La brezza soffiava costante, ma non impetuosa. Gonfiava la vela al quarto quel tanto che bastava a spingere attraverso l’acqua lo scafo sudicio e coperto d’alghe troppo cresciute… non di più. Matt Harker era disteso accanto alla barra del timone e contava i rivoli di sudore che colavano sulla sua nudità e fissava con occhi cupi, e opachi, la notte color indaco. La rabbia, incatenata e impotente, crebbe nella sua gola come vomito amaro.
Il mare — la moglie venusiana di Rory McLaren lo chiamava il Mare degli Opali Mattutini — si stendeva immoto, nero, rigato dalla fosforescenza. Il cielo gravava basso sul mare, la densa coltre di nubi di Venere che aveva fatto del Sole una leggenda a stento ricordata dagli esiliati della Terra. Luci ardenti cavalcavano nell’oscurità blu profondo, disposte in fila. Dodici navi, tremilaottocento persone, che non andavano da nessuna parte, intrappolate nell’intervallo fra la nascita e la morte, e che non sapevano proprio che farne.
Matt Harker gettò uno sguardo alla vela e poi alla lanterna di poppa della nave che li precedeva. Il suo volto, al fioco bagliore che illuminava Venere perfino di notte, era oblungo e scarno, una successione d’ombre e di scabre prominenze ossee, coperto dalle cicatrici della vita, del bisogno e delle privazioni, della morte e dell’assenza di morte. Era un uomo magro, non alto di statura, tenace, con un’agilità da rettile nei movimenti.
Qualcuno scivolò silenzioso attraverso il ponte, da prua, evitando i corpi addormentati accalcati dovunque. Harker disse, senza emozione: «Ciao, Rory».
Rory McLaren rispose: «Ciao, Matt». Si sedette. Era giovane, forse la metà degli anni di Harker. C’era ancora speranza sul suo viso, ma già mostrava i segni della fatica. Restò seduta un po’, senza parlare, né guardare, poi disse: «In tutta franchezza, Matt, quanto tempo possiamo resistere ancora?»
«Cosa c’è, ragazzo? Cominci a cedere?»
«Non so. Forse. Quando ci fermeremo da qualche parte?»
«Quando troveremo un posto dove fermarci».
«C’è forse un posto dove fermarsi? Mi pare che da quando sono nato, non abbiamo fatto altro che cercarlo. C’è sempre qualcosa che non va. Indigeni ostili, o la febbre, o il terreno cattivo… sempre qualcosa, e noi ci rimettiamo in viaggio. Non è giusto. Non è affatto questo il modo per cercar di vivere».
Harker replicò: «Te l’avevo detto di non ostinarti ad aver figli».
«E questo cosa c’entra?»
«Stai già cominciando a preoccuparti. Il piccolo non è ancora arrivato, e tu già ti preoccupi».
«Certo che mi preoccupo». McLaren si prese all’improvviso la testa fra le mani e imprecò. Harker seppe che l’aveva fatto per impedirsi di piangere.
«Sono preoccupato», ammise McLaren. «Forse, a mia moglie e a mio figlio capiterà la stessa cosa che è successa ai tuoi. Abbiamo la febbre a bordo».
Per un attimo gli occhi di Harker arsero come carboni. Poi, alzò lo sguardo alla vela e disse: «Starebbero meglio morti».
«Non son cose da dire!»
«È la verità. Tu mi hai chiesto quando ci fermeremo… quando avremo trovato il posto giusto. Forse mai. Tu ti lagni di aver fatto questa vita da quando sei nato. Be’, io ho dovuto farla da molto più tempo. Prima che tu nascessi, ho visto coi miei occhi il nostro primo insediamento incendiato dal Popolo della Nube, e mia madre e mio padre crocifissi nella loro vigna. Ero fra quelli partiti dalla Terra, quando iniziò questo viaggio alla Terra Promessa, e sto ancora aspettando di vederla».
I tendini sul volto di Harker si erano tesi come cavi d’acciaio. La sua voce aveva una calma terribile.
«Tua moglie e tuo figlio starebbero assai meglio se morissero adesso, subito. Così, Viki che è giovane e ha ancora speranza, non la perderà mai. E il bambino non aprirà mai gli occhi su questa vita grama».
Sim, un uomo nero, grande e grosso, diede il cambio ad Harker prima dell’alba. Iniziò a cantare sommesso, qualcosa di lento e lamentoso come la brezza, e assai bello. Harker gli lanciò una maledizione e salì dentro prua per dormire, ma la canzone continuò ad accompagnarlo. Oh, ho guardato il Giordano, e cos’ho visto arrivare per portarmi a casa…
Harker si addormentò, infine. Cominciò a gemere e a contorcersi, e ad urlare. Gli altri intorno a lui si svegliarono. Lo fissarono pieni di curiosità. Da sveglio, Harker era un lupo solitario, violento e sempre di pessimo umore. Quando, a lunghi intervalli, era colto da uno dei suoi attacchi, nessuno era particolarmente desideroso di aiutarlo a uscirne. Provavano una sorta di perverso piacere a potergli sbirciare nell’intimo, quando lo coglievano così allo scoperto.
Ad Harker non importava. Stava di nuovo giocando in mezzo alla neve: aveva sette anni, e i cumuli erano bianchi e alti nel cielo, un cielo così azzurro e pulito che il bambino si chiedeva se Dio non facesse anche lui le pulizie ogni due o tre giorni, come la mamma quando sfregava energicamente il pavimento in cucina. Il sole splendeva. Era come una grande moneta d’oro, e traeva infiniti barbagli dalla neve trasformandola in uno spolverio di diamanti. Alzò le braccia verso il sole, e l’aria fredda lo schiaffeggiò come due mani pulite, e lui scoppiò a ridere. E poi ogni cosa scomparve…
«Mio Dio», disse qualcuno, «ma quelle sul suo viso non sono lagrime?»
«Strilla… Strilla come un bambino, non sentite?»
«Ehi», disse ancora il primo, impacciato, «non credete che dovremmo svegliarlo?»
«Al diavolo quel vecchio gattaccio inacidito. Ehi, ascoltate…»
«Papà», bisbigliò Harker, «papà, voglio tornare a casa».
L’alba arrivò come una manciata di opali di fuoco attraverso le nubi di un grigio perlaceo. Harker, nel sonno, udì il grido fioco e lontano. Si sentiva stordito, stanco, le palpebre gli si erano come incollate insieme. Il grido a poco a poco acquistò forma e divenne la parola «Terra!» ripetuta più volte.
Harker si scosse per svegliarsi e si alzò in piedi.
Il mare privo di maree rifletteva i colori opalini, sotto la foschia. Branchi di piccoli draghi marini, le scaglie simili a gioielli, s’innalzavano dalle onnipresenti isole galeggianti d’alghe, e le alghe stesse, o almeno una parte di esse, si agitarono, pulsando d’una vita senziente.
Davanti a loro una lunga e bassa prominenza della costa si dilatava nell’inestricabile groviglio d’una palude. Oltre la bassa distesa paludosa, si innalzava a picco fino alle nubi una scogliera di granito, una scarpata maestosa che si drizzava come una muraglia davanti agli sguardi colmi di speranza degli esuli.
Harker trovò Rory McLaren ritto in piedi, lì accanto, il braccio avvolto intorno a Viki, sua moglie. Viki era una delle molte venusiane che avevano sposato coloni terrestri. La sua pelle era bianca come il latte, i suoi capelli d’un vivido argento, le sue labbra scarlatte. I suoi occhi erano come il mare, mutevoli, pieni di vita nascosta. In quel momento avevano quella particolare espressione che gli occhi delle donne assumono quando pensano alla vita, al suo inarrestabile perpetuarsi… Harker distolse lo sguardo da lei.
McLaren disse: «Sì, è terra».
Harker ribatté: «È fango. È una palude… la febbre. È identica al resto».
Viki disse: «Non possiamo fermarci qui, solo un po’?»
Harker scrollò le spalle. «Spetta a Gibbons decidere». Stava impulsivamente per chiederle quale dannata differenza facesse dove sarebbe nato il bambino, ma per una volta tenne la lingua a freno. Viki si allontanò. In qualche punto della parte centrale della nave una donna gridò nel delirio. C’erano tre forme immote, avvolte in coperte a brandelli e distese sul tavolato accanto agli ombrinali.
«È probabile che ci fermeremo quel tanto che basterà a seppellirli», disse. «Forse… sarà sufficiente».
Guardò per un attimo il volto di McLaren. La speranza che l’aveva illuminato poco prima aveva lasciato il posto alla stanchezza. Era morta. Morta come il resto di Venere.
Gibbons chiamò i capi a bordo della sua nave: i condottieri, i combattenti, i cacciatori e i marinai, gli uomini duri e coriacei che costituivano la dura corazza intorno al corpo molle della colonia. C’erano anche Harker e McLaren. McLaren era giovane e fino a poco tempo prima aveva avuto la qualità dell’ottimismo che incoraggiava i suoi compagni di nave, una naturale inclinazione a guidare gli uomini.
Gibbons era vecchio. Era lo spirito-guida originario dei cinquemila coloni che erano venuti dalla Terra per ricominciare a vivere sul nuovo mondo. Il tempo e le tragedie, le delusioni e i tradimenti l’avevano crudelmente segnato, ma teneva ancora la testa alta. Harker ammirava il suo coraggio, pur maledicendolo come pazzo idealista.
Com’era inevitabile, cominciarono a discutere se dovessero o no tentare un insediamento permanente su quella distesa di fango, oppure continuare a vagare su quel mare inesplorato e interminabile.
Harker dichiarò, impaziente: «Perbacco, ma guardate il posto! Ricordatevi dell’ultima volta. Ricordatevi della volta prima dell’ultima, e smettetela di blaterare».
Sim, il grande uomo nero, replicò con calma: «La gente comincia ad essere tremendamente stanca. L’uomo è nato per aver radici da qualche parte. Avremo ben presto dei guai se non troveremo un pezzo di terra».
Harker sbottò: «Se pensi di poterlo trovare, amico, allora fallo».
Gibbons disse in tono grave: «Ma Sim ha ragione… C’è isterismo, tra noi, febbre, dissenteria e noia, e la noia è la cosa peggiore di tutte».
McLaren esclamò: «Io voto perché ci stabiliamo qui».
Harker scoppiò a ridere. Era appoggiato al portello della cabina e fissava la scogliera, là fuori. Il granito grigio s’innalzava pulito sopra la palude. Harker cercò di penetrare le nubi che ne nascondevano la sommità, ma non ci riuscì. Socchiuse gli occhi. Le voci eccitate dietro di lui si smorzarono un po’ per volta. D’improvviso, si girò verso Gibbons e disse: «Signore, vorrei che mi venisse dato il permesso di vedere cosa c’è in cima a quella scogliera».
Seguì un completo silenzio. Poi Gibbons lo ruppe, scandendo le parole: «Abbiamo perso troppi uomini in esplorazioni del genere, e questo soltanto per scoprire un altopiano inabitabile».
«C’è sempre una possibilità. Il nostro primo insediamento era sugli altipiani, non ricorda? Aria pulita, terreno buono, niente febbre».
«Ricordo», annuì Gibbons. «Sì, ricordo…». Restò silenzioso per un po’, poi lanciò ad Harker un’occhiata d’intesa. «Ti conosco, Matt. Tanto vale che ti dia il permesso».
Harker sogghignò. «In tutti i casi non sentirete troppo la mia mancanza. Non rappresento più una buona influenza sugli altri». Si avviò verso l’uscita. «Datemi tre settimane. In ogni caso, è tempo che vi mettiate a raschiare e a rattoppare la chiglia delle navi. Forse tornerò con qualcosa di concreto».
McLaren interloquì: «Vengo con te, Matt».
Harker lo fissò senza scomporsi. «Tu farai meglio a restare con Viki».
«Se c’è del buon terreno, là sopra, e dovesse capitarti qualche guaio che t’impedisce di tornare indietro a dircelo…»
«O che non avessi più voglia di tornare indietro, forse?»
«Non ho detto questo. Potremmo anche non farcela tutti e due a tornare. Ma due… è sempre meglio di uno».
Harker sorrise. Un sorriso enigmatico e non molto piacevole. Gibbons s’intromise: «Ha ragione lui, Matt». Harker scrollò le spalle. Poi Sim si alzò in piedi.
«Due va bene», dichiarò, «ma tre è meglio ancora». Si rivolse a Gibbons: «Siamo quasi in cinquecento, signore. Se lassù c’è una nuova terra, dovremo dividere la fatica di trovarla».
Gibbons annui. Harker ribatté: «Sei matto, Sim. Perché vuoi farti tutta quella scalata, magari per non arrivare da nessuna parte?»
Sim sorrise. I suoi denti spiccarono incredibilmente bianchi sul nero lucido di sudore del suo viso. «Ma è quello che la mia gente ha sempre fatto, Matt. Un sacco di scalate per non arrivare in nessun posto».
Fecero i loro preparativi e si dedicarono a un’ultima notte di sonno. McLaren salutò Viki. La donna non pianse. Sapeva perché lui partiva. Lo baciò; tutto quello che gli disse, fu: «Stai attento». Tutto ciò che Rory disse, fu: «Tornerò prima che lui nasca».
Si misero in viaggio all’alba, portando con sé pesce secco e frutti di mare trasformati in strisce di carne essicata, e i loro lunghi coltelli e le corde per la scalata. Da molto tempo avevano finito ie munizioni per i pochi fulminatori di cui disponevano, e non avevano le attrezzature per produrne altre. Tutti erano assai esperti con le lance, e ne portavano tre, appese alla schiena, corte e munite di spine confezionate con ossa.
Quando attraversarono il tratto fangoso, pianeggiante, pioveva, e dovettero guardarlo affondando fino alle cosce nella nebbia fitta. Harker li guidò attraverso la cintura paludosa. Era un veterano in queste imprese, con una rapidità soprannaturale nell’individuare quella vegetazione che era viva, indipendente e affamata quanto lui. Venere è un’immensa serra, e le piante si sono sviluppate in innumerevoli specie, strane e fantastiche, almeno quanto i rettili e i mammiferi, capaci di strisciar fuori da quei mari pre-cambriani simili a primitivi flagellati, per sviluppare poi una propria volontà, con appetiti e motivazioni in proporzione. I bambini dei coloni imparavano sin dalla più tenera infanzia a non coglier fiori. Troppo spesso i germogli rispondevano a morsi.
La palude non si estendeva per molto, e ne uscirono sani e salvi. Un grande drago delle paludi, un leshen, urlò non molto lontano, ma era un cacciatore notturno e adesso era troppo pieno di sonno per dar loro la caccia. Infine, Harker mise il piede sul terreno solido, e si mise a studiare la scogliera.
La roccia era stata resa ruvida dalle intemperie, incisa da molti millenni d’erosione, e per di più squassata dai terremoti. C’erano tratti di scisti crollati e frantumati, grandi lastre che parevano sul punto di precipitare al solo sfiorarle, ma Harker annuì. «Possiamo arrampicarci», dichiarò. «Il problema è: quant’è alto, lassù in alto?»
Sim scoppiò a ridere. «Forse alto abbastanza per la città d’oro. Abbiamo tutti la coscienza pulita? Non posso portare il peso del peccato così lontano!»
Rory McLaren guardò Harker.
Harker disse: «D’accordo, lo confesso. Non m’importa affatto se lassù c’è o no una buona terra per noi. Tutto quello che volevo era andarmene via da quella stramaledetta nave prima di perdere del tutto la testa. Così, adesso lo sapete».
McLaren annuì. Non parve sorpreso. «Arrampichiamoci». Il mattino del secondo giorno giunsero in mezzo alle nubi. Salirono sempre più in alto strisciando attraverso un vapore semiliquido, dalle sfumature opaline, insopportabilmente caldo. Continuarono a salire strisciando per altri due giorni. Per le prime notti Sim cantò durante il suo turno di guardia, mentre gli altri due riposavano distesi su qualche cengia. Dopo, però, anche Sim fu troppo stanco.
McLaren cominciò a cedere, anche se non lo disse. Matt Harker divenne più taciturno e il suo umore peggiorò ancora, se ciò era possibile, ma per il resto non ci furono cambiamenti. Le nuvole continuavano a nascondere la sommità dello strapiombo.
Durante uno dei brevi riposi, McLaren disse con voce rauca: «Ma questa scogliera non finisce mai?» La sua pelle era giallognola, gli occhi vitrei per la febbre.
«Forse», rispose Harker, «salgono dritte al di là del cielo». La febbre era tornata a cogliere anche lui. Essa viveva nel midollo degli esuli, riaffiorando a intervalli per scuoterli e bruciarli, per poi ritirarsi. A volte non si ritirava, e dopo nove giorni non aveva più bisogno di farlo.
McLaren disse: «Non te ne importerebbe niente se fosse così, vero?»
«Non ti ho chiesto io di venire».
«Ma non te ne importerebbe».
«Ah, chiudi il becco».
McLaren si lanciò alla gola di Harker.
Harker lo colpi, con calma e precisione. McLaren si accasciò al suolo, si afferrò la testa fra le mani e pianse. Sim si tenne fuori dalla zuffa. Scosse la testa, e dopo un po’ cominciò a canticchiare fra sé… o rivolgendosi a qualcuno al di là di lui stesso. «Oh, nessuno capisce questo problema, come io lo vedo…»
Harker si alzò in piedi. Le orecchie gli rintronavano e tremava in modo incontrollato, ma riuscì ugualmente a prendere su di sé un po’ del peso di McLaren. Stavano risalendo una cengia obliqua, abbastanza larga e non troppo difficile.
«Andiamo avanti», sollecitò Harker.
Una sessantina di metri oltre quel punto la cengia piegava bruscamente verso il basso, in una sorta di gradinata rotta e accidentata. Sopra le loro teste la parete della scogliera si rigonfiava verso l’esterno. Soltanto una mosca avrebbe potuto scalarla. Si fermarono. Harker si esibì in una lenta e ragionata serie d’imprecazioni. Sim chiuse gli occhi e sorrise. Anche lui era un po’ ammattito a causa della febbre.
«C’è la città d’oro lassù in cima. È là che sto andando».
S’incamminò lungo la cengia, seguendo la sua pendenza fino a una gobba rocciosa, oltre la quale scomparve. Harker rise sardonico. McLaren si liberò dalla stretta e testardamente seguì la strada di Sim. Harker scrollò le spalle e lo imitò.
Subito oltre la gobba la cengia finiva.
Rimasero immobili. Le dense nubi di vapore li bloccavano su un lato, e sull’altro s’innalzava una parte di granito sulla quale erano appesi dei rampicanti carnosi.
Vicolo cieco.
«Allora?» fece Harker.
McLaren si sedette. Non pianse né disse niente. Si limitò a restar seduto. Sim era là, in piedi, le braccia penzoloni e il mento appoggiato sull’ampio petto nero. Harker disse ancora: «Capisci cosa voglio dire quando rido, se sento parlare di Terra Promessa? Venere è una roulette truccata. Non potrai mai vincere».
Fu allora che si accorse dell’aria fresca. Aveva creduto, sulle prime, che fosse soltanto il brivido della febbre, ma la brezza gli scompigliava i capelli e avvolgeva il suo corpo secondo una direzione ben precisa. Aveva perfino un odore fresco e pulito. Soffiava attraverso la coltre dei rampicanti.
Harker cominciò a scavare col suo coltello. Scopri che quella era la imboccatura d’una caverna, uno squarcio frastagliato, lisciato sul fondo da quello che un tempo doveva essere stato un fiume.
«La corrente d’aria arrivava dalla sommità dell’altopiano», disse Harker. «Lassù deve soffiare il vento che la spinge in basso. Potrebbe esserci il modo di passare».
McLaren e Sim mostrarono entrambi un lento e terribile rifiorire della speranza. Tutti e tre entrarono senza parlare nella galleria.