PARTE SECONDA Nel Collegio dei Ricordatori

9

Viaggiare con un Principe sconfitto non è facile. I suoi occhi se n’erano andati, ma non il suo orgoglio; l’accecamento non gli aveva affatto insegnato l’umiltà. Egli indossava abiti e maschera di Pellegrino, ma il suo animo albergava ben poca cortesia e nessuna pietà. Dietro quella maschera sapeva di essere il Principe di Roum.

Ora io costituivo l’intera sua corte, mentre si percorreva insieme la via per Perris nella precoce primavera. Lo guidavo lungo le strade giuste; lo divertivo a comando con racconti dei miei vagabondaggi; lo assistevo durante i periodi di profonda amarezza. In cambio di ciò ricevevo ben poco, all’infuori della sicurezza di poter mangiare con regolarità. Nessuno nega cibo a un Pellegrino, e in ciascun villaggio incontrato sul cammino facevamo sosta alle taverne, dove lui veniva sfamato e dove io pure, come suo compagno, ricevevo un pasto. Una volta, agli inizi del nostro viaggio, commise l’imprudenza di rivolgersi altezzosamente al locandiere: — Bada a nutrire anche il mio servo! — Il Principe accecato non poté vedere lo sguardo di stupita incredulità (perché, che bisogno aveva un Pellegrino di un servo?) ma io sorrisi al locandiere e gli strizzai l’occhio battendomi un dito sulla fronte; l’uomo comprese e ci servì senza discutere. In seguito spiegai al Principe l’errore, e da allora in poi egli parlò di me come del suo “compagno”. Eppure sapevo che per lui ero soltanto un servo.

Il clima era dolce. L’Eyrop si riscaldava col passare dei giorni. Salici sottili e pioppi rinverdivano ai lati della strada, benché, per la maggior parte, la via che faceva capo a Roum fosse costeggiata da alberi stellari, importati a caro prezzo durante i giorni spensierati del Secondo Ciclo; le loro foglie azzurre e lanceolate avevano resistito bene al debole inverno eyropeo. E ora anche gli uccelli tornavano dalla migrazione stagionale al di là del mare, in Afrik. Si rincorrevano veloci per il cielo, cantando, discutendo tra loro il mutamento avvenuto fra i padroni del mondo. — Mi scherniscono — disse il Principe un giorno, all’alba. — Mi mandano i loro canti e mi sfidano a vedere il loro splendore!

Oh, le sue parole erano amare, e a buon motivo. Lui che aveva posseduto tanto, e perso ogni cosa, aveva molto di cui lamentarsi. Per me, la sconfitta della Terra significava soltanto la fine di certe abitudini. Per il resto tutto era simile a prima: non avevo più bisogno di continuare la Vigilanza, ma vagabondavo ancora sulla faccia della Terra, solo anche quando, come ora, avevo un compagno.

Mi chiedevo se il Principe sapesse perché era stato accecato. Mi chiedevo se Gormon, nel momento del trionfo, gli avesse spiegato che quel che gli era costato gli occhi era una questione tanto elementare come la gelosia per una donna.

— Tu ti sei preso Avluela — forse gli aveva detto Gormon. — Hai veduto una piccola Alata e hai pensato che potevi trarne piacere. E le hai detto: “Su, ragazza, vieni nel mio letto”. Senza pensare a lei come a una persona. Senza pensare che lei poteva preferire un altro. Pensando soltanto come il Principe di Roum poteva pensare… con imperiosità. Ecco, dunque, Principe!

…e il rapido scatto di quelle lunghe dita, forcute e appuntite…

Ma non osavo interrogarlo. Tanto era il timore reverenziale che ancora rimaneva in me per quel monarca sconfitto. Penetrare nel suo intimo, intavolare con lui una conversazione sulle sue disgrazie come se fosse stato un normale compagno di viaggio… no, non potevo. Parlavo quando lui mi parlava. Offrivo la mia conversazione a comando. Negli altri momenti me ne restavo in silenzio, come ogni persona comune in presenza di un sovrano.

Pure, c’era ogni giorno qualcosa che veniva a ricordarci che il Principe di Roum non era più un sovrano.

Sopra di noi passavano gli invasori, a volte su zattere gravitazionali o con altri mezzi, a volte librandosi per forza propria. Il traffico era intenso. Stavano facendo l’inventario del loro mondo. Le loro ombre passavano su di noi come brevissime eclissi, e io alzavo gh occhi per vedere i nostri nuovi padroni, e, stranamente, non provavo ira verso gli invasori, soltanto un’ondata di sollievo all’idea che la lunga vigilia della Terra fosse finita. Per il Principe era diverso. Sembrava avvertire ogni volta il loro passaggio sopra di noi, e serrava allora i pugni, aggrottando le ciglia invisibili e mormorando oscure maledizioni. Forse i suoi nervi ottici registravano ancora in qualche modo il movimento delle ombre? Oppure i sensi che gli rimanevano s’erano talmente acuiti, con la perdita della vista, da permettergli di percepire il debole ronzio di una zattera o l’odore della pelle degli invasori nel cielo? Non glielo chiesi. Non gli chiedevo quasi nulla.

A volte, di notte, quando credeva che io dormissi, il Principe singhiozzava. In quei momenti avevo pietà di lui. In fondo era così giovane, per perdere tutto ciò che aveva posseduto. Imparai in quelle ore di tenebra che perfino i singhiozzi di un Principe non sono simili a quelli di una persona comune. Singhiozzava con tono di sfida, irosamente, con rabbia. Ma singhiozzava.

Per buona parte del tempo pareva stoico, rassegnato alle proprie perdite. Al mio fianco il suo incedere era vivace e sicuro, un passo dietro l’altro, e ogni passo ci allontanava sempre più dalla grande città di Roum, avvicinandoci a Perris. Di tanto in tanto, però, mi pareva di poter scorgere oltre la griglia di bronzo della maschera la sua anima di ghiaccio. La sua rabbia repressa si rivelava con sfoghi ben miseri. Mi scherniva per la mia età, per la mia casta inferiore, per l’inutilità della mia esistenza ora che l’invasione per la quale avevo tanto Vigilato era venuta. Giocava crudelmente con me.

— Dimmi il tuo nome, Vedetta!

— È proibito, Maestà.

— Le vecchie leggi sono ora abrogate. Avanti, vecchio, dobbiamo viaggiare ancora per mesi insieme. Devo continuare a chiamarti Vedetta per tutto questo tempo?

— È la regola della mia Corporazione.

— La regola della mia — proruppe lui — è di dare ordini e di far sì che vengano obbediti. Il tuo nome!

— Neppure la Corporazione dei Dominatori può conoscere il nome di una Vedetta senza un giusto motivo e un ordine del nostro Maestro.

Il Principe sbuffò. — Che razza di iena sei, a sfidarmi ora che sono in queste condizioni! Se fossimo stati nel mio palazzo, non avresti mai osato!

— Nel vostro palazzo, Maestà, non mi avreste mai posto una richiesta così ingiusta dinanzi alla vostra corte. Anche i Dominatori hanno dei doveri. E uno di questi consiste nel rispettare le consegne delle Corporazioni inferiori.

— Mi stai facendo una paternale! — disse il Principe. Con fare irritato si lasciò cadere a terra accanto alla strada. Allungandosi sul pendio erboso, toccò un albero stellare e ne strappò una manciata di foglie; poi le serrò nella mano, in modo così rabbioso che, certo, si conficcarono dolorosamente nel suo palmo. Una pesante carromobile ci passò accanto, la prima che vedevamo quella mattina sulla strada altrimenti deserta. Dentro c’erano degli invasori: alcuni di loro ci fecero dei cenni di saluto. Dopo parecchi minuti il Principe disse con voce più calma, quasi carezzevole: — Il mio nome è Enric. Ora dimmi il tuo.

— Vi prego di non insistere, Maestà.

— Ma ora tu sai il mio nome! Anche a me era proibito fartelo conoscere!

— Io non ve l’ho chiesto — dissi con fermezza.

Alla fine non gli dissi il mio nome. Rifiutare a un Principe senza potere una simile informazione era una ben misera vittoria, ma egli me la fece scontare in mille piccoli modi. Prese a tormentarmi, ad assillarmi, a stuzzicarmi, a maledirmi e a rimproverarmi. Parlò con disprezzo della mia Corporazione. Pretese da me meschini servigi. Lubrificai la sua maschera di metallo; sparsi unguento nelle sue orbite vuote; feci tante altre cose troppo umilianti perché io le ricordi qui. E in questo modo proseguimmo sulla strada di Perris, il vecchio vuoto e il giovane svuotato, colmi di odio l’uno verso l’altro eppure legati reciprocamente dalle necessità e dai doveri dei viandanti.

Fu un periodo difficile. Dovevo far fronte al suo umore mutevole, che si innalzava a vertici cosmici durante i suoi piani di riconquista della Terra ora asservita, e che cadeva in abissi di disperazione nell’accorgersi che l’asservimento era definitivo. Dovevo proteggerlo dalla sua stessa temerarietà nei villaggi, dove spesso si comportava come se fosse ancora il Principe di Roum e diceva a tutti di far questo e quello, giungendo fino a schiaffeggiare qualcuno, cosa ben poco consona a un sant’uomo. E, peggio ancora, dovevo andare incontro alle sue brame, comprandogli i favori di donne che si accostavano a lui nel buio, ignare di avere a che fare con qualcuno che affermava di essere un Pellegrino. Come Pellegrino era un impostore, poiché non portava la pietra di stella con la quale i Pellegrini entrano in comunione con la Volontà. In un modo o nell’altro riuscii a fargli superare tutte le sue crisi, anche quando incontrammo sulla nostra strada un Pellegrino, uno vero. Era un vecchio formidabile e cavilioso, con la testa piena di sofisticherie teologiche. — Fermati a discutere con me l’immanenza della Volontà — disse al Principe, e il Principe, la cui pazienza quel pomeriggio era molto limitata, rispose con una sconcezza. Colpii col piede lo stinco principesco, in modo clandestino, e dissi al Pellegrino stupefatto: — Il nostro amico non sta molto bene, oggi. La scorsa notte è entrato in comunione con la Volontà e ha ricevuto una rivelazione che gli ha sconvolto la mente. Vi prego perciò di lasciarci proseguire e di non parlare con lui di sante cose finché non si sarà ristabilito.

Con tali improvvisazioni riuscii a portare avanti il nostro viaggio.

Mentre la temperatura si faceva più dolce, anche l’atteggiamento del Principe si veniva maturando. Forse si stava lentamente riconciliando con la sua catastrofe, o magari, nella prigione della sua mente abbuiata, si stava insegnando nuove tattiche per sopperire alle diversità della sua nuova esistenza. Parlava quasi con indolenza di se stesso, della sua caduta e della sua umiliazione. Parlava del potere che era stato suo con termini che lasciavano chiaramente capire come non avesse nessuna illusione di riconquistarlo. Parlava della sua ricchezza, delle sue donne e dei gioielli, delle macchine strane e dei suoi Musici, Servitori, Diversi; dei Padroni e perfino degli altri Dominatori che si erano inginocchiati dinanzi a lui. Non potrei dire che a tratti riuscissi ad amarlo, ma almeno in quelle occasioni riconoscevo un essere umano sofferente dietro la sua maschera impassibile.

Perfino lui riconobbe in me un essere umano. So che dovette costargli molto.

Disse: — Il vero lato negativo del potere, Vedetta, è che ti allontana dalle persone. Le persone diventano cose. Considera il tuo caso. Per me, tu non eri altro che una macchina che se ne andava in giro Vigilando contro gli invasori. Immagino che tu avessi sogni, ambizioni, collere e tutto il resto, ma io ti vedevo come un vecchio rinsecchito e privo di una vita indipendente al di fuori degli scopi della tua Corporazione. Ora vedo molte più cose, pur non vedendone più nessuna.

— Cosa vedete?

— Un tempo eri giovane, Vedetta. Avevi una città che amavi. Una famiglia. Una ragazza, forse. Ti sei scelto, oppure hanno scelto per te, una Corporazione, hai iniziato il tuo apprendistato, hai lottato, la testa ti doleva, il ventre ti si stringeva, c’erano momenti oscuri nei quali ti chiedevi se tutto ciò avesse un senso, uno scopo. E intanto ci vedevi passare accanto a te, noi Padroni, o Dominatori, ed eravamo come comete che ti sfrecciavano accanto. Eppure eccoci qui riuniti, vomitati dalle mareggiate sulla strada per Perris. Chi di noi due è più felice, ora?

— Io sono ormai al di là della felicità e del dolore — dissi.

— Davvero? È questa la verità? O è piuttosto una frase fatta dietro cui ti nascondi? Dimmi, Vedetta: so che la tua Corporazione ti proibisce di sposarti, ma tu hai mai amato?

— Qualche volta.

— E ora sei al di là anche di questo?

— Sono vecchio — dissi in tono evasivo.

— Ma potresti amare. Potresti amare. Ora sei sciolto dai tuoi voti, non è vero? Potresti sposarti.

Scoppiai a ridere. — E chi mi vorrebbe?

— Non parlare così. Non sei poi tanto vecchio. Hai della forza. Hai visto il mondo, e lo capisci. Ma come, a Perris potresti trovare qualche donna che… — Fece una pausa. — Non sei mai stato tentato, quando ancora dovevi osservare i tuoi voti?

Proprio in quell’istante un’Alata passò sopra di noi. Era di mezza età, e procedeva a fatica nel cielo poiché sulle sue ali gravava ancora parte della luce solare. Provai una fitta, e avrei voluto dire al Principe: “Sì, sì, sono stato tentato, c’era una piccola Alata non molto tempo fa, una ragazza, una bimba, Avluela: e a modo mio l’ho amata, benché non l’abbia mai sfiorata: e l’amo ancora”.

Ma non dissi nulla al Principe Enric.

Osservai, invece, quall’Alata nel cielo, più libera di me in virtù delle sue ali, e nel tepore della sera primaverile sentii il gelo della desolazione che mi avvolgeva.

— Perris è lontana? — domandò il Principe.

— Continueremo a camminare, e un giorno vi giungeremo.

— E poi?

— Per me l’apprendistato nella Corporazione dei Ricordatori, e una nuova vita. E per voi?

— Spero di trovarvi amici — disse lui.

Continuammo a camminare, lunghe ore ogni giorno. C’erano alcuni che, passandoci vicino, si offrivano di portarci fino alla città, ma noi rifiutavamo perché sapevamo che, nei punti di controllo, gli invasori cercavano i membri della nobiltà ancora liberi, come il Principe. Camminammo in una galleria lunga miglia e miglia, sotto montagne ricoperte di ghiacci e sconvolte da bufere; entrammo in una vasta pianura abitata da contadini; sostammo sulla riva di fiumi in disgelo per dare sollievo ai nostri piedi. L’estate dorata ci avvolse come un’esplosione. Attraversavamo il mondo ma non ne facevamo parte; non udimmo mai notizie della conquista, benché fosse evidente che gli invasori avevano preso possesso di tutto. In piccoli velivoli si libravano ovunque, ispezionando il nostro mondo che adesso era loro.

Obbedivo in ogni modo agli ordini del Principe, anche a quelli più spiacevoli. Tentavo di rendere meno squallida la sua esistenza. Cercavo di dargli ancora la sensazione di essere un sovrano, anche se soltanto il sovrano di una vecchia e inutile Vedetta. E gli insegnai pure il modo migliore per comportarsi come un vero Pellegrino. Da quel poco che conoscevo ripescai per lui gesti, frasi, preghiere. Era evidente che il Principe aveva trascorso ben poco tempo a contatto con la Volontà, quando ancora regnava. Ora egli professava la fede, ma non era sincero: anche quello faceva parte del suo travestimento.

In una città chiamata Dijon, egli mi disse: — Qui acquisterò gli occhi.

Non occhi veri, certo. Il segreto della produzione di protesi simili s’era perso col Secondo Ciclo. Laggiù, su stelle più fortunate, ogni miracolo è disponibile, al suo prezzo, ma la nostra Terra è un mondo dimenticato nelle acque stagnanti dell’universo. Prima della conquista il Principe avrebbe potuto recarsi laggiù per acquistarsi una nuova vista, ma ora il massimo che poteva ottenere era un modo per distinguere il chiaro dallo scuro. Eppure, anche quello gli avrebbe dato un rudimento di vista: ora non aveva che un riverberatore che lo avvertiva degli ostacoli davanti a lui. Come faceva, però, a sapere che a Dijon avrebbe trovato un artigiano dell’abilità necessaria? E come contava di pagare?

Mi disse: — Qui abita il fratello di un mio Scriba. Appartiene alla Corporazione degli Artefici, e spesso ho comprato le sue opere, a Roum. Lui ha gli occhi che cerco.

— E il costo?

— Ho ancora qualche mezzo…

Ci fermammo in un campo di querce da sughero sbocconcellate, e il Principe si slacciò l’abito. Indicandomi un punto sulla coscia, disse: — Ho qui una riserva per le emergenze. Dammi il coltello! — Glielo diedi, e lui lo impugnò e premette il pulsante che faceva scaturire la fredda, sottile lama di luce. Con la mano sinistra si tastò la coscia, cercando il punto esatto; poi, tendendo la pelle con due dita, praticò un’incisione chirurgica lunga cinque centimetri. La carne non sanguinò, né mi parve che egli avvertisse dolore. Guardai meravigliato mentre introduceva le dita nell’incisione e ne allargava le labbra, mettendosi poi a frugarvi dentro come in un sacco. Mi restituì il coltello. Tesori scaturirono dalla sua coscia.

— Bada che nulla vada perduto — mi ordinò.

Sull’erba caddero sette sfavillanti gioielli provenienti da altri mondi, un minuscolo e artistico globo celeste, cinque monete d’oro della Roum Imperiale dei cicli passati, un anello che portava incastonata una fulgida macula di quasi vita, la boccetta di un profumo sconosciuto, vari strumenti musicali in miniatura, scolpiti in legni e metalli preziosi, otto statuette di personaggi dall’aspetto regale, e altre cose. Radunai quelle meraviglie in un mucchietto rilucente.

— Un’ipertasca — spiegò freddamente il Principe — che un abile Chirurgo mi ha inserito nella carne. Prevedendo che, in un momento di crisi, forse sarei stato costretto a lasciare di fretta il palazzo, avevo nascosto qui dentro quanto più potevo; c’è ben altro nel luogo da cui provengono questi oggetti! Su, dimmi cosa ho estratto!

Gli feci un elenco completo. Egli mi ascoltò fino alla fine con aria tesa e concentrata: certo aveva tenuto il conto di ciò che era uscito, e ora metteva alla prova la mia onestà. Quando ebbi terminato, egli annuì, compiaciuto. — Tieni il globo — mi disse — e l’anello, e i due gioielli più luminosi. Nascondili nella tua scarsella. Il resto rimettilo dentro. — Riallargò le labbra dell’incisione, e io ci lasciai cadere, uno alla volta, quei preziosi: là dentro si riunirono a chissà quali altri tesori, fermi in un’altra dimensione la cui unica uscita era chiusa entro la carne del Principe. Poteva essere nascosta nella coscia anche metà del contenuto del palazzo. Infine riaccostò le labbra premendo tra loro, e l’incisione guarì perfettamente, senza lasciare cicatrice, sotto i miei occhi. Si rivestì.

In città individuammo quasi subito la bottega di Bordo l’Artefice. Era un uomo tozzo dal volto lentigginoso, la barba grigia, un tic a un occhio e il naso schiacciato, ma aveva dita delicate quanto quelle di una donna. La sua bottega era un ambiente buio con polverosi scaffali di legno e piccole finestre; la costruzione poteva avere anche diecimila anni. Alcuni oggetti di scelta raffinata erano in mostra. La maggior parte no. Ci osservò con occhi guardinghi, chiaramente sconcertato al vedere che una Vedetta e un Pellegrino si rivolgevano a lui.

A una gomitata del Principe dissi: — Il mio compagno ha bisogno di occhi.

— Ne faccio un tipo, sì. Ma sono cari, e ci vanno mesi per costruirli. Superiori alle possibilità di un Pellegrino.

Deposi un gioiello sul bancone consumato dal tempo. — Abbiamo possibilità.

Scosso, Bordo afferrò il gioiello, lo girò da una parte e dall’altra e vide il fuoco di altri mondi sfavillare nel cuore della pietra.

— Se tornerete al cader delle foglie…

— Non tenete occhi in negozio? — chiesi.

Lui sorrise. — Ne vendo così pochi… E teniamo poco assortimento in negozio.

Misi sul bancone il globo celeste. Bordo lo riconobbe immediatamente come l’opera di un maestro, e spalancò la bocca per la sorpresa. Appoggiò il globo su un palmo e prese a tormentarsi la barba con l’altra mano. Glielo lasciai ammirare quel tanto che bastava perché se ne innamorasse, poi lo ripresi e dissi: — L’autunno è così lontano… Dovremo rivolgerci altrove. A Perris, forse. — Presi per il gomito il Principe e ci avviammo lentamente verso la porta.

— Fermatevi! — gridò Bordo. — Fatemi fare almeno un controllo! Forse posso averne un paio da qualche parte. — E si mise a rovistare furiosamente nelle ipertasche montate sulla parete di fondo.

Fra quanto aveva in negozio c’erano occhi, naturalmente, e io mercanteggiai un poco sul prezzo finché non ci accordammo per il globo, l’anello e un gioiello. Il Principe rimase silenzioso per tutta la transazione. Io richiesi l’installazione immediata e Bordo, annuendo eccitato, chiuse bottega e s’infilò una cuffia pensante, con cui chiamò un Chirurgo dal viso giallastro. In breve cominciarono i preliminari per l’intervento. Il Principe si distese su un pagliericcio in una stanza sterile e accuratamente sigillata. Si tolse il riverberatore e poi la maschera; e quando quei lineamenti affilati furono visibili, Bordo, che era stato alla corte di Roum, grugnì di stupore e fece per dire qualcosa. Il mio piede calò con forza sul suo. Bordo si ringoiò le parole: e il Chirurgo, ignaro, prese tranquillamente a detergere le orbite vuote.

Gli occhi erano sfere grigio perla, più piccole degli occhi veri e interrotte da fessure trasversali. Quali meccanismi contenessero lo ignoro, ma dal fondo si dipartivano sottili collegamenti dorati da allacciare ai nervi ottici. Il Principe dormì durante la prima fase dell’operazione, mentre io stavo di guardia e Bordo prestava assistenza al Chirurgo. Poi fu necessario risvegliarlo. Il suo viso si contorse, ma il dolore venne così rapidamente dominato che Bordo mormorò sottovoce una preghiera, di fronte a tanta forza di volontà.

— Fate luce — disse il Chirurgo.

Bordo avvicinò un globo vagante. Il Principe disse: — Sì, sì, vedo la differenza.

— Dobbiamo controllare. Dobbiamo accomodare — disse il Chirurgo.

Bordo se ne uscì dalla stanza. Lo seguii. L’uomo tremava e il suo volto era verde di paura.

— Ora ci ucciderete? — domandò.

— Certo che no.

— Ho riconosciuto…

— Avete riconosciuto un povero Pellegrino — gli dissi — che è stato toccato da un’orribile sventura nel suo viaggio terreno. Niente di più. Niente d’altro.

Per un po’ esaminai i lavori di Bordo. Poi Chirurgo e paziente emersero. Ora il Principe aveva le sfere perlacee nelle orbite, con un menisco di falsa carne tutt’attorno per fissare la tenuta. Sembrava più una macchina che un uomo con quelle due cose inanimate sotto il ciglio; con le mosse del capo le fessure si allargavano, si stringevano, si allargavano di nuovo, in silenzio, quasi furtivamente. — Osserva — mi disse, e si mise a vagare per la bottega, indicando gli oggetti e perfino chiamandoli con il loro nome. Sapevo che vedeva come attraverso un fitto velo, ma se non altro vedeva, in un certo modo. Si rimise la maschera e al cadere della notte eravamo già fuori Dijon.

Il Principe pareva quasi euforico. Ma ciò che adesso gli riempiva le orbite era un ben misero sostituto di ciò che Gormon gli aveva strappato e presto se ne accorse anche lui. Quella notte, mentre dormivamo sui giacigli ammuffiti dell’Ostello dei Pellegrini, il Principe pianse con muti accenti di furia: alla mutevole luce della luna vera e delle due false vidi le sue braccia levarsi, le sue dita piegarsi, le unghie colpire un nemico immaginario, e colpire ancora e ancora.

10

Era la fine dell’estate quando finalmente raggiungemmo Perris. Entrammo nella città da sud, percorrendo un’ampia e robusta strada maestra, costeggiata da alberi antichi, sotto una pioggerella sottile. Raffiche di vento spingevano foglie rinsecchite sui nostri passi. La notte di terrore che ci aveva visti fuggire da Roum conquistata sembrava ormai quasi solo più un sogno: una primavera e un’estate di cammino ci avevano invigoriti, e le grigie torri di Perris parevano offrire la promessa di un nuovo inizio. Ma pensavo che fosse solo un inganno che noi dicevamo a noi stessi, perché cosa poteva riservare il mondo a un Principe sconfitto che vedeva solo ombre, e a una Vedetta che da lungo tempo aveva oltrepassato i suoi giusti anni?

Perris era una città più buia di Roum. Anche in pieno inverno, Roum aveva cieli sereni e chiari raggi di sole. Perris pareva eternamente rannuvolata, e sia i palazzi sia l’ambiente erano cupi. Anche le mura della città erano grigio cenere e non possedevano alcuna lucentezza. La porta della città era spalancata. Accanto le girellava un uomo basso, imbronciato, vestito con gli abiti della Corporazione delle Sentinelle; l’uomo non accennò neppure il gesto di fermarci mentre ci avvicinavamo. Lo guardai con espressione interrogativa. Lui scosse la testa.

— Entrate, Vedetta.

— Senza nessun controllo?

— Non l’avete saputo? Tutte le città sono state dichiarate aperte sei notti fa. Ordine degli invasori. Ora le porte della città non si chiudono mai. E metà delle Sentinelle non ha più lavoro.

— Credevo che gli invasori stessero ancora cercando i loro nemici — dissi. — La ex nobiltà.

— Hanno punti di controllo da qualche altra parte. E non impiegano noi Sentinelle. La città è aperta. Entrate, entrate.

Mentre gli obbedivamo, dissi: — Ma allora, perché siete qui?

— Per quarant’anni è stato il mio posto di guardia — rispose la Sentinella. — Dove potrei andare?

Feci il cenno che gli diceva come anch’io condividessi le sue pene e con il Principe entrai in Perris.

— Per cinque volte sono entrato in Perris dalla porta meridionale — disse il Principe. — Sempre sul mio carro e preceduto dai miei Diversi che traevano musica dalla gola. Ci inoltravamo verso il fiume, oltre gli edifici antichi e i monumenti, fino al palazzo del Conte di Perris. E la notte si danzava su zattere gravitazionali alte nel cielo sopra la città, e c’erano balletti di Alate, mentre la Torre di Perris programmava un’aurora per noi. E il vino, il rosso vino di Perris, le donne con insolenti vestiti, i seni dalle punte rosate, e le dolci cosce! Navigavamo nel vino, Vedetta. — Fece un cenno vago. — È quella la Torre di Perris?

— Credo siano le rovine della macchina climatica della città — risposi.

— Una macchina climatica sarebbe una colonna verticale. Ciò che invece vedo è una torre che s’innalza da un’ampia base a un vertice sottile, come la Torre di Perris.

— Ciò che vedo io — dissi con gentilezza — è una colonna verticale, alta almeno quanto trenta uomini, e che termina con una grossa frattura. La Torre non sarebbe così vicina alla porta meridionale, no?

— No — disse il Principe, e mormorò un’oscenità. — Allora è la macchina climatica. Questi occhi che Bordo mi ha venduto non vedono poi così bene, vero? Inganno me stesso, Vedetta. Inganno me stesso. Cerca una cuffia pensante e vedi se il Conte è fuggito.

Osservai ancora per un istante la colonna monca della macchina climatica, quella fantastica costruzione che aveva causato tanti dolori al mondo durante il Secondo Ciclo. Tentai di penetrare i suoi fianchi sottili di marmo lucido, per vedere le spire intestine di quel misterioso congegno che era stato capace di affondare interi continenti, e che tanto tempo prima aveva trasformato la mia patria occidentale da una regione montuosa a un arcipelago. Poi mi voltai, m’infilai una cuffia pubblica e chiesi del Conte; ricevuta la risposta che mi aspettavo, domandai gli indirizzi dei luoghi che avrebbero potuto darci alloggio. Il Principe disse: — Allora?

— Il Conte di Perris è stato ucciso con tutti i suoi figli, durante la conquista. La sua dinastia è estinta, il titolo abolito, il palazzo è stato trasformato dagli invasori in museo. Il resto della nobiltà perrisiana è morto oppure è fuggito. Vi troverò un posto all’Ostello dei Pellegrini.

— No. Mi porterai con te dai Ricordatori.

— È la Corporazione cui vorreste aggregarvi?

Fece un gesto d’impazienza. — No, sciocco! Ma come posso starmene solo in una città straniera, ora che tutti i miei amici sono scomparsi? Cosa direi ai veri Pellegrini dell’Ostello? Rimarrò con te. I Ricordatori non allontaneranno un Pellegrino cieco.

Non mi lasciò scelta. E mi accompagnò al Collegio dei Ricordatori.

Dovemmo attraversare mezza città, e ci volle quasi tutta la giornata. Perris mi sembrò completamente disorganizzata. La venuta degli invasori aveva sconvolto le nostre strutture sociali, sollevando dai loro incarichi una grande massa di persone, a volte intere Corporazioni. Vidi decine di confratelli Vedette per le strade; alcuni si portavano ancora dietro il loro carrello di strumenti, altri, come me, liberatisi di quel fardello, parevano non sapere più come occupare le proprie mani. I miei confratelli apparivano tetri e apatici; molti di loro avevano gli occhi istupiditi dalle gozzoviglie, ora che ogni restrizione era caduta. E c’erano anche Sentinelle, abbattute e prive d’ogni scopo poiché non avevano più nulla da custodire, e Difensori, intimoriti e inebetiti per la repentina fine di ogni difesa. Non vidi nessun Padrone e nessun Dominatore, naturalmente, ma molti Scribi, Musici, Clown disoccupati, che se ne andavano alla deriva con altri funzionali di corte. C’erano orde di neutri inespressivi; il loro corpo quasi privo di mente era crollato di colpo per la nuova inattività. Soltanto Venditori e Sonnambuli parevano condurre i propri affari come sempre.

Gli invasori erano parecchi e facevano spicco. Li si incontrava a gruppetti di due o tre a passeggio in ogni strada, creature dalle lunghe membra, con mani che oscillavano fin quasi alle ginocchia; avevano palpebre spesse, narici nascoste nelle mascherine filtranti, labbra piene che, quando non le tenevano dischiuse, si chiudevano quasi senza lasciare traccia. Quasi tutti vestivano abiti identici, di un verde ricco e scuro: forse era l’uniforme delle truppe d’occupazione; pochi portavano armi di tipo bizzarramente primitivo, grossi arnesi pesanti assicurati dietro la schiena ma che probabilmente servivano più per ostentazione che per difesa. In generale parevano tranquilli, camminando fra di noi… conquistatori cortesia, fieri e sicuri di sé, che non temevano offesa dalla popolazione sconfitta. Eppure il fatto che non passeggiassero mai soli dimostrava l’interiore cautela. Non riuscivo a odiare la loro presenza, neppure per l’implicita arroganza delle occhiate possessive che rivolgevano agli antichi monumenti di Perris; invece il Principe di Roum, ai cui occhi non erano che strisce verticali di un grigio più scuro su un campo grigio chiaro, avvertiva istintivamente la loro prossimità e reagiva traendo respiri bruschi, ostili.

C’erano, poi, molti più visitatori extraterrestri del solito: creature stellari di mille razze, alcune in grado di respirare la nostra aria, altre che gironzolavano in globi ermetici, scatole respiratorie piramidali, o in tutapelle. Non era una novità vedere simili stranieri sulla Terra, naturalmente, ma ciò che meravigliava era la loro profusione. Si trovavano dappertutto, li vedevi intrufolarsi nelle dimore delle antiche religioni terrestri, comprare lustre riproduzioni della Torre di Perris dai Venditori alle cantonate, arrampicarsi pericolosamente sui livelli superiori dei cavalcavia, curiosare nelle abitazioni private, pigliare istantanee, scambiare denaro con furtivi merciaioli, fare gli spiritosi con Alate e Sonnambule, rischiare la vita nei nostri ristoranti, oppure muoversi in branchi ben custoditi da un panorama all’altro. Era come se gli invasori avessero passato parola per la Galassia: VISITATE SUBITO LA VECCHIA TERRA. NUOVA GESTIONE.

Se non altro, i nostri mendicanti prosperavano. Quelli provenienti dagli altri mondi facevano magri affari con gli elemosinieri alieni; ma non così i mendicanti nativi della Terra, all’infuori dei Diversi che non potevano venire riconosciuti come ceppo originale. Vidi molti di questi mutanti, malcontenti per non avere ricevuto nulla, pigliarsela con quelli che avevano avuto miglior fortuna e picchiarli di santa ragione, mentre i cacciatori d’istantanee immortalavano la scena per la delizia dei sedentari galattici.

Giungemmo alla fine al Collegio dei Ricordatori.

Era una costruzione imponente, come giustamente le si conveniva, in quanto immagazzinava tutto il passato del nostro pianeta. Si levava a un’altezza enorme sulla riva meridionale della Senn, proprio di fronte all’altrettanto imponente palazzo del Conte. Ma mentre la residenza del deposto Conte era un palazzo antico, molto antico, che risaliva addirittura al Primo Ciclo, una lunga, intricata costruzione in pietra grigia con un largo tetto in metallo verde secondo il tradizionale stile perrisiano, invece il Collegio dei Ricordatori era un dardo di levigato candore, una superficie non infranta da alcuna finestra, intorno alla quale si avvitava, dalla base alla sommità, una spirale di metallo lucido e dorato che portava inscritta la storia dell’umanità. Le spire superiori erano vuote. A quella distanza non potei leggere nulla, e mi chiesi se i Ricordatori si fossero presi la briga di incidere sul loro palazzo anche il racconto della disfatta finale della Terra. Più tardi seppi che non lo avevano fatto… che quella storia, in realtà, terminava alla fine del Secondo Ciclo, passando sotto silenzio molte cose che non davano piacere a nessuno.

Ormai stava cadendo la notte. E Perris, che era sembrata così tetra nel giorno annuvolato e piovigginoso, fiorì bellissima come una vecchia matrona tornata da Jorslem con di nuovo la sua bellezza e la sua sensualità. Le luci della città gettavano una dolce ma abbagliante radianza che illuminava i vecchi palazzi grigi, rendeva nebbiosi gli angoli, celava il sudiciume dell’antichità, trasformava le bruttezze in poesia. Il palazzo del Conte, da obbrobrio ingombrante e scomposto, diventava una favola ariosa. La Torre di Perris, delineata dai riflettori contro le tenebre, ci appariva a est come un ragno gigantesco, sparuto, ma un ragno pieno di grazia e fascino. Il biancore del Collegio dei Ricordatori era adesso intollerabilmente splendido, e il suo avvolgimento elicoidale di storia non pareva più salire fino alla cima, ma piantarsi direttamente nel cuore di chi guardava. Gli Alati di Perris erano già fuori a quell’ora, divertendosi a intrecciare delicate carole sopra di noi; e le loro ali sottili erano spiegate per catturare la luce proveniente dal basso mentre il corpo esile saliva chino sull’orizzonte. Come si libravano, quei figli della Terra alterati nei geni, quei fortunati membri d’una Corporazione che chiede soltanto di trovar piacere nella vita! Radiavano bellezza sugli spettatori incatenati alla terra; come tante piccole lune. E nella loro aerea danza vennero raggiunti da alcuni invasori, che volavano per qualche metodo ignoto, le lunghe braccia immobili e tese lungo il corpo. Vidi che gli Alati non si ritraevano da coloro che erano saliti a partecipare del loro gioco; ma che anzi parevano accoglierli come i benvenuti, cedendo loro un posto nella danza.

Più in alto, sul fondale del cielo stesso, le due false lune rotavano, lucide e lisce, trascorrendo da ovest a est; mentre bolle di luce vorticavano disciplinatamente nell’atmosfera in quella che doveva essere un’attrazione tutta perrisiana, e dagli altoparlanti che fluttuavano sotto le nubi scendeva su di noi una musica frizzante. Udii risa di ragazze vicine; sentii odore di vino spumeggiante. Se questa è Perris conquistata, mi domandai, cosa doveva essere Perris libera?

— Siamo giunti al Collegio dei Ricordatori? — domandò il Principe Enric, stizzoso.

— Sì, è questo — replicai — Una torre bianca.

— So benissimo che aspetto ha, idiota! Ma è… vedo meno bene, dopo il tramonto… è quel palazzo, laggiù?

— State indicando il palazzo del Conte, Maestà.

— Quell’altro, allora.

— Sì, quello.

— Perché non siamo ancora entrati?

— Davo un’occhiata a Perris — spiegai. — Non ho mai visto una bellezza simile. Anche Roum è attraente, ma in un modo diverso. Roum è un imperatore; Perris una cortigiana.

— Fai della poesia, razza di vecchio bacucco!

— Sento gli anni scivolarmi via dalla schiena. Potrei danzare per le strade, ora. Questa città canta per me.

— Entriamo. Entriamo. Siamo qui per far visita ai Ricordatori. Lascerai che la città canti per te più tardi.

Sospirando, lo guidai verso l’ingresso della grande costruzione. Procedemmo su un marciapiede di una qualche pietra nera e lucida, mentre sottili fasci di luce scendevano a scrutarci, a esplorarci e a immagazzinarci nella loro memoria. Un immenso portale d’ebano, alto quanto dieci uomini e largo cinque, si rivelò essere soltanto un illusione proiettata; avvicinandoci a esso, infatti, avvertii la sua profondità, vidi il suo interno a volta e conobbi ch’era un inganno. Ci furono un vago senso di calore e uno strano profumo nell’attraversarlo.

Dentro ci trovammo in un mastodontico vestibolo, altrettanto imponente quanto la grande navata del palazzo del Principe di Roum. Lì, tutto era bianco, e la pietra sfavillava di un’interna radianza che immergeva tutto nell’albedine. A destra e a manca, pesanti portali immettevano alle ali interne del Collegio. Benché la notte fosse già scesa, molte persone si affollavano intorno ai banchi di consultazione sistemati sulla parete di fondo del vestibolo, dove schermi e cuffie pensanti davano loro accesso agli archivi generali della Corporazione dei Ricordatori. Notai con interesse come molti di coloro che erano venuti in quel luogo per porre domande sul passato dell’umanità fossero invasori.

I nostri passi traevano scricchiolii dal pavimento piastrellato.

Non vidi nessun Ricordatore nei paraggi, così andai a un banco di consultazione, infilai una cuffia e notificai al cervello imbalsamato con cui entrai in contatto che cercavo il Ricordatore Basil, già da me incontrato brevemente a Roum.

— Qual è lo scopo della vostra richiesta?

— Ho con me la sua sciarpa, ch’egli mi lasciò quando fuggì da Roum.

— Il Ricordatore Basil è tornato a Roum per continuare le sue ricerche, con il permesso dei conquistatori. Vi manderò un altro membro della Corporazione, che prenderà in custodia la sciarpa.

Non dovemmo attendere a lungo. Restammo immobili accanto al retro del vestibolo e io contemplai lo spettacolo di quegli invasori che avevano tante cose da imparare; qualche istante dopo, venne alla nostra volta un uomo dalla solida corporatura e dal viso severo, di alcuni anni più giovane di me, ma certo non giovane, che portava sulle ampie spalle la sciarpa ufficiale della sua Corporazione.

— Sono il Ricordatore Elegro — disse con voce pomposa.

— Vi porto la sciarpa di Basil.

— Venite. Seguitemi.

Era emerso da un impercettibile punto della parete dove un blocco mobile ruotava su cardini. Ora lo fece ruotare di nuovo e scese rapidamente per un passaggio. Lo avvertii che il mio compagno era cieco e che non poteva tenere il suo passo, e il Ricordatore Elegro si arrestò, con visibile impazienza.

La sua bocca sdegnosa si contrasse; affondò le tozze dita negli spessi riccioli neri della barba. Quando lo raggiungemmo, procedette con passo meno spedito. Attraversammo un’infinità di passaggi e ci trovammo infine nell’abitazione di Elegro, da qualche parte della torre, molto in alto.

La camera era tetra, ma riccamente arredata con schermi, cuffie, attrezzature da scrittura, scatole parlanti e altri sussidi degli studiosi. Le pareti erano ricoperte da un tessuto nero porpora, che evidentemente doveva essere vivo, poiché le sue pieghe ai margini s’increspavano con ritmiche pulsazioni. Tre globi vaganti davano un’illuminazione, discreta.

— La sciarpa — disse Elegro.

La estrassi dalla bisaccia. Mi ero divertito a indossarla per un po’ nei primi giorni di confusione dopo la conquista… in fin dei conti, era stato Basil a lasciarmela fra le mani quando era fuggito via per la strada, non io a trattenermela indebitamente, ma era chiaro che la perdita aveva avuto poca importanza per lui… quasi subito, però, l’avevo messa via, perché andare in giro vestito da Vedetta e con la sciarpa da Ricordatore generava solo altra confusione. Elegro la prese bruscamente fra le mani e la distese, osservandola come se vi cercasse i pidocchi.

— Come la avete avuta?

— Io e Basil ci incontrammo per strada nel momento stesso dell’invasione. Era molto agitato. Tentai di trattenerlo e lui fuggì, lasciandomi la sciarpa tra le dita.

— Basil l’ha raccontata in altro modo.

— Se con questo gli ho procurato dei fastidi, me ne dispiace — dissi.

— Comunque, ci avete restituito la sciarpa. Stanotte comunicherò la notizia a Roum. Vi aspettate una ricompensa per averla restituita?

— Sì.

Seccato, Elegro disse: — E quale sarebbe?

— Che mi venga concesso di entrare nei Ricordatori come apprendista.

Egli parve stupito. — Ma voi avete già una Corporazione!

— Oggigiorno essere una Vedetta è come essere senza Corporazione. Per cosa dovrei Vigilare? Ora sono libero dai miei voti.

— Forse. Ma siete vecchio per entrare in una nuova Corporazione.

— Non così vecchio.

— Il nostro lavoro è difficile.

— Ho intenzione di lavorare sodo. Desidero imparare. Con l’avanzare degli anni è nata in me la curiosità.

— Diventate allora un Pellegrino come questo vostro amico. Andate a vedere il mondo.

— Ho già visto il mondo. Ora vorrei entrare nei Ricordatori e conoscere il passato.

— Potete chiedere ogni informazione ai nostri banchi. Essi vi sono sempre aperti, Vedetta.

— Non è la stessa cosa. Iscrivetemi.

— Iscrivetevi come apprendista presso i Classificatori — suggerì Elegro. — Il loro lavoro è simile al nostro, ma non così esigente.

— Chiedo l’apprendistato qui.

Elegro sospirò stancamente. Giunse le mani, reclinò il capo e mosse le labbra in un rictus. Doveva essere una sua posa caratteristica. Mentre meditava, una porta interna si aprì e un Ricordatore di sesso femminile entrò nella camera, portando fra le mani, a coppa, una piccola sfera musicale di turchese. Fece quattro passi e poi si arrestò, sorpresa nel vedere che Elegro aveva visitatori.

Fece un cenno di scusa e disse: — Tornerò più tardi.

— Rimani — disse il Ricordatore. E rivolgendosi a me e al Principe: — Mia moglie. Il Ricordatore Olmayne. — A sua moglie spiegò: — Sono viaggiatori appena giunti da Roum. Ci hanno riportato la sciarpa di Basil. E ora la Vedetta richiede l’apprendistato nella nostra Corporazione. Cosa consigli?

La pallida fronte del Ricordatore Olmayne s’increspò. Depose la sfera musicale in uno scuro vaso di cristallo e così facendo la attivò senza volerlo; la sfera ci offrì una dozzina di note sfavillanti prima che lei la spegnesse. Poi si mise a contemplarci, e io feci lo stesso con lei. Era molto più giovane del marito, che era di mezz’età; sembrava avere superato da poco il primo fiore degli anni. Eppure dava un’impressione di forza che le accreditava una maturità maggiore. Forse, pensai, è già stata a Jorslem per rinnovare la giovinezza; ma in tal caso era strano che il marito non l’avesse imitata, a meno che non tenesse particolarmente al proprio aspetto maturo. Era una donna attraente, senza dubbio. Aveva viso largo, con fronte alta e zigomi pronunciati, un’ampia bocca sensuale, mento leggermente marcato. I suoi capelli erano di un nero luminoso che contrastava con lo strano pallore della pelle. Un’epidermide così bianca era piuttosto rara fra noi, anche se ora so che era più comune nei tempi antichi, quando il ceppo era diverso. Avluela, la mia piccola, amabile Alata, aveva la stessa combinazione di nero e bianco; ma la somiglianza terminava lì, poiché Avluela era tutta fragilità, mentre il Ricordatore Olmayne era forza personificata. Sotto il collo lungo e sottile il corpo fioriva nelle spalle robuste, nei seni fermi e nelle gambe salde. Il suo atteggiamento era regale.

La donna ci studiò a lungo, finché non riuscii più a incrociare lo sguardo diritto di quegli occhi scuri e spaziati. Alla fine disse: — La Vedetta ritiene di possedere le qualità per diventare uno di noi?

La domanda pareva rivolta al primo, nella camera, che si sentisse disposto a rispondere. Esitai; Elegro fece altrettanto; e infine fu il Principe di Roum che rispose con la sua voce usa al comando: — La Vedetta possiede le qualità per entrare nella vostra Corporazione.

— E voi, chi siete? — domandò Olmayne.

All’istante il Principe adottò un tono più conciliante. — Un povero Pellegrino cieco, mia signora, che è giunto fin qui a piedi da Roum, in compagnia di quest’uomo. E se posso erigermi a giudice di qualcosa, fareste bene ad ammettere questa Vedetta come apprendista.

Elegro disse: — E voi? Che progetti avete?

— Chiedo solamente riparo in questo luogo — disse il Principe. — Sono stanco del viaggio e devo approfondire molte meditazioni. Forse potreste permettermi di svolgere qualche piccolo compito tra voi. Non desidererei separarmi dal mio compagno.

Rivolta a me, Olmayne disse: — Conferiremo sul vostro caso. Se approveremo la vostra richiesta, potrete sostenere gli esami. Io sarò la vostra garante.

— Olmayne! — esclamò Elegro, chiaramente meravigliato.

Lei ci sorrise serenamente, a tutti.

Una disputa di famiglia pareva imminente; ma non ci fu, e i Ricordatori ci offrirono ospitalità, succhi di frutta, bevande più robuste, e alloggio per la notte. Cenammo separatamente, in un’altra camera della loro abitazione, mentre altri Ricordatori vennero chiamati a considerare la mia richiesta così irregolare. Il Principe pareva stranamente agitato; trangugiava il cibo senza masticarlo, rovesciò un fiasco di vino, maneggiò maldestramente le posate, e sempre si portò le dita ai grigi globi metallici, come per eliminare un prurito che gli rodesse i lobi del cervello.

Alla fine mi disse, con voce bassa, eccitata: — Descrivimela!

Obbedii, con ogni dettaglio, colorando e ombreggiando le mie parole in modo da tratteggiargli il disegno come più vividamente potevo.

— È bella, dici?

— Credo di sì. Sapete, alla mia età si deve lavorare su nozioni astratte; non sul flusso di ghiandole…

— La sua voce mi desta — disse il Principe. — Possiede forza. È come una regina. Deve essere bella; non sarebbe giusto che il suo corpo non si appaiasse alla voce.

— Ed è anche — dissi con tono grave — la moglie di un altro, e colei che ci ha offerto ospitalità.

Ricordavo quel giorno a Roum, quando la portantina del Principe era uscita dal palazzo e il Principe aveva scorto Avluela, e l’aveva ordinata a sé, portandola oltre le cortine per abusare di lei. Un Dominatore può comandare a quel modo le persone che gli sono inferiori; ma un Pellegrino no, e ora temevo i progetti del Principe Enric. Si toccò ancora gli occhi. I muscoli del suo viso fremevano.

— Promettetemi che non le procurerete dei fastidi — gli dissi.

L’angolo della sua bocca si incurvò in quel che doveva essere l’inizio di una risposta irritata, subito soffocata. Con sforzo disse: — Tu mi fai torto, vecchio. Qui mi atterrò alle leggi dell’ospitalità. Ora sii gentile e versami altro vino, vuoi?

Picchiettai sulla nicchia di servizio e ottenni un altro fiasco di vino. Era vino rosso e robusto, non quello dorato di Roum. Versai; bevemmo; in breve il fiasco fu vuoto. Lo presi per le linee di polarità e gli diedi la giusta torsione: il fiasco svanì con uno schiocco, come una bolla di sapone. Qualche istante dopo, fece il suo ingresso il Ricordatore Olmayne. Si era mutata d’abito; mentre prima indossava un abito da pomeriggio dalla tinta opaca, di tessuto ruvido, ora portava un vestito lungo, scarlatto, affibbiato fra i seni. Le superfici e le ombre del suo corpo erano pienamente visibili, e fui sorpreso nel vedere che aveva preferito tenersi l’ombelico. Le interrompeva la dolce curva declinante del ventre con un effetto così artatamente inteso a eccitare che perfino io me ne sentii quasi acceso.

Mi disse, compiaciuta: — La vostra richiesta è stata accolta sotto la mia garanzia. Sarete sottoposto agli esami questa notte. Se li supererete, verrete assegnato alla nostra divisione. — I suoi occhi luccicarono di improvvisa malizia. — Mio marito, come avrete immaginato, non ne è molto soddisfatto. Ma l’insoddisfazione di mio marito non è pericolosa. Venite con me, tutt’e due.

Tese verso di noi le mani, prendendo la mia, prendendo quella del Principe. Le sue dita erano fredde. Mi sentivo pulsare di una febbre interiore: mi meravigliai di quel segno di nuova giovinezza che si destava in me… senza bisogno delle acque della Casa del Rinnovamento, nella sacra Jorslem.

— Venite — disse Olmayne, e ci guidò al luogo dell’esame.

11

Così venni ammesso nella Corporazione dei Ricordatori.

Gli esami erano del tutto superficiali. Olmayne ci guidò fino a una sala circolare nelle parti più alte della torre. Le sue pareti ricurve erano intarsiate con legni rari di molti colori; banchi lucenti spuntavano dal pavimento, e al centro della sala s’alzava una spirale alta come un uomo, ricoperta di lettere troppo minuscole per poterle leggere. Una mezza dozzina di Ricordatori bighellonava tutt’intorno; era chiaro ch’erano venuti solo per il capriccio di Olmayne e che non s’interessavano affatto a quella vecchia e cenciosa Vedetta per la quale lei, così inspiegabilmente, si era fatta garante.

Mi fu tesa una cuffia pensante. Una voce stridula mi pose una dozzina di domande attraverso la cuffia, sondando le mie risposte tipo e insistendo sui particolari biografici. Diedi il mio numero di Corporazione, così da permettere di contattare il Maestro locale, controllare le mie referenze e ottenere il mio scioglimento. Normalmente non si poteva ottenere lo scioglimento dai voti di Vedetta, ma quelli non erano tempi normali, e sapevo che la mia Corporazione era ridotta a pezzi.

In un’ora fu tutto concluso. Olmayne in persona mi pose la sciarpa sulle spalle.

— Vi verrà assegnato un alloggio accanto al nostro appartamento — disse. — Dovrete rinunciare al vostro abito da Vedetta; ma il vostro amico potrà conservare il suo da Pellegrino. Il vostro addestramento avrà inizio dopo un periodo di prova. Nel frattempo vi sarà consentito libero accesso a tutti i nostri serbatoi memoria. Comprenderete, spero, che occorreranno dieci anni o più prima che voi possiate ottenere piena ammissione nella Corporazione.

— Lo so — dissi.

— D’ora in poi vi chiamerete Tomis — mi disse Olmayne. — Non ancora il Ricordatore Tomis, ma Tomis dei Ricordatori. C’è differenza. Il vostro nome precedente non ha più valore.

Io e il Principe fummo condotti alla piccola stanza che dovevamo dividere. Era un luogo piuttosto modesto, ma conteneva servizi d’igiene personale, collegamenti per cuffie pensanti e altri mezzi d’informazione, e una bussola per gli alimenti. Il Principe Enric girò per la stanza, toccando ogni cosa e imparandone la disposizione. Stipi, letti, sedie, armadi e altri mobili fuoriuscivano e rientravano nelle pareti mentre lui si arrabattava sui controlli. Dopo un po’ la sua curiosità si placò; senza più dover andare a tastoni, attivò un letto: un fascio rutilante prese forma da una fenditoia. Si distese.

— Dimmi una cosa, Tomis dei Ricordatori.

— Sì?

— Per saziare una curiosità che ancora mi divora. Qual era il tuo nome nella vita precedente?

— Ora non ha più valore.

— Nessun voto ti obbliga più alla segretezza. Vuoi contrastarmi ancora?

— Le vecchie abitudini mi costringono sempre — dissi. — Per un tempo pari a due volte la vostra vita sono stato condizionato a non rivelare mai il mio nome se non legittimamente.

— Dimmelo ora.

— Wuellig — dissi.

Quell’atto, una volta commesso, risultò stranamente liberatorio. Il mio nome precedente sembrò librarsi nell’aria dinanzi alle mie labbra; parve sfrecciare per la stanza come un uccello gemma liberato dalla prigionia, volteggiare, girarsi con un repentino colpo d’ala e colpire la parete frantumandosi in mille pezzetti con un suono leggero, tintinnante. Tremai. — Wuellig — dissi ancora. — Il mio nome era Wuellig.

— Wuellig non è più.

— Tomis dei Ricordatori.

Ed entrambi cominciammo a ridere, continuando fino a sentirci male, e il Principe accecato si levò in piedi e batté la mano contro la mia in segno di grande amicizia, e gridammo il suo nome e il mio di nuovo e poi ancora, come bimbi che di colpo avessero appreso parole ricche di forza, solo per scoprire subito che quelle parole non ne avevano affatto.

Così cominciai la mia nuova vita fra i Ricordatori.

Per qualche tempo non lasciai neppure per un momento il Collegio. I miei giorni e le mie notti erano interamente occupati, e io rimanevo ancora straniero a Perris. Anche il Principe, sebbene le sue ore non fossero piene come le mie, rimaneva quasi sempre nel palazzo, uscendo soltanto quando la noia o la collera lo sopraffacevano. A volte il Ricordatore Olmayne andava con lui, oppure lui andava con lei, in modo da non essere lasciato solo nella sua oscurità; ma sapevo anche che a volte il Principe lasciava il palazzo senza compagnia, con l’orgogliosa intenzione di dimostrare che, pur senza vista, egli poteva far fronte ai pericoli della città.

Le mie ore di veglia erano suddivise fra queste attività:

a) Orientamenti preliminari.

b) Piccoli doveri di un apprendista.

c) Ricerche personali.

Non che non me lo aspettassi, ma scoprii di essere molto più vecchio degli altri apprendisti che frequentavano il Collegio. Per la maggior parte si trattava di giovincelli, figli dei Ricordatori stessi; mi squadravano increduli, incapaci di capire come potesse essere loro compagno di studi un barbogio simile. C’erano anche alcuni apprendisti d’età appena matura, per lo più persone che si erano scoperte, già avanti nella vita, la vocazione per il Ricordare, ma nessuno di essi sfiorava neppure lontanamente la mia età. Perciò ebbi scarsi contatti con i miei compagni d’addestramento.

Ogni giorno, per alcune ore, studiavamo le tecniche delle quali si servono i Ricordatori per catturare il passato della Terra. Tutt’occhi, fui condotto per i laboratori dove si effettuano le analisi dei campioni prelevati in situ; vidi i rivelatori che misurando la disintegrazione di pochi atomi attribuivano un’età a un manufatto; osservai raggi multicolori di luce che, aguzzi come aghi, uscendo da una sottile corona, riducevano in cenere una scheggia di legno e la costringevano a cedere i suoi segreti; vidi le immagini stesse degli eventi passati staccarsi come bucce dagli oggetti inanimati. Dovunque andiamo, noi lasciamo la nostra impronta: le particelle luminose rimbalzano dal nostro viso, e il flusso fotonico le inchioda all’ambiente che ci circonda. Da qui i Ricordatori le strappano, le riordinano, le fissano. Entrai in una camera dove una fantasmagoria di volti galleggiava su una nebbia azzurra e untuosa: sovrani e Maestri di Corporazioni scomparsi, duchi dimenticati, eroi di giorni antichi. Contemplai tecnici dagli occhi freddi pungolare via la storia da poche manciate di materia combusta. Vidi umidi grumi di rifiuti narrare racconti di rivolte e assassinii, di mutamenti culturali, di trasformazioni di costumi.

Poi venni istruito superficialmente sulle tecniche usate in situ. Per mezzo di un’accorta simulazione, mi furono mostrati Ricordatori al lavoro con sonde aspiranti, che scavavano nei tumuli delle grandi città scomparse di Afrik e Ais. Partecipai per interposta persona alla ricerca sottomarina dei resti delle civiltà dei Continenti Scomparsi; squadre di Ricordatori entravano in traslucidi veicoli a forma di lagrima, simili a gocce di gelatina verde, e si immergevano negli abissi dell’Oceano Terrestre, giù, giù, fino alle praterie incrostate di fango che un tempo erano terre emerse; e con folgoranti raggi di forza violacea scavavano fra rottami e fradiciume per scovare le verità sepolte. Osservai i cercatori di cocci, gli scavatori di ombre, i raccoglitori di film molecolari. Una delle migliori esperienze d’orientamento offertemi durante il corso fu una sequenza nella quale alcuni Ricordatori davvero eroici portavano alla luce una macchina climatica nell’Afrik meridionale, denudando dapprima la base di quella titanica costruzione e sollevandola poi tutt’intera con raggi d’energia; un’estrazione talmente colossale che la terra stessa parve gemere quando essa fu consumata. Fecero fluttuare alto nel cielo quel ponderoso relitto della follia del Secondo Ciclo, mentre gli esperti dalla sciarpa scivolavano giù, verso le sue antiche radici, per scoprire come fosse stata inizialmente eretta la colonna. I miei occhi martellavano a quello spettacolo.

Emersi da quelle sedute con una schiacciante reverenza verso la Corporazione che avevo scelto. I pochi Ricordatori che avevo incontrato mi avevano dato l’impressione di essere altezzosi, enfatici, sdegnosi, o anche solamente distaccati; non li avevo trovati affascinanti. Eppure l’intero è maggiore della somma delle sue parti, e compresi che uomini come Basil ed Elegro, così lontani, così distanti da ogni preoccupazione umana, così indifferenti, erano le parti di un colossale sforzo per riconquistare dalle mani dell’eternità il nostro fulgido passato. Questa ricerca dei tempi perduti era magnifica, e costituiva l’unico adeguato sostituto delle precedenti attività umane; avendo perduto il nostro presente e il nostro futuro, era necessario tendere ogni sforzo verso il passato, l’unica cosa che nessuno poteva rubarci se stavamo abbastanza attenti.

Per molti giorni assorbii i dettagli di questo sforzo, studiai ogni stadio del lavoro, a partire dalla raccolta dei granelli di polvere in situ, proseguendo con i trattamenti e le analisi di laboratorio, e giungendo fino all’impresa più alta: la sintesi e l’interpretazione, svolte da Ricordatori anziani al piano più alto dell’edificio. Mi fu concesso solo uno sguardo a quei saggi: secchi e incartapecoriti, vecchi abbastanza per potermi essere nonni, le teste candide chine in avanti, le labbra sottili che recitavano monotoni commenti e interpretazioni, cavilli e correzioni. Alcuni di loro, mi fu confidato con un sussurro, erano già stati rinnovati a Jorslem due e anche tre volte, e ormai si trovavano senza scampo nella loro ultima vecchiaia.

Dopo di che, ci furono mostrati i serbatoi memoria dove i Ricordatori immagazzinano ogni loro scoperta, e da dove vengono dispensate informazioni a beneficio dei curiosi.

Come Vedetta avevo sempre avuto ben poca curiosità, e ancor meno interesse, di visitare serbatoi memoria. Certo non avevo mai visto nulla di simile, poiché i serbatoi dei Ricordatori non erano semplici unità contenenti tre o cinque cervelli ciascuna, bensì mastodontiche installazioni con cento e più cervelli collegati in serie. La sala nella quale ci portarono — una delle decine sistemate nei basamenti dell’edificio, seppi poi — era una camera oblunga, profonda ma non alta, con custodie di cervelli, distribuite a file di nove, che sfumavano lontano nell’ombra. La prospettiva giocava curiosi scherzi; non capivo se c’erano dieci file o cinquanta, ma la vista di tutti quegli emisferi scoloriti era sconvolgente.

— Sono cervelli di passati Ricordatori? — domandai.

La guida rispose: — Alcuni sì. Ma non c’è bisogno di usare solo quelli dei Ricordatori. Un qualunque cervello umano va ugualmente bene; perfino quello di un Servitore possiede una capacità di memorizzazione sorprendente. Non ci servono doppi circuiti, per le nostre esigenze, e ciò ci permette di utilizzare tutta la potenzialità di ogni cervello.

Cercai di scrutare fra i pesanti blocchi lisci che proteggevano i serbatoi memoria da ogni pericolo.

— Che cos’è registrato in questa stanza? — chiesi.

— I nomi degli abitanti dell’Afrik durante il Secondo Ciclo e tutti i loro dati personali che siamo riusciti a recuperare finora. Inoltre, poiché queste celle non sono ancora state caricate del tutto, vi abbiamo immagazzinato per il momento certi particolari geografici dei Continenti Scomparsi, e le notizie che riguardano la creazione del Ponte di Terra.

— Queste informazioni possono essere facilmente trasformate da temporanee a permanenti? — domandai ancora.

— Sì, molto facilmente. Qui tutto è elettromagnetico. Le nostre informazioni sono aggregati di cariche; le trasferiamo da un cervello a un altro invertendo la polarità.

— E se ci fosse un guasto elettrico? — chiesi. — Avete detto che qui non avete doppi circuiti di memoria. Non c’è il pericolo di perdere informazioni per qualche incidente?

— Nessun pericolo — disse soavemente la guida. — Abbiamo una serie di impianti sostitutivi per assicurare un costante flusso di energia. E impiegando tessuti organici per le nostre celle di memoria, abbiamo la miglior garanzia di sicurezza: i cervelli stessi conserverebbero i dati nel caso di un’interruzione d’energia. In seguito sarebbe un po’ complicato ricatturare il loro contenuto, ma non impossibile.

— Durante l’invasione — dissi — si sono avute difficoltà?

— Noi siamo sotto la protezione degli invasori, che ritengono che il nostro lavoro sia vitale anche per i loro interessi.

Non molto tempo dopo, a una convocazione plenaria dei Ricordatori, anche noi apprendisti potemmo osservare da una balconata l’interno della sala corporativa: sotto di noi, in piena maestà, stavano i membri della Corporazione, sciarpe sulle spalle, e fra loro c’erano Elegro e Olmayne. Su una pedana che portava il simbolo elicoidale stava il Cancelliere dei Ricordatori, Kenishal, una figura austera e imperiosa, e accanto a lui c’era un personaggio ancor più notevole, appartenente alla specie che aveva conquistato la Terra. Kenishal disse poche parole. Il timbro risonante della sua voce non mascherava del tutto la vacuità delle parole stesse; come ogni amministratore, dovunque, proferì fiotti di banalità, lodando implicitamente se stesso nel congratulare la Corporazione per l’importante lavoro che svolgeva. Poi presentò l’invasore.

L’alieno tese in avanti le braccia finché non parvero toccare le pareti dell’auditorium.

— Mi chiamo Governatore dell’Uomo Sette — disse tranquillamente — e sono Procuratore di Perris, con particolari responsabilità riguardanti la Corporazione dei Ricordatori. Oggi sono qui per confermare quanto decretato dal governo provvisorio d’occupazione. Voi Ricordatori proseguirete in completa libertà i vostri studi. Avrete libero accesso a ogni luogo archeologico di questo pianeta, come pure sugli altri mondi che possano contribuire a fornirvi una sempre maggiore conoscenza del passato della Terra. Ogni documento vi sarà accessibile, eccetto quelli che concernono l’organizzazione militare della conquista. Il Cancelliere Kenishal mi ha informato che, comunque, la conquista esula dal campo delle vostre ricerche, e certo non ci saranno problemi. Noi del governo d’occupazione siamo pienamente coscienti del valore del vostro lavoro. La storia di questo pianeta ha una grande importanza, e noi vogliamo che il vostro lavoro continui.

— Per trasformare la Terra in una migliore attrattiva turistica — disse amaramente al mio fianco il Principe di Roum.

Governatore dell’Uomo Sette proseguì: — Il Cancelliere mi ha pregato di informarvi di un mutamento amministrativo che sarà necessario apportare in seguito allo stato di occupazione militare del pianeta. In passato, ogni vostra controversia interna veniva sottoposta ai tribunali della Corporazione e il Cancelliere Kenishal si riservava il supremo diritto di appello. Nel quadro di un’amministrazione efficiente, ci troviamo ora costretti a imporre la nostra giurisdizione al di sopra di quella della Corporazione. D’ora in avanti, il Cancelliere delegherà a noi tutte le controversie che non riterrà più comprese entro la sua sfera d’autorità.

I Ricordatori restarono a bocca aperta. Al piano inferiore ci furono improvvisi cambiamenti di posti e scambi di occhiate.

— Il Cancelliere si dimette! — balbettò accanto a me un apprendista.

— Quale altra scelta gli rimane, sciocco? — sussurrò con durezza un altro.

La riunione terminò fra una certa confusione. I Ricordatori si riversarono nei corridoi, discutendo e gesticolando fra rimostranze di ogni genere. Un venerabile portatore della sciarpa era così scosso che si accoccolò sul pavimento e prese a formulare la sequenza dell’equilibrio emotivo, senza curarsi della calca. La marea travolse perfino noi apprendisti, spingendoci indietro. Tentai di proteggere il Principe, nel timore che potesse venire gettato a terra e calpestato, ma fummo separati e lo persi di vista per alcuni minuti. Quando lo rividi, stava con il Ricordatore Olmayne. Il viso della donna era eccitato, gli occhi accesi; parlava rapidamente e il Principe la stava a sentire, con la mano che le stringeva il gomito come cercando sostegno.

12

Concluso quel primo periodo orientativo, mi vennero assegnati incarichi banali. Per lo più, dovevo svolgere compiti che in passato sarebbero spettati a una macchina; per esempio, sorvegliare le linee di alimentazione che portavano sostanze nutritizie alle custodie dei cervelli dei serbatoi memoria. Per varie ore al giorno camminavo nello stretto corridoio dei pannelli d’ispezione, alla ricerca di ostruzioni in linea. Quando una linea si bloccava, le pressioni lungo il tubo afferente, illuminato da una speciale luce polarizzata, formavano una configurazione perfettamente rilevabile dal sorvegliante. Svolsi così il mio umile servigio, scovando di tanto in tanto qualche linea inceppata, e feci gli altri piccoli lavori adatti alla mia condizione di apprendista.

Tuttavia, avevo anche la possibilità di proseguire le mie ricerche personali fra i passati avvenimenti del mio pianeta.

A volte, il valore delle cose s’impara solo dopo averle perdute. Per tutta la vita avevo servito come Vedetta, con lo scopo di dare in tempo l’allarme della promessa invasione, ma non mi ero mai chiesto chi poteva volerci invadere, o perché. Per tutta la vita avevo vagamente saputo che la Terra aveva conosciuto giorni più gloriosi di quelli del Terzo Ciclo in cui ero nato io, eppure non avevo mai cercato di sapere l’esatta natura di quei giorni, e neppure i motivi della nostra attuale decadenza. Solo quando le astronavi degli invasori erano sbocciate nel cielo, solo allora avevo provato improvvisamente il desiderio di conoscere quel passato perduto. E ora io, il più anziano degli apprendisti, io, Tomis dei Ricordatori, frugai fra gli archivi del tempo scomparso.

Ogni cittadino ha il diritto di accedere a una cuffia pensante pubblica e di chiedere ai Ricordatori informazioni su qualsiasi argomento. Nulla viene tenuto celato. Ma i Ricordatori non corrono spontaneamente a offrire le loro notizie; bisogna sapere come chiedere, vale a dire bisogna sapere cosa chiedere. Pezzo a pezzo, si devono andare a cercare le informazioni che interessano. Una simile procedura è utile, ad esempio, per chi voglia conoscere le variazioni climatiche secolari in Agupt, oppure i sintomi del mal cristallino, o i privilegi di una Corporazione specifica; ma è del tutto inutile a chi desideri risposta a informazioni molto più generali. Si dovrebbero richiedere mille informazioni solo per iniziare. La spesa sarebbe enorme; pochi se ne occuperebbero.

Come apprendista Ricordatore, io avevo libero accesso a tutte le informazioni. Ma, oltre a ciò, avevo accesso agli indici di classificazione. La Corporazione dei Classificatori è inferiore a quella dei Ricordatori, una Corporazione ausiliaria, di sgobboni che registrano e dispongono in ordine cose che il più delle volte non capiscono nemmeno. Il risultato delle loro fatiche va a beneficio della Corporazione più grande, ma i loro indici non sono accessibili a tutti. Senza di essi non sarebbe possibile affrontare i problemi della ricerca.

Non starò a riferire i vari stadi da me attraversati prima di giungere a sapere quanto ora so, le ore trascorse a vagare in corridoi labirintici, i secchi rifiuti, i dubbi, il martellare nel cervello. Io, sciocco apprendista, ero alla mercé di ogni burlone, e parecchi compagni apprendisti, perfino un paio di membri della Corporazione, mi indirizzarono lungo strade sbagliate per il puro gusto di farlo. Ma presto imparai quali vie seguire, come costruire le domande in serie, come seguire un sentiero di riferimenti bibliografici, sempre più avanti, finché la luce della verità non trapelava da uno di essi. Con insistenza, più che con grande intelligenza, estrassi dagli archivi dei Ricordatori un coerente racconto della caduta dell’uomo.

Eccolo:

Ci fu un tempo, nelle ere passate, nel quale la vita sulla Terra era brutale e primitiva. A questo tempo abbiamo dato il nome di Primo Ciclo. Non parlo del periodo che precedette la civiltà, quello dei bruti pelosi e dei grugniti, delle caverne e degli utensili di pietra. Noi poniamo l’inizio del Primo Ciclo a quando l’uomo imparò per la prima volta a conservare le informazioni e a dominare l’ambiente. Ciò avvenne in Agupt e Sumir. Secondo i nostri calcoli, il Primo Ciclo ebbe inizio 40.000 anni fa… tuttavia, non siamo certi della sua effettiva durata secondo i suoi anni, poiché la durata dell’anno cambiò alla fine del Secondo Ciclo, e finora non siamo riusciti a determinare quanto tempo impiegasse il nostro mondo, nelle ere precedenti, a percorrere l’orbita intorno al sole. Un tempo maggiore di quello odierno, probabilmente.

Il Primo Ciclo fu il periodo della Roum Imperiale e della prima fioritura di Jorslem. L’Eyrop rimase selvaggia ancora per lungo tempo quando già l’Ais e parte dell’Afrik erano civili. A ovest, due grossi continenti occupavano gran parte dell’Oceano Terrestre, e anch’essi erano abitati da selvaggi.

È evidente che in questo Ciclo l’umanità non aveva alcun contatto con altri mondi o con le stelle. Una tale solitudine è difficile da comprendere; eppure era proprio così. L’umanità non conosceva altro modo di produrre la luce che il fuoco; non poteva curare i propri mali; la vita non aveva possibilità di rinnovamento. Fu un’epoca priva di comodità, un’epoca grigia, dura nella sua semplicità. La morte giungeva presto; si aveva appena il tempo di mettere al mondo qualche figlio e già si era costretti a lasciarlo. Si viveva in preda alla paura, e perlopiù non alla paura di cose reali.

La mente si ritrae, dinanzi a un’èra simile; eppure fu proprio durante il Primo Ciclo che vennero fondate città meravigliose… Roum, Perris, Aten, Jorslem… e vennero compiute splendide gesta. Si prova un reverenziale timore a pensare a questi nostri antenati che, puzzolenti (certamente), ignoranti, privi di macchine, furono pur tuttavia capaci di affrontare il loro universo e perfino, in un certo grado, di dominarlo.

Guerre e affanni furono una costante per l’intero Primo Ciclo. Distruzione e creazione erano quasi simultanee. Le fiamme divoravano le più gloriose città dell’uomo. Il caos minacciava in ogni momento di sopraffare l’ordine. Come aveva potuto l’uomo sopportare simili condizioni di vita per migliaia di anni?

Verso la fine del Primo Ciclo molti primitivismi vennero superati. Finalmente l’uomo riuscì a disporre di certe fonti di energia; fu allora che iniziarono trasporti veri; le comunicazioni a grande distanza divennero possibili; molte invenzioni trasformarono in breve il volto del mondo. E anche le capacità belliche si tennero al passo con gli altri progressi tecnologici; ma la catastrofe finale fu sempre evitata, anche se diverse volte parve sul punto di scoppiare. Fu durante questa fase finale del Ciclo che i Continenti Scomparsi vennero colonizzati, oltre alla Stralya, e che si ebbero i primi contatti con i vicini pianeti del nostro sistema solare.

La transizione dal Primo al Secondo Ciclo è stata arbitrariamente fissata al momento in cui l’uomo incontrò per la prima volta altre creature intelligenti del cosmo. Ciò, dicono i Ricordatori, si verificò meno di cinquanta generazioni da che i popoli del Primo Ciclo erano giunti a dominare l’energia elettronica e nucleare. Così noi oggi possiamo correttamente affermare che gli antichi popoli della Terra caddero quasi a capofitto dalla loro vita selvaggia ai primi contatti galattici… o meglio, che essi superarono quel golfo con pochi rapidi passi.

Anche questo è motivo d’orgoglio. Perché se il Primo Ciclo fu grande nonostante i suoi freni, il Secondo Ciclo non conobbe freni e creò miracoli.

In quell’epoca l’umanità si allargò fra le stelle, e le stelle vennero all’umanità. La Terra era un mercato per le merci di ogni mondo. Le meraviglie erano cosa comune. Si poteva vivere per centinaia di anni; occhi, cuore, polmoni, reni, tutto veniva sostituito con la stessa facilità di un paio di scarpe; l’aria era pura, nessuno era affamato, la guerra era un ricordo dimenticato. Macchine di ogni genere servivano l’uomo. Ma le macchine non erano sufficienti, e così le genti del Secondo Ciclo allevarono uomini che erano macchine, o macchine che erano uomini: creature che geneticamente erano umane, ma nate artificialmente e trattate con farmaci che impedivano l’accumulo permanente dei ricordi. Queste creature, analoghe ai nostri neutri, erano in grado di svolgere con efficienza i lavori della giornata, ma la loro mente non riusciva a costruire quel corpo permanente di ricordi, esperienze, speranze e conoscenze che costituisce il marchio dell’anima umana. Milioni di questi individui non del tutto umani svolgevano i più noiosi lavori di ogni giorno, permettendo agli altri una vita di brillante soddisfazione. Dopo la creazione dei subumani venne la creazione dei superanimali, i quali, grazie a manipolazioni biochimiche del cervello, erano capaci di portare a termine incarichi un tempo impossibili alla loro specie: cani, gatti, topi e mucche vennero reclutati nelle schiere operaie, mentre certe specie di scimmie svolgevano compiti in precedenza riservati agli esseri umani. Attraverso questo sfruttamento di tutte le potenzialità dell’ambiente, l’uomo creò un paradiso sulla Terra.

Lo spirito umano raggiunse le sue vette più alte. Poeti, studiosi, scienziati davano contributi stupendi. Splendide città si stendevano per ogni dove. La popolazione era immensa, eppure c’era spazio per tutti e nessuna scarsità di risorse. Ciascuno poteva togliersi qualsiasi capriccio; furono fatti molti esperimenti con la chirurgia genetica e con i farmaci mutageni e teratogeni, cosicché le razze umane adottarono molte forme nuove. Non c’era ancora, tuttavia, nulla di simile alle forme mutanti del nostro Ciclo.

Nel cielo sfilavano in maestosa processione stazioni spaziali in grado di soddisfare ogni necessità immaginabile. Fu allora che vennero costruite le due nuove lune: i Ricordatori non hanno ancora ben stabilito se il loro scopo era funzionale o puramente estetico. Forse le aurore che compaiono ogni notte nei nostri cieli possono essere state installate in quei giorni, ma alcuni gruppi di Ricordatori sostengono che la presenza di aurore nelle zone temperate iniziò con gli sconvolgimenti geofisici che annunciarono la fine di quel Ciclo.

Fu, in ogni modo, la migliore delle epoche in cui vivere.

“Vedi la Terra e poi muori” era la parola d’ordine di tutti gli extraterrestri. Nessuno che intraprendesse una grande crociera galattica oltrepassava senza una visita il pianeta dei miracoli. Noi davamo il benvenuto agli stranieri, accettavamo i loro complimenti e il loro denaro, offrivamo ogni comodità di loro desiderio e con orgoglio facevamo sfoggio della nostra grandezza.

Il Principe di Roum può testimoniare come il fato dei potenti sia alla fine l’umiliazione, e come quanto più in alto si vada alla ricerca della grandezza, tanto più catastrofica sarà poi la caduta. Dopo alcune migliaia di anni di glorie che io non giungo neppure a capire, i fortunati popoli del Secondo Ciclo si spinsero troppo in là e commisero due errori, uno per arroganza folle, e l’altro per eccessiva confidenza. La Terra sta ancora pagando per la loro superbia.

Gli effetti del primo si avvertirono lentamente. Fu un risultato dell’atteggiamento della Terra verso le altre specie della Galassia, che era passato durante il Secondo Ciclo dal rispetto timoroso all’accettazione come cosa scontata, e al disprezzo. All’inizio del Ciclo, l’ingenua e fragile Terra era scaturita in seno a una Galassia già popolata da razze progredite, che da lungo tempo erano già in contatto fra di loro. Ciò avrebbe potuto produrre un trauma di scoraggiamento; ma invece generò un impulso aggressivo teso a eccellere e a superare. Fu così che presto i terrestri giunsero a considerare la maggior parte dei galattici come uguali, e poi, con il continuo progresso della Terra, come inferiori. Da ciò nacque un’abitudine sbrigativa di disprezzo verso le razze più arretrate.

Si propose così di costruire sulla Terra delle “riserve di studio” per esemplari di razze inferiori. Queste riserve dovevano riprodurre l’ambiente naturale di tali razze e dovevano essere aperte a tutti gli studiosi che volessero osservare i loro processi vitali. Tuttavia, le spese per il raccoglimento e il mantenimento degli esemplari furono tali che ben presto fu necessario aprire le riserve al grande pubblico, a puri fini di divertimento. Quelle riserve, sedicenti scientifiche, non erano altro, in fondo, che giardini zoologici per specie intelligenti aliene.

All’inizio si raccolsero soltanto creature veramente aliene, quelle così remote da ogni norma biologica o psicologica umana da non offrire quasi nessuna possibilità di essere considerate come “persone”. Un essere multipede che vive in un serbatoio di metano sotto alta pressione non suscita un senso di solidarietà in chi, magari, potrebbe opporsi all’imprigionamento di creature intelligenti. Se poi quel respiratore di metano appartiene a una civiltà complessa, basata su norme davvero uniche e rispondenti al suo ambiente, allora si può sostenere che è importantissimo riprodurre tale ambiente sulla Terra, per poter studiare una civiltà così strana. Perciò le prime riserve contennero solo gli esseri davvero strani. I raccoglitori di esemplari erano anche vincolati da un’altra condizione: dovevano prendere solo creature che non avessero ancora raggiunto lo stadio del volo interstellare. Non sarebbe stato educato rapire esseri viventi che avessero dei connazionali fra quei turisti interstellari che, con i loro viaggi, sostenevano in modo massiccio l’economia della Terra.

Il successo delle prime riserve condusse alla richiesta di costituirne altre. I criteri di scelta furono meno rigorosi; non si raccoglievano solo esseri completamente alieni e grotteschi, bensì esemplari di qualsiasi specie galattica che non avesse la possibilità di elevare proteste diplomatiche. E mentre l’audacia dei nostri antenati aumentava, le restrizioni per le riserve diminuivano, e alla fine, sulla Terra, erano imprigionati esemplari appartenenti a un migliaio di mondi, inclusi alcuni forniti di civiltà più antiche e più complesse della nostra.

Gli archivi dei Ricordatori mostrano che questo potenziamento delle riserve sollevò agitazione in varie parti dell’universo. Fummo denunciati come predoni, rapitori, pirati; si formarono comitati per criticare il nostro deliberato disprezzo dei diritti di esseri senzienti; terrestri in viaggio su altri pianeti vennero assaliti da folle di creature ostili, che chiedevano l’immediata liberazione dei prigionieri delle riserve. Tuttavia queste proteste erano solo una minoranza… quasi tutti gli abitanti della Galassia mantenevano un imbarazzato silenzio sulle nostre riserve. Si mostravano dispiaciuti per tali barbarie, ma ciò nonostante si ricordavano di andarle a visitare quando si recavano in viaggio sulla Terra. In quale altro luogo, dopo tutto, si potevano ammirare in così pochi giorni centinaia di esseri viventi raccolti in ogni parte della Galassia? Le nostre riserve costituivano una grande attrattiva, una delle meraviglie del cosmo. Con una silenziosa cospirazione i nostri vicini galattici chiudevano un occhio sull’immoralità del principio per poter condividere il piacere di vedere i prigionieri.

Negli archivi dei Ricordatori esiste in un serbatoio memoria la registrazione di una visita a una riserva. È una delle più antiche registrazioni visive che la Corporazione possiede, e io riuscii a darle un’occhiata solo con grandi difficoltà e per intercessione diretta del Ricordatore Olmayne. Nonostante l’impiego di un doppio filtro nella cuffia, la visione è piuttosto offuscata; ma è chiara quanto basta. Dietro uno schermo curvo di materiale trasparente c’è una cinquantina di creature di un mondo senza nome. Hanno corpo piramidale, con superfici azzurro scuro e aree visive rosa a ogni vertice; camminano su gambe corte e tozze; hanno un paio di arti capaci di prensione su ogni faccia. Benché sia pericoloso azzardare interpretazioni sui sentimenti di razze extraterrestri, si può chiaramente avvertire in quelle creature un senso di profonda disperazione. Attraverso i densi gas verdi della loro atmosfera, esse si muovono lentamente, come impacciate, senza alcun interesse. Varie di loro hanno accostato i vertici in quello che deve essere il loro modo di comunicare. Una sembra morta da poco. Due sono chinate verso terra come giocattoli rotti, ma le loro braccia si muovono in qualcosa che forse è una preghiera. È una visione lugubre. Più tardi, scoprii altre registrazioni come quella in angoli dimenticati del palazzo. Mi insegnarono molte cose.

Per più di un migliaio di anni del Secondo Ciclo la crescita delle riserve proseguì indisturbata, finché non parve cosa logica e naturale a tutti — eccetto che alle vittime — che la Terra praticasse simili atrocità nel nome della scienza. Poi, su un lontano mondo non ancora visitato dai terrestri, vennero scoperti certi esseri primitivi, pari come civiltà ai terrestri del Primo Ciclo. Quelle creature avevano forma discretamente umanoide, erano innegabilmente intelligenti, e orgogliosamente selvagge. A prezzo di molte vite terrestri, una squadra di raccoglitori si impossessò di un gruppo di maschi e femmine e lo trasportò sulla Terra perché fosse posto in una riserva.

Questo fu il primo fatale errore del Secondo Ciclo.

All’epoca del rapimento, le creature di quel mondo — che non è mai nominato nelle registrazioni, ed è noto solo con la sua designazione in codice H362 — non erano certo in grado di protestare o di intraprendere misure punitive. Ma in breve furono avvicinate da emissari di certi mondi che erano allineati politicamente contro la Terra, e sotto la guida di questi emissari gli abitanti di H362 richiesero la restituzione dei loro connazionali. La Terra rifiutò, citando la lunga sequela di precedenti amnistie interstellari a riguardo delle riserve. Seguirono lunghe proteste diplomatiche, nel corso delle quali la Terra riaffermò semplicemente il suo diritto di agire in tal modo.

Gli abitanti di H362 risposero con minacce. — Un giorno — dissero — noi ve ne faremo pentire. Invaderemo e conquisteremo il vostro pianeta, libereremo tutti gli esemplari delle riserve e trasformeremo la Terra stessa in una gigantesca riserva per i suoi abitanti.

Date le circostanze, ci si fece gioco di quelle minacce.

Nei millenni successivi, ben poco si seppe degli offesi abitanti di H362. I loro progressi, nella loro lontana regione dell’universo, erano rapidi, ma poiché si pensava che sarebbe loro occorso un periodo quasi cosmico prima che potessero costituire una seria minaccia per la Terra, essi vennero ignorati. Come si poteva temere un pugno di selvaggi armati di zagaglia?

La Terra si rivolse a una nuova impresa: il totale controllo climatico del pianeta.

Modificazioni climatiche erano state praticate su piccola scala fin dal Primo Ciclo. Le nuvole che potevano dar pioggia erano costrette a liberarla; la nebbia poteva essere scongiurata; la grandine essere resa meno distruttiva. Si erano fatti alcuni tentativi per ridurre le banchise polari e per rendere più fertili i deserti. Comunque, tali misure erano strettamente locali e, salvo poche eccezioni, non avevano sull’ambiente effetti duraturi.

Il tentativo del Secondo Ciclo comportava l’erezione di enormi colonne in più di cento punti, distribuiti per l’intero globo. Non conosciamo l’altezza di queste colonne, poiché nessuna di esse è sopravvissuta intatta e i dati sono andati perduti, ma si pensa che dovessero uguagliare o superare i più alti palazzi allora costruiti, e che probabilmente raggiungessero l’altezza di due miglia e più. All’interno di tali colonne c’erano macchinari che avrebbero dovuto, fra le altre cose, produrre uno spostamento dei poli del campo magnetico terrestre.

A quanto possiamo sapere di quei macchinari, il loro scopo doveva essere quello di modificare la geografia del pianeta secondo un piano minuzioso, basato sul fatto che quel che noi oggi chiamiamo Oceano Terrestre era allora diviso in un certo numero di mari minori. Benché collegati fra loro, questi suboceani erano considerati come indipendenti, dato che le loro sponde, in maggior parte, erano separate da terre emerse dal restante Oceano Terrestre. Nella regione polare settentrionale, per esempio, l’unione dell’Ais con il Continente Scomparso del Nord (noto come Usa-amrik) a ovest, e la vicinanza dell’Usa-amrik all’Eyrop a est, lasciavano solo alcuni stretti da cui le acque polari potevano passare per mescolarsi con quelle degli oceani più caldi che circondavano i Continenti Scomparsi.

La manipolazione delle forze magnetiche produsse un’oscillazione della Terra sulla sua orbita, calcolata per sciogliere la calotta polare settentrionale, permettendo all’acqua in essa contenuta di venire a contatto con acque più calde provenienti da altrove. Rimuovendo la calotta polare ed esponendo così l’oceano settentrionale all’evaporazione, si sarebbe verificato un grande aumento delle precipitazioni atmosferiche in quella zona. Per impedire che tali precipitazioni cadessero al nord sotto forma di neve, furono operate ulteriori manipolazioni per mutare lo schema dei venti da ovest che portavano le precipitazioni verso le aree temperate. Doveva crearsi come un condotto naturale per portare le precipitazioni della regione polare a certe zone, di latitudine inferiore, che non avevano la giusta umidità.

Ma il progetto, probabilmente, non terminava qui. La nostra conoscenza dei particolari è lacunosa. Sappiamo di piani per deviare le correnti oceaniche tramite abbassamenti o innalzamenti di terre, di proposte per deflettere il calore solare dai tropici alle regioni polari, e di altre ridistribuzioni. I particolari non sono importanti. Ciò che è importante per noi sono le conseguenze di quel progetto grandioso.

Dopo un periodo di preparazione che durò secoli e dopo che quel progetto aveva assorbito più mezzi e più sforzi che qualsiasi altro progetto della storia umana, le macchine climatiche entrarono in funzione.

Ne risultò la devastazione.

Quel disastroso esperimento di alterazione planetaria diede come frutto uno spostamento dei poli geografici, un lungo periodo di glaciazione su gran parte dell’emisfero settentrionale, l’imprevedibile inabissamento dell’Usa-amrik e del Sud-amrik, suo vicino, la creazione del Ponte di Terra tra Afrik ed Eyrop, e la quasi totale distruzione della civiltà umana. Quegli sconvolgimenti non si verificarono in un sol colpo. È evidente oggi che il progetto dovette proseguire senza gravi conseguenze per i primi secoli; il ghiaccio polare si fuse e il corrispondente aumento di livello dei mari fu affrontato con la costruzione di evaporatori a fusione — minuscoli soli, in verità — in certi punti strategici dell’oceano. Solo dopo vario tempo divenne evidente che le macchine climatiche stavano apportando mutamenti architettonici nella crosta terrestre. E questi mutamenti, a differenza di quelli climatici, si dimostrarono irreversibili.

Fu un periodo di tempeste furiose seguito da interminabili siccità; morirono centinaia di milioni di persone; tutte le comunicazioni furono interrotte; si verificarono migrazioni di masse terrorizzate dai continenti condannati. Il caos trionfò. La splendida civiltà del Secondo Ciclo andò in pezzi. Le riserve di creature aliene vennero distrutte.

Per salvare quel che restava della popolazione, alcune potenti razze galattiche presero il comando sulla Terra. Costruirono piloni a energia per stabilizzare le oscillazioni dell’asse terrestre; smantellarono le macchine climatiche che non erano ancora state distrutte dalle convulsioni planetarie; nutrirono gli affamati, rivestirono gli ignudi, e offrirono prestiti per la ricostruzione. Per noi quello fu il Tempo del Rifiuto, nel quale ogni nostra struttura e convenzione sociale venne spazzata via. Non più padroni del nostro mondo, accettammo la carità degli stranieri e ci riducemmo a strisciare.

Eppure, proprio perché eravamo ancora la razza di un tempo, ci risollevammo a un certo grado. Avevamo dilapidato i capitali del nostro pianeta e non avremmo mai più potuto essere altro che poveri e falliti, ma in maniera più umile entrammo nel nostro Terzo Ciclo. Alcune tecniche scientifiche dei tempi precedenti ci erano ancora accessibili. Ne vennero elaborate altre, che in genere si basavano su principi del tutto diversi. Furono formate le Corporazioni per ridare ordine alla società: Dominatori, Padroni, Mercanti, e tutte le altre. I Ricordatori lottarono per salvare ciò che si poteva strappare ai rottami del passato.

Inostri debiti verso i soccorritori erano enormi. Completamente falliti, non avevamo nessun modo per ripagarli; speravamo invece di ottenere una dichiarazione di impossibilità a pagare, una specie di assoluzione. Erano già stati avviati dei negoziati in quel senso quando si verificò un intervento inaspettato. Gli abitanti di H362 avvicinarono il comitato dei curatori fallimentari della Terra e si offrirono di rimborsare le loro spese… in cambio del passaggio ad H362 di ogni futuro diritto sulla Terra.

Così venne fatto.

Ora H362 si considerava proprietario a tutti gli effetti del nostro mondo. E fece sapere alla Galassia che si riservava il diritto di prenderne possesso in un indeterminato momento futuro. Non appena ne sarebbe stato capace, cioè, in quanto a quell’epoca H362 non aveva ancora raggiunto lo stadio del volo interstellare. Da quel momento, però, H362 venne considerato il legale proprietario di ogni bene della Terra, in qualità di acquirente in occorso fallimento.

Come era chiaro a tutti, questo era il modo scelto da H362 per mantenere la sua promessa di “trasformare la Terra stessa in una gigantesca riserva”, come contrappasso dell’offesa inferta loro dalla nostra squadra di raccoglitori, tanto tempo prima.

Sulla Terra, la società del Terzo Ciclo si costituì lungo le direttive che ancora oggi mantiene, con la sua rigida stratificazione in Corporazioni. La minaccia di H362 venne presa seriamente, perché il nostro era un mondo avvilito che non poteva più farsi gioco di nessuna minaccia, per insignificante che fosse; una Corporazione di Vedette fu incaricata di scrutare i cieli alla ricerca di aggressori. Seguirono poi i Difensori e tutto il resto. In tanti piccoli modi mostrammo ancora le nostre antiche capacità d’immaginazione, soprattutto negli Anni della Magia, quando in un impulso di fantasia creammo la Corporazione degli Alati — una mutazione capace di trasmettere le sue caratteristiche ai discendenti — e inoltre una Corporazione di Nauti, parallela a essa, di cui oggi poco si ricorda, e parecchie altre varietà, inclusa l’imprevedibile e preoccupante Corporazione dei Diversi, le cui caratteristiche genetiche erano notevolmente instabili.

Le Vedette vigilarono. I Dominatori governarono. Gli Alati volteggiarono. La vita proseguì, anno dopo anno, in Eyrop e in Ais, in Stralya, in Afrik, nella manciata di isolette che costituivano gli unici resti dei Continenti Scomparsi di Usa-amrik e Sud-amrik. La promessa di H362 entrò a far parte della mitologia; ma noi rimanemmo vigili, in attesa. E sull’altro versante del cosmo i nostri nemici raccoglievano forza, fino a raggiungere in parte la potenza che era stata nostra nel Secondo Ciclo. E mai dimenticarono il giorno in cui i loro confratelli erano stati condotti prigionieri nelle nostre riserve.

In una notte di terrore erano giunti a noi. Ora essi sono i nostri padroni e hanno mantenuto la promessa, hanno fatto valere la rivendicazione.

Tutto questo, e molto altro, lo imparai frugando fra i serbatoi di conoscenze della Corporazione dei Ricordatori.

13

Nel frattempo, colui che era stato Principe di Roum abusava vergognosamente dell’ospitalità del nostro co-garante, il Ricordatore Elegro. Avrei dovuto accorgermene, perché conoscevo il Principe e i suoi modi meglio di chiunque altro a Perris. Ma ero troppo immerso negli archivi, a imparare il passato. Mentre esploravo i particolari degli archivi protoplasmatici e dei noduli rigenerativi del Secondo Ciclo, i suoi convogliatori di vento e i suoi stabilizzatori del flusso fotonico, il Principe Enric seduceva il Ricordatore Olmayne.

Come tante altre seduzioni, così credo che neppure quella abbia scatenato un grande conflitto di volontà. Olmayne era una donna sensuale, e il suo atteggiamento verso il marito era affettuoso ma condiscendente.

Considerava chiaramente Elegro un incapace, un pasticcione borioso. Elegro, la cui alterigia e il cui aspetto severo non nascondevano una interiore mancanza di fermezza, pareva davvero meritare il suo disprezzo. Non sta a me dare giudizi sul loro matrimonio, ma era evidente che la più forte era lei, e che lui non poteva affatto esserle alla pari.

E poi, perché Olmayne aveva subito accettato di avallare il nostro ingresso nella sua Corporazione?

Non certo per desiderio di una vecchia Vedetta stracciona. Doveva essere stato il desiderio di conoscere qualcosa di più sul conto di quello strano, imperioso Pellegrino cieco che accompagnava la Vedetta. Fin dal primo momento, dunque, Olmayne doveva essersi sentita attratta dal Principe Enric; e a lui, naturalmente, non erano certo occorsi molti incoraggiamenti per accettare il dono che gli veniva offerto.

Forse erano divenuti amanti fin dal giorno del nostro arrivo al Collegio dei Ricordatori.

Io me ne andavo per la mia strada, ed Elegro per la sua, e Olmayne e il Principe per la loro, e l’estate cedette il passo all’autunno e l’autunno all’inverno. Scavavo fra le registrazioni con impazienza furiosa. Mai prima d’allora avevo conosciuto una simile partecipazione, una curiosità così intensa. Senza neppure la visita a Jorslem, mi sentivo rinnovato. Vedevo pochissimo il Principe, e i nostri incontri erano generalmente silenziosi: non spettava a me interrogarlo sulle sue azioni, e lui non provava desiderio di darmi spontaneamente delle spiegazioni.

A volte pensavo alla mia vita precedente, ai miei viaggi per il mondo e ad Avluela, l’Alata, che ora, immaginavo, era la consorte di uno dei conquistatori. Chissà come si faceva chiamare il falso Diverso Gormon, adesso che aveva abbandonato il travestimento e si era fatto riconoscere per un abitante di H362? Forse Re della Terra Nove? Signore dell’Oceano Cinque? Superiore all’Uomo Tre? Immaginavo anche che, ovunque si trovasse, dovesse essere più che soddisfatto per il totale successo della conquista.

Verso la fine dell’inverno venni a conoscenza della tresca fra il Ricordatore Olmayne e il Principe Enric di Roum. Dapprima colsi i pettegolezzi che si sussurravano nei quartieri degli apprendisti; poi notai i sorrisi sul volto di altri Ricordatori quando Elegro e Olmayne erano presenti; infine, osservai il comportamento che il Principe e Olmayne tenevano fra di loro. Era ovvio. Quello sfiorarsi di mani, quel sussurrarsi battute maliziose e frasi segrete… che altro potevano significare?

Fra i Ricordatori il voto di matrimonio è considerato come un impegno solenne. Come fra gli Alati, il matrimonio dura per tutta la vita, e certo non si pensa che uno dei coniugi possa ingannare l’altro come faceva Olmayne. Quando poi il matrimonio è fra due Ricordatori — come di solito si verifica nella Corporazione, con qualche eccezione — l’unione è ancor più sacra.

Come si sarebbe vendicato Elegro, quando, prima o poi, ne sarebbe venuto a conoscenza?

Mi accadde di essere presente quando infine la situazione si cristallizzò in aperto conflitto. Era una sera di primavera appena iniziata. Avevo lavorato a lungo e faticosamente nei più profondi pozzi dei serbatoi memoria, portando alla luce informazioni di cui nessuno s’era più occupato da che esse erano state immagazzinate; ora camminavo nel lucore della notte perrisiana con la mente affollata di immagini confuse, per prendere un po’ di aria fresca. Passeggiai lungo la Senn e fui accostato dall’agente di una Sonnambula, che offrì di vendermi un’occhiata nel mondo dei sogni. Incappai in un Pellegrino solitario intento alle sue devozioni dinanzi a un tempiale di carne. Ammirai un paio di giovani Alati in volo, e mi sfuggì qualche lagrima di autocommiserazione. Fui fermato da un turista alieno che portava una maschera respiratoria e una tunica ingioiellata; accostò il rosso viso bucherellato al mio, ed esalò allucinazioni nelle mie narici. Infine feci ritorno al Collegio dei Ricordatori e mi diressi all’appartamento dei miei garanti per rendere loro omaggio prima di ritirarmi per la notte.

C’erano Olmayne ed Elegro. E c’era pure il Principe Enric. Olmayne mi fece entrare con il rapido gesto di un dito, ma, dopo quello, non mostrò di accorgersi della mia presenza, né lo mostrarono gli altri. Elegro stava misurando la stanza con passi furiosi, e pestava i piedi con tanta forza che i delicati tessuti viventi del tappeto arricciavano i petali avanti e indietro, gravemente turbati. — Un Pellegrino! — gridava Elegro. — Se fosse stato, che so, un qualche rifiuto di Venditore, sarebbe stato solo umiliante. Ma un Pellegrino! Diventa un fatto mostruoso!

Il Principe Enric era fermo a braccia incrociate, il corpo immobile. Era impossibile indovinare la sua espressione dietro la maschera da Pellegrino, ma pareva perfettamente calmo.

Elegro disse: — Neghereste di avere compromesso la santità della mia unione?

— Nulla nego. Nulla affermo.

— E tu? — domandò Elegro, volgendosi alla sua consorte. — Di’ la verità, Olmayne! Per una volta almeno, di’ la verità! Che dici delle storie che si raccontano su te e su questo Pellegrino?

— Non ho udito alcuna storia — disse dolcemente Olmayne.

— Dicono che lui divide il tuo letto! Che gustate pozioni comuni! Che insieme vi muovete verso l’estasi!

Il sorriso di Olmayne non vacillò. Il suo volto largo era tranquillo. Mi parve più bella che mai.

Elegro si tormentò con angoscia gli angoli della sciarpa. Il suo viso austero e barbuto si oscurò per la collera e l’esasperazione. La sua mano scivolò sotto la tunica e ne emerse con la sottile goccia lucente di una capsula visiva, la sporse in avanti sul palmo della mano, verso i due colpevoli.

— Perché sprecare fiato? — chiese. — È tutto qui. L’intera registrazione del flusso fotonico. Eravate sorvegliati. Credevate davvero di poter nascondere qualcosa, proprio qui, fra tutti i luoghi dell’universo? Tu, Olmayne, un Ricordatore, avresti dovuto pensarci.

Olmayne esaminò la capsula a distanza, come se si trattasse di una bomba a implosione innescata. Con disprezzo disse: — Era proprio degno di te, spiarci, Elegro. Ti ha dato piacere osservare la nostra gioia?

— Bestia! — gridò lui.

Intascando la capsula, avanzò verso l’immobile Principe. Il viso di Elegro era ora stravolto nell’indignazione del giusto. Arrestandosi a meno di un metro dal Principe dichiarò con voce di ghiaccio: — Verrete punito fino in fondo per questa empietà. Verrete spogliato dei vostri abiti di Pellegrino e sarete affidato al destino riservato ai mostri. La Volontà vi consumerà l’anima!

Il Principe Enric replicò: — Frena la tua lingua.

— Frenare la mia lingua? Ma chi credete di essere, per parlarmi a questo modo? Un Pellegrino che brama la moglie del suo ospite… che doppiamente infrange la santità… che dalle labbra gronda menzogne e ipocrisia allo stesso momento? — Elegro schiumava. Il suo tono gelido era scomparso. Ora smaniava con frenesia, quasi incoerentemente, tradendo la debolezza interiore con quella mancanza di controllo. Noi tre eravamo impietriti, sbalorditi da quel torrente di parole; infine il momento di stasi fu interrotto, quando il Ricordatore, trascinato dall’impeto stesso della sua indignazione, afferrò il Principe per le spalle e prese a scuoterlo con violenza.

— Oscena mondezza — ruggì il Principe — non alzare le mani su di me!

E con una spinta dei pugni contro il petto di Elegro, scagliò il Ricordatore a barcollare all’indietro per tutta la stanza. Elegro urtò contro uno scaffale sospeso e rovesciò una fila di manufatti liquidi; tre fiasche di fluidi scintillanti tremolarono e versarono il loro contenuto; il tappeto elevò un acuto strillo di addolorata protesta. Boccheggiante, stupito, Elegro si premette una mano al petto e ci fissò come per ricevere aiuto.

— Violenza fisica… — ansimò Elegro. — Un crimine vergognoso!

— Il primo a usare la violenza sei stato tu — ricordò Olmayne al marito.

Puntando le dita tremanti, Elegro mormorò: — Per il vostro atto non ci può essere clemenza, Pellegrino!

— Basta, con quel Pellegrino! — esclamò Enric. Le sue mani corsero alla griglia della maschera. Olmayne lanciò un grido per impedirglielo; ma nella sua ira il Principe non conosceva freno. Gettò la maschera sul pavimento e ristette, con il duro volto terribilmente esibito, gli scarni e crudeli lineamenti di falco, le grigie sfere meccaniche delle orbite, che mascheravano gli abissi della sua furia. — Sono il Principe di Roum! — annunciò con voce di tuono. — In ginocchio e umiliati! In ginocchio e umiliati! Svelto, Ricordatore, le tre prostrazioni e le cinque umiliazioni!

Elegro sembrò sgretolarsi. Scrutò incredulo il Principe; poi si chinò, e nella sua meraviglia compì istintivamente l’omaggio rituale dinanzi al seduttore di sua moglie. Era la prima volta dopo la caduta di Roum che il Principe dichiarava il proprio rango, e il piacere che gliene derivava era così evidente, sul suo volto devastato, che perfino le pupille lisce parvero sfolgorare di fierezza regale.

— Fuori! — ordinò il Principe. — Lasciaci!

Elegro fuggì.

Io rimasi, attonito e barcollante. Il Principe mi fece un cenno gentile. — Ti spiacerebbe, amico mio, lasciarci soli per alcuni minuti?

14

Un debole può venir messo in rotta da un attacco di sorpresa, ma in seguito egli si ferma, riflette, trama qualche complotto. Così fu per il Ricordatore Elegro. Forzato fuori del proprio alloggio dallo smascheramento del Principe di Roum, egli si calmò e ricorse all’astuzia non appena lontano da quella presenza terrificante. Più tardi, quella stessa sera, mentre mi sistemavo sul mio giaciglio e esitavo se aiutare il sonno con qualche droga, Elegro mi convocò nella sua cella di lavoro, a un piano inferiore dell’edificio.

Là egli sedeva, fra gli attrezzi tipici della sua Corporazione: rotoli e bobine, lamine per dati, capsule, cuffie, un quartetto di cervelli collegati in serie, una fila di schermi visivi, una piccola spirale ornamentale, tutti i simboli dei raccoglitori d’informazioni. Fra le mani stringeva un cristallo assorbitore di tensione, proveniente da uno dei inondi della Nuvola; il cuore lattiginoso del cristallo si tingeva rapidamente di nero seppia mentre assorbiva dal suo spirito ogni turbamento. Elegro ostentava una posa di severa autorità, quasi che io non avessi visto tutta la sua mancanza di spina dorsale.

Disse: — Conoscevate l’identità di quell’uomo, quando siete giunto con lui a Perris?

— Sì.

— Non ne avete mai parlato.

— Non mi è mai stato chiesto.

— Sapete a quale rischio ci avete esposti tutti quanti, facendoci nascondere inconsapevolmente un Dominatore?

— Siamo terrestri — dissi. — Non riconosciamo forse più l’autorità dei Dominatori?

— Non più dopo la conquista. Per decreto degli invasori tutte le precedenti forme di governo sono annullate e i passati governanti sono passibili di arresto.

— Ma certo dovremmo opporci a un simile ordine!

Il Ricordatore Elegro mi fissò in modo quasi canzonatorio. — È forse compito dei Ricordatori immischiarsi nella politica? Tomis, noi obbediamo al governo che è al potere, indipendentemente dalla sua natura e dal modo con cui ha preso il comando. Qui non conduciamo attività di resistenza.

— Lo vedo.

— Perciò dobbiamo liberarci subito di questo pericoloso fuggiasco. Tomis, vi incarico di recarvi immediatamente al quartier generale delle truppe di occupazione, e di informare Governatore dell’Uomo Sette che abbiamo catturato il Principe di Roum e lo tratteniamo qui in attesa che se lo vengano a prendere.

Io dovrei andare? — mormorai. — Perché mandare un vecchio come messaggero nel cuore della notte? Una normale comunicazione con una cuffia pensante sarebbe sufficiente!

— È troppo rischioso. Estranei potrebbero intercettare la comunicazione. Non gioverebbe alla nostra Corporazione la diffusione di tale notizia. Dovrà essere una comunicazione personale.

— Ma scegliere un insignificante apprendista per portarla… mi sembra strano…

— Soltanto noi due sappiamo — disse Elegro. — Io non voglio andare. Perciò voi dovete andarci.

— Senza un’adeguata credenziale non mi lasceranno mai parlare a Governatore.

— Informate i suoi aiutanti che siete latore di notizie che riguardano la cattura del Principe di Roum. Vi ascolteranno.

— Devo fare il vostro nome?

— Se necessario. Potete dire che il Principe è tenuto prigioniero nel mio appartamento con l’aiuto di mia moglie.

Quasi scoppiai a ridere a quelle parole. Ma rimasi serio dinanzi a quel codardo Ricordatore che non osava neppure andare di persona a denunciare l’uomo che l’aveva fatto becco.

— Alla fine — dissi — il Principe verrà a sapere cosa abbiamo fatto. Vi sembra giusto chiedermi di tradire l’uomo che mi è stato compagno per tanti mesi?

— Qui non si tratta di tradimento, bensì dei nostri doveri verso il governo.

— Io non mi riconosco nessun dovere verso questo governo. La mia fedeltà va alla Corporazione dei Dominatori. È per questo che ho assistito il Principe di Roum quando si trovava in pericolo.

— Per quanto avete fatto — disse Elegro — i conquistatori potrebbero togliervi la vita. L’unico modo per farvi perdonare consiste nell’ammettere il vostro errore e nel cooperare al suo arresto. Andate. Subito.

Nella mia lunga esistenza ne ho dovute sopportare tante, ma mai ho disprezzato qualcuno con la violenza con cui disprezzavo Elegro in quel momento.

Eppure avevo poche scelte, e nessuna di quelle scelte era gradevole. Elegro voleva che il suo offensore fosse punito, ma gli mancava il coraggio di denunciarlo di persona; perciò toccava a me consegnare alle autorità un uomo che avevo protetto e assistito, e verso il quale mi sentivo una certa responsabilità. Se rifiutavo, forte Elegro avrebbe consegnato anche me agli invasori come complice nella fuga del Principe da Roum; oppure si sarebbe vendicato su di me nell’ambito della Corporazione dei Ricordatori. E se obbedivo a Elegro, mi sarebbe rimasta per sempre una macchia sulla coscienza; inoltre, nel caso che i Dominatori riprendessero il potere, avrei dovuto rispondere di parecchie cose.

Mentre soppesavo le possibilità, maledissi tre volte la moglie infedele di Elegro e il suo invertebrato consorte.

Esitai ancora un po’. Elegro cercò ancora di convincermi, minacciando di accusarmi davanti alla Corporazione di essermi accostato illegalmente ad archivi segreti e di avere introdotto nei confini della Corporazione un fuggiasco proscritto. Minacciò di impedire per sempre l’accesso a ogni fonte di informazioni. Parlò in termini vaghi di vendetta.

Alla fine gli dissi che sarei andato al comando degli invasori per fare ciò che voleva. Avevo nel frattempo concepito un tradimento che speravo avrebbe cancellato quello che Elegro mi costringeva a commettere.

L’alba era ormai prossima quando lasciai l’edificio. L’aria era dolce e leggera; una bassa foschia pendeva sulle strade di Perris, conferendo loro un gentile luccichio. Nessuna luna era visibile. Per quelle vìe deserte mi sentivo poco sicuro, benché mi ripetessi che nessuno si sarebbe dato pena di fare del male a un anziano Ricordatore; ma ero armato solo di una piccola lama, e temevo i banditi.

Il mio itinerario passava per buona parte su uno dei cavalcavia pedonali. Feci piuttosto in fretta la ripida salita, ma quando ebbi raggiunto il livello superiore mi sentii più sicuro, perché lì in alto erano dislocate pattuglie a brevi intervalli e c’erano anche altri nottambuli. Oltrepassai una figura spettrale vestita di un abito in raso bianco fra le cui pieghe facevano capolino lineamenti alieni: un avatara, spettrale abitante di un pianeta del Toro dove la reincarnazione è cosa comune e nessuno va in giro nel proprio corpo originale. Superai tre creature femminili di un pianeta del Cigno, che ridacchiarono al mio apparire e mi chiesero se avessi visto qualche maschio della loro specie, poiché l’epoca degli accoppiamenti era prossima. Superai un paio di Diversi che mi squadrarono attentamente, decisero che non avevo con me nulla che valesse la pena di rubare e proseguirono, ridacchiando tra le giogaie pezzate e le macchie radianti luminose come fari.

Infine giunsi al tozzo edificio ottagonale occupato dal Procuratore di Perris.

Non era custodito con grande spiegamento di forze. Gli invasori sembravano sicuri della nostra incapacità di scatenare un contrattacco, e con tutta probabilità erano nel vero; un pianeta che si fa conquistare fra la notte e l’alba non può certo offrire una resistenza preoccupante, in seguito. Intorno al palazzo si levava il debole luccichio di un analizzatore protettivo. Nell’aria un pizzicore di ozono. Nell’ampia piazza davanti all’edificio, alcuni Mercanti stavano sistemando le loro mercanzie per il mattino; vidi barili di spezie scaricati da muscolosi Servitori, e scure forme di salsicce trasportate da file di neutri. Feci un passo oltre il raggio dell’analizzatore e spuntò un invasore per darmi il chi va là.

Spiegai che portavo importanti notizie per il Governatore dell’Uomo Sette; entro brevissimo tempo, passando per una serie incredibilmente breve d’intermediari, fui ammesso alla presenza del Procuratore.

L’invasore aveva arredato il suo ufficio con semplicità ma con evidente buon gusto. Era adorno di oggetti di produzione esclusivamente terrestre: un arazzo tessuto in Afrik, due boccali di alabastro dell’antico Agupt, una statuetta in marmo che poteva risalire ai primi imperi di Roum, e un nero vaso talyano dentro il quale languivano alcuni fiori della morte appassiti. Quando entrai, l’invasore sembrava occupato a leggere vari cubomessaggi; da quel che avevo sentito dire, sapevo che gli invasori sbrigavano gran parte del lavoro durante le ore notturne: e non fui affatto stupito di trovarlo così indaffarato. Dopo un istante sollevò gli occhi e disse: — Cos’è questa storia, vecchio? Cosa sai di un Dominatore in fuga?

— Il Principe di Roum — dissi. — Conosco il suo nascondiglio.

Di colpo i suoi occhi freddi s’illuminarono di interesse. Fece scorrere le mani dalle molte dita sul ripiano della scrivania, dove erano sistemati gli emblemi di parecchie Corporazioni: Trasportatori e Ricordatori e Difensori e Clown fra le altre.

— Continua — mi disse.

— Il Principe è in questa città. Si trova in un luogo ben preciso e non ha modo di fuggirne.

— E tu sei qui per dirmi dove si trova?

— No — dissi. — Sono qui per comprare la sua libertà.

Governatore dell’Uomo Sette parve perplesso. — A volte voi umani mi riuscite incomprensibili — disse. — Affermi di avere catturato questo Dominatore fuggitivo, e io allora penso che tu voglia vendercelo; invece dici che vuoi comprarlo. Perché allora vieni da noi? È uno scherzo?

— Permettete che vi spieghi?

Se ne stette a rimuginare fissando la sua immagine riflessa dalla lucida superficie della scrivania, mentre gli raccontavo brevemente il mio viaggio da Roum in compagnia del Principe accecato, gli parlavo del nostro arrivo al Collegio dei Ricordatori, della seduzione di Olmayne operata dal Principe Enric e del meschino, iroso desiderio di vendetta di Elegro. Dissi chiaramente che ero venuto dagli invasori solo perché costretto, e che non era mia intenzione consegnare il Principe nelle loro mani. Poi aggiunsi: — So che su tutti i Dominatori c’è la pena di morte. Ma questo ha già pagato un alto prezzo per la sua libertà. Vi chiedo perciò di notificare ai Ricordatori che il Principe di Roum è stato amnistiato, e che gli è permesso di continuare il suo viaggio a Jorslem come Pellegrino. In tal modo Elegro non avrà più alcuna autorità su di lui.

— E cosa ci offri tu — chiese Governatore dell’Uomo Sette — in cambio di questa amnistia per il tuo Principe?

— Ho svolto alcune ricerche nei serbatoi memoria dei Ricordatori.

— E allora?

— Ho trovato quello che cercate.

Governatore dell’Uomo Sette mi studiò con attenzione.

— Come puoi avere idea di ciò che cerchiamo?

— Esiste, nei più profondi recessi del Collegio dei Ricordatori — dissi con calma — una registrazione visiva della riserva nella quale vissero i vostri antenati rapiti, durante la loro prigionia sulla Terra. Mostra le loro sofferenze con particolari sconvolgenti. È una superba giustificazione per la conquista della Terra da parte di H362.

— Impossibile! Non esiste un tale documento!

Dalla veemenza della reazione dell’invasore seppi di averlo colpito in un punto vulnerabile.

Egli proseguì: — Abbiamo frugato con ogni attenzione nei vostri archivi. Esiste una sola registrazione di vita nelle riserve, e non mostra la nostra gente, bensì una razza piramidiforme, non umanoide, probabilmente di uno dei mondi dell’Ancora.

— L’ho vista — dissi. — Ce ne sono altre. Ho passato molte ore in quella ricerca, allo scopo di conoscere le nostre passate ingiustizie.

— Gli indici…

— …possono anche essere incompleti. Ho trovato questa registrazione soltanto per caso. I Ricordatori stessi non sanno di averla. E io vi guiderò a essa… se acconsentite a non recare alcun danno al Principe di Roum.

Il Procuratore rimase in silenzio per un istante. Infine disse: — Mi rendi perplesso. Non riesco a decidere se sei un farabutto o un uomo altamente virtuoso.

— Conosco la vera lealtà.

— Però, tradire i segreti della tua Corporazione.

— Io non sono un Ricordatore, soltanto un apprendista; e prima ancora ero Vedetta. Non voglio che facciate del male al Principe solo perche così desidera uno sciocco, che si è fatto fare becco. Il Principe è nelle sue mani; solo voi potete ottenere la sua liberazione ora. E perciò vi devo offrire quel documento.

— Che i Ricordatori hanno accuratamente cancellato dagli indici, per non farlo cadere in mano nostra.

— Che i Ricordatori, per trascuratezza, hanno messo fuori posto e poi dimenticato.

— Ne dubito — disse Governatore dell’Uomo Sette. — Non sono affatto trascurati. Quella registrazione l’hanno nascosta; e tu, consegnandola a noi, non tradisci il tuo mondo? Non diventi un collaboratore dell’odiato nemico?

Sospirai. — Ciò che mi interessa è la libertà del Principe di Roum. Altri fini e altri mezzi non m’interessano. Saprete dove si trova quel documento in cambio della vostra assicurazione che il Principe sarà amnistiato.

L’invasore fece sfoggio di quel che doveva essere il suo sorriso. — Non è nei nostri interessi permettere che membri della Corporazione dei Dominatori restino in libertà. La tua posizione è alquanto precaria, non ti pare? Potrei estrarre con forza dalla tua memoria la collocazione di quel documento… e tenermi anche il Principe.

— Potreste farlo — convenni. — È un rischio che corro. Ma suppongo che un popolo venuto a vendicare un crimine antico possegga un certo senso dell’onore. Io sono nelle vostre mani, e la collocazione del documento è nella mia mente, pronta a essere estratta con la forza, se così volete.

Ora l’invasore rideva con inconfondibile mostra di buon umore.

— Attendi un istante — mi disse. Mormorò alcune parole nella sua lingua madre in un dispositivo ambrato, e quasi subito un secondo membro della sua specie entrò nella stanza. Lo riconobbi all’istante, benché ora gli mancasse parte dello sgargiante travestimento indossato quando viaggiava con me come Gormon, il falso Diverso. Mi offrì l’ambiguo sorriso della sua razza e disse: — Vi saluto, Vedetta.

— Il mio saluto a voi, Gormon.

— Il mio nome è ora Vittorioso Tredici.

— Ora mi chiamo Tomis dei Ricordatori — dissi io.

Governatore dell’Uomo Sette intervenne: — Quand’è che voi due siete diventati amici?

— All’epoca della conquista — disse Vittorioso Tredici. — Mentre svolgevo i miei compiti di esploratore in avanscoperta, incontrai quest’uomo in Talya e viaggiai con lui fino a Roum. Ma in realtà fummo solo compagni, non amici.

Tremai. — Dov’è l’Alata Avluela?

— A Pars, credo — rispose lui con fare disinvolto. — Diceva spesso di voler tornare a Ind, il luogo d’origine della sua gente.

— Allora l’avete amata solo per un poco?

— Eravamo più compagni che amanti — disse l’invasore. — Per noi fu solo una cosa passeggera.

— Per voi, forse — dissi.

— Per entrambi.

— E per questa cosa passeggera rubaste a un uomo gli occhi?

Colui che era stato Gormon scrollò le spalle. — Lo feci per dare a un superbo una lezione di orgoglio.

— A quel tempo diceste che il vostro motivo era la gelosia — gli ricordai. — Pretendeste di agire per amore.

Vittorioso Tredici parve perdere ogni interesse a me. Chiese a Governatore dell’Uomo Sette: — Perché quest’uomo è qui? Perché mi hai chiamato?

— Il Principe di Roum è a Perris — disse l’altro invasore.

Vittorioso Tredici si mostrò bruscamente sorpreso.

Governatore dell’Uomo Sette proseguì: — È prigioniero dei Ricordatori. Quest’uomo ci offre uno strano scambio. Tu conosci il Principe meglio di tutti noi; ti chiedo consiglio.

Il Procuratore tracciò brevemente la situazione. Colui che era stato Gormon ascoltò pensieroso, senza dire una sola parola. Infine, Governatore dell’Uomo Sette disse: — Il problema è questo: daremo amnistia a questo Dominatore proscritto?

— È cieco — disse Vittorioso Tredici. — Ogni suo potere è svanito. I suoi seguaci sono dispersi. Forse il suo spirito è sempre indomito, ma per noi non rappresenta più un pericolo. Consiglio di accettare lo scambio.

— Esentare un Dominatore dall’arresto presenta diversi rischi amministrativi — fece notare Governatore dell’Uomo Sette. — Comunque, anch’io sono d’accordo. Accettiamo lo scambio. — E a me: — Dacci la collocazione del documento che cerchiamo.

— Prima disponete la liberazione del Principe di Roum — replicai con calma.

Entrambi gli invasori si mostrarono divertiti. — Abbastanza giusto — disse Governatore dell’Uomo Sette. — Ma ascolta: come possiamo essere certi che manterrai la tua parola? Durante l’ora che ci servirà per liberare il Principe, potrebbe accaderti qualsiasi cosa.

— Un suggerimento — intervenne Vittorioso Tredici. — Non è tanto una questione di sfiducia quanto di calcolare i tempi. Tomis, perché non registrate la collocazione del documento su un cubo a ritardo di sei ore? Noi prepareremo il cubo in modo che ceda l’informazione solo se entro sei ore il Principe in persona, e nessun altro, gli ordinerà di farlo. Se non avremo trovato e liberato il Principe entro le sei ore, il cubo si distruggerà. E se noi libereremo il Principe, il cubo ci darà l’informazione anche se, tanto per fare un’ipotesi, vi dovesse capitare qualcosa in quell’intervallo.

— Considerate davvero ogni eventualità… — gli dissi.

— Allora, d’accordo? — chiese Governatore dell’Uomo Sette.

— D’accordo — dissi io.

Mi portarono un cubo e mi sistemarono sotto uno schermo protettivo mentre trascrivevo sulla lucida superficie il numero dello scaffale e la formula sequenziale per identificare il documento che avevo ritrovato. Passarono alcuni secondi; il cubo si rovesciò e l’informazione svanì nel suo nucleo opaco. Lo porsi agli invasori.

Fu così che consumai il tradimento verso la mia eredità di Terrestre offrendo i miei servigi ai conquistatori: tutto per essere fedele a un Principe accecato che rubava le mogli altrui.

15

Ormai l’alba era spuntata. Non accompagnai gli invasori al Collegio dei Ricordatori; non era affar mio controllare gli eventi complessi che stavano per avvenire; preferivo tenermene lontano. Cadeva una fine acquerugiola quando mi avviai per le strade grigie che costeggiavano la scura Senn. Il fiume immutabile, dalla superficie punteggiata di pioggia, scorreva indefatigabilmente contro gli antichi archi di pietra del Primo Ciclo: ponti che univano tra loro millenni innumerevoli, sopravvissuti di un’era nella quale gli unici problemi dell’umanità erano quelli che l’umanità si procurava da sola. Il mattino ingoiò la città. Per un riflesso antico, inestirpabile, cercai gli strumenti per compiere la Vigilanza, e dovetti ricordarmi con uno sforzo che ormai queste cose appartenevano al passato. Le Vedette si erano sciolte, il nemico era giunto, e il vecchio Wuellig, ora Tomis dei Ricordatori, si era venduto agli antichi nemici dell’umanità.

All’ombra di un edificio religioso con due campanili gemelli, ricordo degli antichi Cristani, mi lasciai attrarre nella baracca di una Sonnambula. Non ho mai avuto molti contatti con questa Corporazione. A modo mio diffido sempre dei ciarlatani, e ai nostri tempi i ciarlatani abbondano. I Sonnambuli, nello stato di trance, affermano di vedere ciò che fu, ciò che è, e ciò che sarà. Anch’io conosco la trance, perché, in quanto Vedetta, ero solito entrarci quattro volte al giorno, ma una Vedetta con un briciolo di orgoglio professionale finisce necessariamente col disprezzare la discutibile etica di coloro che usano la seconda vista per profitto, come fanno i Sonnambuli.

Tuttavia, da quando appartenevo ai Ricordatori avevo saputo, con sorpresa, che spesso si chiedeva l’aiuto dei Sonnambuli per scoprire qualche sito dei tempi antichi, e che sempre i Ricordatori ne erano rimasti soddisfatti. Benché rimanessi ancora scettico, volevo saperne qualcosa di più. E in quel momento mi occorreva un riparo dalla tempesta scoppiata al Collegio.

Una figura fragile e affettata, vestita di nero, mi accolse con un beffardo inchino quando entrai in quella bassa baracca.

— Sono Samit dei Sonnambuli — mi disse con voce alta e lamentosa. — Vi do il benvenuto e vi auguro buone nuove. Ecco la mia compagna, la Sonnambula Murta.

La Sonnambula Murta era una donna massiccia che indossava un abito come di pizzo. La carne del suo volto era pesante; aveva profonde occhiaie scure, e dal suo labbro superiore spuntava una discreta peluria. I Sonnambuli lavorano in coppia, uno agisce da imbonitore e l’altro si esibisce; molte coppie sono formate da marito e moglie, come questa. La mia mente si ribellò all’immagine di quella montagna di carne di Murta che abbracciava il mingherlino Samit, ma non erano fatti miei. Sedetti al posto che Samit mi indicava, Su un tavolo vicino notai alcune tavolette alimentari di diversi colori; avevo interrotto la colazione della famigliola. Murta, già profondamente immersa nella trance, si aggirava per la stanza con passi pesanti, rasentando di quando in quando alcuni mobili con gesto leggero. Si dice che certi Sonnambuli restino svegli solo per due o tre ore su venti, semplicemente per prendere i loro pasti e soddisfare le esigenze corporali; ce ne sono altri invece che chiaramente vivono in uno stato di trance perenne, e che vengono nutriti e assistiti da accoliti.

Ascoltai svogliatamente mentre Samit dei Sonnambuli mi somministrava le sue chiacchiere da imbonitore in rapidi, febbrili scoppiettii di frasi rituali. Erano fatte su misura per gli ignoranti; i Sonnambuli svolgono quasi tutto il loro lavoro con Servitori, Clown e altra gentucola. Alla fine, forse accorgendosi della mia impazienza, tagliò corto alla sua magnificazione delle doti della Sonnambula Murta e mi chiese cosa volessi sapere con precisione.

— Certo la Sonnambula lo saprà già — dissi.

— Desiderate un’analisi generale?

— Voglio conoscere il destino di coloro che mi circondano. Vorrei che la Sonnambula si concentrasse particolarmente sugli avvenimenti che si stanno verificando ora al Collegio dei Ricordatori.

Samit tamburellò con le unghie (non tanto corte) sul tavolo liscio e lanciò un’occhiata alla bovina Murta. — Sei in contatto con la verità? — le chiese.

La replica di lei fu un sospiro, prolungato e sottile, che pareva giungere dal cuore di quella tremolante massa di ciccia.

— Cosa vedi? — le chiese ancora.

La donna prese a bisbigliare fittamente. I Sonnambuli parlano in una lingua che nessun’altra persona dell’umanità conosce o usa; è uno strano insieme di suoni taglienti: alcuni dicono che discende dall’antica lingua dell’Agupt. Non saprei dire. Alle mie orecchie suonava incoerente, frammentaria; mi pareva impossibile che potesse avere un qualsiasi significato. Samit prestò orecchio per un poco, poi annuì soddisfatto e stese il palmo della mano verso di me.

— Ci sono molte cose — disse.

Discutemmo il prezzo, contrattando brevemente, e giungemmo a un accordo. — Avanti — gli dissi. — Interpretate la verità.

Cautamente, cominciò: — Questa faccenda tocca degli esseri di un altro mondo, e anche vari membri della Corporazione dei Ricordatori. — Me ne rimasi silenzioso, senza fornirgli alcun incoraggiamento. — Li accomuna una difficile disputa. Al cuore di tutto c’è un uomo senza occhi.

Drizzai la schiena con un sobbalzo.

Samit esibì un freddo sorriso di trionfo. — L’uomo senza occhi è caduto dalla sua grandezza. Dovremmo dire che egli è la Terra, infranta dai suoi conquistatori? Ora egli è prossimo alla fine dei suoi giorni. Vorrebbe restaurare la sua condizione precedente, ma sa che è impossibile. Ha indotto un Ricordatore a infrangere un voto. Nel Collegio di quella Corporazione sono convenuti vari conquistatori per… per punirlo? No. No. Per liberarlo dalla prigionia. Devo Proseguire?

— Svelto!

— Avete ricevuto tutto quello per cui avete pagato.

Lo squadrai minacciosamente. Era estorsione vera e propria; eppure la Sonnambula aveva visto chiaramente la verità. Non avevo saputo nulla che già non sapessi prima, ma bastava a dirmi che potevo saperne di più. Aumentai la cifra.

Samit richiuse il pugno sulle mie monete e conferì ancora con Murta. Ora lei parlò a lungo, con una certa agitazione, girando più volte su se stessa e urtando contro un divano fatiscente.

Samit disse: — L’uomo senza occhi si è intromesso fra un marito e una moglie. Il marito oltraggiato chiede che sia punito; gli esseri di un altro mondo vogliono impedirlo. Questi esseri cercano verità nascoste; le scopriranno, con l’aiuto di un traditore. L’uomo senza occhi vuole libertà e potenza; troverà solo la pace. La moglie contaminata cerca il piacere; troverà invece avversità.

— E io? — chiesi, interrompendo il silenzio, ostinato e costoso, seguito a quelle parole. — Non mi avete detto ancora nulla sul mio conto!

— Lascerete presto Perris, nello stesso modo in cui vi siete entrato. Non ve ne andrete solo. Non partirete come membro della vostra attuale Corporazione.

— E quale sarà la mia destinazione?

— La conoscete bene quanto noi; perché sprecare denaro per farvelo dire?

Cadde nuovamente nel silenzio.

— Ditemi cosa mi aspetta durante il viaggio a Jorslem — dissi.

— Non potreste permettervi simili informazioni. Il futuro è molto caro. Vi consiglio di accontentarvi di ciò che vi abbiamo detto.

— Ho alcune domande su ciò che mi avete detto.

— Noi non forniamo mai chiarimenti, a nessun prezzo.

Sogghignò. Sentii la violenza del suo disprezzo. La Sonnambula Murta, ancora barcollante per la stanza, grugnì e ruttò. Le potenze con le quali era in contatto dovevano averle impartito una nuova informazione; piagnucolò, rabbrividì, ed emise un confuso suono ridacchiante. Samit le parlò nella loro lingua. Lei rispose con lunghe frasi. Poi Samit mi scrutò. — Un’ultima informazione — disse — senza pagamento. La vostra vita non è in pericolo, ma il vostro spirito sì. Vi conviene mettervi in pace, al più presto possibile, con la Volontà. Recuperate il vostro orientamento morale. Ricordate la vostra vera fedeltà. Espiate i peccati commessi con buone intenzioni. Non posso dirvi di più.

In quel momento, Murta si agitò e sembrò risvegliarsi. Grandi fette di carne, sul volto e sul corpo, tremolarono mentre le convulsioni dovute all’abbandono della trance si impossessavano di lei. I suoi occhi si spalancarono, ma vi scorsi soltanto il bianco, e fu una vista terribile. Le labbra spesse si socchiusero rivelando denti sbriciolati. Samit mi fece cenno di uscire, con un rapido gesto delle mani sottili. Corsi fuori nello scuro mattino inzuppato di pioggia.

Precipitosamente feci ritorno al Collegio dei Ricordatori, e vi giunsi senza fiato, con una rossa fitta di dolore nel petto. Sostai lungamente all’esterno dello splendido edificio per recuperare le energie. Zattere volanti mi passarono sopra la testa, abbandonando l’edificio da un piano alto. Il coraggio mi venne quasi a mancare. Ma alla fine entrai nel vestibolo e salii fino all’appartamento di Elegro e Olmayne.

Un groviglio di Ricordatori agitati stipava il corridoio. Un ronzio di sussurri mi giungeva alle orecchie. Mi spinsi avanti; un uomo (lo riconobbi: un alto ufficiale della Corporazione) mi fermò con un gesto e disse: — Quali motivi ti spingono qui, apprendista?

— Sono Tomis, per cui si fece garante il Ricordatore Olmayne. La mia camera è qui vicino.

— Tomis! — gridò una voce.

Fui afferrato e spinto dentro l’appartamento che ben conoscevo, ma che ora presentava una scena di devastazione.

Una decina di Ricordatori faceva mucchio sul fondo, palpeggiandosi le sciarpe con fare angosciato. Riconobbi la sottile ed elegante figura del Cancelliere Kenishal: gli occhi un tempo grigi erano opachi e vuoti per la disperazione. Sotto un copriletto sulla sinistra dell’ingresso giaceva una figura accasciata in abito da Pellegrino: il Principe di Roum, morto, in una pozza del suo stesso sangue. La sua maschera luccicante, ora anch’essa macchiata, era accanto a lui. Sul lato opposto della stanza, come crollato su una credenza intagliata che conteneva manufatti del Secondo Ciclo, di grande bellezza, stava il Ricordatore Elegro; pareva addormentato, con un’espressione di furia e di sorpresa al tempo stesso. Aveva la gola trapassata da un dardo sottile. Sul retro, fiancheggiata da massicci Ricordatori, c’era Olmayne tutta in disordine e scarmigliata. Il suo abito scarlatto era strappato sul davanti e mostrava gli alti seni bianchi; i capelli neri pendevano scompigliati e la sua pelle di raso era madida di sudore. Sembrava spersa in un sogno, lontana da tutto ciò che ora le stava attorno.

— Che cos’è successo? — domandai.

— Due omicidi — disse il Cancelliere Kenishal con voce spezzata. Avanzò verso di me: un uomo alto e disfatto, con i capelli bianchi e un incontrollabile tic nervoso a una palpebra. — Quando avete visto per l’ultima volta quelle due persone vive, apprendista?

— Ieri sera tardi.

— E come mai eravate qui a quell’ora?

— Per dare un saluto, nulla di particolare.

— C’era qualcosa di fuori del normale?

— Una disputa fra il Ricordatore Elegro e il Pellegrino — ammisi.

— A che proposito? — chiese con voce velata il Cancelliere.

Guardai a disagio Olmayne; ma lei non vedeva nulla, e sentiva ancor meno.

— Lei — dissi.

Udii delle risate subito soppresse dagli altri Ricordatori. Si diedero di gomito fra loro, annuirono, perfino sorrisero; avevo confermato lo scandalo. Il Cancelliere divenne ancor più solenne.

Indicò il corpo del Principe.

— Era vostro compagno quando entraste in Perris — disse. — Conoscevate la sua vera identità?

Mi inumidii le labbra. — Avevo dei sospetti.

— Che lui fosse…

— Il Principe di Roum, fuggiasco — dissi. Non osai tentare dei sotterfugi; ero in una situazione precaria.

Ancora assensi, ancora colpetti di gomito. Il Cancelliere Kenishal disse: — Quest’uomo era passibile di arresto. Non avreste assolutamente dovuto tenere nascosta la sua identità.

Rimasi in silenzio.

Il Cancelliere proseguì: — Siete stato assente da questo edificio per alcune ore. Spiegateci le vostre attività dopo che lasciaste l’appartamento di Elegro e Olmayne.

— Andai a far visita a Governatore dell’Uomo Sette — dissi.

Effetto sensazionale.

— Per quale motivo?

— Per informare il Procuratore — risposi — che il Principe di Roum era stato catturato e si trovava ora nell’appartamento di un Ricordatore. Obbedii in questo alle istruzioni del Ricordatore Elegro. Dopo aver comunicato l’informazione, camminai per alcune ore senza nessuna meta particolare, e poi ritornai qui e trovai… e trovai…

— E trovaste ogni cosa in preda al caos — terminò per me il Cancelliere Kenishal. — Il Procuratore è arrivato qui all’alba. È entrato in questo appartamento; sia Elegro sia il Principe, allora, dovevano essere ancora in vita. Poi il Procuratore è sceso nei nostri archivi e ha rimosso… ha rimosso… materiale della massima delicatezza… della massima delicatezza… rimosso… materiale che non si supponeva fosse accessibile… della massima delicatezza… — Il Cancelliere balbettava. Simile a un intricato congegno repentinamente colpito dalla ruggine, rallentò i gesti, emise suoni stridenti, parve giunto sulla soglia di un collasso. Parecchi Ricordatori di alto grado corsero in suo aiuto; uno gli iniettò qualche stimolante nel braccio. In pochi secondi il Cancelliere si riprese. — Questi omicidi sono avvenuti dopo che il Procuratore lasciò l’edificio — disse. — Il Ricordatore Olmayne non è stata capace di fornirci informazioni a tale proposito. Forse voi, apprendista, sapete qualcosa che potrebbe esserci utile.

— Non ero presente. Due Sonnambuli presso la Senn possono testimoniare che ero con loro mentre i delitti venivano commessi.

Qualcuno rise alla mia menzione dei Sonnambuli. Facessero pure; non mi curavo certo di conservare la dignità in un momento come quello. Sapevo di essere in pericolo.

Il Cancelliere disse lentamente: — Andrete nella vostra camera, apprendista, e ci resterete in attesa di un completo interrogatorio. Dopo di che lascerete l’edificio e uscirete da Perris nel giro di venti ore. In virtù della mia autorità vi dichiaro espulso dalla Corporazione dei Ricordatori.

Pur essendo stato preavvisato da Samit, fui egualmente stordito dalla notizia.

Espulso? Ma perché?

— Non possiamo più fidarci di voi. Troppi misteri circondano la vostra persona. Conducete nella nostra casa un Principe e ci tacete i vostri sospetti; siete presente a una disputa che sfocerà in due omicidi; fate visita al Procuratore nel cuore della notte. Forse siete perfino responsabile della disastrosa perdita sofferta dai nostri archivi questa mattina. Non desideriamo avere tra noi uomini così pieni di enigmi. Oggi recidiamo qualsiasi rapporto con voi. — Il Cancelliere alzò una mano con una grande curva. — Alla vostra camera, ora, ad attendere l’interrogatorio, e poi andatevene!

Fui spinto alla porta. Mentre la cavità dell’ingresso si richiudeva alle mie spalle, diedi uno sguardo indietro e vidi il Cancelliere, il viso cinereo, afflosciarsi fra le braccia dei compagni, mentre nello stesso istante il Ricordatore Olmayne si ridestava dalla sua immobilità e cadeva sul pavimento, urlante.

16

Solo, nella mia camera, impiegai molto tempo a radunare tutte le mie proprietà, benché possedessi ben poco. Il mattino era già inoltrato quando entrò un Ricordatore che non conoscevo, portando con sé l’occorrente per l’interrogatorio. Occhieggiai preoccupato quegli strumenti, pensando che se i Ricordatori avessero scoperto che ero stato io a fornire agli invasori la collocazione del documento sulle riserve, per me sarebbe stata finita. Già mi sospettavano: il Cancelliere aveva esitato a formulare l’accusa solo perché gli pareva strano che un apprendista come me si fosse preso la briga di svolgere ricerche personali negli archivi della Corporazione.

Ma ebbi fortuna. Il mio inquisitore si occupò solamente dei particolari delle due uccisioni: una volta chiarito che non ne sapevo nulla mi lasciò, ammonendomi di allontanarmi dal Collegio entro il termine stabilito. Gli dissi che l’avrei fatto.

Ma prima avevo bisogno di riposo. Quella notte non ne avevo avuto; presi allora un sonnifero da tre ore e mi immersi in un sonno calmante. Quando mi svegliai, c’era una figura al mio fianco: il Ricordatore Olmayne.

Sembrava terribilmente invecchiata dalla sera precedente. Indossava una tunica molto riservata, in un singolo pezzo, di colore scuro, e non portava né gioielli né cosmetici. Aveva i lineamenti rigidi. Dominai la sorpresa nel trovarla là e mi rizzai a sedere mormorando scuse per non essermi subito accorto della sua presenza.

— State comodo — mi disse lei con gentilezza. — Ho interrotto il vostro sonno?

— No, ho dormito le mie ore.

— Io non ci sono riuscita. Ma avrò tempo in seguito per dormire. Ci dobbiamo reciprocamente delle spiegazioni, Tomis.

— Sì. — Mi alzai titubante. — Vi sentite bene? Vi ho vista prima, e sembravate perduta nella trance.

— Mi hanno dato qualche medicina — replicò lei.

— Ditemi quel che potete sulla scorsa notte.

Le sue palpebre si chiusero per qualche istante. — Voi eravate presente quando Elegro si scagliò contro di noi e venne poi allontanato dal Principe. Alcune ore dopo, Elegro tornò. Con lui c’erano il Procuratore di Perris e vari altri invasori. Elegro pareva giubilante. Il Procuratore mostrò un cubo e ordinò al Principe di posarvi sopra la mano. Il Principe esitò, ma Governatore dell’Uomo Sette lo convinse a cooperare.

Quando egli ebbe toccato il cubo, il Procuratore ed Elegro se ne andarono, lasciando me e il Principe di nuovo soli; nessuno di noi due aveva compreso nulla dell’accaduto. Vennero poste guardie all’uscita per impedire che il Principe si allontanasse. Non molto tempo dopo, il Procuratore ed Elegro fecero ritorno. Ora Elegro sembrava sottomesso e perfino confuso, mentre il Procuratore era chiaramente allegro. Nella nostra stanza il Procuratore annunciò che era stata concessa l’amnistia all’ex Principe di Roum e che nessuno doveva fargli del male. Dopo di che tutti gli invasori se ne andarono.

— Continuate.

Olmayne parlava come una Sonnambula. — Elegro non sembrava capire cosa fosse successo. Si mise a urlare che era stato commesso un tradimento; gridò che era stato ingannato. Fu una scena penosa. Elegro, nella sua ira, non sembrava più neppure un uomo: strillava come una donna; il Principe divenne sempre più altezzoso; ognuno ordinò all’altro di lasciare l’appartamento. La disputa si fece così violenta che lo stesso tappeto cominciò a morire. I petali caddero; le piccole creature boccheggiavano. E presto si giunse al culmine. Elegro afferrò un’arma e minacciò di usarla se il Principe non se ne fosse andato subito. Il Principe interpretò male lo stato di furia di Elegro; pensando che minacciasse a vuoto, si fece avanti come per gettare fuori Elegro. Elegro uccise il Principe. L’istante successivo, io afferrai un dardo dal nostro scaffale di manufatti e lo scagliai nella gola di Elegro. Il dardo era avvelenato; Elegro morì subito. Chiamai qualcuno, e dopo non ricordo altro.

— Una notte strana — dissi.

— Troppo strana. Ora parlate voi, Tomis: perché venne il Procuratore, e perché non prese in custodia il Principe?

Le dissi: — Il Procuratore venne perché glielo avevo chiesto io, dietro ordine del vostro defunto marito. Il Procuratore non arrestò il Principe perché la libertà del Principe era stata comprata.

— A che prezzo?

— A prezzo della vergogna di un uomo — le dissi.

— Parlate per enigmi.

— La verità mi disonora. Vi prego di non insistere su questo punto.

— Il Cancelliere ha parlato di un documento prelavato dal Procuratore…

— Ha a che fare con quello — confessai, e Olmayne chinò gli occhi sul pavimento senza più fare domande.

Alla fine le chiesi: — Allora avete commesso un omicidio. Quale sarà la vostra punizione?

— Il delitto fu commesso per paura e per eccitazione — rispose lei. — Non ci saranno pene da parte dell’amministrazione civile. Ma sono espulsa dalla Corporazione per l’adulterio e per il mio atto di violenza.

— Ne sono addolorato, credetemi.

— E mi è stato ordinato di intraprendere il Pellegrinaggio a Jorslem per purificare la mia anima. Devo partire entro oggi, o la Corporazione disporrà a piacere della mia vita.

— Anch’io sono stato espulso — le dissi. — E anch’io devo andare a Jorslem, sebbene per mia scelta spontanea.

— Faremo il viaggio insieme?

La mia esitazione mi tradì. Ero arrivato a Perris in compagnia di un Principe cieco; mi piaceva ben poco l’idea di partire con una donna assassina e priva di Corporazione. Forse era tempo che viaggiassi da solo. Eppure la Sonnambula aveva detto che avrei avuto un compagno.

Olmayne disse con voce soave: — Non mi parete molto entusiasta. Ma forse posso darvi un po’ d’incoraggiamento… — Si aprì la tunica. Vidi fra i suoi bianchi seni una piccola borsa grigia: non intendeva tentarmi con la carne, ma con una ipertasca. — Qui — mi disse — c’è tutto quello che il Principe di Roum portava nella coscia. Mi aveva mostrato i suoi tesori, e io li ho tolti dal suo corpo dopo che fu ucciso nella mia stanza. Ci sono anche alcune cose mie: non sono quindi priva di mezzi. Viaggeremo comodamente. Cosa ne dite?

— Trovo difficile rifiutare.

— Fatevi trovare pronto fra due ore.

— Sono già pronto — le dissi.

— Allora aspettatemi.

Mi lasciò solo. Circa due ore dopo fu di ritorno, vestita degli abiti e della maschera di un Pellegrino. Sul braccio aveva un secondo abbigliamento completo da Pellegrino, e me lo tese. Certo: ora anch’io ero senza Corporazione, ed era un modo pericoloso di viaggiare. Dunque mi sarei recato anch’io come Pellegrino a Jorslem. Indossai quegli abiti poco familiari. Poi raccogliemmo i nostri averi.

— Ho avvertito la Corporazione dei Pellegrini — mi disse, quando ci fummo lasciati alle spalle il Collegio dei Ricordatori. — Siamo registrati a tutti gli effetti. Più tardi, in giornata, possiamo sperare di ricevere le nostre pietre di stella. Come vi va la maschera, Tomis?

— Stretta.

— Così deve essere.

17

Sulla via per uscire da Perris capitammo nella grande piazza antistante l’antico edificio sacro, grigio, della vecchia religione. Vi era raccolta una folla numerosa; vidi invasori al centro del gruppo. Diversi mendicanti orbitavano tutt’intorno con un considerevole profitto. Ci ignorarono, poiché nessuno chiede l’elemosina a un Pellegrino; ma afferrai uno di quei bricconi per il colletto e gli domandai: — Che cerimonia si sta svolgendo, qui?

— I funerali del Principe di Roum — rispose lui. — Per ordine del Procuratore. Funerali di stato in pompa magna. E ne stanno facendo una vera celebrazione.

— Ma perché tenere una cerimonia simile a Perris? — gli chiesi ancora. — Come è morto il Principe?

— Sentite, chiedetelo a qualcun altro. Io ho da lavorare.

Si divincolò e riprese a sgattaiolare tra la folla.

— Assistiamo al funerale? — domandai a Olmayne.

— Meglio di no.

— Come volete.

Ci dirigemmo al massiccio ponte di pietra che attraversa la Senn. Dietro di noi, si levò un brillante alone azzurro quando la pira del Principe venne accesa. Quella pira ci illuminò la strada nella notte, mentre ci inoltravamo lentamente verso est, verso Jorslem.

Загрузка...