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Proseguirono veloci. L’aria pulita agiva su di loro come un tonico, e la speranza li stimolava. La galleria saliva seguendo un’inclinazione piuttosto ripida, e poco dopo Harker udì uno scroscio d’acqua, un mormorio sordo e tonante, come un fiume sotterraneo che scorresse davanti a loro, a un livello più alto. L’oscurità era totale, ma non era difficile seguire quel liscio canale di pietra.

Sim disse: «Quella lì davanti, non è luce?»

«Si», annui Harker, «una specie di fosforescenza. Non mi piace quel fiume lì davanti a noi. Potrebbe bloccarci».

Avanzarono in silenzio. La luminiscenza si fece via via più intensa, l’aria più umida. Chiazze di licheni fosforescenti comparvero sulle pareti, luccicando come fiochi gioielli in un caleidoscopio di colori malaticci. Il ruggito dell’acqua si era fatto assordante. Vi capitarono davanti all’improvviso. L’acqua scorreva di traverso alla galleria, in un ampio canale scavato in profondità nella roccia, cosicché il suo livello era sceso al di sotto dell’antico letto, lasciando asciutta la galleria. Era un ampio fiume, lento e maestoso. I licheni ornavano il soffitto e ie pareti, riflettendosi in opachi luccichii sulla superficie dell’acqua.

Sopra le loro teste s’innalzava un nero camino attraverso la roccia, e la corrente d’aria fresca scendeva da li, quasi con la forza d’un uragano, ma la maggior parte di essa si dissipava nella galleria del fiume. Harker giudicò che dovesse esserci una formazione di rupi, in superficie, che convogliava il vento verso il basso, come una sorta di sifone. Quel camino nella roccia era del tutto inaccessibile.

Harker disse: «Credo che dovremo risalire il corso del fiume». La roccia era abbastanza erosa da render possibile la cosa, mostrando ampie sporgenze a tutti i livelli.

McLaren obbiettó: «E se questo fiume non venisse dalla superficie? Se sgorgasse da una fonte sotterranea?»

«Rischierai il tuo collo», ribatté Harker. «Su, vieni».

S’incamminarono. Dopo un po’, facendo capriole come focene nell’acqua nera, le creature dorate passarono nuotando, videro gli uomini e sempre nuotando tornarono indietro.

Non erano molto grandi. Fra tutte, la più grande aveva le dimensioni di un bambino di dodici anni. Il loro corpo era antropoide, ma adattato al nuoto con lucide membrane. Irradiavano una luminosità dorata, fosforescenti come i licheni, i loro occhi erano neri e senza palpebre, quasi un’unica, immensa pupilla. I loro volti erano incredibili. Seppur vagamente, ricordarono ad Harker le bocche di leone che crescevano sui prati in estate: teste e volti dei nuotatori erano identici, coperti di petali grondanti d’acqua che parevano dotati di movimenti indipendenti, come se fossero organi sensori e non soltanto decorazioni.

Harker esclamò: «Perbacco, cosa sono?»

«Sembrano fiori», disse McLaren.

«Assomigliano di più a dei pesci», osservò il negro.

Harker rise. «Scommetto che sono tutte e due le cose insieme. Scommetto che sono pianni, e anfibi per giunta». I coloni avevano abbreviato l’espressione piante-animali in piantani, e infine in pianni. «Ho visto creature, nelle paludi, non molto diverse da queste. Ma… caspita, guardateli: sembrano umani!»

«Hanno una forma quasi umana», fece McLaren, rabbrividendo, «e… vorrei che non ci guardassero così!»

Sim replicò: «Finché si limitano a guardarci, non ho intenzione di preoccuparmi…»

Ma non si limitarono a questo. Cominciarono a stringersi intorno agli uomini, nuotando controcorrente senza nessuno sforzo. Alcuni di loro cominciarono ad arrampicarsi fuori dell’acqua, su una bassa sporgenza. Erano agili e graziosi. C’era qualcosa di sgradevolmente infantile in loro. Erano quindici o venti, e ricordavano ad Harker una banda di giovani discoli: soltanto che lo scherzo, nell’insieme, dava una strana, inquietante sensazione di malignità senz’anima.

Harker fece strada ai compagni accelerando il passo sulla banchina rocciosa. Aveva estratto il pugnale e stringeva la corta lancia nella destra.

L’aspetto generale del fiume cambiò. Il letto si ampliò e in alto, davanti a loro, Harker vide che la galleria si allargava in un’ampia cavità in ombra, con l’acqua che vi formava un lago oscuro, riversandosi lentamente fuori da un basso e largo labbro roccioso. Qui altre di quelle strane creature fosforescenti, simili a bambini, stavano giocando. Subito si unirono ai loro compagni, serrando ancor più dappresso i tre uomini.

«Non mi piace», disse McLaren. «Se soltanto producessero un qualche suono, un…»

D’improvviso lo fecero. Una risatina acuta che suonava un insulto blasfemo a quella che avrebbe potuto emettere un bambino. I loro occhi luccicavano. Si lanciarono in avanti, correndo, grondanti d’acqua, lungo la riva rocciosa, protendendo fuori dall’acqua quelle che sembravano braccia per agguantare le caviglie degli uomini, mentre continuavano a ridere. All’interno del suo ventre duro e piatto, Harker sentì rivoltarglisi le budella.

McLaren gridò e scalciò. Un paio d’artigli, piccole cose spinose acuminate come aghi, gli stavano graffiando una caviglia. Sim trapassò un petto dorato con la sua lancia. Non avevano ossa. Il corpo era leggero e membranoso, e il sangue che ne gocciolò fuori era verdastro, appiccicoso, come la linfa d’una pianta. Harker rispedi dentro il fiume con un calcio due di quegli esseri, fece roteare la lancia come una mazza da baseball e ne sbalzò giù altri due dalla banchina rocciosa — erano incredibilmente leggeri — e urlò: «Lassù, su quella cengia in aito. Non credo possano arrampicarsi fin lassù».

Spinse McLaren davanti a sé e aiutò Sim in una breve scaramuccia di retroguardia, mentre si arrampicavano tutti e tre lungo un passaggio difficile. Giunto in cima, McLaren si rannicchiò, e scagliò pietre giù, verso gli aggressori. C’era una grande fessura che correva lungo tutto il soffitto della caverna, la cicatrice di qualche antico terremoto. Qualche istante dopo, un punto del costone smottò, producendo una piccola slavina.

«Su, basta», ansimò Harker. «Piantala prima di far crollare tutto il soffitto. Non possono seguirci quassù». I pianni erano attrezzati per nuotare, non per arrampicarsi. Artigliarono rabbiosamente la roccia, ma scivolarono e ricaddero all’indietro; infine, si ritirarono nell’acqua pieni di rancore. D’un tratto afferrarono il corpo esanime ancora con la lancia di Sim piantata attraverso, e lo divorarono, litigando ferocemente tra loro per i bocconi migliori. McLaren si sporse oltre la cengia e vomitò.

Anche Harker non si sentiva molto bene. Ma si rialzò in piedi e riprese ad arrampicarsi. Sim aiutò McLaren, la cui caviglia sanguinava parecchio.

Quell’alta cengia saliva a un forte angolo, correndo tutt’intorno alla parete della grande caverna occupata dal lago. Qui l’aria era più fresca e asciutta, e i licheni si diradavano sempre più, fino a svanire, lasciando ogni cosa nella più totale oscurità. Harker, a una svolta, cacciò un grido. A giudicare dall’eco, quella cavità era immensa.

Sotto, nell’acqua nera, i corpi dorati sfrecciavano come comete in un universo color ebano, scomparendo una dopo l’altra tutte nella stessa direzione. Harker avanzava tastando tutt’intorno a sé: la sua pelle fremeva per l’impulso nervoso del pericolo, la sensazione di qualcosa d’invisibile, innaturale e maligno.

Sim disse: «Ho sentito qualcosa».

Si arrestarono. L’aria cieca sapeva d’una intensa fragranza, piacevolmente aromatica… ma in qualche modo impura. L’acqua sospirava pigramente molto più in basso. In qualche punto davanti a loro si udiva lo sciabordio tranquillo d’una corrente: Harker giudicò che fosse quello il punto in cui il fiume penetrava nella caverna. Ma non erano questi i rumori sui quali Sim aveva richiamato la loro attenzione.

Il negro aveva inteso parlare del fruscio fremente che sembrava giungere da ogni punto della caverna. Ora la superficie del lago era costellata di chiazze colorate d’una vivida fosforescenza, che lasciavano dietro di sé scie impetuose. Le macchie crebbero rapidamente di numero, facendosi più vicine, e divennero tappeti di fiori, scarlatti, azzurri, dorati e purpurei. Ce n’erano interi campi galleggianti, rimorchiati sull’acqua da risplendenti nuotatori.

«Mio Dio», sillabò Harker, gli occhi sbarrati. «Quanto sono grandi?»

«Quel che basta a farne tre di me». Sim era un uomo grande e grosso. «Quelli piccoli, prima, erano davvero i bambini. Sono andati a chiamare i loro papà. Oh, Signore!»

I nuotatori erano assai simili alle creature più piccole che li avevano attaccati più in basso, salvo per le dimensioni gigantesche. Ma non erano pesanti, impacciati. Erano magnifici, agili di membra e leggeri. Le loro membrane si erano allargate in grandi ali lucenti, ogni nervatura terminava con un’estremità di fuoco. Soltanto le loro teste dorate, simili a bocche di leone, erano cambiate.

Avevano perso i petali. Le loro teste di adulti erano coronate da piatte escrescenze che avevano la bellezza velenosa e sordida dei funghi. E i loro volti erano in tutto umani.

Per la prima volta dai tempi dell’infanzia Harker si sentì raggelare.

I campi di fiori fiammeggianti furono riuniti insieme in un grande turbinio ai piedi della scogliera. I giganti dorati tutt’a un tratto si misero a gridare, una sonora nota squillante, e l’acqua cominciò a ribollire, sollevando una schiuma avvampante quando a migliaia quei corpi simili a fiori ne uscirono e cominciarono ad arrampicarsi su per la roccia su lunghe zampe a ventosa, simili a quelle dei ragni.

Sembrava fosse del tutto inutile provarsi a fuggire, ma Harker li sollecitò: «Scappiamo via!» Adesso da quell’esercito là sotto s’irradiava luce sufficiente a illuminare il cammino davanti a loro. Harker cominciò a correre sulla sporgenza rocciosa con gli altri alle calcagna. I fiori che li inseguivano si arrampicavano veloci, mentre i loro padroni nuotavano comodamente più in basso, osservando la scena.

La sporgenza rocciosa curvò verso il basso. Harker schizzò lungo di essa come un cervo. Al di là del punto più basso, Harker si tuffò in una nuova galleria, quella da cui proveniva il fiume. Una breve galleria, alla cui estremità…

«La luce del giorno!» urlò Harker. «La luce del giorno!»

La gamba sanguinante di McLaren cedette e il giovane cadde al suolo.

Harker lo agguantò. Erano sul punto più basso della discesa. Le bestie-fiori erano subito sotto di loro e stavano ormai per raggiungerli. Il piede di McLaren era gonfio, il polpaccio esangue. Un’infezione dal fulmineo decorso dovuta agli artigli dei pianni. McLaren si dibatté nella stretta di Harker. «Vattene», lo sollecitò. «Corri, salvati!»

Harker lo colpi con forza alla tempia e ricominciò ad avanzare, trascinando con sé il corpo esanime del giovane. Ma vide che non avrebbe funzionato: McLaren pesava più di lui. Lo gettò tra le braccia possenti di Sim. Il grosso negro annui e continuò la corsa reggendo McLaren come un bambino. Harker vide i primi fiori salire sulla sporgenza rocciosa davanti a loro.

Sim li scagliò via: non erano molto grossi, e in quell’avanguardia erano soltanto in tre. Altri comparvero dietro di loro e si lanciarono all’inseguimento: Harker li colpi con la lancia, squarciandoli con gli uncini d’osso. Ma ormai erano in molti ad aver completato la scalata e li inseguirono come una grande onda di marea luminosa. Harker accelerò, ma i fiori erano più veloci. Li ricacciò indietro con la lancia e il coltello e riprese a correre, poi tornò a voltarsi per combattere ancora; quand’ebbero infine percorso tutta la galleria, Harker barcollava, stremato.

Sim si arrestò. Disse: «Non c’è via d’uscita».

Harker alzò lo sguardo: il fiume precipitava da una parete a picco: il salto era troppo alto, e il getto d’acqua aveva troppa forza perché anche i giganteschi pianni potessero pensare di affrontarlo. La luce del giorno si riversava su di loro dall’alto, calda e accogliente come avrebbe potuto esserlo su Marte.

Vicolo cieco.

Poi Harker individuò il piccolo canale eroso che saliva contorto su un lato. Era poco più di uno scolo, lungo e asciutto, e formava un passaggio fino alla sommità della cascata, una fessura a stento larga perché un uomo riuscisse a strisciarvi attraverso. Era una speranza fin troppo vaga, un azzardo, ma…

Harker l’indicò, fra una stoccata e l’altra contro i fiori che sciamavano dappertutto. Sim gridò: «Tu per primo». Harker, poiché era il miglior scalatore, obbedì, aiutando McLaren ancora intontito a salire dietro di lui. Sim maneggiava la lancia come un dardo fiammeggiante, proteggendo le loro spalle, strisciando all’insù un centimetro dopo l’altro.

Raggiunto un appoggio abbastanza sicuro, si fermò. Il suo petto gigantesco si gonfiava come un mantice, le sue braccia continuavano ad alzarsi e ad abbassarsi come sbarre d’ebano. Harker gli gridò di continuare a salire. Lui e McLaren erano quasi arrivati in cima.

Sim scoppiò a ridere: «Come intendi farmi passare attraverso quel buchetto?»

«Vieni su, pazzo!»

«Farete meglio a sbrigarvi. Io sono pressoché finito».

«Sim! Sim, dannazione a te!»

«Striscia fuori da quel buco, tappo, e tirati dietro quello spilungone! Io sono un uomo che ha le dimensioni di un uomo, e devo restar qui». Poi, infuriandosi: «Sbrigati, altrimenti ti trascineranno indietro prima che tu sia passato!»

Aveva ragione. Harker sapeva che aveva ragione. Si mise al lavoro spremendo McLaren attraverso la stretta apertura. McLaren era ancora intontito, ma era magro e con le ossa sottili, e ce la fece. Ruzzolò fuori su un pendio coperto d’erba verde, la prima che Harker vedeva dai giorni in cui era bambino.

Ora Harker si affannò per seguire McLaren. Non si voltò a guardare Sim.

L’uomo nero stava cantando tutta la gloria della venuta del Signore.

Harker tornò a infilare la testa nel buio dello stretto condotto: «Sim!»

«Sì?» Debole, rauco, echeggiante.

«Qui c’è terra, Sim. Una buona terra».

«Già».

«Sim, troveremo a tutti i costi il modo…»

Sim aveva ripreso a cantare. La sua voce si fece più fioca, allontanandosi sempre più verso il basso. Le parole si smarrirono, ma non ciò che sottintendevano. Matt Harker affondò il viso nell’erba verde, e la voce di Sim scomparve con lui nel buio.

Le nubi si stavano colorando dei bagliori del sole nascosto che tramontava. Erano sospese sopra di loro come un baldacchino d’oro intriso di sangue. Vi era un profondo silenzio, interrotto soltanto dal canto degli uccelli. Giù nei luoghi bassi non si udivano mai simili canti d’uccelli. Matt Harker ruotò su se stesso e lentamente si rizzò a sedere. Gli pareva di essere stato picchiato a sangue. Provava nausea e vergogna, e l’antica, micidiale collera era avvolta in strette spire intorno al suo cuore.

Davanti a lui si stendeva un ampio pendio erboso che arrivava fino al fiume, il cui corso curvava verso sinistra, allontanandosi fino a sparire dietro uno sperone roccioso. Oltre il pendio si stendeva un vasto terreno pianeggiante, e ancora più oltre una foresta d’alberi giganteschi. Parevano galleggiare in un alone color rame, le fronde scure dispiegate come ali e costellate di fiori. L’aria era fresca, senza alcun sentore di fango e di marcio. L’erba era abbondante, il suolo pulito e morbido.

Rory McLaren cacciò un gemito sommesso e Harker si voltò verso di lui. La gamba del giovane aveva un pessimo aspetto. McLaren era in preda a un crescente stordimento, la sua pelle era arrossata e arida. Harker imprecò a bassa voce, chiedendosi cosa mai avrebbe potuto fare.

Si voltò indietro a guardare verso la pianura, e vide la ragazza.

Non sapeva come fosse arrivata li. Forse era sbucata fuori dai cespugli che crescevano in folte macchie qua e là sul pendio. Poteva esser lì da parecchio tempo, a osservarli. E anche adesso teneva il suo sguardo puntato su di loro, restando immobile a una dozzina di passi. Una grande farfalla scarlatta si teneva aggrappata alla sua spalla, muovendo le ali con pigra voluttuosità.

Pareva più una bambina che una donna. Era nuda, piccola di statura, deliziosamente snella. La sua pelle, sotto il biancore, aveva una lieve sfumatura verde. I suoi capelli, simili a foglie d’erba e raccolti in corte ciocche ricciute sulla testa, erano d’un azzurro cupo, e anche i suoi occhi erano azzurri, e strani.

Harker la fissò, e lei fissò lui, senza che nessuno dei due accennasse a muoversi. Un uccello dai vividi colori scese giù in picchiata e si librò per un attimo accanto alle sue labbra, accarezzandole col becco. Lei lo sfiorò con una carezza, e sorrise, ma non distolse gli occhi da Harker.

Harker si alzò in piedi, lentamente. La chiamò: «Ehi».

La ragazza non si mosse, né produsse alcun suono, ma tutt’a un tratto un paio di enormi uccelli con becco e artigli come quelli di un’aquila, e neri come il peccato, si tuffarono giù dal cielo e sfiorarono la testa di Harker con un sibilante fruscio, poi tornarono in alto e si misero a girare in cerchio.

Harker tornò a sedersi.

Gli strani occhi della ragazza si staccarono da lui, fissando la fenditura, più in alto sulla parete rocciosa, dalla quale era uscito. Le sue labbra non si mossero, ma la sua voce — o qualcosa del genere — gli parlò chiaramente dentro la testa:

«Sei venuto da… là». Quel conteneva una fremente carica di eccitazione, per niente piacevole.

«Harker replicò: «Sì. Telepate… uh?»

«Ma tu non sei…» L’immagine di alcuni nuotatori dorati si formò nella mente di Harker. Erano chiaramente riconoscibili, ma l’odio e la paura avevano spazzato via da essi ogni traccia di bellezza, lasciando soltanto l’orrore.

Harker disse: «No». Le spiegò cos’era successo a lui e a McLaren. Le parlò di Sim. Sapeva che lei stava ascoltando attenta la sua mente, saggiandola per controllare se diceva la verità. Ma non lo preoccupava ciò che lei vi avrebbe trovato.

«Il mio amico è ferito», le disse. «Abbiamo bisogno di un rifugio».

Per un po’ non vi fu risposta. La ragazza era era tornata a fissarlo. Il suo volto, la forma e la struttura del suo corpo, i suoi capelli, e infine i suoi occhi. Non era mai stato guardato in quel modo prima di allora. Cominciò a sogghignare. Un sogghigno provocante del tipo «che tu sia dannata…», che arricchiva d’una luce e d’un fascino sorprendenti la sua personalità sardonica.

«Tesoro», le disse, «sei formidabile. Animale, vegetale o minerale?»

Lei drizzò la piccola testa rotonda con un guizzo per la sorpresa, e gli restituì, pronta, la stessa domanda. Harker scoppiò a ridere. Lei sorrise, piegando la bocca in una V invitante, e i suoi occhi scintillavano vividi. Harker accennò a muoversi verso di lei.

E nell’identico istante i due rapaci lo ammonirono a tornare indietro. La ragazza scoppiò a ridere, un’increspatura d’allegria sbarazzina. «Vieni», lo invitò, e si voltò.

Harker si accigliò. Si chinò e parlò a McLaren con insolita gentilezza. Riuscì in tal modo a convincere il giovane a rizzarsi in piedi, poi se lo caricò sulle spalle, vacillando un poco sotto il suo peso. McLaren parlò, staccando le sillabe: «Sarò di ritorno prima che nasca».

Harker attese finché la ragazza non si fu decisamente avviata, poi la seguì, tenendosi a debita distanza. I due grandi uccelli neri lo seguirono vigili. Attraversarono la folta erba del pianoro in direzione degli alberi. Adesso il cielo aveva tutto il colore del sangue.

Una leggera brezza avvolse la testa della ragazza e prese a giocare coi suoi capelli. Matt Harker vide che quei capelli erano corti e piatti, come petali azzurri.

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