Norman Spinrad Un oggetto di pregio

— C’è un signore di nome Shiburo Ito che vuole vederla — comunicò l’interfono. — È interessato all’acquisto di manufatti storici di un certo rilievo.

Mentre aspettavo che entrasse nel mio ufficio privato, chiesi al computer centrale i dati su di lui, e questi apparvero sullo schermo collocato prudentemente nella parte posteriore della mia scrivania. Quel Mr. Ito non era altri che Ito della Ito Freight Booster di Osaka; non era necessario controllare il suo estratto conto tramite le banche private Dun Lo Bradstreet. Se Ishiburo Ito della Ito Booster firmava un assegno di poco inferiore al debito nazionale, si poteva star sicuri che non era scoperto.

L’uomo magro e calvo che scivolò nel mio ufficio portava un kimono di seta rossa ed un obi di ricco broccato nero, apparentemente con i ricami di Mendocino. Senza dubbio, nei miasmi dello smog di Osaka, avrebbe fatto colpo sui villici con l’ultima creazione di Saville Row. Tutto in lui era così: sapeva muoversi con tale grazia e sicurezza su quel confine come una lama di rasoio che separa la classe dall’ostentazione, come sanno fare solo i Giapponesi, soprattutto quando hanno milioni di solidi yen alle spalle. Mr. Ito non era uno stupido. Qualunque cosa volesse, la voleva per precise ragioni personali, e sarebbe stato irremovibile nei suoi desideri. Il tipico uomo d’affari giapponese di grosso calibro, un esempio di quella razza che ci aveva esclusi dal centro dell’arena internazionale degli affari.

Mr. Ito si inchinò impercettibilmente mentre mi porgeva il suo biglietto da visita. Io risposi piegando impercettibilmente il capo nella sua direzione, rimanendo seduto. Questi giochetti di espressioni facciali e gestuali possono apparire ridicoli, ma non si può fare affari con i Giapponesi se non si accettano queste regole.

Mentre si sedeva di fronte a me, Ito trasse un cilindro nero dalla manica del suo kimono e lo mise cerimoniosamente sulla scrivania davanti a me.

— Mi è dato di capire che lei è un esperto dei manifesti di Fillmore dei primi anni sessanta, Mr. Harris — disse. — La fama della sua collezione è arrivata fino agli ambienti di Osaka e di Kyoto, dove risiedo. La prego, mi permetta di aggiungere ad essa questo piccolo contributo. Il pensiero che questo mio oggetto possa riposare in compagnia di quelle superbe rarità mi procurerà un grande piacere e mi renderà per sempre suo debitore.

Mi tremavano le mani mentre svolsi il manifesto. Viste le sue risorse finanziarie, il piccolo e rispettoso dono di Ito non poteva certo essere deludente. Mio padre amava vantarsi dei conti spese dei tempi andati, quando erano gli uomini d’affari americani a condurre il gioco, ma bisogna dire che i benefici a latere del modo giapponese di gestire gli affari non avevano certo bisogno di commenti.

Ma quando aprii il dono mi ci volle un grosso sforzo per non perdere il controllo e lanciare un fischio. Perché quello che avevo in mano era niente meno che un esemplare nuovo di zecca del primissimo manifesto Grateful Dead in finissimo chiaroscuro, un pezzo rarissimo, non disponibile a nessun prezzo. Non osai indagare su come Mr. Ito ne fosse venuto in possesso. Semplicemente, condividemmo un lungo attimo di silenzio contemplando il manifesto, la cui bellezza e valore storico trascendevano qualunque evento avesse congiurato per portarci entrambi alla sua presenza.

Come poteva ora Mr. Ito non essermi simpatico? Chi dice che i Giapponesi occupano la loro attuale posizione soltanto in virtù della loro potenza economica?

— Spero che mi venga concessa l’opportunità di compiacere la sua sensibilità come lei ha compiaciuto la mia, Mr. Ito — dissi infine. Questo era il modo di formulare i ringraziamenti: non li si ringrazia per un dono come quello, e li si porta a parlare d’affari attraverso le vie più traverse.

Improvvisamente Ito tradì un grande imbarazzo, e assunse un’espressione quasi furtiva. — Perdoni il mio ardire, Mr. Harris; ma spero che lei sia in grado di aiutarmi a risolvere una faccenda familiare di una certa delicatezza.

— Una faccenda familiare?

— Proprio così. Mi rendo conto che questa è un’imbarazzante intrusione, ma lei è ovviamente un uomo di gusto e di infinita discrezione, così se vorrà scusare la mia sfacciataggine…

La sua compostezza sembrò evaporare completamente, come se fosse sul punto di chiedermi di fargli da ruffiano per qualche sua disgustosa perversione. Ebbi la sensazione che d’un tratto il potere avesse fatto un enorme balzo nella mia direzione, e che stesse per presentarsi una grossa opportunità finanziaria.

— La prego, Mr. Ito, si senta libero…

Ito sorrise nervosamente: — Mia moglie proviene da una famiglia che ha conseguito sommi risultati in campo artistico — disse. — In verità entrambi i genitori hanno ottenuto l’elevata condizione di Tesori Culturali Nazionali, un’onorificenza che non si stancano mai di ricordarmi. E anche se io ho raggiunto un grosso successo finanziario con le mie imprese, essi mi considerano un nikulturi, un semplice mercante, con notevoli lacune nella raffinatezza artistica rispetto alle loro illustri persone. Lei comprende la situazione, Mr. Harris?

Annuii mostrando la massima comprensione. Questi Giapponesi sono veramente geniali nel rendersi la vita difficile! Ecco qui uno dei più grandi industriali giapponesi che si faceva piccolo piccolo al solo pensiero di quei parenti acquisiti che campavano alle sue spalle, e che lui probabilmente avrebbe potuto vendere e comprare con pochi spiccioli. Allo stesso tempo era chiaro che stava per prendersi una rivincita su quei bastardi, escogitando qualche folle stratagemma che avrebbe avuto un senso solo per un Giapponese. Ho l’impressione che i Giapponesi siano molto più bravi a gestire il mondo che non le loro vite private.

— Mr. Harris, desidero acquistare un importante oggetto artistico americano per i giardini della mia residenza di Kyoto. In effetti deve essere di grandezza tale da ricordare ai genitori di mia moglie il mio successo nella vita pratica ogni volta che il loro occhio si posi su di esso; e lo metterò in mostra in maniera tale che il loro sguardo non possa fare a meno di cadervi sopra spesso. Ma naturalmente deve possedere doti di bellezza e storicità tali da testimoniare che il mio gusto non è meno elevato del loro. Così acquisterò rispetto ai loro occhi, e ristabilirò la tranquillità nella mia casa. Mi è stato detto che lei è un prezioso consigliere in questo genere di cose, ed io sono impaziente di esaminare qualunque oggetto con questi requisiti che lei vorrà mostrarmi.

Così si trattava di questo! Voleva comperare qualcosa di abbastanza grande da colpire i parenti spocchiosi, ma non si fidava fino in fondo del proprio gusto: voleva che fossi io a mostrargli ciò che voleva vedere. Ed era un pesciolino rosso che nuotava in un mare di yen! Stentavo a credere alla mia fortuna. Quanto potevo ricavarne?

— Ah… di che dimensioni deve essere questo manufatto, Mr. Ito? — chiesi con la maggior naturalezza possibile.

— Desidero acquistare un pezzo importante di architettura monumentale americana, in modo da poter convertire i giardini della mia residenza in una cornice adeguata alla sua bellezza e storicità. Quindi è necessario un pezzo di proporzioni classiche. Naturalmente deve essere degno di divenire un polo di attrazione, altrimenti ne risulterebbe sicuramente un’imbarazzante perdita di prestigio.

— Naturalmente.

Questa non sarebbe stata una delle solite vendite. Persino il vecchio Hilton o la Cooperstown Baseball Hall che avevo scaricato l’anno passato sarebbe stata troppo poco. A modo suo, Ito, stava dicendomi che non era una questione di prezzo: non c’erano limiti. Questo era quello che avevo sognato per tutta la vita! Un gonzo con un illimitato conto in banca che si metteva fiducioso nelle mie mani!

— Se le fa piacere, Mr. Ito — dissi, — possiamo subito esaminare varie possibilità qui a New York. Il mio saltapicchio è sul tetto.

— Molto generoso da parte sua trascurare i suoi molti impegni per me, Mr. Harris. Ne sarei lieto.


Sollevai il saltapicchio dal suolo, lo portai a trecento metri e poi feci un balzo a mach 1,5 in direzione sud oltre la giungla di cemento in rovina all’estremità di Manhattan. La curva ci portò a fluttuare ad un miglio a nord dell’isola di Bedloe. Mi abbassai a novanta metri e planai lentamente verso la Statua della Libertà, perdendo impercettibilmente quota a mano a mano che ci avvicinavamo alla Signora senza Testa, in modo che quando fummo a pochissima distanza dalla costa arrivammo quasi a toccare il suolo. Era un buon trucco per far sembrare più allettante la merce; manipolare la prospettiva in modo che l’enorme statua verde senza testa sembrasse spuntare dalla baia come un colosso in rovina mentre noi ci avvicinavamo ad essa.

Mr. Ito non tradì alcuna emozione. Guardava dritto fuori dalla bolla senza dire una parola o fare un solo gesto.

— Come lei senza dubbio sa, questa è la famosa Statua della Libertà — dissi. — Come molti manufatti simili, è a disposizione di qualunque acquirente che la voglia mostrare con la dignità che le spetta. Naturalmente non avrei nessuna difficoltà a convincere l’Ufficio delle Antichità che le sue intenzioni sono esemplari sotto questo punto di vista.

Innestai il pilota automatico in modo che il velivolo girasse intorno alla statua ad un’altezza di cinquanta metri: così Ito poteva avere una visione completa e rendersi conto dell’effetto della statua sotto ogni angolatura, e di quanto fosse adatta alle sue esigenze. Ma lui continuava a rimanere immobile senza tradire alcuna particolare emozione.

— Come lei può vedere, nulla è stato toccato da quando gli Insurrezionisti fecero saltare la testa della statua — dissi io cercando di risvegliare il suo interesse — Quindi la statua ha acquistato un ulteriore significato storico che aumenta la sua già formidabile venerabilità. In origine un dono della Francia, assunse un significato storico come emblema di affinità tra la rivoluzione francese e quella americana. Situata all’ingresso della rada di New York, divenne agli occhi di generazioni di immigrati, il simbolo stesso dell’America. E il danno recato dagli Insurrezionisti serve solo a farci rammentare come siano stati fortunati ad uscire da quella situazione con tanta facilità. E aggiunge anche una certa atmosfera malinconica, non trova? Emozione, bellezza intrinseca e storicità unite in un unico elegante pezzo di scultura monumentale. E il prezzo richiesto è assai inferiore a quello che si potrebbe pensare.

Quando alla fine parlò, Mr. Ito sembrò imbarazzato; — Sono sicuro che mi perdonerà quanto sto per dirle, Mr. Harris, dal momento che l’emozione è prodotta dal più alto rispetto per il nobile passato della sua grande nazione, ma trovo questa specifica opera d’arte un tantino deprimente.

— Come mai, Mr. Ito?

Il saltapicchio completò il giro della Statua della Libertà e ne cominciò un altro, mentre Mr. Ito abbassò gli occhi fissando le acque oleose della baia prima di rispondermi.

— Il simbolismo di questa statua mutilata è una cosa che rattrista, poiché rappresenta il declino rispetto alla passata grandezza della sua nazione. Se io dovessi trasportarlo a Kyoto commetterei un atto ignobile, un insulto alla memoria della grandezza della sua nazione. Sarebbe un’affermazione di presuntuoso orgoglio.

Ma vi rendete conto? Lui era offeso perché pensava che mettere in mostra la statua in Giappone sarebbe stato come insultare gli Stati Uniti, e quindi io, offrendogliela, stavo implicitamente insinuando che lui era nikulturi. Tutto questo quando quel dannato vecchiume rappresentava per qualunque americano solo un altro decrepito rottame dei passati giorni di gloria che i Giapponesi, che andavano pazzi per quel genere di porcherie, potevano essere spinti a pagare cifre esorbitanti per il discutibile piacere di impacchettarlo e portarselo via! Questi Giapponesi ti fanno impazzire: chi altri avrebbe potuto sentirsi offeso se voi gli aveste suggerito di fare qualcosa che loro pensavano vi avrebbe offeso, mentre invece l’avevate ritenuta una proposta in buona fede?

— Spero di non averla offesa, Mr. Ito — sbottai. E avrei subito voluto mordermi la lingua per averlo detto, perché era proprio la cosa meno opportuna. Io lo avevo offeso e metterlo nella condizione di doverlo negare per rispetto alla buona educazione, costituiva un’ulteriore offesa.

— Sono sicuro che la cosa non poteva essere più lontana dalle sue intenzioni, Mr. Harris — disse Ito con convincente sincerità. — Una fitta di tristezza al pensiero della caducità della grandezza, nulla di più. Effettivamente, si potrebbe dire che l’esperienza in sé è stata salutare per l’anima. Ma fare di quell’opera d’arte una parte permanente delle cose che mi circondano, sarebbe più di quanto potrei tollerare.

Era davvero ciò che pensava o era solo melliflua buona educazione giapponese? Chi poteva dire cosa pensasse in realtà quella gente? Qualche volta penso che non lo sappiano nemmeno loro. Ad ogni modo, dovevo mostrargli qualche cosa che gli facesse cambiare umore, ed anche in fretta. Hmmmm…

— Mi dica, Mr. Ito, le piace il baseball?

Gli occhi gli si illuminarono come fari, ed il malumore evaporò nel calore di un subitaneo e quasi infantile sorriso. — Ah, sì — disse. — Ho un palco allo stadio di Osaka, anche se devo confessare di avere una preferenza per i Giants. Come è strano che questo profondo gioco abbia avuto un simile declino nella sua patria di origine.

— Forse. Ma questo fatto ha reso disponibile sul mercato qualcosa che sono sicuro lei troverà molto congeniale. Vogliamo andare?

— Ma certo — disse Ito. — Trovo questo ambiente un tantino opprimente.

Pilotai il saltapicchio a cento cinquanta metri di quota e programmai un balzo a mach 2,5 in direzione nord così rapido che ci lasciammo indietro in un baleno l’enorme massa di rame sudicia e scrostata. È sconcertante quanta disgustosa emozione i Giapponesi siano capaci di provare di fronte ad un qualunque vecchio rottame. Vecchi rottami nostri, per giunta, come se il Giappone non avesse abbastanza rottami, vecchi e inutili, per conto suo. Ma non sono certo io a dovermi lamentare: questo mi permette di guadagnare piuttosto bene. Conoscete tutti il vecchio adagio sullo sciocco e il suo danaro.

La traiettoria del saltapicchio ci portò a sorvolare a un’altezza di trecento metri la confluenza dell’Harlem con l’East River. Senza cambiare quota, guadai il saltapicchio a nord est sopra il Bronx a trecento chilometri all’ora. Prima dell’Insurrezione quest’area era ricoperta di case popolari ed era stata rasa al suolo da bombe incendiarie, esplosivi ad alto potenziale e napalm. Non si era mai trovata una ragione economica per sgomberare quell’enorme massa di macerie ed ora la terra sfregiata e gli edifici diroccati erano coperti da distese di erba incolta, sommaco velenoso, cespugli contorti e macchie d’alberi che in una o due generazioni avrebbero potuto formare una foresta, A causa di quella folle e irregolare topografia, era un’area assolutamente inutilizzabile e quasi disabitata, a parte qualche patetico rimasuglio di vecchie tribù di hippies che se ne stavano per conto loro e a cui non valeva la pena di dare la caccia. Alcune baracche isolate e tende rabberciate erano gli unici segni di insediamenti umani in quell’area. Questo era davvero un territorio deprimente, e volevo che Mr. Ito lo oltrepassasse in fretta e ad alta quota.

Per fortuna non mancava molto, e dopo un paio di minuti il saltapicchio si librava a centocinquanta metri sopra il nostro obiettivo, l’unica struttura intatta in quell’area. Il viso di pietra di Mr. Ito si illuminò di una gioia così infantile che capii subito d’aver fatto centro; dunque non mi ero sbagliato nel supporre che non avrebbe resistito ad una simile offerta.

— Eccolo! — gridò estasiato. — Lo Yankee Stadium! L’antico campo sportivo era passato attraverso l’Insurrezione senza altri danni, se si escludono dei muri esterni di cemento anneriti e bucherellati. Ogni cosa intorno era stata quasi completamente demolita, ad eccezione di alcuni brevi tratti della vecchia metropolitana sopraelevata che ancora si ergevano lì accanto, uno scheletro di un tenue color ruggine coperto di muschio e viticci. Le rovine tutt’intorno ne erano completamente ricoperte, enormi mucchi di pietrisco, edifici sventrati, cisterne arrugginite che formavano intricate collinette simili a giungle artificiali intorno al centro svettante costituito dallo stadio, che era anch’esso ricoperto di viticci e piante rampicanti che lo confondevano in parte con il selvaggio panorama circostante.

L’Ufficio Nazionale delle Antichità aveva circondato lo stadio con un alto recinto di filo spinato elettrificato per tener lontani gli hippies che scorrazzavano in quell’area. Una guardia solitaria, con in dotazione un’arma di fabbricazione giapponese, pattugliava costantemente il perimetro con un velivolo monoposto ad un’altezza di cinque metri. Feci scendere il saltapicchio a quindici metri e girai per cinque volte intorno allo stadio, in modo che Ito, affascinato dall’idea, potesse contemplarlo in lungo e in largo e convincersi che sarebbe stato degno di figurare come pezzo forte del suo giardino, invece di rimanere nascosto in quelle spregevoli rovine. La guardia salutava ogni volta che le nostre rotte si incrociavano: doveva essere un lavoro noioso e ingrato starsene lì senza altra compagnia che quelle vecchie rovine e qualche banda di hippies vagabondi.

— Possiamo entrare? — chiese Ito con un tono di assoluta reverenza. Gente, l’avevo agganciato! Era raggiante come un bambino che stesse per ereditare un negozio di caramelle.

— Certamente, Mr. Ito — dissi io, portando il saltapicchio fuori dalla sua rotta circolare e planando dolcemente sopra l’orlo del vecchio campo sportivo e sorvolando il tetto di quella che una volta era stata la tribuna. Con molta lentezza guidai il velivolo verso l’intrico di erba alta, cespugli e alberi rinsecchiti che ricopriva il vecchio campo da gioco.

Era come discendere in un’immensa cattedrale scoperchiata e in rovina. Mentre scendevamo, le cavernose tribune coperte a tre piani (sedili di legno marcio pieni di muschio e di funghi, grandi travi sporgenti che nascondevano stormi di uccelli cinguettanti nelle profonde zone d’ombra) si innalzavano a circondare il saltapicchio in una incantata e perduta grandezza.

Quando toccammo terra, Ito sembrava galleggiare sul sedile in preda al rapimento. — Che meraviglia! — sospirò. — Un tale senso di storia e di venerabilità. Ah, Mr. Harris, quali nobili imprese vennero compiute in questo Stadio nei giorni andati! Possiamo mettere piede su questo storico campo da gioco?

— Certamente, Mr. Ito. — Che bello, non dovevo neppure dire una parola; il lavoro che lui stava facendo per vendere quell’ammuffito ed inutile ammasso di rovine era più di quanto avrei mai potuto fare io stesso.

Uscimmo dal saltapicchio e vagabondammo tra la vegetazione contorta mentre piccioni spennacchiati svolazzavano sopra di noi, e l’immensità dello stadio vuoto conferiva a quel luogo una magica atmosfera di sapore mistico, come se si fosse trattato di qualche tempio greco o di Stonehenge, invece che di un vecchio e cadente campo sportivo. Le tribune sembravano affollate di fantasmi; gli echi di eventi grandiosi che mai ebbero luogo riempivano quegli spazi cavernosi immersi nell’ombra.

E così scoprii che Mr. Ito sapeva più cose sullo Yankee Stadium di quanto ne sapessi o avessi mai voluto saperne io. Mi guidò con passo reverente e misurato, annoiandomi a morte con una specie di itinerario storico e turistico.

— Qui Al Gionfriddo effettuò quella famosa presa alle World Series che costò a Joe DiMaggio una potenziale base — disse quando raggiungemmo l’alta e scrostata parete nera che correva davanti alle gradinate. Numeri sbiaditi indicavano «405». Seguimmo quella parete ricurva fino al numero 467. Qui c’erano tre pesanti lastre che spuntavano dal vecchio terreno di gioco come se si trattasse di pietre tombali, e sulla parete retrostante erano infisse cinque placche di rame, ossidate al punto di risultare illeggibili. Ai vecchi tempi doveva essere proprio una cosa seria, esattamente come lo è ora per i Giapponesi.

— Targhe che commemorano i grandi eroi dei New York Yankees — disse Ito. — Il leggendario Ruth, Gehrig, DiMaggio, Mantle… Proprio qui Mickey Mantle spedì una palla sulle gradinate, una cosa che era stata considerata impossibile per più di mezzo secolo. Ah…

E via di questo passo. Ito gironzolò per tutto il terreno da gioco e pareva che avesse qualche aneddoto, ogni volta descritto come un evento di importanza storica, per ogni metro quadrato dello Yankee Stadium. Qui Babe Ruth aveva raggiunto la sua sessantesima base. Lì Roger Marris aveva superato quel record; là Mantle aveva quasi lanciato la palla al di là del tetto del venerabile stadio. Era incredibile quante di queste sciocchezze riuscisse a ricordare e quanto fossero importanti ai suoi occhi. La visita sembrava non finire mai. Sarei impazzito dalla noia se non fosse stato magnificamente chiaro che aveva completamente perso la testa per quel posto. Mentre Ito continuava la sua relazione amorosa con lo Yankee Stadium, io passavo il tempo contando yen nella mia mente. Considerai che probabilmente avrei potuto scucirgli dieci milioni, il che significava che la mia commissione sarebbe stata un milione secco. Il pensiero di tutto quel danaro che stava per cadere nelle mie mani fu sufficiente per farmi continuare a sorridere per tutte le due ore in cui Ito continuò a farfugliare di basi, lanci e strikes.

Era ormai pomeriggio inoltrato quando finalmente sembrò soddisfatto e mi permise di riportarlo al saltapicchio. Decisi che era tempo di parlare di affari mentre era ancora sotto l’incantesimo dello stadio e poteva offrire minore resistenza.

— Mi riempie di piacere vedere la profondità dei suoi sentimenti verso questo meraviglioso e venerabile stadio, Mr. Ito — dissi. — Sono pronto ad agevolare un rapido trasferimento quando lei vorrà.

Ito trasalì come se fosse stato improvvisamente risvegliato da qualche piacevole sogno. Abbassò gli occhi e fece un inchino quasi impercettibile.

— Ohimé — disse tristemente, — anche se sarebbe per me un incommensurabile piacere poter serbare come una reliquia il nobile Yankee Stadium nelle mie terre, purtroppo una tale frivolezza da parte mia non farebbe che esacerbare le mie difficoltà domestiche. I genitori di mia moglie stupidamente considerano il nobile sport del baseball una barbarie di importazione americana. Sfortunatamente mia moglie condivide queste opinioni, e spesso rimprovera il mio entusiasmo verso tale gioco. Se comperassi lo Yankee Stadium diverrei un oggetto di scherno nella mia stessa casa e la mia vita diventerebbe veramente insopportabile.

Questo era il massimo! Quell’arrogante piccolo figlio di cane aveva sprecato due ore del mio tempo trascinandomi in giro per questo stupido mucchio di rovine, snocciolando tutte quelle sciocchezze e facendomi quasi impazzire, pur sapendo che non lo avrebbe mai comperato. Mi venne voglia di cacciargli tutti i denti in fondo a quella maledetta gola. Ma pensai a tutti quegli yen che ancora potevo sperare di ricavare e gli diedi una risposta adeguata: un piccolo sorriso di simpatia, un sospiro solidale di doloroso rimpianto, un sussurrato: — Ohimé.

— Comunque — aggiunse allegramente — il ricordo di questa visita sarà qualcosa che mi terrò caro per sempre. Le sono profondamente debitore per avermi permesso questa esperienza, Mr. Harris. È valsa davvero la pena di fare il viaggio da Kyoto, anche solo per questa emozione.

E questo mi diede il colpo finale.


Ero davvero nei guai, proprio sul punto di mandare in fumo il più grosso affare che mi fosse mai capitato. Avevo mostrato ad Ito i due migliori articoli del mio territorio e se lui non trovava quello che voleva nel Nord Est, nel resto del paese c’erano un sacco di cose di prima qualità: cose come l’Arco di st. Louis, il Cervino a Disneyland, il Tabernacolo dei Mormoni a Salt Lake City ed anche un sacco di altri intermediari che si sarebbero incamerati la lauta commissione.

Pensai che mi rimanesse un solo articolo da mostrargli prima che lui cominciasse a pensare di rivolgersi altrove: il complesso di edifici delle Nazioni Unite. L’ONU era caduto in un complicato limbo legale. Le Nazioni Unite avevano mantenuto il diritto di proprietà quando avevano spostato il loro quartier generale fuori da New York; ma quando fallirono, lo stato di New York, la città di New York e il governo federale, avanzarono delle pretese su di essi, insieme ai creditori stranieri delle Nazioni Unite. L’Ufficio Nazionale delle Antichità non aveva titoli definiti, ma amministrava la proprietà per conto del governo federale. Se fossi riuscito a rifilare a Ito quel dannato affare, l’Ufficio Nazionale dei Rottami sarebbe stato anche troppo contento di intascare l’assegno e di lasciare che gli altri si affannassero ad impadronirsi di quel danaro. E una volta che lui l’avesse trasportato a Kyoto, il governo giapponese non avrebbe permesso che qualcuno cercasse di impossessarsi di un articolo per il quale uno dei suoi più eminenti cittadini aveva sborsato un bel po’ di yen.

Così feci un balzo a mach 1,7 sopra le acque oleose dell’Est River in direzione est verso il complesso delle Nazioni Unite nella Quarantaduesima. A quell’ora del giorno e da quell’angolazione gli edifici delle Nazioni Unite offrivano quella che speravo fosse una veduta romantica secondo lo stile giapponese. Il Segretariato era una gigantesca lapide di vetro inondata dal sole del tardo pomeriggio, appena velato dalla foschia grigia che ristagnava perennemente sopra Manhattan; al suo fianco, la bassa struttura incurvata dell’Assemblea Generale dava al complesso un equilibrato profilo calligrafico. L’effetto globale era simile a quello degli antichi cancelli Torii giapponesi, stagliati contro il cielo nebbioso al tramonto, solo su scala molto maggiore.

L’Insurrezione aveva lasciato intatte le Nazioni Unite (i ribelli avevano nutrito uno strano rispetto per quell’istituzione) e dal fiume si riuscivano a scorgere a malapena il sudicio mercato all’aperto a cui era stato permesso di prosperare nella piazza, e i bar malfamati lungo la Prima Avenue. Per fortuna, l’Ufficio Nazionale delle Antichità si faceva un punto d’onore di mantenere gli edifici in buono stato, sapendo che le pretese del governo federale avrebbero potuto essere vanificate se fosse trapelato che l’Ufficio li stava lasciando cadere a pezzi.

Portai il saltapicchio ad una quota di novanta metri e mi allontanai dal fiume, cominciando il mio discorsetto: — Davanti a lei, Mr. Ito, ci sono gli edifici delle Nazioni Unite, malinconico simbolo di uno dei più nobili sogni dell’uomo, ora purtroppo vuoti e abbandonati, un monumento alla tragedia della sfortunata scomparsa delle Nazioni Unite.

Barbagli di sole, riflessi dal fiume e poi dalle centinaia di finestre che formavano la facciata del Segretariato, scintillavano ad intermittenza attraverso il monolito di vetro mentre guidavo il saltapicchio attorno all’edificio. Quando fummo sul lato occidentale, la grande facciata di vetro diventò una cortina di fuoco arancione.

— Il Segretariato potrebbe essere sistemato nei suoi giardini in modo da riflettere sia la luce dell’alba che quella del tramonto, Mr. Ito — gli fece notare. — È considerato uno dei più begli esempi di Utilitarismo del Ventesimo Secolo e lei può constatare che si trova in eccellenti condizioni.

Ito non disse nulla. I suoi occhi non ammiccarono neppure. Persino i muscoli del viso sembravano innaturalmente legnosi. Il saltapicchio fu di nuovo sul lato posteriore del Segretariato, e la mole dell’edificio eclissò sia il sole che i suoi giganteschi riflessi; sotto di noi c’era il tetto di cemento grigio dell’Assemblea Generale.

— E naturalmente il significato storico degli edifici delle Nazioni Unite è incommensurabile, anche se tragico…

Mr. Ito mi interruppe all’improvviso con voce fredda e scandita: — La prego di perdonare la mia crudezza nell’interrompere le sue osservazioni con una opinione politica, Mr. Harris, ma credo che la mia franchezza farà risparmiare a lei molto tempo e molti sforzi e a me un considerevole disagio.

Di colpo, era Shiburo Ito della Ito Freight Booster di Osaka, guida e ispirazione dell’economia della più potente nazione della Terra, e ora me lo stava dimostrando. — Rispetto pienamente la sua valutazione affettiva per le defunte Nazioni Unite, ma è un sentimento che non condivido. Le ricordo che le Nazioni Unite nacquero come alleanza delle nazioni che umiliarono il Giappone in una sfortunatissima guerra, e morirono sotto forma di un assemblea rissosa e stridula di nazioni impoverite e questuanti, unite solo nella disonorevole determinazione di estorcere aiuti internazionali dai paesi più avanzati, progrediti, autosufficienti e virtuosi, primo fra tutti il Giappone. Devo quindi far notare con rincrescimento che la vista di quegli edifici mi riempie solo di disgusto, per quanto essi possano avere una certa bellezza intrinseca come oggetti astratti.

Il suo viso era diventato una maschera lucente e lui sembrava lontano milioni di chilometri. Era il primo di questi pezzi grossi giapponesi che avessi visto avvicinarsi così all’ira; dentro di sé doveva proprio ribollire. Dannazione! Come potevo sapere che le Nazioni Unite avessero per lui tutti quei terribili significati politici? Per quel che ne sapevo io, le Nazioni Unite non avevano significato nulla per nessuno per molti anni, se non come ideale sciocco e vacuo che era stato ripreso dagli abitanti del Terzo Mondo, e poi era andato in frantumi. Proprio una fortuna che fossi incappato in uno dei pochi che ancora la condannavano!

— Lei è senza dubbio stanco, Mr. Harris — disse freddamente Ito. — Non la incomoderò più a lungo. Sarebbe meglio ritornare al suo ufficio ora. Se dovesse avere altri oggetti da mostrarmi, potremmo fissare un altro appuntamento in un giorno che sia comodo per entrambi.

Che cosa potevo dire? Lo avevo offeso profondamente, e poi non riuscivo a pensare a nient’altro da mostrargli. Portai il saltapicchio a centocinquanta metri di quota e mi diressi a cento chilometri all’ora verso il centro, sperando nonostante tutto di riuscire a escogitare qualcosa per salvare questo affare da un milione di dollari che rischiava di sfumare, prima di raggiungere il mio ufficio e di perdere per sempre questa gallina dalle uova d’oro.


Mentre ci dirigevano in centro, Ito fissava impassibile la lunga sequela di squallidi edifici allineati lungo la costa di Manhattan sotto di noi, senza degnarsi di parlare o di far cenno di accorgersi della mia miserabile persona. L’intensa luce rossastra che filtrava attraverso la cupola tramutava la sua faccia rotonda in un Sol Levante, uguale a quello della bandiera giapponese. Un’immagine appropriata. Il pazzo bastardo era proprio come il suo paese: un signore feudale suscettibile in politica, dotato di educata arroganza economica, con una sensibilità estetica estremamente raffinata, unita inesplicabilmente ad una brama da topo d’albergo per le più sciocche delle nostre vecchie paccottiglie. Un momento prima Ito appariva così superiore in tutto e in quello seguente era uno stupido ed infantile boccalone. Sono anni che tratto affari con i Giapponesi e ancora non li capisco a fondo. Tutto ciò che posso fare è azzardare qualche supposizione, che resta però sempre ai margini della loro vera realtà interiore, e sperare con quella di cogliere nel segno. E proprio questa volta, con un milione di yen o più che mi balenavano davanti agli occhi, avevo fatto cilecca per ben tre volte e me ne stavo tornando a casa con la coda tra le gambe in compagnia di un cliente insoddisfatto, il cui atteggiamento sembrava fatto apposta per farmi capire che ero una stupida e insulsa creatura, mentre lui era uno dei signori dell’universo!

— Mr. Harris! Mr. Harris! Laggiù! Quella magnifica struttura! — All’improvviso Ito si mise quasi a gridare: gli occhi luccicavano per l’eccitazione e stava sorridendo.

Stava puntando il dito verso sud, lungo l’East River. La sponda dalla parte di Manhattan era soffocata dal più orrendo progetto di case popolari che si potesse immaginare, e la sponda di Brooklyn era ancora peggio: una di quelle enormi aree cosiddette industriali, con bassi edifici senza finestre, magazzini geodesia, banchine, qualche rampa per vettori merci. C’era un’unica costruzione svettante, la sola cosa che Ito potesse indicare: la struttura che collegava le case popolari sulla sponda di Manhattan con l’area industriale di Brooklyn.

Mr. Ito stava indicando il Ponte di Brooklyn.

— Il… ah… ponte, Mr. Ito? — riuscii a dire mantenendo il viso impassibile. Per quello che ne sapevo, il ponte di Brooklyn aveva una sola pretesa di storicità: era l’oggetto di una serie di barzellette così vecchie che non erano nemmeno più divertenti. Era il Ponte di Brooklyn che tradizionalmente nelle vecchie comiche i truffatori vendevano ai turisti boccaloni, ai sempliciotti o ai contadini, come li chiamavano allora, insieme a inesistenti partite di uranio e mattoni verniciati d’oro.

Così non resistetti alla tentazione di pronunciare la battuta: — Vuole comprare il Ponte di Brooklyn, Mr. Ito? — Era meraviglioso: mi aveva fatto passare l’inferno ed era diventato maledettamente altezzoso e arrogante, e adesso io gli stavo dando apertamente del cretino e lui non lo sapeva.

In effetti, lui annuì deciso, proprio come quei sempliciotti delle vecchie barzellette e disse: — Credo di sì. È in vendita?

Ridussi la velocità del saltapicchio a sessanta chilometri, lo feci abbassare a trenta metri e soffocai un risolino mentre ci avvicinavamo alla vecchia mostruosità in rovina. Due massicce e tozze torri di pietra sostenevano i cavi arrugginiti a cui era sospeso il letto del ponte. I saltapicchi avevano reso inutile il ponte da anni; nessuno si era preoccupato della sua manutenzione e nessuno si era preoccupato di smantellarlo. Nel punto in cui i grandi blocchi di pietra grigio-scuro toccavano l’acqua, erano incrostati di una melma verde dall’aspetto putrido. Sopra il pelo dell’acqua le torri erano ricoperte da uno strato bianco, vecchio di almeno dieci anni, causato dallo sterco di uccelli.

Era difficile credere che Ito parlasse sul serio. Il ponte era una vecchia mostruosità, sporca, puzzolente e fatiscente. In poche parole, era proprio quello che Ito meritava gli venisse rifilato.

— Ma certo, Mr. Ito — dissi, — credo di essere in grado di venderle il Ponte di Brooklyn.

Feci librare il saltapicchio alla distanza di circa trenta metri da una delle vecchie e sudicie torri. Dove non erano ricoperte di guano, le pietre erano incrostate da una spessa patina di fuliggine nera. La strada era piena di buche e completamente ingombra di rifiuti, conchiglie e altro sterco di uccelli; il ponte doveva essere da anni abitato da colonie di gabbiani. Fui estremamente grato del fatto che il saltapicchio fosse a tenuta stagna: il fetore doveva essere terrificante.

— Eccellente! — esclamò Ito. — Proprio grazioso, non trova? Sono fermamente deciso ad essere l’uomo che comprerà il Ponte di Brooklyn, Mr. Harris.

— Non riesco a pensare a nessuno che sia più degno di questo onore della sua stimata persona, Mr. Ito. — dissi io con la più completa sincerità.


Circa quattro mesi dopo che l’ultima sezione del ponte era stata trasferita a Kyoto, ricevetti da Ito due pacchetti. Uno era una busta contenente una minicassetta e una diapositiva olografica; l’altro era un pesante involucro delle dimensioni di una scatola di scarpe e avvolto in elegante carta azzurra.

Sentendomi molto più ben disposto nei confronti di Ito ora che avevo un milione dei suoi yen accreditati nel mio conto in banca, inserii la minicassetta nel registratore e non fui certo sorpreso quando udii la sua voce.

— Saluti, Mr. Harris, ed ancora i più profondi ringraziamenti per aver accelerato il trasferimento del ponte nella mia tenuta. Esso è ora installato in modo permanente e procura a tutti noi un grande piacere estetico ed ha incommensurabilmente aumentato la tranquillità nella mia casa. Le accludo un’olografia del sacro luogo. Le ho anche inviato un piccolo segno della mia stima che spero vorrà accettare nello spirito con il quale viene donato. Sayonara.

Incuriosito, mi alzai e inserii la diapositiva nel mio visore a parete. Di fronte a me apparve una montagna ricoperta di alberi che si innalzava in due picchi gemelli di austera roccia grigio scura. Un’alta cascata si tuffava graziosamente nella gola tra i due pinnacoli, precipitando in un lago profondo ai piedi della montagna, e lì si abbatteva su di un pianoro di roccia formando un velo perenne di sottile foschia che trasformava il paesaggio in un’immagine che sembrava uscita direttamente da un dipinto cinese. Disteso attraverso la gola tra i due picchi, simile ad una ragnatela sospesa proprio sopra la cascata, le torri di pietra ancorate a degli spuntoni roccia sull’orlo del precipizio, c’era il ponte di Brooklyn, la sua massa imponente resa aggraziata ed esile dalle dimensioni massicce del paesaggio. La pietra era stata ripulita e brillava per il vapore umido, i cavi e la sede stradale erano ricoperti di edera lussureggiante. L’olografia era stata scattata proprio mentre il sole tramontava tra le torri del ponte, facendole risaltare su di uno sfondo rosso-arancione, e trasformando la nebbiolina in una cascata di luccicanti scintille color rame.

Era molto bello.

Ci volle un po’ prima che riuscissi a distogliere lo sguardo, ricordandomi dell’altro pacchetto di Mr. Ito.

Dentro l’involucro di carta azzurra c’era un mattone verniciato d’oro. Rimasi a bocca aperta. Poi risi. E poi lo guardai di nuovo.

Superficialmente, l’oggetto sembrava un vecchio mattone ricoperto di vernice d’oro. Ma non lo era. Era un vero lingotto di oro puro, una perfetta imitazione dell’originale, perfetta in ogni dettaglio.

Sapevo che Mr. Ito stava cercando di dirmi qualcosa, ma ancora adesso non sono ben sicuro di aver capito.

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