Fritz Leiber Un nemico vivo o morto

Le luminose stelle del cielo di Marte formavano la volta scintillante di un fantastico dipinto. Un individuo fornito di visione retinica avrebbe visto un terrestre abbigliato con la familiare giacca e i calzoni del ventesimo secolo in piedi su un macigno che lo poneva a poco più d’un metro sopra la sabbia rugginosa. Il suo volto era ossuto, dall’aspetto ascetico. I suoi occhi balenavano indomiti dentro alle orbite incassate. Di tanto in tanto i lunghi capelli ricadevano sopra gli occhi. Le sue labbra si agitavano, vociferanti, mostrando grossi denti giallastri, e davanti ad essi vi era stabilmente una nube di fiato condensato, poiché stava tenendo un discorso… in lingua inglese. L’uomo assomigliava talmente a uno di quegli oratori di vecchio stampo che parlavano da sopra una cassetta di limoni, che veniva voglia di guardarsi intorno alla ricerca di un lampione, di una folla di ascoltatori dai volti imbambolati, traboccanti dal marciapiede, e dei poliziotti in divisa intenti a passeggiare su e giù.

Ma lo sconcertante globo di morbida radiosità che circondava il signor Whitlow faceva sprizzare bagliori di luce riflessa da gusci di smalto nero e da zampe articolate simili a quelle d’una formica vista al microscopio. Ciascun individuo di quella folla possedeva un corpo Ovale lungo circa trentacinque centimetri, del tutto sprovvisto d’una testa in qualche modo riconoscibile, nonché di qualunque orifizio sensoriale o altro sulla nera e lucida superficie, salvo una piccola bocca che funzionava come una porta scorrevole e che continuava ad aprirsi e a chiudersi ad intervalli regolari. A questo corpo erano attaccate otto zampe articolate, un paio delle quali mostrava organi terminali dotati di alte capacità di manipolazione.

Queste creature erano disposte in cerchio intorno al macigno del signor Whitlow. Davanti a lui una di queste creature se ne stava un po’ discosta dalle altre, su un macigno più piccolo. Ai lati di questa, vi erano altre due creature i cui gusci vagamente argentei suggerivano l’erosione del tempo, e perciò la vecchiaia. Al di là della folla, si stendeva un deserto nero fino a un orizzonte che s’intuiva soltanto per la brusca interruzione della distesa di stelle.

Bassa nel firmamento brillava la Terra dall’azzurro cielo, che adesso era la stessa della sera di Marte, e vicino ad essa cavalcava l’esile falce di Fobos.

Ai coleotteroidi di Marte questa scena si presentava molto diversa, poiché essi dipendevano dalla percezione più di qualunque altro sistema sensoriale, per quanto elaborato. Il loro cervello interno era conscio in modo diretto di tutto ciò che si trovava entro un raggio d’una ventina di metri. Per loro, l’azzurro bagliore della Terra era una nube fotonica che si diffondeva ai limiti della soglia della percezione, simile, ma ben distinta dalle altre nubi fotoniche delle stelle e delle deboli lune. Non potevano percepire nessuna immagine distinta della Terra, a meno che non avessero fatto uso di lenti per portare una simile immagine all’interno della loro portata percettiva. Erano consci del suolo sotto di loro come di un emisfero sabbioso percorso da un labirinto di gallerie scavate da vermi e centopiedi. Erano consci dei propri corpi corazzati e segmentati, e dei propri pensieri. Ma la loro attenzione era soprattutto concentrata, adesso, su quell’inefficiente congerie d’organi molli e scoperti che pensava a se stesso come al signor Whitlow: una stupefacente, umidiccia zuppetta di vita sull’asciutto, avaro Marte.

La fisiologia dei coleotteroidi era tipica d’un pianeta dall’economia impoverita. I loro gusci erano doppi; l’intercapedine poteva essere svuotata durante la notte, per trattenere il calore, e nuovamente riempita di giorno per assorbirlo dall’esterno. I loro polmoni erano veri e propri accumulatori di ossigeno: ad ogni espirazione corrispondevano circa cento inspirazioni di quell’atmosfera rarefatta, e la bocca a doppia valvola consentiva di accumulare una considerevole pressione interna. Utilizzavano il cento per cento dell’ossigeno inspirato ed esalavano anidride carbonica mista ad altri prodotti di scarto della respirazione. Le occasionali folate di quest’alito incredibilmente cattivo facevano arricciare le narici al signor Whitlow.

Non era niente affatto ovvio cosa mai permettesse al signor Whitlow di continuare a funzionare, di parlare perfino, in quella gelida scarsità di ossigeno. Ciò costituiva una domanda sconcertante almeno quanto la fonte del morbido chiarore che l’inondava.

La comunicazione fra lui e il suo pubblico era puramente telepatica. Stava parlando vocalmente dietro precisa richiesta dei coleotteroidi, poiché, come la maggior parte dei non-telepati, riusciva a organizzare e a render chiari al meglio i suoi pensieri mentre parlava. La sua voce era drasticamente attenuata a causa dell’aria sottile: sembrava l’ago d’un fonografo che raschiasse la superficie d’un disco senza amplificazione, il tutto intensificato dall’arcana e ridicola ampollosità del suo ampio gesticolare e delle sue contorsioni facciali.

«E così», concluse ansando Whitlow, scostandosi una volta ancora i lunghi capelli dalla fronte, «torno alla mia domanda originaria: attaccherete la Terra?»

«E noi, signor Whitlow», pensò il capo-coleotteroide, «torniamo alla nostra domanda originaria: perché dovremmo?»

Il signor Whitlow fece una smorfia, rivelando una pazienza ormai logora: «Come vi ho già detto ormai parecchie volte, non posso fornirvi una spiegazione completa. Ma vi garantisco la mia buona fede. Farò del mio meglio per fornirvi i mezzi di trasporto e facilitarvi la cosa in tutti i modi. Intendiamoci, dovrà trattarsi soltanto d’una invasione simbolica. Dopo breve tempo, potrete ritirarvi su Marte col vostro bottino. Non vorrete certo trascurare quest’occasione».

«Signor Whitlow», rispose il capo-coleotteroide con un umorismo velenoso e asciutto come il suo pianeta, «non posso leggere i suoi pensieri a meno che lei non li vocalizzi. Sono troppo confusi. Ma posso percepire i suoi pregiudizi. Lei opera partendo da un grosso malinteso riguardo la nostra psicologia. È chiaro che sul suo mondo è tradizione pensare agli esseri alieni dotati d’intelligenza come a mostri malefici il cui unico desiderio è saccheggiare, distruggere, tiranneggiare e infliggere innominabili crudeltà a creature meno progredite di loro. Niente potrebbe essere più lontano dal vero. Noi siamo una razza antica e priva di emozioni. Ci siamo lasciati alle spalle le passioni e le vanità — perfino le ambizioni — della nostra giovinezza. Noi non intraprendiamo nessun progetto se non per motivi più che validi».

«Ma questo è appunto il caso. Non vedete i grossi vantaggi della mia proposta? Quasi senza alcun rischio per voi avrete modo di fare un prezioso bottino».

Il capo dei coleotteroidi si sistemò più a suo agio sul piccolo macigno, e così fecero i suoi pensieri. «Signor Whitlow, mi permetta di ricordarle che non abbiamo mai affrontato una guerra con leggerezza. Durante l’intero corso della nostra storia, i nostri unici nemici intelligenti sono stati i molluscoidi dei mari senza maree di Venere. Nella primavera della loro cultura giunsero fin qui a bordo delle loro astronavi spaziali piene d’acqua, e noi fummo costretti a combattere guerre lunghe e amare. Ma alla fine anch’essi raggiunsero la maturità razziale e una certa spassionata saggezza, anche se non equivalente alla nostra. Fu dichiarata una tregua perpetua, a condizione che ognuna delle parti se ne restasse sul proprio pianeta e non tentasse più nessuna incursione. Per molte epoche abbiamo rispettato quella tregua, vivendo in mutuo isolamento. Perciò, come può vedere, signor Whitlow, lei può imputarci qualunque cosa, ma non d’essere inclini ad accettare una proposta strana e confusa come la sua».

«Posso dare un suggerimento?» interloquì il coleotteroide anziano alla destra del capo. I suoi pensieri guizzarono sottili verso Whitlow: «Terrestre, lei sembra possedere poteri perfino superiori, sotto certi aspetti, ai nostri. Il suo arrivo su Marte senza nessun riconoscibile mezzo di trasporto e la sua capacità di sopportare i rigori del nostro mondo senza nessun percettibile mezzo protettivo, ne sono prove sufficienti. Da quanto lei ci ha detto, gli altri abitanti del suo pianeta non possiedono questi poteri. Perché allora non li attacca lei da solo, come fa il verme solitario corazzato? Perché ha bisogno del nostro aiuto?»

«Amico mio», disse il signor Whitlow con solennità, piegandosi in avanti e puntando il suo sguardo sull’anziano dal carapace argenteo, «detesto la guerra come il male più abbietto, e giudico il fatto di prender parte ad essa come il crimine più grande. Nondimeno, sarei pronto a sacrificare me stesso, come lei suggerisce, se ciò bastasse a raggiungere i miei fini. Sfortunatamente non posso. Non avrebbe l’effetto psicologico che desidero. Inoltre…» e fece una pausa imbarazzata, «… tanto vale che vi confessi che non sono del tutto padrone dei miei poteri. Non li capisco. L’opera di qualche inscrutabile provvidenza ha messo nelle mie mani un congegno che è probabilmente il manufatto di creature la cui intelligenza trascende mille volte quelle che abitano il nostro sistema solare, o addirittura il nostro universo. Ed è grazie a questo congegno che posso attraversare lo spazio e il tempo, protetto dai pericoli. Esso mi fornisce calore e luce, concentra intorno a me una sfera d’aria così da consentirmi di respirare normalmente. Ma in quanto a usare questo congegno in maniera più ampia… avrei una mortale paura che possa sfuggire al mio controllo. L’unico, piccolo esperimento in tal senso da me fatto è stato disastroso. Non oserei mai più».

Il coleotteroide anziano inviò un pensiero al suo capo su una frequenza riservata: «Devo tentare d’ipnotizzare la sua mente turbata, facendomi consegnare da lui questo congegno?»

«Sì, fallo».

«Benissimo. Tuttavia temo che quel congegno proteggerà la sua mente, oltre al suo corpo. Tuttavia, vale la pena tentare».

«Signor Whitlow», pensò d’un tratto il capo, «è giunto il momento di passare ad argomenti più concreti. Ogni sua successiva parola fa sembrare la sua proposta ancor più irrazionale, e i suoi motivi sempre più incomprensibili. Se si aspetta che noi mostriamo un serio interesse, deve dar subito una chiara risposta a questa domanda: perché vuole che attacchiamo la Terra?»

Whitlow si contorse tutto: «Ma è proprio la domanda alla quale non posso rispondere».

«Mettiamola così, allora», continuò il capo, paziente. «Quale vantaggio personale si aspetta di conseguire dal nostro attacco?»

Whitlow si erse in tutta la sua statura e si raddrizzò la cravatta:

«Nessuno! Nessuno in assoluto! Non cerco niente per me stesso!»

«Vuole dominare la Terra?» insisté il capo.

«No! No! Detesto ogni forma di tirannia».

«Una vendetta, allora? La Terra le ha fatto del male e lei sta cercando di ripagarla con la stessa moneta?»

«Assolutamente no! Non mi piegherei mai a un simile barbaro comportamento. Io non odio nessuno. Il desiderio di vedere qualcuno ferito è la cosa più lontana dai miei pensieri».

«Suvvia, suvvia, signor Whitlow! Ci ha appena sollecitato ad attaccare la Terra. Come può far quadrare questo coi suoi sentimenti?»

Whitlow si rosicchiò il labbro, perplesso.

Il capo approfittò della pausa per una rapida domanda al coleotteroide anziano: «Qualche progresso?»

«Nessuno. Afferrare la sua mente è straordinariamente difficile. E, come avevo previsto, c’è uno schermo».

Whitlow scrollò le spalle, gli occhi fissi all’orizzonte bordato di stelle.

«Vi dirò questo», riprese. «È soltanto perché amo moltissimo la Terra e l’umanità, che voglio che voi l’attacchiate».

«Ha scelto uno strano modo di dimostrare il suo affetto», dichiarò il capo.

«Sì», continuò Whitlow, accalorandosi ancor di più, gli occhi ancora perduti lontano. «Voglio che lo facciate per porre fine alla guerra».

«Questa faccenda sta diventando sempre più misteriosa. Scatenare una guerra per farla cessare? Questo è un paradosso che richiede una spiegazione. Faccia attenzione, signor Whitlow, o io stesso cadrò nel vostro errore di giudicare tutti gli alieni mostri malefici e dementi».

Whitlow distolse lo sguardo dall’orizzonte e lentamente lo abbassò sul capo. Sospirò. «Immagino che farò meglio a dirvelo», borbottò. «È probabile che alla fine l’avreste scoperto lo stesso. Anche se sarebbe stato più semplice nell’altra maniera…»

Spinse indietro la capigliatura ribelle e si massaggiò la fronte mostrando un po’ di stanchezza. Quando riprese a parlare, lo fece con un tono assai meno retorico: «Sono un pacifista. Ho dedicato la vita al compito di prevenire la guerra. Amo i miei simili. Ma essi sono immersi fino al collo negli errori e nel peccato. Sono vittime delle loro più basse passioni. Invece di marciare fiduciosi, la mano nella mano, verso il glorioso conseguimento dei loro sogni, insistono a impegolarsi nei più assurdi conflitti, nelle guerre più abbiette».

«Forse c’è un motivo», suggerì il capo, in tono pacato. «Alcune diseguaglianze che devono esser livellate per…»

«Per favore», l’interruppe il pacifista in tono di rimprovero. «Queste guerre sono diventate sempre più violente e terribili. Io, ed altri, abbiamo tentato di ragionare con la maggioranza, ma invano. Essi persistono nella loro idea fissa. Mi sono lambiccato il cervello per trovare una soluzione. Ho preso in considerazione qualunque rimedio concepibile. Dall’istante in cui sono venuto in possesso di… ehm… del congegno, ho cercato per tutto il cosmo, perfino in altre correnti temporali, il segreto per prevenire la guerra. Senza successo. Tutte le razze intelligenti che ho incontrato o sono impegnate in qualche guerra, il che le esclude automaticamente, oppure non hanno mai conosciuto la guerra — questi erano molto gentili, ma com’è ovvio non potevano fornirmi nessuna indicazione utile. Altri ancora si sono lasciati la guerra alle spalle attraverso il doloroso e orribile procedimento di combattere finché non è rimasto più nulla per cui combattere».

«Come abbiamo fatto noi», fu il fuggevole pensiero del capo.

Il pacifista allargò le braccia, il palmo delle mani rivolto al cielo: «Così, mi ritrovai una volta ancora abbandonato alle mie proprie risorse. Studiai allora l’umanità da ogni angolazione. E a poco a poco mi convinsi che la sua peggiore caratteristica, quella più d’ogni altra responsabile della guerra, era una straripante presunzione. Sul mio pianeta l’uomo è il signore della creazione. Ogni altra specie animale è una fra le tante, nessuna è preminente. I carnivori hanno i loro rivali carnivori. Ogni animale che bruca o che pascola compete con un gran numero di altre specie analoghe per ciò che riguarda l’erba e i germogli. Perfino i pesci del mare e la miriade di parassiti che pullulano nel sangue si trovano suddivisi in specie di capacità e habitat press’a poco uguali. Ciò induce umiltà e senso della prospettiva. E nessuna di queste specie è incline a combattere contro se stessa quando si rende conto che, farlo, significherebbe soltanto aprire la strada al predominio di altre specie. Soltanto l’uomo non ha nessun vero rivale, nessun’aitra specie in grado d’impensierirlo. E il risultato è che ha sviluppato manie di grandezza… di persecuzione e odio. E poiché gli manca il freno che gli verrebbe offerto da una seria rivalità con altre specie, inquina il suo nido planetario scatenando in continuità guerre civili.

«È un bel po’ che sto rimuginando su quest’idea. Ho pensato con nostalgia a quanto sarebbe stato diverso lo sviluppo dell’umanità, se fosse stata costretta a condividere il suo pianeta con qualche altra specie di pari intelligenza, ad esempio un abitante dei mari col genio per la meccanica. Ho riflettuto sul fatto che, quando avvengono grandi catastrofi naturali, incendi, inondazioni, terremoti, pestilenze, l’uomo sembra abbandonare temporaneamente tutti i litigi, e tutti si mettono a lavorare insieme, d’amore e d’accordo: i ricchi coi poveri, gli amici coi nemici. Sfortunatamente una simile collaborazione dura solo fino a quando l’uomo non riesce a imporre di nuovo il suo dominio sopra l’ambiente. Questi disastri, queste catastrofi, non sono una minaccia tale da farlo rinsavire una volta per tutte. E allora… mi è venuta un’ispirazione».

Lo sguardo del signor Whitlow vagò inquisitivo su quel brulichio di gusci neri: un guazzabuglio di riflessi satinati a forma di mezzaluna che circondavano d’ogni parte la sfera luminosa che l’avviluppava. In ugual maniera la sua mente guizzò attraverso gli enigmatici pensieri che si agitavano all’interno dei loro carapaci.

«Ricordai un incidente degli anni della mia fanciullezza. Una trasmissione radio — noi usiamo vibrazioni ad alta velocità per trasmettere i suoni — aveva descritto in maniera diabolicamente realistica un’invasione, del tutto inventata, della Terra da parte di esseri provenienti da Marte, esseri dalla natura malvagia e distruttiva che, come voi dite, noi abbiamo la tendenza ad attribuire a ogni forma di vita aliena. Molti credettero che l’invasione stesse davvero accadendo, vi fu paura, terrore, panico. Ho pensato, allora, che al primo accenno d’una autentica invasione di creature aliene, i popoli della Terra in guerra tra loro sarebbero stati pronti a dimenticare ogni contrasto, unendosi saldamente insieme per affrontare gli invasori, rendendosi conto che i motivi per cui si erano azzuffati fino a un attimo prima erano in realtà insignificanti, fantasmi di cattivi umori e di paure prive di sostanza. Avrebbero riacquistato equilibrio e buonsenso. Avrebbero capito che il fatto di gran lunga più importante era quello d’essere tutti alla pari, uomini dal primo all’ultimo, posti ora nella necessità di affrontare un comune nemico… e in grado di affrontare splendidamente una simile sfida. Ah, amici miei, quando quella visione ha preso forma nella mia mente… un’umanità in guerra unita d’un sol colpo e per sempre, sono rimasto tremante e senza parole. Io…»

Perfino li, su Marte, l’emozione lo soffocava.

«Molto interessante», fu il blando pensiero del coleotteroide anziano, «ma il metodo che lei propone non entrerebbe, forse, in contraddizione con quella moralità più alta cui, a quanto riesco a percepire, lei anela?»

Il pacifista chinò il capo. «Amico mio, lei ha ragione… nel senso più alto e supremo della definizione. Ma permetta che le assicuri…» il fuoco tornò ad avvampare nella sua voce rauca, «… che quando verrà il giorno, quando sorgerà il problema delle relazioni interplanetarie, io sarò all’avanguardia per ciò che riguarderà le relazioni interspecie ed esigerò la completa uguaglianza tra i coleotteroidi e gli uomini. Ma…» i suoi occhi febbrili nuovamente si trovarono a scrutare da sotto la ciocca di capelli che una volta ancora gli era ricaduta sulla fronte, «… questa è una faccenda che riguarda il futuro. La domanda immediata è: come fermare la guerra sulla Terra? Come ho già detto prima, la vostra invasione della Terra dovrà essere soltanto simbolica, e naturalmente meno sangue verrà sparso, meglio sarà. Basterà soltanto un assaggio di minaccia esterna, una prova convincente che nel cosmo esistono esseri alla pari, e perfino superiori, per riportare alla normalità la prospettiva dell’uomo, per fonderlo in una grande fratellanza per la reciproca protezione, consolidando per sempre la pace!»

Allargò le braccia e gettò indietro la testa. I capelli gli ricaddero al posto giusto, ma la cravatta gli saltò fuori un’altra volta.

«Signor Whitlow», pensò il capo, con gelida e sardonica allegria, «se davvero si è messo in testa l’idea che noi si sia disposti a invadere un altro pianeta per migliorare la psicologia dei suoi abitanti, se la scordi subito. I terrestri non significano niente per noi. La loro maturazione è una faccenda tanto recente che non ce ne saremmo neppure accorti senza che lei fosse qui a farcela notare. Che continuino pure a far la guerra, se vogliono. Che si sterminino pure fra loro. Non sono fatti nostri».

Whitlow ammiccò più volte. «Ma…» cominciò a dire con rabbia. Poi si riprese. «Ma non vi stavo chiedendo di farlo per ragioni umanitarie. Vi ho fatto notare, no?, che ci sarà un bottino…»

«Dubito molto che i suoi terrestri abbiano qualcosa in grado di tentarci».

Whitlow quasi cadde giù dal macigno. Fece per farfugliare qualcosa, poi cambiò un’altra volta, radicalmente, il suo approccio. Nella sua espressione era balenato un guizzo astuto. «È possibile che voi stiate tentennando perché avete paura che i molluscoidi venusiani vi attacchino, se violerete la tregua perpetua attuando un’incursione armata contro un altro pianeta?»

«Niente affatto», pensò il capo con asprezza, rivelando per la prima volta una certa alterigia e un orgoglio razziale frutto di tanti aridi eoni di tradizione. «Come le ho già detto prima, i molluscoidi sono una razza chiaramente inferiore. Niente più che esseri acquatici. Non li abbiamo più visti da molte epoche. Per quanto ne sappiamo, potrebbero essersi estinti. Certo non siamo legati a loro da accordi ormai logori, se dovesse presentarsi un motivo valido e vantaggioso per infrangerli. E noi non abbiamo nessuna, ripeto: nessuna, paura di loro!»

Whitlow annaspò convulso tra i propri pensieri. Le sue mani dalle dita a spatola tracciavano gesti altrettanto confusi. Risospinto verso i suoi argomenti originari, balbettò in modo assai poco convincente: «Ma deve esserci senz’altro qualche tipo di bottino che renda per voi conveniente invadere la Terra. Dopotutto la Terra è un pianeta ricco di ossigeno, di acqua e di minerali e forme di vita organica, mentre Marte deve lottare contro la scarsità di tutte queste cose».

«Proprio così», pensò il capo. «E noi abbiamo sviluppato uno stile di vita che si adegua perfettamente a questa penuria. Raccogliendo la polvere interplanetaria che fluttua nelle vicinanze di Marte, e con l’uso giudizioso della trasmutazione e di altre tecniche, ci siamo assicurati una scorta sufficiente di tutti i materiali grezzi indispensabili. La spropositata abbondanza della Terra sarebbe un imbarazzo per noi e finirebbe per sconvolgere il nostro sistema. Un’accresciuta disponibilità di ossigeno ci costringerebbe ad imparare un nuovo ritmo respiratorio per evitare di morirvi annegati dentro… oltre a rendere disagevole e pericolosa per noi una qualunque invasione della Terra. Rischi analoghi potrebbero derivarci dall’abbondanza di altri elementi chimici e composti. E in quanto alle forme di vita che pullulano dovunque sulla Terra, in modo così nocivo, nessuna di esse sarebbe di qualche importanza su Marte… salvo la sfortunata circostanza in cui una di esse trovi rifugio nei nostri corpi e dia inizio a un’epidemia».

Whitlow trasalì. Che se ne rendesse conto oppure no, la sua vanità planetaria era rimasta ferita. «Ma lei si sta scordando della cosa più importante», protestò. «I prodotti dell’industria e dell’ingegnosità dell’uomo. Perché l’uomo ha cambiato la faccia del suo pianeta più di quanto voi abbiate mai fatto col vostro. L’ha coperto di strade. Non si raduna all’aperto nel modo selvatico che fate voi. Ha edificato grandi città. Ha ideato ogni sorta di veicoli. In una simile abbondanza certamente troverete molte cose per voi desiderabilissime».

«Del tutto improbabile», fu la risposta del capo. «Non riesco a veder raffigurata nella sua mente una sola cosa che possa destare, in noi, anche un semplice, passeggero interesse. Noi ci siamo adattati al nostro ambiente. Non abbiamo bisogno d’indumenti o di case o di tutte le altre cose artificiali che i suoi maladattati terrestri richiedono. Il dominio che noi abbiamo del nostro pianeta è assai più grande di quello che voi avete del vostro, ma non ci mettiamo certo a farne la propaganda in maniera tanto pacchiana. Dall’immagine che lei ne fa, posso vedere che i terrestri sono dediti all’adorazione di tutto ciò che è grosso ed eccessivo, e sono altresì vittime della più grossolana forma di esibizionismo».

«Ma poi ci sono le nostre macchine», insisté Whitlow, ribollendo dentro di sé e tirandosi il colletto. «Macchine d’incredibile complessità, adatte a ogni scopo. Macchine senz’altro utili a un’altra specie oltre che a noi».

«Sì, posso immaginarmele», commentò il capo, sarcastico. «Giganteschi e goffi grovigli di ruote e leve, fili e griglie. In ogni caso, le nostre sono migliori».

Rivolse una rapida domanda all’anziano: «La sua rabbia rende la sua mente un po’ più vulnerabile?»

«Non ancora».

Whitlow fece un ultimo sforzo, controllando con grande difficoltà la sua indignazione: «Oltre a tutto questo, c’è la nostra arte. Tesori culturali d’incalcolabile valore. Opere d’una specie dalla creatività assai più ricca della vostra. Libri, musica, dipinti, sculture. Certamente…»

«Signor Whitlow, lei sta diventando ridicolo», l’interruppe il capo. «L’arte non ha nessun significato al difuori del suo ambiente culturale. Quale interesse si aspetta che noi dimostriamo nei confronti dell’impacciata autoespressione d’una specie immatura? Inoltre nessuna delle forme d’arte da lei citate potrebbe venire adattata al nostro modo di percepire, salvo la scultura… e in questo campo i nostri conseguimenti sono incomparabilmente superiori, poiché noi abbiamo una consapevolezza diretta della solidità. La sua mente è soltanto una mente-ombra, limitata agli esili modelli bidimensionali».

Whitlow si erse in tutta la sua altezza e incrociò le braccia sul petto. «Molto bene!» esclamò con voce raschiante. «Vedo che non posso convincervi. Ma…» puntò l’indice della mano destra verso il capo, «… lasci che le dica qualcosa! Lei disprezza gli umani, pensa di poter fare a meno di loro. Li ha definiti grossolani e infantili. Lei disdegna le industrie della Terra, la sua scienza, la sua arte. Rifiuta di aiutare l’umanità nel bisogno. Crede di potersi permettere di fare a meno degli umani. Va bene. Faccia pure. Questo è il mio consiglio. Fate pure… e vedrete quello che succederà!» Una luce vendicativa cominciò ad ardere nei suoi occhi. «Conosco i miei simili. Li conosco perché li ho studiati per molti anni. La guerra ha fatto dell’uomo un tiranno e uno sfruttatore. Ha fatto schiave le bestie dei campi e delle foreste. Ha fatto schiava la sua stessa specie, quando ha potuto, e quando non ha potuto ha imprigionato i suoi simili con le subdole catene delle necessità economiche e la soggezione dettata dal prestigio. È perverso, ostinato, brutale, uno strumento dei suoi impulsi più abbietti, e inoltre è abile, cocciuto, insistente, spinto da un’ambizione sconfinata! Possiede già l’energia atomica e i razzi come mezzi di trasporto. Nel giro di pochi decenni disporrà di navi spaziali e armi subatomiche. Fate pure, e aspettate! La predisposizione per far sempre la guerra lo porterà a sviluppare queste armi fino a livelli a tutt’oggi mai sognati di efficienza distruttiva. Aspettate anche questo! Aspettate che gli uomini arrivino su Marte in forze. Aspettate che abbiano fatto la vostra conoscenza e si siano resi conto di quali meravigliosi lavoratori sareste con la vostra corazza che vi rende adatti a qualunque tipo di ambiente. Aspettate che trovi una scusa per litigare con voi, che vi sconfigga e vi renda tutti schiavi e vi spedisca lontani dal pianeta, schiacciati dentro fetidi scafi, per obbligarvi a lavorare nelle miniere della Terra e sul fondo degli oceani, nella stratosfera e sugli asteroidi che l’uomo già adesso è bramoso di sfruttare. Sì, fate pure, aspettate!»

Whitlow s’interruppe, il petto che gli pulsava affannoso. Per un attimo fu conscio soltanto della sua sadica soddisfazione per aver sgridato quelle esasperanti creature simili a scarafaggi. Poi si guardò attorno.

I coleotteroidi si erano fatti più vicini. Le forme di quelli più prossimi si erano fatte più distinte e definite, somigliando repulsivamente a dei ragni che quasi invadevano la sua sfera di luce. In ugual modo anche i loro pensieri si erano fatti sempre più vicini, fino a formare un muro minaccioso, più nero di quello che incombeva sulla notte marziana. Era scomparsa quella riservatezza arrogante e spassionata che tanto l’aveva irritato. Incredulo, si rese conto di essere riuscito a penetrare la loro corazza e a toccarli in un punto vulnerabile.

Colse un rapido pensiero dal capo all’anziano: «E se il resto di loro assomiglia a questo anche soltanto un poco, allora si comporteranno proprio come ha detto lui. È un’informazione in più».

Whitlow tornò a guardarsi lentamente intorno, la fronte una volta ancora coperta dalle ciocche di capelli che gli erano ricadute in avanti, cercando un indizio che gli spiegasse l’improvviso mutamento nell’atteggiamento dei coleotteroidi. Il suo sguardo perplesso finì per appuntarsi sul capo.

«Abbiamo cambiato idea, signor Whitlow», gli disse spontaneamente il capo, in tono truce. «All’inizio le avevo detto che noi non esitiamo mai a intraprendere delle iniziative quando ci viene fornita una ragione valida e sufficiente. Ciò che i suoi sciocchi argomenti sull’umanitarismo e sul bottino non sono riusciti a ottenere, ce l’ha dato il suo ultimo sfogo. Le cose sono proprio come dice lei. I terrestri finiranno per attaccarci, e anche con qualche speranza di successo, se noi aspetteremo inerti. Perciò, a ragion di logica, dobbiamo agire in modo preventivo, e prima lo faremo meglio sarà. Faremo una ricognizione sulla Terra, e se le condizioni laggiù saranno quello che lei ha descritto, l’invaderemo».

Dalle profondità del suo sconforto Whitlow in un istante si trovò catapultato all’acme di una gioia febbrile. Il suo volto fanatico divenne radioso. Il suo corpo allampanato parve espandersi. I capelli gli schizzarono all’indietro.

«Meraviglioso!» ridacchiò, e proseguì eccitato: «Naturalmente, farò tutto ciò che posso per aiutarvi. Vi fornirò dei mezzi di trasporto…»

«Questo non sarà necessario», lo interruppe bruscamente il capo. «Non ci fidiamo dei suoi grandi poteri più di quanto se ne fidi iei. Abbiamo le nostre navi spaziali, più che adeguate a qualunque impresa. Non è nostra abitudine ostentarle più di quanto ostentiamo gli aspetti meccanici della nostra cultura. Non le usiamo, come farebbero i suoi terrestri, per farne volutamente bella mostra in giro. Nondimeno le abbiamo, pronte nei nostri magazzini, in caso di bisogno».

Ma neppure quello sprezzante rimprovero poté offuscare l’esultanza di Whitlow. Il suo volto era radioso, gli occhi gii sbattevano frenetici sotto la spinta delle lagrime che urgevano per uscire. Il pomo d’Adamo gli andava su e giù quasi a soffocarlo.

«Ah, amici miei… miei buoni amici! Se soltanto riuscissi a farvi capire cosa significa per me questo momento! Se soltanto potessi dirvi quanto sono felice, poiché penso che il grande momento sta per arrivare! Quando gli uomini alzeranno gli occhi dalle loro buche e dalle loro trincee, dai loro caccia e dai bombardieri, dai loro posti d’osservazione e dai quartier generali, dalle loro fabbriche e dalle case, per vedere, tutti, questa nuova minaccia dai cieli… Quando tutte le loro meschine divergenze d’opinione verranno a cadere come un indumento sporco e a brandelli. Quando taglieranno il filo spinato di quest’odio illusorio e si uniranno insieme, mano nella mano, finalmente veri fratelli, per affrontare il comune nemico. Quando, nel compimento dell’impresa comune, essi raggiungeranno infine una pace perfetta e durevole!»

Fece una pausa per respirare. I suoi occhi vitrei fissavano con amore la stella azzurra della Terra, che adesso stava ormai sfiorando l’orizzonte.

«Sì», gli giunse debole e asciutto il pensiero del capo. «Per uno con un temperamento emotivo come il suo si tratterà indubbiamente di una scena molto toccante… appagante. Per un po’».

Whitlow abbassò lo sguardo senza capire. L’ultimo pensiero del capo era stato come una graffiata di striscio: il tocco, lieve come una piuma, d’un artiglio avvelenato. Non capiva il perché, ma fu conscio d’un crescente timore.

«Cosa…» s’impaperò. «Cosa… vuol dire?»

«Voglio dire», fu il pensiero del capo, «che durante la nostra invasione della Terra non avremo neppure bisogno di usare la tattica del divide et impera, che sarebbe di norma indicata in un caso del genere… lei sa, unirsi a una fazione della Terra per aiutarla a sconfiggere l’altra, gli esseri che combattono non badano mai molto alla natura dei loro alleati — per poi fomentare ulteriori disunioni, e così via. No, con la nostra superiorità negli armamenti potremo con tutta probabilità dedicarci a un diretto lavoro di pulizia, evitando lunghe e fastidiose macchinazioni. Perciò è probabile che lei riesca ad avere quella sua fugace visione dei terrestri uniti, per la quale si è tanto affannato».

Whitlow lo fissò bianco in volto per l’orrore che si stava chiarendo in lui. «Cosa intende dire con “per un po’ ”?» bisbigliò con voce rauca. «E cosa intende con “fugace visione”?»

«Ma certo tutto ciò dovrebbe esserle ovvio, signor Whitlow», rispose il capo, irradiando un buonumore quasi offensivo. «Non supporrà, anche soltanto per un attimo, che siamo disposti ad attuare una piccola, sciocca invasione e che, dopo aver sgomentato i terrestri, siamo disposti a ritirarci? Sarebbe il sistema giusto per garantirci, in modo assoluto, una loro controinvasione su Marte in un prossimo futuro. In effetti, la nostra invasione servirebbe soltanto ad accelerare la loro… e arriverebbero con intenzioni ferocemente ostili, con l’intento di spazzar via completamente una minaccia. No, signor Whitlow, quando noi invaderemo la Terra, sarà per proteggere noi stessi da qualsivoglia minaccia futura. Il nostro scopo sarà lo sterminio più completo e totale, compiuto con la maggior efficienza e rapidità possibili. La nostra attuale superiorità militare ci consente di esser certi del successo».

Whitlow fissò il capo con gli occhi fuori dalle orbite, come una statua di se stesso, macchiata di giallo e screpolata qua e là. Aprì la bocca… ma tornò a chiuderla senza dir nulla.

«Non avrà mica creduto, signor Whitlow», continuò il capo con estrema gentilezza, «che avremmo fatto qualcosa soltanto per far piacere a lei? O a qualcun altro… salvo che a noi stessi coleotteroidi?»

Whitlow fissò quelle orribili uova nere a otto zampe che si accalcavano sempre più dappresso intorno a lui: l’incarnazione vivente dell’oscurità velenosa del loro pianeta.

Tutto ciò che riuscì in qualche modo a biascicare, fu: «Ma… pensavo che lei avesse detto… che era un grosso malinteso pensare a degli esseri alieni come a mostri diabolici, intenzionati soltanto a saccheggiare… a distruggere…»

«Forse l’ho detto, signor Whitlow. Forse l’ho detto… forse», fu l’unica risposta del capo.

In quell’istante il signor Whitlow si rese conto di cosa fosse veramente un alieno.

Come in preda a un incubo soffocante, osservò i coleotteroidi che si facevano sempre più vicini. Udì il pensiero carico di disprezzo che il capo rivolgeva all’anziano, senza neppure preoccuparsi di schermarlo: «Non ti sei ancora impadronito della sua mente?» e il «no» dell’anziano e il rapido ordine impartito dal capo agli altri.

Le uova nere invasero la sua sfera di luce, crudeli artigli corazzati si aprirono per ghermirlo… quelle furono le ultime impressioni che Whitlow ebbe di Marte.


Un paio d’istanti più tardi — poiché il congegno gli garantiva un trasporto istantaneo attraverso qualunque distanza spaziale — il signor Whitlow si trovò all’interno di una bolla che conservava per qualche miracolosa proprietà la normale pressione atmosferica terrestre anche negli abissi privi di maree dei mari venusiani. In posizione invertita rispetto a quella d’un pesce in un vaso, scrutò l’ondeggiante vegetazione fosforescente e i giganteschi edifici rivestiti di fango che in parte essa mascherava. Navi luccicanti e creature tentacolate gli sfrecciavano tutt’intorno.

Il capo dei molluscoidi rimirò l’intruso che era penetrato nei suoi giardini privati, con un’altera disapprovazione che neppure la sorpresa riuscì a scuotere.

«E lei cos’è?» pensò, gelido.

«Sono… sono venuto qui per informarla della minacciata violazione d’una tregua durata millenni».

Cinque occhi in cima a lunghi peduncoli lo fissarono con una freddezza uguale al pensiero che continuava a bussargli nel cranio: «Ma cos’è lei?»

Un improvviso impulso di dolente onestà costrinse il signor Whitlow a rispondere: «Suppongo… suppongo che lei mi chiamerebbe un guerrafondaio».

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