PARTE TERZA La strada per Jorslem

18

Il nostro mondo, adesso, era il loro mondo. Viaggiando attraverso l’Eyrop potevo vedere che gli invasori avevano preso ogni cosa, e che noi appartenevamo a loro come le bestie di una stalla appartengono al contadino.

Erano ovunque, come erbacce di carne attecchite dopo uno strano temporale. Camminavano con fredda sicurezza, e i loro movimenti orgogliosi parevano dire che la volontà ci aveva tolto il suo favore e ne aveva fatto dono a loro. Non erano crudeli con noi, ma bastava la loro presenza a svuotarci di vitalità. Il nostro sole, le nostre lune, i nostri musei di antiche reliquie, le nostre rovine dei cicli precedenti, le nostre città, i nostri palazzi, il nostro domani, il nostro oggi e il nostro ieri erano passati in proprietà d’altri. Ora la nostra vita non aveva più significato.

Di notte lo splendore delle stelle si faceva beffe di noi. L’universo intero guardava da lassù la nostra vergogna.

Il freddo vento dell’inverno ci diceva che i nostri peccati ci erano costati la libertà. Il caldo soffio dell’estate ci diceva che il nostro orgoglio ci aveva fatti precipitare.

Era un mondo diverso quello in cui ci muovevamo, ed eravamo stati spogliati delle nostre vecchie personalità. Io, che ogni giorno avevo vagato tra le stelle, adesso avevo perso quel piacere. Ora, viaggiando verso Jorslem, trovavo un freddo conforto nella speranza di poter trovare, da Pellegrino, redenzione e rinnovamento nella città santa. Io e Olmayne ripetevamo ogni notte i rituali del Pellegrinaggio verso quella meta:

— Noi ci inchiniamo alla Volontà.

— Noi ci inchiniamo alla Volontà.

— In ogni cosa piccola e grande.

— In ogni cosa piccola e grande.

— E chiediamo perdono.

— E chiediamo perdono.

— Per i peccati commessi e per quelli futuri.

— Per i peccati commessi e per quelli futuri.

— E preghiamo per la comprensione e la pace.

— E preghiamo per la comprensione e la pace.

— In tutti i nostri giorni finché la redenzione verrà.

— In tutti i nostri giorni finché la redenzione verrà.

Queste erano le nostre parole. Nel pronunciarle, stringevamo quella fredda, polita sfera che era la pietra di stella, gelida come un fiordibrina, ed entravamo in comunione con la Volontà. E così ci avvicinavamo a Jorslem, in questo mondo che non apparteneva più all’uomo.


Fu all’imbocco talyano del Ponte di Terra che Olmayne, per la prima volta, si dimostrò crudele con me. Olmayne era crudele per natura, come mi aveva ampiamente dimostrato a Perris; eppure da molti mesi eravamo entrambi Pellegrini, avevamo lasciato Perris per dirigerci a est, avevamo oltrepassato le montagne e le pianure di Talya per giungere sino al Ponte, e lei non aveva sfoderato gli artigli. Fino a quel momento.

Accadde quando un gruppo di invasori, che dall’Afrik stava risalendo a nord, ci ordinò di fermarci. Erano all’incirca venti, alti e dal viso duro, fieri di essere padroni della Terra conquistata. Viaggiavano su uno di quei loro veicoli lunghi e stretti, chiusi da una splendente carrozzeria, con battistrada color della sabbia e minuscoli finestrini. Potevamo vedere il veicolo da molto lontano, per la nube di polvere che sollevava nell’avvicinarsi.

Era la stagione più calda dell’anno. Il cielo stesso era color della sabbia, percorso da densi grumi di calura: fulgide, terribili vampate d’energia ora turchesi, ora dorate.

Eravamo in cinquanta, fermi ai lati della strada; dietro avevamo la terra di Talya, e davanti il continente dell’Afrik. Il nostro era un gruppo eterogeneo: qualche Pellegrino, come Olmayne e me, diretto alla città santa di Jorslem; ma molti erano i vagabondi, uomini e donne che viaggiavano di continente in continente per mancanza di altri scopi. Distinsi fra gli altri cinque ex Vedette, e anche parecchi Classificatori, una Sentinella, un paio di Comunicatori, uno Scriba, e persino qualche Diverso. Ci eravamo raccolti in formazione sparsa, lasciando la strada agli invasori prima ancora che fossero arrivati.

Il Ponte di terra non è largo, e la strada non consente il passaggio contemporaneo di molte persone. Eppure, in tempi normali, il traffico scorreva sempre in entrambe le direzioni. Ma lì, in quel momento, non osavamo procedere, con gli invasori tanto vicini, e restavamo uniti per una sorta di timidezza, a scrutare i conquistatori che si appressavano.

Uno dei Diversi si staccò dai suoi simili e mosse verso di me. Per la sua razza era piccolo di statura, ma aveva spalle larghe; la sua pelle pareva tesa fino allo spasimo sulle ossa; gli occhi erano grandi, bordati di verde; i capelli crescevano in piccoli ciuffi a forma di piedistallo, molto distanziati tra loro; e il naso si scorgeva appena, tanto che le narici sembravano nascoste dal labbro superiore. Nonostante ciò, egli appariva molto meno grottesco di tanti altri Diversi. La sua espressione era solenne, ma una bizzarra sfumatura ironica trapelava da non so dove.

Con voce che era poco più di un sussurro, ci chiese: — Pensate che la sosta durerà molto, Pellegrini?

In altri tempi, nessuno si sarebbe rivolto a un Pellegrino senza esserne richiesto, specialmente un Diverso. Usanze del genere per me non significavano nulla, ma Olmayne si ritrasse con uno sbuffo di disgusto.

Risposi: — Aspetteremo qui finché i nostri signori non ci concederanno di procedere. C’è altra scelta?

— Nessuna, amico mio, nessuna.

A quell’amico mio, Olmayne sbuffò di nuovo e fissò sdegnata il piccolo Diverso. Anche il Diverso si voltò: era chiaramente adirato, perché sei strisce parallele di pigmento scarlatto s’accesero con improvviso bagliore sotto la pelle lucida delle sue guance. Ma l’unica risposta fu un inchino di cortesia. Poi disse: — Mi presento. Sono Bernalt, privo per natura di Corporazione, nativo di Nayrob nell’Afrik Fonda. Non vi chiedo il vostro nome, Pellegrini. Siete diretti a Jorslem?

— Sì — dissi, mentre Olmayne gli girava la schiena. — E voi? Ritornate a Nayrob da un viaggio?

— No — disse Bernalt. — Vado anch’io a Jorslem.

Improvvisamente mi sentii freddo e ostile; mi scomparve subito l’iniziale reazione di simpatia verso lo strano fascino del Diverso. Avevo già avuto un Diverso, anche se poi s’era rivelato un impostore, come compagno di viaggio; anche lui possedeva un certo fascino, ma non volevo più contatti con individui di quella risma. Rigidamente, freddamente, dissi: — Mi è lecito chiedere quali interessi possa perseguire a Jorslem un Diverso?

Egli percepì il gelo della mia voce, e i suoi grandi occhi si tinsero di rammarico. — Anche a noi è concesso visitare la città santa, vorrei ricordarvi. Anche alla nostra razza. Temete forse che i Diversi s’impadroniscano di nuovo del tempio del rinnovamento come fecero un migliaio d’anni fa, prima che fossero esclusi dalle Corporazioni? — Rise seccamente. — Io non sono una minaccia per nessuno, Pellegrino. Sono brutto di viso, ma non pericoloso. Che la Volontà vi conceda ciò che cercate, Pellegrino. — Con un gesto di rispettoso commiato, tornò fra gli altri Diversi.

Furiosa, Olmayne mi si scagliò contro.

— Perché parlate con creature così bestiali?

— Quell’uomo mi ha rivolto la parola. Cercava solo di essere amichevole. Siamo tutti nella stessa situazione, Olmayne, e…

Uomo. Uomo! Chiamate uomo un Diverso?

— Ma sono davvero umani, Olmayne.

— Appena appena. Tomis, io odio quei mostri. La mia pelle rabbrividisce quando li ho vicini. Se potessi, li allontanerei da questo mondo!

— Dov’è la serena tolleranza che un Ricordatore deve coltivare?

Il tono beffardo della mia voce la infiammò. — Non siamo obbligati ad amare i Diversi, Tomis. Sono soltanto una delle maledizioni che gravano sul nostro pianeta: parodie dell’umanità, nemici del vero e del bello. Li disprezzo!

Olmayne non era l’unica a nutrire quei sentimenti. Ma non ebbi il tempo di rimproverarla per la sua intolleranza: il veicolo degli invasori era ormai vicinissimo. Speravo che, una volta passato quello, avremmo potuto riprendere il cammino. Invece la macchina rallentò e si fermò: ne scesero parecchi invasori. Presero a camminare verso di noi senza nessuna fretta; le loro lunghe braccia pendevano dai fianchi come corde lasche.

— Chi è il capo, qui? — chiese uno di loro.

Nessuno rispose, perché nel nostro viaggio eravamo indipendenti l’uno dall’altro.

Dopo un momento l’invasore proseguì, impaziente: — Nessun capo? Nessun capo? Molto bene, allora sentitemi tutti quanti. La strada deve essere sgombra. È in arrivo un convoglio. Tornate a Palerm e aspettate fino a domani.

— Ma devo essere in Agupt per… — cominciò lo Scriba.

— Oggi il Ponte di Terra è chiuso — disse l’invasore. — Tornate a Palerm.

La sua voce era calma. Gli invasori non sono mai perentori, mai imperiosi. Il loro atteggiamento riflette la sicurezza di chi ha il potere assoluto.

Lo Scriba rabbrividì, serrò le mascelle e non aggiunse altro.

Diversi degli uomini raggruppati ai margini della strada avevano l’aria di voler protestare. La Sentinella si girò e sputò. Un uomo, che sulle guance ostentava orgogliosamente il marchio dell’infranta Corporazione dei Difensori, strinse i pugni e tremò sotto un attacco di furia. I Diversi bisbigliarono tra loro. Bernalt mi lanciò un sorriso amaro e scosse le spalle.

Tornare a Palerm? Perdere un giorno di cammino con quel caldo? Per cosa? Per cosa?

L’invasore fece un gesto con la mano, ordinando di disperderci.

Fu allora che Olmayne si dimostrò malvagia con me. A voce bassa, mi disse: — Tomis, spiegategli che siete al servizio del Procuratore di Perris, e ci lasceranno proseguire tutt’e due.

I suoi occhi neri brillavano d’ironia e disprezzo.

Le mie spalle tremarono, come se lei vi avesse deposto il peso di dieci anni. — Perché dite una cosa del genere? — le chiesi.

— Fa caldo. Sono stanca. È stupido farci rimandare a Palerm.

— Ne convengo. Ma non posso farci nulla. Perché cercare di ferirmi?

— La verità è così dolorosa?

— Io non sono un collaborazionista, Olmayne.

Lei rise. — Lo dite talmente bene! Ma lo siete, Tomis, lo siete! Avete venduto loro i documenti.

— Per salvare il Principe, il vostro amante — le ricordai.

— A ogni modo, voi avete trattato con gli invasori. Il fatto resta, a dispetto dei motivi.

— Basta, Olmayne.

— Adesso vi mettete a darmi ordini?

— Olmayne…

— Andate da loro, Tomis. Ditegli chi siete, chiedete che ci lascino passare.

— Il convoglio ci investirebbe, e comunque io non ho nessuna influenza sugli invasori. Non sono un uomo del Procuratore.

— Morirò, piuttosto che tornare a Palerm!

— Crepate pure allora — dissi stancamente, e le girai la schiena.

— Traditore! Vecchio pazzo e intrigante! Codardo!

Finsi d’ignorarla, ma il fuoco delle sue parole bruciava dentro di me. Non erano false, soltanto malvagie. Avevo davvero trattato con i conquistatori, avevo davvero tradito la Corporazione che mi aveva offerto rifugio, avevo davvero infranto la legge che chiede un’assoluta passività come unica forma di protesta per la sconfitta della Terra. Tutto vero: eppure era molto cattivo, da parte sua, ricordarmi quelle cose. Quando avevo infranto le barriere della fiducia, non mi ero preoccupato di obbedire ad alti ideali patriottici; cercavo solo di salvare un uomo cui mi sentivo legato, un uomo di cui lei era innamorata. Era ingiusto che adesso Olmayne mi accusasse di tradimento, tormentasse la mia coscienza, solo perché il caldo e la strada polverosa l’avevano irritata.

Ma questa donna aveva ucciso il marito a sangue freddo. Perché non sarebbe dovuta essere altrettanto malvagia su un’inezia?

Gli invasori ottennero ciò che volevano: il nostro gruppo abbandonò la strada e tornò a Palerm, una città tetra, bollente, sonnolenta. Quella sera, come per consolarci, cinque Alati che volavano sulla città ci donarono un brivido d’insolita poesia, e nella notte senza luna passarono e ripassarono nel cielo: tre uomini e due donne, spettrali e minuti e bellissimi. Rimasi a fissarli per più di un’ora, finché la mia anima parve sollevarsi dal corpo e librarsi con loro in cielo. Quelle grandi ali translucide velavano appena la luce delle stelle; quei corpi pallidi, ossuti, si muovevano secondo archi pieni di grazia. Tenevano le braccia molto aderenti ai fianchi, le gambe unite, la schiena piegata in una curva morbida. La vista dei cinque Alati risvegliò in me la memoria di Avluela, e mi lasciò sommerso da emozioni conturbanti.

Gli Alati passarono per l’ultima volta, scomparvero. Subito dopo entrarono in cielo le false lune. Allora tornai all’ostello, e nel giro di pochi minuti Olmayne chiese permesso alla porta della mia stanza.

Sembrava pentita. Recava con sé una fiasca ottagonale di vino verde che probabilmente veniva da un altro mondo, perché Talya non ne produce come quello. Senza dubbio le era costato un prezzo molto alto.

— Volete perdonarmi, Tomis? — chiese. — Tenete. So che questi vini vi piacciono.

— Preferirei che voi non mi aveste detto quelle parole e che adesso non foste costretta a offrirmi il vino — le risposi.

— Il caldo mi fa perdere il controllo dei nervi. Sono spiacente, Tomis. Ho detto una cosa sciocca e sgarbata.

La perdonai, sperando che il resto del viaggio si rivelasse meno increscioso, e bevemmo quasi tutto il vino; poi lei tornò a dormire nella sua stanza, che era vicinissima alla mia. I Pellegrini debbono condurre una vita casta… non che Olmayne fosse disposta a infilarsi tra le lenzuola con un vecchio fossile come me, ma le regole della nostra attuale Corporazione impedivano il sorgere di ogni preoccupazione.

Per molto tempo rimasi sveglio, oppresso da una coltre di rimorsi. Con tutta la sua furia impaziente, Olmayne aveva colpito il mio punto più debole: ero un traditore dell’umanità. In quel dilemma mi torturai sino alle prime luci dell’alba.

— Che cosa ho fatto?

Ho rivelato ai nostri conquistatori un certo documento.

— Ma loro avevano il diritto morale di conoscerlo?

Raccontava il vergognoso trattamento che i nostri antenati hanno riservato ai loro progenitori.

— E allora, cosa c’era di male nel darglielo?

Non si deve mai venire in aiuto dei propri conquistatori, anche quando ci sono moralmente superiori.

— È possibile che un piccolo tradimento sia una faccenda così seria?

Non esistono piccoli tradimenti.

— Forse bisognerebbe chiarire la questione in tutta la sua complessità. Non ho agito per amore del nemico, ma per aiutare un compagno.

Ciò nonostante ho collaborato con i nostri avversali.

— Queste caparbie autoaccuse hanno il sapore d’un orgoglio smodato.

Ma io sento le mie colpe. Affogo nella vergogna.

Consumai l’intera notte in queste domande inutili. Quando il giorno s’illuminò, mi alzai e rivolsi gli occhi al cielo e implorai la Volontà di aiutarmi a trovare la redenzione nelle acque della casa del rinnovamento di Jorslem, al termine del mio Pellegrinaggio. Poi andai a svegliare Olmayne.

19

Quel giorno il Ponte di Terra era aperto, e anche noi ci unimmo alla folla che da Talya scendeva in Afrik. Era la seconda volta che traversavo il Ponte di Terra, perché l’anno prima — ma quanto sembrava lontano nel tempo! — ero giunto dalla direzione opposta. Venivo dall’Agupt ed ero diretto a Roum.

I Pellegrini che dall’Eyrop si spostano a Jorslem possono scegliere fra due strade principali. Quella più a nord traversa le Terre Oscure a est di Talya; a Stanbul si prende il traghetto e quindi si segue la costa occidentale del continente dell’Ais, da dove si giunge a Jorslem.

Era la strada che avrei preferito, perché, di tutte le grandi città del mondo, l’antica Stanbul è l’unica che non ho mai visitato. Ma Olmayne, quand’era ancora Ricordatore, vi si era recata per svolgere alcune ricerche, e il posto non le piaceva. Così prendemmo la via del sud: dal Ponte di Terra in Afrik, poi lungo le coste del grande Lago Medit giù fino ad Agupt, per sfiorare le sabbie del Deserto Arbiano e da lì risalire a Jorslem.

Un vero Pellegrino viaggia soltanto a piedi. L’idea non esercitava troppo fascino su Olmayne e così, anche se quasi sempre camminavamo, eravamo pronti a sfruttare le occasioni. Lei chiedeva i passaggi con la massima naturalezza, senza vergogna. Fin dal secondo giorno del nostro Pellegrinaggio aveva ottenuto un passaggio da un ricco Mercante, diretto alla costa; l’uomo non aveva nessuna intenzione di dividere con altri il suo lussuoso veicolo, ma non seppe resistere alla sensualità della voce calda, musicale di Olmayne, anche se quella voce usciva dallo schermo asessuato della sua maschera da Pellegrino.

Il Mercante viaggiava in grande stile. Per lui la conquista della Terra poteva anche non essere mai accaduta, e neppure i lunghi secoli che avevano segnato il declino del Terzo Ciclo. La sua terramobile era lunga quattro volte un uomo, e abbastanza larga da ospitare comodamente cinque persone; proteggeva i suoi occupanti dal mondo esterno con la stessa efficienza di un grembo materno. Una serie di schermi azionabili a comando inquadrava la strada e il paesaggio circostante, senza visione diretta. La temperatura non si allontanava mai dal valore prefissato. C’erano zipoli da cui zampillavano liquori e altre bevande più forti; un congegno forniva tavolette nutritive; poltroncine idrauliche isolavano i passeggeri dalle irregolarità del fondo stradale.

Per l’illuminazione, c’era una luce-schiava regolata sui capricci del Mercante. A fianco della sua poltroncina c’era una cuffia pensante, ma non saprei dire se il Mercante si serviva di un cervello imbalsamato nascosto nelle viscere della terramobile, o se godeva di contatti a distanza coi serbatoi memoria delle città che attraversava.

Era un uomo pomposo e voluminoso, senz’altro esperto nei piaceri della carne. Di colorito olivastro, con un gran ciuffo di capelli neri tutti unti e occhi scuri, interrogativi, egli godeva della propria sicurezza e del controllo che esercitava su un ambiente così instabile. Commerciava, apprendemmo, in generi alimentari di altri mondi; scambiava i nostri miseri prodotti con le squisitezze raffinate dei figli delle stelle. Adesso stava andando a Marsay per esaminare un carico di insetti allucinogeni, appena giunto da uno dei pianeti della Cintura.

— Vi piace la macchina? — chiese, notando il nostro stupore. Olmayne, che conosceva molto bene le comodità, stava scrutando con ovvia meraviglia la tappezzeria di broccato e diamanti. — Era di proprietà del Conte di Perris — proseguì il Mercante. — Sì, è proprio quello che voglio dire, il Conte in persona. Hanno trasformato la sua casa in museo, sapete.

— Lo so — disse dolcemente Olmayne.

— Questo era il suo carro. Doveva entrare a far parte del museo, ma l’ho comprato da un invasore disonesto. Non sapevate che anche tra loro ci sono tipi del genere, eh? — Alla grossolana risata del Mercante, il sensibilissimo manto che copriva l’interno della macchina si raggrinzì, sdegnato. — Era l’amichetto del Procuratore. Sì, ci sono anche quelli. Cercava una fantastica erbetta che cresce su un pianeta dei Pesci, tanto per dare una spintarella alla sua virilità, capite, e venne a sapere che ero io a controllare quella merce, e così siamo riusciti a combinare un affaruccio. Naturalmente ho dovuto dare qualche aggiustata alla macchina, poco poco. Il Conte si teneva nel cofano quattro neutri e faceva funzionare la baracca col loro metabolismo, sapete bene, questione di potenziali termici differenti. Be’, è un gran bel modo di far andare una macchina, se sei Conte, ma in un anno fai fuori un mucchio di neutri, e mi sembrava che una cosa del genere fosse un tantino superiore alle mie possibilità. E poi, magari mi capitavano dei guai con gli invasori. Così ho fatto smontare tutto l’impianto e l’ho sostituito con un normalissimo motore da carromobile ad alto rendimento, un lavoro da maestri, ed eccomi qua. Siete fortunati che vi abbia presi su. È solo che siete Pellegrini. Di solito non lascio salire nessuno perché poi si sentono invidiosi, e la gente invidiosa non è mica uno scherzo per uno che ha fatto qualcosa nella vita. Eppure la Volontà vi ha condotti a me. Diretti a Jorslem, eh?

— Sì — disse Olmayne.

— Anch’io, ma non ancora! Non ancora, grazie! — Si diede un colpetto sotto cintura. — Ci andrò, potete scommetterci, quando mi sentirò pronto per il rinnovamento, ma ce ne manca ancora di strada, la Volontà permettendo! Siete Pellegrini da molto?

— No — disse Olmayne.

— Un mucchio di gente si è fatta Pellegrino dopo la conquista, immagino. Be’, non sto a condannarli. Ciascuno si adatta a modo suo ai tempi che cambiano. Sentite, avete quelle pietre che i Pellegrini si portano sempre dietro?

— Sì — disse Olmayne.

— Vi spiace se ne vedo una? Quegli accidenti mi hanno sempre affascinato. C’era questo commerciante di un pianeta della Stellanera, un piccolo bastardo con la pelle scura come il catrame, che mi ha offerto quattro quintali di quella roba. Diceva che erano vere, che ti davano una comunione coi fiocchi, proprio come i Pellegrini. Gli ho detto di no, niente scherzi con la Volontà. Certe cose non si fanno neanche per soldi. Ma poi ho pensato che facevo meglio a tenerne almeno una come ricordino. Non sono mai riuscito a toccarne una. — Tese una mano verso Olmayne. — Posso vedere?

— Ci è proibito lasciare che altri tocchino la pietra di stella — dissi io.

— Non lo racconto mica a nessuno!

— È proibito.

— Sentite, qui dentro siamo al sicuro, il posto più sicuro di tutta la Terra, e…

— Per favore. Ci chiedete una cosa impossibile.

Il suo viso si rabbuiò, e per un momento pensai che avrebbe fermato la macchina obbligandoci a scendere, il che non mi avrebbe dato fastidio. La mia mano scivolò nella sacca, a sfiorare la gelida sfera della pietra di stella che mi avevano consegnato all’inizio del Pellegrinaggio. Il semplice tocco delle dita mi portò deboli echi della trance di comunione, e rabbrividii di piacere. Quell’uomo non doveva averla, lo giurai a me stesso. Ma la crisi passò senza incidenti. Il Mercante, appurata la nostra resistenza, decise di abbandonare l’argomento.

Continuammo a correre verso Marsay.

Non era un individuo piacevole, ma aveva un certo fascino primitivo, e le sue parole ci urtavano di rado. Olmayne, che dopo tutto era una donna schizzinosa e aveva passato gran parte dei suoi anni nel distacco del Collegio dei Ricordatori, lo trovava più di me difficile da sopportare; le mie avversioni erano state ampiamente mitigate da una vita di vagabondaggi. Ma persino Olmayne parve trovarlo divertente quando magnifico la sua ricchezza e le sue amicizie, quando parlò delle donne che lo aspettavano su molti mondi, quando elencò le sue case e i suoi trofei e i Maestri di Corporazione che gli chiedevano consigli, quando vantò la familiarità con quelli che erano stati Padroni e Dominatori. Parlava quasi sempre di sé e raramente di noi, del che gli fummo grati; una volta chiese come mai un Pellegrino maschio e uno femmina viaggiassero assieme, sottintendendo che fossimo amanti; ammettemmo che la cosa era un po’ irregolare e passammo a un altro argomento, e credo che lui sia rimasto convinto della nostra impurità. Le sue volgari supposizioni non m’interessavano affatto, e nemmeno interessavano, credo, a Olmayne. Avevamo peccati più seri sulla coscienza.

La vita del nostro Mercante sembrava invidiabilmente non essere stata nemmeno sfiorata dalla rovina del pianeta: egli era ricco, soddisfatto, libero di andare in giro come sempre. Ma anche a lui, di tanto in tanto, dava fastidio la presenza degli invasori, come scoprimmo a pochi chilometri da Marsay, in piena notte, quando fummo costretti a fermarci a un punto di controllo stradale.

L’occhio spia di un analizzatore ci vide arrivare, lanciò un segnale alla filiera, e una ragnatela dorata si materializzò da un lato all’altro dell’autostrada. I sensori della terramobile la scorsero, e immediatamente il veicolo s’arrestò. Gli schermi mostravano una dozzina di pallide figure umane ferme all’esterno.

— Banditi? — chiese Olmayne.

— Peggio — disse il Mercante. — Traditori. — Accigliato, si girò verso l’antenna del comunicatore. — Che succede? — chiese.

— Uscite per un’ispezione.

— Di chi è l’ordine?

— Del Procuratore di Marsay — venne la risposta.

Era una brutta cosa da vedere: creature umane che facevano da agenti stradali agli invasori. Ma era inevitabile che qualcuno di noi si mettesse al loro servizio: il lavoro era scarso, specialmente per coloro che facevano parte delle Corporazioni difensive. Il Mercante iniziò il complicato rituale dell’apertura della macchina. Il suo viso esprimeva una rabbia temporalesca, ma aveva le mani legate, non poteva sfondare la ragnatela del punto di controllo. — Viaggio armato — ci sussurrò. — Niente paura, aspettatemi qui.

Uscì e s’impegnò in una lunga discussione, di cui non riuscivamo a udire nulla, con le guardie stradali. Alla fine sorse qualche difficoltà che richiese l’intervento di poteri più alti: apparvero improvvisamente tre invasori, fecero cenno agli uomini di allontanarsi, e circondarono il Mercante. Il suo atteggiamento cambiò: il viso si fece untuoso e schivo, le mani si mossero e tracciarono rapidi gesti, gli occhi s’accesero. Condusse i tre che lo interrogavano alla macchina, l’apri, e mostrò i suoi due Passeggeri, cioè noi. Gli invasori sembrarono perplessi alla vista di due Pellegrini fra tanta opulenza, ma non ci chiesero di uscire. Dopo un altro po’ di dialogo, il Mercante ci raggiunse e chiuse la macchina; la ragnatela si dissolse; riprendemmo a viaggiare verso Marsay.

Mentre la terramobile acquistava velocità, lui bestemmiò e disse: — Sapete come tratterei quello schifoso mucchio di braccioni? Abbiamo solo bisogno di organizzare un piano. Una notte dei coltelli: ogni dieci terrestri s’impegnano a far fuori un invasore. Li fregheremmo tutti.

— Perché mai nessuno ha organizzato un movimento del genere? — gli chiesi.

— È lavoro per i Difensori, e metà sono morti, e l’altra metà è al loro servizio. Non è compito mio organizzare un movimento di resistenza. Ma è così che dovremmo fare. Guerriglia spietata: prenderli alle spalle, fargli assaggiare il coltello. Buoni vecchi metodi del Primo Ciclo: non hanno mai perso d’efficacia.

— Verrebbero altri invasori — disse cupamente Olmayne.

— E noi li trattiamo allo stesso modo!

— Risponderebbero col fuoco. Distruggerebbero il nostro mondo — disse lei.

— Questi invasori pretendono di essere tanto civili, più civili di noi — replicò il Mercante. — Una simile barbarie gli darebbe una brutta fama su un milione di pianeti. No, non aprirebbero il fuoco. Si stancherebbero di essere costretti a conquistarci continuamente, di perdere tanti uomini. Se ne andrebbero, e noi saremmo di nuovo liberi.

— Senza esserci redenti dei nostri antichi peccati — dissi.

— Cosa, vecchio mio? Cosa?

— Non importa.

— Immagino che nessuno di voi due ci darebbe una mano, se decidessimo di farli fuori?

— Negli altri tempi — dissi — fui Vedetta, e dedicai me stesso alla protezione di questo pianeta contro di loro. I nostri padroni non mi piacciono più di quanto non piacciano a voi, e il mio desiderio di vederli ripartire non è meno ardente del vostro. Ma il vostro piano non è soltanto irrealizzabile: è anche moralmente sbagliato. Una semplice resistenza armata sovvertirebbe lo schema che la Volontà ha divisato per noi. Dobbiamo conquistarci la libertà in modo più nobile. Questa punizione non ci è stata imposta solo perché imparassimo a tagliare gole.

Mi guardò pieno di disprezzo e sbuffò. — Dovevo ricordarmi. Sto parlando con dei Pellegrini. D’accordo. Scordatevi tutto. Non era un’idea seria, a ogni modo. Forse vi piace il mondo com’è adesso, per quello che ne so.

— A me non piace — dissi.

Il Mercante guardò Olmayne, e anch’io la guardai: quasi mi aspettavo di sentirla raccontare che avevo già fatto la mia parte di collaborazionismo con gli invasori. Ma Olmayne, fortunatamente, non sfiorò l’argomento, come non l’avrebbe sfiorato per molti mesi ancora, fino a quell’infelice giorno all’imbocco del Ponte di Terra; quando, resa impaziente dal caldo, non esitò a ricordarmi l’unica mia caduta dalla grazia.

A Marsay lasciammo il nostro benefattore, passammo la notte in un ostello per Pellegrini, e il mattino dopo ci rimettemmo in viaggio a piedi lungo la costa. E così traversammo, io e Olmayne, bellissime terre gremite di invasori; a tratti camminavamo, a tratti salivamo sul carro di qualche contadino, una volta fummo addirittura ospiti di uaa comitiva di conquistatori. Giunti in Talya evitammo Roum, dirigendoci subito a sud. E così arrivammo al Ponte di Terra, e lì ci fermarono, e conoscemmo l’agghiacciante momento dell’alterco, e poi potemmo proseguire su quella stretta lingua di terreno sabbioso che unisce l’uno all’altro i continenti bagnati dal lago. E così giungemmo in Afrik, infine.


Per la prima notte sull’altra sponda, dopo il cammino lungo e polveroso, ci rifugiammo in una squallida locanda quasi in riva al lago. Era una costruzione di pietra di forma quadrata, dipinta all’esterno di bianco, praticamente priva di finestre, affacciata su un desolato cortile interno.

Quasi tutti i clienti erano Pellegrini ma c’erano anche membri di altre Corporazioni, soprattutto Venditori e Trasportatori. In una stanza d’angolo dormiva un Ricordatore, che Olmayne evitò anche se non lo conosceva; semplicemente voleva che nulla le ricordasse la sua ex Corporazione.

Tra coloro che presero alloggio con noi c’era il Diverso Bernalt. Secondo le nuove leggi promulgate dagli invasori, i Diversi potevano fermarsi a ogni locanda pubblica, non solo a quelle riservate appositamente per loro; eppure sembrava un po’ strano vederlo lì. Mentre passavo nel corridoio, Bernalt si provò a lanciarmi un sorriso, quasi fosse sul punto di parlare di nuovo, ma il sorriso morì e la luminosità lasciò i suoi occhi. Parve comprendere che non ero pronto ad accettare la sua amicizia. O forse ricordò che i Pellegrini, in virtù delle leggi della loro Corporazione, non debbono mescolarsi troppo con la gente priva di Corporazione. Quella legge era ancora valida.

Io e Olmayne ci sfamammo con una tazza di brodo untuoso e un po’ di stufato. Più tardi l’accompagnai alla sua stanza; stavo già dandole la buonanotte, quando lei m’interruppe: — Aspettate. Entriamo in comunione assieme.

— Mi hanno visto venire nella vostra stanza — le feci notare. — Se mi fermo troppo nasceranno chiacchiere.

— Andiamo nella vostra, allora!

Olmayne gettò un’occhiata in corridoio. Tutto vuoto: mi prese per il polso e scivolammo in fretta nella mia camera, che stava di fronte alla sua. Sbarrando a catenaccio la porta rosa dal tempo, lei disse: — La vostra pietra di stella, subito!

Tolsi la pietra dalla tasca in cui la nascondevo, e lei tirò fuori la sua; le nostre mani si chiusero su di esse.

Nel Pellegrinaggio, la pietra di stella era per me un grande conforto. Molte stagioni erano ormai trascorse da quando avevo provato per l’ultima volta la trance della Vigilanza, ma ancora non mi ero perfettamente adattato alla scomparsa di quella vecchia abitudine; la pietra di stella sostituiva, in un certo senso, l’estasi dilagante che avevo conosciuto nella Vigilanza.

Le pietre di stella provengono da uno dei mondi lontani, non saprei dire quale, e si possono ottenere solo entrando nella Corporazione. È la pietra stessa a decidere se il candidato è degno di farsi Pellegrino, perché brucia la mano di chi non è adatto a indossarne l’abito. Dicono che tutte le persone che sono entrate nella Corporazione dei Pellegrini, senza eccezione alcuna, si siano sentite a disagio quando hanno ricevuto la pietra per la prima volta.

— Quando vi hanno dato la vostra — chiese Olmayne — avevate paura?

— Naturalmente.

— Io pure.

Aspettammo che le pietre s’impossessassero di noi. Io strinsi con forza la mia. Nera, scintillante, più liscia del vetro, brillava nella mia stretta come un pezzo di ghiaccio, e io cominciai a sentirmi parte dell’immenso potere della Volontà.

Dapprima s’acuì enormemente la percezione dei particolari intorno a me. Ogni crepa nel muro di quest’antica locanda sembrava adesso una valle. Il morbido soffio del vento si trasformò in una nota acuta. Al pallido bagliore della lampada accesa nella stanza vedevo colori al di là dello spettro visibile.

La qualità dell’esperienza offerta dalla pietra di stella è molto diversa da quella che provavo con gli strumenti della Vigilanza. Ma anche allora si trattava di trascendere il proprio Io. Nello stato di Vigilanza ero capace di abbandonare la parte di me legata alla Terra e di volare a velocità infinita su distese infinite, e avevo coscienza d’ogni cosa, e mai l’uomo potrà giungere più vicino a sentirsi Dio. La pietra di stella non forniva nessuno dei minuziosi dati che erano parte essenziale della Vigilanza.

Al culmine della trance non riuscivo a vedere nulla, non potevo riconoscere l’ambiente in cui mi muovevo. Sapevo solo che quando la pietra s’impossessava del mio corpo ero sommerso da qualcosa di enormemente più grande di me, entravo in diretto contatto con la matrice dell’universo.

Diciamo che ero in comunione con la Volontà.

Da immense distanze udii Olmayne chiedere: — Voi credete a ciò che dice certa gente di queste pietre? Che non c’è una vera comunione, che è tutto un inganno basato sull’elettricità?

— Non ho teorie in proposito — dissi. — Le cause mi interessano meno degli effetti.

Gli scettici sostengono che le pietre di stella sono semplici strumenti d’amplificazione che fanno rimbalzare le onde cerebrali nella stessa mente che le produce: la sterminata, oceanica entità con cui si giunge in contatto, asseriscono questi miscredenti, non è altro che la poderosa risonanza ciclica di un unico impulso elettrico all’interno del cranio del Pellegrino. Forse. Forse.

20

Conoscevo bene l’Afrik. In gioventù avevo sostato per molti anni nel cuore tenebroso di questo continente. Alla fine ero ripartito, inquieto come sempre, seguendo la strada del nord fino in Agupt, dove le antiche reliquie del Primo Ciclo sono sopravvissute molto meglio che altrove. In quei giorni, però, l’antichità non aveva ai miei occhi alcun interesse. Vigilavo, e vagavo di luogo in luogo, perché una Vedetta non ha bisogno di una sede fissa; e il caso mi aveva fatto incontrare Avluela proprio quando ero pronto a fuggire di nuovo, e così avevo lasciato Agupt per Roum e in seguito Perris.

Adesso ero tornato con Olmayne. Ci tenemmo vicini alla costa, evitando le distese sabbiose dell’interno. Nella nostra qualità di Pellegrini, eravamo immuni da quasi tutti i pericoli del viaggio: non saremmo mai morti di fame, avremmo sempre trovato un rifugio anche dove non c’erano ostelli della nostra Corporazione, e tutti ci trattavano col massimo rispetto. La grande bellezza di Olmayne l’avrebbe esposta a non pochi pericoli, visto che viaggiava con, come unica scorta, un vecchio cadente, ma dietro la maschera e il saio di Pellegrino era al sicuro. Solo di rado ci toglievamo le maschere, e in luoghi dove nessuno ci potesse vedere.

Non m’illudevo certo di essere importante per Olmayne. Per lei ero una parte come un’altra dell’equipaggiamento del viaggio: qualcuno che l’aiutava durante la comunione e i rituali, che procurava l’alloggio, che le apriva la strada. Quel ruolo mi stava a pennello. Olmayne era, lo sapevo, una donna pericolosa, soggetta a strani desideri e imprevedibili capricci. Non desideravo legami troppo forti con lei.

E certo non aveva la purezza del Pellegrino. Anche se aveva superato la prova della pietra di stella, non era riuscita a trionfare sulla carne, com’è dovere di ogni Pellegrino. Si allontanava, talvolta, per metà della notte o più, e io l’immaginavo ansare tra le braccia di un Servitore in qualche luogo oscuro, dopo essersi tolta la maschera. Del resto erano affari suoi; non le facevo mai cenno di queste assenze, quando tornava.

Nemmeno nei nostri ostelli si preoccupava della sua virtù.

Non dividemmo mai una stanza, perché nessun ostello l’avrebbe permesso, ma le prendevamo sempre comunicanti, e lei mi chiamava nella sua o entrava nella mia ogni volta che ne provava il desiderio. Molto spesso era nuda; raggiunse il culmine del grottesco una notte in Agupt, quando la trovai che indossava solo la maschera, e lo splendore della sua pelle bianca smentiva lo scopo della griglia di bronzo che le nascondeva il viso. Solo una volta parve venir sfiorata dall’idea che forse potevo essere ancora abbastanza giovane da provare desiderio. Fissò il mio corpo consunto, rinsecchito, e disse: — Che aspetto avrete, mi chiedo, quando a Jorslem vi avranno rinnovato? Sto cercando di immaginarvi giovane, Tomis. Mi darete piacere, allora?

— A mio tempo ho dato piacere — le risposi ambiguamente.

A Olmayne non piaceva il caldo secco di Agupt. Quasi sempre viaggiavamo di notte, e passavamo il giorno negli ostelli. Le strade erano affollate a tutte le ore. La spinta dei Pellegrini verso Jorslem era straordinariamente forte, a quel che pareva. Io e Olmayne ci chiedevamo quanto tempo sarebbe occorso prima che potessimo entrare nelle acque del rinnovamento, in una situazione del genere.

— Non siete mai stato rinnovato? — mi chiese.

— Mai.

— Io neppure. Si dice che non accettino tutti quelli che si presentano.

— Il rinnovamento è un dono, non un diritto — dissi. — Molti sono i respinti.

— So anche — proseguì Olmayne — che non tutti coloro che entrano nelle acque ottengono un felice rinnovamento.

— Non ne so molto.

— Certi diventano vecchi anziché giovani. Certi diventano giovani troppo in fretta, e muoiono. Ci sono dei rischi.

— Voi non li accettereste?

Lei rise. — Solo un pazzo esiterebbe.

— Voi non avete bisogno di rinnovamento, adesso — le feci notare. — Siete stata inviata a Jorslem per il bene dell’anima, non per quello del corpo, se non mi sbaglio.

— Mi occuperò anche dell’anima, quando sarò a Jorslem.

— Ma parlate come se aveste intenzione di visitare solo la casa del rinnovamento.

— Certo, è l’obiettivo più importante — disse lei. Si alzò, flettendo voluttuosamente il corpo snello. — È vero, devo espiare i miei peccati. Ma credete che voglia fare tutta questa strada solo per la salvezza dello spirito?

— Io non desidero altro — le feci notare.

Voi! Voi siete vecchio e sfiorito! Fate bene a preoccuparvi dello spirito, e magari anche del corpo. Però non mi dispiacerebbe ringiovanire un po’. Non mi farei togliere molto. Otto, dieci anni, tutto qui. Gli anni che ho perso con quello sciocco di Elegro. Non ho bisogno di un rinnovamento integrale. Avete ragione: sono ancora nel fiore. — Il suo viso s’oscurò. — Se la città è piena di Pellegrini, forse non mi lasceranno entrare nella casa del rinnovamento! Diranno che sono troppo giovane, che devo tornare fra quaranta o cinquant’anni. Tomis, credete che potrebbero farlo?

— Non saprei darvi una risposta.

Tremò. — Certo lasceranno entrare voi. Siete un cadavere ambulante, saranno costretti ad accettarvi! Ma io… Tomis, non permetterò che mi respingano! Dovessi distruggere Jorslem pietra per pietra, giuro che in un modo o nell’altro ce la farò!

Privatamente mi chiesi se la sua anima era nelle condizioni più adatte per un candidato al rinnovamento. Quando uno diventa Pellegrino, gli si raccomanda l’umiltà. Ma non desideravo sperimentare la furia di Olmayne, e rimasi in silenzio. Forse l’avrebbero ammessa al rinnovamento anche con tutti i suoi difetti. Da parte mia, avevo altri scopi. Olmayne era guidata dalla vanità; le mie idee erano diverse. Avevo molto vagato e fatto un numero enorme di cose, non tutte degne d’approvazione; nella città santa avevo bisogno di purificare l’anima più che di alleggerire il peso degli anni, forse.

O era solo per vanità che pensavo così?


Molti giorni più tardi, a est di quel luogo, mentre io e Olmayne traversavamo una campagna riarsa, ci giunse incontro un gruppo di bambini che urlava di paura e d’eccitazione.

— Per favore, venite, venite! — gridavano. — Pellegrini, venite!

Olmayne parve stupita e irritata quando si attaccarono al suo saio. — Cosa stanno dicendo, Tomis? Non capisco niente, con quel loro maledetto accento agupto!

— Vogliono che li aiutiamo — dissi. Ascoltai le loro invocazioni.

— Nel loro villaggio — spiegai a Olmayne — è scoppiata un’epidemia di mal cristallino. Vogliono che portiamo la benedizione della Volontà a chi soffre.

Olmayne si trasse indietro. Immaginai la smorfia d’orrore dietro la maschera. Agitò in avanti le mani, cercando d’impedire ai bambini di toccarla. Poi mi disse: — Non possiamo andarci!

— Lo dobbiamo, invece.

— Abbiamo fretta! Jorslem è affollata; non voglio perdere tempo in uno stupido villaggio.

— Hanno bisogno di noi, Olmayne.

— Ma cosa siamo, Chirurghi?

— Siamo Pellegrini — risposi quietamente. — I benefici che otteniamo dalla nostra posizione comportano certi doveri. Come abbiamo diritto all’ospitalità di tutti coloro che incontriamo, così dobbiamo anche mettere la nostra anima a piena disposizione degli umili. Venite.

— Mi rifiuto!

— Come ve la caverete a Jorslem, quando dovrete raccontare tutto di voi, Olmayne?

— È un morbo orribile. Se restassimo contagiati?

— È questo che vi preoccupa? Abbiate fede nella Volontà! Come potete aspirare al rinnovamento se la vostra anima è così priva di grazia?

— Vi possano marcire le budella, Tomis — mi disse a bassa voce. — Da quando in qua siete tanto pio? Lo fate apposta per vendicarvi di ciò che vi ho detto sul Ponte di Terra. In un momento di stanchezza vi ho insultato, e adesso voi, pur di prendervi la rivincita, volete esporci al pericolo di una malattia contagiosa. Non fatelo, Tomis!

Ignorai le sue accuse. — I bambini cominciano ad agitarsi, Olmayne. Volete aspettarmi qui, o preferite scendere all’ostello del prossimo villaggio?

— Non lasciatemi sola in questo deserto!

— Debbo andare da chi soffre — le dissi.

Alla fine si decise ad accompagnarmi: non perché, credo, sentisse l’improvviso desiderio di rendersi utile, ma piuttosto per il timore che quel rifiuto egoista potesse giocare a suo sfavore nella città santa di Jorslem. In breve giungemmo al villaggio, che era piccolo e cadente, perché l’Agupt giace nel sonno di un caldo terribile, e i millenni lo sfiorano appena. Enorme è il contrasto con le affollate città del sud Afrik, città che prosperano sulla produzione di raffinati oggetti che esce dalle grandi Manifatture.

Madidi di sudore, seguimmo i bambini nelle case del pianto.

Il mal cristallino è un odioso regalo giunto dalle stelle. Non sono molte le malattie degli stranieri che affliggono i terrestri; ma dai mondi della Lancia ci è arrivata questa calamità, portata dai turisti e rapidamente diffusa tra noi. Se ciò fosse accaduto nei gloriosi giorni del Secondo Ciclo, l’avremmo sconfitto in un attimo; ma adesso le nostre conoscenze si sono impoverite, e non passa anno senza che il morbo dia segni di vita. Quando entrammo nella prima capanna di fango in cui erano assembrate le vittime, il volto di Olmayne era una smorfia d’orrore.

Non esiste speranza per chi contrae questa malattia. Si deve solo sperare che chi è sano non ne resti vittima; e, fortunatamente, non è un morbo molto contagioso. La sua azione è insidiosa, si trasmette in un modo che ci è ignoto; spesso non passa dal marito alla moglie ma invece balza nella parte opposta della città, addirittura in un altro territorio, in certe occasioni. Il primo sintomo è dato dalla squamosità della pelle: pruriti, scaglie sulle vesti, infiammazione. Poi subentra la debolezza ossea, mentre il calcio si dissolve. Si diventa molli, gommosi; ma questa è ancora una fase iniziale. Presto i tessuti esterni s’induriscono. Spesse membrane opache si formano sulla superficie degli occhi, le narici si chiudono, la pelle si fa ruvida, quasi petrosa. In questa fase sono comuni le profezie. La vittima acquista i poteri dei Sonnambuli, pronuncia oracoli. L’anima intraprende dei vagabondaggi, separandosi dal corpo per ore intere, anche se i processi vitali continuano a svolgersi. Più tardi, entro venti giorni dall’inizio della malattia, si arriva alla cristallizzazione. Mentre la struttura scheletrica si dissolve, la pelle va in pezzi, formando bellissimi cristalli dai contorni rigidamente geometrici. A quest’epoca la vittima è stupenda: ha tutto l’aspetto di un uomo scolpito in pietre preziose. I cristalli splendono di ricche luci interne, viola e verdi e rosse; le loro superfici sfaccettate cambiano disposizione di ora in ora; la minima luce nella stanza trae dal poveretto magnifici riflessi colorati, che abbagliano e deliziano l’occhio. Nel frattempo la struttura interna del corpo si modifica, quasi si stesse formando una strana crisalide. Miracolosamente, nessuna trasformazione è capace di arrestare la vita, anche se nella fase cristallina la vittima è ormai incapace di comunicare con gli altri, e forse nemmeno si accorge dei cambiamenti che si svolgono in lei. Alla fine la metamorfosi raggiunge gli organi vitali, e il processo termina. Il morbo alieno è incapace di modificare questi organi senza uccidere il corpo che lo ospita. La crisi è veloce: una breve convulsione, un’ultima scarica di energia lungo il sistema nervoso dell’uomo cristallizzato, e poi c’è un rapido arcuarsi del corpo, seguito da un suono morbido, come di vetro che si spezzi in frammenti, ed è tutto finito. Sul pianeta da cui proviene, la cristallizzazione non è una malattia ma una vera e propria metamorfosi, il risultato di migliaia di anni d’evoluzione verso una relazione di simbiosi. Sfortunatamente, nei terrestri questa preparazione evoluzionistica non c’è mai stata, ed è logico e fatale che l’agente della metamorfosi provochi la morte del malato.

Dato che il processo è irreversibile, io e Olmayne non potevamo fare nulla di veramente utile, se non offrire conforto a quella gente ignorante e spaventata. Mi accorsi subito che il morbo si era impossessato da tempo del villaggio. C’erano persone a ogni stadio della malattia, dalle prime squamosità alla cristallizzazione definitiva. Erano divisi nella capanna a seconda dell’intensità del male. Sulla sinistra avevo un triste gruppo di vittime recenti, ben coscienti di sé, che si grattavano morbosamente le braccia contemplando l’orrore che li attendeva. Lungo la parete posteriore erano allineati cinque pagliericci su cui giacevano indigeni dalla pelle indurita, nella fase profetica. Sulla destra potevo scorgere i vari gradi di cristallizzazione, e di fronte avevo la gemma del gruppo: un uomo che senza dubbio era giunto alle ultime ore di vita. Il suo corpo, incrostato da falsi smeraldi e rubini e opali, splendeva di una bellezza dolorosa; si muoveva appena; entro quel guscio di colori stupendi egli era perso in chissà quale sogno d’estasi, e forse trovava alla fine dei suoi giorni più passione, più gioia, di quanta ne avesse conosciuta in tutti gli anni della sua dura esistenza di contadino.

Olmayne si trasse indietro dalla porta.

— È orribile — mormorò. — Non voglio entrare!

— Lo dobbiamo. Ricordate i nostri obblighi.

— Non ho mai desiderato fare la Pellegrina!

— Però volevate ottenere il perdono dei vostri peccati — le ricordai. — Dovete guadagnarvelo.

— Prenderemo la malattia!

— La Volontà può raggiungerci ovunque con questa infezione, Olmayne. Lo sapete che il morbo colpisce a caso. In questa capanna non corriamo più pericoli di quanti ne correvamo a Perris.

— Perché, allora, questo villaggio è tanto colpito?

— Il villaggio conosce ora lo sfavore della Volontà.

— Con che sicurezza seguite le strade del misticismo, Tomis — disse lei, acidamente. — Vi avevo mal giudicato. Vi credevo un uomo intelligente. Questo vostro fatalismo è spaventoso.

— Ho visto la distruzione del mio mondo — le dissi. — Ho contemplato la rovina del Principe di Roum. Le grandi tragedie favoriscono atteggiamenti come il mio. Entriamo, Olmayne.

Entrammo, e Olmayne era ancora riluttante. Adesso anch’io ero assalito dalla paura, ma la ricacciai. Nella discussione con l’adorabile Pellegrina che era mia compagna di viaggio ero stato quasi presuntuoso nella mia ostentazione di fede, ma ora non potevo negare l’improvviso guizzo di terrore.

Mi costrinsi alla calma.

Ci sono redenzioni e redenzioni, mi dissi. Se questa malattia deve essere la fonte della mia, m’inchino alla Volontà.

Forse anche Olmayne, mentre entravamo, giunse a una decisione simile, o forse il suo innato istinto d’attrice drammatica la precipitò nell’indesiderato ruolo della dama di carità. Visitò con me la “corsia”. Passammo di giaciglio in giaciglio a testa china, la pietra di stella in mano. Pronunciammo parole. Sorridemmo quando le vittime ai primi stadi ci chiesero un gesto di conforto. Pregammo. Olmayne si fermò davanti a una ragazza nella seconda fase, i cui occhi si stavano già coprendo di uno strato corneo, e s’inginocchiò e toccò le sue guance scagliose con la pietra di stella. La ragazza parlava per oracoli, e, sfortunatamente, in un linguaggio che non comprendevamo.

Alla fine giungemmo dal caso più avanzato, l’uomo su cui già cresceva il suo magnifico sarcofago. Non so come, ma ormai la paura era scomparsa, e lo stesso accadeva a Olmayne: per molto tempo restammo immobili, silenziosi, di fronte a quello spettacolo grottesco, e poi lei mormorò: — Com’è terribile! E meraviglioso! E bello!

Altre tre capanne come quella ci attendevano.

Gli abitanti del villaggio si radunavano sulla soglia. Quando noi due apparivamo sul limitare di una capanna, le persone sane si prostravano davanti a noi, afferravano i lembi del nostro mantello, ci chiedevano con voce stridula di intercedere per loro presso la Volontà. Noi rispondevamo con le parole che ci sembravano più adatte, e in noi non c’era menzogna. Coloro che si trovavano all’interno delle capanne accettavano senza emozioni le nostre parole, quasi avessero capito che per loro non c’erano più speranze; coloro che si trovavano all’esterno, non ancora sfiorati dal male, pendevano dalle nostre labbra. Il capo del villaggio (un capo momentaneo, perché il vero capo era cristallizzato) non smetteva di ringraziarci, come se avessimo fatto qualcosa di concreto. Ma almeno avevamo recato conforto, il che non è da disprezzare.

Quando uscimmo dall’ultima casa del pianto, ci accorgemmo di un’esile figura che ci fissava da lontano: il Diverso Bernalt. Olmayne mi diede un colpetto.

— Quella creatura ci ha seguiti, Tomis. Dal Ponte di Terra fino a qui!

— Anche lui viaggia verso Jorslem.

— Sì, ma che bisogno ha di fermarsi qui? Perché in un posto così spaventoso?

— Zitta, Olmayne. Cercate di trattarlo come si deve.

— Un Diverso?

Bernalt s’avvicinò. Il mutante era chiuso in una morbida veste bianca che attenuava la stranezza del suo aspetto. Accennò con aria triste in direzione del villaggio e disse: — Una grande tragedia. La Volontà è stata dura con questo luogo.

Spiegò di essere arrivato diversi giorni prima, e di aver incontrato un amico della sua città natale, Nayrob. Credevo si riferisse a un Diverso, ma no, l’amico di Bernalt era un Chirurgo, ci raccontò, che si era fermato lì per aiutare quant’era possibile i contadini malati. L’idea che esistesse amicizia tra un Diverso e un Chirurgo mi sembrava piuttosto strana; Olmayne, che non si preoccupava di nascondere il suo disprezzo per Bernalt, la trovò senz’altro sconveniente.

Un uomo parzialmente cristallizzato uscì fuori da una capanna, agitando le mani deformate. Bernalt si fece avanti e lo riaccompagnò dentro con grande premura. Tornato da noi, disse: — In certi momenti sono felice di essere un Diverso. Quella malattia non ci colpisce, lo sapete. — I suoi occhi s’accesero d’una luce improvvisa. — Vi do fastidio, Pellegrini? Sembrate di pietra dietro quelle maschere. Non intendo essere importuno. Debbo ritirarmi?

— Naturalmente no — risposi, pensando il contrario. La sua compagnia mi disturbava; forse il disprezzo che tutti ostentano per i Diversi era un bacillo che aveva finito per contagiarmi. — Fermatevi un poco. Vi chiederei di proseguire con noi fino a Jorslem, ma sapete che la cosa ci è proibita.

— Certo. Capisco molto bene. — Era cortese, ma freddo; l’amarezza inquieta che ribolliva in lui stava per affiorare alla superficie. Molti Diversi sono tanto bestiali e degradati da non poter neppure comprendere quanto li abbiano in odio uomini e donne delle regolari Corporazioni; ma Bernalt, chiaramente, possedeva il doloroso dono della sensibilità. Sorrise, e poi fece un cenno. — Ecco qua il mio amico.

Tre figure s’avvicinavano. Una era il Chirurgo di Bernalt, un uomo magro, di pelle nera e voce morbida, con occhi stanchi e capelli biondi, radi. Con lui stavano un ufficiale degli invasori e uno straniero di un altro pianeta. — Ho sentito che due Pellegrini sono stati chiamati al villaggio — disse l’invasore. — Vi sono grato per il conforto che avete recato a queste vittime del dolore. Sono Rivendicatore Diciannove; il distretto è sotto la mia amministrazione. Accettate di essere miei ospiti a cena, questa sera?

Ero in dubbio se accettare l’ospitalità d’un invasore, e l’improvviso scatto delle dita di Olmayne sulla pietra di stella mi disse che anche lei esitava. Rivendicatore Diciannove sembrava attendere con vivo interesse la nostra risposta. Non era alto come quasi tutti i membri della sua razza, e le braccia sproporzionate gli scendevano fin oltre le ginocchia. Sotto l’impietoso sole d’Agupt la sua pelle spessa, cerulea, acquistava una certa lucentezza, anche se egli non sudava.

Fu il Chirurgo a spezzare quel lungo, teso, pauroso silenzio: — Non c’è affatto bisogno di fare dei complimenti. In questo villaggio siamo tutti fratelli. Venite con noi, d’accordo?

Accettammo. Rivendicatore Diciannove abitava in una villa sulla sponde del Lago Medit; nella chiara luce del tardo pomeriggio mi parve di scorgere il Ponte di Terra che si perdeva lontano sulla sinistra, e addirittura l’Eyrop sulla sponda opposta. Si occuparono di noi alcuni membri della Corporazione dei Servitori, che ci servirono fresche bibite nel patio. L’invasore aveva molti dipendenti, tutti terrestri; per me, quello era un altro segno che la conquista della Terra era un fatto compiuto, pienamente accettato dalla grande massa della popolazione. Restammo a parlare per molto tempo, oltre il crepuscolo, sorseggiando le nostre bevande anche quando le pallide aurore comparvero in cielo ad annunciare la notte. Però il Diverso Bernalt si tenne in disparte, forse messo a disagio dalla nostra presenza. Anche Olmayne era melanconica e distante; un sentimento misto d’esaltazione e depressione l’aveva afferrata in quel villaggio infelice, e la presenza di Bernalt alla nostra tavola aveva dato ancora esca al suo silenzio, poiché ella ignorava quale galateo seguire di fronte a un Diverso. L’invasore, il nostro ospite, era affascinante e premuroso, e cercò a più riprese di strapparla ai suoi pensieri. Avevo già conosciuto invasori affascinanti. Nei giorni precedenti la conquista avevo viaggiato con uno di loro, che fingeva di essere il Diverso Gormon. Quello che avevo di fronte, Rivendicatore Diciannove, era un poeta sul suo mondo natale; perciò gli dissi: — Mi sembra strano che le vostre inclinazioni si possano conciliare con un presidio militare.

— Ogni esperienza serve a rafforzare l’arte — rispose Rivendicatore Diciannove. — Cerco di espandere il mio Io. E, comunque, non sono un guerriero, ma un amministratore. È dunque così strano che un poeta possa essere amministratore, o un amministratore poeta? — Rise. — Tra le vostre tante Corporazioni, non esiste quella dei Poeti. Perché?

— Ci sono i Comunicatori — dissi. — Essi servono la vostra musa.

— Ma in modo religioso. Sono interpreti della Volontà, non della propria anima.

— Le due cose sono inseparabili — dissi. — I versi da loro creati sono ispirati dalla divinità, ma vengono dal cuore di chi li ha pronunciati.

Rivendicatore Diciannove non pareva convinto. — Si potrebbe anche sostenere che in fondo tutta la poesia è religiosa, immagino. Ma questi versi dei vostri Comunicatori hanno una prospettiva troppo limitata. S’imperniano solo sull’obbedienza alla Volontà.

— È una contraddizione — intervenne Olmayne. — La Volontà domina ogni cosa, e voi dite che la prospettiva dei Comunicatori è limitata…

— Esistono altri temi poetici al di fuori dell’immersione nella Volontà, amici miei. L’amore di una persona per un’altra, la gioia di difendere la propria casa, la meraviglia di scoprirsi nudi sotto le stelle ardenti… — L’invasore rise. — Non può darsi che la Terra sia caduta perché gli unici poeti che aveva cantavano l’obbedienza al destino?

— La Terra è caduta — disse il Chirurgo — perché la Volontà ci ha chiesto di espiare i peccati commessi dai nostri antenati, che trattarono i vostri progenitori come bestie. La qualità della nostra poesia non c’entra affatto.

— La Volontà ha decretato che voi cadeste sotto di noi per punirvi, eh? Ma se la Volontà è onnipotente, deve anche aver decretato l’errore dei vostri antenati che ha reso necessaria la punizione. Eh? La Volontà si diverte a giocare con se stessa? Non vedete com’è difficile credere in una forza divina che stabilisca tutto? Dove va a finire il libero arbitrio, che solo può dare un significato alla sofferenza? Costringervi a peccare, e poi chiedervi di subire una sconfitta per purificarvi, mi sembra un divertimento vuoto. Perdonate se sono blasfemo.

Il Chirurgo disse: — Voi non avete compreso. Tutto ciò che accade su questo pianeta fa parte di un processo di rafforzamento morale. La Volontà non forgia ogni evento, indiscriminatamente, piccolo o grande che sia: ci fornisce il materiale grezzo per il verificarsi dell’evento, e poi ci permette di seguire la strada che ci pare più giusta.

— Per esempio?

— La Volontà ha dotato i terrestri di abilità e intelligenza. Durante il Primo Ciclo ci siamo staccati in poco tempo dallo stato di selvaggi; nel Secondo Ciclo abbiamo raggiunto la grandezza. Nel nostro momento di grandezza ci siamo gonfiati d’orgoglio, e abbiamo deciso di andare oltre i nostri limiti. Abbiamo imprigionato creature intelligenti di altri mondi col pretesto di “studiarle”, quando in realtà l’unica cosa che ci spingeva era un arrogante desiderio di divertimento; e abbiamo giocato col clima del nostro pianeta finché gli oceani si sono uniti e i continenti sono affondati e la nostra antica civiltà è andata distrutta. Così la Volontà ci ha insegnato i confini delle ambizioni umane.

— Questa cupa filosofia mi piace ancor meno — disse Rivendicatore Diciannove. — Io…

— Lasciatemi finire — disse il Chirurgo. — Il crollo della Terra del Secondo Ciclo è stata la nostra punizione. La sconfitta che voi, abitanti di un altro pianeta, avete inflitto alla Terra del Terzo Ciclo è la seconda parte di quella punizione, ma è anche l’inizio di una nuova fase. Voi siete gli strumenti della nostra redenzione. Infliggendoci l’estrema umiliazione della conquista, ci avete portati al fondo della nostra vergogna; ora rinnoviamo le nostre anime, ora cominciamo a risalire, provati dalle avversità.

Fissai, improvvisamente stupito, questo Chirurgo che riusciva a dar forma a talune idee che avevano continuato ad agitarsi nella mia mente fin dall’inizio del viaggio verso Jorslem: idee di redenzione personale e insieme planetaria. Prima di quelle parole, avevo degnato di ben poca attenzione il Chirurgo.

— Permettetemi un’affermazione — intervenne d’improvviso Bernalt. Le sue prime parole in tante ore.

Lo fissammo. Le strisce di pigmento, sul suo viso, erano scarlatte: segno di grande emozione.

Disse, accennando col capo al Chirurgo: — Amico mio, voi parlate di redenzione per i terrestri. Volete dire tutti i terrestri, o solo quelli che hanno una Corporazione?

— Tutti i terrestri, naturalmente — rispose tranquillo il Chirurgo. — Non abbiamo subito tutti la conquista?

— Però non siamo uguali per altre cose. Può esserci redenzione per un pianeta che costringe milioni dei suoi abitanti a restare al di fuori delle Corporazioni? Parlo della mia gente, è ovvio. Molto tempo addietro abbiamo sbagliato, quando abbiamo pensato di poterci così vendicare di coloro che ci avevano creato con forme di mostri. Abbiamo cercato di strapparvi Jorslem; e per questo siamo stati puniti, e la nostra punizione è durata un migliaio d’anni. E siamo ancora esclusi, no? Voi che avete una Corporazione, potete davvero considerarvi virtuosi e purificati da tutto ciò che avete sofferto, visto che infierite ancora su di noi?

Il Chirurgo parve stupito. — Le vostre parole sono sbagliate, Bernalt. Lo so che i Diversi sopportano un grave peso. Ma voi sapete al pari di me che il tempo della vostra liberazione è imminente. Nei giorni che verranno, nessun terrestre si vergognerà di voi, e sarete al nostro fianco quando riavremo la libertà.

Bernalt fissò il pavimento. — Perdonatemi, amico mio. Naturalmente, naturalmente; state dicendo la verità. Mi sono lasciato trasporare. Il caldo, questo vino meraviglioso… quante sciocchezze ho detto!

Rivendicatore Diciannove chiese: — Volete dirmi che si sta formando un movimento di resistenza allo scopo di estrometterci dal pianeta?

— Parlavo solo per astrazioni — rispose il Chirurgo.

— E credo anch’io che il vostro movimento di resistenza resterà un’astrazione — notò tranquillamente l’invasore. — Perdonatemi, ma vedo ben poca forza in un pianeta che si lascia conquistare nel giro d’una sola notte. Noi pensiamo che l’occupazione della Terra durerà a lungo, e che non incontrerà opposizione. Nei mesi finora trascorsi non c’è stato segno di un aumento d’ostilità nei nostri confronti. Anzi, tutto all’opposto: la vostra gente ci accetta con sempre maggiore facilità.

— Tutto questo fa parte dello stesso processo — disse il Chirurgo. — Come poeta, certo comprendete come le parole abbiano molti tipi di significati. Non abbiamo bisogno di sconfiggere i nostri padroni alieni, per liberarci di loro. È abbastanza poetico per voi?

— Splendido — rispose Rivendicatore Diciannove, alzandosi in piedi. — Andiamo a cenare, adesso?

21

Non ci fu modo di tornare sull’argomento. È difficile sostenere una discussione filosofica a tavola; e il nostro ospite non pareva molto apprezzare quest’analisi del destino della Terra. In breve scoperse che Olmayne, prima di farsi Pellegrino, era stata Ricordatore, e quindi rivolse a lei la sua attenzione, interrogandola sulla nostra storia e sull’antica poesia terrestre. Come molti invasori egli considerava il nostro passato con viva curiosità. Poco per volta Olmayne uscì dal silenzio che l’imprigionava, e parlò lungamente delle ricerche svolte a Perris. Parlò con grande competenza del nostro passato lontano, mentre Rivendicatore Diciannnove l’interrompeva di tanto in tanto con domande intelligenti e sicure; nel frattempo ci cibammo di raffinatezze provenienti dai mondi più svariati, importate forse da quel grasso, insensibile Mercante che ci aveva portati con sé da Perris a Marsay; la villa era fresca e i Servitori premurosi; il povero villaggio di contadini colpiti dal morbo, che distava solo mezz’ora di cammino, avrebbe potuto anche trovarsi in un’altra galassia, tanto era ormai lontano dai nostri discorsi.

Quando, la mattina seguente, lasciammo la villa, il Chirurgo ci chiese di potersi unire al nostro Pellegrinaggio. — Non c’è più nulla ch’io possa fare qui — spiegò. — All’inizio della malattia mi sono mosso dalla mia casa di Nayrob e mi sono fermato molti giorni, più per consolare che per curare, naturalmente. Adesso sono chiamato a Jorslem. Comunque, se è contro i vostri voti avere compagni di viaggio…

— Non abbiate timore, unitevi a noi — dissi.

— Ci sarà un altro compagno — c’informò il Chirurgo.

Si riferiva alla terza persona incontrata al villaggio: l’essere di un altro mondo, un enigma, che ancora non aveva pronunciato parola in nostra presenza. Era una creatura piatta, un po’ a forma di lama di lancia, un’idea più alta d’un uomo, sorretta da tre gambe da ragno unite alla loro attaccatura; il suo luogo d’origine era nella Spirale Dorata; la sua pelle era ruvida, di colore rosso brillante, e dalla sommità della sua testa rastremata scendeva lungo tre fianchi, seguendo la verticale, una serie di occhi vitrei, ovali. In precedenza non avevo mai incontrato un essere del genere. Era giunto sulla Terra, stando al Chirurgo, per raccogliere dei dati, e aveva già visitato buona parte di Ais e di Stralya. Adesso faceva il giro delle terre che circondano il Lago Medit; dopo aver visto Jorslem sarebbe partito alla volta delle grandi città d’Eyrop. Solenne, sconcertante nel suo continuo stato d’attenzione, incapace di chiudere i molti occhi o di offrire un commento su ciò che gli occhi vedevano, sembrava più una macchina stramba, un accessorio di serbatoio memoria, che non una creatura vivente. Ma era innocuo, e gli permettemmo di accompagnarci verso la città santa.

Il Chirurgo disse addio al suo amico Diverso, che ci precedette tutto solo, e fece un’ultima visita al villaggio cristallizzato. Restammo ad attenderlo, dato che per noi era inutile farvi ritorno. Quando ricomparve, il suo viso era molto cupo. — Quattro nuovi casi — disse. — Il villaggio andrà completamente distrutto. Sulla Terra non c’è mai stata un’esplosione del genere tanto concentrata.

— Qualcosa di nuovo, allora? — chiesi. — Si spargerà dappertutto?

— Chi lo sa? Nei villaggi vicini, nessuno ha contratto il morbo. È una situazione strana: un intero villaggio contaminato, e nient’altro nei paraggi. Questa gente la considera una punizione divina per qualche peccato sconosciuto.

— E che mai potrebbero aver fatto dei contadini — chiesi — per meritare una tale ira della Volontà?

— Se lo chiedono anche loro — rispose il Chirurgo.

Olmayne intervenne: — Se ci sono nuovi casi, la nostra visita di ieri è stata inutile. Abbiamo messo a repentaglio la vita e non abbiamo concluso nulla.

— No — le disse il Chirurgo. — Questi casi erano già in incubazione quando siete giunti voi. Possiamo sperare che la malattia non si estenda a coloro che godono di buona salute.

Ma non ne pareva molto sicuro.

Olmayne prese a esaminarsi di giorno in giorno per scorgere eventuali sintomi del morbo, ma non ne apparvero. Diede molto fastìdio al Chirurgo con quella storia, obbligandolo a frettolose diagnosi di infiammazioni vere o presunte della pelle, mettendolo in imbarazzo col togliersi la maschera in sua presenza per sapere se una macchia sulla guancia fosse o non fosse il primo segno della cristallizzazione.

Il Chirurgo prese tutto ciò con buona grazia, perché, mentre lo straniero era solo una nullità che trotterellava al nostro fianco, egli era un uomo serio, paziente, e dalla personalità complessa. Era nativo dell’Afrik ed era stato destinato dal padre alla sua Corporazione, poiché la cura dei corpi era tradizione di famiglia. Viaggiando continuamente, aveva visto quasi tutto, del nostro mondo, e poco aveva dimenticato. Ci parlò di Roum e di Perris, dei campi di fiordibrina di Stralya, del mio stesso luogo di nascita, nell’arcipelago occidentale dei Continenti Scomparsi. Ci interrogò con molto tatto sulle pietre di stella e sugli effetti che producevano (e io capivo benissimo che era roso dal desiderio di provare la pietra, ma ciò, naturalmente, era vietato a chi non si facesse Pellegrino); quando seppe che in precedenza ero stato Vedetta, mi chiese molte informazioni sugli strumenti con cui scandagliavo i cieli, per sapere che cosa percepivo e come, secondo me, si verificava la percezione. Gli risposi il più esaurientemente possibile, ma in realtà sapevo ben poco di quell’argomento.

Di solito ci muovevamo sulla verde striscia di terreno fertile che delimita il lago, ma una volta, dietro insistenza del Chirurgo, ci spostammo nel deserto infuocato per vedere una cosa che doveva essere molto interessante, a quanto ci disse lui. Non volle dirci di che si trattava. In quei giorni viaggiavamo su una carromobile presa a nolo, senza tettuccio di protezione, e il vento tagliente ci sbatteva sul viso soffi di sabbia. La sabbia si attaccava agli occhi dello straniero, vidi; e vidi che, molto efficacemente, un fiotto di lagrime blu scendeva ogni pochi istanti a detergerli. Noi tre ci stringevamo nella veste e chinavamo il capo ogni volta che il vento s’alzava.

— Eccoci arrivati — annunciò finalmente il Chirurgo. — Quando viaggiavo con mio padre, molto tempo fa, ho visitato questo luogo per la prima volta. Entreremo, e voi, che siete stata Ricordatore, ci direte dove ci troviamo.

Era un edificio alto due piani, costruito con mattoni di vetro bianco. Le porte sembravano chiuse, ma cedettero con la massima facilità alla pressione delle nostre mani. Nel momento in cui entrammo, si ridestarono diverse luci.

Sotto lunghe navate, ricoperte alla base dalla sabbia, si trovavano dei tavoli su cui erano montati misteriosi strumenti. Non riuscivo a capire la loro funzione. C’erano oggetti a forma di guanto, in cui potevamo inserire la mano; condutture univano quegli strani guanti di metallo a lucidi stipi impenetrabili, e una serie di specchi trasmetteva immagini dall’interno degli stipi a giganteschi schermi posti più in alto. Il Chirurgo infilò le mani nei guanti e mosse le dita: gli schermi s’accesero, e vidi minuscole lancette muoversi per brevi archi. Poi si avvicinò ad altre macchine da cui sgorgavano gocce di liquidi ignoti: toccò minuscoli bottoni che producevano un suono armonioso; si muoveva con la massima libertà in quel labirinto di prodigi, chiaramente antico, che sembrava ancora in perfetto ordine, come in attesa di chi sapesse usarlo.

Olmayne era estasiata. Seguiva il Chirurgo di tavolo in tavolo, toccava ogni cosa.

— Ebbene, Ricordatore? — le chiese infine il Chirurgo. — Che cos’è questo posto?

— Una Clinica — rispose lei a voce bassa. — Una Clinica degli Anni della Magia!

— Esatto! Splendido! — Il Chirurgo sembrava stranamente eccitato. — Qui potremmo creare mostri straordinari! Potremmo fare miracoli! Alati, Nauti, Diversi, Torcitori, Focosi, Rampicanti; inventare nuove Corporazioni, modellare gli uomini secondo i nostri desideri! Ecco cosa facevano qui!

Olmayne disse: — Queste Cliniche mi erano state descritte. Ne rimangono ancora sei, se non mi sbaglio: una nell’Eyrop del nord, una a Palash, una qui, una molto più a sud, nell’Afrik Fonda, e una nell’Ais occidentale… — S’interruppe.

— E una in Ind, la più grande di tutte! — esclamò il Chirurgo.

— Sì, naturalmente, in Ind! La patria degli Alati!

Il loro entusiasmo era contagioso. Così chiesi: — È qui che veniva cambiata la forma degli uomini? Come si faceva?

Il Chirurgo scrollò le spalle. — Quell’arte è andata perduta. Gli Anni della Magia sono molto lontani, vecchio mio.

— Sì, sì, lo so. Ma visto che ci restano gli strumenti, non dovremmo poter capire…

— Con queste lame — disse il Chirurgo — tagliavamo i tessuti dei non nati, correggendo il seme umano. Il Chirurgo metteva qui le mani… muoveva i congegni… e in quell’incubatore le lame facevano il loro lavoro. È da qui che sono nati gli Alati e tutto il resto. Le caratteristiche erano ereditabili. Oggi alcune di queste specie sono estinte, ma i nostri Alati e i nostri Diversi devono la propria forma a Cliniche come questa. I Diversi, ovviamente, erano errori dei Chirurghi. Non gli si doveva permettere di vivere.

— Pensavo che quei mostri fossero il risultato di farmaci teratogeni ingeriti dalle madri, quando essi erano ancora nell’utero — dissi. — Adesso voi mi dite che i Diversi sono stati creati dai Chirurghi. Qual è la verità?

— Entrambe le informazioni sono vere — mi rispose. — Tutti i Diversi dei nostri giorni discendono da errori e da sbadataggini di Chirurghi degli Anni della Magia. Ma le madri di quegli infelici aumentano spesso la mostruosità dei figli con l’uso di farmaci, per così renderli più vendibili. È una razza orribile, non solo di aspetto. Non c’è da meravigliarsi che la loro Corporazione sia stata sciolta, e che essi siano stati spinti ai margini della società. Noi…

Qualcosa di luccicante volò nell’aria, mancando il suo viso per meno di una spanna. Il Chirurgo si gettò a terra, gridandoci di fare altrettanto. Mentre mi piegavo, vidi una seconda freccia sibilare nella nostra direzione. La creatura aliena, che continuava imperterrita a raccogliere dati su ogni cosa, studiò quella freccia con grande calma nei pochi momenti di vita che le restarono. L’arma lo colpì a due terzi della sua altezza, e gli tagliò nettamente il corpo in due tronconi. Altre frecce andarono a colpire il muro alle nostre spalle. Potei finalmente scorgere i nostri attaccanti: una banda di Diversi, feroci, spaventosi. Eravamo disarmati, e loro ci venivano addosso. Mi preparai a morire.

Dall’ingresso giunse un grido: una voce familiare, che usava lo stretto, stranissimo linguaggio con cui i Diversi comunicano fra loro. Immediatamente l’assalto ebbe fine. Coloro che ci minacciavano si volsero verso la porta. Il Diverso Bernalt fece il suo ingresso.

— Ho visto il vostro veicolo — disse. — Ho pensato che forse eravate qui, e magari nei guai. Pare che sia giunto appena in tempo.

— Non esattamente — ribatté il Chirurgo. Indicò la figura riversa dell’alieno, per il quale non c’era più nulla da fare. — Ma perché questo attacco?

Bernalt gesticolò. — Saranno loro a dirvelo.

Guardammo i cinque Diversi che ci avevano teso l’imboscata. Non erano tipi educati e civili come Bernalt, e non ce n’erano due che avessero lo stesso aspetto; ognuno di loro era un’oscena, contorta caricatura dell’uomo, uno con tentacoli fibrosi che gli scendevano dal mento, un altro dal viso che era un nulla, privo di lineamenti, un altro con orecchi simili a tazze gigantesche, e così via. Da quello che ci stava più vicino, una creatura la cui pelle lasciava sporgere migliaia di piccole scaglie, apprendemmo perché ci avevano assaliti. In un rozzo dialetto d’Agupt ci disse che avevamo profanato un tempio sacro ai Diversi.

— Noi stiamo alla larga da Jorslem — ci disse. — Perché voi dovreste venire qui?

Naturalmente aveva ragione. Chiedemmo perdono con la massima sincerità possibile, e il Chirurgo spiegò che egli, molto tempo prima, aveva visitato quel luogo, e che allora non era un tempio. Ciò parve calmare il Diverso, che ammise che solo da pochi anni la Clinica era diventata un edificio sacro. Divenne ancora più calmo quando Olmayne aprì l’ipertasca che celava in seno e gli offrì alcune luccicanti monete d’oro, parte del tesoro che si era portata da Perris. Quelle creature bizzarre e deformi parvero soddisfatte, e ci permisero di uscire dal tempio. Avremmo preso con noi anche l’alieno morto, ma, durante la discussione col Diverso, il cadavere era quasi del tutto scomparso; ora, sul pavimento, restava solo una piccola striscia grigia, a indicare il punto in cui era caduto. — Un enzima mortuario — spiegò il Chirurgo. — L’interruzione dei processi vitali lo ha messo in azione.

Quando uscimmo, intorno all’edificio ci attendevano altri Diversi, tutti appartenenti a quella comunità del deserto. Erano un gruppo di incubi, con pelle d’ogni consistenza e colore, tratti fisionomici disposti a casaccio, organi e altre parti del corpo all’insegna dell’improvvisazione genetica. Bernalt stesso, nonostante fosse loro fratello, parve sgomentato da quelle mostruosità. Gli altri lo fissavano con reverenza. Qualcuno di loro, quando ci vide, cercò d’impugnare le armi, ma, con un ordine imperioso, rimise tutto a posto Bernalt.

Poi ci disse: — Mi spiace che siate stati trattati a questo modo, e che lo straniero sia morto. Ma, naturalmente, è pericoloso entrare in un luogo sacro a gente primitiva e violenta.

— Non ne avevamo idea — rispose il Chirurgo. — Non saremmo entrati se avessimo saputo…

— Naturalmente. Naturalmente. — C’era forse un che di paternalistico nel tono dolce, signorile di Bernalt? — Be’, vi dico di nuovo arrivederci.

— No — esclamai d’improvviso. — Viaggiate con noi fino a Jorslem! È ridicolo dirigersi separatamente alla stessa meta.

Olmayne boccheggiò. Anche il Chirurgo sembrò stupito. Solo Bernalt rimase calmo, e disse: — Scordate, amico, che è sconveniente per un Pellegrino viaggiare con chi non ha Corporazione. D’altronde, io sono qui per offrire le mie preghiere a questo tempio, e dovrò fermarmi un po’. Non vorrei farvi tardare. — La sua mano si tese a incontrare la mia. Poi si allontanò, scomparendo nell’antica Clinica. I suoi compagni Diversi gli tennero precipitosamente dietro. Ero grato a Bernalt del suo tatto: la mia impulsiva offerta di compagnia, per quanto sincera, non poteva essere accettata.

Raggiungemmo la nostra carromobile. Dopo qualche momento udimmo un suono spaventoso: lo stonato canto dei Diversi in onore di una divinità che non oso immaginare; un inno spezzato, lacerante, stridulo, deforme come coloro che lo intonavano.

— Bestie orribili! — mormorò Olmayne. — Un luogo sacro! Un tempio dei Diversi! Che cosa spaventosa! Potevano ucciderci tutti, Tomis. Com’è possibile che mostri simili abbiano una religione?

Non le risposi. Il Chirurgo fissò tristemente Olmayne e scosse il capo, come perplesso da tanta mancanza di carità in una donna che asseriva d’essere una Pellegrina.

— Anche loro sono creature umane — disse poi.

Alla prima città che incontrammo lungo la strada segnalammo la morte dell’alieno alle autorità d’occupazione. Poi, tristi e silenziosi, noi tre sopravvissuti proseguimmo il cammino, verso la terra dove la costa marina si piega a nord anziché a est. Ci stavamo lasciando alle spalle il sonnolento Agupt; entravamo adesso nei confini della regione dove sorge la città santa di Jorslem.

22

La città di Jorslem si trova nell’interno, a una certa distanza dal Lago Medit, su un arioso altipiano protetto da una catena di montagne basse, addossate l’una all’altra e spoglie di vegetazione. Mi sembrava che tutta la mia vita non fosse stata altro che una preparazione al primo sguardo su quell’aurea città, di cui conoscevo tanto bene l’immagine. E così, quando vidi sorgere a est le sue guglie e le sue mura, provai, più che uno stupore reverenziale, l’impressione di tornare a casa dopo tanti anni.

Una strada serpeggiante ci portò dalle montagne alla città, le cui mura erano fatte di blocchi di pietra finissima, squadrata, di colore rosa scuro dorato. Anche le case e i templi erano della medesima pietra. Giardinetti alberati delimitavano la strada, e non si trattava di alberi importati dalle stelle ma di veri prodotti della nostra Terra, come si addiceva a quella città: la più antica costruita dall’uomo; più antica di Roum, più antica di Perris, le origini di Jorslem si perdono nel Primo Ciclo.

Gli invasori, saggiamente, non s’erano intrufolati nell’amministrazione di Jorslem. La città restava sotto il controllo del Maestro della Corporazione dei Pellegrini, e anche un invasore doveva richiedere il suo permesso per entrare. Naturalmente, era solo questione di forma: il Maestro dei Pellegrini, come il Cancelliere dei Ricordatori e tutte le autorità del genere, era in realtà un burattino obbediente ai voleri dei conquistatori. Ma la cruda verità di quel fatto restava nascosta. Gli invasori avevano riservato a Jorslem un trattamento speciale, e almeno non li avremmo visti ciondolare a gruppi armati per le strade della città santa.

Giunti alle mura esterne, presentammo alla Sentinella del cancello una formale richiesta d’ingresso. Anche se altrove molte sentinelle non avevano più lavoro, dato che i nuovi padroni avevano ordinato di lasciare sempre spalancate le porte delle città, quest’uomo era in completa divisa della sua Corporazione, e con grande calma ci sottopose ai rituali della normale procedura. Io e Olmayne, nella nostra qualità di Pellegrini, avevamo automaticamente il diritto di entrare a Jorslem; ma lui volle vedere le pietre di stella, per sincerarsi che la veste e la maschera non fossero un inganno, e poi s’infilò una cuffia pensante per controllare i nostri nomi nell’archivio della Corporazione. In breve tempo ottenemmo il permesso. Il Chirurgo che viaggiava con noi se la sbrigò ancora più in fretta: si era premurato di chiedere in anticipo, quando era ancora in Afrik, l’autorizzazione, e dopo un minuto per il controllo della sua identità fu lasciato passare.

Dentro le mura, ogni cosa aveva l’aspetto di un’immensa antichità. Solo Jorslem, fra tutte le città del mondo, conserva ancora buona parte dell’architettura del Primo Ciclo: non semplici colonne decapitate e acquedotti in rovina, come Roum, ma intere strade, portici coperti, torri, viali che hanno resistito a tutti gli sconvolgimenti sofferti dal nostro pianeta. E così, una volta entrati in città, vagammo stupefatti tra le sue meraviglie, giù per strade pavimentate di ciottoli, lungo strettissimi vicoli pieni di bambini e di mendichi, attraverso mercati fragranti di spezie. Dopo un’ora di quel vagabondaggio decidemmo che era tempo di trovarci una sistemazione, e fummo costretti a dividerci dal Chirurgo poiché gli era vietato fermarsi a un ostello di Pellegrini, e per noi, alloggiare altrove sarebbe stato inutilmente costoso. Lo accompagnammo alla locanda dove aveva già prenotato una stanza. Lo ringraziai per la compagnia che ci aveva offerto durante il viaggio, e lui ringraziò noi con la stessa serietà, esprimendo l’augurio di rivederci nei prossimi giorni. Poi io e Olmayne ce ne andammo. Ci ospitò uno dei tanti edifici che a Jorslem sono privilegio dei Pellegrini.

La città esiste unicamente per servire i Pellegrini e i turisti, ed è pertanto un solo immenso ostello; qui i Pellegrini avvolti nel saio sono comuni come gli Alati in Ind. Ci fermammo un attimo a riposare; poi cenammo e più tardi, camminando lungo una strada spaziosa, ci fu possibile vedere a est il quartiere interno di Jorslem, quello più sacro. È come se ci fossero due città, incastonate l’una nell’altra. La parte più antica, così minuscola che a piedi la si può percorrere in meno d’un’ora, è chiusa da un’alta cinta di mura. All’interno si trovano i templi venerati dalle vecchie religioni terrestri: i Cristani, gli Ebarii, i Mislami. Si dice che sia qui anche il luogo dove morì il dio dei Cristani, ma forse si tratta solo di una distorsione dovuta al tempo, perché che tipo di dio può essere, se muore? Su un piccolo rilievo in un angolo della Città Vecchia sorge la cupola dorata sacra ai Mislami, gelosamente accudita dalla gente di Jorslem. E sul davanti di quel poggio si trovano le pietre grigie, massicce, di un muro adorato dagli Ebarii. Tutte queste cose rimangono, ma le idee che le sorreggevano sono andate perse; quando ero tra i Ricordatori, non ero mai riuscito a trovare un solo studioso capace di spiegarmi che valore possa avere l’adorazione di un muro o di una cupola dorata. Eppure gli antichi documenti ci assicurano che queste tre fedi del Primo Ciclo avevano grande profondità e ricchezza d’idee.

Sempre nella Città Vecchia c’era poi un edificio del Secondo Ciclo che agli occhi miei e di Olmayne presentava un interesse molto più concreto. Mentre scrutavamo tra l’oscurità quei sacri luoghi, Olmayne disse: — Domani dovremmo fare richiesta alla casa del rinnovamento.

— Certo. Ora mi accorgo che desidero scrollarmi di dosso qualche anno.

— Mi accetteranno, Tomis?

— È inutile azzardare ipotesi — le risposi. — Andremo, e rivolgeremo la richiesta, e i vostri interrogativi saranno soddisfatti.

Lei disse qualche altra cosa ma non udii le sue parole, perché in quel momento tre Alati passarono sopra di me, sfrecciando verso est. Uno era maschio, due femmina; volavano nudi, secondo il costume della loro Corporazione; e l’Alata al centro del gruppo era una ragazzina magra, fragile, un mucchietto di ossa e ali, ma si muoveva con una grazia eccezionale, anche per la sua specie che è signora dell’aria.

Avluela! — boccheggiai.

I tre Alati scomparvero oltre i confini della Città Vecchia. Stupefatto, scosso, mi appoggiai a un albero per reggermi in piedi e calmare l’ansia del respiro.

— Tomis? — disse Olmayne. — Tomis, state male?

— Sono certo che è Avluela. Mi hanno detto che è tornata in Ind, ma no, quella era Avluela! Come potrei sbagliarmi?

— Avete detto le stesse cose da quando siamo partiti da Perris, ogni volta che vedevate un’Alata — notò freddamente Olmayne.

— Ma questa volta ne sono certo! Dov’è una cuffia pensante? Devo controllare subito alla Loggia degli Alati!

La mano di Olmayne si posò sul mio braccio. — È tardi, Tomis. Vi comportate da pazzo. E perché vi emozionate tanto per un’Alata rinsecchita? Cosa significava per voi?

— Lei…

Mi arrestai, incapace di tradurre in parole le idee. Olmayne conosceva la storia del mio viaggio dall’Agupt in compagnia della ragazza, e sapeva che allora, quando ero una Vedetta votata al celibato, provavo per lei una sorta d’amore paterno, che forse in realtà sentivo qualcosa di più profondo, che il falso Diverso Gormon me l’aveva tolta, e che a sua volta il Principe di Roum l’aveva tolta a lui. Ma con tutto ciò, cos’era per me Avluela? Perché la sola vista di qualcuno che poteva essere lei mi metteva in uno stato di confusione? Cercai un simbolo nella mia mente agitata, e non ebbi risposta.

— Torniamo all’ostello a riposare — disse Olmayne. — Domani dovremo chiedere il rinnovamento.

Prima, però, cercai una cuffia ed entrai in contatto con la Loggia degli Alati. I miei pensieri scivolarono lungo l’interfaccia protettiva, fino al cervello del registro della Corporazione; chiesi e ottenni la risposta che cercavo. Avluela degli Alati si trovava davvero a Jorslem. — Riferitele questo messaggio — dissi. — La Vedetta che conobbe al Roum è adesso qui come Pellegrino, e desidera incontrarla domani a mezzogiorno davanti alla casa del rinnovamento.

Fatto questo, accompagnai Olmayne al nostro alloggio. Sembrava irritata e distante; quando, nella mia stanza, si tolse la maschera, il suo viso parve teso dalla… gelosia? Sì. Olmayne considerava suoi vassalli tutti gli uomini, anche un vecchio bacucco come me; e le ripugnava ammettere che un’altra donna potesse accendere in me una fiamma così forte. Quando tirai fuori la mia pietra di stella, Olmayne non volle dapprima unirsi a me nella comunione. Accettò solo quando ebbi dato inizio ai rituali. Ma quella notte ero talmente scosso che non riuscii a immergermi nella Volontà: anche a lei fu impossibile: restammo a scrutarci accigliati per mezz’ora, e infine rinunciammo al tentativo e ci dividemmo per la notte.

23

Alla casa del rinnovamento si va da soli. All’alba mi destai, feci una breve e più soddisfacente comunione e uscii senza Olmayne, a digiuno. Dopo mezz’ora ero davanti alle mura dorate della Città Vecchia; in un’altra mezz’ora avevo finito di traversare le aggrovigliate stradine della città. Oltrepassato il muro grigio tanto caro agli antichi Ebarii, affrontai la salita del poggio; sfiorai nel mio cammino la cupola dorata sacra agli scomparsi Mislami e, girando a sinistra, mi misi a seguire il fiume di Pellegrini che già a quell’ora s’incanalava verso la casa del rinnovamento.

La casa è un edificio del Secondo Ciclo, perché fu allora che venne concepita la tecnica del rinnovamento; di tutta la scienza di quel periodo, solo il rinnovamento ci è giunto più o meno integro, e lo pratichiamo oggi come dovevano praticarlo allora. Come le altre poche costruzioni del Secondo Ciclo che sono sopravvissute, la casa del rinnovamento è agile e liscia, architettonicamente semplice, con curve accentuate e superfici sobrie ed è priva di finestre: non reca decorazioni esterne di sorta. Ha molte porte. Mi piazzai di fronte all’entrata più a est, e nel giro di un’ora potei passare all’interno.

Appena varcata la soglia fui accolto da un membro della Corporazione dei Rinnovatori, nel suo saio verde: il primo membro di quella Corporazione che avessi mai visto. I Rinnovatori sono reclutati fra i Pellegrini che intendono fermarsi a lavorare a Jorslem, per aiutare gli altri nel rinnovamento. La loro Corporazione fa tutt’uno, amministrativamente, con quella dei Pellegrini; un unico Maestro dirige le sorti di entrambe; anche il saio è identico, eccettuato il colore. In effetti, Pellegrini e Rinnovatori formano una sola Corporazione, e rappresentano fasi diverse della stessa affiliazione. Ma una distinzione ci deve pur essere.

La voce del Rinnovatore era limpida e cordiale. — Benvenuto a questa casa, Pellegrino. Chi sei, da dove vieni?

— Sono il Pellegrino Tomis, già Tomis dei Ricordatori, e prima ancora Vedetta, nato col nome di Wuellig. Sono originario dei Continenti Scomparsi e ho molto viaggiato, sia prima che dopo l’inizio del mio Pellegrinaggio.

— Che cosa cerchi qui?

— Rinnovamento. Redenzione.

— Che la Volontà ti sia propizia — disse il Rinnovatore. — Seguimi.

Traversammo un corridoio stretto, poco illuminato, e giungemmo a una celletta di pietra. Il Rinnovatore mi disse di togliere la maschera, entrare in stato di comunione, e attendere. Mi liberai della griglia di bronzo e strinsi con forza la pietra di stella. Fui penetrato dalla nota sensazione, ma non si verificò il contatto con la Volontà; sentii invece che si formava uno specifico collegamento con la mente di un altro essere umano. Per quanto stupito, non opposi resistenza.

Qualcosa frugò nella mia anima. Tutto venne scavato portato alla luce come per un’ispezione, tutto si depositò sul pavimento della cella: i miei atti d’egoismo e viltà, i miei errori e i miei difetti, i miei dubbi, le mie disperazioni e, soprattutto, il più vergognoso dei miei atti: la vendita del documento dei Ricordatori al capo degli invasori. Osservavo quelle cose e capivo di essere indegno del rinnovamento. Questa casa poteva estendere di altre due o tre volte la durata di una vita; ma perché i Rinnovatori avrebbero dovuto offrire simili benefici a un uomo privo di meriti come me?

Rimasi a lungo a contemplare i miei errori. Poi il contatto s’interruppe e nella cella entrò un altro Rinnovatore, un individuo di notevole statura.

— La misericordia della Volontà è su di te, amico mio — disse, tendendo le dita (dita di lunghezza straordinaria) a incontrare le punte delle mie.

Udendo la sua voce profonda e scorgendo le sue dita bianche, riconobbi un uomo che avevo già incontrato fugacemente in passato, quando ero fuori delle porte di Roum, nella stagione precedente la conquista della Terra. Allora quell’uomo era un Pellegrino, e mi aveva invitato ad accompagnarlo nel suo viaggio verso Jorslem, ma io avevo rifiutato, perché Roum esercitava su di me il suo fascino.

— Vi è stato lieve il Pellegrinaggio? — gli chiesi.

— Mi è stato di grande valore — rispose. — E tu? Non sei più Vedetta, vedo.

— In un anno ho cambiato tre Corporazioni.

— E un’altra ancora ti attende — disse.

— Dunque, mi unirò a voi nei Rinnovatori?

— Non intendevo quella Corporazione, amico Tomis. Ma parleremo ancora di tutto ciò quando i tuoi anni saranno diminuiti. Hai ottenuto il rinnovamento, sono lieto di comunicarti.

— Nonostante i miei peccati?

— A causa dei tuoi peccati, quali essi sono. Domani all’alba entrerai nella prima vasca del rinnovamento. Io ti farò da guida nel corso della tua seconda nascita. Sono il Rinnovatore Talmit. Vai, adesso; quando tornerai chiederai di me.

— Una domanda…

— Sì?

— Ho compiuto il Pellegrinaggio con una donna, Olmayne, che prima era dei Ricordatori di Perris. Potete dirmi se anche lei ha ottenuto l’approvazione per il rinnovamento?

— Non so nulla di questa Olmayne.

— Non è una donna perfetta — dissi. — È vanitosa, prepotente e crudele. Ma credo che sia ancora possibile redimerla. Non potete fare nulla per aiutarla?

— Non ho alcuna influenza su cose del genere — rispose Talmit. — Deve affrontare l’esame come chiunque altro. Posso dirti questo, però: la virtù non è l’unico criterio che dà diritto al rinnovamento.

Mi accompagnò fuori dell’edificio. La fredda luce del sole illuminava la città. Ero come prosciugato, mi sentivo troppo vuoto per potermi rallegrare del prossimo rinnovamento. Era mezzogiorno. Ricordai l’appuntamento con Avluela, e feci il giro della casa del rinnovamento, con ansia crescente. Sarebbe venuta?

Mi attendeva davanti al frontone dell’edificio, a fianco di un fulgido monumento del Secondo Ciclo. Giacchetta scarlatta, gambali di pelliccia, scarpine lucide ai piedi, sporgenze eloquenti sulla schiena: già da lontano potevo capire che era un’Alata. — Avluela! — gridai.

Lei si volse. Sembrava pallida, minuscola, ancora più giovane dell’ultima volta che l’avevo vista. I suoi occhi frugarono il mio viso, di nuovo coperto dalla maschera, e per un attimo la vidi stupefatta.

— Vedetta? — chiese. — Vedetta, sei tu?

— Chiamami Tomis, adesso — le risposi. — Ma sono la stessa persona che conoscevi a Roum e in Agupt.

— Vedetta! Oh, Vedetta! Tomis. — Mi si gettò contro. — Quanto tempo è passato! Quante cose sono successe! — Adesso splendeva come un gioiello, e il pallore aveva lasciato le sue guance. — Vieni, cerchiamo un’osteria, un posto dove sedere a parlare! Come hai fatto a scoprire che ero qui?

— Tramite la tua Corporazione. Ieri sera ti ho visto volare.

— Sono giunta qui coll’inverno. Per un po’ mi sono fermata a Fars, a mezza strada dall’Ind, poi ho cambiato idea. Non potevo tornare a casa. Adesso vivo nei pressi di Jorslem, e faccio parte di… — Lasciò la frase a metà. — Hai ottenuto il rinnovamento, Tomis?

Stavamo scendendo dal poggio alla parte più bassa della città.

— Sì — risposi — mi ringiovaniranno. La mia guida è il Rinnovatore Talmit. Lo abbiamo incontrato da Pellegrino appena fuori Roum, ricordi?

Non ricordava. Ci sedemmo in una veranda annessa a un’osteria, e Servitori ci portarono cibo e vino. La sua allegria era contagiosa: solo a stare con lei mi sentivo già rinnovato. Parlò degli ultimi catastrofici giorni a Roum, quando era stata portata come concubina al palazzo del Principe; e mi raccontò il terribile momento in cui Gormon il Diverso aveva abbattuto il Principe di Roum, la sera stessa della conquista: Gormon si era annunciato non più come Diverso ma come un invasore travestito, e in un colpo solo aveva strappato al Principe il trono, la concubina, e la vista.

— Il Principe è morto? — mi chiese.

— Sì, ma non per l’accecamento. — Le raccontai come quell’uomo orgoglioso fosse fuggito da Roum travestito da Pellegrino; come io stesso l’avessi accompagnato a Perris; e come, quando stavamo coi Ricordatori, avesse avuto una tresca con Olmayne e fosse stato ucciso da suo marito, a sua volta assassinato da lei. — Ho rivisto Gormon a Perris — dissi. — Adesso si fa chiamare Vittorioso Tredici. Occupa una posizione elevata tra gli invasori.

Avluela sorrise. — Io e Gormon siamo rimasti assieme poco tempo, dopo la conquista. Voleva girare l’Eyrop; sono volata con lui fino alla Donsk e alla Sved, e lì il suo interesse per me s’è spento. Fu allora che mi accorsi di voler tornare a casa, in Ind, ma più tardi cambiai idea. Quando inizia il tuo rinnovamento?

— All’alba.

— Oh, Tomis, cosa succederà quando ritornerai giovane? Lo sapevi che ti amavo? Per tutto il nostro viaggio, e ogni volta che dividevo il letto con Gormon o mi univo al Principe, eri tu il solo che volevo! Ma naturalmente eri una Vedetta, e la cosa era impossibile. D’altra parte, eri così vecchio… Adesso tu non Vigili più, e presto non sarai nemmeno più vecchio, e… — La sua mano si posò sulla mia. — Non avrei mai dovuto allontanarmi dal tuo fianco. Ci saremmo risparmiati tutt’e due molte sofferenze.

— S’impara, soffrendo — le dissi.

— Sì. Lo capisco. Quanto occorrerà per il tuo rinnovamento?

— Il solito, anche se non ne ho un’idea precisa.

— E, dopo, che farai? Che Corporazione sceglierai? Non puoi fare la Vedetta, non oggi.

— No, e nemmeno il Ricordatore. La mia guida, Talmit, ha parlato di un’altra Corporazione di cui non ha voluto precisare il nome, e dava per certo che sarei entrato a farne parte, dopo il rinnovamento. Ho creduto che intendesse dire che mi sarei fermato qui per diventare Rinnovatore, ma ha detto che si tratta d’un’altra Corporazione.

— Non i Rinnovatori — disse Avluela, e si sporse verso di me. — I Redentori — sussurrò.

— Redentori? È una Corporazione che non conosco.

— È stata fondata da poco.

— Ma se non nascono nuove Corporazioni da almeno…

— È a questa Corporazione che si riferiva Talmit. Tu saresti un membro ideale. Le capacità che hai sviluppato durante i tuoi anni di Vigilanza ti rendono molto prezioso.

— Redentori — ripetei, per saggiare il mistero. — Redentori. E cosa fa, questa Corporazione?

Avluela sorrise allegramente. — Redime le anime colme d’affanno e salva i mondi infelici. Ma non è ancora tempo di parlarne. Finisci ciò che hai da fare a Jorslem, e tutto ti sarà chiarito. — Ci alzammo. Le sue labbra sfiorarono le mie. — È l’ultima volta che ti vedo vecchio. Sarà strano, Tomis, incontrarti rinnovato!

Poi mi lasciò.

Verso sera tornai al mio alloggio. Olmayne non era nella sua stanza. Un Servitore m’informò che era stata fuori tutto il giorno. L’aspettai sino a tardi; poi feci la comunione e m’addormentai, e all’alba sostai un attimo davanti alla sua porta. Era chiusa a chiave. Mi affrettai verso la casa del rinnovamento.

24

Il Rinnovatore Talmit mi venne incontro sulla soglia e mi guidò lungo un corridoio a piastrelle verdi, fino alla prima vasca di rinnovamento. — Il Pellegrino Olmayne — m’informò — ha ottenuto il rinnovamento, e sarà qui oggi stesso, tra qualche ora. — Questa sarebbe stata l’ultima allusione alle vicende di un altro essere umano che avrei udito per diverso tempo. Talmit mi fece entrare in una stanzetta dal soffitto basso, stretta e umida, rischiarata da pallidi globi di luce-schiava; nell’aria aleggiava un debole profumo di germogli schiacciati di fiordimorte. Mi vennero tolti saio e maschera, e il Rinnovatore mi coprì la testa con una reticina di fine metallo color verde oro, in cui fece passare la corrente; quando tolse la rete, i miei capelli erano scomparsi, la mia testa era nuda come quei muri spogli, per semplificare l’inserzione degli elettrodi — spiegò Talmit. — Adesso puoi entrare nella vasca.

Una scala poco ripida mi portò nella vasca, che era una tinozza di dimensioni modeste. Sentii sotto i piedi la calda, morbida cedevolezza del fango, e Talmit annuì e mi disse che era fango rigeneratore irradiato; serviva a stimolare il processo di suddivisione cellulare che era alla base del rinnovamento, e io non mi opposi. Mi distesi sul pavimento del serbatoio; solo la mia testa restava fuori dal fluido viola cupo contenutovi. Il fango cullò e carezzò il mio corpo stanco. Talmit si piegò su di me, stringendo in mano quello che sembrava un fascio di fili di rame, ma quando egli appoggiò i fili al mio cranio nudo essi si sciolsero l’uno dall’altro, come dotati di vita propria, e le loro punte cercarono il mio cranio e s’infilarono nella pelle, nelle ossa, giù fino alla nascosta, circonvoluta materia grigia. L’unica sensazione che provai fu quella di lievi punture. — Gli elettrodi — spiegò Talmit — raggiungo i centri d’invecchiamento nel tuo cervello; noi trasmettiamo segnali che producono un’inversione dei normali processi di senescenza, e il suo cervello perderà nozione del senso in cui scorre il tempo. Così il tuo corpo risulterà più ricettivo nei riguardi degli stimoli ambientali che riceve valla vasca. Chiudi gli occhi. — Mi pose pose sul viso una maschera respiratoria. Mi spinse dolcemente in giù, e la mia nuca si staccò dal bordo della vasca, cosicché mi trovai a galleggiare verso il centro. Il caldo crebbe. Udii appena l’eco di suoni gorgoglianti. Immaginai che nere bolle solforose salissero dal fango, attraversassero il liquido in cui ero immerso; immaginai che ilfluido fosse diventato color del fango. E così andai alla deriva in quel mare senza onde, appena appena conscio che una corrente passava per gli elettrodi, che qualcosa mi pungeva il cervello, che ero inglobato nel fango e in quello che avrebbe potuto benissimo essere liquido amniotico. Da lontano, da molto lontano, giungeva la voce profonda del Rinnovatore Talmit che mi chiamava alla giovinezza, mi traeva indietro lungo i decenni già trascorsi, mi scioglieva dalla tirannia del tempo. Avevo in bocca un sapore di sale. Di nuovo traversavo l’Oceano Terrestre e i pirati m’assalivano e difendevo gli strumenti della Vigilanza dai loro dileggi, dai loro colpi. Di nuovo ero fermo sotto il caldo sole di Agupt, e incontravo Avluela per la prima volta. Abitai di nuovo a Palash. Tornai al mio luogo di nascita nelle isole occidentali dei Continenti Scomparsi, in quella che una volta era stata l’Usa-amrik. Vidi Roum crollare per la seconda volta. Frammenti di ricordi venivano a galla nel mio cervello ammorbidito. Non esisteva una logica, uno svolgersi razionale degli eventi. Ero bambino. Ero un vecchio stanco. Ero tra i Ricordatori. Visitavo i Sonnambuli. Vedevo il Principe di Roum procurarsi nuovi occhi da un Artefice di Djion. Trattavo col Procuratore di Perris. Muovevo i comandi dei miei strumenti ed entravo nello stato di Vigilanza. Mangiavo cibi deliziosi che venivano da un mondo lontanissimo: aspiravo profondamente il profumo della primavera di Palsh; rabbrividivo nell’inverno personale di un vecchio; nuotavo in un mare agitato, ilare e felice; cantavo; piangevo; resistevo alle tentazioni; cedevo alle tentazioni; litigavo con Olmayne; abbracciavo Avluela; sperimentavo una rapida successione di notti e giorni, mentre il mio orologio biologico si muoveva secondo strani ritmi di regressione e accelerazione. Mi assalivano illusioni. Pioveva fuoco dal cielo; il tempo fuggiva in varie direzioni; diventavo minuscolo e poi enorme. Udivo voci che parlavano con sfumature scarlatte e turchese. Una musica dentata scintillava su lontani crinali. Il suono a martello del mio cuore era aspro e possente. Ero intrappolato tra due battiti successivi del mio cervello, tenevo le braccia schiacciate contro i fianchi per occupare meno spazio possibile mentre continuava a pulsare, pulsare, pulsare. Le stelle battevano, si contraevano, si fondevano fra loro. Avluela mormorava dolcemente: — Sono gli indulgenti, benevoli impulsi della Volontà che ci fanno guadagnare una seconda giovinezza, non le buone azioni individuali che abbiamo compiuto in vita. — Olmayne diceva: — Come divento sinuosa! — Talmit diceva: — Queste oscillazioni della percezione indicano solo la dissoluzione del desiderio di autodistruzione collocato nel cuore del processo d’invecchiamento. — Gormon diceva: — Queste percezioni di un’oscillazione indicano solo l’autodistruzione del desiderio di dissoluzione collocato nel processo d’invecchiamento del cuore. — Il Procuratore Governatore dell’Uomo Sette diceva: — Siamo stati mandati su questo mondo per essere lo strumento della vostra purificazione. Noi siamo i mezzi di cui si serve la Volontà. — Rivendicatore Diciannove diceva: — D’altra parte, mi sia concesso di dissentire. L’incontro tra il nostro destino e quello della Terra è una semplice coincidenza. — Le mie palpebre pesavano come pietra. Le minuscole creature che includevano i miei polmoni cominciarono a fiorire. La mia pelle si squamava, scoprendo fili di muscoli tesi sulle ossa. Olmayne diceva: — I miei pori si restringono. La mia pelle si tende. I miei seni rimpiccioliscono. — Avluela diceva. — Più tardi volerai con noi, Tomis. — Il Principe di Roum si copriva gli occhi con le mani. Le torri di Roum ondeggiavano ai venti del sole. Ghermivo la sciarpa di un Ricordatore che passava. Clown piangevano nelle strade di Perris. Talmit diceva: — Adesso svegliati, Tomis, esci del tuo sogno, apri gli occhi.

— Sono giovane di nuovo — risposi.

— Il tuo rinnovamento è appena cominciato — disse.

Non riuscivo più a muovermi. Gli inservienti mi afferrarono e mi coprirono di tele porose; mi adagiarono su un carrello mobile e mi portarono in una seconda vasca, molto più grande, in cui fluttuavano dozzine di persone, ciascuna chiusa nel suo sogno personale. I loro crani nudi erano pavesati di elettrodi; i loro occhi coperti da nastri rosa; le loro mani tranquillamente adagiate sul petto. Entrai in quella vasca, e questa volta non ci furono illusioni; solo un lungo sonno senza sogni. Fui svegliato da uno sciaguattio d’onde e mi trovai a percorrere, a piedi in avanti, uno stretto condotto; emersi in un serbatoio chiuso, dove respirai solo fluido, e dove rimasi per qualcosa di più d’un minuto e per qualcosa di meno d’un secolo, mentre sbucciavano la mia anima di strati su strati di peccato. Fu un lavoro lungo, assillante. I Chirurghi operavano a distanza, le mani infilate in guanti che controllavano piccoli bisturi mobili, e mi liberavano dal male con un taglio e un taglio e un taglio di quelle lame minuscole, strappando da me colpe e tristezze, gelosia e rabbia, orgoglio, lussuria e impazienza.

Quando ebbero finito, spalancarono le valve della vasca e mi fecero uscire, sollevandomi. Ero incapace di reggermi senza aiuto. Attaccarono ai miei arti strumenti che sciolsero e massaggiarono i muscoli, ridandomi forza. Riuscivo di nuovo a camminare. Scrutai il mio corpo nudo, robusto e sodo e vigoroso. Talmit mi raggiunse e liberò nell’aria una manciata di polvere specchio, perché potessi vedermi; quando le minuscole particelle si furono unite, fissai la mia immagine tersa.

— No — dissi. — Il mio viso è sbagliato. Non ero così. Il naso era più accentuato, le labbra meno piene, i capelli un po’ meno scuri…

— Ci siamo serviti dei documenti della Corporazione delle Vedette, Tomis. Adesso sei esattamente uguale all’uomo che eri prima, anche se la memoria ti dice il contrario.

— È possibile?

— Se preferisci, possiamo rimodellarti secondo le tue idee e non secondo la realtà. Ma sarebbe una cosa piuttosto frivola, e richiederebbe molto tempo.

— No — dissi. — Non ha nessuna importanza.

Talmit fu d’accordo. Mi informò che dovevo restare ancora un po’ nella casa del rinnovamento, finché non mi fossi perfettamente adattato al mio nuovo Io. Mi diedero da indossare gli abiti neutri di chi non ha Corporazione, perché adesso non ero affiliato a nessuna; la condizione di Pellegrino finisce col rinnovamento, ed ero libero di scegliere qualsiasi Corporazione disposta ad accettarmi, una volta uscito di lì. — Quanto è durato il mio rinnovamento? — chiesi a Talmit mentre mi vestivo. Lui rispose: — Sei giunto al principio dell’estate. Adesso è inverno. Noi non lavoriamo in fretta.

— E come va la mia compagna Olmayne?

— Con lei abbiamo fallito.

— Non capisco.

— Vuoi vederla? — mi chiese Talmit.

— Sì — risposi, pensando che mi avrebbero portato alla stanza di Olmayne. Invece mi condusse alla vasca di Olmayne. Mi trovai su una rampa di scale che scendeva a un contenitore ancora chiuso; Talmit m’indicò un cannocchiale a fibre, e attraverso il suo occhio sempre aperto potei vedere Olmayne. O piuttosto, ciò che dovevo credere Olmayne. Una bimba nuda di circa undici anni, dalla pelle liscia, priva di seni, rannicchiata sul fondo del serbatoio; teneva le ginocchia strette contro il torace minuscolo, il pollice infilato in bocca. Dapprima non compresi. Poi la bimba si mosse, e riconobbi i tratti embrionali della stupenda Olmayne con cui ero vissuto: la bocca larga, il mento volitivo, gli zigomi sporgenti, robusti. Un improvviso scoppio d’orrore mi percorse il corpo, e chiesi a Talmit: — Cosa significa?

— Quando l’anima è troppo densa di macchie, Tomis, dobbiamo scavare a fondo per ripulirla. La tua Olmayne era un caso difficile. Non avremmo neanche dovuto tentare; ma lei ha insistito, e qualche indicazione ci portava a credere che forse saremmo potuti riuscire. Erano indicazioni sbagliate, come puoi vedere.

— Ma cosa le è successo?

— Il rinnovamento ha raggiunto l’irreversibilità prima che potessimo purgarla dei suoi errori — rispose Talmit.

— Siete andati troppo a fondo? L’avete resa troppo giovane?

— Come puoi vedere. Sì.

— Cosa farete? Non potete tirarla fuori di qui e lasciarla crescere di nuovo?

— Dovevi prestare più attenzione alle mie parole, Tomis. Ho detto che il rinnovamento è irreversibile.

Irreversibile?

— È persa in sogni infantili. Ogni giorno ringiovanisce di qualche anno. Il suo orologio interno ruota a velocità incontrollabile. Il suo corpo si restringe; il suo cervello diventa sempre più liscio. Presto tornerà al periodo neonatale. E non si sveglierà mai.

— E alla fine… — Distolsi lo sguardo da quello spettacolo. — Cosa accadrà? Uno spermatozoo e un uovo che si dividono nella vasca?

— La retrocessione non andrà così oltre. Morirà neonata. Ne perdiamo molti a questo modo.

— È stata lei a parlarmi dei rischi del rinnovamento — dissi.

— Eppure ha insistito perché l’accettassimo. La sua anima era nera, Tomis. Viveva solo per se stessa. È giunta a Jorslem per essere purificata, e adesso è purificata, e conosce la pace della Volontà. L’amavi?

— Mai. Nemmeno per un minuto.

— E allora cos’hai perso?

— Una frazione del mio passato, forse. — Portai di nuovo l’occhio al cannocchiale e scrutai Olmayne, adesso innocente, restituita alla verginità, asessuata, purificata. In pace con la Volontà. Frugai il suo viso stranamente alterato, ma così familiare, per comprendere i sogni che stava vivendo. Aveva capito cosa le stava capitando, mentre precipitava senza speranza verso la gioventù più estrema? Aveva gridato di paura e impotenza quando s’era accorta che la vita l’abbandonava? C’era stata un’ultima fiammata della vecchia, orgogliosa Olmayne, prima di scivolare in un’innocenza coatta? La bimba nel serbatoio sorrideva. Il corpicino sottile si distese, poi si raccolse ancor più rigidamente in posizione fetale. Olmayne era in pace con la Volontà. D’improvviso, quasi Talmit avesse sparso nell’aria un secondo specchio, riuscii a guardare nel mio nuovo Io, e vidi cosa avevano fatto per me, e compresi che mi avevano concesso un’altra vita a condizione di saperla usare meglio della prima, e mi sentii molto umile, e mi disposi a servire la Volontà, e mi trovai soffocato da una gioia che m’invadeva con onde gigantesche, come le acque inquiete dell’Oceano Terrestre, e dissi addio a Olmayne, e chiesi a Talmit di portarmi via.

25

E Avluela venne a trovarmi nella mia stanza nella casa del rinnovamento, ed eravamo entrambi spaventati quando c’incontrammo. La giacchetta che indossava lasciava scoperte le ali chiuse: sembravano assolutamente prive di controllo, fluttuavano nervose, accennavano ad aprirsi un poco, e le loro punte delicate splendevano d’improvvisi, veloci bagliori. I suoi occhi erano grandi e solenni; il suo viso pareva più sottile e affilato che mai. Per molto tempo restammo a fissarci reciprocamente in silenzio; la mia pelle si fece calda, la vista mi si confuse; sentivo esplodere dentro di me forze che mi erano ignote da decenni, e ne avevo paura nel momento stesso in cui le desideravo.

— Tomis? — chiese finalmente lei, e io annuii.

Mi toccò le spalle, le braccia, le labbra. E io posai le dita sui suoi polsi, sui suoi fianchi, e poi, esitante, sul gonfiore morbido dei suoi seni.

Come due uomini improvvisamente ciechi, ci riconoscemmo al tatto. Eravamo estranei. Quella vecchia, stanca Vedetta che lei aveva conosciuto e forse amato era scomparsa, allontanata per almeno altri cinquant’anni o forse più, e al suo posto c’era qualcuno che aveva subito una misteriosa trasformazione, uno sconosciuto, una persona mai incontrata. Per lei la vecchia Vedetta era stata una specie di padre; cosa poteva mai essere il giovane Tomis, l’uomo senza Corporazione? E cos’era lei per me, se non potevo più considerarla una figlia? Nemmeno io mi conoscevo più: la mia pelle liscia, soda, mi era estranea. Ero perplesso e deliziato degli umori che ora mi scorrevano nelle vene, dei tremori affannati che avevo quasi dimenticato.

— I tuoi occhi sono gli stessi — disse lei. — Ti riconoscerei sempre dagli occhi.

— Cosa hai fatto in tutti questi mesi, Avluela?

— Ho volato ogni notte. Sono giunta in Agupt e nell’Afrik Fonda. Poi sono tornata e ho volato fino a Stanbul. Appena cade la sera, mi lancio nell’aria. Lo sai, Tomis, che mi sento davvero viva solo quando sto là in alto?

— Tu sei un’Alata. È nella natura della tua Corporazione provare questi sentimenti.

— Un giorno voleremo fianco a fianco, Tomis.

Quelle parole mi fecero scoppiare in riso. — Le vecchie Cliniche sono chiuse, Avluela. Qualcuno è ancora capace di compiere prodigi qui a Jorslem, ma non possono trasformarmi in un Alato. Con le ali si deve nascere.

— Non c’è bisogno di ali per volare.

— Lo so. Gli invasori si sollevano senza l’aiuto delle ali. Ti ho vista, il giorno dopo la caduta di Roum, tu e Gormon assieme in cielo… — Scossi il capo. — Ma io non sono un invasore.

— Tu volerai con me, Tomis. Saliremo in alto, e non solo quand’è buio, anche se le mie sono soltanto ali della notte. Guizzeremo assieme sotto il bagliore del sole.

Le sue fantasie mi piacquero. La raccolsi tra le mie braccia, e lei era fresca e fragile contro di me, e il mio corpo pulsava di un nuovo calore. Per un po’ non parlammo più di voli, anche se rifiutai di prendere ciò che lei m’offriva in quel momento e mi contentai semplicemente di carezzarla. Non ci si sveglia con un unico sbadiglio.

Più tardi camminammo nei corridoi, sfiorando altre persone appena rinnovate, e raggiungemmo la grande stanza centrale dal cui soffitto entrava il pallido sole invernale, e ci studiammo l’un l’altra a quella luce incerta, approssimativa, e camminammo, e parlammo di nuovo. Mi appoggiavo leggermente al suo braccio, perché ancora non ero padrone assoluto delle mie forze, e così, in un certo senso, era come in passato, la ragazza che aiutava il vecchio rudere a destreggiarsi. Quando mi riportò nella stanza le chiesi: Prima del rinnovamento, mi hai parlato di una nuova Corporazione di Redentori. Io…

— Avremo tempo di parlarne — disse lei, dispiaciuta.

Nella mia stanza ci abbracciammo, e d’improvviso mi sentii invadere da tutto il fuoco della giovinezza rinnovata, ed ebbi paura di distruggere il suo corpo fresco, minuto. Ma è un fuoco che non distrugge: accende anche gli altri della stessa fiamma. Nell’estasi le sue ali si spiegarono, finché anch’io fui avvolto dal loro morbido abbraccio. E mentre mi arrendevo alla violenza della gioia, seppi che non avevo più bisogno di appoggiarmi al suo braccio.

Cessammo di essere estranei; cessammo di provare paura l’uno per l’altra. Lei venne da me ogni giorno, all’ora degli esercizi fisici, e io camminai con lei, raggiungendo passo dopo passo la sua stessa scioltezza. E il fuoco brillò per noi ancora più alto e fulgido.

Anche Talmit era spesso con me. Mi insegnò l’arte di usare il corpo rinnovato, e mi aiutò a tornare giovane col massimo successo. Respinsi il suo invito di vedere ancora una volta Olmayne. Un giorno poi mi disse che la retrocessione della mia compagna era giunta al termine. Non provai dispiacere, solo un momentaneo, strano senso di vuoto che passò subito.

— Presto lascerai questo luogo — mi disse il Rinnovatore. — Sei pronto?

— Credo di sì.

— Hai pensato a cosa intendi fare?

— Debbo cercare una nuova Corporazione, lo so.

— Molte Corporazioni vorrebbero averti, Tomis. Ma tu quale vuoi?

— La Corporazione che mi consenta di essere più utile all’umanità — risposi. — Debbo una vita alla Volontà.

Talmit chiese: — La ragazza Alata ti ha parlato delle possibilità che ti si presentano?

— Ha accennato a una Corporazione appena fondata.

— Ti ha detto come si chiama?

— La Corporazione dei Redentori.

— E cosa ne sai?

— Ben poco — risposi.

— Vuoi saperne di più?

— Se ci sono altre cose da sapere.

— Io faccio parte della Corporazione dei Redentori — disse Talmit. — E anche Avluela.

— Ma avete già una Corporazione! Com’è possibile appartenere a più d’una? Soltanto i Dominatori avevano questa libertà, e essi…

— Tomis, la Corporazione dei Redentori accetta membri da tutte le altre Corporazioni. È la Corporazione suprema, come lo fu la Corporazione dei Dominatori. Appartengono ai suoi ranghi Ricordatori e Scribi, Classificatori, Servitori, Alati, Latifondisti, Sonnambuli, Chirurghi, Clown, Mercanti, Venditori. Ci sono anche Diversi, e…

Diversi? — boccheggiai. — Ma sono fuori d’ogni Corporazione, per legge! Com’è possibile che una Corporazione accetti un Diverso?

— Questa è la Corporazione dei Redentori. Anche i Diversi possono ottenere la redenzione, Tomis.

Umiliato, ammisi: — Anche i Diversi, sì. Ma com’è strano immaginare una Corporazione del genere!

— Spregeresti una Corporazione che accetta i Diversi?

— Trovo difficile comprenderla.

— Potrai capire a tempo debito.

— E quando sarà il tempo debito?

— Il giorno che uscirai di qui — mi rispose Talmit.

Quel giorno arrivò in fretta. Avluela venne a prendermi. Uscii fuori, ancora un po’ traballante, nella primavera di Jorslem, e completai il rituale del rinnovamento. Talmit le aveva dato istruzioni per guidarmi. Mi condusse in tutti i luoghi sacri della città, perché potessi venerare ogni singolo tempio. M’inginocchiai davanti al muro degli Ebarii e alla cupola dorata dei Mislami; poi traversai la parte bassa della città, il mercato, e giunsi al grigio, oscuro, mal strutturato edificio che copre il punto dove si dice sia morto il dio dei Cristiani; poi mi recai alla fonte della sapienza e alla fontana della Volontà, e da lì alla casa madre della Corporazione dei Pellegrini per rendere la maschera e il saio e la pietra di stella, e quindi alle mura della Città Vecchia. A ognuna di queste soste mi offrii alla Volontà con le parole che da molto attendevo di pronunciare. Pellegrini e normali cittadini di Jorslem si riunivano a rispettosa distanza da me: sapevano che ero stato rinnovato da poco, e speravano che qualche emanazione del mio nuovo corpo giovane potesse loro portare fortuna. Finalmente i miei obblighi furono compiuti. Ero un uomo libero, in piena salute, in grado di scegliere il tipo di vita che desideravo condurre. Avluela mi chiese: — Adesso verrai con me dai Redentori?

— Dove li troveremo? A Jorslem?

— A Jorslem, sì. Tra un’ora ci sarà una riunione per darti il benvenuto fra noi.

Estrasse dalla tunica qualcosa di piccolo e brillante, che con vivo stupore riconobbi per una pietra di stella. — Cosa fai con quella pietra? — le chiesi. — Solo i Pellegrini…

— Metti la tua mano sulla mia — disse lei, tendendo il pugno che stringeva la pietra di stella.

Obbedii. Per un attimo il suo visetto magro si tese nello sforzo della concentrazione. Poi Avluela si rilassò, e ripose la pietra di stella.

— Avluela, cosa?…

— Un segnale alla Corporazione — rispose gentilmente. — Li ho avvisati di radunarsi perché stiamo per arrivare.

— Come hai avuto quella pietra?

— Vieni con me — mi disse. — Oh, Tomis, se solo potessimo volare! Ma non è lontano. Ci incontriamo quasi all’ombra della casa del rinnovamento. Vieni, Tomis. Vieni!

26

Non c’era luce, nella stanza. Avluela mi guidò nell’oscurità del sotterraneo: mi disse che eravamo giunti alla Casa Madre dei Redentori e mi lasciò solo. — Non muoverti — mi avvisò.

Intorno a me, nella stanza, avvertivo la presenza di altri uomini. Ma non vedevo nulla e non udivo nulla.

Spinsero qualcosa verso di me.

Avluela disse: — Tendi la mano. Cosa senti?

Incontrai uno stipo metallico, quadrato, che forse s’appoggiava a un piedistallo sempre di metallo. Lungo una delle facce erano disposti quadranti e leve a me molto familiari. Le mie mani brancolanti trovarono le maniglie che sporgevano dalla sommità di quel piccolo stipo. D’improvviso era come se il mio rinnovamento non fosse avvenuto, e anche la conquista della Terra fosse cancellata: ero di nuovo una Vedetta, perche quello era senza dubbio un equipaggiamento per la Vigilanza!

Allora dissi: — Non è lo stesso stipo che possedevo una volta. Ma non è molto diverso.

— Hai scordato le tue capacità, Tomis?

— Penso di averle in me anche adesso.

— Usa la macchina, allora — disse Avluela. — Esegui ancora una volta la Vigilanza, e dimmi ciò che vedi.

Felice, tornai con la massima facilità alle vecchie abitudini. Eseguii in fretta i rituali preliminari, liberando la mia mente da dubbi e emozioni. Era straordinaria la semplicità con cui riuscivo a entrare nello spirito della Vigilanza; non avevo più provato dalla notte in cui la Terra era caduta, eppure mi sembrava di essere ancora più veloce dei vecchi giorni.

Adesso afferravo le maniglie: com’erano strane! Non terminavano con le impugnature cui ero abituato: qualcosa di freddo e duro si trovava sulla sommità di ogni maniglia. Una gemma di qualche tipo, forte. Magari una pietra di stella, compresi. Le mie mani si chiusero sulle due superfici gelide. Provai un momento d’apprensione, addirittura di paura febbrile. Poi tornai alla necessaria tranquillità, e la mia anima si proiettò nello strumento che avevo davanti: cominciai a Vigilare.

In questa Vigilanza non mi alzai fino alle stelle, come nei vecchi giorni. Percepivo qualcosa, ma le mie percezioni erano limitate alla stanza in cui mi trovavo. Gli occhi chiusi, il corpo immobile nella trance, mi tesi in avanti e raggiunsi per prima Avluela. Era vicina a me, quasi sopra di me. La vidi chiaramente. Sorrise, annuì; i suoi occhi erano di fuoco.

“Ti amo.”

“Sì, Tomis. E resteremo insieme per sempre.”

“Non mi ero mai sentito così vicino a un’altra persona.”

“In questa Corporazione siamo tutti vicini, in ogni momento. Siamo i Redentori, Tomis. Siamo diversi. La Terra non ha mai visto niente di simile.”

“In che modo ti parlo, Avluela?”

“È la tua mente che parla alla mia attraverso la macchina. E un giorno la macchina non sarà più necessaria.”

“E allora voleremo insieme?”

“Molto prima di allora, Tomis.”

Le pietre di stella si scaldarono nelle mie mani. Adesso vedevo benissimo la macchina: uno stipo da Vedetta, ma con qualche modifica, tra cui le pietre di stella sulle maniglie. E guardai oltre Avluela e incontrai altri visi, visi che conoscevo. Sulla sinistra c’era l’austera figura del Rinnovatore Talmit. Al suo fianco c’era il Chirurgo con cui avevo viaggiato fino a Jorslem, e il Diverso Bernalt gli era a lato, e adesso sapevo qual era il motivo che aveva spinto alla città santa quegli uomini di Nayrob. Gli altri non li riconobbi; ma c’erano due Alati, e un Ricordatore che stringeva la sua sciarpa, e una donna della Corporazione dei Servitori, e altri. E io li vedevo per il chiarore di una luce interiore, perché la stanza era buia come quando ero entrato. Non solo li vidi ma li toccai, la mia mente entrò nelle loro.

La prima mente che incontrai fu quella di Bernalt. La raggiunsi facilmente, anche se con una punta di timore; mi tirai indietro, la raggiunsi di nuovo. Egli mi salutò e mi diede il benvenuto. Allora compresi che solo se fossi riuscito a considerare mio fratello un Diverso avrei potuto ottenere la redenzione desiderata, e la Terra con me. Finché non fossimo stati davvero un solo popolo, infatti, come avremmo potuto meritarci la fine del castigo?

Cercai di entrare nella mente di Bernalt, ma avevo ancora timore. Come potevo nascondergli quei pregiudizi, quel meschino disprezzo, quei riflessi condizionati che si scatenano inevitabilmente quando pensiamo a un Diverso?

“Non nascondere nulla” mi consigliò lui. “Ciò che tu senti non è un segreto per me. Lascialo andare ed entra nei miei pensieri.”

Lottai. Respinsi i demoni. Evocai il ricordo di quel momento davanti al tempio dei Diversi, dopo che Bernalt ci aveva salvati, quando gli avevo proposto di viaggiare con noi. Cosa avevo provato per lui, allora? Lo avevo considerato, almeno per un istante, come un fratello?

Amplificai quel momento di gratitudine e amicizia. Lo lasciai crescere e risplendere, ed esso cancellò le incrostazioni della stizza e dell’inutile sdegno; scoprii l’animo umano sotto la strana superficie del Diverso, e attraversai quella superficie e trovai finalmente il sentiero della redenzione. Bernalt mi accolse nella sua mente.

Mi unii a lui, ed egli mi arruolò nella sua Corporazione. Adesso ero uno dei Redentori.

Nella mia mente scivolò una voce, e non sapevo se udivo il rombo possente di Talmit, o il secco tono ironico del Chirurgo, o il mormorio controllato di Bernalt, o i dolci sussurri di Avluela, perché quella era contemporaneamente la voce di tutti loro e di altri ancora, e mi diceva: “Quando l’intera umanità sarà arruolata nella nostra Corporazione, noi non saremo più un popolo conquistato. Quando ognuno di noi sarà parte di tutti gli altri, le nostre sofferenze termineranno. Non abbiamo bisogno di combattere i nostri invasori perché li assorbiremo, una volta che saremo tutti Redenti. Entra in noi, Tomis, che fosti la Vedetta Wuellig”.

Ed entrai.

E divenni il Chirurgo e l’Alata e il Rinnovatore e il Diverso e il Servitore e tutti gli altri. E loro divennero me. E finché le mie mani strinsero le pietre di stella, fummo un’unica anima e un’unica mente. E quella non era la fusione della comunione, quando il Pellegrino s’immerge anonimamente nella Volontà, ma piuttosto l’unione di uno spirito con altri spiriti; l’autonomia individuale non andava persa, ma si fondeva con un più vasto senso di reciproca dipendenza. Era l’acuta percezione che si ottiene Vigilando, unita alla fusione con un’entità superiore che si prova durante la comunione, e sapevo che era qualcosa di totalmente nuovo per la Terra; non la semplice fondazione di una nuova Corporazione ma l’inizio di un nuovo ciclo dell’esistenza umana, la nascita del Quarto Ciclo su questo pianeta sconfitto.

La voce disse: “Tomis, per primi Redimeremo coloro che ne hanno più bisogno. Andremo in Agupt, nel deserto dove si nascondono quei poveri Diversi che adorano un antico edificio, e li prenderemo in noi e li renderemo di nuovo puri. Poi ci sposteremo a ovest, in un desolato villaggio che è preda del mal cristallino, e toccheremo le anime dei suoi abitanti e li libereremo dal contagio, e la cristallizzazione cesserà e i loro corpi torneranno sani. E andremo oltre Agupt, in ogni terra del mondo, e troveremo coloro che sono senza Corporazione, e coloro che sono senza speranze, e coloro che sono senza domani, e restituiremo a tutti una vita e uno scopo. E verrà il tempo che l’intera Terra sarà Redenta”.

Mi donarono la visione di un pianeta trasformato, e dei conquistatori dal viso arrogante che accettavano serenamente la nostra superiorità e che ci chiedevano di essere incorporati in quella nuova cosa che era fiorita nel bel mezzo della loro invasione. Mi mostrarono una Terra purgata dei suoi antichi peccati.

Poi sentii che era tempo di togliere le mani dalla macchina che ancora stringevo, e le tolsi.

La visione scomparve. Il bagliore svanì. Ma non ero più solo nel mio cervello, perché un contatto restava, e la stanza smise di affondare nel buio.

— Com’è successo? — chiesi. — Quand’è cominciato?

— Nei giorni dopo la conquista — rispose Talmit — ci chiedemmo perché eravamo caduti con tanta facilità, e come potevamo sollevarci al di sopra di ciò che eravamo sempre stati. Comprendemmo che le nostre Corporazioni non bastavano a strutturare una vita, che la strada per la redenzione era un’unione reciproca più salda. Avevamo le pietre di stella; avevamo gli strumenti della Veglia; occorreva solo fonderli insieme.

Il Chirurgo disse: — Tu sei importante per noi, Tomis, perché sai come proiettare all’esterno la mente. Abbiamo bisogno di Vedette. Sono loro il nucleo della nostra Corporazione. Una volta la tua anima frugava le stelle per scoprire i nemici dell’umanità; adesso frugherà la Terra per unire l’uomo all’uomo.

Avluela disse: — Mi aiuterai a volare, Tomis, anche di giorno. E volerai al mio fianco.

— Quando partirai? — le chiesi.

— Adesso — rispose lei. — Andrò in Agupt, al tempio dei Diversi, per offrire loro quanto abbiamo da offrire. E tutti noi ci uniremo per dare forza alle mie ali, e quella forza troverà in te il suo fulcro, Tomis. — Le sue mani sfiorarono le mie. Le sue labbra si posarono sulle mie. — La vita della Terra ricomincia, adesso, quest’anno, questo nuovo ciclo. Oh, Tomis, siamo tutti rinati!

Rimasi solo nella stanza. Gli altri scomparvero. Avluela uscì fuori, nella strada. Portai le mani alle pietre di stella e vidi chiaramente la mia piccola Alata, come se si fosse trovata lì al mio fianco. Si stava preparando per il volo. Per prima cosa si tolse i vestiti, e il suo corpo nudo luccicò nel sole del pomeriggio. Quel corpo minuto sembrava delicato fino all’impossibile; pensai che un vento troppo forte l’avrebbe distrutta. Poi s’inginocchiò, piegò il capo, eseguì i rituali. Parlava tra sé ma udivo le sue parole, le parole che gli Alati dicono quando si apprestano a lasciare il suolo. Tutte le Corporazioni si uniscono, in questa nuova Corporazione; non abbiamo segreti l’uno per l’altro; non esistono misteri. E quando lei invocò il favore della Volontà e la benedizione per tutta la sua razza, anch’io mi unii alle sue preghiere.

Poi Avluela si alzò e spiegò le ali. Qualche passante la fissò con aria strana, non perché fosse insolito vedere un’Alata nuda nelle strade di Jorslem, ma perché la luce del sole era troppo forte, e le sue ali trasparenti, striate di colori lucidi, erano senza dubbio ali della notte, incapaci di resistere alla pressione del vento solare.

“Ti amo” le dicemmo, e le nostre mani corsero veloci sulla sua pelle di seta in una breve carezza.

Le sue narici fremettero di gioia. I suoi piccoli seni si scossero. Le sue ali erano adesso completamente spiegate, e la luce del sole ne traeva bagliori stupendi.

“Adesso voleremo in Agupt” mormorò lei “a Redimere i Diversi e renderli parte di noi. Tomis, verrai con me?”

“Sarò con te” rispondemmo, e afferrai con forza le pietre di stella e mi piegai sullo stipo degli strumenti, nella stanza buia sepolta sotto la strada dove lei si trovava. “Voleremo insieme, Avluela.”

“Su, allora” disse lei, e noi dicemmo: “Su!”

Le sue ali sbatterono, curvandosi per cogliere il vento, e la sentimmo lottare nei primi istanti, e le donammo la forza di cui aveva bisogno, e lei la prese da me che ero il fulcro per gli impulsi di tutti gli altri, e ci alzammo nel cielo. Le guglie e le mura di Jorslem la Dorata si fecero minuscole, e la città divenne un puntino rosa nel verde delle montagne, e le ali frenetiche di Avluela la spinsero sempre più in fretta verso ovest, verso il sole al tramonto, verso la terra di Agupt. La sua estasi si comunicò a tutti noi. “Vedi, Tomis, com’è bello qui in alto, al di sopra di tutto? Lo senti?”

“Lo sento” mormorai. “Il vento fresco contro la pelle nuda, il vento nei capelli… Volteggiamo sulle correnti, navighiamo, voliamo. Avluela, voliamo!”

Verso Agupt. Verso il tramonto.

Guardammo in basso: sotto di noi c’era il lucido Lago Medit. In distanza, da qualche parte, il Ponte di Terra. A nord, l’Eyrop. A sud, l’Afrik. Molto lontano, oltre l’Oceano Terrestre, giaceva la mia terra natale. Più tardi vi sarei tornato, volando verso ovest con Avluela, portando la buona notizia della trasformazione della Terra.

Da quell’altezza, non si vedeva nemmeno che il nostro mondo era stato conquistato. Si vedeva solo la magnificenza dei colori della terra e del mare, e non i punti di controllo degli invasori.

Quei punti di controllo non sarebbero durati a lungo. Avremmo conquistato i nostri conquistatori, non con le armi, ma con l’amore; e quando la Redenzione della Terra avesse raggiunto tutti, avremmo accolto in noi anche le creature che erano state padrone del nostro pianeta.

“Sapevo che un giorno avresti volato al mio fianco, Tomis” disse Avluela.

Dalla stanza buia mandai nuove ondate di forza alle sue ali.

Lei stava veleggiando sopra il deserto. Presto sarebbe apparsa l’antica Clinica, il tempio dei Diversi. Mi addolorava che fossimo costretti a scendere. Avrei voluto poter volare con Avluela per l’eternità.

“Voleremo, Tomis, voleremo!” mi disse lei. “Ormai nulla può separarci. Tu lo credi, non è vero, Tomis?”

“Sì” rispondemmo “lo credo.” E la guidammo a terra, nel cielo che s’andava oscurando.


FINE
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