweeney riuscì a rimettersi verticale.
«Col cazzo!» gridò. «È finita quando lo dico io!» Poi sorrise e si slanciò in avanti cercando di colpire Shadow. Scivolò su un cubetto di ghiaccio finito per terra e mentre i piedi lo tradivano facendolo cadere sulla schiena, il sorriso si trasformò in un’espressione costernata. Rimase a bocca aperta e picchiò la testa sul pavimento del bar con un bel tonfo.
Shadow gli appoggiò un ginocchio sul petto. «Te lo chiedo per la seconda volta, abbiamo finito di picchiarci?»
«Diciamo di sì» rispose Sweeney sollevando la testa, «perché al momento il piacere mi ha abbandonato come la pipì che scappa a un bambino dentro una piscina in una giornata calda.» Sputò un po’ di sangue, chiuse gli occhi e cominciò a russare, un russare profondo e imponente.
Qualcuno batté una pacca sulla schiena di Shadow. Wednesday gli infilò in mano una bottiglia di birra.
Era molto meglio dell’idromele.
Si svegliò sdraiato sul sedile posteriore di una macchina. Il sole del mattino era abbagliante e gli faceva male la testa. Si mise seduto e si sfregò gli occhi.
Al volante c’era Wednesday che canticchiava stonato. Nel portabibite vide una tazza di plastica. Erano in autostrada. Il posto accanto a quello di guida era vuoto.
«Come ti senti, in questo bel mattino?» chiese Wednesday senza voltarsi.
«Che ne è stato della mia macchina? L’avevo noleggiata.»
«L’ha riportata indietro Mad Sweeney. Era nei patti. Dopo la scazzottata di ieri notte.»
I discorsi della sera prima si confondevano in maniera spiacevole nella testa di Shadow. «Non hai un po’ di caffè anche per me?»
Wednesday allungò una mano sotto il sedile e gli passò una bottiglia d’acqua ancora chiusa. «Tieni. Devi essere disidratato. Questa ti farà meglio del caffè, per ora. Alla prossima area di servizio ci fermiamo, così puoi fare colazione. Ti devi anche dare una ripulita. Sembra che tu abbia dormito con la capra.»
«Si dice con il gatto.»
«Con la capra. Un enorme caprone puzzolente coi dentoni.»
Shadow aprì la bottiglia e bevve. Sentì qualcosa tintinnare nel taschino. Infilò una mano e ne estrasse una moneta grande come un mezzo dollaro. Era pesante, e di un bel giallo oro.
Nell’area di servizio comperò un kit da viaggio che conteneva rasoio, crema da barba, pettine e spazzolino usa e getta con un minuscolo tubo di dentifricio. Poi entrò nel bagno degli uomini e si guardò allo specchio.
Aveva un livido sotto un occhio — quando provò a schiacciarlo con un dito scoprì che faceva molto male — e il labbro inferiore gonfio.
Si lavò la faccia con il sapone liquido che c’era in bagno, poi si fece la barba e si lavò i denti. Si inumidì i capelli e li pettinò all’indietro. Aveva ancora un aspetto malconcio.
Si domandò che cos’avrebbe detto Laura, vedendolo così, poi ricordò che Laura non avrebbe mai più detto niente, e nello specchio si vide tremare, ma solo per un momento.
Uscì.
«Sono uno schifo» disse.
«È naturale» rispose Wednesday.
Wednesday prese un grande assortimento di merendine e le portò alla cassa pagando anche la benzina, ma cambiò due volte idea su come farlo, se con la carta di credito o in contanti, provocando l’irritazione della ragazza che masticava gomma dietro il registratore di cassa. Shadow rimase a osservare Wednesday che si faceva prendere sempre più dall’agitazione e continuava a scusarsi. Sembrava molto vecchio, all’improvviso. La cassiera prima gli diede il resto in contanti e addebitò la spesa sulla carta, poi gli diede la ricevuta e prese i contanti, poi restituì i contanti e accettò una carta diversa. Wednesday stava palesemente per scoppiare a piangere, come un vecchietto incapace di tenere il passo con l’implacabile marcia del mondo moderno.
Quando uscirono dall’area di servizio riscaldata il loro fiato si condensò nell’aria.
Di nuovo in marcia: campi di erba quasi marrone scorrevano dai finestrini. Gli alberi erano spogli, senza vita. Due uccelli neri li fissavano dai fili del telegrafo.
«Ehi, Wednesday.»
«Sì?»
«Secondo me non hai pagato la benzina.»
«Ah sì?»
«Secondo me è finita che è stata lei a pagare te per il privilegio di averti fatto il pieno. Credi che se ne sia accorta, dopo?»
«Non se ne accorgerà mai.»
«Ma chi sei, insomma? Un imbroglione da due soldi?»
Wednesday annuì. «Sì» disse. «Credo di sì. Insieme a molte altre cose.»
Si immise sulla corsia di sinistra per sorpassare un camion. Il cielo era di un grigio fosco e uniforme.
«Nevicherà» disse Shadow.
«Sì.»
«Senti, Sweeney me l’ha fatto vedere davvero il trucco con le monete d’oro?»
«Oh sì.»
«Non riesco a ricordarmelo.»
«Ti tornerà in mente. È stata una lunga serata.»
Qualche piccolo fiocco di neve sfiorò il parabrezza, sciogliendosi subito.
«Il corpo di tua moglie è esposto nella sala mortuaria delle Pompe funebri Wendell» disse Wednesday. «Dopo pranzo la porteranno al cimitero per la sepoltura.»
«Come fai a saperlo?»
«Ho telefonato mentre eri al cesso. Sai dove sono le Pompe funebri Wendell?»
Shadow annuì. I fiocchi di neve volteggiavano confusi.
«Questa è l’uscita» disse. L’automobile lasciò l’Interstate e superò una serie di motel diretta a Eagle Point Nord.
Erano passati tre anni. Sì. C’era qualche semaforo in più, vetrine di negozi sconosciuti. Shadow chiese a Wednesday di rallentare, quando passarono davanti alla Muscle Farm, CHIUSO FINO A DATA DA DESTINARSI recitava il cartello scritto a mano affisso sulla porta, PER LUTTO.
A sinistra sulla Main Street. Oltre il nuovo salone per tatuaggi e il Centro di reclutamento delle Forze armate, poi il Burger King e, familiare e immutato, l’Olsen’s Drug Store, infine la facciata di mattoni gialli delle Pompe funebri Wendell. Un’insegna al neon nella vetrina diceva CASA DELL’ETERNO RIPOSO. Sotto l’insegna giacevano lastre tombali senza nome e senza incisioni decorative.
Wednesday si fermò nel parcheggio.
«Vuoi che venga con te?» chiese.
«Non particolarmente.»
«Bene.» Il sorriso senza allegria comparve rapido. «Mentre tu dici i tuoi addii io mi posso occupare d’altro. Vado a fissare due stanze al Motel America. Raggiungimi, quando hai finito.»
Shadow scese dalla macchina e rimase a guardarla allontanarsi. Poi entrò. Il corridoio poco illuminato odorava di fiori e cera per mobili, con appena una nota di formaldeide. In fondo c’era la cappella dell’Eterno riposo.
Shadow si accorse che stava giocherellando con la moneta d’oro, la passava in modo convulso dal dorso al palmo e viceversa, ininterrottamente. Ne trovava rassicurante il peso.
Il nome di sua moglie era scritto su un foglio appeso alla porta in fondo. Entrò nella cappella. Conosceva quasi tutti: i colleghi di Laura, gli amici.
Lo riconobbero anche loro. Glielo si leggeva in faccia. Nessun sorriso, però, nemmeno un ciao.
In fondo alla sala c’era un piccolo palco e, sopra il palco, una bara color crema con intorno vari addobbi floreali: rossi e gialli, bianchi e viola scuro. Fece un passo avanti. Dal punto in cui si trovava vedeva il corpo di Laura. Non voleva avvicinarsi di più, però non osava andarsene.
Un uomo vestito di scuro — un dipendente delle pompe funebri, secondo Shadow — disse: «Vuole firmare il libro delle condoglianze e dei ricordi?», e gli indicò un volume rilegato in pelle aperto su un piccolo leggio.
Scrisse SHADOW e la data con la sua calligrafia precisa, poi, lentamente, aggiunse (CUCCIOLO) rinunciando ad arrivare in fondo alla sala dove c’era la gente e la bara e quella cosa dentro la bara color crema che non era più Laura.
Una donna minuscola entrò e si fermò esitante sulla porta. Aveva i capelli color rame, era tutta vestita di nero, abiti molto costosi. La vedova in gramaglie, pensò Shadow, che la conosceva bene. Era Audrey Burton, la moglie di Robbie.
Stringeva tra le mani un mazzo di violette avvolto nella carta di alluminio. Il tipo di mazzolino che una bambina potrebbe cogliere in giugno, pensò lui. Però adesso le violette erano fuori stagione.
Quando attraversò la sala per avvicinarsi alla bara Shadow la seguì.
Laura giaceva con gli occhi chiusi e le braccia incrociate sul petto. Indossava un elegante tailleur blu che lui non le aveva mai visto. I lunghi capelli castani erano pettinati ordinatamente, lontani dagli occhi. Era la sua Laura e al tempo stesso non lo era: la cosa più innaturale, pensò, era quel modo di riposare in pace, perché Laura dormiva sempre sonni agitati.
Audrey le posò le violette sul petto. Poi contrasse le labbra e le sputò con determinazione sulla faccia.
Lo sputo cadde sulla guancia e cominciò a scivolare verso l’orecchio.
Audrey si stava già avviando alla porta. Shadow la rincorse.
«Audrey?»
«Shadow? Sei scappato? O ti hanno fatto uscire?»
Lui si domandò se Audrey fosse sotto l’effetto dei tranquillanti. Parlava in tono distante, distaccato.
«Mi hanno rilasciato ieri. Sono un uomo libero. Che cosa diavolo significa, quella scena?»
In corridoio lei si fermò. «Le violette? Sono sempre state il suo fiore preferito. Una volta le raccoglievamo insieme.»
«No, non le violette.»
«Ah, quello.» disse. Si ripulì un’invisibile macchietta all’angolo della bocca. «Be’, credevo che fosse ovvio.»
«Non per me, Audrey.»
«Non te l’hanno detto?» La sua voce era fredda e calma. «Tua moglie è morta con l’uccello di mio marito in bocca.»
Shadow tornò nella sala. Qualcuno aveva già ripulito lo sputo.
Dopo pranzo — mangiò da Burger King — ci fu il funerale. La bara color crema venne interrata nel piccolo cimitero non confessionale e senza recinzione al confine della città: un prato collinare coperto di lastre tombali di granito nero e marmo bianco.
Arrivò al cimitero a bordo del carro funebre insieme alla madre di Laura. La signora McCabe sembrava credere che la morte della figlia fosse colpa di Shadow. «Se fossi stato a casa» disse, «non sarebbe successo. Non so perché ti abbia sposato. Io gliel’avevo detto. Gliel’avevo ripetuto all’infinito. Ma non si dà mai retta alla mamma, vero?» Si interruppe per guardare più da vicino la faccia del genero. «Hai fatto a botte?»
«Sì.»
«Barbaro» disse lei, poi irrigidì le labbra, alzò la testa fino a far tremare il mento e fissò dritto davanti a sé.
Shadow si stupì di vedere anche Audrey Burton al cimitero, un po’ in disparte. La breve funzione terminò e la bara venne fatta calare nella terra fredda. Tutti se ne andarono via.
Shadow si fermò lì. Rimase in piedi con le mani in tasca, a rabbrividire, a fissare la fossa.
Sopra di lui il cielo era color grigio ferro, una superficie monotona e piatta come uno specchio. Continuava a nevicare, in modo irregolare, in fiocchi spettrali.
C’era qualcosa che voleva dirle, e avrebbe aspettato il tempo necessario a capire cosa fosse. Il mondo cominciava piano piano a perdere luminosità e colore. Gli sembrava di non avere più sensibilità nei piedi, le mani e la faccia gli dolevano per il freddo. Affondò le mani nelle tasche per riscaldarle e strinse le dita intorno alla moneta d’oro.
Si avvicinò alla tomba.
«Tieni, è per te» disse.
Sul coperchio della bara era stata rovesciata qualche palata di terra, ma la fossa era tutt’altro che piena. Dopo aver gettato la moneta nella tomba buttò dentro un altro po’ di terra, per nascondere il luccichio dell’oro agli occhi di eventuali becchini ladri. Si ripulì le mani e disse: «Buona notte, Laura». Poi aggiunse: «Mi dispiace». Guardò le luci della città e si incamminò verso Eagle Point.
Il motel si trovava ad almeno tre chilometri di strada, ma dopo tre anni in prigione Shadow era attratto dall’idea di poter camminare liberamente, anche per sempre, se avesse voluto. Avrebbe potuto continuare a camminare verso nord, fino in Alaska, oppure dirigersi a sud, fino al Messico o ancora più in là. Volendo sarebbe potuto arrivare in Patagonia o nella Terra del Fuoco.
Si avvicinò una macchina. Il finestrino si abbassò.
«Vuoi un passaggio?» chiese Audrey Burton.
«No. E non da te.»
Proseguì. Audrey gli si affiancò, procedendo a sei chilometri all’ora. I fiocchi di neve cadevano danzando tra i raggi di luce dei fanali.
«Credevo che fosse la mia migliore amica» disse Audrey. «Ci sentivamo tutti i giorni. Quando io e Robbie litigavamo lei era la prima a saperlo… andavamo da Chi-Chi a bere un margarita e a raccontarci quanto sono canaglie gli uomini. E intanto alle mie spalle se lo scopava.»
«Vai via, per favore.»
«Volevo solo spiegarti che avevo le mie buone ragioni per fare quello che ho fatto.»
Shadow non rispose.
«Ehi!» gridò Audrey. «Ehi! Sto parlando con te!»
Lui si voltò. «Vuoi che ti dica che hai fatto bene a sputarle in faccia? Vuoi che ti dica che non mi ha ferito? Oppure dovrei dirti che le tue parole mi fanno provare più odio che nostalgia per mia moglie? Non te lo dirò mai, Audrey.»
Lei continuò a procedere a passo d’uomo per un minuto, senza parlare, poi disse: «Allora, com’era la prigione?».
«Non male. Ti ci saresti sentita a casa.»
A quel punto Audrey schiacciò il pedale dell’acceleratore e con un rombo del motore si allontanò.
Una volta spariti i fari dell’automobile il mondo diventò buio, mentre il crepuscolo cedeva alla tenebra. Shadow continuava a sperare di riscaldarsi, camminando, di sentir arrivare il calore fino alle mani e ai piedi gelati, ma era sempre più intirizzito.
Ancora in prigione, Low Key Lyesmith un giorno si era riferito al piccolo cimitero carcerario dietro l’infermeria come all’Orto delle Ossa, e l’immagine aveva messo radici dentro Shadow. Quella notte aveva sognato un orto sotto la luna, scheletrici alberi bianchi, con i rami che terminavano in mani scarnificate, le radici affondate nelle tombe. Crescevano frutti su quegli alberi nell’Orto delle Ossa, nel sogno, e c’era qualcosa che lo inquietava in quei frutti onirici, ma al risveglio non era riuscito a ricordare di che cosa si trattasse esattamente, né del perché li avesse trovati tanto repellenti.
Le automobili gli passavano accanto. Avrebbe preferito camminare su un marciapiede. Inciampò in qualcosa che non aveva visto a causa dell’oscurità e finì nel fossato, la mano destra che affondava nel fango freddo per parecchi centimetri. Si rialzò e si ripulì le mani sui pantaloni. Rimase lì in piedi, a disagio. Fece appena in tempo a rendersi conto di non essere solo e di una cosa bagnata che gli veniva premuta contro naso e bocca; sentì un odore acre, chimico.
Questa volta il fossato gli sembrò tiepido, e comodo.
L’impressione era che le tempie gli fossero state riattaccate al cranio con dei grossi chiodi. Aveva le mani legate dietro la schiena con un laccio ed era seduto sul sedile rivestito di pelle di un’automobile. Per un istante si chiese se non ci fosse qualcosa che non andava nella sua percezione della distanza e poi capì che no, l’altro sedile era davvero molto lontano.
C’era qualcuno dietro di lui, ma non era in grado di girarsi a guardare.
Il giovanotto grasso all’altra estremità della lunga limousine prese dal bar una lattina di Diet Coke e l’aprì. Indossava una lunga giacca nera di un materiale setoso e non dimostrava nemmeno vent’anni: su una guancia c’era addirittura un accenno d’acne. Sorrise, vedendo che Shadow si era svegliato.
«Ciao, Shadow» disse. «Non fare il furbo con me.»
«Va bene. D’accordo. Mi puoi lasciare al Motel America sull’Interstate?»
«Colpiscilo» disse il giovanotto alla persona seduta a sinistra di Shadow. Shadow ricevette un pugno nel plesso solare che gli tolse il respiro e lo fece piegare in due. Si raddrizzò lentamente.
«Ti ho detto di non fare il furbo. Quello era fare il furbo. Rispondi con poche parole e a tono, altrimenti ti ammazzo. O magari no. Magari dico ai ragazzi di spaccarti le ossa a una a una. Ne hai duecentosei. Quindi non fare il furbo.»
«Ricevuto» disse Shadow.
Le luci dentro la limousine cambiarono dal viola all’azzurro e poi dal verde al giallo.
«Tu lavori per Wednesday» disse il giovanotto.
«Sì.»
«Che cosa cazzo vuole? Cioè, che cosa ci fa qui? Deve avere uno schema. Qual è lo schema del gioco?»
«Ho cominciato a lavorare per il signor Wednesday stamattina» rispose Shadow. «Sono il suo uomo di fatica.»
«Stai dicendo che non sai niente?»
«Esatto.»
Il ragazzo aprì la giacca e dalla tasca interna prese un portasigarette d’argento. Lo aprì e offrì a Shadow una sigaretta. «Fumi?»
Shadow pensò di chiedergli di liberargli le mani, poi decise di non farlo. «No, grazie.»
Era una sigaretta fatta a mano, e quando il ragazzo l’accese con uno Zippo nero satinato, l’odore che sprigionò assomigliava a quello di fili elettrici bruciati.
Il giovanotto inspirò profondamente e trattenne il fumo nei polmoni. Lo lasciò uscire dalla bocca e lo inspirò di nuovo dal naso. Shadow sospettava che prima di eseguire quel numero in pubblico si fosse esercitato parecchio davanti allo specchio. «Se mi hai mentito» disse come da molto lontano «ti ammazzo, cazzo. Lo sai.»
«Sì, me l’hai detto.»
Il ragazzo fece un altro lungo tiro dalla sigaretta. «Dici che stai al Motel America?» Picchiò sul vetro che separava l’abitacolo dall’autista. Il vetro si abbassò. «Ehi. Al Motel America, su all’Interstate. Dobbiamo accompagnare il nostro ospite.»
L’autista annuì e il vetro venne rialzato.
Le luci a fibre ottiche dentro la limousine cambiavano colore ciclicamente passando per tutte le gamme più tenui della tavolozza. A Shadow sembrava che scintillassero anche gli occhi del giovane, verdi come i monitor dei vecchi computer.
«Di’ a Wednesday questo, amico. Digli che è un dinosauro. Vecchio. Superato. Dimenticato. Digli che il futuro siamo noi e che non ce ne frega niente né di lui né dei suoi simili. È stato consegnato alla discarica della storia mentre quelli come me viaggiano a bordo di limousine lungo le superautostrade del futuro.»
«Riferirò» disse Shadow. Cominciava a girargli la testa. Si augurava di non vomitare.
«Digli che abbiamo riprogrammato la realtà. Digli che il linguaggio è un virus, la religione un sistema operativo e le preghiere sono junk mail. Diglielo altrimenti ti ammazzo» disse dolcemente dalla sua nuvola di fumo.
«Ricevuto» rispose Shadow. «Puoi farmi scendere qui. Cammino volentieri.»
Il giovane annuì. «Parlare con te è stato un piacere» disse. Il fumo lo aveva addolcito. «Voglio che tu sappia che se ti ammazziamo ti cancelliamo. Hai capito? Un clic e al tuo posto si possono scrivere a caso degli uno e degli zero. Il ripristino del testo non è possibile.» Picchiò sul vetro: «Scende qua». Poi si rivolse a Shadow e indicò la sigaretta che stava fumando. «Pelle di rospo sintetica. Lo sapevi che adesso si può sintetizzare la bufotenina?»
L’automobile si fermò e qualcuno aprì la portiera. Shadow scese goffamente. Gli vennero tagliati i lacci intorno ai polsi. Quando si voltò vide che l’abitacolo della limousine era diventato una nuvola vorticante di fumo in cui brillavano due luci color rame, come i begli occhi di un rospo. «Il problema è il paradigma dominante, Shadow. Nient’altro conta. E, a proposito, ho sentito della tua signora, mi dispiace.»
La portiera si richiuse e la lunga limousine si allontanò silenziosa. Shadow si trovava più o meno a duecento metri dal motel e si avviò, respirando l’aria fredda, passando davanti alle insegne al neon gialle e blu che reclamizzavano ogni tipo di fast food possibile e immaginabile, purché in forma di hamburger, e raggiunse il motel senza ulteriori incidenti.
Ogni ora fa male. L’ultima uccide.
Dietro il banco del Motel America c’era una ragazza dai lineamenti delicati. Gli comunicò che alla registrazione aveva già provveduto il suo amico e gli diede la chiave della stanza, un rettangolo di plastica. Aveva i capelli biondo chiaro e un tratto da roditore che si accentuava quando assumeva un’aria sospettosa, e scompariva quando sorrideva. Si rifiutò di dirgli il numero della camera di Wednesday e insistette per avvisarlo al telefono del suo arrivo.
Wednesday spuntò da una stanza in fondo al corridoio e gli fece un cenno di saluto.
«Com’era, il funerale?» chiese.
«E finito.»
«Vuoi parlarne?»
«No.»
«Bene.» Wednesday sorrise. «Si parla troppo, oggigiorno. Parole parole parole. Questo paese andrebbe molto meglio se la gente imparasse a soffrire in silenzio.»
Wednesday fece strada fino alla sua stanza, dall’altra parte dell’atrio rispetto a quella di Shadow. C’erano cartine geografiche dappertutto, aperte sul letto, appese alle pareti, ed erano tutte coperte di segni fatti con pennarelli dai colori vivaci, verde fosforescente, rosa accecante e arancione acceso.
«Sono stato sequestrato da un ragazzo ciccione» disse Shadow. «Vuole che ti dica che sei stato consegnato alla pattumiera della storia mentre quelli come lui viaggiano in limousine lungo le superautostrade della vita. Qualcosa del genere.»
«Moccioso.»
«Lo conosci?»
Wednesday scrollò le spalle. «So chi è.» Si lasciò cadere pesantemente sull’unica sedia della stanza. «Non hanno la minima idea» disse. «Non ce l’hanno, cazzo. Quanto devi trattenerti in città?»
«Non so. Una settimana, forse. Devo occuparmi di un sacco di cose. Pensare alla casa, liberarmi dei suoi vestiti, quelle cose lì. Sua madre diventerà pazza ma se lo merita.»
Wednesday annuì con il suo testone enorme. «Be’, prima finisci prima ce ne andiamo. Buona notte.»
Shadow attraversò il corridoio. La sua stanza era identica a quella di Wednesday, compresa la stampa di un tramonto rosso sangue appesa sopra il letto. Ordinò una pizza con formaggio e polpette, poi aprì l’acqua nella vasca versando dalle bottigliette di plastica tutto lo shampoo e il sapone liquido per fare più schiuma possibile.
Era troppo grande per potersi sdraiare nella vasca, ma cercò ugualmente di godersela anche da seduto. Aveva promesso a se stesso un bagno, appena fuori di prigione, e Shadow era uno che manteneva le promesse.
Non appena fu uscito dalla vasca arrivò la pizza, che mangiò bevendoci sopra una bibita frizzante.
Sdraiato a letto, pensò: Questa è la mia prima giornata da uomo libero, e il pensiero gli procurò meno piacere di quanto avesse immaginato. Lasciò le tende scostate per vedere le luci delle automobili che passavano e le insegne dei fast food di là della finestra, trovando conforto nel sapere che fuori c’era il mondo, un mondo che, volendo, avrebbe potuto raggiungere in ogni momento.
Avrebbe potuto essere nel letto di casa sua, pensò, nell’appartamento in cui aveva abitato con Laura, in quel letto che avevano condiviso. Ma il pensiero di esserci senza di lei, circondato dalle sue cose, dal suo profumo, dalla sua vita, era davvero troppo doloroso…
Non farlo, si disse. Decise di pensare ad altro. Provò con i giochi con le monete. Sapeva di non avere la personalità dell’illusionista; non riusciva nemmeno a inventare le storielle necessarie, e non desiderava fare giochi di prestigio con le carte né far comparire fiori. Voleva soltanto manipolare le monete, apprezzava l’abilità necessaria per farlo. Cominciò a elencare mentalmente tutte le tecniche di palmaggio che conosceva, e il pensiero tornò al quarto di dollaro che aveva gettato nella tomba di Laura e poi a Audrey che gli diceva che Laura era morta con l’uccello di Robbie in bocca, e provò un’altra volta una piccola fitta al cuore.
Ogni ora fa male. L’ultima uccide. Dove l’aveva sentito?
Pensò al commento di Wednesday e involontariamente sorrise: aveva sentito troppa gente esortarsi a vicenda a non reprimere i propri sentimenti, a lasciar fluire le emozioni, a sfogare il dolore. Secondo lui anche la rimozione aveva i suoi pregi. Se la si praticava per abbastanza tempo e abbastanza profondamente, sospettava, si finiva presto per non sentire più niente.
A quel punto il sonno lo colse senza che se ne accorgesse.
Stava camminando…
Stava camminando in una stanza più grande di una città, e ovunque guardasse vedeva statue e figure rozzamente intagliate. Era in piedi accanto a una statua dalle sembianze femminili: i seni nudi scendevano penduli, intorno alla vita aveva una catena di mani tagliate, impugnava due coltelli affilati e al posto della testa le spuntavano due serpenti identici che si fronteggiavano, i corpi inarcati, pronti ad attaccarsi. C’era qualcosa di violentemente, profondamente sbagliato in quella statua, qualcosa che lo fece arretrare.
Cominciò ad attraversare l’ingresso. Gli occhi intagliati delle statue dotate di occhi sembravano seguire ogni sua mossa.
Nel sogno si rendeva conto che davanti a ogni statua era scritto, sul pavimento, il nome in lettere ardenti. L’uomo con i capelli bianchi e una collana di denti al collo, che teneva un tamburo, era Leucotios, la donna dai fianchi possenti che perdeva mostri dalla grande fenditura tra le gambe era Hubur, l’uomo con la testa d’ariete che reggeva la palla d’oro Hershef.
Nel sogno una vocetta puntigliosa gli parlò, ma Shadow non riuscì a vedere nessuno. «Ci sono dèi che sono stati dimenticati, e ormai potrebbero anche essere morti. Li si può trovare soltanto dentro antiche storie. Sono scomparsi, tutti scomparsi, ma ci rimangono i loro nomi e le loro effigi.»
Shadow svoltò un angolo e capì di essere in un’altra stanza, ancora più grande della prima. Era sconfinata. Vicino a lui c’era il cranio di un mammut, scuro e lucido, e un mantello peloso color ocra, indossato da una donna minuscola che aveva la mano sinistra deforme. Accanto a lei c’erano altre tre donne scolpite nello stesso blocco di granito e unite alla vita: le loro facce sembravano appena abbozzate, incomplete, mentre invece seni e genitali erano stati realizzati con cura particolareggiata, e c’era un uccello incapace di volare che Shadow non riconosceva, alto due volte lui, con un becco come quello di un avvoltoio ma braccia umane, e così via all’infinito.
La voce parlò ancora, come se si rivolgesse a una scolaresca, e disse: «Vi sono dèi usciti dalla memoria. Perfino i loro nomi si sono persi. I popoli che li adoravano sono stati dimenticati. I loro idoli sono stati distrutti e umiliati da tempo immemorabile. I loro ultimi sacerdoti sono morti senza tramandare i segreti.
«Gli dèi muoiono. E quando muoiono davvero nessuno li piange o li ricorda. È più difficile uccidere le idee, ma prima o poi si uccidono anche quelle».
Un mormorio cominciò a diffondersi nella sala, un sussurro che nel sogno provocò a Shadow una paura inspiegabile, che gli raggelò il sangue nelle vene. Sprofondò nel panico totale, lì in quella sala degli dèi la cui esistenza era stata dimenticata, dèi con facce da polpo e dèi che erano nient’altro che mani mummificate o pietre che cadevano o foreste incendiate…
Shadow si svegliò con il cuore che picchiava come un martello pneumatico, la fronte madida di sudore, all’erta. I numeri rossi sull’orologio del comodino segnavano l’una e tre minuti. L’insegna del Motel America brillava attraverso la finestra. Disorientato, Shadow si alzò ed entrò nel minuscolo bagno. Pisciò senza accendere la luce e tornò in camera. Il sogno era ancora vivido nel ricordo, anche se non avrebbe saputo dire che cosa l’avesse tanto spaventato.
Nella stanza entrava una luce fioca, ma i suoi occhi erano abituati all’oscurità. Seduta sul bordo del letto c’era una donna.
Shadow la conosceva. L’avrebbe riconosciuta tra mille, tra un milione. Indossava ancora il tailleur blu scuro con cui l’avevano seppellita.
Parlò in un sussurro, ma era un sussurro familiare. «Immagino che vorrai sapere che cosa ci faccio qui» disse Laura.
Shadow non fiatò.
Una volta che si fu seduto sull’unica sedia domandò: «Sei tu?».
«Sì» rispose lei. «Ho freddo, cucciolo.»
«Sei morta, piccola.»
«Sì. Sì. Morta.» Batté sul letto accanto a sé. «Vieni qui vicino.»
«No» rispose Shadow. «Resto dove sono, per il momento. Dobbiamo ancora affrontare alcuni problemi in sospeso.»
«Tipo che io sono morta.»
«Per esempio, ma adesso stavo pensando soprattutto al modo in cui sei morta. A te e Robbie.»
«Oh» disse lei. «Quello.»
A Shadow sembrava di sentire — o forse, pensò, immaginava di sentire — un odore di putrefazione, di fiori e sostanze conservanti. Sua moglie — la sua ex moglie… no, si corresse, la sua defunta moglie — lo guardava imperturbabile, seduta sul bordo del letto.
«Cucciolo» disse. «Potresti… credi di potermi procurare una sigaretta?»
«Credevo che avessi smesso.»
«Infatti. Ma ormai non mi preoccupo più dei rischi per la salute. Penso che mi calmerebbe. Nell’atrio c’è un distributore.»
Shadow si infilò jeans e maglietta e a piedi nudi andò nell’atrio dell’albergo. Il portiere del turno di notte era un uomo di mezza età intento a leggere un libro di John Grisham. Shadow comperò un pacchetto di Virginia Slim e chiese una scatola di fiammiferi al portiere.
«Lei dorme in una stanza per non fumatori» gli disse l’uomo. «Si ricordi di aprire la finestra.» Gli diede i fiammiferi e un portacenere di plastica con il logo del Motel America.
«Va bene» rispose Shadow.
Tornò in camera. Laura si era sdraiata sopra le coperte gualcite. Shadow aprì la finestra, poi le diede sigarette e fiammiferi. Aveva le dita fredde. Quando si accese una sigaretta lui vide che le sue unghie, solitamente immacolate, erano rotte e rosicchiate, sporche di fango. Laura inspirò, soffiò sul fiammifero per spegnerlo, inspirò di nuovo. «Non riesco a sentire il gusto. Credo che non funzioni.»
«Mi dispiace» disse lui.
«Anche a me.»
Quando Laura inspirava, la sigaretta diventava incandescente, e lui riusciva a vederla in faccia.
«E così ti hanno fatto uscire.»
«Sì.»
La punta della sigaretta si arroventò, arancione. «Ti sono ancora grata. Non avrei mai dovuto coinvolgerti.»
«Be’» disse lui, «io avevo acconsentito. Avrei potuto rifiutarmi.» Si domandò perché non avesse paura di lei, perché il sogno di un museo lo lasciasse in preda al terrore mentre con un cadavere ambulante se la cavava benissimo.
«Sì» disse lei. «Avresti potuto dire di no, imbranatone mio.» Era avvolta nelle volute di fumo. Era molto bella, in quella luce fioca. «Vuoi sapere di me e Robbie?»
«Perché no?»
Lei spense la sigaretta nel posacenere. «Tu eri dentro. E io avevo bisogno di qualcuno con cui parlare. Di una spalla su cui piangere. Tu non c’eri. Io ero infelice.»
«Mi dispiace.» Shadow si rese conto che nella voce di Laura c’era qualcosa di diverso, e cercò di capire che cosa fosse.
«Lo so. Così ci incontravamo ogni tanto per bere un caffè. Per parlare di quello che avremmo fatto al tuo ritorno. Di quanto sarebbe stato bello rivederti. Gli piacevi davvero. Non vedeva l’ora di ridarti il tuo vecchio impiego.»
«Sì.»
«E poi Audrey è andata a trovare sua sorella e si è fermata una settimana. Questo è successo, direi, un anno o tredici mesi dopo il tuo arresto.» La sua voce era inespressiva, le parole suonavano incolori, monotone, come sassolini lasciati cadere, a uno a uno, dentro un pozzo profondo. «Robbie è venuto da me. Ci siamo ubriacati. Lo abbiamo fatto sul pavimento della camera da letto. Non è stato male. Non è stato niente male.»
«Questo potevi risparmiarmelo.»
«Ah sì? Scusa. È più difficile trovare le parole giuste, da morti. È come una fotografia, sai. Non sembra più così importante.»
«Per me lo è.»
Laura si accese un’altra sigaretta. Si muoveva in maniera fluida e precisa, per niente rigida. Per un istante Shadow si chiese se fosse davvero morta. Forse era un complicato trucco di qualche tipo a suo danno. «Sì» riprese lei. «Capisco. Be’, la nostra relazione — anche se non la chiamavamo così, non la chiamavamo in nessun modo, a essere sinceri — è durata quasi due anni.»
«Mi avresti lasciato per lui?»
«Perché mai avrei dovuto fare una cosa simile? Tu sei il mio grosso orso. Il mio cucciolo. Tu hai fatto quello che hai fatto, per me. Ho aspettato il tuo ritorno per tre anni. Ti amo.»
Shadow si trattenne dal dirle: ti amo anch’io. Non gliel’avrebbe detto. Non più. «Allora che cos’è successo, l’altra notte?»
«Quando mi hanno ammazzata?»
«Sì.»
«Be’, io e Robbie eravamo usciti per parlare della festa a sorpresa per il tuo benvenuto. Sarebbe stato meraviglioso. E gli ho detto che tra noi era finita. Avevamo chiuso. Adesso che eri fuori doveva per forza essere così.»
«Mmm. Grazie, piccola.»
«Non c’è di che, caro.» Un sorriso spettrale la illuminò. «Abbiamo preso una piega sdolcinata. Era carino. Abbiamo fatto gli stupidi. Io ero ubriaca persa. Lui no. Doveva guidare. Stavamo tornando a casa quando gli ho comunicato che volevo fargli un pompino d’addio, per l’ultima volta, con passione, e così gli ho abbassato la cerniera dei pantaloni e ho cominciato a darmi da fare.»
«Un grave errore.»
«Non dirlo a me. Con la spalla ho toccato il cambio e Robbie ha cercato di liberarsi di me per rimettere dentro la marcia ma stavamo già sbandando e si è sentito un forte botto e ricordo di aver pensato, mentre il mondo mi vorticava intorno, "sto per morire". Spassionatamente. Me lo ricordo bene. Non ero spaventata. Poi non ricordo più niente.»
C’era odore di plastica bruciata, nella stanza. La sigaretta, pensò Shadow, che era bruciata fino al filtro. Laura non sembrava essersene accorta.
«Cosa ci fai qui?»
«Una moglie non può venire a trovare suo marito?»
«Tu sei morta. Sono venuto al tuo funerale questo pomeriggio.»
«Sì.» Laura fissò nel vuoto senza parlare. Shadow si alzò e le si avvicinò. Le prese la sigaretta consumata tra le dita e la gettò dalla finestra.
«Dunque?»
Laura lo guardò negli occhi. «Non so molto più di quello che sapevo da viva. La maggior parte delle cose che so e che non sapevo da viva non riesco a tradurle in parole.»
«Generalmente i morti stanno nelle tombe» disse Shadow.
«Lo credi? Lo credi davvero, cucciolo?» Si alzò dal letto per avvicinarsi alla finestra. Alla luce dell’insegna del motel il suo viso era bello come sempre. Era il viso della donna per cui era finito dentro.
Il cuore gli faceva male, come se qualcuno glielo stesse stringendo nel pugno. «Laura…?»
Lei non lo guardò. «Ti sei fatto coinvolgere in una brutta storia, Shadow. Ti metterai nei guai, se nessuno ti protegge. Ti proteggerò io. E grazie del regalo.»
«Quale regalo?»
Lei infilò una mano nella tasca della camicetta e prese la moneta d’oro che poche ore prima lui aveva gettato nella tomba. Era ancora sporca di terra. «Forse la metterò in una catenina. Sei stato gentile.»
«Figurati.»
A quel punto lei si voltò e lo guardò con occhi che sembravano vederlo e al tempo stesso non vederlo. «Credo che ci siano parecchi aspetti del nostro matrimonio su cui dobbiamo lavorare.»
«Piccola» le disse, «sei morta.»
«Questo è uno degli aspetti, ovviamente.» Si interruppe, poi disse: «D’accordo. Adesso vado. Sarà meglio». E con naturalezza e disinvoltura si girò e gli appoggiò le mani sulle spalle, poi si alzò in punta di piedi e lo salutò con un bacio, come faceva sempre.
Lui si chinò goffamente per baciarla sulla guancia, ma lei spostò la testa in modo da incontrare le sue labbra. Il suo alito puzzava leggermente di naftalina.
Gli fece saettare la lingua in bocca. Era fredda, e asciutta, e sapeva di sigaretta e di bile. Se Shadow aveva avuto qualche dubbio sul fatto che sua moglie fosse davvero morta, adesso non ne aveva più.
Si tirò indietro.
«Ti amo» disse lei con semplicità. «Ti terrò d’occhio.» Si avviò verso la porta. A Shadow era rimasto in bocca uno strano sapore. «Cerca di dormire un po’, cucciolo. E tieniti alla larga dai guai.»
Aprì la porta. All’inclemente neon del corridoio Laura sembrava molto morta, però è vero che il neon fa quell’effetto su tutti.
«Avresti potuto chiedermi di passare la notte con te» disse lei nel suo tono distaccato.
«Non credo che ci riuscirei» rispose Shadow.
«Ci riuscirai, dolcezza, prima che tutto sia finito. Lo farai.» Poi si voltò e imboccò il corridoio.
Shadow si affacciò a guardare. Il portiere di notte continuò a leggere il romanzo di John Grisham senza quasi alzare gli occhi, quando lei gli passò davanti. Attaccato alle scarpe di Laura c’era il fango del cimitero. Poi sparì.
Shadow fece un lungo sospiro. Il cuore gli batteva forte e irregolare. Superò l’atrio e bussò alla porta di Wednesday. Mentre bussava provò la strana sensazione di essere colpito da un paio di ali nere, come se un enorme corvo l’avesse attraversato in volo per percorrere il corridoio ed entrare nel mondo che si trovava dall’altra parte.
Wednesday aprì la porta. Era nudo, salvo che per un asciugamano dell’albergo avvolto intorno ai fianchi. «Che cosa diavolo vuoi?» chiese.
«Ti devo dire una cosa» rispose Shadow. «Forse era un sogno — ma non lo era — o forse ho inalato un po’ di quel fumo di pelle di rospo sintetica del ciccione, o probabilmente sto diventando matto…»
«Va bene, va bene. Sputa» disse Wednesday. «Sono in mezzo a una faccenda.»
Shadow gettò un’occhiata dentro la stanza. Nel letto c’era qualcuno che lo osservava. Il lenzuolo tirato per coprire i piccoli seni. I capelli biondo chiaro, qualcosa di topesco nei tratti. Abbassò la voce. «Ho appena visto mia moglie» disse. «Era in camera mia.»
«Intendi un fantasma? Hai visto un fantasma?»
«No. Non un fantasma. Era lei, in carne e ossa. È morta stecchita ma non era un fantasma. L’ho toccata. Mi ha baciato.»
«Capisco.» Wednesday gettò un’occhiata alla donna nel letto. «Torno subito, cara.»
Attraversarono l’atrio fino alla camera di Shadow. Wednesday accese le luci. Guardò il mozzicone rimasto nel portacenere. Si grattò il petto. Aveva i capezzoli scuri, capezzoli da vecchio, e i peli sul petto erano brizzolati. Su un fianco c’era una lunga cicatrice chiara. Annusò l’aria. Poi scrollò le spalle.
«D’accordo» disse. «Allora la tua defunta moglie si è presentata qui. Hai paura?»
«Un po’.»
«Molto saggio. I defunti mi fanno sempre una fifa blu. C’è dell’altro?»
«Sono pronto a partire. Dell’appartamento e del resto si può occupare la madre di Laura. Comunque mi detesta. Quando vuoi partire io sono pronto.»
Wednesday sorrise. «Ottima notizia, ragazzo mio. Lasciamo Eagle Point domattina. Adesso cerca di dormire. Ho dello scotch in camera, se ti può far comodo. Ne vuoi?»
«No. Me la cavo.»
«Allora non disturbarmi più. Mi aspetta una lunga notte.»
«Divertiti» disse Shadow.
«Lo spero» rispose Wednesday, e uscendo si chiuse la porta alle spalle.
Shadow sedette sul bordo del letto. L’odore di fumo e conservanti indugiava ancora nell’aria. Avrebbe desiderato piangere sua moglie, gli sembrava più appropriato che esserne turbato o, adesso che se n’era andata poteva ammetterlo, addirittura spaventato. Era arrivato il momento di piangerla. Spense le luci, si sdraiò e pensò a com’era lei, prima che lui andasse in prigione. Ricordò il loro matrimonio quand’erano giovani e felici, sciocchi e incapaci di non mettersi le mani addosso.
Era passato molto tempo dall’ultima volta che aveva pianto, così tanto tempo che Shadow non ricordava più come si facesse. Non aveva pianto nemmeno quando era morta sua madre.
Ma all’improvviso iniziò a piangere, con singhiozzi aspri e dolorosi, e per la prima volta da quando non era più un bambino pianse tanto da addormentarsi.
L’arrivo in America
823 d.C.
Navigarono le verdi acque facendosi guidare dalle stelle e dalla costa, e quando la costa fu soltanto un ricordo lontano e il cielo notturno coperto di nubi navigarono guidati dalla fede, e invocarono il Padre Universale perché li conducesse ancora una volta al sicuro sulla terraferma.
Fu un viaggio cattivo, avevano le mani intorpidite e un tremito nelle ossa che nessun vino riusciva a placare. Al mattino si svegliavano con la barba coperta di brina e fino a quando il sole non veniva a riscaldarli sembravano vecchi imbiancati anzitempo.
Stavano già perdendo i denti e avevano gli occhi infossati nelle orbite quando trovarono approdo sulla terra verdeggiante di Occidente. Gli uomini dissero: «Siamo lontani, lontani dalle nostre case, dai focolari, lontani dai mari che conosciamo e dalle terre che amiamo. Qui al confine del mondo i nostri dèi ci dimenticheranno».
Il capo si arrampicò in cima a una grande roccia e li schernì per la loro mancanza di fede. «Il Padre Universale ha creato il mondo» gridò. «Lo ha fatto con le sue mani dalle ossa e dalla cenere di Ymir, suo nonno. Ha messo il cervello di Ymir nel cielo per farne nubi, e il suo sangue salato è diventato il mare che abbiamo attraversato. Non vi rendete conto che se ha creato il mondo ha creato anche questa terra? E che se in questa terra moriremo da uomini verremo accolti nella sua dimora?»
E gli uomini lo acclamarono ed esultarono. Con tronchi e fango si dedicarono volonterosamente alla costruzione di una sala circondata da una palizzata di legni appuntiti, anche se, a quanto ne sapevano, erano i soli ad abitare la nuova terra.
Il giorno in cui finirono di costruirla scoppiò un temporale: a mezzogiorno il cielo divenne nero come la notte, squarciato da saette di fuoco bianco, e i tuoni erano tanto fragorosi da assordare, e il gatto di bordo che avevano portato per attirare la fortuna andò a nascondersi sotto la nave arenata sulla spiaggia. Il temporale era così violento che gli uomini scoppiarono a ridere, e battendosi gran pacche sulle spalle l’un l’altro dissero: «Il signore del tuono è con noi, in questa terra lontana» e levarono grazie, e si rallegrarono e bevettero fino a ubriacarsi.
Nella dimora fumosa quella notte il bardo cantò le canzoni antiche. Cantò di Odino, Padre Universale, che si era sacrificato a se stesso con il coraggio e la nobiltà con cui gli altri venivano sacrificati a lui. Cantò dei nove giorni che il Padre Universale trascorse appeso all’albero del mondo, il sangue grondante dalla ferita nel fianco provocata dalla punta della lancia, e cantò per loro tutto ciò che il Padre Universale aveva imparato durante l’agonia: nove nomi, nove rune, e incantesimi per due volte nove. Quando narrò della lancia che ferì Odino nel fianco, il bardo gridò di dolore insieme a lui e gli uomini tutti rabbrividirono, nell’immaginare la sua pena.
L’indomani, che era il giorno dedicato al Padre Universale, trovarono lo scraeling. Era un uomo di bassa statura, con i capelli lunghi e neri come l’ala di un corvo, la pelle del colore dell’argilla grassa. Parlava una lingua che nessuno poteva comprendere, neppure il bardo, che aveva navigato attraverso le colonne d’Ercole e conosceva il gergo che parlano i mercanti in tutto il Mediterraneo. Lo straniero era coperto di piume e pellicce, e nei capelli portava intrecciate piccole ossa.
Lo condussero all’accampamento e gli servirono carne arrostita perché mangiasse in abbondanza e una bevanda forte perché placasse la sete. Risero sfrenatamente quando l’uomo barcollò e cantò, ciondolando la testa, già ubriaco dopo un solo corno di idromele. Gliene versarono ancora, e ben presto l’uomo finì sotto il tavolo con un braccio sopra la testa.
Poi lo presero, un uomo per ogni spalla, un uomo per ogni gamba, e lo trasportarono così, trasformato in un cavallo a otto zampe dai quattro portatori, in processione fino al frassino in cima alla collina che si affacciava sulla baia, gli passarono una fune intorno al collo e lo impiccarono alto nel vento come tributo al Padre Universale, il signore delle forche. Il corpo dello scraeling ondeggiò al vento, la faccia sempre più nera, la lingua di fuori, gli occhi sporgenti, il pene talmente rigido da poterci appendere un elmo di cuoio, mentre gli uomini festeggiavano con urla e risate, orgogliosi di innalzare al cielo il sacrificio.
E il giorno dopo, quando due enormi rapaci si appollaiarono sul cadavere, uno per spalla, e cominciarono a becchettare gli occhi e le guance, gli uomini capirono che il loro sacrificio era stato accettato.
Fu un inverno lungo, e avevano fame, tuttavia li rallegrava il pensiero che a primavera avrebbero fatto vela per le terre nordiche, per ritornare con altri uomini, e con le donne. Via via che il clima si faceva più freddo, e i giorni diventavano più corti, alcuni di loro si spinsero fino al villaggio degli scraeling nella speranza di trovare cibo e donne. Non trovarono che le ceneri degli accampamenti abbandonati in fretta e furia. Nel pieno dell’inverno, quando il sole era freddo e distante come un’opaca moneta d’argento, videro che i resti del corpo dello scraeling non penzolavano più dal frassino. Quel pomeriggio nevicò, fiocchi lenti, enormi.
Gli uomini delle terre scandinave chiusero i cancelli dell’accampamento e si ritirarono dietro le mura di legno.
Gli indiani sul sentiero di guerra attaccarono quella notte, e il villaggio venne bruciato. La nave capovolta sulla spiaggia di ciottoli venne bruciata, nella speranza che quei pallidi stranieri avessero una sola imbarcazione, nella speranza di assicurarsi, bruciandola, che nessun altro nordico approdasse alle loro rive.
Accadeva più di cent’anni prima che Leif il Fortunato, figlio di Erik il Rosso, riscoprisse quella stessa terra che avrebbe chiamato Vinland. I suoi dèi già lo aspettavano: Tyr con una mano sola, e il grigio Odino signore delle forche, e Thor dio dei tuoni.
Erano lì.
In attesa.
Il treno speciale di mezzanotte
mi illumina come la luna
Mi illumina con la sua luce d’amore
il treno-luna di mezzanotte.
Shadow e Wednesday fecero colazione al Country Kitchen di fronte al motel. Alle otto del mattino il mondo era freddo e brumoso.
«Sei sempre dell’idea di lasciare Eagle Point?» chiese Wednesday. «Perché se sei pronto devo fare alcune commissioni. È venerdì. Venerdì è un giorno libero. Un giorno da donne. Domani è sabato. Di sabato c’è molto da fare.»
«Sono pronto» rispose Shadow. «Non c’è niente che mi trattenga qui.»
Wednesday si ammucchiò nel piatto molti tipi di salumi e carni. Shadow si servì qualche fetta di melone, un panino e un formaggino. Andarono a sedersi in un angolo.
«Che sogno pazzesco hai fatto ieri notte» disse Wednesday.
«Già. Pazzesco davvero.» Le impronte fangose lasciate da Laura sulla moquette del motel erano ancora ben visibili al suo risveglio, dalla sua camera attraversavano l’atrio e sparivano oltre la porta d’ingresso.
«Allora» riprese Wednesday, «perché ti hanno chiamato Shadow?»
Shadow scrollò le spalle. «È un nome come un altro.» Dall’altra parte della vetrata il mondo avvolto nella nebbia sembrava un disegno a matita eseguito con una decina di sfumature di grigio e, qui e là, una macchia di rosso elettrico o di bianco purissimo. «Come hai perso l’occhio?»
Wednesday si ficcò in bocca cinque o sei fette di pancetta tutte insieme, masticò, si ripulì la bocca con il dorso della mano. «Non l’ho perso» disse. «So esattamente dove si trova.»
«Bene, qual è il programma?»
Wednesday assunse un’aria pensierosa. Mangiò qualche fetta di prosciutto di un bel rosa acceso, staccò un frammento di carne dalla barba e lo mise nel piatto. «Il programma è il seguente: domani sera incontriamo alcune persone di spicco nei loro rispettivi settori… non lasciarti intimidire dal loro atteggiamento. Ci incontreremo in uno dei posti più importanti del paese. Dopo di che offriremo loro da bere e da mangiare. Li devo assoldare nell’impresa.»
«E dove si trova questo posto così importante?»
«Vedrai, ragazzo mio. Ho detto che è uno dei più importanti. Le opinioni in merito divergono, com’è comprensibile. Ho avvisato i colleghi. Sulla strada ci fermiamo a Chicago perché ho bisogno di procurarmi dei soldi. Ospitare come dobbiamo ospitare noi richiederà più contanti di quanti io ne disponga al momento. Poi andiamo a Madison.» Pagò e uscirono per tornare al parcheggio del motel dall’altra parte della strada. Wednesday lanciò le chiavi a Shadow.
Arrivati alla superstrada lasciarono la città.
«Ti mancherà?» domandò Wednesday. Stava rovistando in una cartelletta piena di carte geografiche.
«La città? No. Non ci ho mai vissuto veramente. Da bambino non vivevo mai a lungo nello stesso posto, e quando sono arrivato a Eagle Point avevo vent’anni. È la città di Laura.»
«Speriamo che ci rimanga» disse Wednesday.
«Era un sogno» rispose Shadow. «Non dimenticarlo.»
«Ben detto. Un atteggiamento sano, il tuo. Te la sei chiavata, ieri notte?»
Shadow trattenne il respiro. Poi: «Non sono affari tuoi. Comunque no».
«Avresti voluto?»
Shadow non rispose e continuò a guidare verso nord, in direzione di Chicago. Wednesday ridacchiò e cominciò a tirare fuori le carte geografiche, ad aprirle e ripiegarle, prendendo ogni tanto un appunto su un blocco di carta gialla con una grossa penna a sfera d’argento.
A un certo punto finì. Ripose la penna e appoggiò la cartelletta sul sedile posteriore. «La cosa buona degli stati verso cui stiamo andando» disse, «Minnesota, Wisconsin e paraggi, è che c’è il tipo di donna che mi piaceva da giovane. Con la pelle chiara e gli occhi azzurri, i capelli quasi bianchi, le labbra color vinaccia e i seni tondi e pieni sotto la cui pelle si vedono scorrere le vene come in un buon formaggio.»
«Ti piacevano solo da giovane?» domandò Shadow. «Mi sembrava che te la stessi spassando, ieri notte.»
«Sì.» Wednesday sorrise. «Ti piacerebbe conoscere il segreto del mio successo?»
«Le paghi?»
«Niente di così volgare. No, il segreto risiede nel fascino. Nella pura e semplice magia del fascino.»
«Fascino, eh? Be’, dicono che o ce l’hai o non ce l’hai.»
«La magia si impara» rispose Wednesday.
Shadow sintonizzò la radio su un canale che trasmetteva vecchi successi e ascoltò canzoni che erano famose ancora prima che nascesse. Bob Dylan cantò di una pioggia molto forte che stava per cadere e Shadow si chiese se fosse caduta, a quel punto, o se si trattasse di un evento non ancora compiuto. La strada davanti a loro era deserta e sotto il sole del mattino i cristalli di ghiaccio sull’asfalto scintillavano come diamanti.
Chicago arrivò piano piano, come un’emicrania. Stavano ancora attraversando l’aperta campagna quando una cittadina qualsiasi si trasformò impercettibilmente in una disordinata propaggine di periferia, e la periferia diventò città.
Parcheggiarono davanti a un tozzo edificio con la facciata di arenaria nera. Avevano ripulito il marciapiede dalla neve. Entrarono nell’atrio del palazzo e Wednesday schiacciò il primo pulsante sul citofono di metallo. Niente. Schiacciò ancora. Poi provò a premere anche gli altri pulsanti, che corrispondevano alle case di altri inquilini, senza ottenere risposta.
«È scassato» disse desolata una vecchia che stava scendendo le scale. «Non funziona. Abbiamo chiamato l’amministratore per chiedergli quando viene ad aggiustarlo, e quando viene a sistemare l’impianto di riscaldamento, ma lui non se ne interessa, va a svernare in Arizona perché ha i polmoni delicati.» Sembrò a Shadow che la donna avesse un forte accento dell’Europa dell’Est.
Wednesday fece un profondo inchino. «Zarja, mia cara, posso dirti che trovo il tuo aspetto indicibilmente bello? Radioso, direi. Il tempo non passa, per te.»
La vecchia signora lo guardò con occhi fiammeggianti. «Non ti vuole vedere. Neanch’io ti voglio vedere. Tu porti guai.»
«Per questo non vengo mai, a meno che non sia di estrema importanza.»
La donna sbuffò. Portava una sporta di corda e indossava un vecchio cappotto rosso chiuso fino al mento. Guardò Shadow con aria sospettosa.
«L’omone chi è?» chiese. «Un altro dei tuoi sgherri?»
«Tu mi fai un cattivo servizio, buona signora. Questo gentiluomo si chiama Shadow. Lavora per me, sì, ma nel tuo interesse. Shadow, ti posso presentare l’adorabile signorina Vechernjaja Zarja?»
«Molto piacere» disse Shadow.
La donna guardò in su come un uccellino. «Shadow» disse. «Un buon nome. Quando le ombre si allungano, quello è il mio tempo. E tu sei un’ombra lunga.» Lo squadrò da sotto in su, poi gli sorrise. «Mi puoi baciare la mano» disse, e gli tese la mano fredda.
Shadow si piegò per sfiorare quelle dita sottili. Sul medio c’era un grosso anello d’ambra.
«Bravo ragazzo» disse. «Stavo andando dal droghiere. Vedi, sono l’unica a portare a casa dei soldi. Le altre due non sono capaci di predire la sorte. Non sono capaci perché dicono sempre la verità, e non è la verità ciò che la gente vuole sentire. È brutta, la verità, e rende la gente infelice, perciò non tornano. Invece io sono capace di mentire, dico quello che vogliono sentire. Perciò guadagno. Rimanete a cena?»
«Mi piacerebbe» rispose Wednesday.
«Allora dammi qualche soldo per comperare da mangiare» disse lei. «Sono una donna orgogliosa ma non sono stupida. Le altre sono più orgogliose di me e lui poi è il più orgoglioso di tutti. Perciò dammi i soldi e non dire che me li hai dati.»
Wednesday aprì il portafoglio e tirò fuori una banconota da venti dollari. Vechernjaja Zarja gliela sfilò dalle dita ma rimase in attesa. Wednesday prese altri venti dollari e glieli diede.
«Bene. Vi nutriremo come principi. Adesso andate su. Utrennjaja Zarja è sveglia, l’altra sorella invece dorme ancora, perciò non fate troppo baccano.»
Shadow e Wednesday salirono le scale buie. Il pianerottolo del secondo piano era ingombro di sacchi dell’immondizia e puzzava di verdura marcia.
«Sono zingari?» domandò Shadow.
«Zarja e la sua famiglia? Neanche per sogno. Non sono rom. Sono russi. Slavi, direi.»
«Ma legge il futuro.»
«Un sacco di gente lo fa. Mi ci diletto perfino io.» All’ultima rampa di scale Wednesday ansimava. «Sono fuori esercizio.»
Sul pianerottolo dell’ultimo piano si affacciava un’unica porta dipinta di rosso e dotata di occhio magico.
Wednesday bussò. Nessuno rispose. Bussò di nuovo, più forte.
«Va bene! Va bene! Ho sentito! Ho sentito!» Rumore di chiavi girate nella toppa, di catenacci tirati, di una catena sganciata. La porta rossa venne socchiusa.
«Chi è?» Era una voce di uomo, vecchia e arrochita dalle sigarette.
«Un vecchio amico, Chernobog. Con un socio.»
La porta si aprì soltanto fin dove lo consentiva la catena. Shadow intravide una faccia grigia che scrutava dall’ombra. «Che cosa vuoi, Votan?»
«Il piacere della tua compagnia, per cominciare. Poi ho delle informazioni da passarti. Com’è che si dice?… Ah sì… che potrebbero tornarti utili.»
La porta si spalancò. L’uomo era di bassa statura, aveva i capelli color grigio ferro e i tratti scabri. Portava un vecchio accappatoio e un paio di pantaloni grigi a righe, lucidi sulle ginocchia, e le pantofole. Aveva una sigaretta senza filtro tra le dita tozze, e la fumava tenendola a coppa nel palmo, come un carcerato, pensò Shadow, o un soldato. Tese la mano sinistra a Wednesday. «Allora che tu sia benvenuto, Votan.»
«Di questi tempi mi chiamano Wednesday» disse l’altro ricambiando la stretta.
Un accenno di sorriso, un bagliore di denti gialli. «Capisco. Molto divertente. E lui sarebbe?»
«È il mio socio. Shadow, ti presento il signor Chernobog.»
«Molto lieto» disse il russo e strinse la mano sinistra di Shadow. La sua era ruvida e callosa, e aveva le dita gialle come se fossero state immerse nello iodio.
«Come va, signor Chernobog?»
«Va da vecchio. Il ventre mi fa male, e la schiena, e tutte le mattine tossisco da sputare i polmoni.»
«Cosa fate sulla porta?» chiese una voce femminile. Shadow guardò la vecchia comparsa alle spalle di Chernobog. Era più minuta e fragile della sorella, ma aveva i capelli lunghi e ancora dorati. «Io sono Utrennjaja Zarja» disse. «Non restate sul pianerottolo. Dovete venire dentro, dovete sedervi. Vi porto un caffè.»
Varcata la soglia dentro un appartamento che puzzava di cavolo bollito, lettiera per gatti e sigarette straniere senza filtro, furono sospinti lungo un minuscolo corridoio su cui si aprivano varie porte fino al salotto in fondo, dove vennero fatti accomodare su un enorme divano rivestito di cavallino, disturbando, nel processo, un vecchio gatto grigio che si stirò, si alzò e, rigido sulle zampe, si spostò nel punto più lontano, riaccovacciandosi circospetto a scrutarli a uno a uno, per poi richiudere un occhio e riaddormentarsi. Chernobog prese posto sulla poltrona di fronte.
Utrennjaja Zarja trovò un posacenere vuoto e lo appoggiò vicino a Chernobog. «Come lo volete, il caffè?» chiese agli ospiti. «Noi lo prendiamo nero come la notte e dolce come il peccato.»
«Andrà benissimo, signora» rispose Shadow. Guardò fuori della finestra i palazzi dall’altra parte della strada.
Utrennjaja Zarja si avviò. Chernobog la fissò fino a quando non fu uscita. «Quella è una brava donna» disse. «Non come le sue sorelle. Una è un’arpia, e l’altra, l’altra non fa che dormire.» Appoggiò i piedi calzati nelle pantofole su un lungo tavolino basso al cui centro era intagliata una scacchiera; il legno era coperto di bruciature di sigaretta e aloni dì tazze e bicchieri.
«È sua moglie?» domandò Shadow.
«Non è la moglie di nessuno.» Il vecchio rimase un momento in silenzio, guardandosi le mani ruvide. «No. Siamo tutti parenti. Siamo venuti insieme in questo paese tanto tempo fa.»
Dalla tasca dell’accappatoio prese un pacchetto di sigarette senza filtro. Wednesday gliene accese una con un sottile accendino d’oro. «Prima siamo andati a New York» disse il vecchio. «I nostri connazionali andavano a New York. Poi qui, a Chicago. Tutto è andato storto. Anche nel mio paese d’origine mi avevano quasi dimenticato. Qui sono soltanto un brutto ricordo. Sai cos’ho fatto, quando sono arrivato a Chicago?»
«No» disse Shadow.
«Mi sono trovato un lavoro al macello. Al mattatoio. Quando i manzi salivano la rampa trovavano me, l’abbattitore. Sai perché ci chiamano abbattitori? Perché prendiamo la mazza e abbattiamo la vacca. Pum! Ci vuole forza nelle braccia. Capisci? Poi l’incatenatore incatena il manzo, lo tira su e gli taglia la gola. Prima di mozzargli la testa lo fanno dissanguare. Noi eravamo i più forti, noi abbattitori.» Alzò la manica dell’accappatoio flettendo l’avambraccio per mettere in mostra i muscoli ancora visibili sotto la pelle cascante. «La forza però non basta. Ci vuole arte. Arte nel colpire. Altrimenti la vacca rimane solo stordita, o si arrabbia. Poi negli anni Cinquanta ci hanno dato le pistole a chiodi. Gliele puntavi in mezzo alla fronte, pum, pum! Dirai che così sono capaci tutti. Ma non è vero.» Mimò il gesto di conficcare un chiodo di metallo nella testa di una mucca. «Ci vuole abilità.» Sorrise al ricordo, mettendo in mostra un dente color ferro.
«Non cominciare con le tue storie di quando uccidevi le mucche.» Utrennjaja Zarja servì il caffè in piccole tazze smaltate a colori vivaci su un vassoio di legno rosso. Diede a ciascuno una tazza e poi sedette accanto a Chemobog.
«Vechernjaja Zarja è andata a fare la spesa. Tornerà subito.»
«L’abbiamo incontrata davanti al portone» disse Shadow. «Ci ha detto che legge il futuro.»
«Sì» rispose la sorella. «Al crepuscolo, il momento più adatto per le bugie. Io non riesco a dirle bene, quindi sono una pessima indovina. E nostra sorella Polunochnaja Zarja non sa dirle del tutto.»
Il caffè era più dolce e più forte di quanto Shadow si sarebbe aspettato.
Chiese di poter usare il bagno, una stanzetta poco più grande di un armadio con appese ai muri alcune vecchie fotografie incorniciate di uomini e donne in rigide pose vittoriane. Dal salotto sentiva arrivare voci concitate. Si lavò le mani con l’acqua ghiacciata e una scaglia di sapone rosa dall’odore disgustoso.
Quando uscì dal bagno trovò Chernobog nel corridoio.
«Tu porti solo guai!» stava gridando. «Nient’altro che guai! Non voglio stare a sentire! Vattene da casa mia!»
Wednesday era ancora seduto sul divano e sorseggiava il caffè accarezzando il gatto grigio. In piedi sul tappeto consunto Utrennjaja Zarja si attorcigliava nervosamente i lunghi capelli biondi.
«C’è qualche problema?» chiese Shadow.
«Lui è il problema!» gridò Chernobog. «Lui! Digli che niente potrebbe convincermi ad aiutarlo! Voglio che se ne vada! Voglio che esca di qui! Andatevene tutti e due!
«Per favore» implorò Utrennajaja Zarja. «Per favore fate piano, altrimenti sveglierete Polunochnaja Zarja.»
«E tu sei uguale a lui, vuoi che lo sostenga nella sua follia» strillò Chernobog. Sembrava che stesse per piangere. Una lunga colonnetta di cenere cadde dalla sua sigaretta sul tappeto logoro del corridoio.
Wednesday si alzò e gli si avvicinò. Gli appoggiò una mano sulla spalla. «Ascoltami» disse conciliante. «Prima di tutto non è una follia. È l’unica via. Secondo, ci saranno tutti. Non vorrai essere lasciato fuori, no?»
«Tu sai chi sono» rispose Chernobog. «Sai quello che hanno fatto queste mani. Tu vuoi mio fratello, non me. E mio fratello non c’è.»
Si aprì una porta e un’assonnata voce femminile chiese: «Cosa succede?».
«Niente, sorella mia» rispose Utrennjaja Zarja. «Torna a dormire.» Poi si rivolse a Chernobog. «Hai visto? Hai visto cos’hai fatto con tutto quel gridare? Torna in salotto e siediti. Siediti!» Chernobog sembrava intenzionato a protestare ma di colpo la rabbia gli passò. Aveva un’aria fragile, all’improvviso, fragile e solitaria.
I tre uomini rientrarono nel salotto fatiscente. Nella stanza aleggiava uno scuro anello di nicotina che si fermava a trenta centimetri dal soffitto, come la riga di sporcizia in una vecchia vasca da bagno.
«Non devi farlo necessariamente per te» disse Wednesday imperturbabile. «Se lo fai per tuo fratello ci guadagni anche tu. In questo voi tipi dualistici siete nettamente superiori a noi, non è così?»
Chernobog non parlò.
«A proposito di Bielebog, hai avuto sue notizie?»
L’altro scosse la testa. Guardò Shadow. «Hai fratelli?»
«No. Non che io sappia.»
«Io ne ho uno. Dicono che insieme siamo una persona sola, sai? Quand’eravamo giovani i suoi capelli erano biondissimi, gli occhi celesti, e la gente diceva che lui era quello bravo. E i miei capelli erano scuri, forse più scuri dei tuoi, e la gente diceva che ero la canaglia, hai capito? Il cattivo ero io. E adesso il tempo passa e ho i capelli grigi. Anche i suoi sono grigi, credo. E guardandoci non sapresti più riconoscere il chiaro dall’oscuro.»
«Eravate molto uniti?» chiese Shadow.
«Uniti?» ripeté Chernobog. «No. Come avremmo potuto? Ci interessavano cose molto diverse.»
Dal fondo del corridoio arrivò un gran frastuono e Vechernjaja Zarja fece il suo ingresso. «Tra un’ora si mangia» annunciò. Poi scomparve.
Chernobog sospirò. «Crede di essere una buona cuoca. Ma cucinavano i domestici, a casa sua. Adesso non c’è nessuno. Non c’è niente.»
«Non dire mai che non c’è niente» intervenne Wednesday. «Non dirlo mai.»
«Smettila. Non voglio ascoltarti.» Si rivolse a Shadow. «Giochi a dama?»
«Sì.»
«Bene. Allora fai una partita» disse prendendo una scatola di legno dalla mensola del camino e rovesciando le pedine sul tavolo. «I neri a me.»
Wednesday sfiorò un braccio di Shadow. «Non sei obbligato» disse.
«Non c’è problema. Gioco volentieri». Wednesday scrollò le spalle e da un mucchietto di riviste ingiallite sul davanzale della finestra prese un vecchio numero del "Reader’s Digest".
Chernobog finì di sistemare le pedine con le sue dita scure e il giocò cominciò.
Nei giorni seguenti a Shadow capitò spesso di ricordare quella partita. Certe notti la sognò. I suoi pezzi, rotondi e piatti, bianchi, in teoria, avevano il colore del legno vecchio e sporco. Quelli di Chernobog erano di un nero opaco e sbiadito. Mosse per primo. Nei suoi sogni non conversavano, giocando, si sentiva solo il sonoro clic delle pedine che venivano appoggiate, o il fruscio di legno contro legno quando venivano spostate di una casella.
Per le prime cinque o sei mosse i due giocatori avanzarono verso il centro della damiera, lasciando intatte le linee di base. C’erano lunghe pause tra una mossa e l’altra, come durante una partita a scacchi, mentre i due giocatori osservavano e riflettevano.
Shadow aveva giocato a dama in prigione: serviva a far passare il tempo. Aveva giocato anche a scacchi, ma gli mancava la capacità di impostare una tattica. Preferiva improvvisare cercando di fare la mossa giusta al momento giusto. A volte in questo modo si riesce a vincere, a dama.
Si sentì un clic quando Chernobog afferrò una pedina nera e si mangiò una bianca. Poi l’appoggiò sul tavolino, accanto alla damiera.
«La prima vittima. Hai già perso» disse. «La partita è finita.»
«No» rispose Shadow. «La fine è ancora lontana.»
«Non vorresti fare una puntatina, in questo caso? Scommettere qualcosa per renderla più interessante?»
«No» si intromise Wednesday senza alzare gli occhi dalla pagina delle barzellette da caserma, «non vuole.»
«Non sto giocando con te, vecchio. Gioco con lui. Allora, vuoi scommettere, signor Shadow?»
«Di che cosa stavate discutendo voi due, prima?»
Chernobog aggrottò la fronte rugosa. «Il tuo padrone vuole che vada con lui. Per aiutarlo nella sua follia. Piuttosto morto.»
«Vuole scommettere? D’accordo. Se vinco io viene con noi.»
Il vecchio arricciò le labbra. «Possibile» disse, «ma solo se accetti di pagare pegno, in caso di sconfitta.»
«E quale sarebbe, il pegno?»
Chernobog rimase imperturbabile. «Se vinco io ti fracasso la testa. Con la mazza. Prima ti metti in ginocchio. Poi ti abbatto con un colpo in mezzo alla fronte e tu non ti rialzi più.» Shadow lo guardò cercando di decifrarne il volto. Non stava scherzando, di questo era certo: nella sua espressione c’era qualcosa di famelico, brama di dolore, o morte, o punizione.
Wednesday chiuse la rivista. «È ridicolo. Ho fatto male a venire qui. Shadow, ce ne andiamo.» Il gatto grigio, importunato, si alzò dal divano e andò sul tavolino, accanto alla scacchiera. Fissò i pezzi, poi saltò sul pavimento e uscì dalla stanza con la coda ritta.
«No» disse Shadow. Non aveva paura di morire. Dopotutto non è che avesse una buona ragione per vivere. «Mi sta bene. Accetto. Se vince lei ha la possibilità di fracassarmi il cranio con un colpo di mazza» e mosse una pedina sulla casella accanto al bordo della damiera.
Non c’era altro da aggiungere, tuttavia Wednesday non riprese a leggere il "Reader’s Digest". Rimase a osservare la partita con l’occhio di vetro e l’occhio buono, e un’espressione che non lasciava trapelare niente.
Chernobog si mangiò un altro bianco. Shadow due neri. Dal corridoio arrivavano gli odori di una cucina sconosciuta. Benché non fossero tutti stuzzicanti Shadow si rese improvvisamente conto di essere molto affamato.
I due uomini muovevano i loro pezzi, a turno. Un sacco di pedine mangiate, una fioritura di dame: non più costrette a muoversi solo in avanti, una casella alla volta, le dame potevano andare in ogni direzione, il che le rendeva doppiamente pericolose. Erano arrivati alla linea di base della damiera e adesso potevano andare ovunque. Chernobog ne aveva tre, Shadow due.
Chernobog mosse una dama mangiandosi tutte le pedine dell’avversario mentre con le altre due gli teneva bloccate le sue.
E poi ne conquistò una quarta e senza sorridere si mangiò le due dame di Shadow. La partita era finita.
«Allora» disse, «ti posso fracassare il cranio. E tu ti metterai in ginocchio senza fare storie. Bene.» Allungò una mano e batté una pacca sul braccio di Shadow.
«C’è ancora tempo, prima di cena» disse Shadow. «Vuole farne un’altra? Alle stesse condizioni?»
Chernobog si accese una sigaretta con un fiammifero da cucina. «Come, alle stesse condizioni? Vuoi che ti uccida due volte?»
«Al momento lei dispone di un colpo solo. Mi ha detto lei stesso che non si tratta soltanto di forza, che ci vuole soprattutto abilità. Così se vince anche questa volta ha a disposizione due colpi.»
Chernobog lo guardò torvo. «Ne basta uno, uno solo. In questo consiste l’arte.» Si batté sull’avambraccio destro, dov’erano i muscoli, con la mano sinistra, spargendo cenere dappertutto.
«È passato tanto tempo. Se avesse perso l’abilità mi potrebbe ferire e basta. Quand’è stata l’ultima volta che ha tirato un colpo di mazza al mattatoio? Trent’anni fa? Quaranta?»
Chernobog non disse niente. La bocca chiusa era un taglio grigio nella faccia. Tamburellò le dita sul tavolino di legno, a ritmo. Poi rimise i ventiquattro pezzi al loro posto sulla damiera.
«Gioca» disse. «Tu hai ancora i chiari. Io gli scuri.»
Shadow fece la prima mossa. Chernobog rispose e Shadow capì che l’altro avrebbe ripetuto lo stesso schema di gioco della partita appena vinta, e che quello era il suo limite.
Allora giocò in maniera avventata. Approfittando di ogni opportunità che gli si presentava, oppure muovendo senza riflettere, senza fermarsi a pensare. E questa volta giocando sorrideva; e ogni volta che toccava a Chernobog il suo sorriso diventava più largo.
Di lì a poco Chernobog cominciò a muovere le pedine bruscamente, picchiandole sul tavolo con tanta forza da far tremare quelle rimaste sulle caselle nere.
«Ecco» disse prendendo una pedina di Shadow con fracasso e mettendo giù la nera con un tonfo. «Ecco. Cosa te ne pare?»
Shadow non rispose: si limitò a sorridere e soffiò la pedina che Chernobog aveva appena mosso, poi un’altra e un’altra ancora, e una quarta, spazzando via tutte le nere dal centro della damiera. Prese una pedina bianca dal mucchietto sul tavolo e fece la sua dama.
Dopo di che rastrellò le pedine restanti in poche mosse e la partita era finita.
«Facciamo la bella?»
Chernobog lo fissò, gli occhi grigi come aculei di acciaio. Poi rise, battendogli grandi pacche sulle spalle. «Tu mi piaci!» esclamò. «Hai le palle.»
In quel momento Utrennjaja Zarja infilò la testa in salotto per dire che la cena era pronta e che dovevano sgomberare il tavolo e stendere la tovaglia.
«Non abbiamo una sala da pranzo» disse. «Mi dispiace. Mangiamo qui.»
I piatti di portata furono sistemati sul tavolino e ciascuno dei commensali venne dotato di un vassoietto di legno smaltato su cui erano appoggiate le posate annerite da tenere sulle ginocchia.
Vechernjaja Zarja prese cinque scodelle e mise dentro ciascuna una patata bollita con la buccia su cui versò un’abbondante porzione di borsch dal violento color cremisi. Aggiunse un cucchiaio di panna acida in ogni scodella e le servì.
«Credevo che fossimo in sei» disse Shadow.
«Polunochnaja Zarja dorme ancora» disse Vechernjaja Zarja. «Le teniamo la cena in frigorifero. Mangerà quando si alza.»
Nel borsch c’era troppo aceto, sembrava di mangiare barbabietole in salamoia. La patata bollita era farinosa.
Per secondo c’era un brasato coriaceo accompagnato da verdure non meglio identificate, bollite così a lungo e in modo così efficace che nessuno, nemmeno con il più grande sforzo di immaginazione, le avrebbe potute riconoscere, essendo praticamente ridotte in poltiglia.
Poi c’erano foglie di verza stufate con carne macinata e riso, foglie talmente dure da non poter essere tagliate senza spargere carne e riso su tutto il tappeto. Shadow spostò la sua nel piatto senza mangiarne.
«Abbiamo giocato a dama» disse Chernobog servendosi un altro blocchetto grumoso di brasato. «Io e il giovanotto. Lui ha vinto una partita. Io ne ho vinto un’altra. Siccome ha vinto vado con lui e Wednesday, e li aiuto nella loro follia. E siccome ho vinto anch’io, quando sarà tutto finito potrò ucciderlo con un colpo di mazza.»
Le due Zarja annuirono gravemente. «Un vero peccato» commentò Vechernjaja Zarja rivolgendosi a Shadow. «Se ti avessi letto la sorte avrei previsto per te una lunga vita felice, con molti figli.»
«È per questo che sei brava a leggere il futuro» disse Utrennjaja Zarja. Aveva un’aria assonnata, come se restare sveglia fino a quell’ora le costasse uno sforzo. «Sei la più brava a dire bugie.»
Finito di mangiare, Shadow aveva ancora fame. Il cibo che gli davano in carcere, pur pessimo, era sempre meglio di questo.
«Ottimo» disse Wednesday dopo aver ripulito il piatto con palese soddisfazione. «Vi ringrazio, gentili signore. E ora temo che il dovere ci imponga di chiedervi di indicarci un buon albergo nei dintorni.»
Vechernjaja Zarja assunse un’aria offesa. «Perché mai andare in albergo? Non siamo forse tuoi amici?»
«Non vorrei disturbare…» disse Wednesday.
«Nessun disturbo» intervenne Utrennjaja Zarja sbadigliando e giocherellando con quei suoi capelli dal biondo tanto incongruo.
«Tu puoi dormire nella stanza di Bielebog» disse Vechernjaja Zarja, indicando Wednesday. «È vuota. In quanto a te, giovanotto, ti preparerò il letto sul divano. Starai più comodo che in un letto di piume. Lo giuro.»
«È molto gentile da parte vostra» rispose Wednesday. «Accettiamo.»
«E mi dai quello che pagheresti per l’albergo» continuò Vechernjaja Zarja con uno scatto trionfante della testa. «Cento dollari.»
«Trenta».
«Cinquanta.»
«Trentacinque.»
«Quarantacinque.»
«Quaranta.»
«D’accordo. Quarantacinque dollari.» Vechernjaja Zarja si protese e strinse la mano di Wednesday, poi cominciò a sparecchiare. Utrennjaja Zarja sbadigliava tanto che Shadow si preoccupò per la sua mascella, poi annunciò che andava a letto perché stava per addormentarsi con la faccia nel piatto e disse buonanotte a tutti.
Shadow aiutò Vechernjaja Zarja a portare piatti e scodelle nel cucinino dove sotto l’acquaio trovò, con sua grande sorpresa, una vecchia lavastoviglie che cominciò a riempire. Affrettandosi a togliere le scodelle dì legno Vechernjaja Zarja lo guardò con aria di disapprovazione. «Queste vanno nel lavandino» disse.
«Mi dispiace.»
«Non preoccuparti. Adesso torniamo di là a mangiare la torta.»
La torta, un’apple pie comperata in pasticceria e riscaldata nel forno, era molto, molto buona. La mangiarono con il gelato e poi Vechernjaja Zarja fece uscire tutti e preparò sul divano un giaciglio molto confortevole. Wednesday parlò con Shadow nel corridoio.
«Prima, quello che hai fatto con la dama» disse.
«Sì?»
«Ben fatto. Molto stupido da parte tua. Anzi, stupidissimo. Ma ben fatto. Dormi bene.»
Nel minuscolo bagno Shadow si lavò i denti e la faccia con l’acqua fredda, poi tornò in salotto, spense la luce e si addormentò ancor prima di avere appoggiato la testa sul cuscino.
C’erano esplosioni, nel sogno: Shadow guidava un camion in un campo minato e le mine scoppiavano da tutte le parti. Il parabrezza andò in frantumi e lungo la faccia gli scorreva un rivolo di sangue.
Qualcuno gli stava sparando.
Un proiettile gli perforò un polmone, un altro gli frantumò la spina dorsale, un altro gli si conficcò nella spalla. Li sentì entrare, a uno a uno. Si accasciò sul volante.
L’ultima esplosione culminò nella tenebra.
Dev’essere un sogno, pensò, solo, al buio. Credo di essere morto. Ricordò di aver sentito dire, da bambino, credendoci, che se muori in sogno muori anche nella realtà. Però in quel momento non si sentiva morto. Provò ad aprire gli occhi.
Nel piccolo salotto, in piedi davanti alla finestra, c’era una donna. Col cuore in gola la chiamò. «Laura?»
La donna si voltò, incorniciata dalla luna. «Mi dispiace» disse. «Non volevo svegliarti.» Aveva un lieve accento dell’Europa dell’Est. «Me ne vado subito.»
«No, resta» disse Shadow. «Non mi hai svegliato. Stavo sognando.»
«Sì. Gridavi, gemevi. Avrei voluto scuoterti, ma poi mi sono detta, no, devo lasciarlo stare.»
Aveva i capelli chiari, quasi bianchi alla debole luce lunare. Indossava una camicia da notte di cotone bianco con un colletto alto, di pizzo, lunga fino ai piedi. Shadow si mise seduto, completamente sveglio. «Tu sei Zarja Polu…» esitò «la sorella che dormiva.»
«Sì, sono Polunochnaja Zarja. E tu ti chiami Shadow, vero? Così mi ha detto Vechernjaja Zarja quando mi sono svegliata.»
«Sì. Che cosa stavi guardando, là fuori?»
Lei gli fece cenno di avvicinarsi alla finestra. Si voltò quando lui si infilò i jeans. Le si avvicinò. Sembrava un lungo percorso, per una stanza così piccola.
Non riusciva a capire quanti anni avesse. La sua pelle era levigata, gli occhi scuri con le ciglia lunghe e folte, i capelli bianchi lunghi fino alla vita. La luce della luna attenuava i colori trasformandoli in spettri di se stessi. Era più alta delle sorelle.
Gli indicò il cielo. «Stavo guardando quella» disse puntando il dito. «La vedi?»
«L’Orsa Maggiore» disse lui.
«È un modo di vedere le cose» disse. «Che non è quello del posto da cui provengo io. Vado a sedermi sul tetto. Vuoi venire con me?»
Aprì la finestra e si arrampicò, scalza, sulla scala antincendio. Il vento era gelido. C’era qualcosa che inquietava Shadow, ma non sapeva che cosa; esitò, poi si infilò maglione, calze e scarpe e seguì la donna sulla scala arrugginita. Lei lo stava aspettando. Nell’aria fredda il fiato di Shadow sembrava vapore. La guardò salire a piedi nudi gli scalini di metallo ghiacciati e la seguì su fino al tetto.
Le raffiche di vento le incollavano la camicia da notte al corpo, e Shadow si rese conto con disagio che, sotto, Polunochnaja Zarja non indossava niente.
«Non soffri il freddo?» le chiese quando arrivarono in cima alle scale e il vento sferzava via le sue parole.
«Come?»
Chinò il viso verso di lui. Aveva un alito dolce.
«Ti ho domandato se non senti freddo.»
In risposta lei alzò un dito: "aspetta", sembrava dire. Con un balzo leggero saltò sul tetto. Salì anche Shadow, meno leggiadramente, e la seguì fino all’ombra della cisterna dell’acqua. Lì li aspettava una panchina di legno; lei vi si sedette e lui la imitò. La cisterna li riparava dal vento e Shadow gliene fu grato.
«No» disse lei. «Non soffro il freddo. Questo è il mio tempo: di notte mi sento a mio agio, come un pesce nell’acqua.»
«La notte ti deve piacere molto» disse lui rammaricandosi subito di non aver detto qualcosa di più saggio e profondo.
«Le mie sorelle appartengono al loro tempo. Utrennjaja Zarja appartiene all’alba. Nel nostro paese si svegliava per aprire i cancelli e far uscire nostro padre con il… mi dimentico sempre questa parola, è come una carrozza a cavalli?»
«Cocchio?»
«Con il suo cocchio. Nostro padre usciva con il cocchio. E Vechernjaja Zarja gli riapriva i cancelli al crepuscolo, quando tornava da noi.»
«E tu?»
Lei non rispose subito. Aveva le labbra piene, ma molto pallide. «Io non lo vedevo mai. Dormivo.»
«È una malattia?»
Lei non rispose. Quando scrollò le spalle, se le scrollò, lo fece in maniera impercettibile. «Dunque. Volevi sapere che cosa stavo guardando.»
«L’Orsa Maggiore.»
Lei alzò un braccio per indicarla e il vento le incollò la camicia da notte sul corpo. I capezzoli, ogni millimetro di pelle d’oca sul seno furono per un momento visibili, scuri contro il cotone bianco. Shadow ebbe un brivido.
«Il Grande Carro di Odino, lo chiamano. Oppure Orsa Maggiore. Nel posto da dove vengo io crediamo che ci sia una cosa, una… non una divinità ma qualcosa di simile, una creatura cattiva, incatenata a quelle stelle. Se scappasse si mangerebbe tutto il mondo. E perciò ci sono tre sorelle che giorno e notte sorvegliano il cielo senza sosta. Se si liberasse, quella cosa tra le stelle, il mondo finirebbe, puf, così.»
«E la gente ci crede?»
«Ci credeva. Tanto tempo fa.»
«E tu guardavi per cercare di individuare il mostro incatenato alle stelle?»
«Sì. Qualcosa del genere.»
Shadow sorrise. Se non ci fosse stato quel gran freddo, pensò, avrebbe creduto di sognare. Sembrava tutto un sogno.
«Ti posso chiedere quanti anni hai? Le tue sorelle sembrano molto più anziane di te.»
Lei annuì. «Sono la più giovane. Utrennjaja Zarja è nata al mattino, e Vechernjaja Zarja di sera, io invece sono nata a mezzanotte. Sono la sorella della mezzanotte, Polunochnaja Zarja. Sei sposato?»
«Mia moglie è morta. È morta la settimana scorsa in un incidente di macchina. C’è stato il funerale ieri.»
«Mi dispiace.»
«Ieri notte è venuta a trovarmi.» Non era stato difficile dirlo; nell’oscurità, con la luna, non era impensabile come alla luce del giorno.
«Le hai chiesto che cosa voleva?»
«No. Non gliel’ho chiesto.»
«Forse dovresti. È la cosa più saggia da chiedere ai morti. Qualche volta te lo dicono. Vechernjaja Zarja mi ha raccontato che hai giocato a dama con Chernobog.»
«Sì. Ha vinto il diritto di darmi una mazzata in testa.»
«Nei tempi antichi portavano la gente in cima alla montagna. Sulle vette più alte. Lì gli fracassavano la nuca con una pietra. In onore di Chernobog.»
Shadow si guardò intorno. No, erano proprio soli, sul tetto.
Polunochnaja Zarja rise. «Non è qui, sciocco. E anche tu hai vinto una partita. Forse non colpirà fino a quando non sarà tutto finito. Ha detto che non lo avrebbe fatto. E tu te ne accorgerai. Come le mucche che uccideva al macello. Se ne accorgevano sempre. Altrimenti che senso avrebbe?»
«Mi sento» cominciò Shadow «come in un mondo con una logica tutta sua. Con regole proprie. Come quando sogni, e sai che ci sono regole che non puoi infrangere. Anche se non sai che cosa significhino. Seguo la corrente, capisci?»
«Capisco» disse lei. Gli afferrò una mano con la sua, fredda gelata. «Ti è già stata data una protezione. Ti è stato dato il sole. Ma l’hai perso subito. L’hai dato via. Quello che ti posso dare io offre una protezione minore. È la figlia, non il padre. Comunque può sempre servire. La vuoi?» Il vento freddo le faceva svolazzare i capelli intorno al viso.
«Devo fare a pugni con te? Sfidarti a dama?»
«Non mi devi nemmeno baciare» rispose lei. «Prendi soltanto la luna.»
«Come?»
«Prendi la luna.»
«Non capisco.»
«Guarda» disse Polunochnaja Zarja. Alzò la mano sinistra e la tenne ferma davanti alla luna come se volesse afferrarla tra pollice e indice. Poi, con un movimento delicato, la colse. Per un istante sembrò che l’avesse staccata davvero dal cielo, ma Shadow vide che la luna continuava a brillare mentre Polunochnaja Zarja apriva la mano per mostrare un dollaro d’argento con la testa della Statua della Libertà.
«Stupendo» disse Shadow. «Non ho visto come hai fatto. E non conosco il trucco.»
«Non c’è nessun trucco» disse lei. «L’ho presa. E adesso la do a te, perché ti protegga. Tieni. Non dare via anche questa.»
Gli appoggiò la moneta sul palmo della mano destra e gli richiuse le dita intorno. La moneta era fredda. Polunochnaja Zarja si protese, gli chiuse gli occhi con un dito e lo baciò leggermente sulle palpebre.
Quando si risvegliò Shadow era sul divano vestito di tutto punto. Una lama di luce entrava dalla finestra facendo danzare il pulviscolo nella stanza.
Si alzò e si avvicinò alla finestra. Alla luce del sole la stanza sembrava molto più piccola.
Si rese conto di cosa lo inquietava fin dalla notte precedente, mentre guardava fuori e dall’altra parte della strada. Non c’era nessuna scala antincendio fuori da quella finestra: nessun balcone, nemmeno un rugginoso scalino di metallo.
Eppure in mano stringeva una rara moneta d’argento da un dollaro del 1922 con la testa della Libertà, lucida come il giorno in cui era stata coniata.
«Oh. Ti sei alzato» disse Wednesday infilando la testa nella stanza. «Bene. Vuoi un caffè? Dobbiamo andare a rapinare una banca.»
L’arrivo in America
1721
È importante capire, scrisse il signor Ibis nel suo diario rilegato in pelle, che la storia americana è un frutto della fantasia, ingenuo schizzo a carboncino fatto per i bambini, o per chi si annoia facilmente. Per la massima parte non verificata, né immaginata o pensata, bensì pura rappresentazione della cosa, non la cosa in sé. Una buona invenzione, continuò fermandosi soltanto per intingere la penna nel calamaio e raccogliere i pensieri, che l’America sia stata fondata dai pellegrini in cerca della libertà di fede venuti nelle Americhe per moltiplicarsi e diffondersi e occupare dello spazio vuoto.
In verità, le colonie americane erano la discarica della società, oltre che meta di fuga e di oblio. All’epoca in cui a Londra si veniva mandati al patibolo per aver rubato dodici penny, le Americhe divennero simbolo di clemenza, di una seconda possibilità. Ma le condizioni della deportazione erano talmente dure che qualcuno trovava più semplice fare un salto da quell’albero spoglio e sgambettare nel vuoto una volta per tutte. Deportazione, la chiamavano: per cinque, dieci anni, per tutta la vita. Questa era la condanna.
Venivi venduto a un comandante, e sulla sua nave, piena come una nave negriera, viaggiavi fino alle colonie o alle Indie Occidentali; una volta a terra ti vendeva come servo a contratto a chiunque volesse ripagarsi il costo della tua pellaccia in lavoro fino alla scadenza della pena che dovevi scontare. Ma perlomeno non restavi in una prigione inglese ad aspettare di essere impiccato (perché all’epoca le prigioni erano luoghi di transito in attesa di liberazione, deportazione, o impiccagione, non vi si scontava una condanna) ed eri libero di approfittare del nuovo mondo. Eri anche libero di corrompere un comandante e farti riportare in Inghilterra prima della scadenza del termine. Succedeva. E se le autorità ti beccavano in patria — se un vecchio nemico, o un vecchio amico con un conto in sospeso ti vedevano e facevano la spia — allora venivi impiccato sui due piedi.
Mi torna in mente, continuò Ibis dopo una breve pausa durante la quale riempì il calamaio con l’inchiostro scuro che teneva nella bottiglia dentro l’armadio e intinse la penna, la vita di Essie Tregowan, nata in un freddo villaggio in cima a una scogliera della Cornovaglia, nel Sudovest dell’Inghilterra, dove la sua famiglia viveva da tempo immemorabile. Suo padre era pescatore, e si diceva che fosse uno di quelli che provocavano i naufragi a scopo di saccheggio, quelli che quando la burrasca infuriava appendevano le lampade sulle rupi più alte per far schiantare le navi sugli scogli e depredarne le merci che trasportavano. La madre di Essie lavorava come cuoca nella casa del principale possidente della zona, e a dodici anni anche Essie cominciò a lavorare in cucina, come sguattera. Era una cosetta piccola e magra, con grandi occhi scuri e capelli castani; non una gran lavoratrice, cercava sempre di scappare per andare ad ascoltare favole e racconti, se c’era in giro qualcuno a raccontarli: storie di pixy e spriggan, dei cani neri delle brughiere e delle sirene della Manica. E benché il signorotto ne ridesse, ogni sera i servi mettevano un piattino di porcellana con la panna, davanti alla porta della cucina, per i pixy.
Passarono gli anni, e Essie, da quella cosetta che era, diventò una ragazza con curve sinuose come le onde del verde mare, e gli occhi scuri che ridevano, e scuoteva i ricci castani. Gli occhi di Essie si illuminarono quando vide Bartholomew, il figlio diciottenne del signore, tornato da Rugby, e la notte andò al menhir al limitare del bosco e vi appoggiò un pezzo di pane che Bartholomew non aveva finito di mangiare, avvolto in una ciocca dei suoi riccioli. E l’indomani lui le si avvicinò e le parlò, guardandola con ammirazione, gli occhi di quel pericoloso celeste che ha il cielo quando sta per scoppiare un temporale, mentre lei gli puliva il camino in camera da letto.
Aveva gli occhi talmente pericolosi, disse Essie Tregowan.
Di lì a poco Bartholomew partì per Oxford e quando lo stato di Essie divenne evidente fu licenziata. Però il bambino nacque morto e come favore alla madre di Essie, che era una cuoca eccellente, la moglie del signore riuscì a convincere il consorte a ridare alla giovane il suo vecchio posto di sguattera.
Ma l’amore di Essie per Bartholomew si era trasformato in odio per la sua famiglia e prima della fine di quell’anno lei si prese per amante un uomo di un paese vicino, un uomo con una cattiva reputazione che rispondeva al nome di Josiah Horner. E una notte, mentre tutti dormivano, Essie si alzò e aprì la porta di servizio per far entrare l’amante. Lui svaligiò la casa.
Si sospettò subito qualcuno dei suoi abitanti, perché era ovvio che la porta era stata aperta dall’interno (e la moglie del signore ricordava bene di aver tirato personalmente i chiavistelli), e doveva trattarsi di qualcuno che sapeva dove si trovava l’argenteria, e in quale cassetto venivano tenuti i soldi e i pagherò cambiari. Tuttavia Essie non venne accusata, visto che negava tutto con decisione, fino a quando mastro Josiah Horner non fu colto sul fatto in una bottega di coloniali a Exeter mentre cercava di smerciare uno dei pagherò rubati. Il signore identificò il suo pagherò e Horner fu processato con Essie.
Condannato dalla locale corte d’Assise, Horner fu spento, come diceva il gergo dell’epoca con crudeltà e indifferenza, ma il giudice ebbe pietà di Essie per via della sua giovane età o dei suoi capelli castani e le comminò una condanna a sette anni di deportazione. Avrebbe viaggiato sulla Neptune, sotto il comando del capitano Clarke. Così Essie andò in Carolina e lungo il viaggio si fece amico il capitano, e lo convinse a riportarla in Inghilterra con sé, come sua sposa, e a condurla a Londra, a casa della madre di lui, dove nessuno la conosceva. All’arrivo in America il carico umano venne sostituito da un carico di cotone e tabacco e il viaggio di ritorno fu pacifico per tutti e felice per il capitano e la sua giovane sposa che si comportavano come due innamorati o due farfalle che si corteggiano, sempre a toccarsi e a scambiarsi piccoli doni o gesti di tenerezza.
Giunti a Londra il capitano Clarke sistemò Essie dalla madre che la trattò con tutti i riguardi dovuti alla nuova moglie del figlio. Otto settimane più tardi il Neptune prese di nuovo il mare e la graziosa mogliettina con i capelli castani andò a salutare il marito dal molo. Poi tornò a casa della suocera e, approfittando della sua assenza, si appropriò di una pezza di seta, di alcune monete d’oro e di un vaso d’argento in cui l’anziana signora teneva i bottoni, prima di sparire nel calderone londinese.
Durante i due anni successivi, con un’ampia gonna capace di celare una moltitudine di misfatti, soprattutto pezze di seta e rotoli di pizzo, Essie divenne una provetta taccheggiatrice e se la spassò. Era grata d’essere sfuggita alle sue vicissitudini a tutte le creature di cui le avevano parlato nell’infanzia, ai pixy (la cui influenza, ne era certa, si estendeva fino alla città di Londra), e ogni notte metteva sul davanzale una ciotola di legno piena di latte, anche se i suoi amici la deridevano per questo, ma ride bene chi ride ultimo, e mentre loro prendevano la sifilide o lo scolo, lei rimaneva sana come un pesce.
Mancavano dodici mesi al suo ventesimo compleanno, quando il destino le giocò un brutto scherzo: mentre si trovava nel Crossed Forks Inn di Bell Yard, vicino a Fleet Street, vide un giovanotto appena uscito dall’università entrare e andare a sedersi vicino al camino. Oh! Un pollo da spennare, pensa lei, e va a sederglisi accanto, e gli dice che è un giovane elegante, e mentre con una mano comincia ad accarezzargli un ginocchio, con l’altra va cautamente in cerca dell’orologio da taschino. E a quel punto lui la guarda bene in faccia e il cuore di Essie perde un colpo quando due occhi di un azzurro pericoloso come il cielo estivo prima del temporale la fissano, e padron Bartholomew la chiama per nome.
Venne portata a Newgate con l’accusa di essere tornata prima di avere scontato tutta la condanna. Giudicata colpevole, non stupì nessuno quando davanti alla corte dichiarò di essere incinta, e le guardiane della prigione incaricate di verificare tali affermazioni (di solito infondate), furono sorprese di dover riconoscere che Essie aspettava davvero un figlio, benché lei rifiutasse di dire il nome del padre.
La pena di morte fu commutata ancora una volta in deportazione, in questo caso a vita.
Viaggiò sulla Sea-Maiden. C’erano duecento deportati a bordo, stivati come maiali da portare al mercato. Febbri e diarree infuriavano; non c’era nemmeno spazio sufficiente per stare seduti, figuriamoci per sdraiarsi; una donna morì di parto in fondo alla stiva e siccome i suoi compagni erano troppo ammassati per riuscire a far passare il suo corpo, venne buttata insieme al neonato fuori dal piccolo oblò a poppa direttamente nel mare mosso e grigio. Essie era gravida di otto mesi, e stupisce che sia riuscita a tenere il bambino, tuttavia ci riuscì.
Per tutta la vita avrebbe sognato quel viaggio nella stiva, incubi dai quali si svegliava gridando, sentendo in bocca e nel naso l’odore di quell’inferno.
La Sea-Maiden attraccò a Norfolk, in Virginia, e il contratto di Essie venne acquistato da un "piccolo piantatore" di tabacco di nome John Richardson, la cui moglie era morta di febbre puerperale dopo aver dato alla luce una bambina, e perciò lui aveva bisogno di una balia nonché di una tuttofare per la piccola proprietà.
Così il bambino di Essie, che lei chiamò Anthony in onore del defunto marito (nessuno in quel paese avrebbe potuto smentirla, e forse aveva conosciuto un Anthony, da qualche parte), succhiò il latte dal suo seno insieme alla figlia del padrone Phyllida Richardson, ma la prima poppata toccava sempre a lei, che diventò una bambina robusta, alta e forte, mentre con ciò che avanzava Anthony cresceva debole e rachitico.
E insieme al latte, i bambini si nutrirono anche delle storie di Essie, dei racconti di knocker e blue-cap che vivevano giù nelle miniere, del Bucca, lo spirito più burlone della terra, molto più pericoloso dei pixy con i capelli rossi e i nasi camusi, per i quali si lasciava sui ciottoli della spiaggia il primo pesce pescato, e per cui si lasciava nel campo, al tempo della mietitura, una forma di pane appena cotto, al fine di assicurarsi un buon raccolto. Essie raccontò ai bambini degli uomini dei meli, vecchi alberi di melo che parlavano, se ne avevano voglia, e che dovevano essere placati con il primo sidro spremuto, versato sulle loro radici all’inizio dell’anno nuovo, se si voleva che dessero un buon raccolto. Raccontò loro, con il suo mellifluo accento della Cornovaglia, di quali alberi diffidare, con la vecchia filastrocca:
L’olmo medita tristemente
la quercia sa odiare,
ma il salice si mette a camminare
se troppo tardi vai a dormire.
Raccontava ai bambini tutte queste cose e loro ci credevano, perché ci credeva lei.
La fattoria prosperava, e Essie Tregowan metteva un piattino di latte davanti alla porta sul retro, ogni notte, per i pixy. E dopo otto mesi John Richardson venne a bussare gentilmente alla porta della sua camera e le chiese il genere di favori che una donna concede a un uomo, e Essie gli rispose di essere scioccata e ferita: Ma come, disse, una povera vedova legata a lui da un contratto di servaggio, praticamente una schiava, doveva anche prostituirsi con un uomo per il quale nutriva un così grande rispetto — e nelle sue condizioni non si poteva sposare, quindi come osava tormentare una povera ragazza deportata lei non riusciva proprio a capirlo — e gli occhi color delle noci si riempirono di lacrime al punto che Richardson si ritrovò a farle le sue scuse, e il risultato fu che in quella calda notte d’estate si inginocchiò davanti a Essie Tregowan per proporle di recidere il suo contratto e di sposarla. Lei accettò, ma non volle dormire con lui prima che l’aspetto legale fosse stato definito, e dopo si trasferì dalla stanzetta del solaio alla camera da letto padronale sul lato anteriore della casa, e se vedendolo in città qualche amico con moglie sparlò del coltivatore, molti di più si dissero dell’opinione che la nuova signora Richardson era una donna straordinariamente bella e che Johnnie aveva fatto un buon affare.
Prima della fine dell’anno, Essie diede alla luce un altro maschio, biondo come il padre e la sorellastra, e come il padre venne chiamato John.
La domenica i tre bambini andavano in chiesa ad ascoltare i predicatori itineranti e frequentavano la piccola scuola dove imparavano a leggere e a far di conto insieme ai figli degli altri piccoli coltivatori. Essie nel frattempo faceva in modo che conoscessero anche i misteri dei pixy, che erano i misteri più importanti: uomini con i capelli rossi, occhi e indumenti verdi come l’acqua del fiume e i nasi camusi, uomini buffi e strabici che, se gliene saltava la voglia, potevano confonderti e portarti fuori strada, se non avevi un po’ di sale o di pane in tasca. Quando andavano a scuola i bambini portavano sempre in una tasca un pizzico di sale, e nell’altra un pezzettino di pane, antichi simboli della vita e della terra, per essere sicuri di tornare a casa sani e salvi, come sempre successe.
I bambini crescevano alti e robusti nelle lussureggianti colline della Virginia (anche se Anthony, il primogenito, rimase sempre il più delicato, il più pallido e incline alle malattie) e i Richardson erano felici; e Essie amava il marito meglio che poteva. Erano sposati da dieci anni quando a John Richardson venne un mal di denti così terribile da farlo cadere da cavallo. Lo portarono nella città più vicina, dove gli strapparono il dente, ma troppo tardi, e un’infezione del sangue se lo portò via con la faccia nera e tra i gemiti, e venne seppellito sotto il suo salice preferito.
La vedova Richardson rimase a dirigere la proprietà fino alla maggiore età dei due eredi: riuscì a gestire i servi a contratto e gli schiavi, e più o meno tutti gli anni ottenne un buon raccolto di tabacco; versava il sidro sulle radici dei meli la notte dell’ultimo dell’anno e metteva una forma di pane appena sfornato nei campi al momento del raccolto e lasciava sempre un piattino di latte davanti alla porta sul retro. La fattoria prosperava e la vedova Richardson si guadagnò la reputazione di donna abile a mercanteggiare, ma il suo raccolto era sempre ottimo, e non vendeva mai merce di scarto per buona.
Per altri dieci anni tutto procedette nel migliore dei modi, poi ci fu un’annata cattiva perché Anthony, suo figlio, uccise Johnnie, il fratellastro, durante una lite furibonda sul futuro della fattoria e sulla disponibilità della mano di Phyllida; qualcuno disse che non aveva ucciso intenzionalmente il fratello, ma che era stato un colpo arrivato troppo a fondo, e qualcuno disse il contrario. Anthony scappò lasciando Essie da sola a seppellire il figlio minore accanto al padre. Qualcuno disse che Anthony era fuggito a Boston e qualcuno disse che era andato a sud, e sua madre era dell’opinione che si fosse imbarcato per l’Inghilterra per arruolarsi nell’esercito di Re Giorgio e combattere i ribelli scozzesi. Ma senza i due maschi la fattoria era deserta e triste, e Phyllida si struggeva e languiva come se avesse il cuore spezzato e niente che la matrigna dicesse o facesse poteva restituirle il sorriso.
Ma con il cuore spezzato o no nella fattoria c’era bisogno di un uomo e perciò Phyllida sposò Harry Soames, di professione maestro d’ascia, che stancatosi del mare sognava di vivere sulla terraferma in una fattoria simile a quella dov’era cresciuto nel Lincolnshire. E benché la fattoria dei Richardson fosse davvero piccola, Harry Soames la trovò abbastanza simile a quella dei suoi sogni e si sentì felice. A Phyllida e Harry nacquero cinque figli, di cui tre sopravvissero.
La vedova Richardson sentiva la mancanza dei figli, e sentiva la mancanza del marito, anche se ormai era poco più che il ricordo di un uomo biondo che l’aveva trattata con gentilezza. I nipoti venivano da lei a farsi raccontare le storie e Essie raccontava loro del Cane Nero della Brughiera e di Crapa Pelata e la Maschera di Sangue e dell’Uomo del Melo, ma ai bambini non interessavano, volevano soltanto le storie di Jack: Jack e il fagiolo magico, o Jack e il suo Gatto e il Re. Essie voleva bene ai suoi nipoti come se fossero figli, anche se talvolta li chiamava con i nomi di chi era morto da tempo.
Si era di maggio e quel giorno portò la sedia nel giardino davanti alla cucina per raccogliere i piselli e sgusciarli al sole, perché malgrado il bel clima della Virginia il freddo le era entrato nelle ossa come nei capelli erano scese spruzzate di neve, e apprezzava sempre un po’ di calore.
Mentre la vedova Richardson sgranava i piselli con le sue vecchie dita cominciò a riflettere su come sarebbe stato bello passeggiare ancora una volta nella brughiera o sulle scogliere salmastre della sua Cornovaglia. Pensò a quando, bambina, sedeva sulla spiaggia ad aspettare dal mare grigio il ritorno della nave su cui lavorava il padre. Le mani, con le nocche blu, impacciate, aprivano i baccelli, facevano cadere i piselli in una ciotola di terracotta e gli scarti in grembo. E si ritrovò a ricordare, come non le capitava da tempo immemorabile, una vita molto lontana: quando rubava borsette e pezze di seta con abili dita… e poi il secondino di Newgate, quando le dice che mancano almeno dodici settimane alla sua udienza, e che se potesse dichiarare di essere incinta scamperebbe alla forca, e che bella donnina è… mentre lei si era voltata con la faccia al muro e coraggiosamente aveva sollevato le gonne, odiandosi e odiandolo, ma consapevole del fatto che l’uomo aveva ragione, la sensazione della vita che le nasceva dentro voleva dire che avrebbe potuto ingannare la morte ancora per un po’…
«Essie Tregowan?» chiese lo straniero.
La vedova Richardson alzò gli occhi proteggendosi con una mano dal sole di maggio. «Ci conosciamo?» domandò. Non lo aveva sentito arrivare.
L’uomo era vestito di verde da capo a piedi: calzoni scozzesi attillati, verdi e coperti di polvere, giacca verde, e un cappotto verde scuro. Aveva i capelli color carota e le sorrideva con una smorfia tutta sbilenca. C’era qualcosa nella sua presenza che la rendeva felice, e qualcos’altro che puzzava di pericolo. «Sì, puoi dire di conoscermi» le rispose.
La guardò di sottecchi, e lei ricambiò l’occhiata, scrutando il suo viso rotondo in cerca di un indizio per capire chi era. Era giovane come uno dei suoi nipoti, tuttavia l’aveva chiamata con il suo vecchio nome, e la sua pronuncia la conosceva dall’infanzia, dai tempi delle rocce e della brughiera della terra natia.
«Vieni dalla Cornovaglia?» gli chiese.
«Esattamente, sono il cugino Jack» rispose l’uomo dai capelli rossi. «O meglio lo ero, ma adesso sono qui in questo nuovo mondo, dove nessuno mette fuori dalla porta un po’ di latte o di birra chiara e forte per un onest’uomo, o una pagnotta quando arriva il tempo del raccolto.»
L’anziana donna raddrizzò la ciotola sulle ginocchia. «Se sei chi penso io» disse, «allora non ho conti in sospeso con te.» Sentiva Phyllida che dentro casa brontolava con la domestica.
«Né io con te» rispose un po’ tristemente l’uomo dai capelli rossi, «anche se sei stata tu a portarmi qui, tu e pochi altri come te, in questa terra che non ha tempo per la magia e non ha posto per pixy e simili.»
«Tu mi hai molto aiutata» disse lei.
«Faccio del bene e faccio del male» rispose lo straniero strabico. «Noi siamo come il vento. Soffiamo in tutte le direzioni.»
Essie annuì.
«Vuoi prendermi per mano, Essie Tregowan?» E le tese la sua. Era coperta di lentiggini, e benché la vista di Essie fosse ormai debole, riuscì a vedere i peli color arancio sul dorso, scintillanti nel sole del pomeriggio. Si morse un labbro. Poi, esitante, mise la sua mano dalle nocche blu in quella dell’uomo.
Quando la trovarono era ancora calda, anche se la vita l’aveva abbandonata e solo metà dei piselli erano stati sgusciati.
La vita è una signora in boccio
la morte un segugio a caccia:
la prima abita la stanza,
la seconda è la canaglia che l’insegue sulle scale.
Quel sabato mattina a salutarli c’era soltanto Utrennjaja Zarja. Prese i quarantacinque dollari e insisté per scrivere con una calligrafia larga e arzigogolata una ricevuta sul retro di un buono scaduto per una bibita. Con il suo viso da vecchia truccato con cura e i capelli d’oro legati alti sulla testa sembrava una bambola, alla luce del mattino.
Wednesday le baciò la mano. «Ti ringrazio per l’ospitalità, cara signora» disse. «Tu e le tue adorabili sorelle siete sempre splendenti come il firmamento.»
«E tu sei un vecchio malvagio» gli rispose lei agitando un dito ammonitore. Poi lo abbracciò. «Stai attento. Non mi piacerebbe venire a sapere che te ne sei andato per sempre.»
«La notizia addolorerebbe anche me, mia cara.»
La donna strinse la mano a Shadow. «Polunochnaja Zarja ha una grande opinione di te» disse. «E anch’io.»
«Grazie» rispose Shadow. «E grazie per la cena.»
Lei aggrottò un sopracciglio. «Ti è piaciuta? Torna a trovarci, allora.»
I due uomini cominciarono a scendere le scale. Shadow infilò le mani in tasca. Il dollaro d’argento era freddo, più grosso e pesante delle monete che era abituato a maneggiare. Provò una tecnica di palmaggio classico, lasciando cadere la mano lungo il fianco con naturalezza, poi la raddrizzò mentre la moneta scivolava nel palmo. Sembrava starci bene, lì dentro, trattenuta dalla leggera pressione di medio e anulare.
«Ben fatto» disse Wednesday.
«Sto cercando di imparare. Da un punto di vista tecnico me la cavo, la parte più difficile resta sempre quella di attirare l’attenzione della gente sulla mano sbagliata.»
«È così che si deve fare?»
«Sì» rispose Shadow. «Si chiama indirizzo erroneo.» Fece scivolare il medio sotto il dollaro spingendolo sul dorso della mano e sbagliò il movimento. La moneta cadde tintinnando sulle scale e rimbalzò per mezza rampa. Fu Wednesday a raggiungerla per primo e a raccoglierla.
«Non puoi permetterti di maltrattare i doni» gli disse. «A una cosa come questa bisogna stare attenti. Non andare a gettarla chissà dove.» Esaminò il dollaro, studiando prima la faccia con l’aquila, poi quella con la Libertà. «Ah, Signora Libertà. Bellissima, non trovi?» La lanciò a Shadow che la prese al volo, e finse di lasciarsela cadere nella mano sinistra, mentre in realtà la tratteneva nella destra, e poi di infilarla in tasca con la sinistra. Invece il dollaro era nella destra in bella mostra. Sembrava a suo agio, lì.
«Signora Libertà» continuò Wednesday, «una straniera, come molti dèi cari agli americani. Una francese, per la precisione, anche se per riguardo al pudore americano i francesi le coprirono i magnifici seni, nella statua offerta a New York. Libertà» si interruppe arricciando il naso davanti a un preservativo usato in fondo alle scale e spostandolo con disgusto con la punta della scarpa. «Qualcuno ci potrebbe scivolare e rompersi il collo» borbottò, sospendendo il discorso. «Come su una buccia di banana, ma con un pizzico di cattivo gusto e ironia in più.» Spalancò il portone e la luce del sole li colpì. «Libertà» tuonò mentre si avviavano verso l’automobile, «una puttana che si lascia prendere solo sopra un letto di cadaveri.»
«Ah sì?»
«Cito un francese. È a lei che hanno eretto una statua nel porto di New York, una puttana a cui piaceva farsi sbattere sopra i corpi dei condannati sulla carretta che tornava dalla ghigliottina. Tieni la fiaccola alta fin che ti pare, mia cara, nei tuoi vestiti si annidano ancora i ratti, e lungo le gambe ti cola ancora lo sperma freddo.» Aprì la portiera e fece segno a Shadow di prendere posto sul sedile accanto a quello di guida.
«A me sembra bellissima» disse osservando la moneta da vicino. La faccia argentea della Libertà gli ricordava un po’ Polunochnaja Zarja.
«Questa è l’eterna follia umana» rispose Wednesday. «Dare la caccia alla carne tenera senza rendersi conto del fatto che si tratta soltanto di un bel rivestimento delle ossa. Cibo per vermi. Di notte, quando abbracci una donna, ti stringi a una massa calda di cibo per vermi. Senza offesa.»
Shadow non aveva mai visto Wednesday così espansivo. Il suo nuovo capo, stabilì, attraversava fasi di estroversione seguite da periodi di profonda indifferenza. «Tu non sei americano, allora?» gli domandò.
«Nessuno lo è. Di origine americana, intendo. O perlomeno così la penso io.» Diede un’occhiata all’orologio. «Prima della chiusura delle banche abbiamo ancora parecchio tempo. A proposito, bel lavoretto ieri sera con Chernobog. Alla fine sarei riuscito a convincerlo a venire lo stesso, però tu l’hai fatto arruolare molto più volentieri.»
«Solo perché dopo mi può ammazzare.»
«Non è detto. Come hai saggiamente fatto osservare tu è vecchio, e il colpo fatale potrebbe lasciarti paralizzato per sempre, diciamo. Un invalido permanente. Perciò guarda con fiducia al futuro, anche nel caso il signor Chernobog riesca a sopravvivere alle prossime difficoltà.»
«Sussistono dei dubbi, in proposito?» chiese Shadow esprimendosi come Wednesday e odiandosi, per questo.
«Sì, cazzo.» Wednesday entrò nel parcheggio di una banca. «Questo è l’istituto di credito che stiamo per svaligiare. Sono aperti ancora per qualche ora. Entriamo a salutarli.»
Fece un cenno a Shadow che scese malvolentieri dalla macchina. Se il vecchio voleva combinare qualche stupidaggine lui non aveva nessuna intenzione di farsi riprendere da una telecamera. Ma siccome la curiosità lo pungeva lo seguì ugualmente. Tenne gli occhi sul pavimento e si grattò il naso facendo del suo meglio per tenere la faccia nascosta.
«Scusi, signora, i moduli di versamento?» chiese Wednesday all’unica impiegata in vista.
«Sono laggiù.»
«Molto bene. E se mi trovassi nella necessità di fare un versamento in orari notturni…?»
«Valgono gli stessi moduli.» La donna gli sorrise. «Sa dove si trova lo sportello, vero, signore? A sinistra dell’entrata principale.»
«Molte grazie.»
Wednesday prese alcuni moduli, salutò con un sorriso l’impiegata e uscì insieme a Shadow.
Sul marciapiede si fermò a grattarsi pensoso la barba. Poi si avvicinò allo sportello del bancomat e a quello della cassa continua per i versamenti notturni all’esterno della banca e li ispezionò. Attraversò la strada e portò Shadow nel supermercato dove acquistò un ghiacciolo al cioccolato fondente per sé e una tazza di cioccolata calda per lui. Su una parete dell’ingresso c’era un telefono pubblico, sotto un tabellone con annunci di camere in affitto e gattini in cerca di famiglie affettuose. Wednesday trascrisse il numero del telefono pubblico. Ritornarono dall’altra parte della strada. «Quello che ci serve adesso» disse «è un po’ di neve. Una bella, intensa, fastidiosa nevicata. Puoi pensare "neve" per me, per favore?»
«Cosa?»
«Concentrati su quelle nuvole — quelle lassù a occidente — e falle diventare sempre più grandi e più nere. Pensa a un cielo grigio e a raffiche di vento dall’Artico. Pensa neve.»
«Non credo che servirà.»
«Stupidaggini. Se non altro ti terrà la mente occupata» ribatté Wednesday aprendo l’automobile. «Adesso andiamo da Kinko. Sbrigati.»
Neve, pensò Shadow seduto in macchina, mentre sorseggiava la cioccolata. Grandi raffiche di neve in fiocchi vorticanti, macchie bianche contro il cielo grigio ferro, neve che ti cade sulla lingua come un bacio, fredda e invernale, che ti sfiora la faccia con un tocco esitante prima di gelarti a morte. Trenta centimetri di neve soffice come zucchero filato per creare un mondo da favola, dove ogni cosa è bellissima, irriconoscibile…
Wednesday gli stava parlando.
«Come?»
«Ho detto che siamo arrivati, ma tu eri da un’altra parte.»
«Stavo pensando alla neve» rispose Shadow.
Da Kinko, Wednesday si mise a fotocopiare i moduli della banca e poi si fece stampare dall’impiegato due fogli con dieci biglietti da visita ciascuno. A Shadow cominciava a far male la testa, e aveva una sensazione spiacevole in mezzo alle scapole; si chiese se avesse dormito male, se l’emicrania fosse uno strano lascito della notte trascorsa sul divano.
Wednesday sedette davanti al computer del negozio a scrivere una lettera e, con l’aiuto dell’impiegato, confezionò alcuni cartelli di grandi dimensioni.
Neve, pensava Shadow. Alta nell’atmosfera, perfetta, minuscoli cristalli che si formano intorno a un atomo di polvere, ognuno una trina. E scendendo i cristalli si uniscono tra loro e diventano fiocchi, ricoprono Chicago di una coltre spessa e bianca, centimetro dopo centimetro…
«Tieni» disse Wednesday porgendogli una tazza di caffè con un grumo galleggiante di latte vegetale in polvere che non si era sciolto. «Penso che basti, non credi?»
«Cosa?»
«La neve. Non vogliamo mica paralizzare la città, ti pare?»
Il cielo aveva il colore grigio di una nave da guerra. Stava nevicando. A più non posso.
«Non sono stato io» disse Shadow. «Cioè, non c’entro io, vero?»
«Bevi il caffè. È pessimo, però allevia un po’ il mal di testa.» Poi aggiunse. «Ottimo lavoro.»
Wednesday pagò l’impiegato di Kinko e uscì con i cartelli, le lettere e i biglietti da visita. Aprì il baule dell’automobile, infilò tutte le carte in un grosso contenitore, una cassetta di metallo del tipo che usano le guardie addette al trasporto valori, e richiuse il baule. Diede a Shadow un biglietto da visita.
«Chi è A. Haddock, direttore della Al Security Service?»
«Sei tu.»
«A. Haddock?»
«Esatto.»
«A per cosa sta?»
«Alfredo? Alphonse? Augustine? Ambrose? Decidi tu.»
«Capisco.»
«Io sono James O’Gorman» disse Wednesday. «Jimmy per gli amici. Vedi? Ho un biglietto da visita anch’io.»
Salirono in macchina. Wednesday disse: «Se riesci a pensare a A. Haddock bene come hai pensato "neve", stasera avremo denaro in abbondanza per offrire da bere e da mangiare ai miei amici.»
«Io in prigione non ci torno.»
«Non succederà.»
«Eravamo d’accordo che non avrei fatto niente di illegale.»
«Infatti. Forse sarai responsabile di complicità e favoreggiamento, di cospirazione, seguita ovviamente dal possesso di denaro rubato, ma credimi, uscirai da questa storia immacolato come un giglio.»
«Questo prima o dopo che il tuo vetusto culturista slavo mi avrà fracassato la testa?»
«Ci vede poco. Ti mancherà, probabilmente. Allora, abbiamo ancora un po’ di tempo a disposizione, sabato la banca chiude a mezzogiorno, dopotutto. Ti andrebbe di mangiare qualcosa?»
«Sì» rispose Shadow. «Sto morendo di fame.»
«Conosco il posto giusto» disse Wednesday. Guidando canticchiava un motivetto allegro che Shadow non riuscì a identificare. Nevicava, proprio grossi fiocchi come li aveva immaginati lui e, cosa strana, se ne sentiva orgoglioso. Razionalmente sapeva di non aver niente a che fare con la nevicata, proprio come sapeva che il dollaro d’argento che aveva in tasca non poteva mai e poi mai essere stato la luna. Eppure…
Si fermarono davanti a un grande edificio basso, una specie di capannone. Un cartello pubblicizzava il buffet a prezzo fisso per quattro dollari e novantanove. «Mi piace questo posto» disse Wednesday.
«Si mangia bene?»
«Non particolarmente. Però l’atmosfera è speciale.»
L’atmosfera che piaceva tanto a Wednesday, si scoprì, una volta consumato il pranzo — pollo fritto per Shadow, che aveva apprezzato — dipendeva dal traffico che si svolgeva sul retro: deposito e vendita di oggetti ricavati da bancarotte e liquidazioni, come annunciava uno striscione teso da una parte all’altra della sala.
Wednesday uscì per andare in macchina a prendere un valigetta con la quale si diresse nel bagno degli uomini. Visto che comunque avrebbe saputo anche troppo presto che cosa stava combinando il suo capo, Shadow decise di curiosare tra i corridoi e vedere la merce in vendita: scatole di caffè "soltanto per filtri usati dalle compagnie aeree"; pupazzetti delle Tartarughe Ninja e di Xena; bambole dell’harem della Principessa Guerriera, orsacchiotti che collegati a una presa suonavano motivetti patriottici sullo xilofono, carne in scatola, vari tipi di galosce e sovrascarpe, sacchetti di toffolette, orologi della campagna presidenziale di Bill Clinton, finti alberelli di Natale, portasale e portapepe a forma di animali, parti anatomiche, frutta e suore e l’oggetto che ottenne subito le preferenze di Shadow, un kit "basta la carota" di un omino di neve con gli occhi fatti di carbone sintetico, la pipa di tutolo e il cappellino di plastica.
Shadow pensava a una donna che era riuscita a dargli l’illusione che la luna si staccasse dal cielo per diventare un dollaro d’argento e a un’altra uscita dalla tomba per attraversare la città e parlare con lui.
«Non è un posto fantastico?» gli chiese Wednesday appena uscito dal bagno mentre si asciugava le mani nel fazzoletto. «Hanno finito le salviette di carta» disse. Si era cambiato e adesso indossava un completo blu con camicia bianca e cravatta blu di maglia, un maglione pesante blu scuro e un paio di scarpe nere. Sembrava un agente di sicurezza, come gli disse Shadow.
«Che cosa vuoi che faccia, giovanotto» rispose l’altro prendendo in mano un acquarietto di plastica con i pesci galleggianti ("Non perdono colore — e non hanno bisogno di mangime!!"), «oltre che congratularmi per la tua perspicacia? Cosa te ne pare di Arthur Haddock? Arthur è un bel nome.»
«Troppo frivolo.»
«Be’, allora inventati qualcosa. Forza. Torniamo in città. Per avere qualche soldo da spendere ci dobbiamo presentare puntuali alla rapina.»
«In genere» disse Shadow «se uno ha bisogno di soldi li prende al bancomat.»
«E infatti. Ti sembrerà strano ma è più o meno quello che pensavo di fare.»
Lasciò la macchina nel parcheggio del supermercato di fronte alla banca e dal baule prese la cassetta di metallo, un blocco di carta e un paio di manette. Si ammanettò la cassetta al polso sinistro. La neve continuava a cadere. Poi indossò un berretto blu a punta, e con il velcro si attaccò il cartellino al taschino della giacca. A quel punto cominciò ad assumere un’andatura goffa e pesante. Sembrava un vecchio poliziotto in pensione e, chissà come, gli era spuntata anche una bella pancia.
«Adesso» disse «tu vai a comperare qualcosa nel supermercato e poi ti fermi nei paraggi del telefono. Se qualcuno ti chiede che cosa stai facendo, rispondi che aspetti una telefonata dalla tua fidanzata che è rimasta in panne.»
«E perché mi dovrebbe chiamare proprio al telefono del supermercato?»
«A me lo domandi?»
Wednesday si infilò un paio di paraorecchi rosa chiaro e chiuse il baule della macchina. Sul cappello scuro e sui paraorecchi si stavano posando i fiocchi di neve.
«Come sto?» chiese.
«Sei ridicolo.»
«Ridicolo?»
«Fesso, se preferisci.»
«Mmm. Ridicolo e fesso. Molto bene.» Sorrise. I paraorecchi gli davano un’aria che era insieme rassicurante, spiritosa e, in fondo in fondo, amabile. Attraversò la strada con un’andatura dinoccolata e percorse l’isolato in cui sorgeva il palazzo della banca, mentre Shadow entrava nell’ingresso del supermercato e restava a guardare.
Wednesday attaccò sullo sportello del bancomat e della cassa continua un grosso cartello con la scritta FUORI SERVIZIO. Coprì l’apertura con una fotocopia tenuta da una striscia di nastro adesivo rosso. Shadow lesse divertito.
CI SCUSIAMO PER IL DISAGIO. STIAMO LAVORANDO PER MIGLIORARE IL SERVIZIO.
Poi Wednesday si voltò verso la strada. Aveva un’aria infreddolita e stanca.
Una giovane donna si avvicinò allo sportello. Scuotendo la testa Wednesday le spiegò che non funzionava. Lei imprecò, si scusò per aver imprecato e scappò via.
Accostò un’automobile e ne scese un uomo con un piccolo sacco grigio e una chiave. Shadow restò a guardare Wednesday che si scusava, gli faceva firmare un foglio del suo blocco, controllava il modulo del versamento e scrupolosamente gli scriveva la ricevuta, aveva un attimo di perplessità nel decidere quale fosse la copia che doveva tenere per sé e infine apriva la grossa cassetta di metallo per mettere al sicuro il sacco grigio del cliente.
L’uomo intanto batteva i piedi rabbrividendo per il freddo, aspettando impaziente che il vecchio agente la finisse con quelle stupidaggini burocratiche e non lo trattenesse sotto la neve, poi prese la ricevuta, risalì sulla sua automobile ben riscaldata e si allontanò.
Wednesday attraversò la strada trascinandosi la cassa di metallo ammanettata al polso e nel bar del supermercato ordinò un caffè.
«Buonasera, giovanotto» disse ridacchiando come un vecchio zio quando passò accanto a Shadow. «Freddino, eh?»
Poi ritornò dall’altra parte dove continuò a ritirare sacchi grigi e buste da quelli che venivano a depositare gli incassi o gli stipendi del sabato pomeriggio, un bel vecchio agente di sicurezza con un buffo paraorecchi rosa.
Shadow comperò qualcosa da leggere — "Turkey Hunting", "People" e, per via della foto accattivante di Bigfoot in copertina, anche il "Weekly World News" — e rimase a fissare fuori dalla finestra.
«Posso fare qualcosa?» chiese un nero di mezza età con i baffi bianchi. Sembrava il direttore.
«Grazie, amico, non ho bisogno di niente. Sto aspettando una telefonata dalla mia fidanzata che è rimasta in panne.»
«Sarà la batteria» rispose l’altro. «Si dimenticano tutti che le batterie non durano più di tre o quattro anni. Per fortuna non costano un capitale.»
«Non lo dica a me» rispose Shadow.
«Aspetta pure qui, giovanotto» disse il direttore, e rientrò nel negozio.
La neve aveva trasformato la strada in una di quelle palle di vetro in cui cadono i fiocchi, se le si capovolge, perfetta in ogni dettaglio.
Shadow guardava ammirato. Non riusciva a sentire le conversazioni che si svolgevano dall’altra parte e aveva l’impressione di assistere a un film muto, tutto smorfie e pantomime: il vecchio agente era burbero, onesto, magari un po’ pasticcione, ma pieno di buona volontà. Tutti quelli che gli affidavano i loro soldi se ne andavano un po’ più contenti, dopo averlo incontrato.
E poi una macchina della polizia si fermò davanti alla banca e anche il cuore di Shadow si fermò. Wednesday salutò toccandosi la visiera del berretto e si avvicinò lentamente. Strinse la mano ai poliziotti dal finestrino, poi rovistò nelle tasche in cerca di un biglietto da visita e di una lettera che fece passare sempre dal finestrino. Quindi finì di bere il caffè.
Quando squillò il telefono Shadow alzò il ricevitore e fece del suo meglio per sembrare annoiato. «Al Security Services» disse.
«Posso parlare con A. Haddock?» domandò il poliziotto seduto nella macchina ferma dall’altra parte della strada.
«Sono io» disse Shadow.
«Sì, signor Haddock, siamo della polizia» disse il poliziotto. «Avete un uomo alla First Illinois Bank all’angolo tra Market Street e la Second?»
«Ehm… sì, è esatto. Jimmy O’Gorman. C’è qualche problema, agente? Jim si comporta bene? Non ha bevuto, per caso?»
«Nessun problema. Il vostro uomo è a posto. Volevamo solo controllare che fosse tutto regolare.»
«Dica a Jim che se lo becchiamo un’altra volta a bere è licenziato. Ha capito? Lo sbattiamo per strada. Sotto un ponte. Alla Al la parola d’ordine è tolleranza zero.»
«Non credo di dover essere io a dirgli una cosa simile. Comunque sta facendo un ottimo lavoro. Ci siamo preoccupati perché un servizio di questo genere dovrebbe essere svolto da due agenti, secondo noi. E rischioso lasciare un uomo solo e per di più disarmato con grandi quantità di soldi.»
«Non me ne parli. Anzi, vada a parlarne direttamente con quei taccagni della First Illinois. Perché sono i miei uomini che mando a rischiare il collo. Uomini a posto. Gente come voi.» Shadow cominciava ad appassionarsi al ruolo. Stava diventando Andy Haddock con un sigaro da due soldi nel portacenere e un mucchio di cartacce da smaltire entro sera, una casetta a Schaumburg e l’amante in un appartamentino di Lake Shore Drive. «A proposito, lei mi sembra un agente sveglio, come ha detto che si…»
«Myerson.»
«Agente Myerson. Se le facesse comodo lavorare nei fine settimana, o se per caso lasciasse il corpo di polizia, per qualsiasi motivo, ci faccia una telefonata. Siamo sempre in cerca di uomini a posto. Ha il mio biglietto?»
«Sì.»
«Non lo perda» disse Andy Haddock. «E mi telefoni.»
La macchina della polizia si allontanò e Wednesday ripercorse lentamente il tratto di strada coperto di neve per tornare dalla piccola fila di gente che lo stava aspettando per versare i soldi.
«Tutto a posto?» chiese il direttore del supermercato facendo capolino dalla porta. «La fidanzata, voglio dire?»
«Era proprio la batteria» rispose Shadow. «Adesso devo solo aspettare.»
«Le donne» esclamò l’altro. «Spero che la tua meriti l’attesa.»
Il buio invernale arrivò trasformando piano piano in notte il grigio pomeriggio. Si accesero le luci. Altre persone vennero a consegnare i loro soldi a Wednesday. All’improvviso, come reagendo a un segnale che Shadow non aveva colto, il vecchio agente O’Gorman si avvicinò allo sportello, staccò i cartelli e faticosamente cominciò ad attraversare la strada fangosa diretto verso il parcheggio. Shadow aspettò un momento e poi lo raggiunse.
Wednesday era seduto sul sedile posteriore. Aveva aperto la cassetta di metallo e stava sistemando ordinatamente i mucchietti di denaro.
«Metti in moto» disse. «Andiamo alla First Illinois Bank sulla State Street.»
«Ripetiamo la scena? Non è un po’ troppo sfidare la sorte?»
«Per niente» rispose Wednesday. «Adesso facciamo un versamento.»
Mentre Shadow guidava, l’altro, sul sedile posteriore, eliminava dai sacchi gli assegni e le ricevute delle carte di credito e sfilava i contanti dalle buste, ma non da tutte. Mise il denaro nella cassetta. Shadow si fermò davanti alla banca, a una cinquantina di metri dall’ingresso, ben lontano dalla telecamera. Wednesday scese e infilò le buste dentro la fessura della cassa continua. Poi aprì lo sportello grande e vi infilò anche i sacchetti. Lo richiuse.
Tornò in macchina, questa volta accanto al posto di guida. «Prendiamo la I-90» disse. «Segui le indicazioni per Madison, in direzione ovest.»
Shadow ripartì.
Wednesday si voltò a guardare la banca da cui si stavano allontanando. «Ecco fatto» disse tutto allegro, «questo confonderà le acque. In effetti per fare davvero un bel gruzzolo bisogna piazzarsi davanti allo sportello alle quattro e mezzo di domenica mattina, quando i bar e i locali notturni vanno a depositare gli incassi della notte. Se ti fai trovare davanti alla banca giusta, e incontri gli uomini giusti — cercano di prenderli grandi e grossi ma con l’aria onesta, e qualche volta sono accompagnati da un paio di buttafuori del locale, ma non sono necessariamente furbi — dopo poche ore puoi tornare a casa anche con duecentocinquantamila dollari.»
«Perché non lo fanno tutti, se è così facile?»
«Non è un’attività del tutto priva di rischi» rispose Wednesday, «specialmente alle quattro e mezzo del mattino.»
«Vuoi dire che alle quattro e mezzo i poliziotti sono più sospettosi?»
«Per niente. Però i buttafuori sì. E le cose si possono mettere male.»
Prese una mazzetta di banconote da cinquanta, ne aggiunse un mucchietto più piccolo da venti, le soppesò in mano e poi le passò a Shadow. «Tieni» disse. «Il salario della tua prima settimana di lavoro.»
Shadow infilò i soldi in tasca senza contarli. «Allora è questo che fai per guadagnarti da vivere?»
«Di rado. Solo quando ho bisogno di tirare su un mucchio di soldi in poco tempo. In genere me li faccio dare da gente che non si accorge nemmeno di avermeli dati, che non va a lamentarsi e che quando torno dalle loro parti si rimette quasi sempre in fila per darmene ancora un po’.»
«Quel tipo, Sweeney, ha detto che sei un imbroglione.»
«Aveva ragione. Ma imbrogliare è l’ultima delle mie specialità. E anche l’ultima delle cose che voglio da te, Shadow.»
La neve continuò a scendere illuminata dai fari e spazzata dai tergicristallo, mentre procedevano nella notte. L’effetto era quasi ipnotico.
«Questo è l’unico paese al mondo che si domanda chi è» disse Wednesday.
«In che senso?»
«Tutti gli altri sanno chi sono. Nessuno ha bisogno di andare a cercare il cuore della Norvegia. O l’anima del Mozambico. Sanno chi sono.»
«E poi…»
«Niente, pensavo a voce alta.»
«Sei stato in molti paesi, sembrerebbe.»
Wednesday non parlò. Shadow si girò a dargli un’occhiata. «No» disse infine il vecchio con un sospiro. «No. Non sono mai stato da nessuna parte.»
Si fermarono a fare benzina e Wednesday, ancora vestito da guardia giurata, andò in bagno con la valigia e ne uscì con un abito chiaro e un paio di scarpe marroni sotto un cappotto marrone lungo fino alle ginocchia che sembrava di fattura italiana.
«Quando arriviamo a Madison che cosa succede?»
«Prendi la Highway Fourteen a ovest per Spring Green. Dobbiamo incontrarci con gli altri in un posto che si chiama House on the Rock. Ci sei mai stato?»
«No» rispose Shadow. «Però ho visto i cartelli.»
Le segnalazioni per la House on the Rock erano ovunque, in quella parte del mondo: indicazioni ambigue e misteriose ovunque nell’Illinois e nel Minnesota e nel Wisconsin, probabilmente anche fin nell’Iowa, sospettava Shadow, cartelli che informavano dell’esistenza della casa sulla roccia. Li aveva notati e si era chiesto di cosa si trattasse. Forse la casa era pericolosamente in bilico sulla roccia? Che cos’aveva quella roccia di tanto interessante? E la casa? Ci aveva pensato e poi se n’era dimenticato subito. Visitare le mete turistiche non era nelle sue abitudini.
Lasciarono l’Interstate a Madison, superarono la cupola del palazzo del governo, un’altra scena perfetta per la palla con la neve che cade, e imboccarono la provinciale. Dopo quasi un’ora di attraversamenti di cittadine con nomi come Black Earth, svoltarono in un sentiero fiancheggiato da alcuni enormi vasi di fiori innevati avviluppati nelle spire di draghi che somigliavano a lucertole. Il parcheggio alberato era quasi vuoto.
«Stanno per chiudere» annunciò Wednesday.
«È questo, il famoso posto?» chiese Shadow mentre attraversavano il parco per entrare in un anonimo edificio di legno.
«È una meta turistica» disse Wednesday. «Una delle più belle. Il che significa che è un luogo di potere.»
«Come, prego?»
«Semplice. Negli altri paesi, nel corso del tempo, la gente si è accorta dei luoghi di potere. A volte si tratta di una formazione naturale, altre volte di un posto in qualche modo speciale. Sapevano che lì succedeva qualcosa di importante, che c’era una concentrazione di energia, un canale di comunicazione, una finestra aperta nell’Immanenza. E perciò vi costruivano templi e cattedrali, oppure erigevano cerchi di pietra, oppure… be’, hai capito il concetto.»
«Sì, però l’America è piena di chiese» disse Shadow.
«Ce n’è una in ogni città. O addirittura in ogni quartiere. E nel contesto attuale non rivestono più significato di uno studio dentistico. No, negli Stati Uniti d’America capita ancora che la gente si senta chiamata, perlomeno qualcuno, attirata dal vuoto trascendente, una chiamata a cui rispondono costruendo qualcosa di ispirato alle bottiglie di birra di posti dove non sono mai stati, o erigendo una voliera gigantesca per pipistrelli in una zona del paese dove i pipistrelli non si sono mai visti. Mete turistiche: la gente si sente attirata da luoghi dove in altre zone del mondo verrebbe in contatto con la parte autenticamente trascendente di sé, e invece va lì, si compera un panino col wurstel e fa quattro passi sperimentando un senso di soddisfazione che non riesce a descrivere bene e, a un livello più profondo, un estremo senso di insoddisfazione.»
«Hai delle teorie piuttosto pazzesche» disse Shadow.
«Non c’è niente di teorico in quello che dico, giovanotto» ribatté Wednesday. «Ormai dovresti averlo capito.»
C’era un unico sportello aperto. «Smettiamo di vendere i biglietti tra mezz’ora» disse la ragazza. «La visita dura minimo due ore.»
Wednesday pagò in contanti.
«Dov’è la roccia?» chiese Shadow.
«Sotto la casa» rispose Wednesday.
«Dov’è la casa?»
Wednesday si portò un dito alle labbra e si avviarono. Dentro c’era un pianista che si sforzava di suonare il Bolero di Ravel. Sembrava il pied-à-terre di uno scapolo degli anni Sessanta riconfigurato in maniera geometrica, con pietra a vista, una spessa moquette e lampade di vetro colorato a forma di fungo simpaticamente orrende. In cima a una scala a chiocciola c’era un’altra stanza zeppa di cianfrusaglie.
«Dicono che sia stata costruita dal gemello malvagio di Frank Lloyd Wright» disse Wednesday. «Frank Lloyd Wrong.» E ridacchiò della battuta.
«L’ho visto scritto su una maglietta» disse Shadow.
Su e giù per altre scale e adesso erano finiti in una stanza lunga, molto lunga, tutta di vetro, che si sporgeva a picco sopra la campagna spoglia, bianca e nera. Shadow rimase a osservare i fiocchi di neve che cadevano vorticando.
«È questa, la House on the Rock?» domandò perplesso.
«Più o meno. Questa è la Sala dell’Infinito, che fa parte della casa, anche se si tratta di un’aggiunta tardiva. Comunque no, giovane amico, non ci siamo nemmeno avvicinati alla superficie di ciò che la casa ha da offrire.»
«Secondo la tua teoria» disse Shadow «Disney World sarebbe il luogo più sacro d’America.»
Wednesday aggrottò la fronte e si accarezzò la barba. «Walt Disney ha comperato un aranceto in mezzo alla Florida e ci ha costruito sopra una grande meta turistica. Non c’è niente di magico. Credo che nella Disneyland originale ci fosse qualcosa di vero, una specie di potere, magari perverso, e difficilmente accessibile. Ma in Florida ci sono posti pieni di autentica magia. Basta tenere gli occhi aperti. Ah, in quanto alle ondine di Weeki Wachee… Seguimi da questa parte.»
C’era musica dappertutto: una musica stridula, strana, spesso leggermente stonata. Wednesday infilò una banconota da cinque dollari in un distributore e ne ritirò una manciata di gettoni di metallo giallo ottone. Ne lanciò uno a Shadow che lo prese al volo e, siccome c’era un bambino che lo stava osservando, lo tenne per un istante tra pollice e indice e lo fece sparire. Il bambino corse dalla madre, intenta a studiare una delle innumerevoli raffigurazioni di Santa Claus — OLTRE SEIMILA ESEMPLARI IN MOSTRA! diceva il cartello — e la strattonò con urgenza per l’orlo del cappotto.
Shadow seguì Wednesday fuori per qualche istante, poi presero la direzione per le Strade di Ieri.
«Quarant’anni fa» attaccò Wednesday «Alex Jordan — sul gettone che hai fatto sparire nella mano destra c’è la sua faccia — ha cominciato a costruire una casa su una sporgenza rocciosa in un terreno che non era di sua proprietà, e lui stesso non avrebbe saputo dire perché. E la gente veniva a vederlo costruire: i curiosi e i perplessi, e quelli che non erano né curiosi né perplessi e che in tutta onestà non ti avrebbero saputo dire perché erano venuti. Quindi fece quello che avrebbe fatto qualsiasi ragionevole maschio americano della sua generazione: cominciò a chiedere ai visitatori di pagare un biglietto, non molto, cinque centesimi, forse. O venticinque. Continuò a costruire e la gente continuava a venire a vedere.
«Così prese tutte quelle monete da cinque e venticinque centesimi e si dedicò a un’impresa strana e grandiosa. Sotto la casa costruì questi depositi e li riempì di cose che la gente potesse ammirare e la gente venne ad ammirarli. Ogni anno vengono milioni di visitatori.»
«Perché?»
Wednesday si limitò a sorridere ed entrarono nelle Strade di Ieri, alberate e fiocamente illuminate. Bambole vittoriane di porcellana con le faccine atteggiate a un sorriso composto fissavano in gran numero dalle vetrinette polverose come in un film dell’orrore d’altri tempi. Ciottoli sotto i piedi, una volta scura sopra la testa, musica stridula di sottofondo. Superarono una bacheca di vetro piena di burattini rotti e un’altra che conteneva un’enorme scatola armonica. Passarono davanti allo studio del dentista e al negozio del droghiere (RITROVA LA TUA POTENZA! USA LA CINTURA MAGNETICA O’LEARY!).
In fondo c’era una grande bacheca con un manichino dalle fattezze femminili vestito da zingara chiromante.
«Dunque» urlò Wednesday per sovrastare la musica meccanica, «all’inizio di ogni ricerca e di ogni impresa si conviene consultare le Norne. Perciò stabiliamo che questa Sibilla sia la nostra Urdar, d’accordo?» Infilò un gettone nella fessura. La zingara sollevò un braccio con movimenti meccanici, a scatti, e poi lo riabbassò. Dalla fessura apposita uscì un foglietto.
Wednesday lo prese, lo lesse, ripiegandolo brontolò qualcosa e se lo infilò in tasca.
«Non me lo fai vedere? Io ti faccio vedere il mio» disse Shadow.
«Il destino di un uomo è faccenda privata» rispose Wednesday severo. «Non ti chiederei mai di leggere il tuo responso.»
Shadow infilò il gettone e prese il foglietto di carta. Lo lesse.
Shadow fece una smorfia. Ripiegò il foglietto e lo infilò nella tasca interna della giacca.
Poi proseguirono lungo un corridoio rosso, attraverso stanze piene di sedie su cui erano appoggiati violini e viole e violoncelli che suonavano da soli, o perlomeno sembravano suonare da soli, se ci infilavi un gettone. I tasti si abbassavano, i piatti sbattevano con frastuono, sistemi di tubi soffiavano aria dentro oboi e clarinetti. Shadow osservò, con disappunto e divertimento, che gli archi degli strumenti a corde suonati da bracci meccanici non toccavano mai veramente le corde, che spesso erano allentate o mancavano del tutto. Si chiese se la musica che sentiva fosse prodotta soltanto dagli strumenti o se ci fossero anche nastri registrati.
Avevano percorso chilometri, sembrava, quando arrivarono in una stanza chiamata Mikado, dove una delle pareti era un incubo ottocentesco pseudorientale con percussionisti meccanici dalle sopracciglia sporgenti che picchiavano piatti e tamburi fissando il mondo dalla loro tana incrostata di draghi. Al momento stavano magistralmente torturando la Danse Macabre di Saint-Saëns.
Seduto sulla panchina di fronte al meccanismo c’era Chernobog che batteva il tempo con le dita. I fiati stridevano, le campanelle tintinnavano.
Wednesday gli si sedette accanto, mentre Shadow decise di rimanere in piedi. Chernobog tese la mano sinistra e la strinse a entrambi. «Piacere di rivedervi» disse. Poi si appoggiò allo schienale con tutta l’aria di godersi la musica.
La Danse Macabre arrivò a una fine tumultuosa e discordante. Il lieve difetto di intonazione degli strumenti contribuiva ad accrescere l’atmosfera ultraterrena del luogo. Un brano nuovo cominciò.
«Come è andata la rapina?» chiese Chernobog. «Tutto bene?» Si era alzato ma continuava a trattenersi, come se gli dispiacesse lasciare il Mikado e la sua musica stridula e roboante.
«Liscio come l’olio» rispose Wednesday.
«Io prendo la pensione dal mattatoio» spiegò Chernobog. «Non chiedo altro.»
«Non durerà per sempre» disse Wednesday. «Niente dura per sempre.»
Altri corridoi, altre macchine musicali. Shadow si rese conto che invece di seguire il percorso consigliato ai visitatori stavano attraversando le stanze secondo un disegno che sembrava inventato da Wednesday. Adesso percorrevano un pendio e Shadow, perplesso, si chiese se per caso non fossero già passati, di lì.
Chernobog lo afferrò per un braccio. «Svelto, da questa parte» disse tirandolo verso una grande bacheca di vetro addossata a una parete. La bacheca conteneva il diorama di un barbone addormentato sul sagrato di una chiesa accanto al cimitero. IL SOGNO DELL’UBRIACO recitava il cartello, e continuava spiegando che si trattava di una macchina a gettone creata nel diciannovesimo secolo e proveniente da una stazione ferroviaria della Gran Bretagna. La fessura era stata modificata per ricevere il gettone d’ottone della Casa.
«Mettici un gettone» disse Chernobog.
«Perché?»
«Devi vederlo. Voglio fartelo vedere.»
Shadow inserì il gettone. L’ubriaco sdraiato sul sagrato si portò la bottiglia alle labbra. Una delle tombe si spalancò mostrando un cadavere con le mani protese; una lastra tombale girò su se stessa e al posto dei fiori comparve un teschio ghignante. A destra della chiesa spuntò un fantasma mentre a sinistra una creatura da incubo alla Bosch, appena intravista ma con una faccia pallida e appuntita da uccello, sbucò da dietro una lastra tombale e scivolò nell’ombra. A quel punto si spalancò il portone della chiesa e ne uscì un prete. Spettri, fantasmi e cadaveri scomparvero e l’ubriacone e il sacerdote rimasero soli nel cimitero. Il prete guardò l’ubriaco dall’alto in basso con disprezzo e si ritirò in chiesa chiudendosi il portone alle spalle e lasciando il poveraccio completamente solo.
Quella breve rappresentazione meccanica faceva un effetto molto inquietante. Turbava molto più di quanto dovrebbe essere consentito a un meccanismo, pensò Shadow.
«Sai perché te l’ho fatto vedere?» chiese Chernobog.
«No.»
«Perché così è il mondo. Quello è il mondo reale. È lì, dentro quella bacheca.»
Attraversarono una stanza con le pareti color sangue che ospitava vecchi organi con canne enormi e tini giganteschi, per la fermentazione della birra, si sarebbe detto, presi da chissà quale fabbrica.
«Dove stiamo andando?» chiese Shadow.
«Alla giostra» disse Chernobog.
«Ma siamo già passati davanti al cartello che indicava la giostra almeno dieci volte.»
«Lui va da questa parte. Seguiamo una spirale. Qualche volta la strada più breve è la più lunga.»
A Shadow cominciavano a far male i piedi e trovava la sensazione estremamente inverosimile.
In una stanza che si sviluppava verso l’alto per molti piani un meccanismo suonava Octopus’s Garden; il centro era completamente occupato da una copia di un’enorme balena nera che nella gigantesca bocca di vetroresina aveva fagocitato una barca a grandezza naturale. Da questa stanza passarono nella Sala del Viaggio, dove videro un’automobile coperta di piastrelle, la realizzazione, funzionante, dell’attrezzo inventato da Rube Goldberg per tirare il collo ai polli, e alle pareti i cartelloni pubblicitari arrugginiti di Burma Shave.
È dura la vita
Quanta pena e fatica
E la barba sempre da fare
Burma Shave
diceva un cartellone, e l’altro:
Gli prese la mania di sorpassare
Ma la strada era tutta curve
Così adesso il suo unico vicino
è il becchino…
Burma Shave
e adesso erano in fondo a una rampa e davanti a loro c’era una gelateria. Era aperta, in teoria, ma la ragazza che stava lavando i ripiani aveva un’espressione chiusa, quindi passarono oltre ed entrarono in un bar pizzeria deserto, con un unico avventore, un anziano uomo di colore con un completo a vistosi quadretti e un paio di guanti giallo canarino. Era piccolo e magro, il tipo di ometto che con il passare degli anni sembra rinsecchirsi, però stava mangiando un’enorme coppa di gelato tuttigusti accompagnata da una tazza di caffè di proporzioni gigantesche. Nel portacenere sul tavolo bruciava un sigarette nero.
Wednesday disse a Shadow: «Tre caffè» e andò in bagno.
Shadow prese i caffè e li portò dove si era seduto Chernobog, cioè al tavolo con il vecchietto. Chernobog stava fumando con aria furtiva una sigaretta, come se temesse di essere colto sul fatto. L’altro mangiava felice il gelato, ignorando il suo sigaretto nel portacenere, ma quando Shadow si avvicinò lo prese, fece un tiro profondo e soffiò due anelli di fumo — uno grande, e un altro, più piccolo, che si infilò perfettamente nel primo — e sorrise come se fosse eccezionalmente soddisfatto di sé.
«Shadow, questo è il signor Nancy» disse Chernobog.
Il vecchio si alzò e tese la mano destra guantata di giallo. «Piacere di conoscerti» disse con un sorriso smagliante. «Credo di sapere chi sei. Lavori per il vecchio bastardo Monocolo, vero?» Nella sua voce c’era un leggero accento, una cantilena che avrebbe potuto essere delle Indie Occidentali.
«Lavoro per il signor Wednesday, sì» rispose Shadow. «Stia pure comodo.»
Chernobog fumava la sua sigaretta.
«Penso» annunciò con voce tetra «che a quelli come noi piace fumare perché ci ricorda le offerte che una volta bruciavano in nostro onore, il fumo che saliva quando venivano a chiedere la nostra approvazione o il nostro favore.»
«A me non hanno mai offerto niente del genere» disse Nancy. «Al massimo potevo sperare in un cesto di frutta, o magari un po’ di capra al curry, un bicchierone di qualcosa di freddo da bere, e una donnina con due tette belle sode che mi tenesse compagnia.» Sorrise con i suoi denti candidi e strizzò l’occhio a Shadow.
«Di questi tempi» riprese Chernobog senza cambiare espressione «non abbiamo niente.»
«Be’, non mi portano nemmeno metà della frutta che mi portavano una volta» disse il signor Nancy con gli occhi che brillavano. «Però nel mondo non hanno ancora inventato niente che valga una bella donnina con le tette sode. C’è chi dice che è il sedere che va esaminato per primo, ma per me sono sempre le tette che riescono a mettermi in moto in una mattina fredda.» Nancy cominciò a ridere, una risata genuina, secca e sibilante, e Shadow, suo malgrado, lo trovò simpatico.
Wednesday tornò dal bagno e strinse la mano a Nancy. «Vuoi qualcosa da mangiare, Shadow? Una fetta di pizza? Un panino?»
«Non ho fame.»
«Lascia che ti dica una cosa» si intromise il signor Nancy. «Può passare molto tempo tra il pranzo e la cena, perciò quando qualcuno ti offre del cibo devi dire di sì. Io non sono più un giovanotto, eppure ti assicuro che non dico mai di no alla possibilità di pisciare, mangiare o schiacciare un pisolino di mezz’ora. Mi segui?»
«Sì. Ma non ho fame, davvero.»
«Sei grande e grosso» disse Nancy fissando con i suoi vecchi occhi color mogano quelli grigio chiaro di Shadow, «grande e scemo, devo dire, non mi sembri per niente sveglio. Ho un figlio, stupido che più stupido non si può, e tu me lo ricordi.»
«Se non le dispiace lo prendo come un complimento» disse Shadow.
«Ti sembra un complimento essere chiamato scemo come chi è rimasto a dormire il giorno in cui distribuivano l’intelligenza?»
«Pensavo di più al fatto di essere paragonato a un membro della sua famiglia.»
Il signor Nancy spense il sigaretto, poi scacciò un immaginario puntolino di cenere da un guanto. «Forse ripensandoci non sei il tipo peggiore che il vecchio Monocolo si potesse procurare.» Guardò Wednesday. «Hai qualche idea di quanti saremo, stasera?»
«Ho mandato il messaggio a quelli che sono riuscito a contattare» rispose l’altro. «Ovviamente non ce la faranno tutti. E qualcuno» indicò Chernobog con un’occhiata «magari non vuole venire. Penso che ce ne potremmo aspettare qualche decina senza problemi. E ci sarà un passaparola.»
Superarono una mostra di armature («falsi vittoriani» dichiarò Wednesday davanti alle bacheche, «falsi moderni, elmo del dodicesimo secolo sopra una riproduzione del diciassettesimo, lungo guanto sinistro di ferro del quindicesimo…») e poi Wednesday aprì una porta con la scritta "Uscita" e fece fare a tutti il giro dell’edificio («Io non mi ci raccapezzo con tutti questi fuori e dentro» disse Nancy, «non sono più giovane come una volta e poi vengo da climi più miti»), percorsero una passerella coperta, uscirono da un’altra porta e arrivarono nella Sala del Carosello.
La musica proveniva da un organetto, un’esecuzione commovente e ogni tanto dissonante di un valzer di Strauss. Sul muro appena dentro la sala erano appesi antichi cavalli delle giostre, centinaia di cavalli, alcuni bisognosi di una mano di vernice, altri di una bella ripulita; sopra i cavalli pendevano decine di angeli, con tanto d’ali, ricavati evidentemente da manichini; alcuni mostravano il petto asessuato, altri avevano perso la parrucca e fissavano, calvi e ciechi, dal buio.
E poi c’era il carosello.
Un cartello spiegava che si trattava della più grande giostra del genere al mondo, ne specificava il peso e il numero delle lampadine che scendevano in gotica profusione dal lampadario centrale, e proibiva a chiunque di salire o montare gli animali.
E che animali! Shadow rimase a fissare sbalordito lo spettacolo di centinaia di creature a grandezza naturale che occupavano la piattaforma della giostra. Creature reali, creature immaginarie, e trasformazioni delle due categorie: ognuna diversa dall’altra. Vide una sirena e un tritone, un centauro e un unicorno, elefanti (uno enorme e uno minuscolo), un bulldog, una rana e una fenice, una zebra, una tigre, manticora e basilisco, cigni che trainavano una carrozza, un bue bianco, una volpe, due trichechi gemelli, anche un serpente marino, tutti dipinti con colori vivaci e più che realistici: e tutti giravano sulla piattaforma mentre un valzer finiva e un altro ricominciava. La giostra non rallentava nemmeno.
«Ma che senso ha?» chiese Shadow. «D’accordo, voglio dire, è la più grande del mondo, ci sono centinaia di animali, migliaia di lampadine, e continua a girare, però nessuno ci può salire.»
«Non è qui perché qualcuno ci salga, perlomeno non la gente comune» rispose Wednesday. «È qui per essere ammirata. E qui per essere.»
«Come la ruota della preghiera che gira all’infinito» aggiunse il signor Nancy. «Accumulando potere.»
«Dov’è che dobbiamo incontrare gli altri?» domandò Shadow. «Credevo che avessi detto che li avremmo incontrati qui. Invece non c’è nessuno.»
Wednesday gli fece il suo sorriso terrificante. «Fai troppe domande» disse. «Non sei pagato per fare domande.»
«Scusa.»
«Adesso mettiti lì e aiutaci a salire» continuò Wednesday avvicinandosi alla piattaforma dove c’era un altro cartello con la descrizione della giostra e il divieto di salire.
Shadow fu sul punto di obiettare; invece si limitò ad aiutarli ad arrampicarsi, uno dopo l’altro. Wednesday era incredibilmente pesante, Chernobog se la cavò da solo usando una spalla di Shadow per appoggio e Nancy sembrava non pesare niente. Una volta sul bordo i tre uomini passarono con un saltino sulla piattaforma rotante.
«Allora» abbaiò Wednesday. «Non vieni?»
Non senza una certa esitazione, e solo dopo aver gettato rapidamente un’occhiata in giro per vedere se qualcuno dei guardiani della casa non li stesse osservando, Shadow salì sul bordo del più grande carosello del mondo. Lo divertì e lo stupì scoprire che l’idea di contravvenire al divieto di salire sulla giostra lo preoccupava molto più di quanto non lo avesse preoccupato rapinare la banca, quel pomeriggio.
I tre vecchi scelsero ciascuno un animale. Wednesday montò un lupo dorato. Chernobog cavalcò un centauro con l’armatura e la testa nascosta da un elmo di metallo. Ridacchiando Nancy scivolò sopra un leone rampante fermato dal suo autore nel momento del ruggito. Gli accarezzò un fianco. Il valzer di Strauss li trasportò grandiosamente lontano.
Wednesday sorrideva e Nancy rideva contento, una risata chioccia da vecchio, e perfino il lugubre Chernobog sembrava godersela. Shadow ebbe l’impressione di togliersi di colpo un peso dalle spalle: tre vecchi si stavano divertendo in groppa agli animali della più grande giostra del mondo. Che importanza aveva se di lì a poco sarebbero stati buttati fuori tutti quanti? Non ne valeva la pena, forse? Non valeva la pena di pagare qualcosa per poter dire di essere salito sulla giostra più grande del mondo? Per poter dire di aver viaggiato su uno di quei mostri gloriosi?
Studiò il bulldog, una creatura marina e l’elefante con il palanchino dorato, poi montò sopra un essere con la testa d’aquila e il corpo di tigre, e si aggrappò bene.
Le note del Danubio Blu risuonavano argentine anche nella sua testa, la luce di mille lampadine si scomponeva nei colori dell’iride, e per una frazione di secondo Shadow fu di nuovo bambino, e salire sulla giostra gli bastò per essere felice: rimase perfettamente immobile, a cavallo della sua aquila-tigre al centro del mondo, con il mondo che gli vorticava intorno.
Si sentì ridere, sopra la musica. Era felice. Felice come se le ultime trentasei ore non fossero mai accadute, come se non fossero mai accaduti gli ultimi tre anni, come se la vita fosse evaporata nel sogno a occhi aperti della fanciullezza, la giostra al Golden Gate Park di San Francisco, quand’era arrivato per la prima volta negli Stati Uniti, una vera e propria maratona via nave e auto, la madre in piedi che lo guardava tutta fiera e lui che succhiava il ghiacciolo mezzo sciolto, e si teneva aggrappato stretto stretto, augurandosi che la musica non si spegnesse, che la giostra non rallentasse, che la corsa non finisse. Girava e girava e girava…
Poi le luci si spensero e Shadow vide gli dèi.
Spalancati e indifesi i nostri cancelli
Lasciano passare una moltitudine variopinta e sfrenata.
Uomini del Volga e delle steppe tartare.
Creature indistinguibili dall’Hoang-ho,
Malesi, sciti, teutonici, celti e slavi,
In fuga dalla povertà e dal disprezzo patiti nel Vecchio Mondo.
Qualcuno porta con sé dèi e riti sconosciuti,
Qualcuno è violento come una tigre pronta a tirar fuori gli artigli,
Nelle strade e nei vicoli quali strani idiomi sono mai questi,
Accenti minacciosi ai nostri orecchi,
Voci che un giorno risuonarono nella Torre di Babele.
Shadow cavalcava la tigre con la testa d’aquila sulla giostra più grande del mondo e un momento dopo le luci bianche e rosse si spensero con un tremolio e lui stava cadendo in mezzo a un oceano di stelle e un frastuono ritmico, come di cimbali o di onde di un vasto mare lontano che si frangono sulla costa, prendeva il posto del valzer.
L’unica luce adesso era quella delle stelle, ma era sufficiente a illuminare ogni cosa con un freddo chiarore. Sotto di sé sentì l’animale tendere i muscoli e lanciarsi al galoppo, nella mano sinistra la pelliccia calda, nella destra le piume.
«Bella cavalcata, vero?» La voce veniva da dietro, era insieme nelle orecchie e nella mente.
Si voltò piano tracciando una scia, mentre si muoveva, istanti raggelati, ciascuna figura della scia catturata in una frazione di secondo, ogni minimo movimento che durava per un tempo infinito. Le immagini che raggiungevano il cervello non avevano senso: era come vedere il mondo attraverso gli occhi, sfaccettati come gemme, di una libellula, ma ogni faccia vedeva qualcosa di completamente diverso, e lui non riusciva a combinare le cose che vedeva, o che pensava di vedere, in una figura intera dotata di significato.
Stava osservando il signor Nancy, un vecchietto di colore con i baffetti sottili, la giacca sportiva a quadri e i guanti color limone, a cavallo di un leone che si alzava e abbassava sulla piattaforma della giostra, alto nell’aria; e allo stesso tempo, nello stesso punto, vedeva un ragno ingioiellato grande come un cavallo, gli occhi una nebulosa smeraldina, che lo fissava tronfio e impettito, e contemporaneamente un uomo di altezza incredibile con la pelle color tek e tre paia di braccia che indossava una fluente acconciatura di piume di struzzo, la faccia dipinta a righe rosse, aggrappato alla criniera di un nervoso leone dorato con due delle sei mani; e vedeva anche un ragazzino nero vestito di stracci, il piede sinistro gonfio e pieno di mosche; per ultimo, dietro tutte queste cose, Shadow vedeva un minuscolo ragno nero nascosto sotto una foglia appassita d’ocra.
Tutte queste cose, vide Shadow, sapendo che si trattava di un’unica cosa.
«Se non chiudi la bocca» dissero le molte cose che erano il signor Nancy «ci volerà dentro una mosca.»
Shadow la chiuse e deglutì, a fatica.
C’era una costruzione di legno in cima alla collina, a quasi due chilometri. Vi si stavano dirigendo al trotto, ma zampe e zoccoli delle cavalcature non facevano rumore sulla sabbia lungo il mare.
Chernobog procedeva sul suo centauro ad andatura sostenuta. Batté un colpetto sul braccio, umano, della creatura. «Niente di tutto questo sta succedendo veramente» disse rivolto a Shadow. Sembrava infelice. «È tutto nella tua testa. Meglio non pensarci.»
Shadow vide un vecchio immigrato dell’Europa dell’Est con un impermeabile frusto e un dente color ferro. Ma vide anche una cosa tozza e nera, più nera delle tenebre che li circondavano, gli occhi due carboni ardenti; e vide un principe con i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle e i baffi folti, le mani e la faccia coperte di sangue, che cavalcava completamente nudo eccetto per una pelle d’orso gettata su una spalla, in groppa a una creatura metà uomo e metà bestia, con la faccia e il torso tatuati di spirali e turbini bluastri.
«Chi sei?» gli chiese Shadow. «Cosa sei?»
Procedevano lungo la spiaggia. Le onde si frangevano inesorabili sulla riva buia.
In groppa al suo lupo — un animale enorme e scuro, adesso, con gli occhi verdi — Wednesday si avvicinò a Shadow. La sua cavalcatura caracollò, cercando di allontanarsi, ma lui le accarezzò il collo per tranquillizzarla. L’animale agitò aggressivamente la coda. Shadow si rese conto che c’era un altro lupo, gemello di quello di Wednesday, che li seguiva, tenendosi lontano dalla loro vista, lungo le dune di sabbia.
«Mi conosci, Shadow?» disse Wednesday. Cavalcava il suo lupo a testa alta. L’occhio destro brillava e sprigionava lampi, il sinistro era spento. Indossava un mantello con un grande cappuccio, come quello di un monaco, e la sua faccia spiccava nel buio. «Avevo detto che non ti avrei taciuto i miei nomi. Ecco come mi chiamano. Mi chiamano Felice-della-Guerra, Spietato, Furore e Terzo. Sono Monocolo, l’Altissimo, e Colui che Vede il Vero. Mi chiamano Grimnir, sono l’Incappucciato. Sono il Padre Universale, e sono Gondlir, portatore del bastone. Ho tanti nomi quanti sono i venti, tanti titoli quanti sono i modi per morire. I miei corvi sono Hugin e Munin, Pensiero e Memoria; i miei lupi sono Freki e Geri; il mio cavallo è la forca.» Due corvi imperiali di uno spettrale colore grigio, quasi soltanto l’involucro trasparente degli uccelli, gli si posarono sulle spalle e gli affondarono i becchi nelle tempie come se volessero assaggiare la sua mente prima di riprendere a volare nel mondo.
A cosa devo credere? pensò Shadow, e la voce gli rispose da un punto profondo nelle viscere della terra, con un rombo sordo. Credi a tutto.
«Odino?» chiamò Shadow, e il vento si portò via le sue parole.
«Odino» sussurrò Wednesday, e il fragore delle onde sulla spiaggia di teschi non era abbastanza forte per coprire il sussurro. «Odino» disse Wednesday assaporando il suono di quel nome. «Odino» ripeté in un grido trionfante che echeggiava da un orizzonte all’altro. Il nome si gonfiava, crescendo a dismisura, riempiendo il mondo come il sangue pulsante nelle orecchie di Shadow.
E poi, come in sogno, non stavano più dirigendosi verso una meta lontana. Erano già arrivati e le loro cavalcature erano legate sotto un riparo poco distante.
Una sala enorme ma primitiva: il tetto di giunchi, le pareti di legno. Al centro bruciava un fuoco il cui fumo irritò gli occhi di Shadow.
«Dovevamo farlo nella mia mente» borbottò il signor Nancy rivolto a Shadow, «non nella sua. Almeno avrebbe fatto più caldo.»
«Siamo nella sua mente?»
«Più o meno. Questa è Valaskjalf. L’antica sala, la sua dimora.»
Shadow constatò con sollievo che Nancy era tornato a essere un vecchietto con i guanti gialli, anche se la sua ombra tremolava alla luce delle fiamme e prendeva forme non del tutto umane.
Contro le pareti c’erano panche di legno e, sedute sulle panche oppure in piedi, una decina di persone in tutto. Si tenevano a distanza l’una dall’altra: un gruppetto eterogeneo, che comprendeva una donna dall’aspetto matronale con la pelle scura e il sari, alcuni uomini d’affari dall’aria trascurata e altre persone ancora, troppo vicine al fuoco perché Shadow potesse distinguerle.
«Dove sono?» chiese Wednesday a Nancy a bassa voce ma con violenza. «Dunque? Dove sono? Dovrebbero essercene decine. Centinaia!»
«Li inviti li hai fatti tu» rispose Nancy. «Credo che sia già stupefacente che siano venuti questi. Pensi che dovrei raccontare una storia per riscaldare l’ambiente?»
Wednesday scosse la testa. «È fuori discussione.»
«Non hanno un’aria molto cordiale. Una storia è un bel modo per propiziarsi qualcuno. E non hai neanche un bardo che canti.»
«Niente storie» ribadì Wednesday. «Per il momento. Dopo ci sarà tempo per le storie. Per il momento no.»
«Niente storie. D’accordo. Vado solo a riscaldare l’atmosfera.» E così dicendo il signor Nancy si avvicinò al fuoco a grandi passi e con un sorriso disinvolto.
«So che cosa state pensando tutti» disse. «State pensando, cosa vuole Compé Anansi che viene qui a parlare quando è stato il Padre Universale a convocare tutti, proprio come ha convocato me? Be’, sapete, a volte è necessario rinfrescarsi la memoria. Quando sono arrivato mi sono guardato intorno e mi sono chiesto, dove sono gli altri? Ma poi ho pensato, solo perché noi siamo pochi e loro sono tanti, solo perché noi siamo deboli e loro potenti ciò non significa che siamo perduti.
«Sapete, una volta ho visto un maschio di tigre giù alla sorgente: aveva i più grossi testicoli mai visti in un animale e gli artigli più affilati, e due canini lunghi come coltelli e taglienti come rasoi. E gli ho detto, Fratello Tigre, vai pure a farti una nuotata, te le curo io le palle. Era così fiero di quelle palle. Così lui è entrato nella pozza per farsi una nuotatina e io ho indossato le sue palle, lasciandogli in cambio le mie, piccoline, da ragno. E poi sapete che cosa ho fatto? Sono scappato con tutta la velocità consentita dalle mie zampe.
«Non mi sono fermato fino alla città successiva. E lì ho visto il Vecchio Scimmione. Hai proprio un bell’aspetto, Anansi, dice il Vecchio Scimmione. E io gli dico: Sai che cosa stanno cantando tutti quanti in quell’altra città? Che cosa cantano? mi chiede lui. Cantano una canzone molto buffa, gli dico. A quel punto mi metto a ballare e canto:
Le palle del Tigre, sì,
Me le sono mangiate.
E adesso nessuno mi ferma più,
Nessuno mi fa prepotenze
Perché mi sono mangiato le referenze:
Le palle del Tigre.
«Il Vecchio Scimmione ride a crepapelle, tenendosi la pancia e rotolandosi per terra, poi attacca a cantare Le palle del Tigre, Me le sono mangiate, schioccando le dita e piroettando. Proprio una bella canzone, dice, andrò a cantarla agli amici. Bravo, fallo, dico io e ritorno alla sorgente.
«Lì c’è il Tigre, vicino alla pozza d’acqua, che va avanti e indietro con la coda che sferza l’aria e il pelo ritto sulle orecchie e sulla schiena che di più non si potrebbe e con i denti a sciabola sbrana qualsiasi insetto gli venga a tiro e manda fiamme arancioni dagli occhi. Ha un’aria feroce e potente, fa paura, ma in mezzo alle gambe gli penzolano due palle ridicolmente piccole dentro lo scroto più piccolo e nero che si sia mai visto.
«Ehi, Anansi, dice quando mi vede. Dovevi fare la guardia alle mie palle mentre io mi facevo una nuotata. Ma quando sono uscito dalla pozza sulla riva c’erano soltanto queste due inutili palline nere e rinsecchite da ragno che porto adesso.
«Ho fatto del mio meglio, gli dico io, ma sono state le scimmie, sono arrivate e te le hanno mangiate, e quando ho detto loro di andarsene mi hanno strappato anche le mie palline. E io mi vergognavo così tanto che sono scappato.
«Sei un bugiardo, Anansi, dice il Tigre. Adesso ti mangerò il fegato. Ma a quel punto sente arrivare le scimmie. Ce n’è una dozzina che saltellano lungo il sentiero che dalla loro città porta alla sorgente e schioccano le dita e cantano con quanto fiato hanno in gola:
Le palle del Tigre, sì,
Me le sono mangiate.
E adesso nessuno mi ferma più,
Nessuno mi fa prepotenze
Perché mi sono mangiato le referenze:
Le palle del Tigre.
«Il Tigre grugnisce e ringhia e si slancia al loro inseguimento nella giungla e le scimmie si arrampicano strillando sugli alberi più alti. E io mi gratto le mie palle nuove belle grosse, e cavoli se non mi danno una bella sensazione lì penzoloni in mezzo alle zampette, e me ne torno a casa. E ancora oggi le tigri danno la caccia alle scimmie. Perciò ricordatevi tutti quanti: solo perché siete piccoli non significa che non avete potere.»
Il signor Nancy sorrise e chinò la testa, allargò le mani e accettò gli applausi e le risate come un uomo di spettacolo, poi si voltò e tornò nel punto in cui Shadow e Chernobog erano rimasti ad aspettarlo.
«Credevo di avere detto niente storie» disse Wednesday.
«La chiami una storia quella? Mi sono appena schiarito la gola. Te li ho riscaldati. Vai e stendili.»
Wednesday, un vecchio grande e grosso con un occhio di vetro in abito marrone sotto un vecchio cappotto di Armani, avanzò verso il fuoco. Rimase a guardare le persone sedute sulle panche di legno e, per molto più tempo di quello che secondo Shadow sarebbe stato lecito senza mettere nessuno a disagio, restò in silenzio. Infine parlò.
«Voi sapete chi sono» disse. «Lo sapete tutti. Qualcuno di voi non ha alcuna ragione di amarmi ma, con o senza amore, mi conoscete lo stesso.»
Tra la gente seduta sulle panche corse un brusio, un piccolo trambusto.
«Sono qui da prima di voi. Come voi ho creduto che fosse possibile cavarsela con quel che c’era. Non sufficiente per essere felici, comunque abbastanza per tirare avanti.
«Può darsi che questo ora non sia più possibile. C’è in arrivo una tempesta e non è una tempesta scatenata da noi.»
Si fermò. Fece un passo avanti e incrociò le braccia sul petto.
«Venendo in America la gente ci ha portato con sé. Hanno portato me, Loki e Thor, Anansi e il Dio-Leone, leprecauni, coboldi e banshee, Kubera e Frau Holle e Astaroth, e hanno portato voi. Siamo arrivati fin qui viaggiando nelle loro menti, e abbiamo messo radici. Abbiamo viaggiato con i coloni, attraversato gli oceani, verso nuove terre.
«Questa terra è sconfinata. Ben presto la nostra gente ci ha abbandonato, ricordandosi di noi soltanto come creature del paese d’origine, creature che credevano di non aver portato nel nuovo mondo. I nostri fedeli sono morti, o hanno smesso di credere in noi, e siamo stati lasciati soli, smarriti, spaventati e spodestati, a cavarcela con quel poco di fede o venerazione che riuscivamo a trovare. E a sopravvivere come meglio potevamo.
«E così abbiamo fatto, siamo sopravvissuti tenendoci ai margini, senza dare nell’occhio.
«Ammettiamolo, esercitiamo una ben scarsa influenza. Li deprediamo, li derubiamo, e sopravviviamo; ci spogliamo, ci prostituiamo e beviamo troppo; lavoriamo alle pompe di benzina e rubiamo e truffiamo e viviamo nelle crepe ai margini della società. Vecchi dèi, in questa nuova terra senza dèi.»
Wednesday fece una pausa per guardare i suoi ascoltatori a uno a uno con la gravita di un uomo di stato. Loro lo fissavano impassibili, i volti impenetrabili come maschere. Wednesday si schiarì la gola e sputò con violenza nel fuoco. Le fiamme si ravvivarono con fragore illuminando l’interno della dimora.
«Adesso, come avete avuto modo di scoprire da soli, in America stanno nascendo nuovi dèi che crescono sopra nodi di fede: gli dèi delle carte di credito e delle autostrade, di Internet e del telefono, della radio e dell’ospedale e della televisione, dèi fatti di plastica, di suonerie e di neon. Dèi pieni di orgoglio, creature grasse e sciocche, tronfie perché si sentono nuove e importanti.
«Sono consapevoli della nostra esistenza, ci temono e ci odiano» continuò Odino. «Vi ingannate, se credete che non sia così. Ci distruggeranno, se glielo permetteremo. È tempo per noi di unire le forze. È tempo di agire.»
La donna con il sari rosso avanzò verso i bagliori del fuoco. Sulla fronte aveva un piccolo gioiello blu scuro. Disse: «Ci hai fatti venire qui per sentire questi discorsi senza senso?». Poi sbuffò. Uno sbuffo che era insieme divertito e irritato.
Wednesday la guardò con cipiglio. «Ti ho chiesto di venire fin qui, è vero. Ma questi discorsi un senso ce l’hanno, Mama-ji. Anche un bambino se ne accorgerebbe.»
«Sarei una bambina, allora?» Gli agitò un dito contro. «Io ero già vecchia, a Kalighat, prima che tu fossi concepito, vecchio sciocco. Sarei una bambina, eh? D’accordo, lo sono, perché nei tuoi folli discorsi non c’è niente da capire.»
Ancora un momento di doppia visione: Shadow vedeva la vecchia signora, il volto scuro raggrinzito dalle rughe e dalla disapprovazione, ma dietro di lei vedeva anche qualcosa di enorme, una donna nuda e nera come una giacca di pelle nuova, con le labbra e la lingua rosse come il sangue arterioso. Intorno al collo portava una collana fatta di teschi, e nelle sue innumerevoli mani teneva coltelli, e spade, e teste mozzate.
«Non ti ho chiamata bambina, Mama-ji» disse Wednesday in tono conciliante. «Ma sembra evidente…»
«L’unica cosa evidente» ribatté la vecchia indicando con un dito (e dietro di lei, o attraverso, o sopra, un dito scuro con l’artiglio acuminato echeggiava il movimento) «è la tua brama di gloria. In questo paese abbiamo vissuto a lungo in pace. Alcuni di noi se la passano meglio di altri, è vero. Io me la cavo bene. In India c’è una mia incarnazione che se la passa molto meglio, ma così va il mondo. Non sono invidiosa. Ho visto le novità nascere e morire.» Lasciò cadere il braccio lungo il fianco. Shadow vide che gli altri la guardavano, con espressioni diverse — rispettose, divertite, imbarazzate — negli occhi. «Qui adoravano la ferrovia, meno di un battito di ciglia fa. E adesso gli dèi di ferro sono finiti nel dimenticatoio come i cercatori di smeraldi…»
«Arriva al dunque, Mama-ji» disse Wednesday.
«Al dunque?» Le narici della donna fremettero, gli angoli della bocca le si piegarono verso il basso. «Io — e ovviamente sono soltanto una bambina — dico di aspettare. Di non fare niente. Non sappiamo ancora se vogliono farci del male.»
«E continuerai a consigliarci di aspettare, quando una notte verranno per ucciderti o rapirti?»
L’espressione della donna era sprezzante e divertita: tutta concentrata nella bocca, nella fronte e nella linea del naso. «Se ci provassero» disse, «scoprirebbero che prendermi non è facile, e uccidermi più difficile ancora.»
Un giovane tarchiato che era seduto sulla panca dietro di lei si schiarì la gola per richiamare l’attenzione e con voce tonante disse: «Padre Universale, la mia gente sta bene. Cerchiamo di ricavare il massimo da quello che c’è. Se questa guerra di cui parli ci coinvolgesse potremmo perdere tutto».
«Avete già perso tutto» rispose Wednesday. «Io vi sto offrendo l’occasione di riprendervi qualcosa.»
Le fiamme bruciavano alte, mentre parlava, illuminando le facce dei presenti.
Non ci credo veramente, pensò Shadow. Non credo a niente di tutto ciò. Forse ho ancora quindici anni. La mamma è ancora viva e non ho mai incontrato Laura. Tutto quello che è successo finora è stato un sogno particolarmente vivido.Tuttavia nemmeno questa spiegazione gli sembrava plausibile. È sui sensi che fondano le nostre convinzioni, sono gli unici strumenti di cui disponiamo per fare esperienza: la nostra vista, il tatto, la memoria. Se i sensi ci mentono, allora non abbiamo niente di cui fidarci. E anche se non crediamo a ciò che ci dicono, non abbiamo altro modo per viaggiare che quello di seguire la strada che essi ci indicano, ed è una strada che dobbiamo percorrere fino in fondo.
Poi il fuoco si spense e a Valaskjalf, nella sala di Odino, scese il buio.
«E adesso?» sussurrò Shadow.
«Adesso torniamo nella Sala della Giostra» bofonchiò il signor Nancy. «E il vecchio Monocolo ci offre la cena, unge qualche tasca, bacia qualche guancia e nessuno pronuncia più la parola che comincia per d.»
«Quale parola?»
«La parola dèi. Ma che cosa facevi tu il giorno in cui distribuivano i cervelli, ragazzo, me lo vuoi dire?»
«Qualcuno stava raccontando una storia sul furto di un paio di palle di tigre e mi sono fermato per sapere come andava a finire.»
Il signor Nancy ridacchiò.
«Però non è stato deciso niente. Nessuno si è messo d’accordo.»
«Se li sta lavorando con calma. Verranno tutti dalla sua parte, vedrai, uno dopo l’altro. Alla fine si convinceranno.»
Shadow sentì arrivare da chissà dove un vento che gli scompigliava i capelli, lo sferzava, lo spingeva.
Erano nella sala che ospitava la più grande giostra del mondo e stavano ascoltando il Valzer dell’Imperatore.
C’era un gruppo di persone, turisti, dall’aspetto, che parlavano con Wednesday da una parte, più o meno lo stesso numero di persone che Shadow aveva visto nell’ombra della sala. «Da questa parte» tuonò Wednesday, e condusse tutti attraverso l’unica uscita concepita per sembrare la bocca spalancata di un mostro gigantesco, con i denti aguzzi pronti a fare tutti a brandelli. Wednesday si muoveva in mezzo alla gente come un uomo politico, persuadeva con le lusinghe, incoraggiava, sorrideva, contrapponeva con gentilezza le sue ragioni alle loro, convinceva.
«È successo davvero?» domandò Shadow.
«Che cosa è successo davvero, testa di cavolo?» chiese il signor Nancy.
«La sala di Odino. Il fuoco. Le palle del Tigre. La corsa sulla giostra.»
«Diamine, nessuno può salire sul carosello. Non hai visto i cartelli? Sta’ zitto.»
Attraverso la bocca del mostro arrivarono alla Sala dell’Organo, che lasciò Shadow più perplesso che mai: non erano già passati, da quella parte? La sala non risultava meno strana la seconda volta. Wednesday li guidò su per alcune rampe di scale, oltre modelli a grandezza naturale dei quattro cavalieri dell’Apocalisse appesi al soffitto e seguirono le indicazioni per l’uscita.
Shadow e Nancy chiudevano la fila. Ed eccoli fuori della House on the Rock; passarono accanto al negozio di souvenir e si diressero al parcheggio.
«Peccato dover uscire» disse il signor Nancy. «Speravo di vedere la più grande orchestra meccanica del mondo.»
«Io l’ho vista» disse Chernobog. «Non è granché.»
Il ristorante era a dieci minuti di macchina. Wednesday aveva detto a tutti che quella sera sarebbero stati suoi ospiti e aveva organizzato il trasporto al ristorante per quelli che erano venuti senza mezzi.
Shadow si chiedeva come avessero fatto ad arrivare fin lì, innanzitutto, senza un mezzo proprio, e come se ne sarebbero andati, ma preferì non dire niente. Gli sembrava la cosa più furba da fare.
La sua macchina si riempì di ospiti; sul sedile accanto al suo aveva preso posto la donna con il sari rosso. Dietro c’erano due uomini, il giovane tarchiato con l’aria strana di cui Shadow non aveva afferrato il nome, che comunque suonava come Elvis, e un altro uomo vestito di scuro che Shadow non riusciva a ricordare.
Era stato in piedi accanto a lui mentre apriva la portiera, gliel’aveva aperta e chiusa, eppure di lui non ricordava niente. Si girò a guardarlo, osservandone con attenzione la faccia, i capelli, i vestiti, facendo di tutto per essere sicuro di riconoscerlo, se l’avesse incontrato di nuovo, e quando tornò a guardare davanti a sé per mettere in moto immediatamente scoprì che l’uomo era scivolato fuori dai suoi ricordi. Gli era rimasta un’impressione di ricchezza, nient’altro.
Sono stanco, pensò. Gettò un’occhiata alla sua destra, alla donna indiana. Notò la collana d’argento con i piccoli teschi che le adornava il collo, il braccialetto portafortuna con le teste e le mani mozzate che tintinnavano come campanelli, quando si muoveva, il gioiello blu in mezzo alla fronte. Profumava di spezie, cardamomo e noce moscata, e di fiori. Aveva i capelli sale e pepe e quando si accorse che lui la stava guardando gli sorrise.
«Chiamami Mama-ji» disse.
«Io sono Shadow, Mama-ji».
«E che cosa ne pensi dei piani del tuo datore di lavoro, signor Shadow?»
Rallentò per lasciare che un grosso furgone nero li superasse spruzzandoli di fango. «Io non faccio domande, lui non dà spiegazioni.»
«Se vuoi la mia opinione, penso che stia cercando di fare una grande uscita di scena. Vuole saltare per aria in un alone di gloria. Ecco che cosa vuole. E noi siamo abbastanza vecchi, o abbastanza stupidi, da dirgli di sì, almeno qualcuno di noi.»
«Il mio lavoro non è fare domande, Mama-ji» rispose Shadow. L’abitacolo della macchina risuonò della risata argentina della donna.
L’uomo sul sedile posteriore — non il giovane dall’aria strana, l’altro — disse qualcosa, e Shadow gli rispose, ma un momento dopo per niente al mondo avrebbe potuto ricordare che cosa si erano detti.
Il giovane dall’aria strana non aveva ancora parlato, ma adesso cominciò a canticchiare tra sé a bocca chiusa, un canto melodico e basso che faceva vibrare e ronzare l’abitacolo.
Era di altezza media, ma aveva una forma insolita: Shadow aveva sentito parlare di uomini fatti a botte, ma non si era mai figurato la metafora. Questo aveva il tronco come una botte e le gambe, ebbene sì, come ceppi, e le mani proprio come due guantoni da baseball. Portava una giacca a vento nera con il cappuccio, un certo numero di maglioni, un paio di calzoni pesanti da lavoro e, stranamente, dato il clima e il resto dell’abbigliamento, un paio di scarpe da tennis bianche che avevano le dimensioni e la forma di due scatoloni. Le sue dita sembravano salsicciotti, i polpastrelli erano quadrati, tozzi.
«Certo che canticchi mica male» disse Shadow.
«Scusa» rispose il giovanotto dall’aria strana con una voce molto, molto profonda, imbarazzato. Smise subito di canticchiare.
«No, mi piaceva» disse Shadow. «Non smettere.»
Il giovane dall’aria strana ebbe un momento di esitazione e poi ricominciò con la voce grave e risonante di prima. Questa volta intercalava qua e là con delle parole. «Giù giù giù» cantava, con voce talmente profonda che i vetri dei finestrini sbatacchiavano. «Giù giù giù, giù giù, giù giù.»
Sulle gronde di tutte le case e dei palazzi che incontravano lungo la strada c’erano decorazioni natalizie: da una discreta cascata di lampadine dorate e intermittenti a gigantesche luminarie con sagome di omini di neve, orsacchiotti e stelle multicolori.
Shadow arrivò al ristorante, un’enorme struttura tipo fienile e fece scendere i passeggeri davanti all’ingresso. Poi andò a parcheggiare. Gli piaceva l’idea di fare il breve percorso fino all’entrata da solo, al freddo, per schiarirsi le idee.
Parcheggiò accanto a un furgone nero e si domandò se per caso non fosse lo stesso che li aveva sorpassati poco prima. Chiuse la portiera e rimase fermo in mezzo al parcheggio, a guardare il suo fiato che evaporava nell’aria.
Immaginava Wednesday al ristorante, già indaffarato a far accomodare gli ospiti intorno a un grande tavolo rotondo, a correre dappertutto. Si domandò se veramente la signora seduta accanto a lui in macchina fosse la dea Kalì, e si interrogò anche su chi avesse trasportato, sul sedile posteriore…
«Ehi, amico, hai da accendere?» disse una voce che suonava quasi familiare. Shadow si girò per scusarsi e dire che no, non aveva da accendere, ma quando la canna della pistola lo colpì sopra l’occhio sinistro cominciò a barcollare. Tese un braccio in cerca di appoggio, ma qualcuno gli infilò in bocca qualcosa di soffice per impedirgli di gridare, e gli sigillò le labbra con il nastro adesivo: gesti sciolti, esperti, come quelli di un macellaio che sventra un pollo.
Cercò di gridare, di dare l’allarme a Wednesday, di mettere in guardia tutti, ma dalla bocca gli uscì soltanto un suono soffocato.
«La selvaggina è in trappola» disse la voce quasi familiare. «Pronti?» Da una radio arrivò una rispósta fioca e gracchiante. «Circondiamoli.»
«Dell’omone cosa ne facciamo?» disse un’altra voce.
«Impacchettalo e portalo via» rispose la prima voce.
Lo incappucciarono, gli legarono polsi e caviglie con altro nastro adesivo e dopo averlo infilato nel furgone partirono.
Non c’erano finestre nella stanzina dove l’avevano rinchiuso: una sedia di plastica, un tavolino pieghevole da picnic e un secchio con coperchio da usare come gabinetto. Sul pavimento c’erano anche una striscia di gommapiuma gialla lunga circa due metri e una copertina sottile con una vecchia macchia scura nel mezzo: sangue, merda, o cibo, Shadow non avrebbe saputo dire, né si curò di appurarlo. Dietro una griglia di metallo nel soffitto vide una lampadina nuda, ma non riuscì a trovare l’interruttore da nessuna parte. La luce restava sempre accesa. Dall’interno la porta non aveva maniglie.
Shadow era affamato.
La prima cosa che aveva fatto, quando i due spioni lo avevano spinto dentro dopo avergli tolto il nastro adesivo da polsi, caviglie e bocca e lo avevano lasciato solo, era stato di ispezionare con cura la stanza. Aveva battuto sulle pareti ottenendo un suono sordo, metallico. In alto in alto c’era una piccola griglia di ventilazione. La porta era chiusa ermeticamente.
Dal sopracciglio sinistro gli colava un sottile rivolo di sangue. Aveva mal di testa. Il pavimento era spoglio. Picchiò: era fatto dello stesso materiale metallico delle pareti.
Sollevò il coperchio del secchio, pisciò e riappoggiò il coperchio. Secondo il suo orologio erano passate solo quattro ore dall’imboscata al ristorante.
Non aveva più il portafogli, però gli avevano lasciato le monete.
Sedette sulla sedia davanti al tavolino pieghevole coperto da un panno verde pieno di bruciature di sigaretta. Si esercitò a far comparire le monete attraverso il ripiano del tavolo, poi ne prese due da venticinque centesimi ed eseguì il cosiddetto Trucco Ozioso.
Nascose una moneta nel palmo destro e mostrò l’altra nella sinistra tenendola tra indice e pollice. Poi finse di prendere quella che teneva con la sinistra mentre in realtà la nascondeva nel palmo e apriva la mano destra per mettere in mostra la moneta che non si era mai mossa di lì.
Manipolare le monete richiedeva tutta la sua capacità di concentrazione; anzi, se era arrabbiato o sconvolto non riusciva a combinare niente, e quindi esercitarsi con i giochi di prestigio, anche quelli che non avevano un senso — come in questo caso, in cui aveva investito un’enorme quantità di fatica e abilità per creare l’illusione di spostare una moneta da una mano all’altra, cosa che si potrebbe ottenere con un semplice gesto — aveva sempre l’effetto di calmarlo, di scacciare dalla sua mente agitazione e paura.
Poi affrontò un trucco ancora più inutile: la trasformazione di mezzo dollaro in un penny con una mano sola, usando le due monete da venticinque centesimi che venivano via via mostrate e nascoste: cominciò con una moneta in vista e l’altra nascosta. Avvicinò la mano alla bocca e soffiò eseguendo un palmaggio classico, mentre con pollice e indice prendeva la moneta nascosta e la mostrava. Il trucco consisteva nel mostrare una moneta nella mano, portare la mano alla bocca, soffiarci sopra, abbassare la mano e mostrare di nuovo la stessa moneta.
Continuò a ripetere l’esercizio all’infinito.
Quando si chiese se lo avrebbero ucciso la mano gli tremò, solo un breve tremito, e una delle due monete da venticinque centesimi sfuggì al polpastrello e cadde sul panno verde che ricopriva il tavolino.
E poi, quando ormai non ne poteva più, infilò in tasca le due monete e tirò fuori il dollaro con la Libertà che Polunochnaja Zarja gli aveva dato, lo strinse forte nella mano e restò ad aspettare.
Alle tre di notte, secondo il suo orologio, gli spioni tornarono per interrogarlo. Due uomini vestiti di scuro, con i capelli scuri e le scarpe nere e lucide. Uno aveva la mascella quadrata, le spalle larghe, una gran massa di capelli e tutta l’aria di aver giocato a football alle scuole superiori, e si mangiava le unghie fino all’osso; l’altro aveva un principio di calvizie, portava un paio di occhiali rotondi con la montatura di metallo e aveva le unghie ben curate. Benché non si somigliassero per niente, Shadow sospettò che a qualche livello, cellulare, forse, i due fossero identici. In piedi ai lati del tavolino, gli spioni lo guardarono.
«Da quanto tempo lavora per Cargo, signore?» gli chiese uno di loro.
«Non so nemmeno chi sia» rispose Shadow.
«Si fa chiamare Wednesday. Grimm. Olfather. Vecchio. Siete stati visti insieme.»
«Lavoro per lui da un paio di giorni.»
«Non menta, signore» disse lo spione con gli occhiali.
«Va bene» rispose Shadow. «Non mentirò. Ma restano lo stesso due giorni.»
Lo spione con la mascella quadrata si abbassò e torse un orecchio a Shadow con due dita. Stringeva con indice e pollice, mentre torceva. Il dolore era intenso. «Le abbiamo detto di non raccontarci bugie, signore» disse dolcemente. Poi lasciò la presa.
I due spioni avevano entrambi un rigonfiamento nella giacca, dove portavano la pistola. Shadow non cercò di reagire. Finse di essere di nuovo in carcere. Tieni duro, si disse. Non raccontare niente che non sappiano già. Non fare domande.
«È gente pericolosa, quella con cui va in giro, signore» disse lo spione con gli occhiali. «Se si pente renderà un servizio al paese.» Sorrise amichevole: Sono il poliziotto buono, diceva il sorriso.
«Capisco» rispose Shadow.
«Ma se non ci aiuterà» disse lo spione con la mascella quadrata «vedrà di che cosa siamo capaci, quando ci fanno arrabbiare.» Colpì Shadow con un pugno nello stomaco così violento da togliergli il respiro. Non voleva torturarlo, pensò Shadow, soltanto puntualizzare: Io sono quello cattivo. Ebbe un conato di vomito.
«Mi piacerebbe farvi contenti» disse non appena riuscì di nuovo a parlare.
«Le chiediamo semplicemente di cooperare.»
«Posso sapere…» ansimò Shadow (non fare domande, pensò, ma ormai era troppo tardi, le parole gli erano sfuggite), «posso sapere con chi dovrei cooperare?»
«Vuole sapere come ci chiamiamo?» chiese lo spione con la mascella quadrata. «Dev’essere matto.»
«No, ha ragione» disse quello con gli occhiali. «Forse gli riuscirebbe più facile entrare in rapporto con noi.» Guardò Shadow e gli sorrise come l’attore di una pubblicità di un dentifricio. «Piacere. Io sono il signor Stone, signore. Il mio collega si chiama Wood.»
«In realtà, volevo sapere se siete della Cia o dell’Fbi.»
Stone scrollò la testa. «Cavoli. Non è più facile come una volta. Le cose non sono più così lineari.»
«Settore privato» intervenne Wood «e settore pubblico. Sa com’è, di questi tempi interagiscono.»
«Comunque le posso assicurare» disse Stone con un altro dei suoi sorrisi tutti denti «che noi siamo dalla parte giusta. Ha forse fame, signore?» Da una tasca della giacca tirò fuori una merendina Snicker. «Tenga. Gliela regalo.»
«Grazie» disse Shadow. Tolse l’involucro alla barretta e la mangiò.
«Le piacerebbe bere qualcosa? Un caffè? Una birra?»
«Acqua, per favore.»
Storie si avvicinò alla porta e bussò. Disse qualcosa alla guardia dall’altra parte che annuì e tornò dopo un momento con un bicchiere di plastica pieno d’acqua fredda.
«Cia» disse Wood. Poi scosse la testa con aria afflitta. «Quegli ubriaconi. Ehi, Stone, ho sentito una barzelletta. Allora, come facciamo a essere sicuri che la Cia non fosse coinvolta nell’assassinio di Kennedy?»
«Non so» rispose Stone. «Come facciamo?»
«È morto, no?» disse Wood.
Risero tutti e due.
«Si sente meglio, adesso?» chiese Stone.
«Mi pare di sì.»
«Allora perché non ci racconta quello che è successo stasera?»
«Abbiamo fatto i turisti. Siamo andati alla House on the Rock. Poi al ristorante. Il resto lo sapete.»
Stone fece un grosso sospiro. Wood scosse la testa come se fosse deluso e sferrò un calcio a Shadow sulla rotula. Il dolore era atroce. Poi gli appoggiò lentamente un pugno nella schiena, proprio sopra il rene destro, e spinse con le nocche, forte, e il dolore fu molto peggio di quello al ginocchio.
Sono più grosso di loro, pensò. Potrei farcela. Però loro erano armati; e anche se fosse riuscito — chissà come — a ucciderli o a immobilizzarli, sarebbe pur sempre rimasto chiuso con loro nella cella. Però avrei una pistola. Anzi due. (No.)
Wood non lo colpiva mai in faccia. Non volevano lasciare segni. Nessun danno permanente: solo pugni e calci sul tronco e le ginocchia. Faceva male, e Shadow strinse più forte il dollaro della Libertà nella mano e aspettò che il pestaggio finisse.
E dopo molto tempo finì.
«Ci vediamo tra un paio d’ore, signore» disse Stone. «Lo sa che a Woody dispiace veramente dover fare queste cose? Noi siamo persone ragionevoli. Come ho detto, stiamo dalla parte giusta. È lei che è dalla parte sbagliata. Nel frattempo perché non prova a dormire un po’?»
«Farà meglio a parlare sul serio» disse Wood.
«Woody ha ragione» disse Stone. «Ci pensi su.»
La porta si chiuse alle loro spalle con un tonfo. Shadow si chiese se avrebbero spento la luce, ma non la spensero e la lampadina rimase a illuminare la stanza come un occhio abbagliante. Strisciò fino alla gommapiuma gialla e si sdraiò coprendosi con la copertina sottile, chiuse gli occhi aggrappandosi al nulla, aggrappandosi ai sogni.
Il tempo passò.
Aveva quindici anni, e sua madre stava morendo, e cercava di dirgli qualcosa di molto importante che lui non riusciva a capire. Nel sonno si agitò e una fitta di dolore lo portò dallo stato di sonno inquieto a quello di veglia inquieta e trasalì.
Rabbrividiva, sotto la copertina. Con il braccio destro si coprì gli occhi per ripararsi dalla luce. Si domandò se Wednesday e gli altri fossero ancora liberi, se fossero ancora vivi. Si augurava di sì.
Il dollaro d’argento restava freddo nella sua mano sinistra. Ne sentiva la presenza, come l’aveva sentita durante il pestaggio. Si chiese come mai non si riscaldasse a contatto con il corpo. Poiché era mezzo addormentato, adesso, e un po’ delirante, il dollaro, l’idea della libertà, la luna e Polunochnaja Zarja in qualche modo si mescolarono trasformandosi in un raggio tessuto di luce argentea che brillava dalle profondità della terra alla volta celeste e lui vi si arrampicò cominciando ad allontanarsi dal dolore e dall’infelicità e dalla paura, via dal dolore e di nuovo dentro il sogno benedetto…
Da lontano gli giungeva una specie di rumore, ma era troppo tardi per pensarci: ormai apparteneva al sonno.
Un pensiero a metà: sperava che non stessero venendo a svegliarlo, a picchiarlo o a gridargli nelle orecchie. E poi, notò con piacere, stava davvero dormendo e non aveva più freddo.
Qualcuno nel suo sogno oppure fuori stava chiedendo aiuto a gran voce.
Dormendo rotolò sul materassino e nel muoversi si accorse di altri punti dolenti del corpo.
Lo stavano scrollando per una spalla.
Avrebbe voluto chiedere di non essere svegliato, che lo lasciassero dormire in pace, ma tutto quello che gli uscì di bocca fu un grugnito.
«Cucciolo?» chiamò Laura. «Ti devi svegliare. Ti prego, svegliati, caro.»
Fu un momento di leggero sollievo. Aveva fatto un sogno così strano, con la prigione e i detenuti e gli dèi male in arnese e adesso Laura lo stava svegliando per dirgli che era ora di andare a lavorare, e forse prima di uscire ci sarebbe stato tempo per una tazza di caffè e un bacio, o magari qualcosa di più di un bacio, e allungò una mano per toccarla.
Era fredda come il ghiaccio e la sua pelle era appiccicosa.
Aprì gli occhi.
«Da dove viene tutto questo sangue?» chiese.
«È di altra gente» rispose lei. «Non è mio. Io sono piena di formaldeide mista a glicerina e lanolina.»
«Quale altra gente?»
«Le guardie. E tutto a posto. Li ho ammazzati. Ma è meglio sbrigarsi. Credo di non aver lasciato a nessuno il tempo di dare l’allarme. Prendi un cappotto, altrimenti ti si congela il sedere.»
«Li hai ammazzati?»
Laura scrollò le spalle e fece un mezzo sorriso impacciato. Sembrava che avesse dipinto con le dita un’opera interamente rossa; aveva macchie rosse sul viso e sui vestiti (lo stesso tailleur blu con cui era stata sepolta) e a Shadow fece venire in mente Jackson Pollock, perché era meno problematico pensare a Pollock che accettare l’alternativa.
«Da morti, uccidere diventa più facile» gli spiegò. «Non è poi tutta questa tragedia, voglio dire. Non si hanno più tanti pregiudizi.»
«Per me è ancora una tragedia» disse Shadow.
«Vuoi stare qui ad aspettare che arrivino quelli del turno di giorno?» gli chiese lei. «Puoi farlo, se vuoi. Credevo che volessi scappare.»
«Penseranno che sia stato io» disse lui, stupidamente.
«Può darsi. Adesso mettiti un cappotto, caro. Altrimenti gelerai.»
Shadow imboccò il corridoio e in fondo vide una stanza. Dentro c’erano quattro cadaveri: tre guardie e l’uomo che aveva detto di chiamarsi Stone. Il suo amico Wood non era nei paraggi. Dalle strisce di sangue sul pavimento due uomini erano stati trascinati nella stanza e lasciati cadere per terra.
All’attaccapanni era appeso anche il suo cappotto. Il portafogli era ancora nella tasca interna, apparentemente intatto. Laura aprì un paio di scatole piene di merendine.
Le guardie, adesso Shadow riusciva a vederle bene, indossavano tute mimetiche scure ma prive di targhette ufficiali, niente che rivelasse per chi lavoravano. Avrebbero perfino potuto essere cacciatori di anatre, vestiti per la battuta domenicale.
Laura tese una mano gelida e strinse quella di Shadow. Portava intorno al collo la moneta d’oro che lui le aveva regalato, infilata in una catenina.
«Ti sta bene» le disse.
«Grazie.» Laura sorrise con garbo.
«Che ne è stato degli altri, Wednesday, e tutti quanti? Dove sono?» Laura gli porse una manciata di merendine e lui se ne riempì le tasche.
«Qui non c’era nessun altro. Un mucchio di celle vuote e una con dentro te. Oh, e uno degli uomini era andato a farsi una sega in una cella là in fondo portandosi una rivista. Gli è preso un colpo.»
«Lo hai ammazzato mentre si stava masturbando?»
Laura scrollò le spalle. «Credo di sì» disse, a disagio. «Avevo paura che ti facessero del male. Qualcuno ti deve pur proteggere, e ti avevo detto che lo avrei fatto io, giusto? Tieni, prendi questi.» Erano scaldini chimici: cuscinetti sottili, rompevi il sigillo e si riscaldavano e restavano caldi per ore. Shadow infilò in tasca anche quelli.
«Proteggermi? Sì» disse, «lo hai fatto.»
Lei lo accarezzò con un dito sul sopracciglio sinistro. «Sei ferito.»
«Niente di grave.»
Aprì una porta di metallo. Il battente si mosse lentamente. C’era un salto di più di un metro fino a terra e Shadow cadde su una superficie che sembrava ghiaiosa. Afferrò Laura alla vita, la fece volteggiare come faceva un tempo, con facilità, senza riflettere…
La luna spuntò dietro una nuvola densa. Era bassa all’orizzonte, pronta a sorgere, ma la luce che gettava sulla neve era sufficiente per vedere.
Erano saltati giù dalla carrozza dipinta di nero di un lungo treno merci parcheggiato o abbandonato su un binario di raccordo in un terreno boscoso. Le carrozze si perdevano a vista d’occhio in mezzo agli alberi. Lo avevano imprigionato in un treno. Ci sarebbe dovuto arrivare prima.
«Come diavolo hai fatto a trovarmi?» chiese alla sua defunta moglie.
Laura scosse la testa divertita. «Brilli come una stella nell’oscurità. Non è stato difficile. Adesso vai. Va’ il più lontano e il più in fretta possibile. Se non usi le carte di credito andrà tutto bene.»
«E dove dovrei andare?»
Lei si passò una mano tra i capelli sporchi di sangue, per allontanarli dagli occhi. «La strada è da quella parte» disse. «Fai del tuo meglio. Ruba una macchina, se è necessario. Vai verso sud.»
«Laura» cominciò Shadow, poi ebbe un attimo di esitazione prima di riprendere. «Ma tu sai che cosa sta succedendo? Sai chi è questa gente? Sai chi hai ucciso?»
«Sì. Credo di saperlo.»
«Ti devo la vita» disse lui. «Se non fossi venuta tu sarei ancora lì dentro. E non penso che avessero in serbo qualcosa di buono, per me.»
«No. Non credo proprio.»
Si allontanarono dai vagoni vuoti e Shadow pensò a tutti i treni che aveva visto passare, altri vagoni di metallo senza finestre che correvano solitari nella notte, preceduti, chilometro dopo chilometro, dal grido della sirena. Strinse il dollaro della Libertà che teneva in tasca e ripensò a Polunochnaja Zarja, al modo in cui lo aveva guardato, al chiaro di luna. Le hai chiesto che cosa voleva? È la cosa più saggia da chiedere ai morti. A volte te lo dicono.
«Laura… Che cosa vuoi?» chiese.
«Davvero lo vuoi sapere?»
«Sì. Ti prego.»
Lei lo guardò con i suoi occhi azzurri e morti. «Voglio tornare a vivere» disse. «Non voglio questa mezza vita. Voglio essere viva per davvero. Voglio sentire il cuore che mi batte nel petto, il sangue che mi scorre nelle vene, caldo, salato e reale. È strano, uno non crede di sentirlo scorrere, il sangue, ma quando smette te ne accorgi.» Si strofinò gli occhi imbrattandosi la faccia con le mani sporche di sangue. «Credimi, è dura. Sai perché i morti escono soltanto di notte, cucciolo? Perché è più facile spacciarsi per vivi, al buio. E io non voglio dovermi spacciare. Voglio essere viva per davvero.»
«Non capisco che cosa vuoi da me.»
«Fallo succedere, caro. Trova il modo. So che ce la farai.»
«Va bene. Ci proverò. E se trovassi il modo come farò a trovare te?»
Ma Laura se n’era andata e nel bosco era rimasto soltanto il grigio chiarore del cielo a indicargli dov’era l’oriente e, portato dal pungente vento dicembrino, un lamento solitario che forse era il grido dell’ultimo uccello notturno o il richiamo del primo uccello dell’alba.
Shadow si voltò con la faccia verso sud e cominciò a camminare.
Poiché sono "immortali" soltanto in un senso molto particolare — infatti nascono e muoiono — gli dèi del pantheon induista conoscono quasi tutti i grandi dilemmi umani e spesso sembrano distinguersi dai mortali soltanto per alcuni dettagli insignificanti… e ancora meno si differenziano dai demoni. Tuttavìa sono considerati dagli induisti una categoria di esseri per definizione completamente diversa da qualsiasi altra; la loro natura simbolica non è alla portata dei comuni mortali, per quanto "archetipica" possa essere la loro vita. Gli dèi sono attori che interpretano ruoli reali soltanto ai nostri occhi; sono le maschere dietro cui ciascuno intravede il proprio volto.
Da molte ore Shadow camminava verso sud, o perlomeno sperava che fosse il sud, lungo una stradina stretta e senza indicazioni che procedeva tra i boschi del Wisconsin meridionale, sempre secondo le sue supposizioni. A un certo punto dalla direzione opposta arrivarono due jeep con i fari accesi e lui si nascose tra gli alberi. La foschia del primo mattino restava sospesa da terra fino all’altezza dei suoi fianchi. Le jeep erano nere.
Quando mezz’ora più tardi sentì il rumore lontano di due elicotteri che venivano da occidente, Shadow abbandonò la pista e si gettò nella macchia. Si rannicchiò in un incavo nel terreno, sotto un albero caduto, e aspettò che gli elicotteri se ne andassero. Quando furono lontani diede una rapida occhiata al grigio cielo invernale e scoprì con una certa soddisfazione che anche gli elicotteri avevano un colore nero opaco. Aspettò tra gli alberi che tornasse il silenzio.
Nel sottobosco c’era uno strato sottile di neve ghiacciata che scricchiolava sotto i suoi passi. Shadow era molto contento di avere gli scaldini chimici, perché era certo che altrimenti gli si sarebbero congelate le estremità. A parte questo senso di gratitudine nei confronti degli scaldini, era come inebetito: il cuore sordo, il cervello intorpidito, l’anima insensibile. Era uno stordimento che risaliva a molto lontano, che arrivava molto in profondità.
Ma che cosa vorrei, veramente? si chiese. E siccome non riusciva a trovare una risposta continuava a camminare, passo dopo passo, sempre diritto. Gli alberi avevano un aspetto familiare, e nei boschi incontrava i paesaggi che erano momenti di perfetti déjà-vu.
C’era il rischio che stesse camminando in tondo. Forse avrebbe potuto continuare a camminare all’infinito fino all’esaurimento degli scaldini e delle merendine. Poi si sarebbe seduto da qualche parte per non rialzarsi più.
Quando arrivò a un grosso torrente decise di seguirlo. I torrenti portano ai fiumi e tutti i fiumi portano al Mississippi. Se avesse continuato a camminare, oppure rubato una barca o costruito da solo una zattera, prima o poi avrebbe raggiunto New Orleans, dove faceva caldo, ipotesi tanto confortante quanto infondata.
Gli elicotteri non tornarono. Aveva la sensazione che quei due che gli erano passati sulla testa fossero andati a ripulire il disastro sul treno merci, e non che stessero cercando lui, altrimenti sarebbero ritornati con cani poliziotto e sirene e tutto il circo della caccia all’uomo. Invece non c’era niente di niente.
Ma cosa voleva, esattamente? Non voleva essere preso. Non voleva essere accusato dell’uccisione degli uomini sul treno. «Non sono stato io» si sentì dire, «è stata la mia defunta moglie.» Immaginare l’espressione degli agenti non era difficile. Poi, mentre saliva sulla sedia elettrica, la gente avrebbe continuato a discutere se era matto oppure no…
Si chiese se ci fosse la pena di morte, nel Wisconsin. Si chiese se la cosa avesse qualche importanza. Voleva sapere che cosa stava succedendo, e scoprire come sarebbe andata a finire. E infine capì — e sorrise mesto, scoprendolo — che desiderava soprattutto tornare alla normalità. Voleva non essere mai andato in prigione, che Laura fosse ancora viva, che niente di tutto questo fosse mai accaduto.
Ho paura che quest’opzione non esista, ragazzo mio, pensò tra sé con la voce burbera di Wednesday, e annuì in segno di assenso. L’opzione non esiste. Ti sei bruciato i ponti alle spalle. Quindi continua a camminare. Tieni duro…
In lontananza, un picchio tamburellava su un tronco marcio.
Shadow si sentì osservato: un gruppetto di cardinali rossi lo fissò da uno scheletrico sambuco prima di riprendere a becchettare le bacche nere. Sembrava un’illustrazione del calendario degli uccelli canori del Nordamerica. I trilli lo seguirono per un po’ lungo l’argine del torrente e infine non si sentirono più.
Il cerbiatto giaceva in una radura all’ombra di un colle e un uccello nero grande come un cane era intento a sbranargli un fianco, con l’enorme becco crudele strappava brandelli di carne rossa. Gli occhi del cerbiatto non c’erano più, ma il resto della testa era intatto e sul dorso si vedeva ancora il manto di pelliccia maculata. Shadow si domandò come fosse morto.
L’uccello nero piegò la testa di lato e producendo un suono che sembrava quello di due sassi sfregati tra loro disse: «Tu sei l’uomo ombra».
«Sono Shadow» rispose Shadow. L’uccello saltò sul dorso del cerbiatto, alzò la testa e arruffò le penne sul collo e sulla cresta. Era un animale enorme, con gli occhi come due perle nere. C’era qualcosa che faceva paura in un uccello di quelle dimensioni appollaiato a così breve distanza.
«Dice che vi rivedete al Cai-ro» disse il corvo. Shadow si chiese di quale dei due corvi imperiali di Odino si trattasse: Hugin o Munin, Memoria o Pensiero.
«Al Cai-ro?» ripeté.
«Egitto.»
«E come ci arrivo in Egitto?»
«Segui il Mississippi. Verso sud. Trova lo Sciacallo.»
«Senti» disse Shadow, «non voglio sembrare come se, cazzo, senti…» Fece una pausa per cercare di riordinare le idee. Stava morendo di freddo in mezzo a un bosco e parlava con un gigantesco uccellaccio nero che faceva colazione a base di Bambi. «Va bene. Quello che sto cercando di dire è che non voglio misteri.»
«Misteri» convenne il corvo.
«Voglio delle spiegazioni. Sciacallo al Cai-ro. Non mi è di grande aiuto. Sembra la battuta di un brutto film di spionaggio.»
«Sciacallo. Amico. Toc. Cai-ro.»
«Questo me l’hai già detto. Mi piacerebbe qualche informazione in più.»
L’uccello si voltò per strappare un altro brandello di carne rossa dal costato del cerbiatto. Poi volò tra gli alberi con il pezzo di carne che gli penzolava dal becco come un lungo verme sanguinante.
«Ehi! Mi puoi almeno riportare sulla strada?»
L’uccello volò più alto. Shadow guardò il cadavere del piccolo cervo. Decise che se fosse stato un vero boscaiolo a quel punto se ne sarebbe tagliata una bistecca da cuocere sul fuoco. Invece andò a sedersi su un tronco caduto e mangiandosi una barretta Snicker si rassegnò a non essere un vero boscaiolo.
Il corvo arrivò gracchiando in fondo alla radura.
«Vuoi che ti segua?» gli domandò Shadow. «Oppure Timmy è caduto in un altro pozzo?» L’uccello gracchiò di nuovo, questa volta con impazienza. Shadow si alzò e si avviò nella sua direzione. L’animale aspettò che gli fosse vicino, poi con un pesante battito d’ali raggiunse un altro albero; si sarebbe detto che volesse guidarlo a sinistra del percorso che aveva seguito prima.
«Ehi, Hugin o Munin o chiunque tu sia!»
Il corvo si voltò, piegò la testa sospettosamente e lo fissò con i suoi occhi lucidi.
«Di’: "Mai più"».
«Vaffanculo» rispose l’uccello. Poi, mentre attraversavano insieme il bosco, non disse più niente.
Dopo circa mezz’ora arrivarono a una strada asfaltata alla periferia di una cittadina e il corvo volò via nel bosco. Shadow notò l’insegna di un Culvers Frozen Custard Butterburgers e, poco distante, una pompa di benzina. Entrò da Culvers, che era deserto. Alla cassa c’era un giovanotto magro con la testa rasata. Shadow ordinò due butterburger e patatine. Poi andò in bagno a ripulirsi. Era in condizioni pietose. Fece un inventario del contenuto delle tasche: qualche moneta, incluso il dollaro d’argento, uno spazzolino usa e getta con dentifricio, tre barrette Snicker, cinque scaldini chimici, un portafogli (conteneva soltanto la patente e la carta di credito… e si domandò quando sarebbe scaduta, la carta), e nella tasca interna del cappotto un migliaio di dollari in banconote da cinquanta e da venti, la sua parte del lavoretto alla banca del giorno prima. Si lavò le mani e la faccia con l’acqua calda, inumidì i capelli e li ravviò, poi tornò nel ristorante a mangiare i suoi burger con patatine e a bere il caffè.
Si avvicinò al banco. «Vuole un budino?» chiese il giovane magro.
«No. No, grazie. C’è qualche posto nei paraggi dove potrei noleggiare una macchina? La mia mi ha mollato definitivamente a piedi a un bel pezzo da qui.»
Il giovane si grattò la testa rasata. «Non da queste parti. Se la macchina è guasta chiami Triple-A. Oppure chieda a quelli della pompa di benzina di trainargliela.»
«Buona idea» disse Shadow. «Grazie.»
Attraversò la strada coperta di neve fangosa e arrivò al benzinaio. Comperò qualche merendina, bastoncini di carne secca e altri scaldini chimici.
«C’è un posto dove noleggiare una macchina, nei paraggi?» chiese alla cassiera. Era una donna decisamente grassoccia, con gli occhiali e una gran voglia di chiacchierare.
«Mi faccia pensare» disse. «Qui siamo un po’ fuori mano. A Madison ci sono degli autonoleggi. Dov’è diretto?»
«Cai-ro» disse lui. «Ovunque esso sia.»
«Lo so io dov’è. Mi passi una di quelle cartine dell’Illinois lì sullo scaffale.» Shadow le passò una cartina plastificata. Lei l’aprì e indicò trionfante un punto nell’angolo più basso dello stato. «Eccolo qui.»
«Il Cairo?»
«Quella è in Egitto. Ma a Little Egypt c’è Cairo. C’è anche una Thebes, e non solo. Mia cognata è di Thebes. Un giorno le ho chiesto se sapeva niente della Tebe in Egitto e lei mi ha guardato come se mi mancasse una rotella.» La donna ridacchiò come una matta.
«Ci sono anche le piramidi?» La città si trovava a più di settecento chilometri a sud.
«Non che io sappia. Lo chiamano Little Egypt perché cento o forse centocinquant’anni fa c’è stata una carestia. Tutti i raccolti rovinati. Laggiù invece i campi stavano bene e così tutti ci andavano a comperare da mangiare. Come nella Bibbia. Come nel musical Joseph and the Technicolor Dreamcoat. Trallallà, l’Egitto eccolo qua.»
«Al mio posto, dovendo arrivare fin lì, come ci andrebbe?»
«Ci andrei in macchina.»
«La mia si è rotta a qualche chilometro da qui. Era un rottame di merda, scusi l’espressione.»
«Erre-di-emme» disse lei. «Già. Così le chiama mio cognato. Compra e vende macchine, ma in piccolo. Arriva e dice: Mattie, ho appena venduto un’altra erre-di-emme. Magari è interessato alla sua. Per recuperare i pezzi, o qualcosa del genere.»
«È del mio capo» rispose Shadow sorprendendosi della disinvoltura con cui sciorinava una bugia dietro l’altra. «In realtà dovrei chiamarlo e dirgli di venire a riprendersela.» Fu folgorato da un’idea. «Vive nei paraggi suo cognato?»
«Sta a Muscoda. A dieci minuti da qui. Dall’altra parte del fiume. Perché?»
«Be’, può darsi che abbia un’erre-di-emme da vendermi per, diciamo, cinque o seicento dollari.»
La donna sorrise con dolcezza. «Caro lei, mio cognato non na niente di niente, nel suo parcheggio, che costi più di cinquecento dollari con il pieno di benzina. Però non gli dica che gliel’ho detto io.»
«Potrebbe telefonargli?»
«Fatto» rispose lei, e alzò il ricevitore. «Tesoro? Sono Mattie. Vieni subito. C’è qui un cliente che vuole comprare una macchina.»
Il rottame scelto da Shadow era una Chevy Nova del 1983 e la comperò, con il pieno, per quattrocentocinquanta dollari. Sul contachilometri c’era scritto duecentocinquantamila, e puzzava leggermente di bourbon e tabacco e, soprattutto, di banane. Non avrebbe saputo dire di che colore fosse, sotto lo strato di sporcizia e di neve. Eppure, di tutti i veicoli a disposizione nel parcheggio del cognato di Mattie, gli era sembrata l’unica capace di fare ancora settecento chilometri.
La compravendita venne conclusa in contanti e il cognato di Mattie non si sognò nemmeno di chiedergli un documento o il codice fiscale.
Shadow guidò verso ovest, poi verso sud, con cinquecentocinquanta dollari in tasca, tenendosi lontano dall’Interstate. Il rottame era fornito di radio, ma quando la si accendeva non dava segni di vita. Un cartello gli annunciò che aveva lasciato il Wisconsin e adesso si trovava in Illinois. Passò davanti a una miniera a cielo aperto, enormi archi di luce azzurra che bruciavano nel pallido chiarore di un mattino d’inverno.
Si fermò a mangiare in un posto che si chiamava Mom’s, appena in tempo prima che chiudessero per la pausa pomeridiana.
In ogni città che attraversava, accanto al cartello con la scritta benvenuti a Our Town (720 ab.), ce n’era un altro che informava che la locale squadra under 14 di pallacanestro era arrivata terza nel campionato nazionale, oppure che la cittadina aveva dato i natali alle semifinaliste della squadra di wrestling under 16.
Continuò a guidare, malgrado gli ciondolasse la testa, sentendosi più esausto a ogni minuto che passava. Prese un rosso rischiando di essere travolto da una Dodge guidata da una donna. Appena arrivato in aperta campagna si infilò in un sentiero laterale usato dai trattori ma deserto, a quell’ora, e si fermò sul ciglio di un campo coperto di stoppie spruzzate di neve. Una lunga fila di tacchini selvatici grassi e neri lo stava attraversando lentamente, sembravano i dolenti dietro al carro funebre; Shadow spense il motore, si sdraiò sul sedile posteriore e si addormentò.
Oscurità, la sensazione di cadere… sembrava che stesse capitombolando in un grande buco, come Alice. Cadde per cent’anni nell’oscurità. Tante facce gli passarono accanto, fluttuanti nel buio, ma furono strappate via prima che le potesse toccare…
Brutalmente, aveva smesso di cadere. Adesso era in una caverna e non era più solo. Fissò dentro due occhi che gli erano familiari: grandi, liquidi, neri. Gli occhi si chiusero esi riaprirono.
Sottoterra: sì. Ricordava quel luogo. L’odore di vacca bagnata. Il fuoco vacillava sulle pareti umide della caverna, illuminando la testa di bufalo, il corpo d’uomo, la pelle del colore dei mattoni d’argilla.
«Non potete lasciarmi in pace?» chiese Shadow. «Voglio soltanto dormire.»
L’uomo-bufalo annuì lentamente. Non mosse la labbra, ma una voce nella testa di Shadow domandò: «Dove vai?».
«A Cairo.»
«Perché?»
«Dove potrei andare? È lì che mi manda Wednesday. Ho bevuto il suo idromele.» Nel sogno, dove regnava la logica onirica, il vincolo sembrava incontestabile: aveva bevuto l’idromele di Wednesday tre volte, suggellando il patto. Cos’altro avrebbe potuto fare?
Quando l’uomo con la testa di bufalo mise una mano nel fuoco per muovere rami e tizzoni, si alzò una fiammata. «C’è tempesta, in arrivo» disse. Si pulì sul petto glabro le mani sporche di cenere, lasciandovi strisce nere di fuliggine.
«Non fate che ripetermelo. Posso chiedere una cosa?»
Durante la pausa di silenzio che seguì una mosca andò ad appoggiarsi sulla fronte pelosa dell’uomo-bufalo che la scacciò con una mano. «Chiedi.»
«Ma è vero? Queste persone sono davvero dèi? È tutto talmente…» Si interruppe. Poi aggiunse: «impossibile», che non era esattamente la parola che stava cercando, ma gli sembrava la meno peggio.
«Cosa sono gli dèi?» chiese l’uomo-bufalo.
«Non so» rispose Shadow.
Si sentivano dei colpi, implacabili e monotoni. Shadow aspettò che l’uomo-bufalo dicesse ancora qualcosa, che gli spiegasse cos’erano gli dèi, che sbrogliasse tutto l’intricato incubo che era diventato la sua vita. Aveva freddo.
Toc. Toc. Toc.
Aprì gli occhi e faticosamente si mise seduto. Era intirizzito e fuori il cielo aveva assunto quella luminosa tonalità di rosso profondo che separa il crepuscolo dalla notte.
Toc. Toc. Qualcuno disse: «Ehi, signore», e Shadow girò la testa. Il qualcuno che aveva parlato era in piedi vicino al finestrino, un’ombra appena più scura del cielo. Shadow allungò un braccio e riuscì ad abbassare il vetro di qualche centimetro. Dopo aver prodotto qualche suono per svegliarsi disse: «Salve».
«Ti senti bene? Sei malato? Hai bevuto?» Era una voce acuta, da donna o da ragazzo.
«Sto bene» rispose Shadow. «Aspetta.» Aprì la portiera e uscì stirandosi gli arti rattrappiti e il collo. Poi strofinò le mani una contro l’altra per far circolare il sangue e riscaldarle.
«Cavoli. Sei altissimo.»
«Così dicono» rispose Shadow. «Tu chi sei?»
«Mi chiamo Sam» disse la voce.
«Sam maschio o Sam femmina?»
«Sam femmina. Prima scrivevo Sammi con la i, e sopra la i disegnavo una faccina sorridente, ma poi mi sono stufata perché lo facevano assolutamente tutti, così ho smesso.»
«Va bene, Sam femmina. Adesso vai là in fondo e guarda la strada.»
«Perché? Sei un folle assassino o qualcosa del genere?»
«No» rispose Shadow, «devo fare pipì e mi piacerebbe un momento di privacy.»
«Ah. Bene. D’accordo. Ho capito. Non c’è problema. Anch’io sono come te. Non posso fare pipì nemmeno se c’è qualcuno nel gabinetto vicino. È una forma grave di sindrome della vescica timida.»
«Allora?»
La ragazza si allontanò e Shadow fece qualche passo verso i campi, abbassò la cerniera dei jeans e orinò contro un palo della recinzione per un tempo molto lungo. Poi tornò alla macchina. L’ultima fioca luce dell’imbrunire aveva ceduto alla notte.
«Sei ancora lì?» le chiese.
«Sì» rispose lei. «La tua vescica deve avere la capienza del lago Erie. Nel tempo che hai impiegato a fare pipì sono sorti e caduti alcuni imperi. Il rumore si sentiva fin qui.»
«Grazie. Volevi qualcosa?»
«Be’, volevo sapere se stavi bene. Cioè, se eri morto o qualcosa del genere avrei chiamato la polizia. Ma siccome i finestrini erano appannati ho pensato che fossi ancora vivo.»
«Abiti da queste parti?»
«No. Sono venuta in autostop da Madison.»
«Non è una cosa sicura da fare.»
«Sono tre anni che lo faccio, cinque volte l’anno. Sono ancora viva. Tu dove sei diretto?»
«Arrivo fino a Cairo.»
«Perfetto» disse lei. «Io vado a El Paso. A passare le vacanze da mia zia.»
«Non ti posso portare fin là» disse Shadow.
«Non a El Paso in Texas. L’altro, quello in Illinois. È a poche ore a sud. Sai dove siamo, adesso?»
«No» rispose Shadow. «Non ne ho idea. Da qualche parte sull’autostrada Cinquantadue?»
«La prossima uscita è Perù» disse Sam. «Non quella in Perù. Quella in Illinois. Fatti annusare. Piegati.» Shadow si piegò e la ragazza gli annusò l’alito. «Va bene. Non sento odore di alcol. Puoi guidare. Andiamo.»
«Perché ti dovrei dare un passaggio?»
«Perché sono una donzella in difficoltà» disse lei. «E tu sei un cavaliere in… in una macchina molto sporca. Sai che qualcuno ha scritto "Lavami!" sul lunotto?» Shadow salì a bordo e aprì la portiera per la ragazza. La lucina che normalmente si accende in questi casi non funzionava.
«No» rispose. «Non lo sapevo.»
Sam salì. «Sono stata io» disse. «L’ho scritto io. Quando c’era ancora abbastanza luce.»
Shadow mise in moto, accese i fari e tornò verso la strada da cui era venuto. «Gira a sinistra» gli suggerì lei provvidenziale. Shadow svoltò a sinistra e continuò a guidare. Dopo qualche minuto il riscaldamento si mise in funzione e un piacevole tepore invase l’abitacolo.
«Non hai ancora detto niente» riprese Sam. «Di’ qualcosa.»
«Sei umana? Un autentico essere umano fatto di carne e ossa e nato da uomo e donna?»
«Certo.»
«Va bene. Era solo una domanda. Allora, che cosa vuoi che ti dica?»
«Qualcosa di rassicurante, direi. Improvvisamente mi è venuta quella sensazione tipo "oh merda, sono nella macchina sbagliata con l’uomo sbagliato".»
«Ah sì» disse lui. «La conosco. E cos’è che troveresti rassicurante?»
«Be’, sapere che non sei un evaso o un pluriomicida o roba del genere.»
Shadow rifletté per un momento. «Non sono niente del genere, davvero.»
«Però ci hai dovuto pensare.»
«Mi hanno rilasciato. Non ho mai ucciso nessuno.»
«Ah.»
Entrarono in una cittadina con le strade illuminate e le case coperte di decorazioni natalizie e Shadow gettò un’occhiata alla sua destra. La ragazza aveva i capelli neri, corti e arruffati e una faccia che risultava al tempo stesso attraente e leggermente mascolina, come se i suoi tratti fossero stati scolpiti nella roccia. Anche lei lo stava osservando.
«Perché sei stato in prigione?»
«Ho fatto molto male a un paio di persone. Ero arrabbiato.»
«Se lo meritavano?»
Shadow rifletté, prima di rispondere. «All’epoca pensavo di sì.»
«Lo rifaresti?»
«No, accidenti. Ho perso tre anni della mia vita in galera.»
«Mmm. Hai sangue indiano, nelle vene?»
«Non che io sappia.»
«Sembrerebbe.»
«Mi spiace deluderti.»
«Figurati. Hai fame?»
Shadow annuì. «Potrei mettere qualcosa sotto i denti» disse.
«Dopo il prossimo semaforo c’è un posto dove si mangia bene per poco.»
Shadow si fermò nel parcheggio. Scesero dalla macchina. Non si preoccupò di chiuderla ma infilò le chiavi in tasca. Poi prese qualche moneta per comperare un giornale. «Ti puoi permettere di mangiare qui?» chiese.
«Sì» rispose lei alzando il mento. «Posso pagarmi la cena.»
Shadow annuì. «Facciamo una cosa. Facciamo testa o croce» disse. «Testa mi inviti tu, croce pago io per tutti e due.»
«Fammi vedere la moneta» rispose lei con aria sospettosa. «Un mio zio ne aveva una truccata.»
Esaminò la moneta di Shadow, soddisfatta di scoprire che non aveva niente di strano. Lui la lanciò in modo che roteasse su se stessa, poi la prese al volo, la fece cadere sul dorso della mano sinistra e alzò la destra per scoprirla.
«Croce» disse lei tutta contenta. «Paghi tu.»
«Vabbè» rispose Shadow. «Bisogna saper perdere.»
Ordinò il polpettone, mentre Sam scelse le lasagne, poi sfogliò il giornale per vedere se parlavano dei cadaveri sul treno merci. Non ne parlavano. L’unica storia di qualche interesse era in copertina: la città era infestata da un numero straordinario di corvi. I coltivatori della zona pensavano di appenderne alcuni esemplari morti in cima agli edifici pubblici più alti per spaventare gli altri, ma secondo gli ornitologi quel sistema non avrebbe funzionato perché gli animali vivi si sarebbero limitati a mangiarseli. I contadini erano determinati. «Quando vedranno i loro amici morti» dichiarò il portavoce dei coltivatori «capiranno che qui non ce li vogliamo.»
Arrivarono i piatti colmi di cibo fumante, porzioni più generose di quelle che chiunque avrebbe potuto affrontare.
«Allora, che cosa c’è a Cairo?»
«Non ne ho idea. Ho ricevuto dal mio capo il messaggio di andarci.»
«Che lavoro fai?»
«Lavoro per mio zio.»
Sam sorrise. «Be’» disse, «con l’aspetto che hai e il rottame che guidi non puoi certo essere della mafia. A proposito, perché la tua macchina puzza di banana?»
Shadow scrollò le spalle e continuò a mangiare.
Sam socchiuse gli occhi. «Forse sei un contrabbandiere di banane» disse. «Non mi hai ancora chiesto che cosa faccio io.»
«Frequenterai l’università.»
«U.W. Madison.»
«Dove sicuramente studi storia dell’arte, storia del movimento femminile e, con ogni probabilità, ti fondi da sola le tue sculture in bronzo. Ah, forse per pagare l’affitto fai la cameriera in un bar.»
La ragazza appoggiò la forchetta sul tavolo; aveva le narici frementi, gli occhi sbarrati. «Come cazzo fai a saperlo?»
«Cosa? Adesso tu devi dire, no, in realtà frequento i corsi di letteratura romanza e di ornitologia.»
«Vuoi dire che hai tirato a indovinare?»
«Cosa?»
Lei lo fissò con occhi cupi. «Sei un tipo molto strano, signor… Non so come ti chiami.»
«Mi chiamano Shadow».
La ragazza fece una smorfia, come se avesse assaggiato qualcosa con un cattivo sapore. Smise di parlare, chinò la testa e finì il piatto di lasagne.
«Ma tu lo sai perché si chiama Little Egypt?» chiese Shadow quando la ragazza ebbe finito.
«La zona intorno a Cairo? Sì. Perché si trova sul delta dell’Ohio e del Mississippi. Come Il Cairo in Egitto, sul delta del Nilo.»
«Sembra ragionevole.»
Sam si appoggiò allo schienale, ordinò un caffè e una fetta di torta con crema e cioccolato e si ravviò i capelli con le dita. «Sei sposato, signor Shadow?» E poi, dopo un attimo di esitazione: «Cavoli. Devo aver fatto un’altra domanda sbagliata».
«L’hanno sepolta giovedì» rispose lui scegliendo con cura le parole. «È morta in un incidente automobilistico.»
«Oddio santo. Cavoli. Mi dispiace.»
«Anche a me.»
Seguì una pausa imbarazzata, poi Sam disse: «La mia sorellastra ha perso il figlio, mio nipote, alla fine dell’anno scorso. È dura.»
«Sì. Lo è. Di cosa è morto?»
Sam sorseggiò il caffè. «Non lo sappiamo. In effetti non sappiamo neanche se è veramente morto. E scomparso nel nulla. Aveva tredici anni. Nel cuore dell’inverno. Mia sorella è ancora a pezzi.»
«Nessuna traccia?» Parlava come un poliziotto in un telefilm. Provò a fare di meglio. «C’è il sospetto di violenza?» Così era addirittura peggio.
«Si è sospettato di quello stronzo irresponsabile di mio cognato, il padre del bambino. Uno capace di rapirlo. E probabilmente è andata così. Ma tutto questo è successo in una cittadina nei North Woods. Una bella cittadina gentile dove nessuno chiude la porta di casa.» Sospirò e scosse la testa. Teneva la tazza di caffè con tutte e due le mani. «Sei sicuro di non avere un po’ di sangue indiano?»
«Non che io sappia. È possibile. Non so molto sul conto di mio padre. La mamma me l’avrebbe detto se fosse stato un nativo. Però non si può mai sapere.»
Sam fece un’altra smorfia e a metà del dolce decise di rinunciare: le avevano servito una fetta grande come metà della sua testa. Allungò il piatto verso Shadow. «La vuoi?» Lui sorrise, disse: «certo», e la mangiò tutta.
Quando la cameriera portò il conto Shadow pagò.
«Grazie» gli disse Sam.
Ora faceva più freddo e prima di mettersi in moto il motore tossicchiò un paio di volte. Shadow ritornò sulla strada e riprese a guidare verso sud. «Hai mai letto Erodoto?» chiese.
«Cosa?»
«Erodoto. Hai mai letto le sue Storie?»
«Sai una cosa» disse lei in tono sognante, «io non ti capisco. Non capisco come parli né le parole che usi. Prima sembri un gigante tonto, il momento dopo mi leggi nel pensiero, e adesso siamo qui a parlare di Erodoto. Comunque no. Non l’ho letto. So chi è. Ne ho sentito parlare alla radio, in una trasmissione educativa, credo. Non è quello che chiamano il padre delle menzogne?»
«Credevo che quello fosse il diavolo.»
«Sì, anche. Ho sentito parlare di Erodoto a proposito delle formiche giganti e dei grifoni a guardia delle miniere d’oro, tutte cose che aveva inventato.»
«Non credo che inventasse. Scriveva quello che gli veniva raccontato. Scriveva storie, insomma, in genere storie molto interessanti, con un sacco di dettagli strani: tipo, lo sapevi che in Egitto se moriva una ragazza particolarmente bella o la moglie di un signore aspettavano tre giorni prima di farla imbalsamare? Lasciavano il corpo a decomporsi un po’ al sole.»
«Perché? Aspetta. Sì, ho capito. Oh, ma è disgustoso.»
«Nelle sue storie Erodoto racconta battaglie, e un sacco di altri eventi. E poi ci sono gli dèi. Un tizio torna di corsa a fare rapporto sugli esiti di una battaglia; corre, corre, e in una radura incontra il dio Pan. Pan gli dice: "Di’ alla tua gente di erigermi un tempio in questo punto". L’uomo risponde va bene e ricomincia a correre. Riferisce le notizie sulla battaglia e poi aggiunge: "Oh, a proposito, Pan vuole che gli costruiate un tempio". Così, come se fosse una cosa naturale, capisci?»
«Quindi ci sono storie che parlano di dèi. Che cosa stai cercando di dire? Che quella gente aveva le allucinazioni?»
«No» rispose Shadow. «Assolutamente no.»
Sam si mordicchiò la pellicina di un’unghia. «Ho letto un libro sul cervello. Ce l’aveva la mia compagna di stanza e continuava a sbandierarlo in giro. Parlava di quando cinquemila anni fa i lobi del cervello si sono fusi mentre prima la gente pensava che quando il lobo destro diceva qualcosa fosse la voce di un dio a ordinargli di fare questo e quello. È solo una questione di cervello, insomma.»
«Preferisco la mia teoria» disse Shadow.
«E quale sarebbe?»
«Che una volta alla gente capitava di incontrare gli dèi, ogni tanto.»
«Ah.» Silenzio. La macchina sferragliava, si sentivano il rombo del motore e i borbottii poco rassicuranti della marmitta. Poi: «Pensi che siano ancora lì?».
«Dove?»
«In Grecia, in Egitto. Nelle isole. In quei posti lì. Pensi che ripercorrendo le strade percorse da quegli uomini li vedremmo anche noi?»
«Forse. Ma credo che non li riconosceremmo.»
«Scommetto che li scambieremmo per alieni» disse lei. «Di questi tempi la gente vede gli alieni. Una volta vedevano gli dèi. Forse gli alieni vengono dal lato destro del cervello.»
«Secondo me gli dèi non facevano esplorazioni rettali per studiare gli abitanti della terra. Né uccidevano gli animali personalmente. Avevano esseri umani che svolgevano certi lavoretti per loro.»
Lei ridacchiò. Proseguirono per qualche minuto in silenzio e poi Sam disse: «Ehi, questo mi fa venire in mente una delle mie storie di dèi preferite, dal corso di religione comparata del primo anno. Vuoi che te la racconti?».
«Certo.»
«D’accordo. Parla di Odino. Il dio degli antichi scandinavi, hai presente? Allora, c’è un re vichingo su una nave vichinga — siamo all’epoca dei vichinghi, ovviamente — e siccome sono bloccati dalla bonaccia, il re dice che sacrificherà uno dei suoi uomini a Odino se il dio manda un vento che li porti fino a terra. Una volta arrivati tirano a sorte per decidere chi dev’essere sacrificato… — e tocca al re. Be’, il re non è contento, così si inventano di impiccarlo in effigie, in modo da risparmiarlo. Prendono le viscere di un vitello e gliele avvolgono intorno al collo, mentre fissano l’altra estremità su un rametto sottile, poi con un giunco, al posto della lancia, lo pungolano nel fianco dicendo: "Ecco, sei stato impiccato, il sacrificio a Odino sì è compiuto".»
La strada curvò: Another Town (300 ab.), patria dei secondi arrivati nel campionato di pattinaggio in velocità under 12, due enormi imprese di pompe funebri a prezzi popolari sui due lati della strada, e di quante imprese di pompe funebri si può aver bisogno, si domandò Shadow, con trecento abitanti…
«bene. Appena pronunciano il nome di Odino il giunco si trasforma in una lancia e apre una ferita nel fianco del re, l’intestino del vitello diventa una corda spessa, il rametto diventa un grosso ramo che lo tira su, e la terra sfugge ai piedi del re che rimane lì appeso a morire con una ferita nel fianco e la faccia che diventa nera. Fine della storia. I bianchi hanno degli dèi fuori di testa, signor Shadow.»
«Sì» rispose lui. «Tu non sei bianca?»
«Sono cherokee.»
«Cento per cento?»
«No. Cinquanta. La mamma era bianca. Mio padre era un vero indiano della riserva. È venuto da questa parte del mondo, ha sposato mia madre, sono nata io e quando si sono separati è tornato in Oklahoma.»
«È tornato nella riserva?»
«No. Con dei soldi presi in prestito ha aperto un locale, un’imitazione di Taco Bell che ha chiamato Taco Bill’s. Se la passa bene. Io non gli piaccio. Dice che sono una mezzosangue.»
«Peccato.»
«È un fesso. Io sono orgogliosa del mio sangue indiano. Mi permette anche di pagare la retta universitaria. Un giorno mi servirà perfino a trovare un lavoro, se non riuscirò a vendere i miei bronzi.»
«Già, le tue sculture.»
Si fermarono a El Paso, Illinois (2500 ab.) per far scendere Sam davanti a una casa male in arnese alla periferia della città. Nel cortile c’era la grossa sagoma metallica di una renna coperta di luci natalizie. «Vuoi entrare?» chiese lei. «La zia ti prepara volentieri un caffè.»
«No» rispose Shadow. «Devo andare.»
Lei gli sorrise, e di colpo, per la prima volta, sembrò vulnerabile. Gli batté una pacca sul braccio. «Sembri sconnesso, signor Shadow. Ma sembri anche uno che ce la mette tutta.»
«Dev’essere la condizione umana» disse lui. «Grazie per la compagnia.»
«È stato un piacere. Se sulla strada per Cairo incontri qualche dio ricordati di salutarmelo.» Scese dalla macchina e si avviò al portone di casa. Suonò il campanello senza voltarsi indietro. Shadow aspettò fino a quando il portone non venne aperto e poi premette il piede sull’acceleratore e tornò verso l’autostrada. Attraversò le cittadine di Nomai, Bloomington e Lawndale.
Alle undici di sera cominciò a tremare. Era appena entrato a Middletown. Decise che aveva bisogno di dormire, o perlomeno di smettere di guidare, e si fermò davanti a un Night’s Inn, pagò trentacinque dollari in contanti e in anticipo per una stanza al pianterreno e andò nel bagno. Un triste scarafaggio giaceva sul dorso in mezzo al pavimento piastrellato. Shadow prese un asciugamano e pulì la vasca, poi aprì l’acqua. In camera si liberò dei vestiti e li appoggiò sul letto. I lividi sul torso erano diventati scuri e tumescenti. Entrò nella vasca e rimase seduto a guardare l’acqua diventare scura. Poi, tutto nudo, lavò i calzini, le mutande e la maglietta nel lavandino, li strizzò e li appese al filo sospeso proprio sopra la vasca. Lasciò lo scarafaggio dov’era in segno di rispetto per i defunti.
Si infilò sotto le coperte. Gli venne l’idea di guardare un film per adulti, ma per usare la pay-per-view c’era bisogno della carta di credito, troppo rischioso. Inoltre non era convinto che fosse salutare guardare qualcuno fare del sesso che lui non poteva fare. Accese la televisione per avere un po’ di compagnia, schiacciò il pulsante per lo spegnimento automatico tre volte, in modo che l’apparecchio si spegnesse dopo quarantacinque minuti. Mancava un quarto d’ora a mezzanotte.
Come spesso succede negli alberghi, l’immagine sullo schermo era indistinta e i colori nuotavano confusi. Shadow passò da uno spettacolo notturno all’altro in quella terra desolata che era il panorama televisivo, senza riuscire a concentrarsi su niente. Qualcuno stava dimostrando un oggetto che faceva chissà cosa in cucina e sostituiva una decina di utensili dei quali Shadow non aveva mai posseduto nemmeno un esemplare. Zap. Un uomo con un vestito elegante spiegava che era arrivata la fine dei tempi e che Gesù — una parola che lui pronunciava come se avesse tre "e" e due "u" — avrebbe fatto prosperare l’attività di Shadow se questi gli avesse mandato un po’ di soldi. Zap. Un episodio di M*A*S*H terminò e incominciò una puntata del Dick Van Dyke Show.
Shadow non ne vedeva una un sacco di tempo, ma trovava qualcosa di confortante in quel mondo anni Sessanta dipinto in bianco e nero e, appoggiato il telecomando accanto al letto, spense la luce. Rimase a guardare lo show, con gli occhi che si chiudevano dal sonno, avvertendo qualcosa di strano. Non aveva visto molti episodi del Dick Van Dyke, perciò non si sorprese di aver trovato una puntata che non ricordava. Trovava strano il tono, comunque.
I personaggi, i normali, erano preoccupati perché Rob beveva. Non si presentava più in ufficio. Andavano a casa sua: si era barricato in camera da letto e convincerlo a uscire non era facile. Era ubriaco marcio ma ancora piuttosto divertente. I suoi amici, interpretati da Maury Amsterdam e Rose Marie, se ne andavano dopo qualche scenetta comica. Poi, quando la moglie di Rob andava a rimproverarlo per l’accaduto, lui la picchiava, un forte manrovescio sulla faccia. Lei si metteva seduta per terra a piangere, non con quei famosi lamenti alla Mary Tyler, ma singhiozzando disperata, proteggendosi con le braccia e implorando: «Non picchiarmi, ti prego, faccio tutto quello che vuoi, ma non picchiarmi».
«Che cosa cazzo succede?» esclamò Shadow a voce alta.
L’immagine sullo schermo si dissolse in una foschia di puntini fosforescenti. Quando tornò, il Dick Van Dyke Show si era misteriosamente trasformato in I Love Lucy. Lucy stava cercando di convincere Ricky a lasciarle sostituire la vecchia ghiacciaia con un frigorifero nuovo. Quando Ricky uscì di scena, Lucy andò a sedersi sul divano, incrociò le caviglie, appoggiò le mani in grembo e fissando con espressione paziente dal bianco e nero del passato disse: «Shadow? Dobbiamo parlare, noi due».
Shadow rimase zitto. Lei aprì la borsetta e prese una sigaretta, la accese con un lussuoso accendino d’argento che rimise via. «Sto parlando con te. Allora?»
«Ma questa è roba da pazzi» disse lui.
«Perché, il resto della tua vita è normale? Ma fammi il piacere.»
«Be’… Lucille Ball che mi parla dal televisore è di parecchi ordini di grandezza più strano di qualsiasi cosa mi sia successa fino a oggi.»
«Non sono Lucille Ball. Mi chiamo Lucy Ricardo. E sai una cosa… non sono nemmeno Lucy. È più semplice pensare che lo sia, data la situazione. Tutto qui.» Si mosse sul divano, a disagio.
«Chi sei?»
«D’accordo» rispose lei. «È una buona domanda. Sono la scatola scema. Sono la Tv. Sono l’occhio che tutto vede e il mondo del tubo catodico. Sono la grande sorella. Sono il tempietto intorno a cui si riunisce la famiglia per pregare.»
«Sei la televisione? O qualcuno alla televisione?»
«La Tv è l’altare. Io sono ciò a cui il pubblico offre i suoi sacrifici.»
«E che cosa sacrificano?» chiese Shadow.
«Il loro tempo, soprattutto» disse Lucy. «A volte le persone che hanno vicino.» Alzò due dita e soffiò dai polpastrelli il fumo immaginario uscito da una pistola. Poi strizzò l’occhio, un bella strizzata d’occhio proprio nello stile di I Love Lucy.
«Sei una dea?» le chiese Shadow.
Lucy sorrise con aria furba e fece un tiro dalla sigaretta in modo molto femminile. «Puoi ben dirlo.»
«Sam ti manda i suoi saluti» disse Shadow.
«Cosa? Chi è Sam? Che cosa stai dicendo?»
Shadow guardò l’ora. Erano le dodici e venticinque. «Non fa niente» disse. «Allora, Lucy-alla-Tv. Di che cosa dobbiamo parlare? Ultimamente c’è troppa gente che vuole parlare con me. In genere finisce che le prendo.»
La macchina da presa si avvicinò per un primo piano: Lucy aveva un’aria preoccupata, le labbra corrucciate. «Mi dispiace tanto. Mi dispiace quando ti fanno del male, Shadow. Io non te ne farei mai, caro. No, quello che ti voglio proporre è un lavoro.»
«Cosa dovrei fare?»
«Lavorare per me. Ho sentito che hai passato dei guai con gli Spioni e sono rimasta colpita da come hai risolto la situazione. Con efficienza, razionalità ed efficacia. Chi l’avrebbe detto che saresti stato capace di una cosa simile? Sono veramente incazzati.»
«Ah sì?»
«Ti avevano sottovalutato, dolcezza. Un errore che io non intendo ripetere. Voglio averti dalla mia parte.» Si alzò e si avvicinò alla macchina. «Guardiamola in questo modo, Shadow: noi siamo il futuro. Noi siamo i centri commerciali, e i tuoi amici sono sgangherate attrazioni per turisti. Siamo gli acquisti in rete, accipicchia, mentre i tuoi amici se ne stanno ancora seduti sul ciglio della strada a vendere i prodotti dell’orto su un carretto. No, non sono nemmeno fruttivendoli. Vendono fruste per vecchi calessi. Riparano le stecche di balena dei corsetti. Noi siamo il presente e il futuro. I tuoi amici non rappresentano più nemmeno il passato.»
Era un discorso che a Shadow sembrava di aver già sentito. «Conosci un ragazzino grasso con una limousine?»
Lei allargò le braccia e fece roteare comicamente gli occhi, Lucy Ricardo che si lavava in modo buffo le mani dopo un disastro. «Il ragazzo tecnologico? Hai incontrato il ragazzo tecnologico? Guarda, dammi retta, è un bravo ragazzo. È uno di noi. Solo che non è gentile con quelli che non conosce. Una volta che comincerai a lavorare per noi vedrai com’è divertente.»
«E se non volessi lavorare per voi, I-Love-Lucy?»
Qualcuno bussò alla porta dell’appartamento di Lucy, e dalle quinte si sentì la voce di Ricky domandare a Luuucy che cosa la stesse trattenendo, perché dovevano registrare la scena al club. La faccia da cartone animato di lei fu attraversata da un fremito di irritazione. «Accipicchia» disse. «Senti, qualsiasi cosa ti paghino i vecchi io posso darti il doppio. Il triplo. Cento volte quello che prendi adesso. Posso darti infinitamente di più.» Sorrise, un perfetto sorriso smaliziato alla Lucy Ricardo. «Chiedimi quello che vuoi, dolcezza. Che cosa ti serve?» Cominciò a slacciare i bottoni della camicetta. «Ehi» disse, «ti va di vedere le tette di Lucy?»
Lo schermo si oscurò. Il comando di spegnimento automatico si era attivato. Shadow guardò l’ora: mezzanotte e mezzo. «Assolutamente no.»
Si girò su un fianco e chiuse gli occhi. Gli venne in mente che la ragione per cui Wednesday, il signor Nancy e tutti gli altri gli piacevano più dei loro nemici era abbastanza semplice: magari erano sporchi e male in arnese e mangiavano robaccia, ma perlomeno non si esprimevano per luoghi comuni.
E riteneva di preferire una meta turistica, per quando scalcagnata, perversa e triste, a un qualsiasi centro commerciale.
Il mattino trovò Shadow in viaggio lungo un paesaggio scuro e morbidamente ondulato, coperto di erbacce rinsecchite e alberi spogli. Era scomparsa anche l’ultima neve. Shadow fece il pieno al rottame in una cittadina che aveva dato i natali alla squadra under 16 femminile seconda classificata nei trecento metri piani al campionato dello stato e, augurandosi che non fosse la sporcizia e tenere insieme la macchina, decise di infilarla sotto i rulli di lavaggio. Scoprì con sorpresa che una volta pulita era bianca — contrariamente a ogni aspettativa — e con la vernice in buone condizioni. Si rimise in marcia.
Il cielo aveva un azzurro impossibile e il fumo industriale e biancastro che saliva dalle ciminiere era immobile come in una fotografia. Da un albero rinsecchito un falco si lanciò verso di lui con le ali che lampeggiavano nel sole come in una fotografia scattata con il dispositivo d’arresto.
A un certo punto Shadow finì all’uscita di St Louis Est. Tentò di evitarlo, ma si trovò ad attraversare il quartiere a luci rosse di un parco industriale. C’erano tir e autocarri con rimorchi lunghissimi parcheggiati davanti a edifici che sembravano magazzini prefabbricati con la scritta NIGHT CLUB 24 ORE SU 24 e, in un caso, IL MIGLIOR PEEP SHOW DELLA CITTÀ. Shadow scosse la testa e proseguì. A Laura piaceva ballare vestita e nuda (e, in alcune serate memorabili, passando da una condizione all’altra) e a lui piaceva guardarla.
Per pranzo prese un panino e una lattina di Coca in una cittadina che si chiamava Red Bud.
Attraversò una vallata coperta dei rottami di migliaia di bulldozer gialli, trattori e cingolati. Si domandò se per caso non fosse il cimitero dei bulldozer, il posto dove i bulldozer andavano a morire.
Superò il Pop-a-Top Lounge e attraversò Chester ("Città natale di Braccio di Ferro"). Notò che le case adesso avevano i porticati, sulla facciata, anche la più piccola e cadente sfoggiava un piccolo portico sostenuto da colonne bianche che la proclamava palazzo, agli occhi dei passanti. Superò un grosso fiume fangoso e rise forte scoprendo che si chiamava Big Muddy River, secondo il cartello. Sopra tre alberi rinsecchiti dal freddo vide un intricato ammasso di kudzu scuro, la pianta rampicante li costringeva ad assumere forme strane, quasi umane: sembravano streghe, tre fattucchiere curve e pronte a leggergli che cosa aveva in serbo il futuro.
Costeggiò il Mississippi. Non aveva mai visto il Nilo, ma il sole accecante del pomeriggio sulla grande distesa d’acqua scura lo fece pensare al corso limaccioso del Nilo: non il Nilo di oggi ma quello di tanto tempo fa, un’ arteria vitale tra gli acquitrini dove cresceva fitto il papiro, rifugio di cobra e sciacalli e vacche selvatiche…
Un cartello segnalava la deviazione per Thebes.
Era una strada sopraelevata circa quattro metri, sospesa sulla palude. Stormi di uccelli volavano avanti e indietro in una specie di disperato moto browniano a caccia di cibo, puntolini neri contro l’azzurro del cielo.
Più tardi il sole cominciò a tramontare, avvolgendo il mondo in una luce dorata, elfica, una luce color crema, calda e intensa, che dava a tutto un’apparenza di irrealtà, e fu in questa luce che Shadow superò il cartello che annunciava "Siete entrati nella Cairo storica". Passò sotto un ponte e si trovò in una cittadina portuale. L’imponente struttura del tribunale e l’ancor più imponente edificio del dazio avevano l’aria di enormi biscotti appena sfornati nella luce color oro sciropposo del finire del giorno.
Parcheggiò in una strada laterale e si avviò verso l’argine del fiume, incerto se stesse guardando l’Ohio o il Mississippi. Un piccolo gatto marrone spuntò con un balzo dai bidoni dell’immondizia sul retro di un palazzo: in quella luce anche i bidoni sembravano magici.
Un gabbiano solitario sorvolava l’argine mantenendosi in rotta con uno sporadico colpo d’ala.
Shadow si accorse di non essere solo. Una bimba con un paio di vecchie scarpe da tennis e un maglione da uomo di lana grigia come vestito era in piedi sul marciapiede, a tre metri da lui, e lo fissava con la serietà malinconica di cui sono capaci i bambini di sei anni. Aveva i capelli neri, lunghi e diritti, la pelle scura come le acque del fiume.
Lui le sorrise, ma lei si limitò a fissarlo con aria di sfida.
Si sentì un miagolio e un ululato, e il gattino marrone schizzò fuori da un bidone rovesciato inseguito da un cane nero con il muso lungo. Il gatto si rifugiò sotto un’automobile.
«Ehi» disse Shadow alla bambina. «Hai mai visto la polvere invisibile?»
Lei esitò, poi scosse la testa.
«Va bene. Allora guarda qui.» Shadow le mostrò una moneta da un quarto di dollaro con la sinistra, la tenne in alto girandola da una parte all’altra e poi fece il gesto di lanciarla nella mano destra, chiudendola e tendendola in avanti. «Adesso» disse «prendo un po’ di polverina magica dalla tasca…» infilò la sinistra nel taschino interno, lasciandovi cadere nel frattempo la moneta «… la spruzzo sulla mano con dentro la moneta…» e finse di spargere qualcosa «guarda qui: adesso anche la moneta è invisibile.» Aprì la destra e la sinistra fingendosi sbalordito: erano entrambe vuote.
La bambina continuava a fissarlo.
Shadow scrollò le spalle, infilò le mani nelle tasche richiudendo una moneta da venticinque centesimi in una e, nell’altra, una banconota da cinque dollari ben piegata. Voleva farle comparire dal nulla e poi dare alla bambina i cinque dollari: sembrava averne bisogno. «Ehi» disse, «abbiamo un pubblico.»
Anche il cane nero e il gattino marrone adesso lo stavano osservando, fermi accanto alla bambina lo fissavano con estrema attenzione. Il cane aveva le orecchie all’insù, enormi, che gli davano un’aria comicamente attenta. Un uomo che somigliava a una gru, con un paio di occhiali con la montatura dorata, si stava avvicinando lungo il marciapiede, gettava occhiate a destra e a sinistra come se stesse cercando qualcosa. Shadow si chiese se non fosse per caso il padrone del cane.
«Come ti è sembrato?» chiese all’animale nel tentativo di mettere la bambina a suo agio. «Ti è piaciuto il trucco?»
Il cane nero si leccò il lungo naso. Poi, con una voce profonda e distaccata disse: «Una volta ho visto Harry Houdini e, credimi, ne hai di strada da fare».
La bambina guardò gli animali, guardò Shadow e poi cominciò a correre come se tutti i diavoli dell’inferno la stessero inseguendo. I due animali rimasero a osservarla. L’uomo che somigliava a una gru si era avvicinato al cane. Si chinò a grattargli le orecchie appuntite.
«Dai» gli disse, «era soltanto un giochetto con le monete. Non è che stesse facendo chissà quale numero sott’acqua.»
«Oggi no» rispose il cane. «Ma lo farà.» La luce dorata era scomparsa cedendo al grigio del crepuscolo.
Shadow lasciò cadere nella tasca la moneta e la banconota ripiegata. «Va bene» disse. «Chi di voi due è Sciacallo?»
«Adopera gli occhi» rispose il cane nero con il muso lungo. E si incamminò per il marciapiede di fianco all’uomo con gli occhiali dalla montatura dorata e, dopo un attimo di esitazione, Shadow li seguì. Il gatto non c’era più. Arrivarono davanti a un antico palazzo in una strada dove tutti gli edifici sembravano disabitati. Sul cartello vicino alla porta c’era scritto IBIS JACQUEL. POMPE FUNEBRI. IMPRESA FAMILIARE FONDATA NEL 1863.
«Io sono il signor Ibis» disse l’uomo con gli occhiali dalla montatura dorata. «Credo di doverle offrire un boccone per cena. Temo che il mio amico qui abbia del lavoro da sbrigare.»
Chissà dove, sempre in America
Salim ha paura di New York, perciò stringe al petto la valigetta del campionario con tutte e due le mani, come per proteggerla. Ha paura dei neri, del modo in cui lo fissano, ha paura degli ebrei -quelli tutti vestiti di nero con i capelli e le barbe e i riccioli che riesce a riconoscere, e chissà quanti altri ebrei non riconosce — e ha paura dell’enorme quantità di gente, gente di tutte le forme e misure, che si riversa sui marciapiedi dagli altissimi palazzi sudici; ha paura del fracasso del traffico e ha paura anche dell’aria che odora insieme di sporcizia e di qualcosa di dolce, e non somiglia per niente all’aria dell’Oman.
Salim è a New York, in America, da una settimana. Ogni giorno visita due o qualche volta tre uffici diversi, apre la valigetta, mostra i ninnoli di rame, gli anelli, le bottigliette e le minuscole torce elettriche, i modellini dell’Empire State Building, della Statua della Libertà, della Torre Eiffel, con il rame scintillante all’interno; ogni sera scrive un fax a suo cognato Fuad, nella casa di Muscat, per dirgli che non ha ricevuto ordinazioni oppure, in una felice occasione, di aver fatto alcuni ordini (ma ancora insufficienti — Salim ne è dolorosamente consapevole — a coprire le spese del biglietto aereo e dell’albergo).
Per motivi che a Salim risultano oscuri i soci d’affari del cognato lo hanno sistemato all’Hotel Paramount, sulla Quarantaseiesima. Salim è disorientato in un posto così costoso ed estraneo, soffre di claustrofobia.
Fuad è il marito di sua sorella. Non è ricco, però è comproprietario di una piccola fabbrica di cianfrusaglie, oggetti prodotti per l’esportazione in altri paesi arabi, in Europa, in America. Salim lavora per il cognato da sei mesi. Fuad gli fa un po’ paura. Il tono dei suoi fax diventa ogni giorno più duro. La sera Salim se ne sta seduto nella stanza d’albergo a leggere il Corano, a dirsi che tutto passa, e anche il suo soggiorno in questo nuovo mondo è limitato nel tempo.
Suo cognato gli ha dato mille dollari per le spese di viaggio, e sembravano una somma enorme, in un primo momento, ma adesso si stanno volatilizzando sotto i suoi occhi increduli. Appena arrivato dava la mancia a chiunque, banconote da un dollaro a tutti quelli che incontrava, per timore di essere giudicato un arabo pezzente; poi si era reso conto che si approfittavano di lui, che forse gli ridevano addirittura dietro, e aveva smesso di dare mance del tutto.
La prima e unica volta che aveva preso la metropolitana si era perso ed era arrivato troppo tardi all’appuntamento; ora prende il taxi solo se è necessario, e per il resto del tempo si sposta a piedi. Incespica dentro uffici surriscaldati, le guance insensibili per il freddo, sudato sotto il cappotto, le scarpe inzuppate di pioggia fangosa, e quando il vento soffia lungo le avenue (che vanno da nord a sud, mentre le strade vanno da ovest a est, tutto molto semplice, così Salim sa sempre dov’è La Mecca) il freddo che lo colpisce sulle parti di pelle più esposta è così intenso da fargli credere che lo stiano picchiando.
Non mangia mai in albergo (perché la camera è pagata dai soci di Fuad, ma al cibo deve provvedere da sé) e compera qualcosa nei negozi di falafel o in qualche piccola rosticceria, e per giorni lo porta su in camera nascondendolo sotto il cappotto, prima di capire che non gliene importa niente a nessuno. Eppure continua a fargli uno strano effetto entrare negli ascensori fiocamente illuminati con il sacchetto della spesa (deve sempre chinarsi e socchiudere gli occhi per trovare il pulsante del suo piano) e percorrere il corridoio fino alla stanzetta bianca dove è alloggiato.
Salìm è scombussolato. Il fax che lo ha accolto al suo risveglio era conciso e a toni alterni: sarcastico, severo, ferito. Salim li sta deludendo: sua sorella, Fuad, i soci di Fuad, il Sultanato dell’Oman, l’intero mondo arabo. Se non riesce a ottenere ordinazioni di merce Fuad non si sentirà più obbligato a tenerlo al proprio servizio. Era tutto nelle sue mani. L’albergo è troppo caro. Che cosa sta facendo Salim con i loro soldi, vive in America come un nababbo? Salim legge il fax in camera (in genere troppo calda e soffocante, ma siccome la sera prima aveva aperto la finestra, adesso è gelida), rimane seduto a lungo, sul volto un’espressione di infelicità totale.
Poi Salim va a piedi downtown con il campionario stretto al petto come se si trattasse di rubini e diamanti, si trascina nel freddo per un isolato dopo l’altro fino a quando, tra Broadway e la Diciannovesima, non raggiunge un tozzo edificio sopra un deli. Sale i quattro piani a piedi fino alla Panglobal Imports.
Gli uffici sono squallidi, però Salim sa che la Panglobal tratta la metà dei souvenir che entrano negli Stati Uniti dall’Estremo Oriente. Un vero ordine, un ordine significativo da parte della Panglobal, potrebbe riscattarlo, basterebbe a trasformare un fallimento in successo, e per questo lui prende posto su una scomoda sedia di legno nella saletta d’attesa con la valigetta del campionario in equilibrio sulle ginocchia, di fronte a una donna di mezza età con i capelli tinti di un rosso troppo forte che siede a sua volta dietro una scrivania e si soffia continuamente il naso nei kleenex. Dopo essersi soffiata il naso lo tampona, poi lascia cadere il fazzolettino di carta nel cestino.
Salim è arrivato alle dieci e mezzo del mattino, mezz’ora prima dell’appuntamento. Se ne sta seduto, tutto paonazzo e tremante, chiedendosi se non gli sia venuta la febbre. Il tempo passa molto lentamente.
Salim guarda l’ora. Poi si schiarisce la gola.
La donna dietro la scrivania gli lancia un’occhiataccia. «Sì?» dice. Però suona "Di".
«Sono le undici e trentacinque» annuncia Salim.
La donna guarda l’orologio a parete e ripete «Dì. È dodì.»
«Avevo un appuntamento per le undici» dice Salim con un sorriso conciliatorio.
«Il signor Blanding sa che lei è qui» gli risponde la donna in tono di riprovazione. ("Il didor Bladding da che lei è qui.")
Salim prende dal tavolino una vecchia copia del "New York Post". Parla l’inglese meglio di quanto lo legga, e arranca da un articolo all’altro come se facesse le parole crociate. Aspetta, giovanotto paffuto con lo sguardo da cucciolo abbandonato, e studia l’orologio, il giornale e l’orologio a muro.
Alle dodici e mezzo alcuni uomini escono da un ufficio. Parlano a voce alta, farfugliano tra loro in americano. Un uomo grande e grosso con la pancia tiene in bocca un sigaro spento. Uscendo getta un’occhiata a Salim. Raccomanda alla donna dietro la scrivania di provare con succo di limone e zinco, perché sua sorella dice che la combinazione di zinco e vitamina C fa miracoli. Lei promette che lo farà e gli consegna alcune buste. L’uomo se le infila in tasca ed esce insieme agli altri. L’eco delle loro risate si dissolve lungo le scale.
È l’una. La donna dietro la scrivania apre un cassetto e ne estrae un sacchetto di carta marrone da cui sfila alcuni panini imbottiti, una mela e una merendina Milky Way. Tira fuori anche una bottiglietta di plastica che contiene spremuta d’arancia.
«Mi scusi» dice Salim, «potrebbe dire al signor Blanding che sto ancora aspettando?»
La donna lo guarda come se fosse sorpresa di vederlo ancora lì, come se non fossero stati seduti per due ore e mezzo a poco più di un metro di distanza. «È andato a mangiare» dice. ("E addato a maddare.")
Salim lo sa, sa per istinto che Blanding era l’uomo con il sigaro spento in bocca. «Quando torna?»
La donna scrolla le spalle, addenta il panino. «Sa, ha da fare per il resto della giornata» dice. ("Addare ber il reddo della domata.")
«Mi riceverà, quando torna?» domanda Salim.
Lei scrolla le spalle, si soffia il naso.
Salim ha fame, è sempre più affamato, frustrato e impotente.
Alle tre la donna lo guarda e dice: «Dod doderà.»
«Prego?»
«Il didor Bladdig. Oddi dod dodderà.»
«Posso prendere un appuntamento per domani?»
La donna si asciuga il naso. «Debe dedefonade. Li abbundamendi di prendono doldando per dedefono.»
«Capisco» risponde Salim. E poi sorride: un rappresentante, gli ha ripetuto Fuad prima che partisse da Muscat, in America è nudo, senza il suo sorriso. «Telefonerò domani» dice. Prende la valigetta del campionario e percorre tutte le rampe di scale fino alla strada, dove la pioggia gelata si sta trasformando in nevischio. Salim medita sulla lunga camminata fino all’albergo sulla Quarantaseiesima, sul peso del campionario, e scende dal marciapiede per chiamare con un cenno tutti i taxi gialli che passano, indipendentemente dal fatto che abbiano la luce accesa o spenta, ma nessuno si ferma.
Un taxi addirittura accelera, passandogli davanti, schizzandolo di fangosa acqua gelata sui pantaloni e sul cappotto. Per un attimo Salim prende in considerazione l’idea di gettarsi sotto le ruote di una di quelle vetture che avanzano goffe, però si rende conto che il cognato si preoccuperebbe più della sorte del campionario che della sua, e sa che nessuno, a parte l’amata sorella, soffrirebbe per la sua perdita (Salim ha sempre costituito ragione di lieve imbarazzo per i genitori, e i suoi incontri romantici sono sempre stati necessariamente brevi e piuttosto clandestini); inoltre dubita del fatto che quelle macchine vadano abbastanza veloci per mettere fine alla sua vita.
Un malconcio taxi giallo si avvicina e si ferma, Salim sale, lieto di poter abbandonare quel corso di pensieri.
Il rivestimento del sedile posteriore è stato rattoppato con nastro adesivo grigio; la barriera di plexiglas, semiaperta, è coperta di cartelli "Vietato fumare", e di altri che indicano i costi delle corse per i diversi aeroporti. La voce registrata di qualcuno famoso che Salim non ha mai sentito nominare gli ricorda che deve mettersi la cintura di sicurezza.
«All’Hotel Paramount, per favore» dice.
Il tassista si lancia nel traffico con un grugnito. Ha la barba lunga e porta un maglione pesante, color polvere, e un paio di occhiali neri di plastica. È una giornata grigia, e sta scendendo la sera: Salim si domanda se l’uomo abbia qualche problema agli occhi. I tergicristallo trasformano la strada in una macchia confusa di grigio e colpi di luce.
Proprio davanti a loro spunta dal nulla un camion e il tassista impreca per la barba del Profeta.
Salim cerca di leggere il nome sul cruscotto, ma non riesce a decifrarlo. «Da quanto tempo fai questo lavoro, amico?» gli chiede nella sua lingua.
«Dieci anni» risponde l’altro nello stesso idioma. «Da dove vieni?»
«Da Muscat» dice Salim. «Nell’Oman.»
«Oman. Ci sono stato, nell’Oman. Tanto tempo fa. Hai sentito parlare della città di Ubar?»
«Certamente» risponde Salim. «La Città Perduta delle Torri. Ne hanno trovato i resti nel deserto cinque o dieci anni fa, non ricordo. Eri nella spedizione che ha fatto gli scavi?»
«Diciamo di sì. Era una bella città» dice il tassista. «Certe notti c’erano fino a tre o quattromila persone accampate: tutti i viaggiatori si fermavano a Ubar, e si faceva musica e il vino scorreva come acqua e anche l’acqua scorreva abbondante dando alla città la possibilità di esistere.»
«L’ho sentito anch’io» dice Salim. «Quando è caduta? Mille o duemila anni fa?»
Il tassista non risponde. Sono fermi a un semaforo. Quando la luce diventa verde però il tassista non riparte malgrado l’immediato coro discordante di clacson alle loro spalle. Esitante, Salim fa passare un braccio attraverso il buco nel plexiglas e gli tocca una spalla. L’uomo alza di scatto la testa e preme l’acceleratore per attraversare lentamente l’incrocio.
«Cazzocazzomerda» esclama in inglese.
«Devi essere molto stanco, amico.»
«Guido questo taxi-dimenticato-da-Allah da trenta ore» dice il tassista. «È troppo. E prima avevo dormito cinque ore, e prima ancora avevo guidato per quattordici ore. Siamo a corto di personale, sotto Natale.»
«Spero che tu stia guadagnando un sacco di soldi» dice Salim.
L’uomo sospira. «Non molti. Stamattina ho portato un cliente dalla Cinquantunesima fino all’aeroporto di Newark. Appena arrivati è saltato giù e si è messo a correre e non sono riuscito a trovarlo. Una corsa da cinquanta dollari persa e rientrando in città ho dovuto pagare il pedaggio del tunnel di tasca mia.»
Salim annuisce. «Io ho passato la giornata aspettando di essere ricevuto da un uomo che non aveva nessuna intenzione di ricevermi. Mio cognato mi odia. Sono in America da una settimana e non ho fatto altro che spendere soldi. Non riesco a vendere niente.»
«Che cosa vendi?»
«Porcherie» dice Salim. «Inutili gingilli e brutti souvenir. Porcherie ignobili, brutte, cretine.»
Il tassista sterza sulla destra, aggira un ostacolo e prosegue. Salim si chiede come faccia a guidare con la pioggia, al buio e con gli occhiali neri.
«Cerchi di vendere porcherie?»
«Sì» dice Salim, eccitato e insieme orripilato all’idea di aver finalmente dichiarato ciò che pensa del campionario del cognato.
«E non te le comprano?»
«No.»
«Strano. Se guardi le vetrine dei negozi, sembra che non si venda altro.»
Salim sorride nervosamente.
Un camion sta bloccando la strada: un poliziotto con la faccia rossa in piedi davanti al mezzo gesticola, grida e fa segno di imboccare un’altra strada.
«Andiamo fino all’Ottava e risaliamo verso uptown da quella parte» dice il tassista. Svoltano e scoprono che il traffico è completamente bloccato. Risuonano cacofonici i clacson, ma le automobili rimangono ferme.
Il tassista ciondola sul sedile e il mento gli si piega contro il petto, una, due, tre volte. Poi, gentilmente, comincia a russare. Salim si protende per toccarlo, per svegliarlo, augurandosi di fare la cosa giusta. Mentre lo scuote per una spalla l’uomo si sposta e la mano di Salim gli sfiora la faccia, facendogli inavvertitamente cadere gli occhiali in grembo.
Il tassista apre gli occhi, riprende gli occhiali e se li rimette, ma è troppo tardi. Salim ha visto i suoi occhi. La macchina avanza di pochi metri sotto la pioggia. I numeri scattano sul tassametro.
«Mi ucciderai?» chiede Salim.
L’uomo tiene le labbra strette e Salim lo osserva attraverso lo specchietto retrovisore.
«No» gli dice a voce bassissima.
Sono di nuovo fermi. La pioggia picchietta sul tetto.
Salim comincia a parlare. «Una sera tardi mia nonna è tornata a casa raccontando di aver visto un ifrit, o forse un marid, nel deserto. Noi le abbiamo detto che doveva essersi trattato di una tempesta di sabbia, o del vento, ma lei giurava, diceva di no, diceva di averlo visto in faccia e che nei suoi occhi bruciavano fiamme, come nei tuoi.»
Il tassista sorride, ma siccome gli occhiali scuri gli nascondono gli occhi Salim non sa dire se in quel sorriso ci sia davvero un po’ di buon umore. «Anche le nonne vengono qui» dice.
«Ci sono molti jinn a New York?» chiede Salim.
«No. Non siamo in molti.»
«Ci sono gli angeli, e ci sono gli uomini, che Allah ha creato dal fango, poi c’è il popolo del fuoco, i jinn» dice Salim.
«In questo posto la gente non sa niente di noi» dice il tassista. «Credono che possiamo esaudire i desideri. Pensi che starei al volante di un taxi, se fossi capace di esaudire i desideri?»
«Non capisco.»
Il tassista sembra depresso. Salim lo fissa nello specchietto, osservando le sue labbra scure, mentre parla.
«Credono che possiamo esaudire i desideri. Come fanno a credere una cosa simile? Io dormo in una lurida stanzetta a Brooklyn. Guido questo taxi per qualsiasi lurido scombinato che abbia i soldi per pagarsi una corsa e anche per quelli che i soldi non ce li hanno. Li porto dove devono andare e qualche volta mi danno la mancia. A volte mi pagano.» Il suo labbro inferiore ebbe un fremito. Sembrava esausto. «Un giorno un cliente mi ha cacato sul sedile. L’ho dovuto ripulire, prima di riportare la macchina nell’autorimessa. Perché mi ha fatto una cosa simile? Ho dovuto togliere la merda dal sedile. Ti sembra giusto?»
Salim allunga una mano e gli dà una pacca sulla spalla. Sotto il maglione sente una muscolatura solida. L’ifrit stacca una mano dal volante e l’appoggia per un momento su quella di Salim.
Salim pensa al deserto: sabbia rossa soffiata dal vento tra i suoi pensieri, e la seta scarlatta delle tende montate intorno alla perduta città di Ubar sbatte e gli si agita nella mente.
Arrivano all’Ottava Avenue.
«I vecchi credono. Non pisciano nei buchi perché il Profeta ha detto che lì vivono i jinn. Sanno che gli angeli ci tirano addosso le stelle infuocate, quando cerchiamo di ascoltare i loro discorsi. Ma anche per i vecchi, quando arrivano in questo paese, noi diventiamo molto, molto distanti. In patria non ero costretto a guidare un taxi.»
«Mi dispiace» dice Salim.
«È un brutto momento. C’è tempesta, in arrivo. Sono spaventato. Farei qualsiasi cosa per potermene andare via.»
Mentre si avvicinavano all’albergo non dissero più niente.
Quando scese dal taxi Salim diede all’ifrit una banconota da venti dollari dicendogli di tenere il resto. Poi, in un inaspettato impeto di coraggio, gli disse anche il numero della sua camera. Il tassista non rispose. Una giovane donna salì sulla macchina che ripartì nel freddo, sotto la pioggia.
Le sei di sera. Salim non ha ancora scritto il fax al cognato. Torna fuori nella pioggia, si compera kebab e patatine per la cena. È qui da una settimana appena, ma ha già l’impressione che questa terra newyorkese lo stia facendo diventare più grassoccio, più flaccido.
Quando rientra in albergo è sorpreso di vedere il tassista nell’ingresso, in piedi, con le mani affondate nelle tasche, che osserva le cartoline in bianco e nero. Quando vede Salim l’uomo sorride, imbarazzato. «Ti ho fatto chiamare» dice, «ma in camera non rispondeva nessuno. Così ho pensato di aspettarti.»
Salim ricambia il sorriso e gli sfiora un braccio. «Sono arrivato.»
Entrano insieme nell’ascensore illuminato fiocamente da una luce verdastra e salgono fino al quinto piano tenendosi per mano. L’ifrit gli chiede di usare il bagno. «Mi sento sporchissimo.» Salim fa segno di sì con la testa. Siede sul letto, che occupa gran parte della piccola camera bianca e rimane ad ascoltare il rumore dell’acqua che scorre nella doccia. Si toglie le scarpe, le calze, il resto.
Il tassista esce dalla doccia ancora umido e con un asciugamano avvolto intorno ai fianchi. Non porta gli occhiali e nella debole luce della stanza le fiamme nei suoi occhi bruciano scarlatte.
Salim respinge le lacrime. «Vorrei che tu potessi vedere quello che vedo io» dice.
«Non posso esaudire i desideri» sussurra l’ifrit lasciando cadere per terra l’asciugamano e spingendo Salim con gentilezza, ma irresistibilmente, sul letto.
È passata più di un’ora quando l’ifrit gli viene in bocca con colpi violenti. Salim è già venuto due volte. Il seme del jinn ha un sapore strano, è infuocato e gli brucia la gola.
Salim va in bagno a sciacquarsi la bocca. Quando torna, il tassista sta russando tranquillo nel letto bianco. Salim gli si rannicchia vicino, immaginando il deserto sulla sua pelle.
Mentre sta per addormentarsi gli viene in mente che non ha ancora scritto a Fuad e prova un senso di colpa. Dentro si sente vuoto, e solo: allunga una mano e la posa sul cazzo dell’ifrit, ancora tumido e, un po’ confortato, si addormenta.
Nel cuore della notte si svegliano e fanno l’amore. A un certo punto Salim si accorge di piangere e l’ifrit gli asciuga le lacrime con baci infuocati. «Come ti chiami?» chiede al tassista.
«Sulla licenza del taxi c’è un nome, ma non è il mio» risponde l’ifrit.
Salim non riuscì a ricordare, dopo, dov’era finito il sesso e dov’era cominciato il sogno.
Quando si sveglia un sole freddo illumina la camera bianca ed è solo.
Inoltre è sparito il campionario, tutti i souvenir, le bottigliette e gli anelli e le torce elettriche di rame, tutto scomparso insieme a valigia, portafogli, passaporto e biglietto di ritorno per l’Oman.
Per terra trova un paio di jeans, una maglietta e il maglione di lana color polvere. Sotto gli indumenti c’è una patente con il nome di Ibrahim bin Irem, la licenza del taxi con lo stesso nome e un portachiavi con l’indirizzo scritto su un pezzettino di carta, in inglese. L’uomo nelle fotografie sulla patente e sulla licenza non gli somiglia, ma del resto non somigliava nemmeno all’ifrit.
Squilla il telefono: è la reception, comunicano che Salim ha lasciato l’albergo e anche il suo ospite dovrebbe liberare la stanza, in modo che il personale possa provvedere a pulirla e prepararla per il prossimo cliente.
«Io non posso esaudire i desideri» dice Salim assaporando il suono delle parole.
Mentre si veste sente la testa stranamente leggera.
New York è molto semplice, le avenue vanno da nord a sud, le strade da ovest a est. Che difficoltà ci possono essere? si chiede.
Lancia per aria le chiavi e le riprende al volo. Poi si infila gli occhiali da sole di plastica che ha trovato in una tasca ed esce per andare a cercare il suo taxi.
I morti hanno un’anima, disse, ma quando gli domandai
Com’era possibile — pensavo che i morti fossero anime,
Mi risvegliò dal sogno. Non ti insospettisce, disse,
Il fatto che i morti tacciano qualcosa?
Sì, c’è qualcosa che ci tengono nascosto.
Quella sera a cena Shadow apprese che la settimana prima di Natale è sempre un periodo tranquillo per le imprese di pompe funebri. Erano seduti in un ristorantino a due isolati dalla Ibis Jacquel; Shadow stava facendo una colazione completa — c’erano anche le frittelle di mais — e il signor Ibis sbocconcellava una fetta di torta. Fu il signor Ibis a spiegarglielo. «Chi ha ancora qualche giorno di vita resiste per festeggiare l’ultimo Natale» disse «o addirittura il Capodanno, mentre gli altri, quelli che trovano l’allegria e i festeggiamenti altrui troppo dolorosi ma non sono stati portati veramente all’esasperazione dall’ennesima visione di La vita è meravigliosa, non hanno ancora la misura colma o meglio, direi, non hanno perso del tutto la proverbiale pazienza della renna.» E parlando fece un piccolo sbuffo compiaciuto come per lasciar intendere che quell’ultima dichiarazione era stata espressa in modo preciso e forbito e lui ne andava particolarmente fiero.
Ibis Jacquel era una piccola azienda a gestione familiare: una delle ultime imprese di pompe funebri davvero indipendenti della zona, sempre secondo il signor Ibis. «Sembra che oggigiorno si preferisca ricorrere a servizi caratterizzati da un marchio identificabile a livello nazionale» spiegò: il suo tono era professorale e a Shadow fece venire in mente un docente universitario che si allenava alla Muscle Farm e sembrava incapace di parlare in modo normale, riusciva solo a insegnare, esporre, pontificare. Shadow aveva capito subito che da una conversazione con lui il signor Ibis si aspettava di sentir dire il minor numero di parole possibile. «E ciò, io credo, perché il cliente vuole conoscere in anticipo il prodotto che sta per acquistare. Ecco spiegata l’esistenza di grosse catene come McDonald’s, Wal-Mart, F.W. Woolworth (che non finiremo mai di rimpiangere), marchi presenti e visibili in tutti gli stati del paese. Così, ovunque si vada, si può ottenere, con qualche piccola variazione locale, lo stesso identico prodotto.
«Nel campo delle pompe funebri, tuttavia, le cose sono diverse. C’è il bisogno di sapere che stai pagando il servizio di una piccola impresa dove le persone lavorano con dedizione. Si desidera un’attenzione particolare per sé e per i propri cari nel momento dì una grave perdita. Si preferisce che il dolore si consumi a livello locale, non su scala nazionale. Ma in ogni settore dell’industria — e la morte è un’industria, mio giovane amico, non farti illusioni — i veri guadagni si ottengono solo lavorando in grande, acquistando la merce in grosse quantità, centralizzando i servizi. Non sarà bello, ma è pur sempre vero. Il problema è che nessuno vuole che i suoi cari viaggino stipati dentro un camion fino a un vecchio deposito trasformato in un’enorme cella frigorifera dove magari ci sono venti, cinquanta o cento cadaveri da smaltire. Nossignore. La gente vuole un ambiente familiare, qualcuno che li tratti con rispetto e che, incontrandoli per strada, li saluti levandosi il cappello.»
Il signor Ibis lo portava, il cappello. Un sobrio cappello marrone intonato alla sobria giacca marrone e alla sobria faccia marrone. Appollaiato sul naso, un paio di occhialini con la montatura d’oro. Nell’immagine che si era fatto Shadow, il signor Ibis era un uomo di bassa statura, ma quando poi gli si trovava accanto doveva ricredersi: in realtà era alto più di un metro e ottanta e camminava un po’ curvo, come un airone. Lì seduto di fronte a lui al tavolo di lucida plastica rossa, Shadow si accorse che i loro occhi erano alla stessa altezza.
«Perciò, quando subentra una grande società che compera il nome della piccola impresa, paga il direttore perché ne mantenga la gestione, creando un’apparente diversificazione dell’offerta. Ma questa è soltanto la punta della lastra tombale. In verità le imprese sono locali come un Burger King. Ora invece noi, per ragioni nostre, siamo davvero indipendenti. Ci occupiamo personalmente dell’imbalsamazione, ed è la migliore del paese, benché nessuno, eccetto noi, se ne possa rendere conto. Non facciamo le cremazioni, però. Potremmo guadagnare di più, se avessimo un forno crematorio, ma questo andrebbe a scapito del ramo in cui eccelliamo. Come dice il mio socio: Se il Signore ti concede un talento o un’abilità, hai l’obbligo di sfruttarla nel migliore dei modi. Non sei d’accordo?»
«Mi sembra sensato» disse Shadow.
«Il Signore ha concesso al mio socio il dominio sui morti, esattamente come a me ha dato l’abilità con le parole. Bella cosa, le parole. Scrivo libri di storie, sai? Non grande letteratura. Per divertirmi. Resoconti di esistenze.» Fece una pausa e quando Shadow avvertì che a quel punto avrebbe dovuto chiedergli di leggere qualcosa, l’opportunità era svanita. «Comunque ciò che noi offriamo è la continuità; la Ibis Jacquel è qui da quasi duecento anni. Non siamo sempre stati un’impresa di pompe funebri, però. Prima eravamo necrofori.»
«E prima ancora?»
«Ebbene» rispose il signor Ibis con un sorriso appena compiaciuto, «bisogna risalire a molto tempo addietro. Certo fu solo dopo la guerra tra Nord e Sud che trovammo la nostra nicchia in questo stato, e diventammo le pompe funebri per tutta la gente di colore dei dintorni. Prima di allora nessuno aveva pensato a noi come a persone di colore: stranieri, magari, esotici e con la pelle scura, ma non neri. Appena finita la guerra, quasi subito dopo, non c’era nessuno che non ci percepisse come neri. Il mio socio ha sempre avuto la pelle più scura della mia. La transizione è stata automatica. Uno è soprattutto ciò che gli altri pensano che sia. È strano quando parlano degli afroamericani, mi fa pensare ai popoli del Punt, dell’Ofir, della Nubia. Noi non ci siamo mai considerati africani, noi eravamo il popolo del Nilo.»
«Allora siete egiziani» disse Shadow.
Il signor Ibis sporse il labbro inferiore, fece oscillare la testa da un lato all’altro come mossa da una molla, soppesando i pro e i contro, esaminando le cose da ogni punto di vista. «Ebbene, sì e no. "Egiziani" mi fa pensare alla popolazione attuale dell’Egitto. Agli uomini che costruiscono le città sulle nostre tombe e i nostri palazzi. Mi somigliano, forse?»
Shadow scrollò le spalle. Aveva visto vecchi neri che gli assomigliavano. Aveva visto anche vecchi bianchi e abbronzati che assomigliavano al signor Ibis.
«Com’è il suo dolce?» chiese la cameriera riempiendo di nuovo le tazze di caffè.
«Il migliore che abbia mai mangiato» rispose il signor Ibis. «Porta i miei saluti alla mamma.»
«Lo farò» rispose la ragazza correndo via.
«È meglio non informarsi sulla salute della gente, se si dirige un’impresa di pompe funebri. Possono credere che tu stia cercando lavoro» spiegò il signor Ibis in tono sommesso. «Vogliamo andare a vedere se la tua stanza è pronta?»
Nell’aria della notte il loro respiro era una nuvoletta visibile. Le luci delle decorazioni natalizie brillavano intermittenti nelle vetrine dei negozi. «È gentile da parte sua ospitarmi» disse Shadow. «Gliene sono grato.»
«Dobbiamo alcuni favori al tuo datore di lavoro. E, il Signore lo sa, la stanza è libera. È una vecchia e grande casa. Eravamo più numerosi, un tempo. Adesso siamo soltanto noi tre. Non ci darai nessun disturbo.»
«Ha idea di quanto tempo dovrò passare con voi?»
Il signor Ibis scosse la testa. «Non l’ha detto. Ma siamo lieti di ospitarti, e possiamo trovarti qualcosa da fare. Se non sei schizzinoso. Se tratti i morti con rispetto.»
«Ma insomma» domandò Shadow, «come mai proprio a Cairo? Ci siete venuti per il nome?»
«No. Al contrario, in effetti è la regione che prende il nome da noi, benché siano in pochi a saperlo. Ai vecchi tempi era una base commerciale.»
«Ai tempi della frontiera?»
«Diciamo così» rispose il signor Ibis. «Buonasera signorina Simmons! E Buon Natale anche a lei! La gente che mi ha portato qui aveva navigato il Mississippi molto tempo prima.»
Shadow si fermò in mezzo alla strada e fissò il suo interlocutore. «Sta cercando di dirmi che cinquemila anni fa gli antichi egizi venivano in America a commerciare?»
Il signor Ibis sorrise compiaciuto. Poi disse: «Tremila e cinquecentotrenta anni fa. Uno più, uno meno».
«Va bene» disse Shadow. «Diciamo che ci credo. E che cosa commerciavano?»
«Niente di che. Pelli di animali. Generi alimentari. Rame dalle miniere dell’attuale Michigan. L’intera faccenda si rivelò deludente, nel complesso. Non ne valeva la pena. Si trattennero abbastanza per credere in noi, per offrirci sacrifici, un pugno di mercanti che poi morirono di febbre e vennero seppelliti qui lasciandoci in eredità alla terra.» Si interruppe dì colpo nel bel mezzo del marciapiede e si voltò spalancando le braccia. «Questo paese è stato trafficato come la stazione di Grand Central per diecimila anni o più. Tu mi dirai: e Colombo?»
«Già» lo assecondò Shadow. «Cosa mi dice di Colombo?»
«Cristoforo Colombo ha fatto ciò che altri facevano da migliaia d’anni. Arrivare in America non è stato niente di speciale. Di tanto in tanto scrivo una storia sull’argomento.» Ripresero a camminare.
«Storie vere?»
«Vere fino a un certo punto. Posso leggertene qualcuna, se ti fa piacere. È tutto lì per chi ha occhi per vedere. Personalmente — e ti parlo da abbonato a "Scientific American" — mi dispiaccio quando gli esperti trovano l’ennesimo cranio che contraddice ogni loro convinzione, qualcosa che sembra appartenere alla popolazione sbagliata; oppure quando statue o manufatti non corrispondono a ciò che sanno, perché allora si mettono a parlare dell’evento eccezionale, ma non affrontano mai l’impossibile, ed è per questo che mi dispiaccio per loro, perché non appena qualcosa diviene impossibile entra nella sfera della fede, indipendentemente dal fatto che sia vero oppure no. Intendo dire, per esempio, prendiamo un cranio di ainu, gli aborigeni giapponesi, ebbene questo cranio ci dimostra che gli ainu erano in America già novemila anni orsono. Ed eccone un altro che prova la presenza dei polinesiani in California circa duemila anni più tardi. E allora gli studiosi borbottano perplessi e si interrogano su chi sia disceso da chi, perdendo completamente di vista il nocciolo della questione. Il Cielo sa cosa accadrebbe se scoprissero le gallerie di emergenza degli hopi. Quelle sì che farebbero vacillare qualche convinzione, aspetta e vedrai.
«E gli irlandesi, vuoi sapere, sono forse venuti in America nell’Alto Medioevo? Senza dubbio, insieme alle genti di Cornovaglia, e ai vichinghi, mentre gli africani della Costa Occidentale — quella che in seguito sarebbe stata chiamata Costa degli Schiavi, o Costa d’Avorio — commerciavano con il Sudamerica, e i cinesi andarono in Oregon un paio di volte, lo chiamavano Fu Sang. I baschi stabilirono le loro zone segrete di pesca sacra al largo delle coste di Terranova milleduecento anni fa. Ora immagino che tu stia per dirmi: ma signor Ibis, quelle erano popolazioni primitive, non avevano i telecomandi, le vitamine e i reattori.»
Shadow non aveva parlato, e nemmeno ne aveva avuto l’intenzione, ma sentendosi interpellato domandò: «Ebbene sì, erano popoli primitivi, non è vero?». Le ultime foglie dell’autunno scricchiolavano sotto i loro passi con la rigidità già tipica dell’inverno.
«L’errore consiste nel ritenere che prima di Colombo la gente non potesse percorrere lunghe distanze via mare. La Nuova Zelanda e Tahiti e innumerevoli isole del Pacifico furono colonizzate da popoli la cui abilità di navigatori avrebbe fatto arrossire Colombo di vergogna; e la ricchezza dell’Africa era fondata sul commercio, benché soprattutto con l’Oriente, con l’India e la Cina. La mia gente, il popolo del Nilo, scoprì molto presto che con un’imbarcazione di giunco e dosi sufficienti di pazienza e giare d’acqua dolce poteva circumnavigare il mondo,. Vedi, il problema più grosso dei viaggi in America era che, considerata la distanza, non si trovava niente di così interessante da scambiare.»
Erano arrivati davanti a una grande casa in stile Queen Ann. Shadow si domandò chi fosse, la Regina Anna, e perché le piacessero tanto quelle case da famiglia Addams. Era l’unico edificio in tutto l’isolato che non avesse le finestre sprangate. Superarono il cancello e passarono dalla porta sul retro.
Il signor Ibis aprì le grandi porte doppie con una chiave che portava appesa alla catena ed entrarono in un’ampia stanza non riscaldata occupata da due persone: un uomo molto alto con la pelle scura che stringeva in mano un grosso bisturi, e una ragazza di vent’anni cadavere, sdraiata su un lungo tavolo di porcellana che sembrava una via di mezzo tra un lastrone e un lavandino.
Sulla parete dietro il cadavere c’era un pannello di sughero al quale erano appese alcune fotografie. In una la ragazza sorrideva, era un’istantanea scattata al liceo. In un’altra era insieme a tre compagne, tutte vestite per il ballo studentesco, e portava i capelli scuri legati in una crocchia intricata.
Cadavere sulla porcellana, adesso, li aveva sciolti, sporchi di sangue secco.
«Questo è il mio socio, il signor Jacquel» disse Ibis.
«Ci siamo già incontrati» disse Jacquel. «Scusa se non ti stringo la mano.»
Shadow guardò la ragazza sul tavolo. «Cosa le è capitato?» chiese.
«Ha dimostrato un gusto tremendo in fatto di fidanzati» rispose Jacquel.
«Non sempre è fatale» aggiunse il signor Ibis con un sospiro. «Questa volta lo è stato. Lui era ubriaco e aveva un coltello, e lei gli ha detto che pensava di essere incinta. Lui non credeva che il figlio fosse suo.»
«È stata pugnalata…» aggiunse Jacquel, e cominciò a contare. Quando premette un pulsante con il piede si sentì un clic e il piccolo dittafono sul tavolo vicino si mise in funzione: «… cinque volte. Ci sono tre ferite di punta nella parete toracica anteriore. La prima tra la quarta e la quinta costola al limite mediale della mammella sinistra, due centimetri virgola due di lunghezza; la seconda e la terza attraversano la zona inferiore della parte mediale della mammella penetrando nel sesto spazio intercostale, e misurano tre centimetri. C’è una ferita lunga due centimetri nella parte superiore dell’emitorace sinistro, a livello del secondo spazio intercostale, una lunga cinque centimetri e profonda al massimo uno virgola sei nel deltoide sinistro anteromediale, una lacerazione. Tutte le ferite al petto sono profonde. Da una valutazione esterna non ne risultano altre.» Staccò il piede dal pulsante. Shadow vide che sopra il tavolo dell’imbalsamazione penzolava un piccolo microfono.
«Allora lei è anche medico legale?» domandò Shadow.
«Da queste parti quello del medico legale è un incarico politico» disse Ibis. «Il suo lavoro consiste nel prendere a calci il cadavere. Se il cadavere non glieli restituisce allora lui firma il certificato di morte. Jacquel è quello che chiamano un prosettore. Lavora per il medico legale della contea. Fa le autopsie e conserva campioni dei vari tessuti per le analisi. Ha già fotografato le ferite.»
Jacquel continuava il suo lavoro. Con il grosso bisturi praticò una profonda incisione a V che cominciava dalle clavlcole e terminava in fondo allo sterno, poi trasformò la V in una Y con un’altra profonda incisione che dallo sterno arrivava al pube. Prese un oggetto di metallo cromato che sembrava un trapano, piccolo ma pesante, con una sega circolare, lo mise in funzione e segò le costole.
La ragazza si aprì come una borsetta.
Shadow avvertì subito un odore leggero, sgradevolmente penetrante e pungente.
«Credevo che l’odore fosse più forte» disse.
«È piuttosto fresca» rispose Jacquel. «E siccome gli intestini non sono stati perforati non c’è puzza di merda.»
Shadow distolse lo sguardo, non per un senso di ripulsa, come si sarebbe aspettato, bensì per lo strano desiderio di concedere alla ragazza un po’ di intimità. Più nudi di così, più spalancati, non si poteva essere.
Jacquel estrasse gli intestini luccicanti e serpentini annidati nel ventre e nella pelvi. Li fece scorrere tra le dita centimetro dopo centimetro, descrivendoli come "normali" al microfono, poi li infilò in un secchio appoggiato sul pavimento. Con una pompa aspirò tutto il sangue dal petto della ragazza e ne misurò il volume. Poi ispezionò la cavità toracica. Disse: «Tre lacerazioni del pericardio, sangue coagulato e liquido».
Le afferrò il cuore, lo staccò dalle arterie e lo rigirò tra le mani per esaminarlo. Premette il pulsante con il piede e disse: «Due lacerazioni del miocardio; una di un centimetro e mezzo nel ventricolo destro e una di un centimetro e otto nel ventricolo sinistro».
Estrasse i polmoni, uno dopo l’altro. Il sinistro era stato perforato ed era mezzo collassato. Li pesò, pesò il cuore e fotografò le ferite. Dai due polmoni tagliò una fettina, il campione di tessuto, che mise dentro un barattolo.
«Formaldeide» sussurrò il signor Ibis desideroso di rendersi utile.
Jacquel continuava a parlare nel microfono, descrivendo ogni fase dell’operazione, man mano che rimuoveva fegato, stomaco, milza, pancreas, reni, utero e ovaie.
Pesò tutti gli organi, normali e intatti. Da ciascuno tagliò un campione che mise in un contenitore con formaldeide.
Dal cuore, dal fegato e da uno dei reni tagliò un altro pezzetto che si infilò in bocca e cominciò a masticare lentamente, facendoli durare, mentre lavorava.
Stranamente a Shadow sembrò una cosa giusta: un gesto rispettoso, per niente osceno.
«Dunque starai con noi per un po’?» domandò Jacquel mentre masticava la fettina di cuore della ragazza.
«Se mi volete» rispose Shadow.
«Certamente» disse il signor Ibis. «Non vedo perché dire di no con tutte le buone ragioni che abbiamo per dire sì. Finché resterai qui sarai sotto la nostra protezione.»
«Spero che dormire sotto lo stesso tetto con i defunti non ti disturbi» disse Jacquel.
Shadow pensò alle labbra fredde e amare di Laura. «No» disse. «Finché rimangono defunti.»
Jacquel si voltò a guardarlo: i suoi occhi scuri erano interrogativi e freddi come quelli di un cane del deserto. «Qui i morti restano morti» si limitò a dire.
«Io ho l’impressione che riescano a tornare indietro con una certa facilità.»
«Niente affatto» intervenne Ibis. «Anche gli zombie sono fatti a partire dai vivi. Un po’ di polvere, qualche incantesimo, qualche stimolo ed ecco lo zombie. Vivono, ma credono di essere morti. Riportare davvero alla vita un defunto, con il corpo e tutto, richiede molto potere.» Esitò, poi aggiunse: «Ai vecchi tempi, nella vecchia terra, era più facile».
«Si poteva legare il ka di un uomo al suo corpo per cinquemila anni» disse Jacquel. «Legarlo o liberarlo. Succedeva tanto tanto tempo fa.» Prese tutti gli organi che aveva tolto dal corpo della ragazza e rispettosamente li sistemò di nuovo nelle loro cavità. Rimise a posto gli intestini e lo sterno e avvicinò i lembi di pelle. Poi con un grosso ago e del filo la ricucì con gesti rapidi ed esperti, come se stesse cucendo una palla da baseball: la massa di carne si trasformò di nuovo nel cadavere una ragazza.
«Ho bisogno di una birra» disse Jacquel. Si sfilò i guanti e li gettò nel recipiente. In una cesta lasciò cadere il camice marrone e poi prese il vassoio con i barattoli dei campioni degli organi: fettine rosse, marroni e violacee. «Venite con me?»
Salirono le scale che portavano in cucina. Era una stanza tutta marrone e bianca, sobria e rispettabile, che a Shadow sembrò molto anni Venti. Appoggiato a una parete c’era un enorme frigorifero Kelvinator che ronzava con fragore. Jacquel lo aprì, infilò su un ripiano i barattoli con i pezzetti di milza, rene, fegato e cuore e tirò fuori tre bottiglie scure. Ibis prese tre bicchieri alti da una credenza con le antine di vetro. Poi fece segno a Shadow di sedersi al tavolo.
Versò la birra e porse un bicchiere a Shadow, poi a Jacquel. Era un’ottima birra, amara e scura.
«Buona» disse Shadow.
«La facciamo noi» spiegò Ibis. «Ai vecchi tempi erano le donne a prepararla. Erano più brave. Ma adesso siamo rimasti solo in tre: io, lui, e lei.» Indicò la piccola gatta scura che dormiva placida dentro una cesta in un angolo. «Eravamo più numerosi, all’inizio. Ma Seth se n’è andato per esplorare il mondo, quando, duecento anni fa? Sì, devono essere almeno duecento. Ci ha mandato una cartolina da San Francisco nel 1905 o nel 1906. Poi più niente. Mentre il povero Horus…» Lasciò la frase in sospeso, sospirò e scosse la testa.
«Mi capita di incontrarlo, ogni tanto» disse Jacquel, «quando vado a ritirare un corpo.» Sorseggiò la sua birra.
«Vorrei provvedere al mio mantenimento» disse Shadow «finché resto qui. Ditemi di cosa avete bisogno e io lo faccio.»
«Ti troveremo un lavoro» convenne Jacquel.
La gattina scura aprì gli occhi e si alzò stiracchiandosi. Attraversò la cucina e andò a strusciare la testa contro uno stivale di Shadow che allungò la mano per darle una grattatina sulla fronte, dietro le orecchie e sulla nuca. Lei inarcò estatica la schiena e poi gli saltò in grembo, si issò sul suo petto e gli sfiorò la punta del naso con il suo, freddo. Infine si acciambellò sulle ginocchia di Shadow e si riaddormentò. Lui le accarezzò il pelo morbido; era un peso caldo e piacevole sulle ginocchia, aveva l’aria di sentirsi nel posto più sicuro del mondo e Shadow lo trovò consolatorio.
La birra gli aveva lasciato un piacevole ronzio nella testa.
«La tua stanza è in cima alle scale, vicino al bagno» disse Jacquel. «Troverai appesi nell’armadio gli abiti da lavoro… Prima vorrai lavarti e farti la barba, immagino.»
Shadow si lavò e sbarbò. Fece la doccia in piedi nella vasca di ghisa e si fece la barba con un rasoio a mano libera che gli aveva prestato Jacquel. Era affilato in maniera oscena, e aveva un manico di madrcperla, e Shadow sospettò che venisse usato per dare ai cadaveri l’ultima rasatura. Era la prima volta in vita sua che usava un rasoio di quel tipo, tuttavia non si tagliò. Sciacquò quel che restava della schiuma da barba e nello specchio del bagno coperto dì puntini scuri osservò se stesso nudo. Era coperto di ecchimosi: lividi nuovi sul petto e sulle braccia e, sotto, quelli ormai sbiaditi, ricordo di Mad Sweeney. Lo specchio gli restituì uno sguardo sospettoso.
E poi, come se qualcuno gli guidasse la mano, alzò il rasoio e se l’appoggiò con la lama aperta sulla gola.
Una soluzione, pensò. Una via d’uscita. E se al mondo c’era qualcuno capace di occuparsi del caso, di ripulire il disastro e sistemare tutto erano proprio i due tizi seduti a bere birra al piano di sotto, in cucina. Farla finita con le preoccupazioni. Farla finita con Laura. Farla finita con i misteri e le cospirazioni. Con i brutti sogni. Soltanto pace e quiete ed eterno riposo. Un colpo secco, da un orecchio all’altro. Non era difficile.
Rimase lì in piedi con il rasoio puntato alla gola. Dove la lama toccava la pelle uscì una goccia di sangue. Non si era nemmeno accorto di essersi tagliato. Vedi, disse, tra sé e sé, e gli sembrò di sentire una voce che gli sussurrava all’orecchio. Non fa male. È troppo affilato per fare male. Morirò senza neanche accorgermene.
In quel momento la porta del bagno si aprì di pochi centimetri, sufficienti a lasciar passare la gattina che sporgendo la testa dalla soglia lo guardò con aria incuriosita e fece le fusa.
«Ehi» le disse Shadow. «Credevo di aver chiuso a chiave.»
Ripiegò il rasoio, lo appoggiò sul lavandino e tamponò il piccolo taglio sulla gola con un pezzetto di carta igienica. Poi si avvolse un asciugamano intorno ai fianchi e andò nella stanza.
Come la cucina anche la sua camera da letto sembrava essere stata arredata negli anni Venti: c’era un lavamano con una brocca accanto alla cassettiera e allo specchio. Qualcuno gli aveva già preparato i vestiti sul letto: abito nero, camicia bianca, maglietta e mutande bianche, calzini neri. Sul vecchio tappeto persiano accanto al letto c’era anche un paio di scarpe nere.
Si vestì. Erano indumenti di buona qualità, benché non nuovi. Si domandò a chi fossero appartenuti. Stava mettendosi i calzini di un morto? Si sarebbe infilato le scarpe di un morto? Annodò la cravatta guardandosi allo specchio e adesso ebbe l’impressione che il suo riflesso gli sorridesse sardonico.
Gli sembrava inconcepibile di aver potuto anche solo pensare di tagliarsi la gola. Mentre sistemava la cravatta il suo riflesso continuava a sorridere.
«Ehi» gli disse. «Forse tu sai qualcosa che io non so?» e immediatamente si sentì sciocco.
La porta si aprì e la gatta scivolò tra stipite e battente, attraversò la stanza e saltò sul davanzale della finestra. «Ehi» le disse Shadow. «Quella porta l’avevo chiusa sul serio. Sono sicuro.» Lei lo guardò con aria interessata. Aveva gli occhi color giallo scuro, come l’ambra. Poi dal davanzale balzò sul letto, dove si acciambellò in una massa di pelo e si addormentò sopra il vecchio copriletto.
Shadow uscì lasciando la porta aperta, perché la gatta potesse andarsene e anche per arieggiare in po’, e scese al pianterreno. Le scale cigolavano e scricchiolavano, protestando sotto il suo peso, implorando di essere lasciate in pace.
«Accidenti, come stai bene» disse Jacquel. Lo stava aspettando nell’atrio vestito di tutto punto con un abito nero come quello di Shadow. «Hai mai guidato un carro funebre?»
«No.»
«C’è una prima volta per tutto. E parcheggiato qui davanti.»
Era morta una vecchia signora che si chiamava Lila Goodchild. Seguendo le indicazioni di Jacquel, Shadow portò la barella pieghevole di alluminio su per le strette scale e la aprì accanto al letto. Prese un sacco di plastica azzurro e traslucido, lo spiegò accanto alla morta e aprì la cerniera fino in fondo. La donna indossava una camicia da notte rosa e una vestaglia trapuntata. Shadow la sollevò e l’avvolse, fragile e leggera come una piuma, in un lenzuolo, prima di metterla nel sacco azzurro. Chiuse la cerniera e adagiò il sacco sulla barella. Nel frattempo Jacquel parlava con un uomo vecchissimo, il vedovo di Lila Goodchild. O meglio, lo ascoltava. Mentre Shadow impacchettava la signora, il vecchio era impegnato a spiegare quant’erano ingrati e cattivi i suoi figli, per non parlare dei nipoti, anche se non era colpa loro, ma dei genitori, perché la mela non cade lontano dall’albero, e lui credeva di aver fatto di tutto per allevarli come si deve.
Shadow e Jacquel spinsero la barella fino alla stretta scala seguiti dal vecchio, che continuava a parlare di soldi, soprattutto, di avidità e ingratitudine. Ai piedi portava un paio di pantofole. Shadow iniziò a scendere le scale facendosi carico di quasi tutto il peso della barella, poi la trascinò lungo il marciapiede gelato fino al carro funebre. Jacquel aprì lo sportello posteriore e quando vide che Shadow esitava gli disse: «Spingila dentro. I supporti con le ruote si ripiegano automaticamente». Shadow eseguì e infatti la barella scivolò sul pianale. Jacquel gli mostrò come si faceva ad assicurarla e mentre Shadow richiudeva il portellone prestò ancora ascolto alle parole del vecchio vedovo di Lila Goodchild che, indifferente al freddo, protetto dai rigori invernali soltanto da un paio di pantofole e da un accappatoio, raccontava dei figli, nient’altro che avvoltoi in attesa di impossessarsi di quel poco che lui e Lila erano riusciti a risparmiare, e di come avevano vissuto prima a St. Louis, poi a Memphis, a Miami e infine a Cairo, e di quanto fosse sollevato del fatto che Lila non fosse morta in un ospizio, dove aveva paura di finire lui, invece.
Lo riaccompagnarono su per le scale fin dentro l’appartamento. In un angolo della camera da letto c’era un piccolo televisore acceso. Passando, Shadow vide che lo speaker del telegiornale sorrideva e gli faceva l’occhiolino. Dopo essersi assicurato che nessuno lo stesse osservando si girò verso lo schermo e gli fece un gesto osceno.
«Soldi non ne hanno» disse Jacquel quando furono tornati sul carro funebre. «Domani verrà a parlare con Ibis. Sceglierà il tipo di funerale più economico. Le amiche di lei lo convinceranno a fare una cosa ben fatta per darle un addio nella sala principale, immagino. Lui brontolerà. Non ha soldi. Oggigiorno nessuno ne ha, da queste parti. Comunque nel giro di sei mesi sarà morto anche lui. Un anno al massimo.»
Nella luce dei fanali i fiocchi di neve cadevano volteggiando. Il maltempo era arrivato al Sud. «È malato?»
«Non c’entra, questo. Le donne sopravvivono ai mariti. Gli uomini — quelli come lui — quando le mogli li lasciano non tirano avanti molto. Vedrai… comincerà a vaneggiare, tutte le cose familiari gli sembreranno estranee senza di lei. Si stancherà, si spegnerà lentamente e quando smetterà di lottare sarà finita. Magari se lo porterà via una polmonite o magari un cancro, oppure gli si fermerà il cuore. È la vecchiaia, quando tutte le forze ti abbandonano. E allora muori.»
Shadow rifletté per qualche istante. «Ehi, Jacquel?»
«Sì?»
«Lei ci crede all’anima?» Non era quella, la domanda che aveva pensato di fare, e lo sorprese sentire la propria voce che la formulava. Voleva chiedere qualcosa di meno diretto, ma in fondo non c’era niente di meno diretto di così.
«Dipende. Ai miei tempi era tutto organizzato. Quando morivi ti mettevi in fila e rispondevi per le buone e le cattive azioni, e se il peso delle cattive azioni superava di una piuma il peso di quelle buone gettavamo la tua anima e il tuo cuore in pasto ad Ammet, il Mangiatore di Anime.»
«Deve aver mangiato un sacco.»
«Non tanto come potresti pensare. Era una piuma molto pesante. Ce l’eravamo fatta fare apposta. Dovevi essere davvero malvagio per far muovere quella bilancia. Fermati qui dal benzinaio. Riempiamo il serbatoio.»
Le strade erano tranquille, come sono tranquille le strade quando cade la prima neve. «Sarà un bianco Natale» disse Shadow mentre faceva benzina.
«Già. Accidenti. Quel ragazzo era un fortunato figlio di vergine.»
«Gesù?»
«Un ragazzo molto fortunato. Capace di cadere in un pozzo nero e uscirne profumato come una rosa. Diavolo, lo sapevi che non è neanche il suo vero compleanno? L’ha preso da Mitra. Hai già incontrato Mitra? Con il berretto rosso? Simpatico?»
«No, non mi pare.»
«In effetti… da queste parti non l’ho mai visto. Era un tipaccio da esercito. Forse è tornato in Medio Oriente a spassarsela, anche se temo che a questo punto non ci sia più. Succede. Un giorno tutti i soldati dell’impero devono bagnarsi nel sangue del toro sacrificale. L’indomani non si ricordano neanche quand’è il tuo compleanno.»
Squisc facevano i tergicristalli respingendo la neve sui bordi del parabrezza, ammucchiandola in grovigli e ghirigori di ghiaccio.
Un semaforo giallo si trasformò rapidamente in rosso e Shadow frenò di colpo. Il carro funebre sbandò, fermandosi con un testacoda.
Verde. Shadow ripartì e si mantenne sui quindici chilometri orari, più che sufficienti su una strada così scivolosa. In seconda il motore girava bello morbido: Shadow pensò che doveva aver passato molto tempo in quella marcia e a quella velocità, bloccando il traffico.
«Molto bene» disse Jacquel. «Dunque, sì, dicevamo, Gesù se la passa piuttosto bene da queste parti. Ma ho incontrato un tale che mi ha detto di averlo visto fare l’autostop in Afghanistan e nessuno si fermava a tirarlo su. Sai com’è, tutto dipende dal contesto.»
«Penso che stia per arrivare una vera tempesta» disse Shadow. Si riferiva al tempo atmosferico.
Quando, parecchi minuti dopo, Jacquel si decise a rispondere non parlò affatto del tempo. «Guarda noi due, me e Ibis» disse. «Nel giro di pochi anni saremo senza lavoro. Abbiamo messo qualcosa da parte per gli anni di magra, ma gli anni di magra sono già arrivati da un pezzo, e ogni anno sembra, se possibile, addirittura più magro del precedente. Horus è pazzo, un pazzo fuori di testa, passa il suo tempo sotto le sembianze di un rapace e mangia tutto quello che viene investito in autostrada. Che razza di vita è? Bast l’hai vista. E noi ce la caviamo meglio di tutti, quasi. Perlomeno un filino di fede c’è ancora. La maggior parte dei poveracci in giro per il mondo non ha neanche quella. È come l’impresa di pompe funebri: un giorno o l’altro le grosse compagnie ci compreranno, che tu lo voglia o no, perché sono più grandi ed efficienti e perché funzionano. Lottare non cambierà un bel niente perché la battaglia l’abbiamo perduta venendo in questa terra verdeggiante cento, mille o diecimila anni fa. Noi siamo arrivati e all’America non glien’è importato niente. Veniamo svenduti, o ignorati, oppure finiamo su una strada. Quindi sì, hai ragione. C’è tempesta in arrivo.»
Shadow svoltò sulla strada dove tutte le case, salvo una, avevano le finestre sprangate, case vuote, chiuse per sempre. «Prendi il vicolo sul retro» disse Jacquel.
Shadow manovrò in retromarcia in modo da accostare all’ingresso. Ibis aprì il carro funebre e le porte dell’obitorio, Shadow sganciò la barella e la tirò fuori. I supporti con le rotelle si aprirono appena superato il paraurti. La spinse fino al tavolo dell’imbalsamazione. Sollevò Lila Goodchild, tenendola tra le braccia nel suo opaco sacco azzurro come una bambina addormentata, con attenzione, quasi avesse paura di svegliarla, e l’appoggiò sul tavolo di quella stanza gelida.
«Abbiamo il lettino per trasferirla» disse Jacquel. «Non è necessario portarla a braccia.»
«Non è gran cosa» rispose Shadow. Cominciava a parlare come Jacquel. «Sono grande e grosso. Non mi costa fatica.»
Era stato un bambino piccolo e magro, tutto pelle e ossa. L’unica sua foto che Laura aveva trovato abbastanza bella da incorniciarla mostrava un ragazzino dall’aria solenne con i capelli spettinati e gli occhi scuri, in piedi accanto a un tavolo coperto di torte e dolciumi. Doveva essere stata scattata in un’ambasciata a qualche festa di Natale, visto che portava un vestito elegante e il cravattino.
Avevano cambiato troppe case, lui e sua madre, prima in giro per l’Europa, da un’ambasciata all’altra, dove lei lavorava come addetta alle comunicazioni degli Affari esteri, trascrivendo e inviando telegrammi cifrati in tutto il mondo, e quando lui aveva otto anni erano tornati negli Stati Uniti. La madre, ormai troppo spesso ammalata per riuscire a conservare un lavoro fisso, aveva continuato a trasferirsi da una città all’altra, senza pace, un anno qua e uno là, accettando impieghi temporanei, quando la salute glielo permetteva. Non si fermavano mai abbastanza per permettere a Shadow di farsi degli amici, di sentirsi a casa, di rilassarsi. Ed era un bambino gracile…
Era cresciuto di colpo. Nella primavera del suo tredicesimo compleanno i ragazzi lo tormentavano, coinvolgendolo in risse che erano sicuri di vincere e dalle quali Shadow finiva per scappare via arrabbiato e spesso in lacrime, chiudendosi in bagno a lavarsi il fango o il sangue dalla faccia, prima che qualcuno se ne accorgesse. Poi era arrivata l’estate, la sua lunga magica tredicesima estate, che Shadow trascorse cercando di stare lontano dai ragazzi più grandi, nuotando in piscina e leggendo i libri presi in prestito dalla biblioteca. All’inizio dell’estate sapeva nuotare appena. Alla fine d’agosto era in grado di farsi una vasca dopo l’altra con un bel crawl, di tuffarsi dal trampolino più alto, e la sua pelle esposta al sole e all’acqua aveva preso una bella abbronzatura dorata. A settembre, tornato a scuola, aveva scoperto che i ragazzi che lo avevano reso tanto infelice erano piccole creature flaccide che ormai non lo preoccupavano più. I due che ci provarono ricevettero una lezione succinta ma molto dolorosa e cambiarono subito atteggiamento. Shadow trovò una nuova definizione di se stesso: non poteva più essere il ragazzino tranquillo che faceva del suo meglio per restarsene in disparte senza dare nell’occhio. Era troppo alto ormai, troppo visibile. Alla fine dell’anno faceva parte della squadra di nuoto e di sollevamento pesi, e l’allenatore di triathlon lo voleva a tutti i costi nella sua squadra. Essere grande e forte gli piaceva. Gli dava un’identità. Era stato un bambino timido e tranquillo, dedito alla lettura, e si era rivelata un’esperienza penosa; adesso era un ragazzone sciocco e nessuno si aspettava da lui altro che di vedergli spostare da solo il divano da una stanza all’altra.
Nessuno fino a Laura, perlomeno.
Il signor Ibis aveva preparato la cena: riso e verdure bollite per sé e Jacquel. «Non mangio carne» spiegò «e Jacquel si procura il suo fabbisogno di proteine durante il lavoro.» Accanto al piatto di Shadow c’era una confezione di pollo fritto KFC e una bottiglia di birra.
Nel cartone c’era più pollo di quanto Shadow potesse mangiare e alla fine, dopo aver tolto la pelle e l’impanatura e ridotto la carne a pezzettini, diede quel che restava alla gatta.
«In prigione c’era un tizio che si chiamava Jackson» disse mentre mangiava, «lavorava nella biblioteca. Mi ha raccontato che hanno cambiato in KFC il nome Kentucky Fried Chicken perché quello che cucinano non è vero pollo. È una specie di mutante geneticamente modificato, una gigantesco millepiedi senza testa, un’infinità di segmenti composti da zampe, petto e ali che viene nutrito attraverso tubicini. Secondo Jackson è per questo che il governo non gli ha più fatto usare la parola pollo.»
Il signor Ibis inarcò un sopracciglio. «Credi che sia vero?»
«No. Secondo il mio vecchio compagno di cella, Low Key, hanno cambiato nome perché la parola fried, fritto, era diventata pericolosa. Forse vogliono che la gente creda che il pollo si sia cucinato da solo.»
Dopo cena Jacquel si ritirò per scendere all’obitorio. Ibis andò nello studio a scrivere e Shadow si trattenne ancora un po’ in cucina sorseggiando birra e nutrendo la gattina scura con i pezzetti di pollo. Finiti la birra e il pollo lavò piatti e posate, li mise sullo scolapiatti ad asciugare e salì di sopra.
Quando entrò nella stanza la gattina stava già dormendo acciambellata ai piedi del letto come una mezza luna pelosa. Nel cassetto di mezzo della toletta trovò alcuni pigiama a righe di cotone. Sembravano vecchi di almeno settant’anni ma profumavano di fresco e pulito: ne indossò uno che gli calzava, come l’abito nero, alla perfezione.
Sul tavolino accanto al letto c’era una pila di "Reader’s Digest", tutti antecedenti il marzo del 1960. Il carcerato addetto alla bilioteca, Jackson, lo stesso che spacciava per vera la storia del pollo mutante del Kentucky Fried Chicken, e che gli aveva raccontato che il governo trasferiva i prigionieri politici nei campi di concentramento nel nord della California su treni merci con i vagoni tutti neri nel cuore della notte, gli aveva anche detto che la Cia usava le redazioni del "Reader’s Digest" come copertura delle loro filiali sparse in tutto il mondo. Secondo lui le redazioni del "Reader’s Digest" erano in realtà tutti uffici della Cia.
"Ho sentito una barzelletta" disse la voce del defunto Wood nel ricordo. "Come facciamo a essere sicuri che la Cia non fosse coinvolta nell’assassinio di Kennedy?"
Shadow socchiuse la finestra abbastanza per far entrare un po’ d’aria e dare la possibilità alla gatta di uscire sul balcone.
Accese la lampada sul comodino e, per distogliere la mente dai fatti accaduti negli ultimi giorni, decise di leggere, scegliendo a questo scopo gli articoli più noiosi. A metà di Io sono il pancreas di John, si accorse che si stava addormentando. Fece appena in tempo a spegnere la luce e ad appoggiare la testa sul cuscino che era già crollato nel sonno.
In seguito non fu più in grado di ricostruire la sequenza e i dettagli del sogno: qualsiasi tentativo di ricordare ebbe soltanto l’effetto di produrre un groviglio intricato di immagini. C’era una ragazza. L’aveva incontrata chissà dove, e adesso stavano attraversando un ponte sopra un piccolo lago nel centro di una città. Il vento increspava la superficie dell’acqua formando ondine bordate di bianco che a Shadow sembravano minuscole mani protese verso di lui.
«Laggiù» disse la donna. Indossava una gonna leopardata che si alzava al vento lasciando scoperta la zona di pelle sopra le calze che era chiara e morbida e nel sogno sul ponte, davanti a Dio e al mondo, Shadow si mise in ginocchio e affondò la testa nel suo inguine inspirando l’intossicante afrore femminile. Si rese conto di avere un’erezione anche nella vita reale, un’erezione pulsante e mostruosa come quelle che gli capitavano durante la pubertà.
Si ritrasse e guardò in alto senza tuttavia riuscire a vedere la ragazza in faccia. Ma la sua bocca cercava quella di lei e le sue labbra erano morbide e le aveva preso i seni nelle mani e accarezzava la sua soffice pelle serica, scostando la pelliccia che le copriva i fianchi, scivolando dentro quella meravigliosa fenditura che era calda e bagnata, aperta per lui, come un fiore che gli sbocciava in mano.
La donna si strinse a lui facendo le fusa estatica, allungando una mano sul suo pene, stringendoglielo. Lui allontanò le lenzuola e le fu sopra, aprendole con una mano le cosce, mentre lei lo guidava dentro di sé con una sola magica spinta…
Adesso era insieme a lei nella sua cella in prigione, e la stava baciando con desiderio. Lei lo stringeva tra le braccia, lo avvinghiava con le gambe perché non si potesse allontanare, non potesse scivolare fuori nemmeno se l’avesse voluto.
Non aveva mai baciato labbra così morbide. Non aveva mai immaginato che esistesse, una simile morbidezza. La lingua, però, era come carta vetrata contro la sua.
«Chi sei?» le chiese.
Lei non rispose, lo respinse sul letto e con un movimento flessuoso gli si sedette sopra e cominciò a cavalcarlo. No, non a cavalcarlo, a insinuarsi in lui con una serie di morbidi movimenti ondulatori, via via sempre più potenti, colpi e spinte e ritmi che si frangevano contro il corpo e la mente come sulla riva del lago si frangono le onde mosse dal vento. Le sue unghie erano come aghi quando affondarono nei fianchi e lo graffiarono; non provò dolore ma soltanto piacere, ogni sensazione veniva trasformata da un processo alchemico in attimi di puro piacere.
Lottò per ritrovare se stesso, lottò per parlare, la testa spazzata dai venti del deserto sulle dune.
«Chi sei?» ripeté, annaspando nel tentativo di tirar fuori la voce.
Lei lo fissò con i suoi occhi color ambra scura, poi si abbassò e lo baciò sulla bocca con passione, con una profondità e un abbandono tali che quasi quasi, lì sul ponte sul lago, nella sua cella in prigione, nel letto di un’impresa di pompe funebri di Cairo, Shadow fu sul punto di venire. Si abbandonò alla sensazione come un aquilone si lascia portare dall’uragano, cavalcandolo, nella speranza che non arrivi al culmine, nella speranza che non esploda, nella speranza che non finisca mai. Riuscì a riprendere il controllo. Doveva mettere in guardia quella donna.
«Mia moglie Laura. Ti ammazzerà.»
«Non può ammazzarmi» disse lei.
Da un angolo del cervello affiorò un ricordo assurdo: nel Medioevo si diceva che una donna sopra l’uomo, durante il coito, avrebbe concepito un papa. Così veniva detta quella posizione: cercare il papa…
Avrebbe voluto sapere come si chiamava, ma non osava chiederglielo una terza volta, e la strinse a sé sentendo i capezzoli duri e sporgenti e lei ricambiò l’abbraccio attirandolo sempre più dentro di sé e questa volta lui non riusciva né a cavalcare l’onda né a farcisi portare, questa volta l’ondata lo travolse mandandolo a capitombolare e mentre si inarcava per riaffiorare affondava più profondamente di quanto avrebbe mai immaginato possibile, come se lui e la donna fossero tutt’uno, un’unica creatura che assaporava, beveva, abbracciava, desiderava…
«Lascia che sia» gli disse con un sordo ruggito. «Abbandonati a me. Lascia che sia.»
E Shadow venne, sciogliendosi tra spasmi, la mente stessa prima dissolta, poi, attraverso la fase di sublimazione, piano piano dallo stato liquido a quello gassoso.
Chissà dove, in fondo in fondo, prese un respiro, una limpida boccata d’aria che scese nei polmoni, e allora capì che aveva trattenuto il fiato per troppo tempo. Tre anni, almeno. Forse di più.
«Ora riposa» gli disse lei, e posò le labbra morbide sulle sue palpebre in un bacio. «Lascia che sia. Lascia che tutto sia come dev’essere.»
Il sonno che lo accolse era pesante e senza sogni, consolatorio, e Shadow vi si tuffò con abbandono.
C’era una luce strana. Le sei e quarantacinque, diceva l’orologio, e fuori faceva ancora buio, benché la stanza fosse invasa da un pallido chiarore azzurrastro. Scese dal letto. Era sicuro di essere andato a dormire con il pigiama, invece adesso era nudo e l’aria sulla sua pelle sembrava fredda. Andò a chiudere la finestra.
C’era stata una tormenta, durante la notte: quindici centimetri di neve, forse di più. L’angolo sudicio e fatiscente di città che Shadow riusciva a vedere dalla finestra era stato trasformato in un panorama pulito, molto diverso; le case non avevano più l’aria abbandonata e dimenticata, erano eleganti rivestite di bianco. Le strade invece erano scomparse del tutto sotto un candido manto di neve.
Al confine della capacità di percezione indugiava un’idea, qualcosa che aveva a che fare con la transitorietà. Svanì rapida come un baluginio.
Vedeva benissimo, come se il sole fosse già alto.
Notò qualcosa di strano allo specchio e si avvicinò a guardare stupito: tutti i lividi erano spariti. Si toccò il fianco, premendo forte con i polpastrelli in cerca di una fitta lancinante che gli ricordasse l’incontro con il signor Stone e il signor Wood, o dei lividi verdastri che Mad Sweeney gli aveva lasciato in omaggio. Più niente. La faccia era pulita, senza segni. Però i fianchi e la schiena (dovette contorcersi per vedere) erano coperti di graffi che sembravano prodotti da artigli acuminati.
Dunque non l’aveva sognato. Non del tutto.
Aprì i cassetti e indossò gli indumenti che trovò: un paio di antiquati Levi’s azzurri, una camicia, un maglione blu pesante e un cappotto nero da necroforo che trovò appeso nella cabina armadio.
Infilò le sue vecchie scarpe.
La casa dormiva ancora. Scese lentamente, sperando che il pavimento di legno non scricchiolasse, e uscì; si incamminò nella neve lasciando profonde impronte sul marciapiede. Fuori, anche grazie al riflesso della neve, c’era più luce di quanto avesse immaginato dalla camera.
Dopo un quarto d’ora arrivò a un ponte accanto al quale un grande cartello lo informava che stava uscendo dalla Cairo storica. Sotto il ponte c’era un uomo alto e curvo che fumava nervosamente una sigaretta scosso dai brividi. Gli sembrava di conoscerlo.
Gli arrivò abbastanza vicino da distinguere nella fioca luce invernale il livido rossastro intorno all’occhio. «Buongiorno, Mad Sweeney» disse.
Il mondo era molto silenzioso. Nemmeno un’automobile disturbò il silenzio ovattato.
«Ehi, amico.» Mad Sweeney non alzò lo sguardo. La sigaretta era fatta a mano.
«Se continui a stare sotto i ponti» disse Shadow «la gente comincerà a pensare che sei un troll.»
Questa volta Mad Sweeney alzò la testa e Shadow vide gli occhi stralunati. L’irlandese sembrava spaventato. «Stavo cercando proprio te. Mi devi dare un mano, amico. L’ho fatta grossa.» Inspirò dalla sigaretta, ma quando l’allontanò dalla bocca sul labbro inferiore era rimasto appiccicato un pezzetto di carta e la sigaretta si aprì lasciando cadere sulla barba rossa e sul davanti già sudicio della camicia i fili di tabacco. Mad Sweeney spazzò via tutto con un gesto convulso delle mani sporche, come se si trattasse di insetti pericolosi.
«Le mie disponibilità sono ridotte all’osso» disse Shadow, «comunque perché non mi dici cosa ti serve? Ti offro un caffè?»
Mad Sweeney scosse la testa. Da una tasca del giubbotto di jeans prese una busta di tabacco e un pacchetto di cartine e cominciò a rollare un’altra sigaretta. Intanto sembrava che gli si fosse rizzata la barba e mosse la bocca, anche se non ne uscì nessuna parola. Leccò la colla della cartina e fece scorrere il cilindretto tra le dita. Il risultato somigliava solo vagamente a una sigaretta. Poi disse: «Io non sono un troll. Cazzo. Quei bastardi sono stronzi e cattivi».
«Lo so che non sei un troll, Sweeney» rispose Shadow in tono gentile. «Cosa posso fare per te?»
Mad Sweeney fece scattare lo Zippo di ottone e i primi due centimetri abbondanti di sigaretta presero fuoco riducendosi istantaneamente in cenere. «Ti ricordi che ti ho insegnato a prendere una moneta? Ti ricordi?»
«Sì» disse Shadow. Gli sembrò di rivedere la moneta d’oro che rotolava sulla bara di Laura, che le scintillava al collo. «Ricordo.»
«Hai preso la moneta sbagliata, amico.»
Un’automobile si avvicinò alla zona buia sotto il ponte accecandoli con i fari. Rallentò, si fermò, e qualcuno abbassò un finestrino. «Tutto a posto, signori?»
«Tutto a postissimo, grazie» disse Shadow. «Siamo usciti per una passeggiata mattutina.»
«Allora va bene» rispose il poliziotto. Non aveva per niente l’aria di credere che andasse bene. Non ripartì. Shadow appoggiò una mano sulla spalla di Mad Sweeney e gli diede una spinta, allontanandolo dalla macchina di pattuglia, verso la periferia. Sentì il ronzio del finestrino che veniva chiuso ma vide che il poliziotto non si decideva a ripartire.
Shadow continuò a camminare. Anche Mad Sweeney continuò a camminare, ma ogni tanto barcollava.
La macchina della polizia li superò lentamente, poi fece inversione e tornò verso la città accelerando lungo la discesa coperta di neve.
«Perché non mi dici che cosa ti preoccupa?» disse Shadow.
«Ho fatto come aveva detto lui. Ho fatto tutto quello che mi aveva detto di fare ma ti ho dato la moneta sbagliata. Non era quella. Quella è per i re. Hai capito? In teoria non dovevo nemmeno essere in grado di prenderla. È la moneta che si dà al re d’America in persona. Non a un bastardo ubriacone come me o come te. E adesso sono in un grosso casino. Ridammela, amico. Non mi rivedrai mai più, se me la restituisci, lo giuro su quella testa di cazzo del re Bran, hai capito? Lo giuro su tutti gli anni che ho passato sopra quegli alberi di merda.»
«Chi ti ha detto di fare quello che hai fatto?»
«Grimnir. Il tizio che chiami Wednesday. Sai chi è? Lo sai chi è veramente?»
«Credo di sì.»
Negli occhi folli dell’irlandese passò un’espressione di panico. «Non c’era niente di male. Niente che tu… niente di male. Mi aveva detto di trovarmi in quel bar e di fare a botte con te. Diceva che voleva vedere di che pasta eri fatto.»
«Non ti ha detto di fare altro?»
Sweeney era scosso da brividi e contrazioni. Per un attimo Shadow pensò che tremasse di freddo, poi si rese conto di aver già visto quel modo particolare di rabbrividire, quando era in prigione: un drogato. Sweeney era in astinenza da qualcosa e Shadow avrebbe scommesso che si trattava di eroina. Un leprecauno tossicomane? Mad Sweeney staccò la brace della sigaretta, la gettò a terra e si infilò il mozzicone in tasca. Poi sfregò le mani annerite di sporcizia e ci soffiò sopra per scaldarle. Adesso la sua voce era un gemito lamentoso: «Senti, dammi quella moneta, amico. Te ne darò un’altra in cambio, altrettanto bella. Te ne do una carrettata di quelle cazzo di monete».
Si tolse il berretto da baseball bisunto e con la mano destra fece il gesto di ravviarsi i capelli producendo una grossa moneta d’oro. La lasciò cadere nel berretto. Ne materializzò un’altra da un ricciolo di respiro condensato nell’aria, e poi un’altra ancora, tutte afferrate dall’aria immobile del mattino fino a riempire il berretto, così pesante ormai che Sweeney doveva usare tutte e due le mani per tenerlo.
Lo tese verso Shadow. «Tieni» gli disse. «Prendile, amico. Basta che mi restituisci quella che ti ho dato al bar.» Shadow guardò il berretto e si chiese a quanto ammontasse il contenuto.
«Dove potrei spenderle, Mad Sweeney?» domandò. «Ci sono tanti posti dove cambiare monete d’oro in contanti?»
Per un momento pensò che l’irlandese volesse picchiarlo, ma quell’istante passò e Mad Sweeney rimase lì in piedi con il berretto teso davanti a sé come Oliver Twist. E gli occhi azzurri gli si riempirono di lacrime che rotolarono lungo le guance. Si mise il berretto — ormai vuoto di tutto, fatta eccezione per una fascia madida di sudore — sui capelli radi. «Me la devi dare, amico. Non ti ho fatto vedere come si fa? Ti ho fatto vedere come si prendono le monete dalla riserva. Ti ho fatto vedere dov’è la riserva. Dammi solo quella prima moneta. Non è mia.»
«Non ce l’ho più.»
Mad Sweeney smise di piangere e sulle sue guance comparvero alcune chiazze rosse. «Tu, pezzo di…» cominciò prima che le parole gli mancassero; la bocca si aprì e si chiuse in una scena muta.
«Ti sto dicendo la verità» disse Shadow. «Mi dispiace. Se ce l’avessi te la ridarei, ma l’ho regalata.»
La mano lercia di Sweeney gli strinse la spalla in una morsa e i suoi pallidi occhi azzurri lo fissarono. Le lacrime gli avevano rigato le guance coperte di sporcizia. «Merda» disse. Shadow sentì l’odore del tabacco, della birra stantia e del sudore acre del bevitore di whiskey. «Stai dicendo la verità, pezzo di merda. L’hai data via di tua spontanea volontà. Maledetti siano i tuoi occhi scuri, l’hai data via veramente.»
«Mi dispiace.» Shadow risentì il tonfo soffocato della moneta che atterrava sulla bara di Laura.
«Che tu sia dispiaciuto o no, io sono dannato e condannato.» Sweeney si asciugò il naso e gli occhi con la manica della giacca coprendosi la faccia di strani disegni grigiastri.
Shadow gli diede una stretta al bicipite, un impacciato gesto maschile di solidarietà.
«Meglio sarebbe stato se non fossi mai nato» disse l’irlandese dopo un lungo silenzio. Poi alzò gli occhi. «Il tipo a cui l’hai data. Me la restituirebbe, secondo te?»
«È una donna. E non so dove sia. Comunque no, non credo che sarebbe disposta a ridartela.»
Sweeney sospirò tristemente. «Quand’ero appena un pivello, un giorno ho incontrato una donna, sotto le stelle, che mi ha lasciato giocare con le sue tette e mi ha letto il destino. Mi ha detto che sarei finito abbandonato a ovest del tramonto, e che l’amore di una morta per i gingilli avrebbe deciso la mia sorte. E io ho riso e mi sono versato altro vino d’orzo e ho giocato ancora un po’ con le sue tette e l’ho baciata su quella bocca graziosa. Erano i bei tempi… il primo monaco grigio non aveva ancora messo piede sulla nostra terra, non avevano ancora attraversato il verde mare diretti a Occidente. E adesso…». Si interruppe, lasciando la frase a mezzo. Voltò la testa e guardò Shadow con aria concentrata. «Non ti dovresti fidare di lui» disse in tono di rimprovero.
«Di chi?»
«Wednesday. Non fidarti.»
«Non devo fidarmi. Lavoro per lui.»
«Ti ricordi come si fa?»
«Cosa?» Shadow aveva l’impressione di parlare con almeno sei persone diverse. Il cosiddetto leprecauno saltava confusamente da un personaggio all’altro, da un argomento all’altro, come se le sue cellule cerebrali superstiti stessero prendendo fuoco un’ultima volta prima di spegnersi per sempre.
«Le monete, amico. Le monete. Te l’ho fatto vedere, non ti ricordi?» Avvicinò due dita alla faccia, le fissò e prese dalla bocca una moneta d’oro. La lanciò a Shadow che allungò una mano per prenderla, ma non gli arrivò niente.
«Ero ubriaco» disse Shadow. «Non ricordo.»
Sweeney attraversò la strada barcollando. Adesso si era fatto giorno e il mondo era bianco e grigio. Shadow lo seguì. Sweeney camminava a lunghi passi sbilenchi, come se fosse sempre sul punto di cadere, ma il movimento glielo impediva, le gambe lo spingevano in avanti. Quando arrivarono al ponte l’irlandese si appoggiò con una mano ai mattoni della volta, si girò e disse: «Hai qualche dollaro? Non ho bisogno di molto. Per un biglietto di sola andata venti dollari basterebbero. Ce li hai venti miserabili dollari?».
«Dove vuoi andare con un biglietto dell’autobus da venti dollari?»
«Via di qui» rispose Sweeney. «Posso andarmene prima che scoppi la tempesta. Lontano da un mondo dove l’oppio è diventato la religione dei popoli. Lontano.» Si interruppe e si asciugò il naso con il dorso della mano che ripulì sulla manica.
Shadow prese dalla tasca una banconota da venti dollari e gliela diede. «Tieni.»
Sweeney l’accartocciò e la spinse in fondo al taschino del giubbotto di jeans tutto macchiato d’unto, sotto una toppa con due avvoltoi appollaiati su un ramo secco e la scritta PAZIENZA UN CORNO! ADESSO AMMAZZO QUALCOSA! Annuì. «Basteranno per portarmi dove devo andare.»
Si appoggiò al muro rovistando nelle tasche fino a quando non scovò il mozzicone di sigaretta riposto qualche minuto prima. L’accese facendo attenzione a non bruciarsi le dita o la barba. «Voglio dirti una cosa» cominciò, come se non avesse ancora aperto bocca. «Tu sei sulla strada del patibolo, intorno al collo hai già la corda e su ogni spalla un corvo appollaiato che aspetta solo di cavarti gli occhi, e l’albero della forca ha radici profonde perché va dal cielo all’inferno e il nostro mondo non è che il ramo da cui penzola la corda.» Fece una pausa. «Mi fermo un po’ qua» disse accovacciandosi con la schiena appoggiata ai mattoni neri.
«Buona fortuna».
«Cazzo, sono fottuto» disse l’irlandese. «Comunque grazie.» Shadow tornò verso la città. Erano le otto del mattino e Cairo si stava svegliando. Si voltò a guardare e sotto il ponte vide la faccia pallida di Sweeney rigata di lacrime e sudiciume che lo osservava allontanarsi.
Non lo avrebbe più visto vivo.
Le brevi giornate d’inverno che precedono il Natale erano come istanti luminosi nella tenebra e nella dimora dei morti volarono via in fretta.
Il ventitré dicembre Jacquel e Ibis erano intenti al loro ruolo di ospiti alla veglia di Lila Goodchild. La cucina era affollata di donne indaffarate con pentole e tegami e contenitori di plastica, mentre la defunta era esposta dentro la bara circondata da fiori di serra nella sala principale dell’impresa di pompe funebri. Sul lato opposto della sala c’era un tavolo coperto di enormi quantità di insalata di cavolo, fagioli e frittelle di granturco, pollo e costolette e fagioli dall’occhio, e a metà pomeriggio la casa era piena di gente che piangeva e rideva e stringeva le mani al pastore, tutto grazie all’organizzazione ferrea e sotto l’occhio vigile dei sobriamente vestiti signori Jacquel e Ibis. La defunta sarebbe stata seppellita l’indomani mattina.
Quando il telefono dell’ingresso squillò (era di bachelite nera e aveva il bel vecchio disco rotante di una volta), rispose il signor Ibis. Poi prese Shadow in disparte. «Era la polizia. Potresti andare a ritirare un corpo?»
«Certo.»
«Sii discreto. Tieni.» Scrisse l’indirizzo su un foglietto di carta e lo diede a Shadow che lesse il bel corsivo chiaro e regolare, lo ripiegò e lo infilò in tasca. «Ci sarà una macchina della polizia» aggiunse Ibis.
Shadow andò a prendere il carro funebre. Jacquel e Ibis ci avevano tenuto a spiegare, separatamente, che in realtà il carro andava usato soltanto per i funerali, e che per ritirare i cadaveri avevano un furgone, ma al momento il furgone era dal meccanico, erano già tre settimane ormai, perciò che facesse molta attenzione con il carro funebre. Shadow guidò con cautela. Gli spazzaneve avevano ripulito le strade ma gli piaceva guidare piano. Sembrava l’unica cosa giusta da fare con un veicolo di quel tipo, anche se quasi non ricordava l’ultima volta che ne aveva visto uno per strada. La morte era scomparsa dalle strade d’America, pensò; era un evento che si verificava negli ospedali o nelle ambulanze. Non bisogna spaventare i vivi. Il signor Ibis gli aveva raccontato che in alcuni ospedali mettono i morti sul ripiano basso delle barelle e poi le coprono per farle sembrare vuote, così i defunti percorrono la loro ultima strada sotto mentite spoglie.
Un’automobile blu della polizia era ferma sul ciglio della strada e Shadow parcheggiò subito dietro. A bordo c’erano due poliziotti che bevevano caffè dai coperchi dei thermos. Non avevano spento il motore per tenere acceso il riscaldamento. Shadow picchiò sul finestrino.
«Che c’è?»
«Mi manda l’impresa di pompe funebri.»
«Stiamo aspettando il medico legale» disse il poliziotto. Shadow si domandò se fosse lo stesso che gli aveva parlato sotto il ponte. L’uomo, di colore, scese dalla macchina lasciando il collega al volante e accompagnò Shadow verso i bidoni dell’immondizia. Mad Sweeney era seduto nella neve vicino a un bidone. In grembo aveva una bottiglia verde; faccia, berretto e spalle erano coperti da uno strato sottile di neve. Non dava segni di vita.
«Ubriaco morto» disse il poliziotto.
«Così parrebbe» rispose Shadow.
«Non toccare niente» disse il poliziotto. «Il medico legale dovrebbe arrivare da un momento all’altro. Se vuoi la mia opinione questo qui era ubriaco perso e si è congelato il culo.»
«Sì» convenne Shadow. «A vederlo sembrerebbe proprio così.»
Si accovacciò davanti a Sweeney e guardò l’etichetta della bottiglia. Whiskey irlandese Jameson: un biglietto da venti dollari di sola andata. Una piccola Nissan verde si fermò e ne scese un uomo di mezza età dall’aria esausta, con i capelli e i baffi brizzolati. Si avvicinò al corpo e lo toccò sul collo. Il suo lavoro consiste nel prendere a calci il cadavere, pensò Shadow. Se il cadavere non glieli restituisce, allora lui…
«È morto» dichiarò il medico. «Sapete chi è?»
«Tizio o Caio» rispose il poliziotto.
Il medico legale guardò Shadow. «Lei lavora per Jacquel Ibis?»
«Sì.»
«Dica a Jacquel di prendere il calco dei denti e le impronte digitali, oltre alle foto. Dell’autopsia non c’è bisogno. Basta un esame del sangue per le analisi tossicologiche. Ha capito? Vuole che glielo scriva?»
«No» disse Shadow. «Va bene così. Me lo ricordo.»
L’uomo aggrottò per un istante le sopracciglia, poi prese dal portafogli un biglietto da visita, vi scrisse qualcosa e glielo diede. «Lo dia a Jacquel» disse, aggiunse «Buon Natale a tutti» e se ne andò. I poliziotti si tennero la bottiglia vuota.
Shadow firmò per il ritiro di Tizio e lo adagiò sulla barella. Il corpo era molto rigido e Shadow non riuscì a smuoverlo dalla posizione seduta. Manovrò la barella in modo da rialzarne un’estremità e vi legò Tizio seduto in fondo al carro con la faccia rivolta nel senso di marcia. Avrebbe viaggiato bene lo stesso. Chiuse le tendine e partì diretto verso l’impresa di pompe funebri.
Il carro era fermo a un semaforo quando Shadow sentì una voce gracchiare: «E la veglia la voglio fatta come si deve, con tutto il meglio e donne bellissime che piangono e si strappano le vesti per il dolore e gli uomini più coraggiosi che mi ricordano narrando le mie gesta dei bei tempi».
«Sei morto, Mad Sweeney» disse Shadow. «I morti si devono accontentare.»
«Ahimè, dovrò per forza» sospirò il cadavere seduto in fondo al carro funebre. Adesso nella sua voce non si sentiva più il tono lamentoso da drogato e c’era invece una rassegnazione laconica; come se le parole giungessero via radio da molto, molto lontano, parole morte trasmesse su una frequenza morta.
Il semaforo diventò verde e Shadow appoggiò delicatamente il piede sul pedale dell’acceleratore. «Ma fammi lo stesso una veglia» disse Mad Sweeney. «Metti un posto a tavola anche per me e fammi una bella veglia alcolica. Mi hai ammazzato, Shadow. Me lo devi.»
«Non ho fatto niente del genere, Sweeney» rispose Shadow. Venti dollari, pensò, per un biglietto di sola andata lontano da qui. «Sono stati il freddo e il whiskey a ucciderti, non io.»
Non seguì nessuna risposta e il resto del tragitto si svolse in silenzio. Dopo aver parcheggiato, Shadow spinse la barella dentro l’obitorio. Rovesciò Mad Sweeney sul tavolo come se fosse un quarto di bue.
Lo coprì con un lenzuolo e lo lasciò lì con accanto le carte della polizia. Salendo le scale gli sembrò di sentire una voce, bassa e soffocata, come una radio accesa in una stanza lontana, che gli diceva: «E come avrebbero potuto whiskey e freddo uccidere me, un leprecauno di pura razza? No, è stata la perdita di quel piccolo sole d’oro a uccidermi, Shadow, a uccidermi per sempre, sicuro com’è sicuro che l’acqua è bagnata e i giorni lunghi e com’è sicuro che prima o poi c’è un amico che finisce per deluderti».
Shadow avrebbe voluto far notare a Mad Sweeney che quella era una filosofia molto amara, ma aveva il sospetto che il fatto d’essere morto amareggiasse chiunque.
Salì nella casa affollata di signore di mezza età indaffarate a coprire con la pellicola di plastica le casseruole con gli avanzi degli sformati, a tappare i contenitori di plastica pieni di patate fritte ormai fredde e di pasta al forno.
Il signor Goodchild, consorte della defunta, aveva messo il signor Ibis con le spalle al muro e gli stava raccontando di non essere sorpreso che nessuno dei figli fosse venuto a dire addio alla madre. Le mele non cadono lontano dagli alberi, ripeteva a chiunque lo volesse ascoltare. Le mele non cadono lontane dagli alberi.
Quella sera Shadow aggiunse un posto a tavola. Davanti a ogni piatto sistemò un bicchiere e in mezzo al tavolo una bottiglia di Jameson Gold. Era il whiskey irlandese più costoso che fosse riuscito a trovare nel negozio di liquori. Finito di cenare (con un grande vassoio pieno d’avanzi lasciati dalle pie donne), Shadow versò nei bicchieri una dose generosa di liquore; nel suo, in quello di Ibis, di Jacquel e di Mad Sweeney.
«Che importa se è seduto sulla barella nel sotterraneo» disse mentre versava il whiskey «in attesa di essere sepolto in una fossa comune? Questa sera brinderemo a lui e gli faremo la veglia che desiderava.»
Shadow alzò il bicchiere in un brindisi in direzione del posto vuoto. «L’ho incontrato solo due volte, da vivo. La prima ho pensato che fosse uno stronzo di prima categoria e anche un pazzo forsennato. La seconda mi è sembrato un rovinato totale e gli ho dato i soldi per uccidersi. Mi ha insegnato un trucco con le monete che non riesco a ricordare, mi ha lasciato qualche livido in ricordo e diceva di essere un leprecauno. Riposa in pace, Mad Sweeney.» Sorseggiò il whiskey assaporandone il gusto affumicato. Gli altri due bevvero con lui dopo aver brindato al posto vuoto.
Il signor Ibis infilò una mano in tasca e ne estrasse un quaderno che sfogliò fino alla pagina che cercava, dalla quale lesse un succinto resoconto della vita di Sweeney.
Secondo Ibis, Mad Sweeney aveva esordito più di tremila anni prima come guardiano di una roccia sacra in una piccola radura irlandese. Raccontò le faccende amorose di Sweeney, le sue inimicizie, la follia che gli dava potere («sì narra anche una versione più tarda delle sue gesta, benché la sua natura sacra, l’origine antica e gran parte dei versi dell’epopea siano stati dimenticati da tempo immemorabile»), parlò del culto di Mad Sweeney che nel luogo d’origine si era a poco a poco trasformato in un cauto rispetto, poi in un atteggiamento divertito; raccontò della ragazza di Bantry che era venuta nel Nuovo Mondo portando con sé la fede in Mad Sweeney il leprecauno, perché una notte l’aveva visto vicino allo stagno, e non le aveva forse sorriso chiamandola per nome? La ragazza aveva dovuto emigrare viaggiando nella stiva di una nave zeppa di gente che aveva visto le proprie patate diventare una nera poltiglia nei campi, che aveva visto amici e amanti morire di fame, che sognava una terra di pance piene. In particolare la ragazza di Bantry sognava una città dove una giovane donna potesse guadagnare a sufficienza per far venire tutta la famiglia nel Nuovo Mondo. Molti irlandesi venuti in America si definivano cattolici, anche se del catechismo non sapevano niente, anche se di religioso conoscevano soltanto la Bean Sidhe, la banshee, lo spirito di donna il cui lamento era presagio di morte, e Saint Bride, che una volta era Bridget delle due sorelle (tutte e tre erano Brigid, una e trina) e le storie di Finn, di Oisin, di Conan il calvo, perfino dei leprecauni, i mezzi uomini (senso dell’umorismo irlandese, visto che all’epoca i leprecauni erano più alti della gente dei tumuli)…
Tutto questo e altro ancora narrò il signor Ibis quella notte in cucina. L’ombra che gettava sul muro era allungata come quella di un uccello, e man mano che il whiskey scorreva Shadow trovava sempre più facile immaginare che fosse la testa di un enorme uccello acquatico, il becco lungo e ricurvo, e fu a un certo punto a metà del secondo bicchiere che Mad Sweeney stesso cominciò ad aggiungere dettagli e particolari irrilevanti al racconto di Ibis («… e che ragazza, con il petto color crema, tutto coperto di lentiggini, con i capezzoli del rosa intenso dell’alba di un giorno in cui pioverà a catinelle prima di mezzodì ma nel pomeriggio splenderà il sole…») e poi si avventurò, ricorrendo a entrambe le mani, nella storia degli dèi irlandesi, giunti a ondate da Gallia, Spagna e chissà dove, che a ogni ondata successiva si trasformavano in troll e tutte le dannate creature, fino a quando la Santa Madre Chiesa non arrivò e senza preavviso trasformò tutti gli dèi d’Irlanda in fate, santi o in re morti…
Il signor Ibis pulì gli occhiali e spiegò — pronunciando le parole con una chiarezza e una precisione perfino maggiore del solito e rivelando con ciò di essere ubriaco (il modo di parlare e il sudore che gli imperlava la fronte nella casa fredda erano gli unici indizi del suo stato di ubriachezza) — agitando un indice ammonitore, che lui era un artista e che i suoi racconti non andavano considerati resoconti letterali ma creazioni della fantasia, più veri del vero. «Ti faccio vedere io la mia fantasia creativa» disse Mad Sweeney, «e con un pugno ti rifaccio quel muso di merda, tanto per cominciare», e il signor Jacquel ringhiò scoprendo i denti, il ringhio di un grosso cane che non vuole combattere ma che potrebbe attaccarti alla gola senza difficoltà, e Sweeney raccolse il messaggio e dopo essersi rimesso seduto si versò un altro bicchiere di whiskey.
«Ti è tornato in mente il mio trucchetto?» chiese a Shadow con un sorriso.
«No.»
«Se provi a indovinare» disse Mad Sweeney con le labbra di un rosso acceso e gli occhi azzurri offuscati «io ti aiuto.»
«Non è un palmaggio, vero?» chiese Shadow.
«Non lo è.»
«Adoperi qualche attrezzo? Qualcosa che infili nella manica o non so dove e che spara fuori le monete quando fai finta di prenderle al volo?»
«Non è un attrezzo. Qualcuno vuole ancora whiskey?»
«Ho letto in un libro che c’è un modo di eseguire il Sogno dell’Avaro con un guanto trasparente, facendo una specie di sacchetto color pelle dove si tengono le monete.»
«Oh che triste veglia per il Grande Sweeney venuto a volo d’uccello fin dall’Irlanda e che nella sua follia ha mangiato crescione: è morto e nessuno lo piange salvo un uccello, un cane e un cretino. No, non si tratta di una sacca nel guanto di gomma.»
«Be’, altre idee non me ne vengono» disse Shadow. «Secondo me le prendi dall’aria e basta.» L’aveva detto con sarcasmo, ma quando vide l’espressione di Sweeney aggiunse: «È così. Fai davvero così».
«Be’, non le prendo esattamente dall’aria. Ma ci sei vicino. Bisogna prenderle dalla riserva.»
«La riserva» ripeté Shadow che cominciava a ricordare. «Certo.»
«Devi soltanto tenerla a mente, e puoi attingerci finché ti pare. È il tesoro del sole. C’è nei momenti in cui il mondo produce un arcobaleno. C’è quando cominciano l’eclisse e la tempesta.»
E mostrò a Shadow come si faceva.
Questa volta Shadow capì.
La testa gli doleva e pulsava, e la lingua aveva la consistenza e il sapore della carta moschicida. Shadow socchiuse gli occhi per difendersi dalla luce. Si era addormentato con la testa appoggiata sul tavolo della cucina; era vestito di tutto punto, anche se chissà quando doveva essersi levato la cravatta.
Scese nell’obitorio nel seminterrato e fu sollevato, anche se non sorpreso, di vedere che Tizio era ancora seduto sul tavolo dell’imbalsamazione. Prese la bottiglia vuota di Jameson Gold dalle dita bloccate dal rigor mortis e la gettò via. Al piano di sopra qualcuno si stava muovendo.
Quando Shadow tornò in cucina, seduto al tavolo trovò Wednesday intento a divorare con un cucchiaio di plastica gli avanzi dell’insalata di patate da un contenitore. Indossava un vestito grigio scuro, una camicia bianca e una cravatta color ferro: il sole del mattino scintillava sulla spilla d’argento a forma d’albero. Vedendo Shadow sorrise.
«Ah ragazzo mio, mi fa piacere vedere che sei sveglio. Credevo che saresti andato avanti a dormire per sempre.»
«Mad Sweeney è morto.»
«L’ho saputo» disse Wednesday. «Un vero peccato. Naturalmente presto o tardi toccherà a tutti.» Fece il gesto di dare uno strattone a una corda immaginaria, più o meno a livello dell’orecchio, poi piegò la testa di lato tirando fuori un palmo di lingua e strabuzzando gli occhi. Per essere una rapida pantomima, fu piuttosto inquietante. Poi lasciò andare la corda immaginaria e sorrise con la sua solita smorfia. «Vuoi un po’ di insalata di patate?»
«Preferirei di no.» Shadow diede un’occhiata intorno e verso l’ingresso. «Sai dove sono Ibis e Jacquel?»
«Ma certo. Stanno seppellendo la signora Lila Goodchild, un’attività nella quale avrebbero gradito il tuo aiuto ma io ho chiesto che non ti svegliassero. Ti aspetta un lungo viaggio.»
«Siamo in partenza?»
«Appena sei pronto.»
«Mi piacerebbe salutarli.»
«I saluti sono un genere sopravvalutato. Li rivedrai, non ne dubito, prima che questa faccenda sia conclusa.»
Per la prima volta dopo la sua prima notte nella casa, Shadow notò la gatta, acciambellata nella cesta. L’animale aprì gli occhi color ambra e rimase a guardarlo uscire con aria indifferente.
Così Shadow lasciò la casa dei morti. Gli alberi e gli arbusti, coperti di brina, sembravano isolati dalla realtà, presenze oniriche. Sul sentiero si scivolava.
Wednesday lo precedette verso la Chevy Nova bianca di Shadow, parcheggiata sul ciglio della strada. Era stata pulita di recente e qualcuno aveva sostituito le targhe del Wisconsin con altre del Minnesota. I bagagli di Wednesday erano già stati caricati sul sedile posteriore. Wednesday aprì la portiera con un duplicato della chiave che Shadow aveva in tasca.
«Guido io» disse. «Ci vorrà almeno un’ora prima che tu sia in grado di renderti utile.»
Si diressero a nord, tenendosi il Mississippi a sinistra, un largo nastro d’argento sotto il cielo grigio. Appollaiato su un albero spoglio e spettrale lungo la strada Shadow vide un enorme sparviero bianco e marrone che li fissava con sguardo da folle, e quando furono più vicini spiegò le ali e si alzò in un volo circolare, possente.
Shadow si rendeva conto che quel periodo nella dimora dei morti era stato solo una sospensione momentanea; cominciava già a sembrargli un evento accaduto a qualcun altro, tanto tempo prima.