Marcus Apollo fu certo dell'imminenza della guerra nel momento in cui udì la terza moglie di Hannegan dire a una fantesca che il suo cortigiano favorito era ritornato con la pelle intatta da una missione all'accampamento del clan di Orso Pazzo. Il fatto che fosse tornato vivo dall'accampamento dei nomadi indicava che si stava preparando una guerra. Infatti, la missione dell'inviato era stata di dire alle tribù della Pianura che gli stati civili avevano aderito al Patto della Sacra Sferza riguardante le terre disputate, e di conseguenza avrebbero compiuto dure rappresaglie sulle popolazioni nomadi e sulle bande di predoni per ogni futura incursione. Ma nessun uomo aveva mai portato notizie del genere a Orso Pazzo per ritornarne vivo. Di conseguenza, concluse Apollo, l'ultimatum non era stato consegnato, e l'emissario di Hannegan si era addentrato nelle Pianure con un altro scopo. E quello scopo era anche troppo chiaro.
Apollo si fece largo educatamente fra la piccola folla degli ospiti, cercando con gli occhi attenti frate Claret, e tentando di attirarne lo sguardo.
L'alta figura di Apollo, nella severa tunica nera, con un piccolo lampo di colore alla cintura per denotare il suo rango, spiccava nettamente, in contrasto con il vortice caleidoscopico di colori nella sala del banchetto; non impiegò molto tempo ad attirare lo sguardo dell'ecclesiastico e ad accennargli di dirigersi verso la tavola dei rinfreschi, che ormai era ridotta a una distesa di briciole, di tazze unte e di pochi pezzi d'arrosto troppo cotto.
Apollo pescò nella grande coppa del punch con il mestolo, osservò uno scarafaggio morto che galleggiava fra le spezie, e offrì pensieroso la prima tazza a frate Claret, quando l'ecclesiastico si avvicinò.
— Grazie, Monsignore — disse Claret, senza notare lo scarafaggio. — Volevate parlarmi?
— Non appena sarà finito il ricevimento. Nel mio alloggio. Sarkal è ritornato vivo.
— Oh!
— Non ho mai sentito un "oh" più malaugurante. Ne deduco che avete compreso le gravi implicazioni di questo fatto.
— Certamente, Monsignore. Significa che il Patto è stato una frode, da parte di Hannegan, e che lui intende usarlo contro…
— Shh! Più tardi. — Gli occhi di Apollo segnalarono l'avvicinarsi di estranei, e il frate si voltò per riempire di nuovo la tazza. Il suo interesse si appuntò improvvisamente sulla grande tazza piena di rum; così, non guardò la snella figura vestita di seta marezzata che, dall'ingresso, si dirigeva verso di loro a grandi passi. Apollo sorrise in modo formale e si inchinò all'uomo. La loro stretta di mano fu breve e notevolmente fredda.
— Bene, Thon Taddeo — disse il prete — la vostra presenza mi sorprende. Credevo che rifuggiste questi convegni festaioli. Che cosa può esservi di speciale in questo, per attrarre un celebre studioso come voi? — E sollevò le sopracciglia, in atto di ironica perplessità.
— Naturalmente, l'attrazione siete voi — disse il nuovo venuto, rispondendo con il sarcasmo al sarcasmo di Apollo. — E siete anche l'unica ragione della mia presenza.
— Io? — Apollo finse di essere sorpreso: ma l'affermazione era probabilmente vera. Il ricevimento nuziale di una sorella consanguinea non era una ragione sufficiente per costringere il Thon Taddeo a perdersi in raffinatezze formali e ad abbandonare le sale claustrali del collegio.
— Per la verità, vi ho cercato tutto il giorno. Mi hanno detto che sareste stato qui. Altrimenti… — Guardò la sala del banchetto e sbuffò, irritato.
Quello sbuffo irritato spezzò il legame di fascino che univa lo sguardo di frate Claret alla tazza del punch; il religioso si voltò per inchinarsi al Thon.
— Volete un po' di punch, Thon Taddeo? — chiese, offrendogliene una tazza colma.
Lo studioso l'accettò con un cenno e la vuotò. — Volevo farvi altre domande sui documenti leibowitziani di cui abbiamo discusso — disse a Marcus Apollo. — Ho ricevuto una lettera di un certo Kornhoer, dell'abbazia. Mi assicura che là conservano scritti che risalgono agli ultimi anni della civiltà europea-americana.
Anche se il fatto di essere stato lui stesso a fornire allo studioso quelle assicurazioni parecchi mesi prima irritò Apollo, la sua espressione non lo mostrò. — Sì — disse. — Sono assolutamente autentici, mi hanno detto.
— Se è così, mi sembra molto misterioso che nessuno abbia sentito… ma lasciamo perdere. Kornhoer ha elencato alcuni documenti e testi che sarebbero conservati nell'abbazia, e li ha descritti. Se esistono, io devo andare a vederli.
— Oh?
— Sì. Se è un'impostura, sarebbe bene scoprirlo, e se non lo è, i dati potrebbero avere un valore inestimabile.
Il monsignore corrugò la fronte. — Vi assicuro che non è un'impostura — disse, impettito.
— La lettera contiene un invito a visitare l'abbazia e a studiare i documenti. È evidente che hanno sentito parlare di me.
— Non necessariamente — disse Apollo, incapace di resistere a quell'occasione. — Non badano molto a chi legge i loro libri, purché l'individuo in questione si lavi le mani e non sfiguri le loro proprietà.
Lo studioso si accigliò. L'allusione alla possibile esistenza di persone letterate che non avevano mai udito il suo nome non gli faceva piacere.
— Benissimo, in ogni caso! — continuò affabilmente Apollo. — Non avete alcun problema. Accettate l'invito, andate all'abbazia, studiate le loro reliquie. Sarete indubbiamente il benvenuto.
Lo studioso sembrò irritato di quel suggerimento. — E dovrei viaggiare attraverso le Pianure, proprio quando il clan di Orso Pazzo sta… — Il Thon Taddeo si interruppe bruscamente.
— Stavate dicendo? — fece Apollo; il suo viso non dimostrava alcuna speciale attenzione, anche se sulla tempia una vena cominciava a pulsare, mentre il suo sguardo si fissava, in attesa, sul Thon Taddeo.
— Soltanto, è un viaggio lungo e pericoloso, e io non posso concedermi sei mesi di assenza dal collegio. Volevo discutere la possibilità di mandare un drappello di guardie del Podestà, bene armate, per portare qui i documenti da studiare.
Apollo si sentì soffocare. Provò l'impulso puerile di prendere lo studioso a calci negli stinchi. — Ho paura — disse, educatamente — che sia impossibile. Ma, in ogni caso, la questione esorbita dalla mia competenza, e temo di non potervi essere minimamente di aiuto.
— Perché no? — domandò il Thon Taddeo. — Non siete il Nunzio del Vaticano alla Corte di Hannegan?
— Precisamente. Io rappresento Nuova Roma, non gli ordini monastici. Il governo di una abbazia è completamente nelle mani del suo abate…
— Ma, con qualche lieve pressione da parte di Nuova Roma…
L'impulso di prenderlo a calci negli stinchi si fece sentire di nuovo. — Faremo meglio a discuterne più tardi — disse seccamente Monsignor Apollo. — Questa sera nel mio studio, se vi piace… — Si girò a mezzo, e guardò dietro di sé, con aria interrogativa, come per chiedere "Ebbene?".
— Ci sarò — disse con voce tagliente lo studioso, e si allontanò.
— Perché non gli avete detto un no chiaro e tondo? — sbuffò Claret quando furono soli, nell'appartamento riservato all'ambasciata, un'ora più tardi. — Trasportare reliquie inestimabili attraverso un paese di banditi, in questi tempi? È inimmaginabile, Monsignore.
— Certamente.
— E allora perché…
— Per due ragioni. Prima, il Thon Taddeo è parente di Hannegan, e ha molta influenza. Dobbiamo essere cortesi con Cesare e con la sua schiatta, anche se non ci va a genio. Seconda, aveva cominciato a dire qualcosa sul clan di Orso Pazzo, e poi si è interrotto. Credo che sappia ciò che sta per accadere. Non ho intenzione di dedicarmi allo spionaggio, ma se lui ci offre spontaneamente qualche informazione, nulla ci impedisce di includerla nel rapporto che voi consegnerete personalmente a Nuova Roma.
— Io! — Il religioso si mostrò sconvolto. — A Nuova Roma…? Ma che cosa…
— Abbassate la voce — disse il Nunzio, guardando la porta. — Dovrò mandare la mia analisi della situazione a Sua Santità, e presto. Ma si tratta di quel genere di cose che non si osa affidare alla carta. Se la gente di Hannegan intercettasse un simile dispaccio, voi e io finiremmo probabilmente annegati nel Fiume Rosso. Se invece se ne impadroniscono i nemici di Hannegan, Hannegan si sentirebbe probabilmente in diritto di impiccarci in pubblico come spie. Il martirio è una cosa bellissima, ma prima abbiamo un compito da svolgere.
— E io dovrò riferire oralmente il rapporto al Vaticano? — mormorò frate Claret, che evidentemente non si rallegrava alla prospettiva di attraversare un territorio ostile.
— È necessario. Può darsi, dico può darsi, che il Thon Taddeo ci offra un pretesto per il vostro viaggio improvviso all'abbazia di San Leibowitz o a Nuova Roma. Nel caso che qui, a Corte, qualcuno abbia sospetti, io cercherò di stornarli.
— E quale sarà la sostanza del rapporto, Monsignore?
— Che l'ambizione di Hannegan, unire il continente sotto un'unica dinastia, non è un sogno pazzesco come noi credevamo. Che il Patto della Sacra Sferza è stato probabilmente un inganno, da parte di Hannegan, e che lui intende servirsene per spingere tanto l'impero di Denver quanto la nazione Laredana in conflitto con i nomadi delle Pianure. Se le forze laredane fossero impegnate in combattimento con Orso Pazzo non occorrerebbero molti incoraggiamenti allo Stato di Chihuahua per attaccare Laredo dal sud. Dopotutto, c'è una vecchia inimicizia, tra loro. Hannegan, naturalmente, potrebbe poi marciare vittorioso a Rio Laredo. Una volta padrone di Laredo, può pensare a impadronirsi tanto di Denver quanto della Repubblica del Mississippi senza doversi preoccupare di una eventuale pugnalata alle spalle, da sud.
— Credete che Hannegan possa riuscirci, Monsignore?
Marcus Apollo fece per rispondere, poi richiuse lentamente la bocca. Si avvicinò alla finestra e guardò la città illuminata dal sole, una città disordinata e ampia, costruita principalmente con le macerie di un'altra epoca. Una città senza un piano regolatore ordinato. Era cresciuta lentamente su antiche rovine, così come un giorno, forse, un'altra città sarebbe cresciuta sulle rovine della città attuale.
— Non so — rispose, sommessamente. — In questi tempi, è difficile condannare un uomo se desidera unificare questo continente macellato. Anche se si serve di mezzi… ma no, non è questo che intendevo. — Sospirò, pesantemente. — In ogni caso, i nostri interessi non sono gli interessi della politica. Dobbiamo avvertire Nuova Roma di ciò che sta per accadere, perché la Chiesa ne sarà colpita, qualunque cosa avvenga. E, una volta avvertiti, forse potremo tenerci fuori dal caos.
— Lo credete davvero?
— Naturalmente no! — disse gentilmente il prete.
Il Thon Taddeo Pfardentrott arrivò allo studio di Marcus Apollo verso sera, e i suoi modi erano molto cambiati, rispetto al ricevimento. Riusciva a esibire un sorriso cordiale, e il modo in cui parlava tradiva una nervosa impazienza.
Quell'uomo, pensò Marcus, sta cercando di ottenere qualcosa che desidera molto, ed è persino disposto a mostrarsi gentile per ottenerla. Forse l'elenco degli antichi scritti fornito dai monaci dell'abbazia leibowitziana aveva impressionato il Thon più di quanto lui fosse disposto ad ammettere. Il Nunzio si era preparato a una disputa accanita, ma l'evidente eccitazione dello studioso faceva di lui una vittima troppo facile, e Apollo abbassò la guardia del duello verbale.
— Questo pomeriggio c'è stata una riunione della facoltà del collegio — disse il Thon Taddeo, non appena furono seduti. — Abbiamo parlato della lettera di frate Kornhoer, e dell'elenco dei documenti. — Si interruppe, come se fosse incerto sull'approccio da scegliere. La grigia luce del crepuscolo che scendeva dalla grande finestra ad arco alla sua sinistra dava al suo viso un aspetto intenso, e i suoi grandi occhi grigi studiavano il prete come se lo misurassero e lo valutassero.
— Ne deduco che qualcuno si è mostrato scettico?
Gli occhiasi abbassarono per un attimo, poi si risollevarono, prontamente. — È necessario che io sia educato?
— Non disturbatevi — ridacchiò Apollo.
— Si sono mostrati scettici. Forse "increduli" è la parola più adatta. Io stesso ritengo che, se tali documenti esistono, si tratta probabilmente di falsificazioni che risalgono a parecchi secoli addietro. Dubito che i monaci dell'abbazia, oggi, stiano cercando deliberatamente di perpetrare un'impostura. Naturalmente essi credono che i documenti siano validi.
— È molto gentile da parte vostra assolverli così — disse acido Apollo.
— Mi sono offerto di essere educato! È necessario che lo sia?
— No. Continuate.
Il Thon si alzò dalla sedia e andò a sedersi alla finestra. Guardò le strisce di nuvole gialle che sbiadivano a occidente e batté piano una mano sul davanzale, mentre parlava. — I documenti. Non importa che cosa ne pensiamo, la sola idea che tali documenti possano ancora esistere, intatti… l'idea che vi sia anche la minima possibilità che essi esistano… bene, è un pensiero così eccitante che dobbiamo indagare, immediatamente.
— Benissimo — disse Apollo, in po' divertito. — I monaci vi hanno invitato. Ma ditemi: cosa trovate di così eccitante in quei documenti?
Lo studioso gli lanciò una rapida occhiata. — Conoscete il mio lavoro?
Il monsignore esitò. Lo conosceva, ma ammettere questo l'avrebbe costretto ad ammettere anche che il nome del Thon Taddeo veniva pronunciato insieme a quelli dei filosofi naturali morti da mille anni e più, mentre il Thon aveva poco più di trent'anni. Il prete non ci teneva ad ammettere che quel giovane scienziato prometteva di diventare una di quelle rare eccezioni di genio umano che appaiono soltanto una volta ogni uno o due secoli per rivoluzionare un intero campo del pensiero. Tossì, quasi in segno di scusa.
— Devo ammettere che non ho letto molto di…
— Non importa. — Pfardentrott accantonò la scusa con un gesto. — È soprattutto un lavoro astratto e noioso per un profano. Teorie dell'essenza elettrica. Moto planetario. Corpi che si attraggono. Cose del genere. Ora, l'elenco di Kornhoer cita nomi come Laplace, Marxwell ed Einstein… significano qualcosa, per voi?
— Non molto. La storia li menziona come filosofi naturali, non è così? Vissero nel periodo precedente al crollo dell'ultima civiltà. E credo che siano nominati in una delle angiologie pagane, non è vero?
Lo studioso annuì. — E questo è ciò che si sa di loro o delle loro opere. Erano fisici, secondo i nostri storici, non del tutto attendibili. Furono responsabili della rapida ascesa della civiltà europea-americana, dicono. Gli storici riferiscono solo particolari insignificanti. Li avevo quasi dimenticati. Ma le descrizioni fatte da Kornhoer dei documenti antichi che i monaci affermano di custodire sono descrizioni di carte che potrebbero essere state tolte da testi di scienze fisiche. È impossibile!
— Ma voi volete accertarlo!
— Noi dobbiamo accertarlo. Ora che il problema si presenta, vorrei non averne mai sentito parlare.
— Perché?
Il Thon Taddeo stava guardando qualcosa, nella strada sottostante. Fece un cenno di richiamo al prete. — Venite qui un momento. Vi mostrerò perché.
Apollo girò dietro la scrivania e guardò la strada fangosa e sconnessa, al di là del muro che cingeva il palazzo e gli edifici del collegio, isolando il santuario del Podestà dalla città plebea. Lo studioso stava indicando la figura ombrosa di un contadino che guidava verso casa un asinelio, nel crepuscolo. I piedi dell'uomo erano avvolti in tela da sacco, e il fango li aveva impiastricciati al punto che l'uomo sembrava quasi incapace di sollevarli. Ma avanzava, faticosamente, un passo dopo l'altro, riposando per mezzo secondo prima di sollevare un piede. Sembrava troppo debole per grattare via il fango.
— Vedete, non cavalca l'asino — osservò il Thon Taddeo — perché questa mattina l'asino era carico di grano, il contadino non pensa che adesso i sacchi sono vuoti. Ciò che va bene al mattino va bene anche il pomeriggio.
— Lo conoscete?
— Passa anche sotto la mia finestra. Tutte le mattine e tutte le sere. Non lo avete mai notato?
— Ne ho notati migliaia come lui.
— Guardate. Riuscite a credere che quel bruto sia il discendente diretto di uomini che avrebbero raggiunto la Luna, imbrigliato le forze della Natura, costruito meccanismi capaci di parlare e forse anche di pensare? Potete credere che uomini simili siano esistiti?
Apollo taceva.
— Guardatelo! — insistette lo studioso. — No, adesso è troppo buio. Non potete vedere le piaghe della sifilide sul suo collo, né il modo in cui la radice del suo naso è corrosa. È affetto da paresi. Ma indubbiamente, fin dall'inizio, era un idiota. Analfabeta, superstizioso, pieno di istinti malvagi. Ha contagiato i suoi figli. Li ucciderebbe per poche monete. Li venderà, in ogni caso, non appena saranno abbastanza cresciuti per rendersi utili. Guardatelo, e ditemi se state guardando la progenie di una civiltà un tempo potentissima. Che cosa vedete?
— L'immagine di Cristo — scattò il monsignore, sorpreso della propria ira improvvisa. — Cosa pensate che io veda?
Lo studioso sbuffò, irato e impaziente. — L'incongruenza. Uomini come voi possono osservare quella gente da ogni finestra, e uomini come gli storici vorrebbero farci credere che un tempo esistessero veri uomini. Non posso accettarlo. Come può una grande e saggia civiltà essersi distrutta così completamente?
— Forse — disse Apollo — si è distrutta perché era grande e saggia materialmente, e null'altro. — Andò ad accendere una lampada a sego, perché il crepuscolo svaniva rapidamente nella notte. Colpì esca e acciarino fino a che la scintilla non si comunicò all'esca, poi vi soffiò sopra dolcemente.
— Forse — disse il Thon Taddeo. — Ma io ne dubito.
— Voi rifiutate tutta la storia, dunque, come mito? — Dalla scintilla spuntò una fiamma.
— Non la rifiuto. Ma deve essere controllata. Chi ha scritto la vostra storia?
— Gli ordini monastici, naturalmente. Durante i secoli dell'oscurantismo, non v'era nessun altro per scriverla. — Apollo trasferì la fiamma allo stoppino.
— Ecco! Ci siamo! E durante il tempo degli antipapi, quanti Ordini scismatici fabbricarono versioni proprie degli eventi, e gabellarono quelle versioni come opera di autori precedenti? Non potete sapere, non potete sapere veramente. Non si può negare che su questo continente vi sia stata una civiltà molto più progredita della nostra attuale. Basta guardare alle macerie, ai metalli arrugginiti, per saperlo. Basta scavare sotto una striscia di sabbia e si trovano le loro strade dissestate. Ma dov'è la prova dell'esistenza delle macchine che secondo i vostri storici possedevano gli antichi? Dove sono i resti dei carri che si muovevano da soli, delle macchine volanti?
— Ora sono fusi nei vomeri e nelle zappe.
— Se sono esistiti.
— Se ne dubitate, perché disturbarvi a studiare i documenti leibowitziani?
— Perché un dubbio non è una negazione. Il dubbio è uno strumento potente, e dovrebbe essere applicato alla storia.
Il Nunzio sorrise, a labbra strette. — E cosa volete che faccia a questo proposito, dotto Thon?
Lo studioso si tese in avanti, impaziente. — Scrivete all'abate di quel luogo. Assicuratelo che i documenti saranno trattati con estrema cura, e gli saranno resi non appena li avremo completamente esaminati per accertarne l'autenticità e ne avremo studiato il contenuto.
— E in nome di chi dovrò fornirgli questa assicurazione… vostro o mio?
— In nome di Hannegan, in nome vostro e in nome mio.
— Potrò dargli solo la vostra parola e quella di Hannegan. Io non ho truppe al mio comando.
Lo studioso arrossì.
— Ditemi — aggiunse in fretta il Nunzio — perché, a parte la minaccia dei banditi, insistete per esaminarli qui, invece di recarvi nell'abbazia?
— La migliore ragione che potrete dare all'abate è che se dobbiamo esaminare e provare l'autenticità dei documenti all'abbazia, una conferma non significherebbe molto per gli altri studiosi secolari.
— Volete dire che i vostri colleghi potrebbero pensare che i monaci vi abbiano raggirato?
— Uhm… è possibile. Ma è importante anche questo: se i documenti verranno portati qui, potranno essere esaminati da chiunque, nel collegio. E ogni thon che venisse qui in visita potrebbe osservarli. Ma non possiamo trasferire l'intero collegio nel deserto di sud-ovest per sei mesi.
— Capisco.
— Manderete la richiesta all'abbazia?
— Sì.
Il Thon Taddeo si mostrò sorpreso.
— Ma sarà la vostra richiesta, non la mia. Ed è giusto che vi dica che non credo che Don Paulo, l'abate, accetterà.
Il Tohn, tuttavia, sembrò soddisfatto. Quando se ne fu andato, il Nunzio chiamò il suo assistente. — Partirete per Nuova Roma domani — gli disse.
— Passando dall'Abbazia di Leibowitz?
— No, passate dall'abbazia al ritorno. Il rapporto per Nuova Roma è urgente.
— Sì, Monsignore.
— All'abbazia, dite a Don Paulo che la regina di Saba aspetta che Salomone venga a lei. Portando doni. Poi farete bene a coprirvi le orecchie. E quando Don Paulo avrà finito di esplodere, affrettatevi a ritornare, in modo che possa dire di no al Thon Taddeo.
Il tempo scorre lentamente sul deserto, e vi sono ben pochi cambiamenti che segnino il suo passaggio.
Erano trascorse due stagioni da quando Don Paulo aveva respinto la richiesta venutagli da oltre le Pianure, ma la questione era stata regolata soltanto poche settimane prima. Ma era stata veramente regolata? Texarkana era evidentemente scontenta del risultato.
L'abate camminava lungo le mura dell'abbazia, al tramonto, con la mascella spinta in avanti, come un vecchio scoglio baffuto contro i possibili frangenti usciti dal mare degli eventi. I capelli ormai radi svolazzavano come gagliardetti bianchi nel vento del deserto, che avvolgeva strettamente l'abito attorno al corpo e lo rendeva simile a un Ezechiele emaciato con una pancia stranamente arrotondata.
Infilò le mani nodose nelle maniche e guardò, accigliato, oltre il deserto, verso il villaggio di Sanly Bowitts che appariva in lontananza. La rossa luce del sole lanciava la sua ombra in movimento attraverso il cortile, e i monaci che la incontravano, attraversando quello spiazzo, alzavano lo sguardo, stupiti, verso il vecchio. In quegli ultimi tempi il loro superiore era sembrato di cattivo umore, dedito a bizzarri presentimenti. Si sussurrava che presto sarebbe venuto il momento in cui un altro abate sarebbe stato nominato superiore dei fratelli di San Leibowitz. Si sussurrava che il vecchio non stesse tanto bene, anzi che non stesse bene affatto. Si sussurrava che, se l'abate avesse udito tutti quei mormorii, i mormoratori avrebbero dovuto scavalcare il muro in gran fretta.
L'abate aveva udito quei mormorii, in realtà, ma per una volta tanto preferiva non badarvi affatto. Sapeva bene che quelle voci erano vere.
— Rileggetemelo ancora — disse bruscamente al monaco che gli stava immobile al fianco.
Il cappuccio del monaco sussultò lievemente in direzione dell'abate. — Quale, Domne? — chiese.
— Sapete benissimo quale.
— Sì, Monsignore. — Il monaco si frugò in una manica, appesantita da un mezzo staio di documenti e di corrispondenza: ma dopo un attimo trovò il documento che cercava. Affissa al rotolo c'era l'etichetta:
SUB IMMUNITATE APOSTOLICA HOC SUPPOSITUM EST
QUISQUIS NUNTIUM MOLESTARE AUDEAT
IPSO FACTO EXCOMMUNICETUR.
R'dissimo Domno Paulo de Pecos, 43, Abbati
(Monastero dei frati Leibowitziani,
nei dintorni del villaggio di Sanly Bowitts
Deserto di Sudovest, impero di Denver)
CUI SALUTEM DICIT Marcus Apollo
Papatiae Apocrisarius Texarkanae
— Benissimo, è quello. Leggetelo, dunque — disse impaziente l'abate.
— Accedite ad eum… - Il monaco si fece il segno della Croce e mormorò la tradizionale Benedizione dei Testi, che veniva recitata prima di mettersi a leggere e a scrivere con la stessa puntigliosità con cui veniva recitata la benedizione prima dei pasti. Perché la conservazione del sapere durante il millennio d'oscurantismo era stata la missione dei Frati di Leibowitz, e tutti quei piccoli riti servivano a tenere vivo lo spirito di quella missione.
Finita la benedizione, il monaco levò il rotolo contro il tramonto fino a che divenne trasparente. — Iterum oportet apponere tibi crucem ferendam, amice…
La sua voce era una debole cantilena, mentre il suo sguardo sceglieva le parole in mezzo a una foresta di svolazzi superflui. L'abate si appoggiò al parapetto, in ascolto, mentre osservava le poiane che volavano in cerchio sulla mesa dell'Ultima Speranza.
— Di nuovo è necessario importi una croce da portare, mio vecchio amico e pastore di miopi topi di biblioteca — cantilenò la voce del lettore — ma forse portare questa croce sarà un trionfo. Sembra che la regina di Saba venga a Salomone, dopotutto, anche se probabilmente viene per denunciarlo come ciarlatano.
"La presente è per notificarti che il Thon Taddeo Pfardentrott, Saggio dei Saggi, Studioso degli Studiosi, Biondo Figlio Illegittimo di un certo Principe, e Dono di Dio a una 'Generazione che si ridesta' si è finalmente deciso a farti visita, dopo aver rinunciato alla speranza di trasportare i vostri Memorabilia in questo felice reame. Arriverà verso la Festa dell'Assunzione, se riuscirà a sfuggire ai banditi lungo la strada. Porterà la sua sfiducia e una piccola scorta di cavalieri armati, cortesia personale di Hannegan II, la cui corpulenta persona incombe su di me mentre scrivo, e grugnisce e fa smorfie davanti a queste righe, che Sua Supremazia mi ha ordinato di scrivere, e nelle quali Sua Supremazia si aspetta che io acclami suo cugino il thon, nella speranza che tu lo onorerai convenientemente. Ma poiché il segretario di Sua Supremazia è a letto con la gotta, io sarò assolutamente franco:
"Quindi, in primo luogo, permetti che ti metta in guardia contro questa persona, il Thon Taddeo. Trattalo con la tua abituale carità, ma non fidarti di lui. È uno studioso geniale, ma uno studioso secolare, e un prigioniero politico dello Stato. Qui, lo Stato è Hannegan. Inoltre, il thon è piuttosto anticlericale, mi sembra… o forse è soltanto antimonastico. Dopo la sua nascita imbarazzante, fu mandato in un monastero Benedettino e… ma no, interroga il corriere, a questo proposito…"
Il monaco levò gli occhi dalla lettura. L'abate stava ancora osservando le poiane sull'Ultima Speranza.
— Avete sentito parlare della sua infanzia, fratello? — chiese Don Paulo.
Il monaco annuì.
— Continuate a leggere.
La lettura continuò, ma l'abate smise di ascoltare. Conosceva quasi a memoria la lettera, ma aveva l'impressione che Marcus Apollo avesse tentato di dirgli qualcosa fra le righe, qualcosa di lui, Don Paulo, non era ancora riuscito a comprendere. Marcus stava cercando di avvertirlo… ma di che? Il tono della lettera era blandamente ironico, ma sembrava carico di incongruenze malauguranti che potevano essere designate soltanto a sommarsi ad alcune buie congruenze, se soltanto gli fosse stato possibile sommarle. Che pericolo poteva esservi, nel permettere a uno studioso secolare di studiare nell'abbazia?
Il Thon Taddeo, secondo il corriere che aveva portato la lettera, era stato educato nel monastero Benedettino, dove era stato portato da bambino, per evitare imbarazzo alla moglie di suo padre. Il padre del thon era lo zio di Hannegan, ma sua madre era una fantesca. La duchessa, moglie legittima del duca, non aveva mai protestato per i vagabondaggi sentimentali del marito, fino a che quella fantesca gli aveva dato il figlio maschio che aveva sempre desiderato; poi gridò all'ingiustizia. Gli aveva generato soltanto figlie, e l'essere stata superata da una fantesca scatenò la sua ira. Fece allontanare il bambino, fece battere e scacciare la fantesca, e rafforzò il suo dominio sul duca. Decise di dargli un figlio maschio per riaffermare il proprio onore: ma gli diede altre tre figlie. Il duca attese pazientemente per quindici anni: quando la duchessa morì d'aborto (di un'altra figlia) andò subito dai Benedettini per reclamare il ragazzo e per farne il suo erede.
Ma il giovane Taddeo degli Hannegan-Pfardentrott era diventato un tipo difficile. Era cresciuto, dall'infanzia all'adolescenza, in vista della città e del palazzo dove il suo primo cugino veniva preparato per salire al trono: se la sua famiglia l'avesse ignorato, tuttavia, sarebbe maturato senza risentirsi per la sua condizione sociale. Ma tanto suo padre quanto la fantesca che l'aveva partorito venivano a visitarlo con frequenza sufficiente a ricordargli che lui era nato di carne umana e non di pietra, e per fargli vagamente comprendere che era stato defraudato dell'amore cui aveva diritto.
Poi, il Principe Hannegan era venuto nello stesso monastero per un anno di istruzione, aveva signoreggiato al di sopra del suo cugino bastardo, e l'aveva superato in tutto, tranne che nella prontezza di mente. Il giovane Taddeo aveva odiato il principe con calmo furore, e si era accinto a distanziarlo il più possibile, almeno in dottrina. Quella gara si era rivelata inutile, tuttavia: il principe aveva lasciato la scuola monastica l'anno seguente, illetterato come vi era giunto, e nessuno aveva più pensato a perfezionare la sua istruzione. Nel frattempo, il suo cugino esiliato continuava da solo la gara, conquistando alti onori: ma la sua vittoria era inutile, perché Hannegan non se ne curava. Il Thon Taddeo era giunto a disprezzare l'intera Corte di Texarkana ma, con giovanile incoerenza, vi ritornò volentieri per esservi finalmente legittimato come figlio di suo padre, disposto a perdonare tutti tranne la morta duchessa che l'aveva esiliato e i monaci che in quell'esilio avevano avuto cura di lui.
Forse pensa al nostro chiostro come a un luogo abietto, si disse l'abate. Forse per lui vi sarebbero amari ricordi, mezzi-ricordi e forse qualche ricordo immaginario.
— …semi di controversia nel letto della Nuova Sapienza — continuò il lettore. — Perciò stai in guardia, e bada ai sintomi.
"Ma d'altra parte, non soltanto Sua Supremazia ma anche le leggi della carità e della giustizia esigono che io te lo raccomandi come un uomo bene intenzionato, o almeno come un bambino privo di malizia, come quasi tutti questi pagani istruiti ed educati (e nonostante tutto diventano pagani). Si comporterà bene se tu ti comporterai con fermezza, ma sii prudente, amico mio. Ha una mente simile a un moschetto carico, e può sparare in qualsiasi direzione. Io confido, tuttavia, che andare d'accordo con lui per qualche tempo non sarà un problema grave per la tua ingegnosità e per la tua ospitalità.
"Quidam mihi calix nuper expletur, Paule. Precamini ergo Deum facere me fortiorem. Metuo ut hic peream. Spero te et fratres saepius oraturos esse pro tremescente Marco Apolline. Valete in Christo, amici.
"Texarkanae missum est Octava Ss Petri et Pauli, Anno Domini termillesimo…"
— Vediamo ancora il sigillo — disse l'abate.
Il monaco gli porse il rotolo. Don Paulo lo accostò al viso per guardare la scritta confusa impressa in fondo alla pergamena, con un timbro di legno male inchiostrato:
APPROVATO DA HANNEGAN II, PER GRAZIA DI DIO PODESTÀ
DOMINATORE DI TEXARKANA, DIFENSORE DELLA FEDE,
E VAQUERO SUPREMO DELLE PIANURE.
QUI SEGNO: X
— Mi chiedo se Sua Supremazia si è fatto leggere la lettera da qualcuno, più tardi — si preoccupò l'abate.
— E se così fosse, Monsignore, credete che la lettera sarebbe stata mandata?
— Credo di no. Ma questa frivolezza sotto il naso di Hannegan solo per beffare l'analfabetismo del Podestà è insolita in Marcus Apollo, a meno che non cercasse di dirmi qualcosa fra le righe… ma non riuscisse a trovare il modo sicuro di esprimersi. L'ultima parte… a proposito di un certo calice che teme non gli verrà allontanato… È chiaro che è preoccupato di qualcosa, ma che cosa? È insolito, in Marcus: è completamente insolito.
Erano passate parecchie settimane dall'arrivo della lettera: durante quelle settimane Don Paulo aveva dormito male, aveva sofferto per il riacutizzarsi del vecchio disturbo gastrico, aveva riflettuto moltissimo sul passato, come per scongiurare il futuro. Quale fututo? si chiedeva. Non pareva vi fosse alcuna ragione logica per aspettarsi guai. La controversia tra i monaci e gli abitanti del villaggio si era quietata. Nessun segno di turbolenza veniva dalle tribù del Nord e dell'Est. L'imperiale Denver non insisteva nei suoi tentativi di esigere tasse dalle congregazioni monastiche. Non c'erano truppe nelle vicinanze. L'oasi forniva ancora acqua. Non pareva esservi alcuna minaccia di epidemia tra gli animali e gli uomini. Il grano cresceva bene, quell'anno, nei campi irrigati. Il mondo mostrava segni di progresso e il villaggio di Sanly Bowits aveva raggiunto una percentuale fantastica di persone che sapevano leggere e scrivere: ben l'otto per cento. E di questo gli abitanti del villaggio avrebbero potuto essere grati ai monaci dell'Ordine Leibowitziano… ma non lo erano.
Eppure, aveva qualche presentimento. Qualche minaccia innominata era in agguato, all'angolo del mondo, non appena il sole fosse sorto di nuovo. Quella sensazione lo rodeva, tormentosa come uno sciame di insetti affamati che ronzassero attorno al viso di un pellegrino nel sole del deserto. C'era la sensazione di qualcosa di imminente, di spietato, di irragionevole: si avvolgeva in spire come un serpente a sonagli reso furioso dal calore e pronto a colpire un ciuffo d'erba che rotolasse.
Era un demonio, quello che cercava di affrontare, decise l'abate, ma era un demonio molto evasivo. Il diavolo dell'abate era piuttosto piccolo: alto quanto il ginocchio di un uomo, ma pesava dieci tonnellate e aveva la forza di cinquecento buoi. Non era spinto dalla malizia, come l'immaginava Don Paulo, quanto da una convulsione frenetica, qualcosa che somigliava al furore di un cane idrofobo. Azzannava carne e ossa e unghie semplicemente perché si era dannato, e la dannazione creava un appetito dannatamente insaziabile. Ed era malvagio semplicemente perché aveva negato il Bene, e quella negazione era diventata parte della sua essenza, o una falla in essa. In qualche luogo, pensò Don Paulo, stava guadando un mare di uomini, lasciando dietro di sé una veglia funebre di uomini storpiati.
Che sciocchezza, vecchio!, si rimproverò. Quando si è stanchi di vivere, ogni cambiamento sembra malvagio, non è così? perché allora qualunque cambiamento disturba la pace della noia di vivere, così simile alla morte. Oh, c'è il diavolo, sì, ma non dobbiamo dargli più credito del dovuto. Sei così stanco di vivere, vecchio fossile?
Ma i presentimenti continuarono.
— Pensate che le poiane abbiano già divorato il vecchio Eleazar? — chiese una voce tranquilla, accanto a lui.
Don Paulo si girò con un sussulto, nella penombra. La voce era quella di Padre Gault, il suo priore e probabile successore. Se ne stava là, toccando una rosa, e sembrava imbarazzato per aver disturbato la solitudine del vecchio.
— Eleazar? Volete dire Benjamin? Perché, avete avuto sue notizie, in questi ultimi tempi?
— Ecco, no. Padre Abate. — Gault rise, imbarazzato. — Ma mi pareva che voi guardaste verso la mesa, e ho creduto che steste pensando al Vecchio Ebreo. — Guardò verso la montagna a forma di incudine, profilata contro una fascia grigia di cielo, a occidente. — C'è un filo di fumo, lassù, quindi credo che sia ancora vivo.
— Non dovremmo limitarci a crederlo — disse bruscamente Don Paulo. — Andrò lassù, a fargli visita.
— Parlate come se steste per partire questa notte — ridacchiò Gault.
— Partirò fra un giorno o due.
— Sarà meglio che siate prudente. Dicono che scagli pietre contro coloro che si avvicinano.
— Non lo vedo da cinque anni — confessò l'abate. — E mi vergogno. È molto solo. Andrò da lui.
— Se è tanto solo, perché si ostina a vivere come un eremita?
— Per sfuggire alla solitudine… in un mondo giovane.
Il giovane prete rise. — Questo è forse logico secondo lui, Domne, ma io non capisco.
— Capirete, quando avrete la mia età… o la sua.
— Non penso di diventare tanto vecchio. Afferma di avere parecchie migliaia di anni.
L'abate sorrise, ricordando. — E, sapete, non posso discuterne con lui. Lo conobbi quando ero soltanto un novizio, cinquanta e più anni or sono, e giurerei che sembrava vecchio quanto ora. Deve avere superato i cent'anni.
— Tremiladuecentonove anni, così sostiene lui. Qualche volta dice di essere ancora più vecchio. E credo che ne sia convinto, anche. Una interessante follia.
— Non sono tanto sicuro che sia pazzo, Padre. Soltanto anormale, nella sua lucidità. Perché volevate parlarmi?
— Per tre piccole questioni. Prima, come faremo ad allontanare il Poeta dalle stanze degli ospiti reali… prima che arrivi il Thon Taddeo? Deve arrivare fra pochi giorni, e il Poeta ha messo radici.
— Tratterò io con il Poeta. Che altro?
— I Vespri. Verrete in chiesa?
— Non fino a Compieta. Pensateci voi. Che altro?
— C'è una discussione nel sotterraneo… per l'esperimento di frate Kornhoer.
— Chi e come?
— Ecco, sembra che il nocciolo della questione sia questo: frate Armbruster ha l'atteggiamento di vespero mundi expectando, mentre frate Kornhoer sostiene che siamo al mattino dell'età dell'oro. Kornhoer sposta qualcosa per far posto a un pezzo della sua attrezzatura. Armbruster grida Perdizione? Frate Kornhoer grida Progresso! e si accapigliano di nuovo. Poi vengono da me, furibondi, perché risolva la discussione. Io li rimprovero perché hanno perduto la calma. Quelli diventano umili e per dieci minuti si sopportano a vicenda. Sei ore dopo, il pavimento trema per le urla di "Perdizione!" lanciate da frate Armbruster nella biblioteca. Io riesco a dominare le esplosioni ma mi pare che sia una questione fondamentale.
— È una fondamentale offesa della giusta condotta, direi. Cosa volete che faccia? Che li escluda dalla mensa comune?
— Non ancora, ma potreste ammonirli.
— Benissimo, ci penserò io. È tutto?
— È tutto, Domne. — Gault fece per allontanarsi, ma si fermò. — Oh, fra l'altro… pensate che il meccanismo di frate Kornhoer funzionerà?
— Spero di no! — sbuffò l'abate.
Padre Gault si mostrò sorpreso. — Ma allora, perché permettergli…
— Perché all'inizio ero incuriosito. Tuttavia quel lavoro ha destato tanto scompiglio, ormai che mi dispiace di avergli permesso di cominciare.
— E allora perché non lo fermate?
— Perché spero che si arrenderà davanti all'assurdità senza bisogno d'aiuto da parte mia. Se l'esperimento fallisce, fallirà proprio in tempo per l'arrivo del Thon Taddeo. Questa sarebbe la mortificazione più adatta per frate Kornhoer… gli ricorderebbe la sua vocazione, prima che cominciasse a pensare di essere stato chiamato alla Religione al solo scopo di costruire un generatore di essenze elettriche nel sotterraneo del monastero!
— Ma, Padre Abate, dovrete ammettere che sarebbe una grande conquista, se l'esperimento avesse successo.
— Non è necessario che lo ammetta — disse seccamente Don Paulo.
Quando Gault si fu allontanato, l'abate, dopo una breve discussione con se stesso, decise di risolvere il problema del Poeta prima del problema perdizione-contro-progresso. La soluzione più semplice del problema del Poeta sarebbe stato allontanarlo dall'appartamento reale, e possibilmente anche all'abbazia, dai dintorni dell'abbazia, fuori dalla portata di vista, di udito e di pensiero. Ma nessuno poteva sperare che sbarazzarsi del Poeta fosse una "soluzione semplice".
L'abate lasciò le mura e attraversò il cortile, dirigendosi verso la foresteria. Si muoveva a memoria, poiché gli edifici erano monoliti d'ombra sotto le stelle e soltanto poche finestre splendevano della luce delle candele. Le finestre dell'appartamento reale erano buie; ma il Poeta seguiva orari strani, e poteva darsi che fosse nel suo alloggio.
Entrato nell'edificio, l'abate cercò a tentoni la porta di destra, la trovò, e bussò. Non vi fu alcuna risposta immediata, ma solo un debole belato che poteva e non poteva provenire dall'interno dell'appartamento.
Bussò di nuovo, poi provò ad aprire la porta. Si aprì.
Un fievole chiarore rossastro da un bruciatore a carbone addolciva l'oscurità: la stanza odorava di cibo rancido.
— Poeta?
Di nuovo si udì quel debole belato, ma più vicino. Si avvicinò al bruciatore, ne tolse con le molle un carbone incandescente, se ne servì per accendere un ramoscello. Si guardò intorno e rabbrividì, vedendo il disordine della stanza. Era vuota. L'abate accese una lampada a olio e andò ad esplorare il resto dell'appartamento. Sarebbe stato necessario pulirla e fumigarla con ogni cura… forse addirittura esorcizzarla, prima che il Thon Taddeo vi entrasse. Sperò di indurre il Poeta a fare le pulizie, ma sapeva che era una possibilità molto remota.
Nella seconda stanza, Don Paulo ebbe all'improvviso l'impressione di essere osservato. Si fermò e si guardò intorno, lentamente.
Un occhio lo fissava da un vaso pieno d'acqua posato su uno scaffale. L'abate gli rivolse un familiare cenno di saluto e proseguì.
Nella terza stanza, incontrò la capra. Fu il loro primo incontro.
La capra era ritta su di un armadio, e masticava foglie di rapa. Sembrava una minuscola varietà di capra di montagna, ma aveva la testa calva che, nella luce della lampada era d'un azzurro brillante. Senza dubbio era un capriccio della natura.
— Poeta? — chiese l'abate, con voce sommessa, guardando la capra e toccandosi la croce pettorale.
— Sono qui - disse una voce assonnata, dalla quarta stanza.
Don Paulo sospirò di sollievo. La capra continuò a masticare le foglie. Era stato veramente un pensiero terribile.
Il poeta giaceva disteso sul letto, con una bottiglia di vino a portata di mano; batté irritato la palpebra del suo unico occhio buono davanti alla luce.
— Dormivo — si lagnò, aggiustando la fascia nera sull'occhio cieco e allungando la mano verso la bottiglia.
— E allora svegliatevi. Ve ne andrete immediatamente di qui. Questa notte stessa. Spostate tutte le vostre cose nel corridoio, per dare aria all'appartamento. Dormirete nella cella del mozzo di stalla, da basso, se proprio dovete. Poi tornate qui domattina e ripulite l'appartamento.
Per un attimo, il Poeta assunse un'aria da cane bastonato, poi fece l'atto di prendere qualcosa sotto le coperte. Serrò un pugno e lo fissò.
— Chi si è servito di questo appartamento, per ultimo? — chiese.
— Monsignor Logni. Perché?
— Mi chiedevo chi avesse portato le cimici. — Il poeta aprì il pugno, prese qualcosa dal palmo, lo schiacciò fra le unghie, poi lo gettò via. — Può godersele Thon Taddeo. Io non le voglio. Mi hanno mangiato vivo da quando sono entrato qui. Stavo pensando di andarmene, ma adesso che voi mi avete offerto la mia vecchia cella, sarò felice di…
— Non intendevo…
— …di accettare ancora per un certo tempo la vostra gentile ospitalità. Soltanto fino a che sarà finito il mio libro, naturalmente.
— Quale libro? Ma non importa. Togliete di qui tutta la vostra roba.
— Adesso?
— Adesso.
— Bene. Non credo che riuscirei a sopportare queste cimici per un'altra notte. — Il Poeta rotolò giù dal letto, ma si fermò per bere.
— Datemi il vino — ordinò l'abate.
— Sicuro. Prendetene pure. È una buona annata.
— Grazie, poiché l'avete rubato dalle nostre cantine. Si dà il caso che sia vino per il Sacramento. Ci avevate pensato?
— Non era stato consacrato.
— Mi stupisce che abbiate pensato a questo. — Don Paulo prese la bottiglia.
— Ad ogni modo non l'ho rubato. Io…
— Non pensate più al vino. Dove avete rubato la capra?
— Non l'ho rubata — si lagnò il Poeta.
— Si è… materializzata?
— È stato un dono, Reverendissime.
— Di chi?
— Di un caro amico, Domnissime.
— Un caro amico di chi?
— Mio, Signore.
— Questo è un paradosso. Allora, dove…
— Benjamin, signore.
Un lampo di stupore attraversò il viso di Don Paulo. — L'avete rubata al vecchio Benjamin?
Il Poeta rabbrividì a quella parola. — Vi prego, non l'ho rubata.
— E allora?
— Benjamin ha insistito perché l'accettassi in dono, dopo che io ho composto un sonetto in suo onore.
— La verità!
Il Poeta deglutì inutilmente. — Gliel'ho vinta a morra.
— Capisco.
— È vero! Quel vecchio rudere mi aveva quasi ripulito, e poi rifiutò di farmi credito. Dovetti mettere in gioco il mio occhio di vetro contro la capra. Ma rivinsi tutto.
— Portate quella capra fuori dall'abbazia.
— Ma è una capra meravigliosa. Il suo latte ha un profumo celestiale e contiene spezie. In realtà, è merito suo la longevità del Vecchio Ebreo.
— In che misura?
— In tutti i suoi cinquemilaquattrocentotto anni.
— Credevo ne avesse soltanto tremiladuecento… — Don Paulo si interruppe, sdegnoso. — Cosa stavate dicendo, voi, all'Ultima Speranza?
— Giocavo a morra con il vecchio Benjamin.
— Voglio dire… — L'abate si fece forza. — Lasciate perdere. E andatevene di qui. E domani riportate la capra a Benjamin.
— Ma l'ho vinta onestamente.
— Bene, non discutiamone. Portate la capra nella stalla, allora. Gliela restituirò io stesso.
— Perché?
— Non ci serve una capra. E non serve neppure a voi.
— Oh, oh — fece il Poeta con aria astuta.
— Cosa intendete dire, prego?
— Sta per arrivare il Thon Taddeo. Ci sarà bisogno di una capra, prima che tutto sia finito. Potete esserne sicuro. — E ridacchiò soddisfatto tra sé.
L'abate si voltò, irritato. — Andatevene — aggiunse, con rassegnazione, poi andò a occuparsi della disputa nel sotterraneo, in cui ora riposavano i Memorabilia.
Il sotterraneo fortificato era stato scavato durante i secoli delle infiltrazioni nomadi dal Nord, quando l'Orda di Bayring faceva scorrerie nelle Pianure e nel deserto, saccheggiando e distruggendo i villaggi che trovava sul suo cammino.
I Memorabilia, il piccolo patrimonio di conoscenza dell'abbazia conservato da secoli, erano stati nascosti nei sotterranei per proteggere quegli scritti inestimabili dai nomadi e dai sedicenti crociati degli Ordini scismatici, fondati per combattere le orde, ma che si dedicavano ai saccheggi indiscriminati e alle lotte settarie. Né i nomadi né l'Ordine Militare di San Pancrazio avrebbero attribuito valore ai libri dell'abbazia, ma i nomadi li avrebbero distrutti per la gioia di distruggerli, e i frati-cavalieri ne avrebbero bruciati gran parte come "eretici", secondo la teologia di Vissarion, il loro Antipapa.
Ora l'Età dell'Oscurantismo sembrava sul punto di concludersi. Da dodici secoli, la fiammella della conoscenza era stata tenuta accesa nei monasteri: soltanto ora vi erano menti pronte a riceverla. Molto tempo addietro, durante l'ultima Età della Ragione, certi orgogliosi pensatori avevano sostenuto che la conoscenza valida era indistruttibile, che le idee erano eterne e la verità immortale. Ma questo era vero soltanto in un senso molto sottile, pensò l'abate, e non era vero affatto, in superficie. C'era un significato oggettivo nel mondo, senza dubbio: il logos non morale, il disegno del Creatore; ma questi significati appartenevano a Dio e non all'Uomo, fino a che non trovavano una incarnazione imperfetta, un riflesso oscuro, nella mente, nella parola, nella cultura di una data società umana, che potesse ascrivere valore a quei significati, in modo che divenissero validi, in senso umano, all'interno della civiltà. Perché l'Uomo è portatore di civiltà così come è portatore di un'anima, ma le sue civiltà non sono immortali, e potevano morire con un razza o con una età, e poi i riflessi umani del significato e l'effigie umana della verità si affievolivano, e la verità e il significato risiedevano, invisibili, soltanto nel logos obiettivo della Natura e nell'ineffabile Logos di Dio. La verità poteva essere crocifissa; ma presto, forse, vi sarebbe stata la resurrezione.
I Memorabilia erano pieni di parole antiche, di antiche formule, di antichi riflessi di significato, distaccati dalle menti che erano morte tanto tempo prima, quando una società completamente diversa era caduta nell'oblio. C'era ben poco, di essa, che poteva essere ancora compreso. Certi documenti parevano insignificanti quanto poteva sembrarlo un Breviario a uno sciamano di una tribù nomade. Altri conservavano una certa bellezza ornamentale, e una certa apparenza ordinata che pareva sottintendere un significato, con un rosario potrebbe indurre un nomade a pensare a una collana. I primi frati dell'Ordine Leibowitziano avevano cercato di trarre una specie di Sindone dal volto di una civiltà crocifissa: ne avevano ottenuto un'immagine che conservava un riflesso dell'antica grandezza, ma quell'immagine era sbiadita, incompleta, difficile da comprendere. I monaci avevano conservato l'immagine, che adesso era sopravvisuta perché il mondo l'esaminasse e cercasse di interpretarla, se lo desiderava. I Memorabilia non potevano, in se stessi, provocare una rinascita dell'antica scienza o di una grande civiltà, tuttavia, poiché le civiltà erano generate dalle tribù dell'Uomo, non da tomi polverosi; ma i libri potevano aiutare, così sperava Don Paulo… i libri potevano indicare una direzione e fornire una traccia a una scienza che cominciava ad evolversi. Era accaduto già una volta, come aveva affermato il Venerabile Boedullus nel suo De Vestigiis Antecessarum Civitatum.
E questa volta, pensò Don Paulo, noi li indurremo a ricordare chi ha mantenuto ardente quella scintilla mentre il mondo dormiva. Si fermò, per guardarsi indietro; per un attimo aveva immaginato di avere udito il belato atterrito della capra del Poeta.
Il clamore proveniente dal sotterraneo soverchiò ben presto il suo udito mentre scendeva le scale, verso la sorgente di quel frastuono. Qualcuno stava piantando chiodi d'acciaio nella pietra. L'odore del sudore si mescolava a quello dei vecchi libri.
Una febbrile esplosione di attività che si addiceva scarsamente agli studiosi riempiva la biblioteca. Alcuni novizi correvano qua e là, portando arnesi da lavoro. Altri novizi stavano in gruppo, e studiavano dei piani. Altri spostavano scrivanie e tavoli, per fare posto a una strana macchina. C'era una grande confusione, al lume delle lampade. Frate Armbruster, bibliotecario e Custode dei Memorabilia, se ne stava ritto a osservare la scena da una alcova distante, fra gli scaffali, con le braccia conserte e il viso cupo.
Don Paulo evitò il suo sguardo accusatore.
Frate Kornhoer si avvicinò al suo superiore con un sorriso di entusiasmo. — Bene, Padre Abate, fra poco avremo una luce quale nessun uomo vivente ha mai visto.
— Queste parole non sono esenti da una certa vanità, fratello — rispose Paulo.
— Vanità, Domne? È vanità mettere a buon frutto ciò che noi abbiamo imparato?
— Pensavo alla nostra fretta di metterlo a frutto in tempo per fare impressione a un certo studioso che verrà a visitarci. Vediamo questa stregoneria, dunque.
Si avviarono verso la macchina costruita di materiale eterogeneo. All'abate non sembrava affatto utile, a meno che si considerasse utile uno strumento di tortura. Un asse era collegato da pulegge e da cinghie a un tornichetto che arrivava fino alla cintura dell'abate. Quattro ruote erano montate sull'asse, a una distanza di pochi pollici l'una dall'altra. I loro spessi cerchioni di ferro erano segnati da scanalature, e le scanalature sostenevano innumerevoli nidi di filo di rame, preparati nella locale fucina di Sanly Bowitts. Le ruote erano libere di ruotare a mezz'aria, notò Don Paulo, perché i cerchioni non toccavano alcuna superficie. Tuttavia, alcuni blocchi fissi di ferro stavano di fronte ai cerehioni, a guisa di freni, senza però toccarli. Anche quei blocchi erano avvolti da innumerevoli spire di filo… "bobine di campo" come li chiamava Kornhoer.
Don Paulo scosse solennemente il capo.
— Sarà certamente la più grande miglioria, nel campo della fisica, che si sia avuta nell'abbazia da quando venne inventato il torchio da stampa, cento anni or sono — azzardò orgoglioso frate Kornhoer.
— Funzionerà? — chiese Don Paulo.
— Ci scommetterei il lavoro straordinario di un mese, Monsignore. "Stai scommettendo molto di più", pensò il religioso, ma non lo disse.
— Da dove esce la luce? — chiese, studiando di nuovo il bizzarro meccanismo.
Il monaco rise. — Oh, abbiamo una lampada speciale, per questo. Ciò che vedete qui è soltanto la "dinamo". Produce l'essenza elettrica che la lampada brucerà.
Melanconicamente, Don Paulo contemplò lo spazio occupato dalla dinamo.
— Questa essenza — mormorò — non può essere estratta dal grasso di montone, vero?
— No, no… L'essenza elettrica è… bene… Volete che ve lo spieghi?
— È meglio di no. La scienza naturale non è la mia specialità. La lascio a voi, che siete più giovani. — Indietreggiò rapidamente per non essere scotennato da una trave portata da due carpentieri frettolosi. — Ditemi — chiese — se studiando gli scritti dell'età leibowitziana potete imparare a costruire queste cose, perché credete che i nostri predecessori non abbiano ritenuto giusto costruirle?
Il monaco tacque per un momento. — Non è facile spiegarlo — disse alla fine. — In realtà, negli scritti che rimangono, non vi è alcuna informazione specifica sul modo di costruire una dinamo. Si potrebbe dire, piuttosto, che tale informazione è implicita in una intera raccolta di scritti frammentari. Parzialmente implicita. E deve esserne estratta per mezzo della deduzione. Ma per arrivare a questo è necessario disporre di alcune teorie su cui lavorare… informazioni teoriche di cui i nostri predecessori non disponevano.
— E noi?
— Ebbene, sì… ora che vi sono alcuni uomini come… — il suo tono divenne profondamente rispettoso; esitò prima di pronunciare il nome: — …come il Thon Taddeo…
— Era una frase completa? — chiese l'abate, un po' acido.
— Ecco, fino a tempi recenti, pochi filosofi si sono occupati delle nuove teorie della fisica. In realtà, è stato il lavoro di… del Thon Taddeo… — Di nuovo quel tono rispettoso notò Don Paulo — … che ci ha dato gli assiomi necessari. La sua opera sulla Mobilità delle Essenze Elettriche, per esempio, e il suo Teorema della Conservazione…
— Allora dovrebbe essere compiaciuto nel vedere tradotta in realtà la sua opera. Ma non posso chiedere dov'è la lampada? Spero che non sia più grande della dinamo.
— È questa, Domne — disse il monaco, prendendo dalla tavola un piccolo oggetto. Sembrava soltanto una specie di supporto che reggeva un paio di verghe nere e una vite per regolarne la distanza. — Questi sono carboni — spiegò frate Kornhoer. — Gli antichi l'avrebbero chiamata "lampada ad arco". Ve ne erano di altre specie, ma noi non abbiamo il necessario per fabbricarle.
— Sbalorditivo. E da dove viene la luce?
— Da qui. — Il monaco indicò il varco fra i carboni.
— Deve essere una fiamma molto piccola — disse l'abate.
— Oh, ma è splendente! Più splendente, prevedo, di quella di cento candele.
— No!
— Vi sembra impressionante?
— Mi sembra assurdo… — Notando l'espressione improvvisamente offesa di frate Kornhoer, l'abate aggiunse in fretta: — …pensare per quanto tempo ci siamo serviti della cera d'api e del grasso di montone.
— Mi sono chiesto — aggiunse timidamente il monaco — se gli antichi l'usavano sui loro altari, invece delle candele.
— No — disse l'abate. — Decisamente no. Questo posso dirvelo. Vi prego di abbandonare al più presto questa idea, e di non pensarvi più.
— Sì, Padre Abate.
— Ora, dove avete intenzione di appendere questo oggetto?
— Ecco… — Frate Kornhoer si interruppe per guardarsi intorno, con aria speculativa, nel sotterraneo buio. — Non vi avevo pensato. Immagino che dovrebbe andare sopra la scrivania dove lavorerà… — ("Perché fa una pausa ogni volta che deve pronunciare quel nome?", si chiese irritato Don Paulo) — …il Thon Taddeo.
— Faremmo meglio a chiederlo a frate Armbruster — decise l'abate; e poi, notando l'improvviso disagio del monaco: — Che succede? Forse voi e frate Armbruster…
Il viso di Kornhoer si alterò in una smorfia di scusa. — Per la verità, Padre Abate, io non ho mai perduto la calma, con lui, neppure una volta. Oh, sono corse molte parole, fra noi, ma… — E alzò le spalle. — Non vuole spostare nulla. Continua a mormorare contro la stregoneria e cose simili. Non è facile ragionare con lui. I suoi occhi sono quasi ciechi, ormai, per avere letto sotto luci troppo fioche… eppure dice che stiamo lavorando a un'opera del Demonio. Io non so che dire.
Don Paulo si accigliò lievemente mentre attraversavano la stanza, dirigendosi verso l'alcova da cui frate Armbruster osservava corrucciato gli eventi.
— Bene, adesso l'avete spuntata — disse il bibliotecario a Kornhoer, mentre si avvicinavano. — Quando metterete qui un bibliotecario meccanico, fratello?
— Abbiamo trovato alcuni accenni all'esistenza di qualcosa di simile, nei tempi andati — brontolò l'inventore. — Nelle descrizioni della Machina analytica, troverete riferimenti a…
— Basta, basta — si interpose l'abate. Poi, rivolto al bibliotecario: — Il Thon Taddeo avrà bisogno di un posto dove lavorare. Quale suggerite?
Armbruster indicò con il pollice l'alcova riservata alle Scienze Naturali. — Fate che legga lì, alla luce della lanterna, come tutti gli altri.
— Cosa ne direste, invece, di preparargli uno studio, qui, dove c'è più spazio, Padre Abate? — suggerì Kornhoer, in una pronta controproposta. — Oltre a una scrivania gli occorrerà un abbaco, una lavagna e un tavolo da disegno. Potremmo isolarlo con paraventi provvisori.
— Credevo che avesse bisogno dei documenti leibowitziani e degli scritti più antichi — disse sospettoso il bibliotecario.
— Infatti.
— E allora dovrà andare avanti e indietro continuamente se lo mettete in mezzo alla stanza. I volumi rari sono assicurati con catenelle, e le catenelle non sono sufficientemente lunghe.
— Non è un problema — disse l'inventore. — Togliete le catene. Sono una sciocchezza, in ogni caso. I culti scismatici si sono estinti, o sono diventati regionali. Sono cento anni ormai che nessuno ha più sentito parlare dell'Ordine Militare Pancraziano.
Armbruster arrossì, indignato. — Oh, no — insorse. — Le catenelle resteranno.
— Ma perché?
— Adesso non vi sono più gli incendiari di libri. Dobbiamo preoccuparci degli abitanti dei villaggi, però. Le catenelle resteranno.
Kornhoer si rivolse all'abate ed aprì le braccia. — Vedete, Monsignore?
— Ha ragione — disse Don Paulo. — C'è troppa agitazione nel villaggio. Il consiglio cittadino ha espropriato la nostra scuola, non dimenticatelo. Adesso hanno una biblioteca del villaggio, e vogliono che siamo noi a riempire i loro scaffali. Preferibilmente con volumi rari, naturalmente. E non c'è solo questo; l'anno scorso abbiamo avuto dispiaceri dai ladri. Frate Armbruster ha ragione. I volumi rari restano incatenati.
— Benissimo — sospirò Kornhoer. — Quindi dovrà lavorare dentro l'alcova.
— E allora, dove appenderemo questa vostra lampada meravigliosa?
I monaci guardarono verso il cubicolo. Era uno dei quattordici stalli identici, suddivisi per ordine di materia, che si aprivano nella sala principale. Ogni alcova aveva la sua arcata, e da un gancio di ferro infisso nella chiave di volta di ogni arcata pendeva un pesante crocifisso.
— Bene, se dovrà lavorare nell'alcova — disse Kornhoer — dovremo togliere il crocifisso ed appendervi la lampada, provvisoriamente. Non mi sembra che vi sia altro…
— Ateo! — sibilò il bibliotecario. — Pagano! Sacrilego! — Armbruster levò al cielo le mani tremanti. — Dio mi aiuti, perché io non lo faccia a pezzi con queste mani! Dove si fermerà? Portatelo via, via! — Voltò le spalle ai due, mentre le mani continuavano a tremargli.
Anche Don Paulo aveva provato un brivido alla richiesta dell'inventore, ma ora corrugò irritato la fronte guardando il dorso di frate Armbruster. Non si era mai aspettato che fingesse una mitezza che era estranea alla sua natura, ma l'atteggiamento querulo del vecchio monaco era diventato ben peggio.
— Frate Armbruster, voltatevi, vi prego.
Il bibliotecario si voltò.
— Adesso abbassate le mani, e parlate con più calma quando…
— Ma, Padre Abate, avete sentito che cosa ha…
— Frate Armbruster, fatemi la cortesia di prendere la scala e di togliere quel crocifisso.
Il viso del bibliotecario impallidì. Fissò Don Paulo, senza parlare.
— Questa non è una chiesa — disse l'abate. — La collocazione delle immagini è facoltativa. Per il momento, fatemi la cortesia di togliere il crocifisso. Pare che sia l'unico posto adatto per la lampada. Più tardi potremo cambiare. Ora, capisco che questa faccenda ha messo sottosopra la vostra biblioteca, e forse anche la vostra digestione, ma noi speriamo che questo sia nell'interesse del progresso. Se non lo è, allora…
— Voi costringereste Nostro Signore a spostarsi per fare posto al progresso!
— Frate Armbruster!
— Perché non Gli appendete al collo quella luce stregata? — continuò il bibliotecario.
Il viso dell'abate si gelò. — Io non forzo la vostra obbedienza, fratello. Venite nel mio studio, dopo Compieta — rispose.
Il bibliotecario sussultò. — Prenderò la scala, Padre Abate — sussurrò, e si allontanò strascicando i piedi.
Don Paulo levò lo sguardo verso il Cristo al sommo dell'arcata. Ti dispiace? si chiese.
Aveva un groppo allo stomaco. Sapeva che quel groppo avrebbe reclamato un prezzo da lui, più tardi. Lasciò il sotterraneo prima che qualcuno potesse notare il suo imbarazzo. Non era bene permettere che la comunità vedesse fino a che punto quelle spiacevoli piccolezze lo potevano sopraffare, in quei giorni.
L'installazione fu completata il giorno seguente, ma Don Paulo rimase nel suo studio, durante la prova. Per due volte era stato costretto ad ammonire privatamente frate Armbruster, e poi a rimproverarlo pubblicamente, durante il Capitolo. Eppure, provava più comprensione per l'atteggiamento del bibliotecario che per quello di Kornhoer. Sedeva affranto dietro la scrivania e attendeva che gli portassero notizie dal sotterraneo, ma era ben poco interessato al successo o al fallimento della prova. Teneva una mano infilata nell'abito, e la batteva sullo stomaco come se cercasse di calmare un bambino isterico.
Ancora quei crampi interni. Sembravano presentarsi ogni volta che si minacciava qualcosa di spiacevole, e qualche volta si allontanavano quando l'evento spiacevole esplodeva chiaramente, in modo che lui potesse affrontarlo. Ma ora non si allontanavano affatto.
Era un avvertimento, e lo sapeva. Venisse, quell'avvertimento, da un angelo o da un demonio o dalla sua coscienza, gli diceva di stare attento a se stesso e a qualche realtà non ancora affrontata.
E ora? si chiese, permettendosi un silenzioso singhiozzo e un silenzioso Perdonami rivolto alla statua di San Leibowitz, posta nella nicchia a forma di cappelletta in un angolo dello studio.
Una mosca camminava sul naso di San Leibowitz. Gli occhi del santo sembravano storcersi per fissare la mosca, esortando l'abate a scacciarla. L'abate si era affezionato a quella scultura in legno del ventiseiesimo secolo; il suo volto aveva un sorriso curioso, di un tipo piuttosto insolito in un'immagine sacra. Il sorriso era obliquo; le sopracciglia erano abbassate in un cipiglio vagamente dubbioso, sebbene vi fossero le grinze di un sorriso negli angoli degli occhi. Poiché aveva su una spalla la corda del carnefice, l'espressione del santo sembrava spesso enigmatica. Probabilmente era il risultato di alcune lievi irregolarità nella grana del legno, che avevano preso il sopravvento sulla mano dello scultore mentre quello cercava di ottenere alcuni particolari più minuziosi, possibili con quel tipo di legno. Don Paulo non era sicuro che quell'immagine non fosse stata modellata sull'albero vivo, prima di essere scolpita: qualche volta i pazienti maestri e scultori di quel periodo cominciavano a scegliere alberelli giovani di quercia o di cedro e — dedicando tediosissimi anni a torcere e a scortecciare la pianta, a legarne i rami vivi nelle posizioni desiderate — tormentavano il legno che cresceva costringendolo ad assumere sbalorditive forme di driade, con le braccia conserte o sollevate, prima di tagliare l'albero cresciuto per prepararlo e scolpirlo. La statua che ne risultava era insolitamente resistente ad ogni tentativo di scheggiarla o di spezzarla, poiché quasi tutte le linee di scultura seguivano la venatura naturale.
Don Paulo si stupiva che quel Leibowitz ligneo avesse resistito ai suoi predecessori durante molti secoli, a causa del bizzarro sorriso del santo. Un giorno o l'altro, quel lieve sogghigno sarà la tua rovina, disse alla statua… Senza dubbio, i santi devono ridere, in Paradiso; il Salmista dice che anche Iddio ride, ma l'Abate Malmeddy doveva avere disapprovato… Dio conceda riposo alla sua anima. Quel solenne somaro! Come te la sei cavata con lui, mi domando? Non sei abbastanza ipocrita, per certa gente. Quel sorriso… chi conosco, io, che sogghigni in quel modo? Mi piace, ma… Un giorno o l'altro, in questa sedia siederà un altro individuo dall'umore canino… Cave canem. Ti sostituirà con un Leibowitz di gesso. Dall'aria di sopportazione. Che non guardi le mosche con gli occhi storti. E tu verrai divorato dalle termiti, giù nel magazzeno. Per sopravvivere al lento mutamento di gusto della Chiesa in materia di arte devi avere una superficie che piaccia a un virtuoso semplicione; eppure devi avere una profondità, sotto quella superficie, per piacere a un saggio che sa discernere le cose. Il mutamento è lento ma ogni tanto c'è qualche scossa… quando qualche nuovo prelato visita il suo appartamento episcopale e brontola: "Un po' di questa spazzatura deve sparire". Di solito il mutamento era carico di pappetta addolcita. Quando la vecchia pappetta era esaurita, se ne aggiungeva una nuova. Ma ciò che non si esaurisce era oro puro, e durava. Se una chiesa aveva sopportato cinque secoli di cattivo gusto, qualche sprazzo di buon gusto aveva di solito spazzato via la maggioranza delle croste caduche, e ne aveva fatto un luogo di maestà che intimoriva gli aspiranti innovatori.
L'abate si sventolò con un ventaglio di penne di poiana, ma la brezza non lo rinfrescò. L'aria che entrava dalla finestra era simile al soffio di un forno, poiché proveniva dal deserto arroventato, e si aggiungeva alla sofferenza causatagli dal demonio o dall'angelo spietato che gli tormentava lo stomaco. Era quell'afa che annuncia pericoli in agguato da parte dei serpenti a sonagli inferociti dal sole, dei temporali che turbinano sulle montagne, dei cani idrofobi e dei temperamenti incattiviti dal calore. E peggiorava i suoi crampi.
— Per favore — mormorò forte al santo, in una preghiera senza parole per implorare un clima più fresco, uno spirito più acuto, e una maggiore comprensione di quella vaga sensazione di inquietudine. Forse è stata colpa di quel formaggio, pensò. È gommoso, in questa stagione, ed è troppo fresco. Io potrei concedermi una dispensa… e una dieta più digeribile.
Ma no, ci siamo di nuovo. Affronta la verità, Paulo: non è il cibo per il ventre che provoca questo; è il cibo per il cervello. C'è in giro qualcosa di indigesto.
"Ma cosa?"
Il santo di legno non gli diede una pronta risposta. Pappetta. Mutamenti. Qualche volta la sua mente lavorava a tratti. Era meglio lasciarla lavorare in quel modo, quando sopravvenivano i crampi e il mondo lo opprimeva con il suo peso. Quanto pesava il mondo? Pesa, ma non è pesato. Qualche volta le sue bilance sono alterate. Pesa la vita e la fatica, contro argento e oro. Non vi sarà mai equilibrio. Ma, rapido e spietato, continua a pesare. Versa tutto intorno una quantità di vita in questo modo, e qualche volta anche un po' d'oro. E un re bendato viene a cavallo attraverso il deserto, con una bilancia alterata e un paio di dadi truccati. E sulle sue bandiere blasonate… Vexilla regis…
— No — gemette l'abate, respingendo la visione.
Ma naturalmente! sembrava insistere il sorriso legnoso del santo.
Don Paulo distolse lo sguardo dall'immagine con un lieve brivido. Qualche volta aveva l'impressione che il santo ridesse di lui. Ridono di noi, in Paradiso? si chiese. Anche Santa Maisie di York — ricordati di lei, vecchio! — morì di un accesso di risa. Questo è diverso. Morì ridendo di se stessa. No, non è tanto diverso. Ulp! Di nuovo il singulto silenzioso. Giovedì è la festa di Santa Maisie. Il coro ride con reverenza all'Alleluia della sua Messa. "Alleluia ah ah! Alleluia oh oh!"
"Sancta Maisie, interride pro me".
E il re veniva per pesare i libri nel sotterraneo con le sue bilance alterate. Quanto alterate, Paulo? E cosa ti fa pensare che i Memorabilia siano completamente esenti da pappette edulcoranti? Persino il dotato e Venerabile Boedullus osservò ironicamente, una volta, che almeno metà dei Memorabilia avrebbero dovuto essere chiamati gli Inscrutabilia. Erano veramente frammenti tesaurizzati di una civiltà morta… ma quanto di essi era stato ridotto a balbettamenti incomprensibili, abbelliti di rami d'ulivo e di cherubini, da quaranta generazioni di monaci ignoranti, bambini dei secoli dell'oscurantismo cui gli adulti affidarono un messaggio incomprensibile, che doveva essere imparato a memoria e consegnato ad altri adulti…
L'ho costretto a venire fin qui da Texarkana, attraverso un cammino pericoloso, pensò Paulo. E adesso mi preoccupo perché ciò che noi abbiamo qui potrebbe rivelarsi privo di valore ai suoi occhi, ecco tutto.
Ma no, non era tutto. Guardò di nuovo il santo sorridente. E di nuovo: Vexilla regis inferni prodeunt… Avanzano le bandiere del Re dell'Inferno, sussurrò il ricordo di quel verso alterato di una antica commedia. Aleggiava nel suo pensiero come una melodia indesiderata.
Strinse più forte il pugno. Lasciò cadere il ventaglio e respirò fra i denti. Evitò di guardare di nuovo il santo. L'angelo spietato gli inferì di nuovo il colpo ardente nel suo midollo corporeo. Si piegò sulla scrivania. Era stato come se un filo ardente si fosse spezzato. Il suo respiro pesante ripulì un angoletto del piano della scrivania dal lieve strato di polvere del deserto che vi si era posata. L'odore della polvere era soffocante. La stanza divenne rosea, brulicante di moscerini neri. Non oso singultare, potrebbe spezzarsi qualcosa… ma per il Santo Patrono, devo farlo. È dolore. Ergo sum. Cristo, Dio Signore, accetta questo pegno.
Singulto; aveva un sapore di salato, in bocca. Lasciò cadere il capo sulla scrivania.
Il calice è qui, in questo momento, Signore, o posso attendere ancora? Ma la crocefissione è sempre in questo momento. Da prima di Abramo, è in questo momento. Sempre, perché chiunque, in qualunque modo, viene inchiodato alla croce e poi vi è sollevato, e se tu cedi ti batteranno a morte con un badile, quindi comportati con dignità, vecchio. Se sai vomitare con dignità potrai ascendere al cielo, se ti dispiace abbastanza di aver rovinato il tappeto… Si sentiva molto umile.
Attese, a lungo. Alcuni dei moscerini morirono e la stanza perdette il suo riflesso dorato, divenne grigia e nebbiosa.
Ebbene, Paulo, avremo un'emorragia, o ci limitiamo a immaginarla?
Filtrò lo sguardo attraverso la nebbia e ritrovò di nuovo il volto del santo. Era un sogghigno così lieve… triste, comprensivo… ed era anche qualcosa d'altro. Rideva del carnefice? No, rideva per il carnefice. Rideva dello Stultus Maximus, dello stesso Satana. Era la prima volta che lo capiva chiaramente. Nell'ultimo calice, poteva esservi una risata di trionfo. Hoec commixtio…
Improvvisamente sentì di avere molto sonno; il volto del santo ingrigì, ma l'abate continuò a sogghignare lievemente, in risposta.
Il Priore Gault lo trovò abbandonato sulla scrivania, poco prima dell'Ora Nona. Gli colava un filo di sangue, dai denti.
Il giovane prete gli tastò prontamente il polso. Don Paulo si svegliò all'improvviso, si raddrizzò sulla sedia e, come se stesse ancora sognando, pontificò imperiosamente. — Io vi dico, è tutto supremamente ridicolo! È assolutamente sciocco! Non potrebbe esservi nulla di più assurdo.
— Che cosa è assurdo, Domne?
L'abate scosse il capo, e batté parecchie volte le palpebre. — Cosa?
— Andrò subito a cercare frate Andrew.
— Oh? Questo è assurdo. Ritornate qui, immediatamente. Che cosa volevate?
— Niente, Padre Abate. Tornerò non appena avrò trovato frate…
— Oh, disturbare il medico! Non eravate venuto qui senza ragione. La mia porta era chiusa. Chiudetela di nuovo, sedetevi, ditemi che cosa volevate.
— L'esperimento ha avuto successo. La lampada di frate Kornhoer, voglio dire.
— Benissimo, sentiamo. Sedetevi, cominciate a parlare, ditemi tutto. — Si riassestò l'abito e si asciugò la bocca con un pezzo di lino. Era ancora stordito, ma il pugno nel suo ventre si era schiuso. Non avrebbe potuto provare un interesse minore per il racconto dell'esperimento, ma fece del suo meglio per mostrarsi attento. Devo tenerlo qui, finché sono ancora abbastanza sveglio per pensare. Non posso lasciarlo andare dal medico… non ancora. La notizia si spargerebbe: Il vecchio è finito. Devo decidere se è un momento sicuro o no per essere finito.
Hongan Os era, essenzialmente, un uomo giusto e di animo gentile. Quando vide un gruppo di suoi guerrieri che si divertivano con i prigionieri laredani, si fermò a guardare; ma quando quelli legarono per le caviglie tre laredani ai cavalli, e sferzarono le bestie per lanciarli al galoppo, Hongan Os decise di intervenire. Ordinò che i guerrieri venissero frustati, perché Hongan Os — Orso Pazzo — era conosciuto come un capitano misericordioso. Non aveva mai maltrattato un cavallo.
— Uccidere i prigionieri è un lavoro da femmina — grugnì rivolto ai colpevoli. — Purificatevi, se non volete essere additati come femmine, e ritiratevi dal campo fino alla Luna Nuova, perché siete banditi per dodici giorni. — E, in risposta ai gemiti di protesta: — Immaginate che i cavalli avessero trascinato uno dei prigionieri attraverso il campo. I capi dei mangiaerba sono nostri ospiti, ed è noto che si spaventano facilmente alla vista del sangue. Specialmente del sangue della loro razza. Tenetelo a mente.
— Ma questi sono mangiaerba del Sud — obiettò un guerriero, indicando i prigionieri mutilati. — I nostri ospiti sono mangiaerba dell'Est. Non c'è forse un patto fra noi, il vero popolo, e l'Est, per fare guerra al Sud?
— Se ne parli di nuovo, ti farò mozzare la lingua per darla in pasto ai cani! — l'ammonì Orso Pazzo. — Dimentica di aver mai sentito parlare di queste cose.
— I mangiatori d'erba rimarranno tra noi per molti giorni, o Figlio del Potente?
— Chi può sapere che cosa abbiano in mente quei contadini? — chiese di rimando Orso Pazzo. — Il loro pensiero non è il nostro pensiero. Dicono che alcuni di loro partiranno di qui per proseguire attraverso le Terre Aride… verso una località abitata da preti mangiaerba, da individui vestiti di tonache scure. Gli altri resteranno qui per parlare… ma ciò non è per le vostre orecchie. Adesso andatevene, e vergognatevi per dodici giorni.
Voltò loro le spalle, perché potessero scivolare via senza sentire il suo sguardo terribile. Negli ultimi tempi la disciplina si era allentata. I clan erano irrequieti. Si era risaputo fra il popolo delle Pianure che lui, Orso Pazzo, aveva stretto le mani, attraverso il fuoco del trattato, a un messaggero di Texarkana, e che uno sciamano aveva tagliato a entrambi le unghie e ciuffi di capelli per farne un feticcio della buonafede come difesa contro i possibili tradimenti da ambo le parti. Si era risaputo che era stato concluso un accordo, e qualunque accordo fra il vero popolo e i mangiaerba era considerato dalle tribù come motivo di vergogna. Orso Pazzo aveva sentito il sarcasmo velato dei guerrieri più giovani, ma non avrebbe dato loro alcuna spiegazione fino a che non fosse giunto il momento opportuno.
Orso Pazzo era disposto ad ascoltare ogni buon pensiero, anche se veniva da un cane. Il pensiero dei mangiaerba era buono solo raramente, ma era stato impressionato dai messaggi del re mangiaerba dell'Est, che aveva esposto i pregi della segretezza e aveva deplorato le inutili vanterie. Se i laredani avessero saputo che le tribù venivano armate da Hannegan, il piano sarebbe indubbiamente fallito. Orso Pazzo aveva meditato su quel pensiero; gli ripugnava… perché certamente era più soddisfacente e più virile dire al nemico che cosa avevi intenzione di fargli, prima di mettere in atto i tuoi propositi; eppure, più vi rifletteva, e più comprendeva la saggezza di quel pensiero. O il re mangiaerba era un codardo, oppure era saggio più di qualsiasi altro uomo: Orso Pazzo non aveva deciso quale delle due ipotesi fosse vera… ma giudicava saggio quel pensiero. La segretezza era importantissima, anche se per un certo tempo sembrava piuttosto femminile. Se il popolo di Orso Pazzo avesse saputo che le armi che gli giungevano erano i doni di Hannegan, e non le spoglie di scorrerie di confine, allora si sarebbe presentata la possibilità che anche Laredo venisse a conoscenza del piano dai prigionieri catturati durante le scorrerie. Di conseguenza, era necessario lasciare che le tribù brontolassero contro la vergogna di parlare di pace con gli agricoltori dell'Est.
Ma i discorsi non erano di pace. I discorsi erano buoni, promettevano bottino.
Poche settimane prima, lo stesso Orso Pazzo aveva guidato una "scorreria" all'Est, e ne era ritornato con cento cavalli, quattro dozzine di lunghi fucili, parecchi barili di polvere nera, molte munizioni e un prigioniero. Ma neppure i guerrieri che l'avevano accompagnato sapevano che il deposito di armi era stato messo lì apposta per lui dagli uomini di Hannegan, e che il prigioniero era in realtà un ufficiale della cavalleria di Texarkana che in avvenire avrebbe consigliato Orso Pazzo circa le possibili tattiche usate dai laredani durante i futuri combattimenti. Il pensiero dei mangiaerba era privo di vergogna, ma il pensiero dell'ufficiale poteva sondare quello dei mangiaerba del Sud; non poteva sondare invece quello di Hongan Os.
Orso Pazzo era comprensibilmente orgoglioso delle sue capacità di negoziatore. Non aveva promesso niente, se non di non fare guerra a Texarkana e di smettere di rubare il bestiame ai confini orientali, ma soltanto finché Hannegan lo riforniva di armi e di munizioni. L'accordo di guerra contro Laredo era un accordo tacito, ma corrispondeva alle naturali inclinazioni di Orso Pazzo, e non c'era bisogno, quindi, di un patto formale. L'alleanza con uno dei suoi nemici gli avrebbe permesso di liquidare un avversario alla volta, e alla fine avrebbe potuto riconquistare le terre che gli agricoltori avevano occupato e colonizzato durante il secolo precedente.
Era caduta la notte quando il capo dei clan entrò a cavallo nell'accampamento: il freddo era sceso sulle Pianure. I suoi ospiti venuti dall'Est sedevano raggomitolati nelle loro coperte attorno al fuoco del consiglio insieme a tre anziani, mentre la solita cerchia di bambini curiosi si stringeva nell'ombra circostante e sbirciava gli stranieri al di sotto dei lembi delle tende. C'erano in tutto dodici stranieri, ma erano separati in due gruppi distinti che avevano viaggiato insieme ma che mostravano di tenere ben poco l'uno alla compagnia dell'altro.
Il capo di uno dei due gruppi era evidentemente un pazzo. Hongan Os non aveva obiezioni contro la pazzia (in realtà, era considerato dai suoi sciamani come l'uomo che era visitato dal soprannaturale più frequentemente d'ogni altro) ma non aveva mai saputo che anche gli agricoltori considerassero la follia come una virtù, in un loro capo. Ma quest'uomo trascorreva metà del tempo a scavare la terra lungo il letto del fiume disseccato, e l'altra metà a scribacchiare misteriosamente su un libriccino. Era evidentemente uno stregone, e probabilmente era meglio non fidarsi di lui.
Orso Pazzo si fermò soltanto per il tempo necessario a indossare le sue pelli di lupo da cerimonia e a permettere a uno sciamano di dipingergli sulla fronte il segno del totem, prima di unirsi al gruppo attorno al fuoco.
— Tremate! - gemette ritualmente un vecchio guerriero, mentre il capo dei clan si mostrava nel riverbero del fuoco. — Tremate, perché il Potente cammina fra i suoi figli. Tremate, o clan, perché il suo nome è Orso Pazzo… un nome ben meritato, perché da giovane lui vinse senza armi un orso impazzito, e con le mani nude lo strangolò, lassù nelle terre del Nord…
Hongan Os ignorò gli elogi ed accettò una coppa di sangue dalla vecchia donna che serviva il fuoco del consiglio. Era stato raccolto di fresco da un giovane bue appena macellato e ancora caldo. Vuotò la coppa prima di voltarsi per fare un cenno con il capo agli orientali, che osservavano la breve cerimonia con evidente inquietudine.
— Aah! - disse il capo dei clan.
— Aah! - risposero i tre anziani, insieme a un mangiaerba che osò fare eco. I membri dei clan guardarono il mangiaerba per un attimo, disgustati.
Il pazzo tentò di coprire la goffaggine del suo compagno.
— Dimmi — disse il pazzo, quando il capitano si fu seduto — come mai il tuo popolo non beve acqua? I vostri dèi lo proibiscono?
— Chi sa che cosa bevono gli dèi? — ruggì Orso Pazzo. — Si dice che l'acqua è per il bestiame e per gli agricoltori, il latte è per i bambini e il sangue è per gli uomini. Dovrebbe essere altrimenti?
Il pazzo non si sentì insultato. Osservò per un attimo il capo con gli intenti occhi grigi, poi fece un cenno a uno dei suoi compagni. — Quella frase, "l'acqua è per il bestiame", spiega tutto — disse. — L'eterna siccità, in queste zone. Un popolo di allevatori conserva per il bestiame quel po' d'acqua che c'è. Mi domando se hanno rafforzato questa convinzione con un tabù religioso.
Il suo compagno fece una smorfia e parlò in lingua texarkana. — Acqua! Per gli dèi, perché noi non possiamo bere acqua, Thon Taddeo? Mi sembra che stiamo diventando troppo conformisti! — E sputò. — Sangue! Bah! Si attacca in gola. Perché non possiamo bere un sorso…
— No, fino a che non partiamo!
— Ma, Thon…
— No! — scattò lo studioso; poi, osservando che gli uomini dei clan li fissavano corrucciati, parlò di nuovo a Orso Pazzo nella lingua delle Pianure. — Il mio compagno stava parlando della vigoria e della salute del tuo popolo — disse. — Forse è merito della vostra dieta.
— Ah! — latrò il capo, ma poi gridò quasi allegramente alla vecchia: — Dai a quel forestiero una coppa di rosso.
Il compagno di Thon Taddeo rabbrividì, ma non protestò.
— O Capo, io ho una richiesta da rivolgere alla tua grandezza — disse lo studioso. — Domani noi proseguiremo il viaggio verso occidente. Se qualcuno dei tuoi guerrieri potesse accompagnare la nostra comitiva, ci sentiremmo onorati.
— Perché?
Il Thon Taddeo fece una pausa. — Ecco… potrebbero guidarci… — Si interruppe, e improvvisamente sorrise. — No, sarò del tutto sincero. Alcuni, tra la tua gente, disapprovano la nostra presenza qui. Mentre la tua ospitalità è stata…
Hongan Os rovesciò la testa all'indietro e ruggì una risata. — Hanno paura dei clan minori — disse agli anziani. — Temono di cadere in un'imboscata non appena lasceranno le mie tende. Mangiano erba ed hanno paura di un combattimento!
Lo studioso arrossì lievemente.
— Non aver paura, forestiero! — ridacchiò il capo dei clan. — Vi accompagneranno dei veri uomini.
Il Thon Taddeo chinò il capo, con ironica gratitudine.
— Dimmi — fece Orso Pazzo — cos'è che vai a cercare nelle Terre Aride occidentali? Nuovi posti da trasformare in campi? Posso dirti che non ve ne sono. Se eccettui le zone vicine ai pochi pozzi d'acqua, non cresce niente che il bestiame voglia mangiare.
— Non cerchiamo nuove terre — rispose il visitatore. — Non tutti siamo agricoltori, lo sai. Noi andiamo alla ricerca… — Si interruppe. Nel linguaggio dei nomadi, non c'era modo di spiegare lo scopo del viaggio all'Abbazia di San Leibowitz. — …alla ricerca del segreto di un antico sortilegio.
Uno degli anziani, uno sciamano, drizzò le orecchie. — Un antico sortilegio, nell'Ovest? Non mi risulta che vi siano maghi, laggiù. O forse vuoi parlare degli uomini vestiti di tonache scure?
— Infatti.
— Ah! Quale magia possiedono, che sia degna di essere cercata? I loro messaggeri possono essere catturati così facilmente che non è neppure divertente… sebbene sopportino bene la tortura. Che sortilegio puoi imparare da loro?
— Ecco, da parte mia sono d'accordo con te — disse il Thon Taddeo. — Ma si dice che alcuni scritti, ehm, alcuni incantesimi di grande potenza siano custoditi in uno dei loro nascondigli. Se questo è vero, allora è evidente che gli uomini dalle tuniche scure non sanno come usarli, ma noi speriamo di potercene impadronire e di usarli per nostro beneficio.
— E le tuniche scure ti permetteranno di osservare i loro segreti?
Il Thon Taddeo sorrise. — Credo di sì. Non osano più nasconderli. E noi potremmo prenderli, se fosse necessario.
— Parole coraggiose — ringhiò Orso Pazzo. — È chiaro che gli agricoltori sono più coraggiosi, con quelli della loro specie… anche se sono molto mansueti fra i veri uomini.
Lo studioso, che aveva trangugiato la sua parte di insulti del nomade, decise di ritirarsi presto.
I guerrieri rimasero attorno al fuoco del consiglio per discutere con Hongan Os la guerra che era certo imminente; ma la guerra, dopotutto, non riguardava il Thon Taddeo.
Le aspirazioni politiche del suo ignorante cugino erano ben lontane dal suo interesse per una rinascita del sapere in un mondo buio, salvo quando la protezione del monarca si rivelava utile, come era già avvenuto in diverse occasioni.
Il vecchio eremita stava sull'orlo della mesa e osservava l'avvicinarsi del punto di polvere attraverso il deserto. L'eremita masticava, mormorava parole e ridacchiava silenzioso nel vento. La sua pelle grinzosa era bruciata dal sole, e aveva assunto il colore del vecchio cuoio, la sua barba ispida era macchiata di giallo, attorno al mento. Portava in testa un cappellaccio e, avvolto ai fianchi, un pezzo di tela rozzamente tessuta a mano che sembrava tela da sacco… e quelli erano i suoi soli indumenti, a eccezione dei sandali e di un otre di pelle di capra.
Seguì con lo sguardo la macchiolina di polvere fino a che quella non attraversò il villaggio di Sanly Bowitts e si avviò per la strada che conduceva oltre la mesa.
— Ah! — sbuffò l'eremita, mentre gli occhi si accendevano. — Il suo impero sarà ingrandito, e non vi sarà mai fine alla sua pace; lui siederà sopra il suo regno.
Improvvisamente cominciò a scendere il letto inaridito del fiume come un gatto a tre zampe, appoggiandosi al bastone, saltando da una pietra all'altra e sdrucciolando. La polvere sollevata dalla sua rapida discesa si alzò nel vento e si sparse, in lontananza.
Ai piedi della mesa scomparve nel labirinto e sedette, in attesa. Ben presto sentì che il cavaliere si avvicinava a un trotto moderato, e cominciò a spingersi verso la strada per guardare tra gli arbusti. Il cavallo apparve, oltre la curva, avvolto in un sottile pulviscolo. L'eremita balzò sul sentiero e alzò le braccia.
— Ollallà! — gridò; e quando il cavaliere si fermò, sfrecciò avanti per afferrare le redini e per guardare ansiosamente l'uomo che stava in sella.
I suoi occhi lampeggiarono per un attimo. — Perché ci è nato un bambino, e ci è dato un Figlio… — Ma poi l'espressione ansiosa sfumò in tristezza. — Non è Lui! — brontolò irritato, rivolto al cielo.
Il cavaliere aveva gettato all'indietro il cappuccio e stava ridendo. L'eremita lo guardò irritato, per un momento, battendo le palpebre. Poi lo riconobbe.
— Oh! — grugnì. — Tu! Pensavo che fossi morto, ormai! Che cosa stai facendo, qui?
— Ti ho riportato la tua fuggitiva, Benjamin — disse Don Paulo. Tirò un guinzaglio, e la capra dalla testa azzurra avanzò trotterellando da dietro il cavallo. Belò e tirò la corda, non appena vide l'eremita. — E… ho pensato di farti visita.
— Quell'animale è del Poeta — grugnì l'eremita. — L'ha vinta onestamente in un gioco d'azzardo… sebbene barasse come un miserabile. Riportala a lui, e permettimi di consigliarti di non immischiarti in queste faccende mondane che non ti riguardano. Buongiorno. — E si voltò verso il fiume inaridito.
— Aspetta, Benjamin. Prendi la tua capra, o la darò a un contadino. Non voglio che se ne vada in giro per l'abbazia e vada a belare in chiesa.
— Non è una capra — disse di rimando l'eremita. — È la Bestia che vide il tuo profeta, ed è stata creata perché una donna la cavalcasse. Ti consiglio di maledirla e di cacciarla nel deserto. Noterai, comunque, che ha lo zoccolo fesso e che rumina. — E fece di nuovo per allontanarsi.
Il sorriso dell'abate si spense. — Benjamin, hai veramente intenzione di risalire su quella collina senza neppure dire "salve" a un vecchio amico?
— Salve — gridò il Vecchio Ebreo, e proseguì indignato la sua marcia. Dopo pochi passi si fermò e si voltò indietro. — Non è necessario che ti mostri così offeso — disse. — Sono passati cinque anni da quando ti sei disturbato a venire qui per l'ultima volta, "vecchio amico". Ah!
— Dunque è così! — mormorò l'abate. Smontò di sella e rincorse il Vecchio Ebreo. — Benjamin, Benjamin, avrei voluto venire… ma non ho potuto.
L'eremita si fermò. — Ecco, Paulo, visto che sei qui…
Improvvisamente scoppiarono a ridere e si abbracciarono.
— Va bene, vecchio brontolone — disse l'eremita.
— Io sarei un brontolone?
— Bene, anch'io sto diventando bisbetico, credo. L'ultimo secolo è stato molto duro, per me.
— Ho sentito che getti pietre contro i novizi che vengono in questa zona per il digiuno quaresimale nel deserto. È vero? — E guardò l'eremita con ironico rimprovero.
— Getto soltanto ciottoli.
— Miserabile Vecchio Ebreo!
— Suvvia, suvvia, Paulo. Uno di loro, una volta mi scambiò per un mio lontano parente… che si chiamava Leibowitz. Credeva che fossi stato mandato per portargli un messaggio… o qualcuno dei vostri buoni a nulla lo credette. Non voglio che questo accada di nuovo, quindi getto ciottoli contro i novizi, qualche volta. Ah! Non voglio più essere scambiato per quel mio parente, perché lui non appartiene più alla mia famiglia.
Il prete assunse un'espressione perplessa. — Ti scambiò per chi? Per San Leibowitz? Suvvia, Benjamin! Stai andando troppo oltre!
Benjamin ripeté la frase in una cantilena ironica: — Mi scambiò per un mio lontano parente… che si chiamava Leibowitz, quindi adesso getto ciottoli contro i novizi.
Don Paulo era molto perplesso. — San Leibowitz è morto da dodici secoli. Come poteva… — Si interruppe e guardò fisso il vecchio eremita. — Suvvia, Benjamin, non ricominciamo con quella favola. Tu non puoi avere milleduecento…
— Sciocchezze! — interruppe il Vecchio Ebreo. — Non ho detto che questo accadde dodici secoli fa. Fu soltanto sei secoli fa. Molto tempo dopo la morte del tuo santo; ecco perché è stato così assurdo. Naturalmente, i vostri novizi erano molto più devoti, a quei tempi, e più creduli. Credo che quello si chiamasse Francis. Poveraccio. Fui io a seppellirlo, più tardi. E dissi a quelli di Nuova Roma dove dovevano scavare, se volevano trovarlo. Ecco in che modo avete riavuto la sua carcassa.
L'abate fissò il vecchio a bocca spalancata, mentre si dirigevano verso il pozzo, guidando il cavallo e la capra. Francis? si chiese. Francis. Poteva essere il Venerabile Francis Gerard dello Utah, forse… al quale un pellegrino aveva rivelato un tempo l'ubicazione dell'antico rifugio nel villaggio, così affermava la storia… ma questo era avvenuto prima che lì sorgesse il villaggio. E circa sei secoli prima, sì, e… e adesso quel vecchio imbroglione sosteneva di essere stato lui, quel pellegrino? Qualche volta si chiedeva dove mai Benjamin avesse attinto una sufficiente conoscenza della storia dell'abbazia per inventarsi simili fole. Forse dal Poeta.
— Questo, naturalmente, fu durante la mia precedente carriera — proseguì il Vecchio Ebreo. — E forse quell'errore era comprensibile.
— Precedente carriera?
— Vagabondo.
— E come puoi pretendere che io creda a queste sciocchezze?
— Hmmm-hnnn! Il Poeta mi crede.
— Senza dubbio! Il Poeta non crederebbe mai che il Venerabile Francis abbia incontrato un santo. Questo sarebbe superstizione. Il Poeta preferirebbe credere che abbia incontrato te… sei secoli fa… Una spiegazione del tutto naturale, eh?
Benjamin ridacchiò, maliziosamente. Paulo lo guardò abbassare nel pozzo una logora tazza di corteccia, vuotarla nell'otre, e riabbassarla di nuovo. L'acqua era torbida e brulicante di cose vive e piuttosto incerte, come lo era il flusso dei ricordi del Vecchio Ebreo. Ma la sua memoria era veramente incerta? O si prende gioco di tutti noi?, si chiese il prete. A parte la sua illusione di essere più vecchio di Matusalemme, il vecchio Benjamin Eleazar sembrava abbastanza sano di mente, in quel suo modo bizzarro e malizioso.
— Vuoi bere? — offrì l'eremita, tendendogli la tazza.
L'abate represse un brivido, ma accettò la tazza, per non offenderlo, inghiottì in un solo sorso il liquido fangoso. — Non sei molto schizzinoso, vero? — disse Benjamin, osservandolo con aria critica. — Io non lo toccherei. — E batté una mano sull'otre. — La tengo per gli animali.
L'abate si morse le labbra.
— Sei cambiato — disse Banjamin, continuando a osservarlo. — Sei pallido come il formaggio, e sciupato.
— Sono stato malato.
— Sembri malato anche adesso. Vieni alla mia baracca, se salire non ti stanca troppo.
— Mi sentirò subito meglio. Ho avuto un piccolo disturbo, l'altro giorno, e il nostro medico mi ha ordinato di riposare. Puah! Se non stesse per arrivare un ospite importante, non vi farei caso. Ma sta per arrivare, quindi mi riposo. È molto noioso, riposarsi.
Benjamin si voltò a guardarlo con un sogghigno mentre risalivano il letto del fiume. Poi scosse la testa grigia. — Cavalcare per quindici chilometri nel deserto riposante?
— Per me è un riposo. E poi volevo vederti, Benjamin.
— Che cosa diranno gli abitanti del villaggio? — chiese in tono canzonatorio il Vecchio Ebreo. — Penseranno che ci siamo riconciliati, e questo rovinerà la reputazione di entrambi.
— La nostra reputazione non è mai stata molto quotata sul mercato, non è così?
— È vero — ammise, ma aggiunse enigmaticamente: — per il momento.
— Stai ancora aspettando, Vecchio Ebreo?
— Certamente! — insorse l'eremita.
La salita stancò l'abate. Per due volte si fermarono a riposare. Prima che raggiungessero il piccolo altipiano, Don Paulo fu in preda alle vertigini e si appoggiò al magrissimo eremita. Un fuoco gli bruciava nel petto, mettendolo in guardia contro ogni ulteriore sforzo, ma non c'era traccia della stretta irosa che l'aveva aggredito altre volte.
Un gregge di capre mutanti dalla testa azzurra si sparpagliò all'avvicinarsi del forestiero e fuggì nel labirinto. Stranamente, la mesa sembrava più verdeggiante del deserto che la circondava, sebbene non vi fosse alcuna sorta visibile di umidità.
— Da questa parte, Paulo. Alla mia magione.
La casa del Vecchio Ebreo era una sola stanza, priva di finestre e dai muri di pietra, in cui i sassi erano radi come in una staccionata, con ampi varchi attraverso i quali poteva soffiare il vento. Il tetto era un fragile intreccio di pali, quasi tutti contorti, coperto da un mucchio di paglia, di arbusti e di pelli di capra. Su una grande pietra piatta, posata su una corta colonna accanto alla porta, c'era una scritta in ebraico:
Le dimensioni dell'insegna e il suo apparente tentativo pubblicitario fecero sogghignare Don Paulo, che domandò: — Cosa significa, Benjamin? Attira molti clienti, quassù?
— Ah!… Cosa dovrebbe significare? Dice: Qui Si Riparano Tende.
Il prete sbuffò, incredulo.
— Benissimo, dubita pure di me. Ma se non credi a ciò che è scritto lì, non potrai credere certamente a ciò che è scritto sull'altro lato dell'insegna.
— Il lato verso il muro?
— Certo, e quale se no?
La colonna era posta vicino alla soglia, così che v'erano soltanto pochi centimetri di spazio libero fra la pietra piatta e il muro della capanna. Paulo si piegò e strinse gli occhi per aguzzare la vista. Gli occorse un po' di tempo per distinguere la scritta, ma senza dubbio c'era scritto qualcosa, sul tergo della pietra, in lettere più piccole:
— Non giri mai la pietra?
— Girarla? Credi che io sia pazzo? In tempi come questi?
— Che cosa dice, lì dietro?
— Hmmm-hnnn! — cantilenò l'eremita, rifiutando di rispondere. — Ma fatti più vicino, non puoi leggere in quel modo.
— C'è il muro che me lo impedisce.
— Non è sempre stato così, forse?
Il prete sospirò. — Sta bene, Benjamin, so che è ciò che hai avuto l'ordine di scrivere all'ingresso e sulla porta della tua casa. Ma soltanto tu potevi pensare di mettere quella scritta a faccia in giù.
— Con la faccia verso l'interno — corresse l'eremita. — Finché vi sono tende da riparare, in Israele… ma non cominciamo a punzecchiarci, finché non ti sarai riposato. Ti porterò un po' di latte, e tu mi dirai del visitatore che ti preoccupa.
— C'è del vino nella mia borsa, se ne vuoi — disse l'abate, lasciandosi cadere, con sollievo, su un mucchio di pelli. — Ma preferirei non parlare del Thon Taddeo.
— Oh! Lui!
— Hai sentito parlare del Thon Taddeo? Dimmi, come mai tu riesci sempre a conoscere tutto e tutti senza allontanarti da questa collina?
— Io vedo e sento — disse enigmatico l'eremita.
— Dimmi cosa ne pensi di lui?
— Non l'ho mai visto. Ma credo che sarà un dolore. Un dolore di parto, forse, ma un dolore.
— Dolore di parto? Credi davvero che avremo un nuovo Rinascimento, come afferma qualcuno?
— Hmmm-hnnn.
— Smettila di fare il misterioso, Vecchio Ebreo, e dimmi la tua opinione. Devi averne una. L'hai sempre. Perché è così difficile ottenere la tua confidenza? Non siamo amici, forse?
— In certi campi, in certi campi. Ma tra me e te vi sono alcune differenze di idee.
— E cos'hanno a che vedere le nostre differenze di idee con il Thon Taddeo e con un Rinascimento che entrambi vorremmo vedere? Il Thon Taddeo è uno studioso secolare, e piuttosto lontano dalle nostre differenze di idee.
Benjamin scrollò eloquentemente le spalle. — Differenze di idee, studiosi secolari — echeggiò, sputando le parole come se fossero semi di mela. — Anch'io sono stato definito uno studioso secolare in varie epoche, da certa gente, e qualche volta sono stato arso vivo, lapidato e impalato, per questo.
— Ma tu non sei mai… — Il prete si interruppe, corrugando severamente la fronte. Ancora quella pazzia. Benjamin lo fissava sospettoso, e il suo sorriso era diventato freddo. Adesso, pensò l'abate, mi guarda come se io fossi uno di Loro… chiunque siano stati quei "Loro" senza forma che lo hanno spinto qui, in solitudine. Arso vivo, lapidato e impalato? O il suo "io" significava "noi", come nella frase "io, il mio popolo"?
— Benjamin… io sono Paulo. Torquemada è morto. Io nacqui settanta e più anni or sono. E presto morirò. Ti ho voluto bene, vecchio, e quando tu mi guardi, vorrei che vedessi Paulo del Pecos e niente altro.
Benjamin ondeggiò, per un momento. Gli occhi gli si inumidirono. — Qualche volta… dimentico…
— E qualche volta dimentichi che Benjamin è soltanto Benjamin, e non tutto Israele.
— Mai — scattò l'eremita, con gli occhi che lampeggiavano di nuovo. — Da trentadue secoli, io… — Si interruppe e serrò strettamente le labbra.
— Perché? — sussurrò l'abate, quasi intimorito. — Perché prendi su te solo il fardello di un intero popolo e del suo passato?
Gli occhi dell'eremita lampeggiarono un breve avvertimento; ma poi deglutì, con un suono gutturale e si nascose la faccia fra le mani. — Tu peschi in acque cupe.
— Perdonami.
— Il fardello… mi è stato imposto da altri. — E alzò il capo, lentamente. — Dovrei rifiutare di portarlo?
Il prete trattenne il respiro. Per qualche tempo non si udì altro suono che il rumore del vento. C'era un tocco di divinità in quella follia! pensò Don Paulo. La comunità ebrea era molto dispersa, in quei tempi. Forse Benjamin era sopravvissuto ai suoi figli, ed era diventato, in qualche modo, uno sbandato. Un vecchio israelita poteva vagabondare per anni senza incontrare altri della sua razza. Forse, nella sua solitudine, aveva acquisito la silenziosa convinzione che lui era l'ultimo, l'uno, il solo. Ed essendo l'ultimo, aveva cessato di essere Benjamin, ed era diventato Israele. E sul suo cuore aveva fondato la storia di cinquemila anni, non più remota, ma divenuta la storia della sua stessa vita. Il suo "io" era l'equivalente del "noi" imperiale.
Ma anch'io sono un membro di una unicità, pensò Don Paulo, una parte di una congregazione e di una comunità. Anche i miei sono stati disprezzati dal mondo. Eppure per me la distinzione fra l'individuo e la nazione è chiara. Per te, vecchio amico, in un certo senso è diventata oscura. Un fardello imposto sulle tue spalle, da altri? E tu lo hai accettato? Quanto deve pesare? Quanto peserebbe, per me? Vi mise sotto le spalle e tentò di sollevarlo, per saggiarne la massa: io sono un monaco e un sacerdote cristiano, e perciò sono responsabile davanti a Dio delle azioni e dei gesti di ogni monaco e di ogni sacerdote che ha respirato ed ha camminato sulla Terra dopo Cristo, come lo sono dei miei stessi atti.
Rabbrividì, cominciò a scuotere il capo.
No, no. Quel fardello spezzava la spina dorsale. Era troppo pesante perché un uomo potesse portarlo, ad eccezione di Cristo. Essere maledetto per una fede era già un fardello abbastanza grave. Sopportare le maledizioni era possibile, ma allora… accettare l'illogicità che stava dietro quelle maledizioni, l'illogicità che chiamava un individuo a rispondere non solo per se stesso ma anche per ogni membro della sua razza o della sua fede, per ogni loro azione come delle sue stesse azioni? Accettare anche questo?… come stava tentando di fare Benjamin?
No, no.
Eppure, la Fede di Don Paulo gli diceva che c'era quel fardello, c'era sempre stato fino dal tempo di Adamo… e quel fardello era imposto da un malvagio che gridava beffardamente "Uomo!" all'uomo. "Uomo!" e chiamava ciascuno a rendere conto delle azioni di tutti, fino dal principio; un fardello imposto a ogni generazione prima ancora che uscisse dal grembo materno, il fardello della colpa del peccato originale. Lascia che gli sciocchi ne discutano. Gli stessi sciocchi accettavano con grande orgoglio l'altra eredità… l'eredità di una gloria, di una virtù, di un trionfo, di una dignità ancestrale che li rendevano "coraggiosi e nobili in virtù del diritto di nascita", senza protestare che, personalmente, non avevano fatto nulla per meritare quell'eredità, oltre ad essere nati dalla razza dell'Uomo. Le proteste erano riservate per il fardello ereditario che li rendeva "colpevoli e fuorilegge per diritto di nascita", e contro quel verdetto si sforzavano di chiudersi le orecchie. Quel fardello, in verità, era pesante. E la sua stessa Fede gli diceva che quel fardello gli era stato tolto dalle spalle ad opera di Uno la cui immagine pendeva da una croce sugli altari, sebbene l'impronta di quel fardello fosse ancora lì. Quell'impronta era un giogo molto leggero, paragonato al peso pieno della maledizione originale. Non riusciva a indursi a dirlo al vecchio, poiché il vecchio sapeva già che lui lo credeva. Benjamin stava cercando Un Altro. E l'ultimo Vecchio Ebreo sedeva solo su di una montagna e faceva penitenza per Israele e aspettava il Messia, e aspettava, e aspettava, e…
— Dio ti benedica perché sei un pazzo coraggioso. E anche un pazzo molto saggio.
— Hmmm-hnnn! Un pazzo molto saggio! — lo scimmiottò l'eremita. — Ma tu ti specializzi sempre in paradossi e misteri, non è vero, Paulo? Se qualcosa non può essere in contraddizione con se stessa, allora non ti interessa neppure, non è così? Tu devi trovare la Trinità nell'Unità, la vita nella morte, la saggezza nella follia. Altrimenti basterebbe il senso comune!
— Sentire la responsabilità è saggezza, Benjamin. Pensare di poterla sopportare da solo è follia.
— Non pazzia?
— Un po', forse. Ma una pazzia coraggiosa.
— E allora ti rivelerò un piccolo segreto. Ho sempre saputo che non posso sopportarla, fin da quando Lui mi resuscitò. Ma stiamo parlando della stessa cosa?
Il prete alzò le spalle. — Tu lo chiameresti il peso di essere Eletto. Io lo chiamerei il fardello della Colpa Originale. In ogni caso, la responsabilità sottointesa è la stessa, sebbene noi possiamo darne differenti versioni, e possiamo discutere con parole violente di ciò che noi intendiamo dire con le parole e che non può essere affatto spiegato con le parole… poiché è qualcosa che può essere soltanto nel silenzio mortale di un cuore.
Benjamin ridacchiò. — Bene, sono contento di sentirtelo ammettere, finalmente, anche se tutto ciò che dici è che in realtà tu non hai mai detto niente.
— Smettila di sghignazzare, reprobo!
— Ma voi avete sempre usato parole così verbose in abile difesa della vostra Trinità, anche se Lui non ha mai avuto bisogno di una simile difesa, prima che Lo prendeste da me, come Unità. Eh?
Il prete arrossì, ma non disse nulla.
— Ecco! — gridò Benjamin, saltando su e giù. — Ti ho messo voglia di discutere, per una volta! Ah! Ma non badarci! Anch'io mi servo di molte parole, però non sono mai sicuro che io e Lui vogliamo dire la stessa cosa. Suppongo che non vi si possa biasimare: deve essere molto più complicato con Tre che con Uno.
— Vecchio cactus bestemmiatore! Io volevo conoscere la tua opinione sul Thon Taddeo e su ciò che sta bollendo in pentola.
— E perché cerchi l'opinione d'un povero anacoreta?
— Perché, Benjamin Eleazar bar Joshua, se tutti questi anni di attesa per Colui Che Non Verrà non ti hanno insegnato la saggezza, per lo meno ti hanno reso acuto.
Il Vecchio Ebreo chiuse gli occhi, levò il volto al soffitto, e sorrise, astutamente. — Insultami — disse in tono beffardo — imprigionami, tormentami, perseguitami… ma sai ciò che ti dirò?
— Dirai "Hmmm-hnnn!".
— No! Ti dirò che Lui è già qui. Una volta io l'ho perfino veduto.
— Cosa? Di chi stai parlando? Del Thon Taddeo?
— No! Inoltre, non ci tengo a profetizzare, a meno che tu non mi dica che cosa ti turba veramente, Paulo.
— Bene, tutto è cominciato con la lampada di frate Kornhoer.
— Lampada? Oh, sì, il Poeta me ne ha parlato. Aveva profetizzato che non avrebbe funzionato.
— Il Poeta si sbagliava, come al solito. Così mi hanno detto. Non ho assistito all'esperimento.
— Allora ha funzionato? Splendido. E questo a cosa ha dato inizio?
— Ai miei problemi. Quanto siamo vicini all'orlo di qualche cosa? O quanto siamo vicino alla riva? Essenze Elettriche nel sotterraneo. Ti rendi conto di quante cose sono cambiate in questi ultimi due secoli?
Rapidamente, il prete espose i suoi timori, mentre l'eremita riparatore di tende ascoltava pazientemente, fino a che il sole cominciò a filtrare tra le aperture del muro occidentale, dipingendo strisce lucenti nell'aria polverosa.
— Dalla morte dell'ultima civiltà, i Memorabilia sono stati un nostro speciale dominio, Benjamin. E noi li abbiamo serbati. Ma ora? Io penso al calzolaio che tenta di vendere scarpe in un villaggio di calzolai.
L'eremita sorrise. — Sarebbe possibile, se sa fabbricare un tipo di scarpa speciale e superiore.
— Temo che gli studiosi secolari stiano già cominciando ad avanzare pretese su questo metodo.
— E allora abbandona la fabbricazione di scarpe, prima di andare in rovina.
— È una possibilità — ammise l'abate. — È spiacevole, comunque. Per dodici secoli, noi siamo stati un'isoletta in un oceano di tenebre. Conservare i Memorabilia è stato un compito ingrato, ma anche un compito santo, noi pensiamo. È soltanto il nostro compito mondano, ma noi siamo sempre stati contrabbandieri di libri e memorizzatori, e non è facile credere che questo compito sarà presto finito… che ben presto cesserà di essere necessario. Non posso crederlo.
— Così cerchi di superare gli altri "calzolai" costruendo strani trabiccoli nei tuoi sotterranei?
— Devo ammettere che può sembrare…
— E cosa farete, poi, per mantenere un vantaggio sui secolari? Costruirete una macchina volante? E ricreerete la Machina analytica? O forse passerete sulle loro teste e vi dedicherete alla metafisica?
— Tu vuoi svergognarmi, Vecchio Ebreo. Sai che noi siamo per prima cosa monaci di Cristo, e spetta agli altri fare queste cose.
— Non volevo svergognarti. Non vedo niente di assurdo, se i monaci di Cristo costruiscono una macchina volante; anche se sarebbe più confacente ai loro principi costruire invece una macchina per pregare.
— Disgraziato! Rendo un pessimo servizio al mio Ordine confidandomi con te!
Benjamin sorrise. — Non provo comprensione per voi. I libri che avete serbato possono essere carichi di anni, ma furono scritti da figli del mondo e vi saranno tolti da figli del mondo, e tanto per cominciare, non toccava a voi occuparvi di questo.
— Ah, adesso ti fa piacere profetizzare!
— No, affatto. "Presto il sole tramonterà…" è una profezia? No, è puramente un'affermazione di fede nella consistenza degli eventi. Anche i figli del mondo sono consistenti… così io dico che vi prenderanno tutto ciò che potrete offrire, vi porteranno via il vostro lavoro, e poi vi accuseranno di essere vecchi ruderi. E, alla fine, si dimenticheranno completamente di voi. È colpa vostra. Il Libro che io vi diedi avrebbe dovuto essere sufficiente, per voi. Ora dovrete affrontare le conseguenze del vostro comportamento.
Aveva parlato in tono pungente, ma la sua predizione sembrava vicina, in modo inquietante, ai timori di Don Paulo. Il viso del prete assunse un'espressione triste.
— Non badare a ciò che dico — dichiarò l'eremita. — Non mi azzarderò a fare il profeta prima di aver visto quel vostro ordigno, o di aver dato un'occhiata a questo Thon Taddeo… che comincia a interessarmi, fra l'altro. Aspetta fino a che non avrò esaminato le viscere della nuova epoca nei minimi particolari, se pretendi di ottenere qualche consiglio da me.
— Già, non vedrai quella lampada perché non verrai mai nell'abbazia.
— È la vostra abominevole cucina che non mi va.
— E non vedrai il Thon Taddeo perché verrà dall'altra direzione. Se aspetterai, per esaminare le viscere della nuova epoca fino a che questa sarà nata, sarà troppo tardi per profetizzare la sua nascita.
— Sciocchezze. Sondare l'utero del futuro è dannoso per il nascituro. Aspetterò… e poi potrò profetizzare che è nato e che non era ciò che io aspettavo.
— Che allegra prospettiva! Dunque, che cosa stai aspettando?
— Qualcuno che un tempo mi gridò…
— Gridò?
— "Vieni fuori!"
— Che abominio!
— Hmmm-hnnn! Per dirti la verità, non sono assolutamente convinto che Lui verrà, ma mi è stato detto di aspettare e… — alzò le spalle — …e io aspetto.
Dopo un attimo i suoi occhi ammiccanti si socchiusero fino a diventare due fessure; si piegò in avanti, con improvvisa impazienza. — Paulo, fa' passare questo Thon Taddeo davanti ai piedi della mesa.
L'abate si ritrasse, con orrore scherzoso. — Abbordatore di pellegrini! Molestatore di novizi! Ti manderò il Poeta… e possa lui scendere su te e rimanervi per sempre. Condurre il thon davanti alla tua tana! Che oltraggio.
Benjamin tornò ad alzare le spalle. — Benissimo. Dimentica la mia richiesta. Ma speriamo che il thon sia dalla nostra parte, e non con gli altri, questa volta.
— Gli altri, Banjamin?
— Manasse, Ciro, Nabucodonosor, il Faraone, Cesare, Hannegan secondo… è necessario che continui? Samuele ci mise in guardia contro di loro, poi ce ne diede uno. Quando hanno qualche uomo saggio al fianco che li consiglia, diventano più pericolosi che mai. Questo è il solo consiglio che ti darò.
— Bene, Benjamin, ne ho avuto abbastanza di te, adesso, per altri cinque anni, quindi…
— Insultami, imprigionami, tormentami…
— Finiscila. Me ne vado, vecchio. È tardi.
— Davvero? E il tuo ecclesiastico ventre è in grado di affrontare la cavalcata?
— Il mio stomaco…? — Don Paulo si fermò per tastarlo, e si accorse di stare meglio di quanto non fosse mai stato in quelle ultime settimane. — È un disastro, naturalmente — si lagnò. — Cosa altro dovrebbe essere, dopo che ho dovuto ascoltare te?
— È vero… El Shaddai è misericordioso, ma è anche giusto.
— Dio ti protegga, vecchio. Quando frate Kornhoer avrà reinventato la macchina per volare, manderò su qualche novizio a scagliarti addosso le pietre.
Si abbracciarono con affetto. Il Vecchio Ebreo lo guidò fino all'orlo della mesa. Benjamin rimase ritto, avvolto in uno scialle da preghiera, il cui tessuto finissimo contrastava bizzarramente con la rozza tela da sacco che gli cingeva i lombi, mentre l'abate scendeva il sentiero e si dirigeva di nuovo verso l'abbazia. Don Paulo lo poteva ancora vedere, ritto nel tramonto, la figura emaciata profilata contro il cielo in penombra, mentre si inchinava e masticava una preghiera sopra il deserto.
— Memento, Domine, omnium famulorum tuorum - sussurrò in risposta l'abate, poi aggiunse: — E possa lui rivincere l'occhio di vetro del Poeta a morra. Amen.
— Posso dirvelo senza alcun dubbio: vi sarà guerra — disse il messaggero di Nuova Roma. — Tutte le forze di Laredo sono impegnate sulle Pianure. Orso Pazzo ha tolto il campo. È una battaglia continua di cavalleria, secondo le usanze dei nomadi, per tutte le Pianure. Ma lo Stato di Chihuahua minaccia Laredo del Sud. Quindi Hannegan si prepara a mandare forze texarkane al Rio Grande… per contribuire alla "difesa" della frontiera. Naturalmente, con la piena approvazione dei laredani.
— Re Goraldi è un tremendo sciocco! — disse Don Paulo. — Non era stato messo in guardia contro il tradimento di Hannegan?
Il messaggero sorrise. — Il servizio diplomatico vaticano rispetta sempre i segreti di stato, se per caso li scopre. Per non essere accusati di spionaggio, noi siamo sempre molto prudenti per ciò che…
— Era stato messo in guardia? — domandò di nuovo l'abate.
— Naturalmente. Goraldi disse che il legato papale gli mentiva; accusò la Chiesa di fomentare i dissensi fra gli alleati della Sacra Sferza, nel tentativo di affermare il potere temporale del papa. Quell'idiota riferì persino a Hannegan l'avvertimento del legato.
Don Paulo rabbrividì e sussurrò. — E Hannegan, che ha fatto?
Il messaggero esitò. — Credo di potervelo dire: Monsignor Apollo è stato arrestato. Hannegan ha ordinato di sequestrare tutti i suoi documenti diplomatici. A Nuova Roma si parla della possibilità di scagliare l'interdetto sull'intero reame di Texarkana. Naturalmente, Hannegan è già incorso nella scomunica ipso facto, ma pare che questo non turbi molti i texarkani. Come certamente saprete, la popolazione è dedita a culti bizzarri nella misura dell'ottanta per cento, e il cattolicesimo delle classi dominanti è sempre stato un vertice molto sottile.
— Questo per quanto riguarda Marcus — mormorò tristemente l'abate. — E che notizie vi sono del Thon Taddeo?
— Non capisco come possa pensare di attraversare le Pianure, adesso, senza buscarsi qualche palla di moschetto. Le ragioni per cui non voleva affrontare il viaggio sembrano chiare. Ma non so nulla di questo viaggio, Padre Abate.
Il cipiglio di Don Paulo era doloroso. — Se il nostro rifiuto di mandare il materiale in nostro possesso alla sua università dovesse causare indirettamente la sua morte…
— Non permettete alla vostra coscienza di turbarsi per questo, Padre Abate. Hannegan sa badare ai suoi. Non so come, ma sono sicuro che il thon arriverà qui.
— Il mondo non potrebbe permettersi di perderlo, a quanto ho sentito. Bene… ma ditemi, perché siete stato mandato a riferire a noi i piani di Hannegan? Noi siamo nell'impero di Denver, e non capisco in che modo questa regione sia coinvolta…
— Ah, ma io vi ho raccontato solamente l'inizio. Hannegan spera di riuscire a unificare il continente, alla fine. Dopo aver imbrigliato saldamente Laredo, avrà rotto l'accerchiamento che lo teneva in iscacco. Poi, la sua prossima mossa sarà contro Denver.
— Ma questo non comporterebbe l'invio di carovane di rifornimenti attraverso il territorio dei nomadi? Mi sembra impossibile.
— È estremamente difficile, ed è questo che rende certa la prossima mossa. Le Pianure formano una naturale barriera geografica. Se fossero spopolate, Hannegan potrebbe considerare sicura la frontiera occidentale. Ma i nomadi rendono necessario per tutti gli stati limitrofi alle Pianure di mantenere forti presidi militari attorno al loro territorio, per operazioni di contenimento. L'unico modo per sottomettere le Pianure è controllare entrambe le fasce fertili, a est e a ovest.
— Ma anche così — rifletté l'abate — i nomadi…
— Il piano di Hannegan nei loro confronti è diabolico. I guerrieri di Orso Pazzo possono tenere facilmente testa alla cavalleria di Laredo, ma non possono tener testa a una moria di bestiame. Le tribù delle Pianure non lo sanno ancora, ma quando Laredo decise di punire i nomadi per le loro scorrerie ai confini, i laredani spinsero avanti parecchie centinaia di capi di bestiame infetto per mescolarli alle mandrie dei nomadi. Fu un'idea di Hannegan. Il risultato sarà la carestia, e allora sarà facile spingere una tribù contro l'altra. Naturalmente noi non conosciamo tutti i particolari, ma lo scopo è quello di costituire una legione nomade, sotto un comandante-fantoccio, armata da Texarkana, leale a Hannegan, pronta a buttarsi a ovest, verso le montagne. Se riesce a passare, questa regione subirà le prime infiltrazioni.
— Ma perché? Senza alcun dubbio Hannegan non crederà che i nomadi siano truppe su cui poter fare conto, oppure che siano in grado di tenere un impero, dopo che avranno finito di mutilarlo!
— No, Monsignore. Ma se le tribù nomadi verranno disperse, l'impero di Denver crollerà. Poi Hannegan raccoglierà i frammenti.
— Per che farne? Non potrebbe essere un impero molto ricco.
— No, ma sarà sicuro da ogni lato. Allora potrebbe essere in una posizione migliore per colpire a est o a nordest. Naturalmente, prima che si arrivi a questo, i suoi piani potrebbero fallire. Ma falliscano o no, questa regione corre il pericolo di essere invasa in un futuro non lontano. Bisognerebbe prendere misure per rendere sicura l'abbazia, nei prossimi mesi. Ho ricevuto istruzioni di discutere con voi il problema di mettere al sicuro i Memorabilia.
Don Paulo sentì che l'oscurità cominciava ad addensarsi. Dopo dodici secoli, una piccola speranza si era accesa nel mondo… e poi veniva un Principe analfabeta che la calpestava con un'orda di barbari e…
Il suo pugno esplose sul piano della scrivania. — Li abbiamo tenuti fuori dalle nostre mura, per mille anni — brontolò — e possiamo tenerveli per mille anni ancora. Questa abbazia è stata assediata tre volte durante l'epoca Bayring, e un'altra volta durante lo scisma di Vissarion. Salveremo i libri. Li terremo al sicuro per molto, molto tempo.
— Ma in questi tempi c'è un rischio assai più grave, Monsignore.
— E quale sarebbe?
— Un'abbondante scorta di polvere da sparo e di proiettili.
La Festa dell'Assunzione era venuta ed era trascorsa, ma ancora non si aveva notizia della carovana proveniente da Texarkana. I preti dell'abbazia cominciavano a offrire messe votive per i viaggiatori e i pellegrini. Don Paulo aveva rinunciato persino alle sue leggere colazioni, e si sussurrava che facesse penitenza per avere invitato lo studioso, in considerazione del pericolo che minacciava le Pianure.
Sulle torri di guardia c'era sempre qualche monaco. Lo stesso abate saliva frequentemente sulle mura, per guardare verso est.
Poco prima dei Vespri, la festa di San Bernardo, un novizio riferì di aver visto in lontananza una lieve striscia di polvere, ma stava scendendo l'oscurità, e nessun altro riuscì a scorgerla. Poco dopo furono cantati la Compieta e il Salve Regina, ma nessuno si presentò alle porte.
— Può darsi che fosse uno dei loro uomini mandato in avanscoperta — suggerì il Priore Gault.
— Può anche darsi che sia stata soltanto l'immaginazione del frate che stava di guardia — ribatté Don Paulo.
— Ma se si sono accampati a una decina di miglia o giù di lì, lungo la strada…
— Vedremmo brillare il loro fuoco dalla torre. È una notte chiara.
— Eppure, Domne, dopo che sarà sorta la luna, potremmo mandare qualcuno, a cavallo…
— Oh, no. È il modo migliore per farsi uccidere per sbaglio. Se sono veramente loro, probabilmente avranno tenuto il dito sul grilletto durante tutto il viaggio, specialmente la notte. Possiamo aspettare fino all'alba.
Era già mattino avanzato, quando l'atteso gruppo di cavalieri apparve da lontano, a est. Dall'alto delle mura, Don Paulo batté le palpebre e socchiuse gli occhi, guardando al di là del terreno caldo e arido, cercando di mettere a fuoco i suoi occhi miopi, in distanza. La polvere sollevata dagli zoccoli dei cavalli stava disperdendosi, verso nord. Il gruppo di cavalieri si era fermato per discutere.
— Mi pare di vedere venti o trenta persone — si lagnò l'abate, soffregandosi gli occhi. — Sono veramente così tanti?
— Approssimativamente, sì — disse Gault.
— E come potremo provvedere a tutti?
— Non credo che dovremo prenderci cura di quelli che, indossano le pelli di lupo, Monsignor Abate — disse, un po' rigido, il prelato più giovane.
— Pelli di lupo?
— Nomadi, Monsignore.
— Mandate uomini alle mura! Chiudete le porte! Abbassate le saracinesche! Lanciate…
— Aspettate, non sono tutti nomadi, Don Paulo.
— Oh! — Don Paulo si voltò, per guardare ancora.
La discussione era terminata. Alcuni uomini agitavano le braccia in segno di saluto; il gruppo si divise in due. La parte più cospicua ritornò galoppando verso est. Gli altri cavalieri li seguirono per un poco con lo sguardo, poi girarono i cavalli e avanzarono al trotto verso l'abbazia.
— Sono sei o sette… qualcuno è in uniforme — mormorò l'abate mentre si avvicinavano.
— Il thon e la sua scorta, sicuramente.
— Ma in compagnia di nomadi? È bene che non vi abbia permesso di mandare laggiù un uomo a cavallo questa notte. Cosa stavano facendo, in compagnia dei nomadi?
— A quanto pare, sono venuti come guide — disse cupamente Padre Gault.
— È molto gentile, da parte del leone, sdraiarsi accanto all'agnello!
I cavalieri si accostarono alle porte. Don Paulo deglutì a vuoto. — Bene, faremmo meglio ad andare a porgere loro il benvenuto, Padre — sospirò.
Prima che i due ecclesiastici fossero discesi dalle mura, i viaggiatori avevano tirato le redini, davanti al cortile. Un cavaliere si staccò dagli altri, avanzò al trotto, smontò, e presentò le sue credenziali.
— Don Paulo del Pecos, Abbas?
L'abate si inchinò. — Tibi adsum. Benvenuto in nome di San Leibowitz, Thon Taddeo. Benvenuto in nome della sua abbazia, in nome delle quaranta generazioni che hanno aspettato la vostra venuta. Siamo ai vostri ordini. — Quelle parole gli erano dettate dal profondo del cuore; le parole che erano state serbate per tanti anni, in attesa di quel magico momento. Udendo un semplice monosillabo mormorato in risposta, Don Paulo alzò gli occhi.
Per un attimo, il suo sguardo rimase fisso in quello dello studioso. E sentì la sensazione di calore svanire rapidamente. Quegli occhi gelidi… grigi, freddi, indagatori. Scettici, avidi e orgogliosi. Lo studiavano come avrebbero potuto studiare un oggetto curioso, privo di vita.
Paulo aveva pregato con fervore perché quel momento potesse essere un ponte gettato su un abisso di dodici secoli… aveva pregato che, per suo mezzo, l'ultimo scienziato martirizzato di quell'età antica potesse stringere la mano del domani. C'era veramente un abisso: questo era evidente. L'abate intuì, all'improvviso, che lui non apparteneva a questa età, che era stato sospinto su una barena di sabbia nel fiume del Tempo, e che in realtà non vi era alcun ponte.
— Venite — disse gentilmente. — Frate Visclair si occuperà dei vostri cavalli.
Quando ebbe veduto gli ospiti nei loro alloggi e si fu ritirato nell'intimità del suo studio, il sorriso sul volto del santo di legno gli ricordò inopinatamente il sorriso del vecchio Benjamin Eleazar, mentre diceva: «Anche i figli di questo mondo sono consistenti».
— Ora avvenne come nel tempo di Giobbe — cominciò il Frate Lettore dal leggio del refettorio:
"Quando i figliuoli di Dio vennero a presentarsi al cospetto del Signore, anche Satana era presente tra essi.
"Ed il Signore disse a lui: 'Donde vieni tu, o Satana?'
"E Satana rispondendo disse, come d'antico: 'Io ho percorso la terra, e ho camminato su di essa'.
"Ed il Signore disse a lui: 'Hai tu considerato quel semplice e retto principe, il mio servitore Name, che odia il male ed ama la pace?'
"E Satana rispondendo disse: 'Forse che Name teme Iddio invano? Imperocché non hai Tu benedetto la sua terra con grande ricchezza e non lo hai Tu fatto possente fra le nazioni? Ma distendi la Tua mano e decresci ciò che egli ha, e lascia che il suo nemico sia rafforzato: poi vedrai se non ti bestemmierà sul Tuo viso'.
"Ed il Signore disse a Satana: 'Guarda ciò che possiede, e diminuiscilo. Provvedi tu a questo'.
"E Satana si allontanò dalla presenza di Dio e ritornò nel mondo.
"Ora il principe Name non era il santo Giobbe, perché quando la sua terra fu afflitta da pene e quando il suo popolo fu meno ricco, quando egli vide il suo nemico, diventare più potente, divenne timoroso e cessò di fidare in Dio, pensando fra sé: 'Io devo colpire prima che il nemico mi sopraffaccia senza impugnare la spada'.
— "E così fu in quei giorni" — disse il Frate Lettore:
"che i prìncipi della Terra avevano indurito i loro cuori contro la legge del Signore, e al loro orgoglio non era fine. E ciascheduno di essi pensava entro di sé che era cosa molto migliore essere distrutto che permettere alla volontà di altri prìncipi di prevalere sulla sua. Perché i potenti della Terra contendevano fra loro per il supremo potere sopra ogni cosa: per inganno, violenza e tradimento essi cercavano di dominare, e temevano grandemente la guerra e ne tremavano; imperocché il Signore Iddio aveva permesso che gli uomini sapienti di quei tempi imparassero i modi per cui il mondo medesimo poteva essere distrutto, e nelle loro mani era affidata la spada dell'Arcangelo con la quale Lucifero era stato abbattuto, e per cui gli uomini e i prìncipi potessero temere Iddio ed umiliarsi davanti all'Onnipotente. Ma essi non si erano umiliati.
"E Satana parlò a un principe, e disse: 'Non temere di usare la spada, perché gli uomini sapienti ti hanno ingannato dicendoti che il mondo sarebbe distrutto. Non ascoltare il consiglio dei deboli, imperocché essi grandemente ti temono, e servono ai tuoi nemici fermando la tua mano contro di quelli. Colpisci, e sappi che tu sarai il sovrano di tutto'".
"E il prìncipe ascoltò la parola di Satana, e chiamò a sé tutti gli uomini sapienti di quel reame e comandò loro di dargli consiglio dei modi in cui il nemico poteva essere distrutto senza attirare la collera sopra il suo regno. Ma molti degli uomini sapienti dissero: 'Signore, questo non è possibile, imperocché anche i tuoi nemici possiedono la spada che noi ti abbiamo data, e la terribilità di essa è come la fiamma dell'Inferno, e come il furore della stella-sole, alla quale un giorno fu accesa'.
'"E allora tu me ne foggerai un'altra che sia ancora sette volte più ardente dell'Inferno stesso', comandò il principe, la cui arroganza era giunta a superare quella di Faraone.
"E molti degli uomini sapienti dissero: 'No, Signore, non chiedere a noi tale cosa: imperocché persino il fumo di un tale fuoco, se noi dovessimo accenderlo per te, sarebbe la causa perché molti periscano'.
"Ora il principe era adirato delle loro risposte, e sospettava che essi lo tradissero, e mandò le sue spie fra essi per tentarli e per provocarli: e per questo gli uomini sapienti divennero timorosi. Alcuni fra essi mutarono le loro risposte, perché l'ira del principe non si scatenasse sopra di loro. Tre volte egli li interrogò, e tre volte essi risposero: 'No, o Signore, anche il tuo stesso popolo perirà, se tu farai questo'. Ma uno dei magi era simile a Giuda Iscariota, e la sua testimonianza era artefatta, ed avendo tradito i suoi fratelli, mentì a tutto il popolo, consigliandolo a non temere il demone Fallout. Il principe ascoltò questo falso sapiente, il cui nome era Blackneth, e causò che le spie accusassero molti dei magi al cospetto del popolo. Essendo intimoriti i meno saggi fra i magi consigliarono il principe secondo il suo piacere, dicendo: 'Le armi possono essere usate; bada soltanto che non si ecceda tale e tale limite, o tutti periremo sicuramente'.
"E il principe cancellò le città dei suoi nemici con il nuovo fuoco, e per tre giorni e tre notti le sue grandi catapulte e i suoi uccelli di metallo fecero piovere l'ira sopra di esse. Su ciascuna di quelle città apparve un sole, ed era più ardente del sole nei cieli, e immediatamente quella città avvizziva e si scioglieva come cera sotto una torcia, e le genti si fermavano nelle vie e le loro pelli fumavano ed essi divenivano come fagotti gettati sulle braci. E quando la furia del sole era svanita, la città era in fiamme; e un grande tuono scendeva dal cielo, come il grande ariete pik-a-don per distruggerla completamente. Fumi velenosi ricadevano sopra tutta la terra, e la terra splendeva la notte dei residui del fuoco e della maledizione dei residui del fuoco che causava scrofola sulla pelle e faceva cadere i capelli e morire il sangue nelle vene.
"Ed un grande fetore si levò dalla Terra fino al Cielo. Come Sodoma e Gomorra erano la Terra e le sue rovine, persino nelle terre di quel principe, imperocché i suoi nemici non avevano frenato la loro vendetta, mandando fuoco a loro volta per inabissare le sue città. Il fetore di quella carneficina era grandemente offensivo al Signore, Che parlò al principe Name dicendo: 'Che offerta bruciante è mai questa che tu hai preparato davanti a me? Quale è l'aroma che si leva dal luogo dell'olocausto? mi hai tu fatto olocausto di pecore o di capre, o hai offerto un vitello a Dio?'.
"Ma il principe non rispose, e Dio disse: 'Tu mi hai fatto olocausto dei miei Figli'.
"E il Signore lo fece morire insieme a Blackeneth, il traditore, e vi fu pestilenza sulla Terra, e la follia fu sopra l'umanità, che lapidò i sapienti insieme con i potenti, quanti ne rimanevano.
"Ma v'era in quel tempo un uomo il cui nome era Leibowitz, che, nella sua giovinezza, come Sant'Agostino, aveva amato la saggezza del mondo più della saggezza del mondo di Dio. Ma ora vedendo che la grande sapienza, benché buona, non aveva salvato il mondo, si rivolse al Signore in penitenza, gridando…".
L'abate batté seccamente sulla tavola, il monaco che stava leggendo l'antico racconto tacque immediatamente.
— E questo è il solo resoconto di cui disponete? — chiese il Thon Taddeo, sorridendo all'abate, a labbra strette.
— Oh, vi sono parecchie versioni. Differiscono in particolari trascurabili. Nessuno dice con certezza quale nazione lanciò il primo attacco… non che questo abbia più importanza, ormai. Il testo che il Frate Lettore stava leggendo fu scritto pochi decenni dopo la morte di San Leibowitz… fu probabilmente uno dei primi resoconti, dopo che fu di nuovo possibile scrivere ancora, senza correre rischi. L'autore fu un giovane monaco che non aveva vissuto la distruzione: raccolse le notizie di seconda mano, dai seguaci di San Leibowitz, i primi contrabbandieri di libri e memorizzatori, e avevano una predilezione per l'imitazione della Scrittura. Io dubito che un solo resoconto completo e accurato del Diluvio di Fiamma esista da qualche parte. Una volta scatenato, a quanto pare fu troppo immenso perché una singola persona potesse vederne l'intero quadro.
— In quale terra viveva questo Principe chiamato Name, e quell'uomo, Balckeneth?
L'Abate Paulo scosse il capo. — Neppure l'autore di quel racconto ne era certo. Ne abbiamo confrontati molti, abbastanza per sapere che persino alcuni dei governanti meno importanti di quel tempo avevano messo le mani su quelle armi, prima della catastrofe. La situazione che lui descrisse dovette presentarsi probabilmente in più di una nazione. I Name e i Blackeneth erano probabilmente legioni.
— Naturalmente, anch'io ho udito simili leggende. È evidente che accadde qualcosa di terribile — dichiarò il thon; e poi, bruscamente: — Ma quando posso cominciare ad esaminare… come li chiamate?
— I Memorabilia.
— Naturalmente. — Il thon sospirò e sorrise distrattamente all'immagine del santo. — Domani sarebbe troppo presto?
— Potete cominciare anche subito, se volete — disse l'abate. — Dovete sentirvi libero di andare e venire a vostro piacere.
I sotterranei erano fiocamente illuminati dalle candele, e solo pochi monaci-studiosi vestiti di scuro si muovevano negli stalli. Frate Armbruster studiava di malumore i suoi documenti, alla luce di una lampada, nel suo cubicolo ai piedi della scala di pietra, e un'altra lampada ardeva nella sezione della Teologia Morale, dove un monaco se ne stava chino su un antico manoscritto. Era passata l'Ora Prima, e quasi tutti lavoravano nell'abbazia: in cucina, nella scuola, in giardino, nella stalla e negli uffici, lasciando la libreria quasi deserta fino al pomeriggio avanzato all'ora della lectio devina. Quella mattina, tuttavia, i sotterranei erano relativamente affollati.
Tre monaci se ne stavano nell'ombra, dietro la nuova macchina. Tenevano le mani affondate nelle maniche e osservavano un quarto monaco ritto ai piedi della scala. Il quarto monaco fissava pazientemente un quinto monaco che se ne stava sul pianerottolo e sorvegliava l'ingresso della scala.
Frate Kornhoer si era preoccupato del suo apparecchio come un genitore ansioso, ma quando non era più riuscito a trovare fili da annodare e modifiche da effettuare, si era ritirato nell'alcova della Teologia Naturale a leggere e ad aspettare. Sarebbe stato ammissibile che impartisse un sommario di minuziose istruzioni alla sua piccola squadra, ma aveva preferito mantenere il silenzio, e se qualche pensiero del momento che si avvicinava gli attraversava la mente, mentre aspettava, l'espressione del monaco inventore non lo lasciava capire. Poiché l'abate non si era preso il disturbo di assistere a una dimostrazione del funzionamento della macchina frate Kornhoer non dava segno di aspettarsi applausi, ed aveva perfino superato la tendenza a guardare Don Paulo con aria di rimprovero.
Un lieve sibilo, proveniente dalla scala, mise di nuovo in allarme il sotterraneo, sebbene vi fossero stati già parecchi falsi allarmi. Era evidente che nessuno aveva informato l'illustre thon che una meravigliosa invenzione attendeva la sua ispezione nel sotterraneo. Era evidente che se anche qualcuno gliene aveva parlato, ne aveva minimizzato l'importanza. Era ovvio che il Padre Abate aveva provveduto a smorzare l'entusiasmo di tutti. Questo era il silenzioso significato delle occhiate che si scambiavano tra loro, mentre aspettavano.
Questa volta il sibilo di avvertimento non era venuto invano. Il monaco che stava di guardia in cima alla scala si voltò solennemente e si inchinò verso il quinto monaco, sul pianerottolo più in basso.
— In principio Deus - disse sottovoce.
Il quinto monaco si voltò e si inchinò verso il quarto, che stava ai piedi delle scale. — Coelum et terram creavit - mormorò a sua volta.
Il quarto monaco si voltò verso i tre che attendevano dietro la macchina. — Vacuus autem erat mundus - annunciò.
— Cum tenebris in superficie profundorum - fece coro il gruppo.
— Ortus est Dei Spiritus supra aquas - esclamò frate Kornhoer, rimettendo il libro nello scaffale, con un tintinnio di catene.
— Gratias Creatori Spiritui - rispose l'intera squadra.
— Dixique Deus: "FIAT LUX" — disse l'inventore, in tono di comando.
Le sentinelle sulla scala scesero per prendere i loro posti. Quattro monaci azionarono la ruota. Il quinto monaco rimase ritto accanto alla dinamo. Il sesto salì sulla scaletta e sedette sull'ultimo gradino, urtando con il capo contro la volta. Si calò sul viso una maschera di pergamena oleosa annerita con il fumo per proteggersi gli occhi, poi armeggiò con la lampada e la relativa vite, mentre frate Kornhoer lo sorvegliava nervosamente dal basso.
— Et lux ergo facta est - disse, quando ebbe trovato la vite.
— Lucem esse bonam Deus vidit - gridò l'inventore al quinto monaco.
Il quinto monaco si curvò sulla dinamo, con una candela, per dare un'ultima occhiata alle spazzole di contatto.
— Et secrevit lucem a tenebris - disse finalmente, continuando a recitare la Scrittura.
— Lucem appellavit "diem" - fece coro la squadra che azionava la dinamo — et tenebras "noctes". - Poi appoggiarono le spalle ai raggi del tornichetto.
Le assi scricchiolarono e gemettero. La dinamo, fatta di ruote di carro, cominciò a girare, e il suo basso ronzio diventò un grugnito e poi un gemito, mentre i monaci si sforzavano brontolando. Il guardiano della dinamo osservava ansioso, mentre i raggi si confondevano, nella velocità, e diventavano una specie di pellicola.
— Vespere occaso - cominciò, poi si interruppe per leccarsi due dita, che accostò ai contatti. Scoccò una scintilla.
— Lucifer! - gridò, balzando indietro, poi finì, in tono più calmo: — ortus est et primo die.
— Contatto! — disse frate Kornhoer, mentre Don Paulo, il Thon Taddeo e il suo segretario scendevano le scale.
Il monaco sulla scala colpì l'arco. Un netto spffft!… e una luce acceccante inondò il sotterraneo con uno splendore che non era mai stato visto in dodici secoli.
Il gruppo si fermò sulla scala. Il Thon Taddeo boccheggiò una imprecazione nella sua lìngua natia, poi indietreggiò di un gradino. L'abate, che non aveva assistito alla prova dell'ordigno e non aveva dato credito alle stravaganti affermazioni al riguardo, impallidì e si interruppe a metà di una frase. Il segretario rimase immobilizzato per il panico, poi all'improvviso fuggì, urlando "Al fuoco!".
L'abate si fece il segno della croce. — Non sapevo! — sussurrò.
Lo studioso, che aveva superato il primo trauma del bagliore, sondò il sotterraneo con lo sguardo, notò la dinamo e i monaci che faticavano ai suoi raggi. I suoi occhi seguirono i fili avvolti nella stoffa, notarono il monaco sulla scala, misurarono il significato della dinamo e il monaco che aspettava, a occhi bassi, ai piedi della scala.
— Incredibile! — sussurrò.
Il monaco ai piedi della scala si inchinò, umilmente. Il bagliore biancazzurro gettava ombre nettissime nella stanza, e le fiamme delle candele diventavano confusi fuochi fatui nella marea luminosa.
— Splende come mille torce! — ansimò lo studioso. — Deve essere un antico… ma no! È impensabile!
Continuò a scendere le scale come in trance. Si fermò accanto a frate Kornhoer e lo fissò incuriosito, per un momento, poi posò i piedi sul pavimento del sotterraneo. Senza toccare nulla, senza chiedere nulla e guardando tutto, girò attorno al macchinario, ispezionò la dinamo, i fili, la stessa lampada.
— Non sembra possibile, ma…
L'abate si era ripreso: scese le scale. — Siete dispensato dal silenzio! — sussurrò a frate Kornhoer. — Parlategli. Io sono… un po' stordito.
Il monaco si illuminò. — Vi piace, Monsignor Abate?
— È tremendo — gemette Don Paulo.
Il viso dell'inventore si rattristò.
— È un modo scandaloso di trattare un ospite! Quella luce ha spaventato a morte l'assistente del thon. Ne sono mortificato!
— In effetti, è una luce piuttosto brillante.
— È infernale! Andate a parlare al thon, mentre io cerco il modo migliore per scusarmi.
Ma lo studioso doveva avere tratto un giudizio sulla base delle sue osservazioni, perché avanzò rapido verso di loro. Il viso era teso, i suoi modi sbrigativi.
— Una lampada a elettricità — disse. — Come siete riusciti a tenerla nascosta per tutti questi secoli? Dopo tutti gli anni spesi nel tentativo di arrivare a una teoria del… — Sembrò quasi soffocato, e parve lottare per riacquistare l'autocontrollo, come se fosse stato vittima di un mostruoso scherzo. — Perché l'avete nascosta? Vi è qualche significato religioso… E che cosa… — La confusione più completa lo costrinse a interrompersi. Scosse il capo e si guardò intorno, come se cercasse una via d'uscita.
— Voi avete frainteso — disse debolmente l'abate, afferrando per il braccio frate Kornhoer. — Per amor di Dio, fratello, spiegatevi!
Ma non c'era balsamo capace di lenire un affronto all'orgoglio professionale… né allora, né in alcuna altra età.
Dopo lo sfortunato incidente nel sotterraneo, l'abate studiò tutti i modi immaginabili di fare ammenda per quell'infelice momento. Il Thon Taddeo non mostrò segni di rancore, e si scusò persino con gli ospiti per il suo giudizio dell'incidente, dopo che l'inventore dell'ordigno gli ebbe dato una spiegazione particolareggiata della sua recente progettazione e costruzione. Ma quelle scuse riuscirono soltanto a convincere ulteriormente l'abate della gravità dell'errore commesso. Infatti, metteva il thon nella posizione di un alpinista che ha scalato una cima "inviolata" soltanto per trovare le inziali del rivale scolpite sulla sommità… senza che il rivale l'avesse avvertito in precedenza. Doveva essere stato terribile, per lui, pensò Don Paulo.
Se il thon non avesse insistito (con una fermezza nata forse dall'imbarazzo) che quella luce era di qualità superiore, e sufficientemente brillante per consentire persino un attento esame di documenti fragili, consunti dall'età, pressoché indecifrabili alla luce delle candele, Don Paulo avrebbe fatto togliere immediatamente la lampada dalla cantina. Ma il Thon Taddeo aveva insistito che quella lampada gli piaceva… solo per scoprire, poi, che era necessario tenere almeno quattro novizi o postulanti impiegati ininterrottamente per far funzionare la dinamo e per regolare la lampada ad arco; per cui chiese che la lampada fosse tolta… ma allora fu la volta di Paulo ad insistere perché rimanesse al suo posto.
Così fu che lo studioso cominciò le sue ricerche all'abbazia, continuamente conscio della presenza dei tre novizi che manovravano la ruota della dinamo e del quarto che sfidava la cecità in cima a una scala, per tenere accesa e regolata la fiamma… una situazione che indusse il Poeta a scrivere versi spietati sul demonio Imbarazzo e sugli oltraggi che perpetrava in nome della penitenza e del quieto vivere.
Per parecchi giorni il thon e il suo assistente studiarono la biblioteca, gli scaffali, i documenti del monastero ad eccezione dei Memorabilia… come se, accertando la validità dell'ostrica, potessero stabilire la possibilità di trovarvi la perla. Frate Kornhoer trovò l'assistente del thon inginocchiato all'ingresso del refettorio, e per un istante ebbe l'impressione che stesse recitando qualche devozione davanti all'immagine di Maria posta sopra la porta, ma un tintinnio di strumenti pose fine alle sue illusioni. L'assistente posò una livella da carpentiere attraverso la soglia e misurò la depressione concava scavata nelle pietre del pavimento da secoli di sandali monastici.
— Stiamo cercando un modo di stabilire le date — disse a Kornhoer, quando questi l'interrogò. — Questo sembra un punto adatto per stabilire una media dell'usura, poiché è facile calcolare il passaggio. Tre pasti per ogni uomo, ogni giorno, fin da quando furono messe qui queste pietre.
Kornhoer non poté fare a meno di sentirsi impressionato da quella precisione: quei calcoli lo sbalordirono. — I documenti architettonici dell'abbazia sono completi — disse. — Possono dirvi esattamente quando fu aggiunto ogni edificio e ogni ala. Perché non risparmiate il vostro tempo?
L'uomo alzò lo sguardo con aria innocente. — Il mio padrone ha un detto: "Nayol non parla, e perciò non mente mai".
— Nayol?
— Uno degli dèi della Natura del popolo del Fiume Rosso. Lui l'intende in modo figurato, naturalmente. L'evidenza obiettiva è l'autorità suprema. I documenti possono mentire, ma la Natura non ne è capace. — Notò l'espressione del monaco e aggiunse, in fretta: — Non intendevo offendere. È soltanto una dottrina del thon che tutto debba essere ricontrollato obiettivamente.
— Una concezione affascinante — mormorò Kornhoer, e si chinò per osservare il disegno, fatto dall'uomo, della sezione della concavità del pavimento. — Ehi, ha una forma simile a quella che frate Majek chiama una curva di distribuzione normale. Che strano!
— Non è strano. La probabilità che un passo abbia deviato dalla linea centrale tende a seguire la normale funzione dell'errore.
Kornhoer era affascinato. — Chiamerò frate Majek — disse.
L'interesse dell'abate per gli esami preliminari dei suoi ospiti era meno esoterico.
— Perché — chiese a Gault — stanno facendo disegni particolareggiati delle nostre fortificazioni?
Il Priore si mostrò sorpreso. — Non l'avevo saputo. Volete dire che il Thon Taddeo…
— No. Gli ufficiali che sono venuti con lui. Stanno facendo proprio questo, molto sistematicamente.
— Come l'avete scoperto?
— Me l'ha detto il Poeta.
— Il Poeta! Ah!
— Sfortunatamente, questa volta ha detto la verità. Aveva rubato uno dei loro disegni.
— L'avete voi?
— No. Gliel'ho fatto restituire. Ma questa faccenda non mi piace. Sa di malaugurio.
— Immagino che il Poeta abbia chiesto di essere pagato, per questa informazione.
— Cosa molto strana, non l'ha chiesto. Ha preso immediatamente in antipatia il thon. Da quando sono arrivati, non ha fatto altro che andare in giro brontolando fra sé.
— Il Poeta ha sempre brontolato.
— Ma non seriamente.
— Perché pensate che stiano facendo questi disegni?
Paulo fece una smorfia triste. — A meno che non riusciamo a scoprire altri motivi, dovremo pensare che il loro interesse sia recondito e professionale. Come cittadella fortificata, la nostra abbazia è stata un vero successo. Non è mai stata conquistata per assedio o per attacco, e forse ha destato la loro ammirazione professionale.
Padre Gault guardò pensieroso il deserto, verso oriente. — Ora che ci penso, se un esercito intendesse colpire a occidente, attraverso le Pianure, dovrebbe probabilmente stabilire una guarnigione in questa regione, prima di marciare su Denver. — Rifletté per qualche attimo e cominciò ad allarmarsi. — E qui c'è una fortezza bella e pronta!
— Temo che ci abbiano pensato anche loro.
— Pensate che siano stati mandati qui a spiare?
— No, no! Dubito che lo stesso Hannegan abbia mai sentito parlare di noi. Ma quegli uomini sono qui, sono ufficiali, e hanno continuato a guardarsi intorno e a farsi venire idee nuove. Ora sì, molto probabilmente, Hannegan sentirà parlare di noi.
— Cosa intendete fare?
— Non lo so ancora.
— Perché non ne parlate al Thon Taddeo?
— Gli ufficiali non sono suoi servitori. Sono stati mandati soltanto come scorta, per proteggerlo. Cosa potrebbe fare?
— È parente di Hannegan, e ha molto influenza.
L'abate annuì. — Cercherò il modo di abbordarlo su questo argomento. Ma prima dovremo tener d'occhio ciò che succede, per un certo tempo.
Nei giorni che seguirono, il Thon Taddeo completò il suo studio dell'ostrica e, evidentemente certo che non si trattasse di una vongola camuffata, dedicò la sua attenzione alla perla. Non era un compito semplice.
Furono esaminate notevoli quantità di copie facsimili. Le catenelle tintinnavano mentre i libri più preziosi scendevano dagli scaffali. Quando gli originali erano parzialmente danneggiati o deteriorati, sembrava poco prudente fidarsi dell'interpretazione data dall'autore del facsimile. E allora venivano tirati fuori i manoscritti che risalivano veramente ai tempo di Leibowitz e che erano custoditi in cofani a tenuta stagna chiusi in speciali sotterranei, per garantirne la conservazione per un tempo indeterminato.
L'assistente del thon raccolse parecchi volumi di appunti. Dopo il quinto giorno, il passo del Thon Taddeo divenne più affrettato, e il suo contegno cominciò a riflettere l'impazienza di un segugio affamato che sente l'odore di selvaggina saporita.
— Magnifico! — Vacillava fra il giubilo e una divertita incredulità. — Frammenti degli scritti di un fisico del ventesimo secolo! Le equazioni sono persino consistenti.
Kornhoer sbirciò al di sopra della sua spalla. — L'ho visto — disse, ansimando. — Ma non vi ho mai capito nulla. È un argomento importante?
— Non ne sono ancora certo. La matematica è bella, bella! Guardate qui… questa espressione… notate la forma, estremamente contratta. Questo, sotto il segno radicale… sembra il prodotto di due derivate, ma in realtà rappresenta una intera serie di derivate.
— E come?
— Gli indici lo permutano in una espressione espansa; altrimenti, non potrebbe rappresentare una linea integrale, come afferma invece l'autore. È splendido! E guardate qui… questa espressione che sembra tanto semplice. La sua semplicità è ingannevole. Ovviamente rappresenta non una sola, ma un intero sistema di equazioni, in una forma molto contratta. Mi è occorso un paio di giorni per capire che l'autore stava pensando alle relazioni non solo tra quantità e quantità, ma tra sistemi e sistemi. Non conosco ancora tutte le quantità fisiche che entrano in gioco, ma la sofisticazione della matematica è veramente… veramente superba! Se è un falso, è un falso ispirato! Se è autentico, può darsi che siamo incredibilmente fortunati. In ogni caso, è magnifico. Devo assolutamente vederne la copia più antica!
Il Frate Bibliotecario gemette quando un altro cofano di piombo fu tolto dal sotterraneo per essere dissigillato. Armbruster non era impressionato dal fatto che lo studioso secolare, in due giorni avesse risolto una parte del rompicapo che era rimasto lì, come enigma assoluto, per dodici secoli. Per il custode dei Memorabilia, ogni rottura di sigilli rappresentava un'altra riduzione della probabile durata del contenuto dei cofani, e non tentò neppure di nascondere la sua disapprovazione. Per il Frate Bibliotecario, il cui compito, nella vita, era la conservazione dei libri, la principale ragione dell'esistenza dei libri era la loro conservazione perpetua. Il loro uso era secondario, e doveva essere evitato, se ne minacciava la longevità.
L'entusiasmo del Thon Taddeo per il proprio lavoro divenne più forte via via che i giorni passavano, e l'abate respirò più liberamente quando vide l'iniziale scetticismo del thon diminuire ad ogni nuovo esame di qualche frammentario testo scientifico dell'epoca prediliuviale. Lo studioso non aveva fatto dichiarazioni specifiche circa lo scopo delle sue indagini. Forse, all'inizio, il suo scopo era stato vago, ma adesso lavorava con la secca precisione di un uomo che segue un piano preciso. Intuendo che si avvicinava l'alba di qualcosa, Don Paulo decise di offrire un trespolo al gallo perché vi cantasse, nel caso che il gallo provasse l'impulso di annunciare l'imminente levar del sole.
— Tutta la comunità è molto curiosa dei vostri lavori — disse allo studioso. — Ci piacerebbe sentirne parlare, se a voi non dispiace discuterne. Naturalmente, noi tutti abbiamo sentito parlare del vostro lavoro teorico nel collegio, ma è troppo tecnico perché molti di noi possano comprenderlo. Sarebbe possibile, per voi, dircene qualcosa in… oh, in termini generali, in modo che anche i non specialisti possano capire? La comunità brontola con me perché non vi ho invitato a tenere lezioni: ma io pensavo che prima avreste preferito familiarizzarvi con il luogo. Naturalmente, se invece preferiste non…
Lo sguardo del thon sembrava fissare dei calibri sul cranio dell'abate e misurarlo nelle sue sei linee principali. Poi lo studioso sorrise, dubbioso. — Vorreste che io spiegassi il nostro lavoro nel più semplice linguaggio possibile?
— Qualcosa del genere, se è fattibile.
— È proprio questo. — E rise. — L'uomo che non ha una preparazione specifica legge una relazione sulla scienza naturale e pensa: "Perché l'autore non poteva spiegarlo in un linguaggio semplice?". Non si rende conto che ciò che ha tentato di leggere era il più semplice linguaggio possibile… almeno per quell'argomento. In realtà, gran parte della filosofia naturale è semplicemente un processo di semplificazione linguistica… uno sforzo di inventare i linguaggi in cui mezza pagina di equazioni possano esprimere un'idea che non potrebbe essere esposta in meno di mille pagine scritte nel "cosiddetto" linguaggio semplice. Mi sono spiegato?
— Credo di sì. Poiché vi siete spiegato, forse potreste parlarci di questo aspetto della situazione. A meno che il mio suggerimento non sia prematuro… per quanto riguarda il vostro lavoro sui Memorabilia.
— Ecco, no. Ora abbiamo un'idea chiara di dove stiamo andando e su che cosa dobbiamo lavorare, qui. Naturalmente, questo richiederà un tempo considerevole. I vari pezzi devono essere messi insieme, e non appartengono allo stesso rompicapo. Non possiamo ancora prevedere che cosa possiamo ricavarne, ma siamo abbastanza sicuri di ciò che non possiamo ricavarne. Sono felice di dire che la situazione si presenta carica di buone speranze. Non ho alcuna obiezione a spiegare lo scopo generale del nostro lavoro, ma… — E ripeté il gesto dubbioso.
— Che cosa vi turba?
Il thon si mostrò moderatamente imbarazzato. — Solo un'incertezza sul mio pubblico. Non vorrei offendere le convinzioni religiose di nessuno.
— Ma come potreste? Non è una questione di filosofia naturale? Di scienza fisica?
— Naturalmente. Ma le idee di molta gente sulla realtà del mondo si sono colorate di sfumature religiose… ecco, ciò che intendo dire è…
— Ma se l'argomento di cui vi occupate è il mondo fisico, come potreste offendere qualcuno? Specialmente questa comunità. Abbiamo atteso per molto tempo di vedere il mondo interessarsi di nuovo a se stesso. A rischio di mostrarmi presuntuoso, potrei osservare che qui nel monastero abbiamo alcuni abili dilettanti di scienza naturale. C'è frate Majek, e c'è frate Kornhoer…
— Kornhoer! — Il thon levò lo sguardo verso la lampada ad arco, poi lo distolse, battendo le palpebre. — Non riesco a capire!
— La lampada? Ma voi, senza dubbio…
— No, non la lampada. La lampada è abbastanza semplice, una volta che abbiate superato il trauma di vederla funzionare veramente. Deve funzionare. Funzionerebbe sulla carta, assumendo vari dati indeterminabili e indovinandone altri che non sono disponibili. Ma il netto balzo dalla vaga ipotesi a un modello funzionante… — Il thon tossì, nervosamente. — È Kornhoer che non capisco. Quell'arnese… — e indicò la dinamo con un dito — …rappresenta un balzo attraverso vent'anni di esperimenti preliminari, cominciando dalla compressione dei principi. Kornhoer ha semplicemente eliminato i preliminari. Voi credete negli interventi miracolosi? Io no, ma qui ne avete un esempio autentico. Ruote da carro! — E rise. — Cosa potrebbe fare, se avesse un'officina? Non capisco che cosa faccia un uomo come lui sepolto in un monastero.
— Forse frate Kornhoer potrebbe spiegarvelo — disse Don Paulo, cercando di escludere dalla sua voce una sfumatura di stizza.
— Sì, ecco… — I calibri visivi del Thon Taddeo ricominciarono a misurare il vecchio prete. — Se pensate davvero che nessuno si offenderebbe ascoltando idee non tradizionali, sarei lieto di discutere il nostro lavoro. Ma parte di esso potrebbe contrastare con radicati preghi… ehm… con radicate opinioni.
— Bene! Dovrebbe essere affascinante.
Fu stabilito un giorno, e Don Paulo ne provò sollievo. L'abisso esoterico fra il monaco cristiano e l'indagatore secolare della natura si sarebbe indubbiamente ridotto, con un libero scambio di idee, ne era certo. Kornhoer aveva già ridotto per conto suo quell'abbisso, no? Una maggiore comunicazione era probabilmente la terapia migliore per allentare ogni tensione. E il nebuloso velo di dubbio e di esitazione diffidente sarebbe stato squarciato, non appena il thon avesse veduto che i suoi ospiti non erano affatto gli irragionevoli reazionari intellettuali che lui sembrava sospettare. Paulo provò un po' di vergogna per i suoi dubbi iniziali. Abbi pazienza, o Signore, verso uno sciocco animato da buone intenzioni, ti prego.
— Ma non dimenticate gli ufficiali e i loro disegni — gli ricordò Gault.
Dal leggio del refettorio, il lettore stava intonando gli annunci. La luce delle candele sbiancava i visi dei legionari in tonaca ritti, immobili, dietro gli sgabelli, in attesa dell'inizio del pasto serale. La voce del lettore echeggiò nella sala da pranzo dall'alta volta, il cui soffitto si perdeva nelle ombre che ondeggiavano al di sopra delle chiazze di luce sulle tavole di legno.
— Il Reverendo Padre Abate mi ha comandato di annunciare — esclamò il lettore — che la regola dell'astinenza è soppressa, per il pasto di questa sera. Avremo ospiti, come forse avete udito. Tutti i religiosi potranno prendere parte al banchetto di questa sera in onore del Thon Taddeo e del suo seguito; potrete mangiare carne. Sarà permessa la conversazione durante il pasto, se sarà una conversazione tranquilla.
Rumori vocali soffocati, non molto diversi da applausi repressi, si levarono dalle file dei novizi. Le tavole erano apparecchiate. Il cibo non aveva ancora fatto la sua apparizione, ma grandi vassoi sostituivano le solite tazze, aguzzando gli appetiti con allusioni a un festino. I familiari bricchi per il latte rimasero nella dispensa, e il loro posto fu preso, per quella sera, dalle migliori coppe di vino. Sulle tavole erano state sparse rose.
L'abate si fermò nel corridoio, aspettando che il lettore avesse finito. Guardò la tavola apparecchiata per lui, per Padre Gault, per l'onorato ospite e il suo seguito. In cucina avevano ancora sbagliato a fare i conti, pensò. Era stato apparecchiato per otto persone. Tre ufficiali, il thon e il suo assistente, e i due religiosi facevano in totale sette… a meno che, per un caso improbabile, Padre Gault non avesse invitato frate Kornhoer a sedere con loro. Il lettore concluse gli annunci, e Don Paulo entrò nella sala.
— Flectamus genua - intonò il lettore.
Le legioni in tonaca si inginocchiarono con precisione militare, mentre l'abate benediceva il suo gregge.
— Levate.
Le legioni si alzarono. Don Paulo prese posto alla tavola speciale e lanciò uno sguardo verso la porta. Gault avrebbe guidato gli altri. In precedenza i pasti degli ospiti erano stati serviti nella foresteria invece che nel refettorio, per evitare di assoggettarli all'austerità della frugale dieta dei monaci.
Quando gli ospiti giunsero, Don Paulo si guardò intorno per cercare frate Kornhoer, ma il monaco non era fra loro.
— Per chi è apparecchiato l'ottavo posto? — mormorò a Padre Gault, quando tutti si furono seduti.
Gault lo guardò senza capire e alzò le spalle.
Lo studioso prese posto alla destra dell'abate e gli altri si disposero in ordine tutto intorno, lasciando libero il posto alla sua sinistra. Si voltò per fare cenno a Kornhoer di unirsi a loro, ma il lettore cominciò ad intonare il prefazio prima che lui potesse attirare l'attenzione del monaco.
— Oremus - rispose l'abate, e le legioni si inchinarono.
Durante la benedizione, qualcuno si insinuò senza far rumore nel sedile alla sinistra dell'abate. L'abate si accigliò ma non alzò lo sguardo per identificare il colpevole prima che la preghiera fosse conclusa.
— … et Spiritus Sancti, Amen.
— Sedete - disse il lettore, e i monaci cominciarono a sedersi.
L'abate lanciò un'occhiata tagliente alla figura alla sua sinistra.
— Poeta!
Il cane bastonato si inchinò in modo stravagante e sorrise. — Buonasera, signori, dotto Thon, onorevoli ospiti — recitò. — Cosa ci sarà servito, questa sera? Pesce arrostito e favi di miele in onore della resurrezione temporale che è imminente? O forse, Monsignor Abate, avete finalmente fatto cucinare l'oca del podestà del villaggio?
— Mi piacerebbe cucinare…
— Ah! — disse il Poeta, e si voltò affabilmente verso lo studioso. — Di una tale eccellenza culinaria si gode in questo posto, Thon Taddeo! Dovreste unirvi più spesso a noi. Immagino che nella foresteria vi cibino soltanto di fagiano arrostito e di bue privo di immaginazione. Una vergogna! Qui si mangia meglio. Spero che il Frate Cuoco abbia avuto il suo solito gusto, questa sera, la sua solita fiamma interiore, il suo tocco incantato. Ah… — Il Poeta si fregò le mani e sorrise con aria famelica. — Forse ci serviranno Maiale Finto con Salsa alla Frate John, eh?
— Sembra interessante — disse lo studioso. — Che cos'è?
— Armadillo grasso, con grano secco, bollito in latte d'asina. Un piatto speciale in uso la domenica.
— Poeta! — insorse l'abate; e poi rivolto al thon: — Chiedo scusa per la sua presenza. Non era stato invitato.
Lo studioso osservò il Poeta con distaccato divertimento. — Anche Monsignor Hannegan tiene parecchi buffoni alla sua corte — disse Don Paulo. — Conosco bene questa specie. Non avete bisogno di scusarvi per lui.
Il Poeta schizzò dal suo sgabello e si inchinò profondamente al thon. — Permettetemi invece di scusarmi per l'abate, Signore! — gridò, sentitamente.
Rimase inchinato per un attimo. Gli altri attesero che ponesse fine alle sue buffonerie. Invece scrollò improvvisamente le spalle, sedette e infilzò un pollo fumante nel piatto posto davanti a loro da un postulante. Ne strappò una coscia e l'addentò, con gusto. Gli altri lo osservarono, perplessi.
— Immagino che abbiate ragione, non accettando le mie scuse per lui — disse finalmente al thon.
Lo studioso arrossì lievemente.
— Prima che io vi butti fuori di qui, verme — disse Gault — sondiamo la profondità di questa iniquità.
Il poeta scosse il capo e masticò, pensieroso. — È molto profonda, veramente — ammise.
Un giorno o l'altro Gault si impiccherà, pensò Don Paulo.
Ma l'ecclesiastico più giovane era visibilmente seccato, e voleva portare l'incidente ad absurdum per trovare il terreno adatto per schiacciare quel pazzo. — Scusatevi completamente per il vostro ospite, Poeta — ordinò. — E spiegatevi bene, mentre lo fate.
— Lasciate perdere, Padre, lasciate perdere — disse in fretta Don Paulo.
Il Poeta sorrise garbatamente all'abate. — Sta bene così, Monsignore — disse. — Non mi dispiace minimamente scusarmi per voi. Voi vi siete scusato per me, io mi scuso per voi, non è questa una adeguata manovra di carità e di buona volontà? Nessuno deve scusarsi per se stesso… il che è sempre così umiliante. Usando il mio sistema, tuttavia, chiunque viene scusato, e nessuno deve formulare le sue proprie scuse.
Soltanto gli ufficiali sembravano considerare divertenti le osservazioni del Poeta. A quanto pareva, aspettarsi un divertimento era sufficiente per produrre un'illusione di divertimento, e il commediante poteva ottenere una risata con un gesto o un'espressione, indipendentemente da ciò che diceva. Il Thon Taddeo esibiva un sorriso asciutto, ma il suo sguardo era quello che un uomo può dedicare a una goffa esibizione di un animale ammaestrato.
— E così — continuò il Poeta — se volete permettermi di servirvi come umile aiutante, Monsignore, non dovrete mai mangiare il vostro corvo. Come vostro Avvocato addetto alle Scuse, per esempio, potrei essere da voi delegato ad offrire contrizioni agli ospiti importanti per la presenza delle cimici. E alle cimici per il brusco cambiamento di dieta.
L'abate si corruccio, e resistette a fatica all'impulso di schiacciare il piede nudo del Poeta con il tacco del suo sandalo. Sferrò un calcio negli stinchi del pazzo, ma quello insistette.
— Io mi assumerei tutto il biasimo per voi naturalmente — disse, masticando rumorosamente la carne bianca. — È uno splendido sistema, che intendevo mettere anche a vostra disposizione, Eminentissimo Studioso. Ero sicuro che lo avreste trovato conveniente. Mi è dato comprendere che devono essere escogitati e perfezionati sistemi di logica e di metodologia, prima che la scienza progredisca. E il mio sistema di scuse negoziabili e trasferibili sarebbe stato particolarmente prezioso per voi, Thon Taddeo.
— Davvero?
— Sì. È un peccato. Qualcuno mi ha rubato la mia capra dalla testa azzurra.
— Una capra dalla testa azzurra?
— Aveva una testa calva come quella di Hannegan, Vostro Splendore, e azzurra come la punta del naso di frate Armbruster. Volevo farvi un presente di quell'animale, ma qualche malandrino me l'ha rubata, prima che voi arrivaste.
L'abate serrò i denti e posò il tacco sul piede del Poeta. Thon Taddeo aveva corrugato lievemente la fronte, ma sembrava deciso a sbrogliare l'oscuro groviglio delle parole del Poeta.
— Abbiamo bisogno di una capra dalla testa azzurra? — chiese al segretario.
— Non riesco a vederne alcuna pressante urgenza, signore — disse il segretario.
— Ma questo bisogno è ovvio! — disse il Poeta. — Dicono che voi scrivete equazioni che un giorno ricostruiranno il mondo. Dicono che una nuova luce stia per sorgere. Se vi dovrà essere la luce, allora qualcuno dovrà essere biasimato per l'oscurità che è passata.
— Ah, e quindi è necessaria la capra. — Il Thon Taddeo guardò l'abate. — Un battuta disgustosa. È il meglio che sa fare?
— Noterete che è disoccupato. Ma parliamo di qualcosa di più sens…
— No, no, no, no! — obiettò il Poeta. — Voi avete frainteso ciò che intendevo dire, Vostro Splendore. La capra dovrà essere accolta in un tempio ed onorata, non biasimata! Incoronatela con la corona che vi ha mandato San Leibowitz, e ringraziatela per la luce che sorge. Poi biasimate Leibowitz, e cacciate lui nel deserto. In questo modo, voi non dovrete portare la seconda corona. Quella di spine. Responsabilità, è chiamata.
L'ostilità del Poeta aveva rotto gli argini; non cercava più di sembrare divertente. Il thon lo fissò, gelidamente. Il tacco dell'abate ondeggiò sul piede del Poeta, e ancora ne ebbe riluttante misericordia.
— E quando — disse il Poeta — l'esercito del vostro protettore verrà per impadronirsi di questa abbazia, la capra potrà essere posta nel cortile e istruita a belare "Qui non c'è nessuno tranne me, qui non c'è nessuno tranne me" ogni volta che si presenti uno straniero.
Uno degli ufficiali si levò dallo sgabello con un grugnito collerico; la sua mano si posò per riflesso sulla sciabola. Sollevò l'impugnatura, e sei centimetri d'acciaio scintillarono un avvertimento al Poeta. Il thon afferrò il polso dell'ufficiale e cercò di ricacciare la lama nel fodero, ma era come spingere il braccio di una statua di marmo.
— Ah! Uno spadaccino, non soltanto un disegnatore! — schernì il Poeta, che a quanto pareva non aveva paura di morire. — I vostri disegni delle difese dell'abbazia mostrano una tale promessa di artistiche…
L'ufficiale latrò una bestemmia e la lama uscì completamente dal fodero. I suoi due compagni l'afferrarono, tuttavia prima che potesse scattare. Un rombo attonito si levò dalla congregazione, mentre i monaci sbalorditi si alzavano. Il Poeta continuava a sorridere, blandamente.
— …di artistica evoluzione — continuò. — Io predico che un giorno il vostro disegno delle gallerie che si aprono sotto le mura verrà appeso in un museo di belle…
Un tonfo sordo venne di sotto la tavola. Il Poeta si interruppe a metà di un morso, abbassò l'osso dalla bocca, e impallidì, lentamente. Masticò, deglutì, e continuò a impallidire. Guardò distrattamente verso il soffitto.
— Me lo state spiaccicando — brontolò, con un angolo della bocca.
— Avete finito di parlare? — chiese l'abate, e continuò a schiacciargli il piede.
— Credo di avere un osso in gola — ammise il Poeta.
— Volete essere scusato?
— Temo che sia necessario.
— Che peccato. Ci mancherete molto. — Paulo diede un'ultima schiacciata al piede, per buona misura. — Potete andare, allora.
Il Poeta espirò, si asciugò la bocca, e si alzò. Vuotò la coppa del vino e la rovesciò, al centro del vassoio. Qualcosa, nei suoi modi, costrinse tutti a guardarlo. Abbassò le palpebre con un pollice; chinò la testa sulla palma piegata in forma di coppa e premette. L'occhio di vetro gli cadde nella palma, strappando un suono soffocato ai texarkani, i quali, a quanto pareva, non sapevano che il Poeta avesse un occhio artificiale.
— Sorveglialo attentamente — disse il Poeta all'occhio di vetro, e poi lo depose nella base rovesciata della coppa, dove rimase fissando severamente il Thon Taddeo. — Buona sera, signori miei — disse allegramente al gruppo, e se ne andò.
L'ufficiale mormorò furibondo una imprecazione e si dibatté per liberarsi dalla stretta dei suoi compagni.
— Riconducetelo al suo alloggio e stategli vicino fino a che si sarà calmato — disse il thon. — E badate bene che non si avvicini a quel pazzo.
— Sono mortificato — disse poi all'abate, mentre l'ufficiale, livido, veniva trascinato via. — Non sono miei servitori, e non posso dar loro ordini. Ma posso promettervi che si pentirà di questo. E se rifiuta di scusarsi e di andarsene immediatamente, dovrà incrociare quella spada frettolosa con la mia, prima di domani a mezzogiorno.
— Niente spargimento di sangue! — implorò l'ecclesiastico. — Non è stato nulla di grave. Dimentichiamolo. — Le mani gli tremavano, ed era grigio in volto.
— Si scuserà e se ne andrà — insistette il Thon Taddeo — o io dovrò offrirmi di ucciderlo. Non preoccupatevi, non oserà battersi con me perché, se vincesse, Hannegan lo farebbe impalare sulla pubblica piazza e nel frattempo costringerebbe sua moglie a… ma non pensateci. Si scuserà e se ne andrà. Tuttavia, mi vergogno profondamente che una cosa simile sia potuta accadere.
— Avrei dovuto far buttar fuori il Poeta non appena si è presentato. È stato lui a provocare l'incidente, e io non sono riuscito a fermarlo. La provocazione era chiara.
— Provocazione? Per le fantasiose menzogne di un buffone? Josard ha reagito come se le accuse del Poeta fossero vere.
— Allora voi non sapete che stanno preparando un rapporto completo sul valore militare della nostra abbazia come fortezza?
Lo studioso spalancò la bocca. Guardò prima un ecclesiastico poi l'altro, con evidente incredulità.
— Ma allora è vero? — chiese dopo un lungo silenzio.
L'abate annuì.
— E voi ci avete permesso di rimanere.
— Noi non abbiamo segreti. I vostri compagni possono fare questo studio, se lo desiderano. Io non mi permetterei di chiedere perché vogliono quelle informazioni. L'assunto del Poeta, naturalmente, era una pura fantasia.
— Naturalmente — disse debolmente il thon, senza guardare il suo ospite.
— Senza dubbio il vostro principe non ha mire aggressive su questa regione, come insinuava invece il Poeta.
— Senza dubbio no.
— E anche se ne avesse, sono certo che lui avrebbe la saggezza di comprendere… o almeno avrebbe saggi consiglieri che glielo farebbero capire… che il valore della nostra abbazia come magazzino dell'antico sapere è molto più grande di quello che può avere come cittadella.
Il thon colse la sfumatura di supplica, il significato sottointeso di una richiesta d'aiuto, nella voce del religioso, e sembrò meditare, mentre giocherellava con i cibi e taceva, per qualche tempo.
— Riparleremo di questo argomento prima che io ritorni al collegio — promise, quietamente.
Sul banchetto era caduto un gelo improvviso, ma cominciò a disperdersi durante i canti nel cortile, dopo il pasto, e svanì interamente quando venne il momento della lezione dello studioso nell'Aula Magna. L'imbarazzo sembrava quasi finito, e il gruppo era ritornato ad una superficiale cordialità.
Don Paulo condusse il thon al leggio; li seguivano Gault e il segretario del thon, che si unirono a loro sul podio. Gli applausi risuonarono cordiali, dopo che l'abate ebbe presentato il thon; il silenzio che seguì sembrava il silenzio di un tribunale, in attesa del verdetto. Lo studioso non era un grande oratore, ma il verdetto si rivelò soddisfacente per la folla dei monaci.
— Sono sbalordito di ciò che abbiamo trovato qui — disse. — Qualche settimana fa non avrei creduto, anzi non credevo che documenti quali voi avete nei vostri Memorabilia potessero essere ancora rimasti, superstiti del crollo dell'ultima grande civiltà. È ancora difficile crederlo, ma l'evidenza ci forza ad accettare l'ipotesi che i documenti siano autentici. La loro sopravvivenza è già abbastanza incredibile: ma ancora più fantastico, per me, è il fatto che siano rimasti inosservati durante questo secolo, fino ad ora. In questi ultimi tempi vi sono stati uomini capaci di apprezzarne il valore potenziale… e non io soltanto. Cosa avrebbe potuto farne il Thon Kaschler, mentre era vivo… anche settant'anni or sono.
Il mare dei visi dei monaci era illuminato di sorrisi, nell'udire una così favorevole reazione ai Memorabilia da parte di una persona dotata come il thon. Paulo si chiese se sfuggiva loro la vaga sfumatura di risentimento — o forse era sospetto? — nel tono dell'oratore.
— Se avessi conosciuto queste fonti dieci anni or sono — stava dicendo quello — molto del mio lavoro nel campo dell'ottica non sarebbe stato necessario.
Ahah! pensò l'abate, dunque è così. O almemo è così, in parte. Si accorge che alcune delle sue scoperte sono soltanto riscoperte, e questo gli lascia in bocca un sapore amaro. Ma senza dubbio deve sapere che mai, durante tutta la sua vita, potrà essere qualcosa di più d'un riscopritore di teorie perdute; benché sia geniale, potrà fare soltanto ciò che hanno fatto altri prima di lui. E sarebbe stato così, inevitabilmente, fino a che il mondo non si fosse evoluto fino al punto che aveva raggiunto prima del Diluvio di Fiamma.
Nonostante tutto, era evidente che il Thon Taddeo era molto impressionato.
— Il mio tempo, qui, è limitato — proseguì. — Da ciò che ho veduto, sospetto che occorrerebbe il lavoro di venti specialisti durante parecchi decenni, per mungere i Memorabilia ed ottenerne informazioni comprensibili. La scienza fisica di solito procede per ragionamenti induttivi controllati per mezzo di esperimenti; ma qui il compito è deduttivo. Da pochi frammenti spezzati di principi generali, noi dobbiamo tentare di afferrare i particolari. In qualche caso, questo può rivelarsi impossibile… — Si interruppe per un momento per prendere un fascio di appunti e per sfogliarli brevemente. — Qui c'è una citazione che ho trovato sepolta nel sotterraneo. Proviene da un frammento di quattro pagine di un libro che può essere stato un testo di fisica molto progredita. Qualcuno di voi può averlo veduto.
"…e se i termini spaziali predominano nell'espressione per l'intervallo fra i punti-eventi, l'intervallo è detto essere simile allo spazio, poiché è possibile scegliere un sistema coordinato — appartenente a un osservatore come una velocità ammissibile — in cui gli eventi appaiono simultanei, e perciò separati solo spazialmente. Se, tuttavia, l'intervallo è simile al tempo, gli eventi non possono essere simultanei in alcun sistema coordinato, ma esiste un sistema coordinato in cui i termini spaziali svaniranno completamente, così che la separazione fra gli eventi sarà puramente temporale, id est, che essi si verificario nello stesso luogo, ma in tempi diversi. Ora, esaminando gli estremi dell'intervallo reale…"
Alzò lo sguardo, con un sorriso capriccioso. — Qualcuno, qui, ha consultato recentemente questo frammento?
Il mare di facce rimase inespressivo.
— Qualcuno ricorda di averlo veduto?
Kornhoer e altri due alzarono cautamente le mani.
— Qualcuno sa che cosa significa?
Le mani si riabbassarono in fretta.
Il thon ridacchiò. — Questo passo è seguito da una pagina e mezzo di matematica che non tenterò di leggere, ma tratta di alcuni dei nostri concetti fondamentali come se non fossero affatto fondamentali, ma solo apparenze evanescenti che cambiano secondo il punto di vista di una persona. Termina con la parola "perciò", ma il resto della pagina è bruciato, e con esso la conclusione. Il ragionamento è impeccabile, tuttavia, e la matematica molto elegante, quindi io stesso posso scrivere la conclusione. Sembra la conclusione di un pazzo. Cominciava con assunti, tuttavia, che sembravano egualmente pazzeschi. È un falso? Se non lo è, qual è il suo posto nell'intero schema della scienza degli antichi? Che cosa lo precede, come prerequisito necessario alla comprensione? Cosa ne segue, e come può essere provato? Domande cui non so rispondere. Questo è soltanto un esempio dei molti enigmi proposti da questi documenti che voi avete conservato per tanto tempo. Un ragionamento che non tocchi in alcun punto una realtà esperienziale è affare che riguarda gli angelologi e i teologi, non gli scienziati fisici. Eppure documenti come questi descrivono sistemi che non toccano in alcun punto la nostra esperienza. Erano forse alla portata sperimentale degli antichi? Alcuni riferimenti sembrano indicarlo. Un documento si riferisce a una trasmutazione di elementi… che noi abbiamo proprio recentemente stabilito essere impossibile teoricamente… e poi qui dice 'l'esperimento lo prova'. Ma in che modo?
"Può darsi che occorrano generazioni intere per valutare e comprendere alcuni di questi documenti. È una sfortuna che debbano rimanere qui, in questo luogo inaccessibile, perché occorrerà lo sforzo concentrato di parecchi studiosi per trarne un significato. Sono sicuro che voi comprenderete che le facilitazioni offerte attualmente da voi sono inadeguate… per non parlare della inaccessibilità al resto del mondo".
Seduto sul podio dietro all'oratore, l'abate cominciò a corrucciarsi, ad aspettare il peggio. Il Thon Taddeo, tuttavia, preferì non avanzare proposte. Ma le sue osservazioni continuarono a chiarire la sua convinzione che quelle reliquie avrebbero dovuto essere poste in mani più competenti di quelle dei monaci dell'Ordine Albertiano di San Leibowitz, e che la situazione, così com'era, era assurda. Intuendo forse il crescente disagio dei presenti, incominciò a parlare dei suoi studi attuali, che comprendevano un'indagine sulla natura della luce più approfondita di quante fossero state effettuate in precedenza. Parecchi dei tesori dell'abbazia si rivelarono di grande aiuto, e il thon sperava di escogitare presto metodi sperimentali per provare le sue teorie. Dopo una breve discussione sul fenomeno della rifrazione, si interruppe poi disse, in tono di scusa: — Spero che questo non offenda le convinzioni di nessuno — e si guardò intorno, ironicamente. Vedendo che i visi rimanevano curiosi e blandi, continuò per qualche tempo, poi invitò la congregazione a rivolgergli qualche domanda.
— Vi dispiacerebbe una domanda proveniente dal podio? — chiese l'abate.
— No, affatto — disse lo studioso, assumendo un'espressione un po' dubbiosa, come se stesse pensando et tu, Brute.
— Mi chiedevo cosa può esservi nelle proprietà della luce che secondo voi sarebbe offensivo per la religione.
— Ecco… — il thon si interruppe, imbarazzato. — Monsignor Apollo, che voi conoscete, si riscaldava molto su questo argomento. Diceva che la luce non poteva venir rifratta prima del Diluvio, perché l'arcobaleno sarebbe stato…
Tutto il pubblico esplose in una ruggente risata, sommergendo il resto dell'osservazione. Prima che l'abate avesse ridotto tutti al silenzio con i suoi gesti, il Thon Taddeo era diventato rosso come una barbabietola, e Don Paulo faticava a mantenere un'espressione solenne.
— Monsignor Apollo è un ottimo uomo, un ottimo sacerdote, ma tutti gli uomini possono essere incredibilmente somari, qualche volta, specialmente al di fuori del loro campo specifico. Mi dispiace di avervi rivolto questa domanda.
— La vostra risposta è un sollievo, per me — disse lo studioso. — Non cercavo di provocare un litigio.
Non vi furono altre domande, e il thon procedette verso il suo secondo argomento: l'evoluzione e le attuali attività del collegium. L'immagine che ne diede sembrava incoraggiante. Il collegium era sommerso da candidati che volevano studiare in quell'istituto. Il collegium stava assumendo una funzione di educazione, non soltanto di ricerca. L'interesse per la filosofia e la scienza naturale cresceva fra il laicato più colto. L'istituto riceveva liberali sovvenzioni. Sintomi di rinascita e di resurrezione.
— Potrei citare alcune delle ricerche e delle indagini attualmente condotte dai nostri — proseguì. — Seguendo il lavoro di Bret sul comportamento del gas, il Thon Viche Mortoin sta indagando sulle possibilità di una produzione artificiale del ghiaccio. Il Thon Friider Halb sta cercando i mezzi pratici per trasmettere messaggi mediante variazioni elettriche lungo un filo… — L'elenco era lungo, e i monaci sembravano impressionati. Studi in molti campi, medicina, astronomia, geologia, matematica, meccanica, venivano intrapresi. Alcuni sembravano poco pratici e sconsiderati, ma moltissimi promettevano una ricca ricompensa di conoscenza e di applicazioni pratiche. Dalle ricerche di Jejene sul Nostrum Universale all'instancabile attacco di Bodalk alle geometrie ortodosse, le attività del collegium mostravano un sano desiderio di aprire gli scaffali segreti della Natura, chiusi da quando l'umanità aveva bruciato i suoi ricordi istituzionali e si era condannata all'amnesia culturale, più di un millennio addietro.
— Oltre a questi studi, il Thon Maho Mahh è a capo di un progetto che cerca ulteriori informazioni sull'origine della specie umana. Poiché questo è soprattutto un lavoro archeologico, mi ha chiesto espressamente di frugare nella vostra biblioteca, ricca di tanti libri, alla ricerca di ogni materiale sull'argomento, dopo che avrò ultimato il mio studio, qui. Tuttavia, forse farei meglio a non insistere molto su questo argomento, poiché di solito provoca controversie con i teologi. Ma se qualcuno vuol fare domande…
Un giovane monaco che studiava per diventare prete si alzò e ottenne un cenno di approvazione del thon.
— Signore, mi chiedevo se voi conoscete il suggerimento di Sant'Agostino a questo proposito.
— No.
— Un vescovo e filosofo del quarto secolo. Suggerì che, in principio, Dio creò tutte le cose nelle loro cause germinali, includendo la fisiologia dell'uomo, e che le cause germinali inseminarono la materia informe… che poi si evolvette gradualmente nelle forme più complesse, fino a quella dell'Uomo. Questa ipotesi è stata considerata?
Il sorriso del thon era condiscendente, sebbene non bollasse apertamente di puerilità la proposta. — Temo di no, ma controllerò — disse, in un tono che indicava che non l'avrebbe fatto.
— Grazie — disse il monaco, e sedette, umilmente.
— Forse la ricerca più ardita, tuttavia — continuò lo studioso — è quella condotta dal mio amico, il Thon Esser Shon. È un tentativo di sintetizzare la materia vivente. Il Thon Esser spera di creare protoplasma vivente, servendosi soltanto di sei ingredienti fondamentali. Questo lavoro porterebbe a… sì? Volete farmi una domanda?
Un monaco della terza fila si era alzato e si stava inchinando all'oratore. L'abate si piegò in avanti per guardarlo e riconobbe, con orrore, che era frate Armbruster, il bibliotecario.
— Se volete fare una cortesia a un vecchio — gracchiò il monaco, strascicando le parole con voce monotona. — Questo Thon Esser Shon… che si limita a sei soli ingredienti fondamentali… è molto interessante. Mi chiedevo… gli permettono di usare entrambe le mani?
— Ecco, io… — Il Thon Taddeo si interruppe e corrugò la fronte.
— E posso chiedere, inoltre — continuò la voce asciutta di Armbruster — se questa impresa straordinaria viene effettuata in posizione seduta, eretta o prona? O forse a cavallo, mentre si suonano due trombe?
I novizi sghignazzarono. L'abate balzò in piedi.
— Frate Armbruster, eravate stato avvertito. Siete escluso dalla mensa comune fino a che non darete soddisfazione. Potete aspettare nella Cappella di Nostra Signora.
Il bibliotecario si inchinò di nuovo e si allontanò in silenzio dalla sala, con umile portamento, ma con gli occhi trionfanti. L'abate mormorò una scusa allo studioso, ma lo sguardo del thon era diventato improvvisamente gelido.
— Per concludere — disse — un breve profilo di ciò che il mondo può aspettarsi, secondo me, dalla rivoluzione intellettuale che è appena incominciata. — Con occhi ardenti, si guardò intorno, e la sua voce passò da un tono distratto a un ritmo fervente. — L'ignoranza è stata la nostra regina. Dalla morte dell'impero, siede incontrastata sul trono dell'Uomo. La sua dinastia è vecchia d'una intera epoca. Il suo diritto al dominio è ormai considerato legittimo. I saggi del passato lo hanno confermato. Essi non fecero nulla per detronizzarla. Domani, regnerà una nuova sovrana. Uomini che comprendono, uomini di scienza staranno attorno al suo trono, e l'universo conoscerà la sua potenza. Il suo nome è Verità. Il suo impero comprenderà la Terra. E la dominazione dell'Uomo sulla Terra si rinnoverà. Fra un secolo, gli uomini voleranno nell'aria, a bordo di uccelli meccanici. Carri di metallo correranno lungo le strade di pietra fabbricata dall'uomo. Vi saranno palazzi di trenta piani, navi che scenderanno in fondo al mare, macchine che faranno ogni lavoro. E come si realizzerà questo? — Fece una pausa e abbassò la voce. — Nello stesso modo in cui si verificano tutti i cambiamenti, temo. E mi dispiace che sia così. Si verificherà nella violenza, nella fiamma e nella furia, perché nessun cambiamento si verifica con calma, nel mondo.
Si guardò intorno, perché un sommesso mormorio si levò dalla comunità.
— Sarà così anche se noi non vogliamo che sia così. Ma perché?
"L'ignoranza è regina. Molti non trarrebbero più profitto dalla sua abdicazione. Molti si arricchiscono grazie alla sua buia monarchia. Sono la sua Corte, e nel suo nome defraudano e governano, si arricchiscono e perpetuano il loro potere. Temono persino la sconfitta dell'analfabetismo, perché la parola scritta è un altro canale di comunicazione che potrebbe portare all'unificazione dei loro nemici. Le loro armi sono affilate, e le usano con abilità. Porteranno la battaglia sul mondo quando i loro interessi saranno minacciati, e la violenza che ne seguirà durerà fino a che la struttura della società come esiste attualmente sarà ridotta a un cumulo di macerie, e fino a che non ne emergerà una società nuova. Mi dispiace. Ma è così che io la vedo."
Quelle parole portarono di nuovo il gelo nella sala. Le speranze di Don Paulo svanirono, perché la profezia dava forma al probabile punto di vista dello studioso. Il Thon Taddeo conosceva le ambizioni militari del suo monarca. Aveva un'alternativa: approvarle, disapprovarle, o considerarle come fenomeni impersonali al di fuori del suo controllo, come un'inondazione, una carestia o un uragano.
Evidentemente, allora, le accettava come inevitabili… per evitare di dover formulare un giudizio morale "Vi sia sangue, ferro e pianto…"
Come poteva un uomo simile sfuggire alla propria coscienza e respingere la propria responsabilità… e così facilmente! tempestò fra sé l'abate.
Ma poi gli tornarono alla mente quelle parole. "Imperocché il Signore Iddio aveva permesso che gli uomini sapienti di quei tempi conoscessero i modi per cui il mondo medesimo poteva essere distrutto…"
E permetteva anche che loro conoscessero come poteva essere salvato, e come sempre, lasciava che fossero loro stessi a decidere. E forse avevano scelto come sceglie il Thon Taddeo. Si lavano le mani davanti alle moltitudini. Pensateci voi. Purché non venissero crocifissi loro stessi.
Ed erano stati crocifissi, comunque. Senza dignità. Sempre perché qualcuno, comunque, deve essere inchiodato e appeso alla croce, e se tu ne cadi, loro batteranno…
Vi fu un improvviso silenzio. Lo studioso aveva smesso di parlare.
L'abate batté le palpebre, guardò attraverso la sala. Metà della comunità stava guardando verso l'ingresso. In principio, i suoi occhi non riuscirono a distinguere nulla.
— Che c'è? — sussurrò a Gault.
— Un vecchio con la barba e uno scialle — sibilò Gault. — Sembra… No, lui non…
Don Paulo si alzò e avanzò verso l'orlo del podio, per fissare la forma, vagamente definita nelle ombre. Poi lo chiamò, sommessamente: — Benjamin?
La figura si agitò. Si strinse lo scialle attorno alle spalle magrissime e avanzò, lentamente, nella luce. Si fermò di nuovo, mormorando fra sé mentre si guardava intorno nella sala; poi il suo sguardo scoprì lo studioso dietro il leggio.
Appoggiandosi a un bastone nodoso, la vecchia apparizione avanzò lentamente verso il podio, senza distogliere gli occhi dall'uomo che vi stava dietro.
Il Thon Taddeo sembrò dapprima divertito e perplesso, ma quando si accorse che nessuno si muoveva o parlava, sembrò perdere colore, man mano che la decrepita visione gli si avvicinava. Il volto di quella barbuta antichità splendeva della speranzosa ferocia di qualche passione travolgente che gli bruciava dentro più furiosamente del principio della vita, che da molto tempo ormai avrebbe dovuto smorzarsi.
Si avvicinò al leggio, si fermò. I suoi occhi ammiccarono verso l'oratore sbalordito. La bocca gli tremò. Sorrise. Tese una mano tremante verso lo studioso. Il thon si ritrasse con uno sbuffo di repulsione.
L'eremita era agile. Balzò sul podio, schivò il leggio, e afferrò il braccio dello studioso.
— Che pazzia…
Benjamin accarezzò quel braccio, mentre fissava, pieno di speranza, gli occhi dello studioso.
Il suo viso si rannuvolò. Il bagliore degli occhi si spense. Lasciò cadere il braccio. Un grande sospiro uscì dai vecchi polmoni inariditi, mentre la speranza svaniva. Il sorriso eternamente saputo del Vecchio Ebreo della Montagna ritornò sul suo viso. Si rivolse alla comunità, tese le magre braccia, scrollò eloquentemente la spalle.
— Non è ancora Lui — disse, in tono acido, quindi si trascinò via.
Poi, vi fu ben scarsa formalità.
Fu durante la decima settimana della permanenza del Thon Taddeo che il messaggero portò le nere notizie. Il capo della dinastia regnante di Laredo aveva chiesto che le truppe texarkane venissero evacuate dal suo reame. Il Re era morto di veleno quella notte stessa, e fra gli Stati di Laredo e di Texarkana era stata proclamata la guerra. Sarebbe stata un guerra breve. Si poteva affermare con sicurezza che la guerra era finita il giorno dopo il suo inizio, e che adesso Hannegan controllava tutte le terre e tutti i popoli, dal Fiume Rosso al Rio Grande.
Fin qui, era tutto previsto: ma non erano state previste le notizie che l'accompagnavano.
Hannegan II, per Grazia di Dio Podestà, Viceré di Texarkana, Difensore della Fede, e Vaquero Supremo delle Pianure, dopo aver giudicato Monsignor Marcus Apollo colpevole di "tradimento" e di spionaggio, aveva ordinato che il Nunzio papale venisse impiccato e poi, quando era ancora vivo, tolto dal patibolo per essere squartato e spellato vivo, come esempio a chiunque altro volesse tentare di minare il potere del Podestà. Ridotta in pezzi, la carcassa dell'ecclesiastico era stata gettata ai cani.
Il messaggero ebbe appena bisogno di aggiungere che Texarkana era stata colpita da interdizione assoluta da un decreto papale che conteneva vaghe ma minacciose allusioni alla Regnans in Excelsis, una bolla del sedicesimo secolo che ordinava la deposizione di un monarca. Non vi era ancora notizia di contromisure da parte di Hannegan.
Sulle Pianure, le forze laredane avrebbero dovuto aprirsi la strada verso casa combattendo fra le tribù nomadi, soltanto per deporre le armi ai propri confini, perché la loro nazione e i loro parenti erano tenuti come ostaggi.
— Una vera tragedia! — disse il Thon Taddeo, con evidente sincerità. — A causa della mia nazionalità, mi offro di partire immediatamente.
— Perché? — chiese Don Paulo. — Voi non approvate le azioni di Hannegan, non è vero?
Lo studioso esitò, poi scosse il capo. Si guardò intorno, per essere certo che nessuno li ascoltasse. — Personalmente, le condanno. Ma in pubblico… — E scrollò le spalle. — C'è il collegium cui devo pensare. Se si trattasse soltanto del mio collo, allora…
— Comprendo.
— Posso dirvi in confidenza una mia opinione?
— Naturalmente.
— Allora qualcuno dovrebbe distogliere Nuova Roma dal pronunciare minacce oziose. Hannegan è capacissimo di crocifiggere parecchie dozzine di Marcus Apollo.
— E allora nuovi martiri saliranno in Cielo; Nuova Roma non pronuncia minacce oziose.
Il thon sospirò. — Immaginavo che l'avreste presa in questo modo. Ma rinnovo la mia offerta di andarmene.
— Sciocchezze. Qualunque sia la vostra nazionalità, la vostra umanità fa di voi il benvenuto.
Ma c'era stata una frattura. Lo studioso stette molto sulle sue, in seguito, e conversava soltanto raramente con i monaci. I suoi rapporti con frate Kornhoer divennero notevolmente formali, sebbene l'inventore trascorresse un'ora o due, ogni giorno, nella manutenzione e nell'ispezione della dinamo e della lampada e si tenesse informato dei progressi del lavoro del thon, che procedeva con una rapidità insolita. Gli ufficiali si avventuravano solo raramente fuori della foresteria.
C'erano sintomi di un esodo dalla regione. Voci inquietanti continuavano a giungere dalle Pianure. Nel villaggio di Sanly Bowitts, la gente cominciava a trovare improvvisamente buone ragioni per partire tutto d'un tratto per qualche pellegrinaggio o per visitare altre terre. Persino ì mendicanti e i vagabondi se ne andavano. Come sempre, i mercanti e gli artigiani si trovarono di fronte alla spiacevole alternativa di abbandonare le loro proprietà ai ladri e ai saccheggiatori o di rimanere sul posto per vederle saccheggiare. Un comitato di cittadini, guidato dal podestà del villaggio, visitò l'abbazia per chiedere rifugio per la cittadinanza, in caso di invasione.
— La mia offerta definitiva — disse l'abate, dopo parecchie ore di discussione — è questa: accoglieremo tutte le donne, i bambini, gli invalidi e i vecchi, senza fare domande. Ma per quanto riguarda gli uomini capaci di maneggiare armi, considereremo ogni caso individualmente, e può darsi che dobbiamo respingerne molti.
— Perché — chiese il podestà.
— Dovrebbe essere chiaro persino per voi! — disse Don Paulo con voce tagliente. — Può darsi che noi stessi veniamo attaccati, ma a meno che non ci attacchino direttamente, noi cercheremo di restarne fuori. Non permetterò che questo luogo sia usato da chicchessia come una guarnigione da cui sferrare un contrattacco, se sarà solo il villaggio a venire investito. Quindi, nel caso dei maschi abili a portare armi, dovremo insistere per ottenere una promessa… difendere l'abbazia ai nostri ordini. E decideremo caso per caso se la promessa è degna di fede o no.
— È ingiusto! — ululò un membro del comitato. — Voi volete discriminare…
— La discriminazione verrà praticata soltanto nei confronti di chi non meriterà fiducia. Perché? Speravate di nascondere qui un esercito di riserva? Ebbene, non vi sarà permesso. Non piazzerete una milizia cittadina, qui fuori. Questa decisione è definitiva.
Considerate le circostanze, il comitato non poteva rifiutare qualunque aiuto venisse offerto. Non vi furono ulteriori discussioni.
Don Paulo aveva intenzione di accogliere tutti, quando fosse venuto il momento, ma per il momento intendeva sventare tutti i progetti del villaggio che comprendessero l'abbazia in un piano militare. Più tardi sarebbero venuti degli ufficiali da Denver, con richieste eguali; avrebbero pensato meno a salvare delle vite che a salvare il loro regime politico. E intendeva dare anche a loro una risposta simile. L'abbazia era stata costruita per essere una fortezza di fede e di dottrina, e intendeva conservarla tale.
Il deserto cominciò a brulicare di viaggiatori che venivano dall'Est. Commercianti, cacciatori e mandriani che si spostavano verso occidente, portavano notizie dalle Pianure. La pestilenza del bestiame si spargeva come un incendio fra le mandrie dei nomadi; sembrava imminente la carestia. Le forze di Laredo avevano subito continui sfaldamenti e ammutinamenti, dopo la caduta della dinastia laredana. Parte dei soldati erano ritornati in patria, come era stato loro ordinato, ma altri si erano accinti, per un terribile voto, a marciare su Texarkana e a non fermarsi fino a che non si fossero impadroniti della testa di Hannegan II o fossero morti nel tentativo. Indeboliti da quella divisione, i laredani venivano gradualmente spazzati via dalle continue scaramucce dei guerrieri di Orso Pazzo che erano assetati di vendetta contro coloro che avevano portato la moria fra le loro mandrie.
Si vociferava che Hannegan avesse generosamente offerto di accogliere i sudditi di Orso Pazzo come dipendenti e protetti, se avessero giurato fedeltà alla legge "civile", se avessero accettato i suoi ufficiali nei loro consigli e se avessero abbracciato la Fede Cristiana. "Sottomettersi o morire di fame" era la scelta che il fato e Hannegan offrivano ai popoli nomadi. Molti preferivano morire di fame piuttosto di giurare lealtà a uno stato di agricoltori e di mercanti. Si diceva che Hongan Os andasse ruggendo la sua sfida verso sud, verso est e verso il cielo; e per sottolineare quest'ultima bruciava uno sciamano al giorno per punire gli dèi tribali del loro tradimento. Minacciava di diventare cristiano se gli dèi cristiani lo avessero aiutato a massacrare i suoi nemici.
Fu durante una breve visita di un gruppo di pastori che il Poeta scomparve dall'abbazia. Il Thon Taddeo fu il primo a notare l'assenza del Poeta dalla foresteria e a chiedere notizie del vagabondo verseggiatore.
Il viso di Don Paulo si contrasse per la sorpresa. — Siete certo che se ne sia andato? — chiese. — Spesso trascorre qualche giorno nel villaggio, o va alla mesa per discutere con Benjamin.
— Manca tutta la sua roba — disse il thon. — Dalla sua stanza è scomparsa ogni cosa.
L'abate storse la bocca. — Quando il Poeta se ne va, è un brutto segno. Fra l'altro, se è veramente scomparso, vi consiglierei di fare un immediato inventario delle vostre proprietà.
Il thon assunse un'espressione pensierosa. — Dunque i miei stivali…
— Senza dubbio.
— Li avevo messi fuori dalla stanza perché venissero lucidati. Ma non mi sono stati resi. Fu lo stesso giorno in cui tentò di abbattere la mia porta.
— Di abbattere… chi, il Poeta?
Thon Taddeo ridacchiò. — Temo di essermi divertito un po' alle sue spalle. Io ho il suo occhio di vetro. Ricordate la sera in cui lo abbandonò sulla tavola del refettorio?
— Sì
— Lo presi io.
Il thon aprì la borsa, vi frugò per un attimo, poi posò sulla scrivania l'occhio di vetro del Poeta. — Sapeva che l'avevo io, ma ho continuato a negarlo. Però da allora ci siamo divertiti alle sue spalle, inventando addirittura la voce che fosse in realtà l'occhio di vetro, perduto da molto tempo, dell'idolo Bayring, e che avrebbe dovuto essere riportato al museo. Il Poeta è diventato frenetico, dopo un poco. Naturalmente avevo intenzione di restituirglielo prima di ripartire. Pensate che ritornerà, dopo che ce ne saremo andati?
— Ne dubito — disse l'abate, rabbrividendo leggermente mentre fissava il globo oculare. — Ma lo conserverò per lui, se volete. Sebbene sia probabile che il Poeta compaia a Texarkana per cercarlo lì. Sostiene che è un talismano potente.
— E in che senso?
Don Paulo sorrise. — Dice che ci vede molto meglio quando lo porta.
— Che assurdità! — Il thon si interruppe, sempre pronto, evidentemente, a considerare almeno per un attimo qualsiasi insolita premessa, aggiunse: — È un'assurdità… a meno che, riempiendo l'orbita vuota, non influenzi in qualche modo i muscoli di entrambe le orbite. È questo ciò che afferma?
— Si limita a giurare che non può vedere altrettanto bene, senza di esso. Sostiene che deve averlo per la percezione dei "veri significati"… sebbene gli procuri accecanti mal di testa quando lo porta. Ma non si sa mai quando il Poeta racconta fatti, fantasie o allegorie. Se la fantasia è abbastanza intelligente, dubito che il Poeta ammetta una differenza fra fantasia e realtà.
Il thon sorrise ironicamente. — Fuori della mia porta, l'altro giorno, gridava che io ne avevo più bisogno di lui. Questo mi sembra indicare che lui lo consideri, in se stesso, come un potente feticcio… utile a chiunque. Mi domando perché.
— Ha detto che voi ne avevate bisogno? Oh-oh!
— Questo vi diverte?
— Scusatemi. Probabilmente intendeva insultanti. Sarà meglio che non tenti di spiegarvi l'insulto del Poeta; potrebbe sembrare che io lo condivida.
— Affatto. Io sono curioso.
L'abate guardò l'immagine di San Leibowitz nell'angolo della stanza. — Il Poeta usava il suo occhio di vetro come una buffoneria corrente — spiegò. — Quando voleva prendere una decisione, o riflettere su qualcosa, o discutere un argomento, metteva l'occhio di vetro nell'orbita. Lo toglieva di nuovo quando vedeva qualcosa che gli spiaceva, quando fingeva di ignorare qualcosa, o quando voleva fare la parte dello stupido. Quando lo portava, il suo contegno cambiava. I frati cominciarono a chiamarlo "la coscienza del Poeta" e lui stava allo scherzo. Dava piccole lezioni e dimostrazioni sui vantaggi di una coscienza removibile. Fingeva che qualche impulso frenetico lo possedesse… qualcosa di scarsa importanza, di solito… come un impulso diretto verso una bottiglia di vino. Quando portava l'occhio, accarezzava la bottiglia di vino, si leccava le labbra, ansimava e gemeva, poi staccava la mano. Finalmente, l'impulso lo riprendeva. Afferrava la bottiglia, ne versava un poco in una coppa e vi deglutiva sopra per un secondo. Ma poi la coscienza aveva il sopravvento, e gettava la coppa attraverso la stanza. Quindi ricominciava a guardare avidamente la bottiglia di vino, e cominciava a gemere e a perdere saliva dalla bocca, ma continuava a combattere l'impulso… — L'abate ridacchiò, controvoglia. — Era uno spettacolo terribile, comunque. Finalmente, quando era sfinito, si toglieva l'occhio di vetro. Una volta tolto l'occhio, si calmava improvvisamente. L'impulso smetteva di agire su di lui. E allora, freddo e arrogante, prendeva la bottiglia, si guardava intorno e rideva. "Lo farò in ogni caso" diceva. Poi, mentre tutti si aspettavano che bevesse il vino, sfoggiava un sorriso beato e si versava il contenuto della bottiglia sulla testa. Il vantaggio di una coscienza removibile, vedete.
— Quindi crede che io ne abbia più bisogno di lui.
Don Paulo scrollò le spalle. — Ma è soltanto il Poeta!
Lo studioso sbuffò divertito. Toccò la sfera vitrea e la fece rotolare attraverso la tavola, con il pollice. Improvvisamente, scoppiò a ridere. — Mi piace. Credo di sapere chi ne ha bisogno più del Poeta. Forse la terrò, dopotutto. — La raccolse, la lanciò, l'afferrò al volo, e guardò dubbioso l'abate.
Paulo si limitò a scrollare di nuovo le spalle.
Il Thon Taddeo lasciò cadere di nuovo l'occhio nella borsa.
— Potrà riaverlo, se mai verrà a reclamarlo. Ma, fra l'altro, avevo intenzione di dirvelo: il mio lavoro, qui, è quasi finito. Partiremo fra pochissimi giorni.
— Non siete preoccupato per i combattimenti nelle Pianure?
Il Thon Taddeo guardò corrucciato la parete. — Ci accamperemo su una collina isolata, a circa una settimana di cammino di qui, verso oriente. Un gruppo di… ehm… la nostra scorta ci incontrerà lì.
— Io spero — disse l'abate, assaporando quell'educato saggio di cattiveria — che la vostra scorta non abbia cambiato le sue alleanze politiche, da quando avete concluso l'accordo. Sta diventando difficile distinguere i nemici dagli alleati, di questi tempi.
Il thon arrossì. — Specialmente se vengono da Texarkana, intendete dire?
— Non ho detto questo.
— Siamo franchi l'uno con l'altro, Padre. Io non posso combattere il principe che rende possibile il mio lavoro… qualunque cosa io pensi dei suoi metodi o della sua politica. Io mostro di appoggiarlo, superficialmente, o per lo meno di ignorarlo… per il bene del collegium. Se lui allarga i suoi domini, il collegium può trarne profitto. Se il collegium prospera, l'umanità trarrà profitto dal nostro lavoro.
— Quelli che sopravviveranno, forse.
— È vero… ma è sempre stato vero, in ogni circostanza.
— No, no… Dodici secoli or sono, neppure i sopravvissuti ne trassero profitto. Dobbiamo ricominciare di nuovo per quella via?
Il Thon Taddeo alzò le spalle. — E io che posso farci? — chiese, di rimando. — Il principe è Hannegan, non sono io.
— Ma voi promettete di cominciare a restaurare il dominio dell'Uomo sulla Natura. Però chi governerà l'uso della potenza per dominare le forze naturali? Chi l'userà? A quale fine? Come lo terrete in iscacco? Queste decisioni devono ancora essere prese. Ma se voi e la vostra fazione non le prendete adesso, altri le prenderanno, presto, al vostro posto. L'umanità ne trarrà profitto, voi dite. Con il consenso di chi? Con il consenso di un principe che firma le sue lettere con una X? Oppure credete veramente che il vostro collegio sarà al sicuro dalle sue ambizioni, quando comincerà a scoprire che voi siete preziosi, per lui?
Don Paulo non aveva preteso di convincerlo. Ma fu con il cuore pesante che l'abate notò la paziente condiscendenza con cui il thon lo ascoltava: era la pazienza di un uomo che ascolta un argomento che ha da molto tempo confutato con propria soddisfazione.
— Ciò che consigliereste in realtà — disse lo studioso — è che noi aspettiamo ancora un poco. Che sciogliamo il collegium, o che lo trasferiamo nel deserto, e in un modo o in un altro… senza possedere oro o argento… facciamo rivivere una scienza sperimantale e teorica, in un modo lento e difficile, senza dirlo a nessuno. Che noi salviamo tutto per il giorno in cui l'Uomo sarà buono e puro e santo e saggio.
— Non è questo che intendevo…
— Non è questo che intendevate dire, ma è ciò che significa quello che avete detto. Tenere la scienza chiusa in un chiostro, non tentare di applicarla, non tentare di far nulla fino a che gli uomini non saranno santi. Ebbene, non funzionerebbe. Voi lo avete fatto qui, in questa abbazia, per intere generazioni.
— Noi non abbiamo nascosto nulla.
— No, non l'avete nascosto; ma vi ci siete seduti sopra, così quietamente, e nessuno sapeva che era qui, e voi non ne avete fatto nulla.
Una breve collera lampeggiò negli occhi del vecchio ecclesiastico. — È tempo che voi conosciate il nostro fondatore, mi pare — brontolò, indicando la scultura lignea nell'angolo. — Era uno scienziato come voi, prima che il mondo impazzisse e che lui corresse in cerca di un rifugio. Fondò quest'Ordine per salvare ciò che poteva essere salvato, dei documenti dell'ultima civiltà. "Salvato" da che cosa, e per quale scopo? Vedete su che cosa è ritto… vedete i fuscelli e la legna? I libri? Ecco quanto poco il mondo voleva la vostra scienza, allora, e per parecchi secoli, poi. Così lui morì per noi. Quando lo aspersero d'olio combustibile, la leggenda dice che lui ne chiese una tazza. Pensarono che l'avesse scambiato per acqua, quindi risero e gliene diedero una coppa. Lui lo benedisse e… e qualcuno afferma che l'olio si cambiò in vino quando lo benedisse… e poi esclamò "Hic est enim calix Sanguinis Mei" e lo bevve prima che l'impiccassero e lo ardessero vivo. Devo leggervi un elenco dei nostri martiri? Devo citarvi tutte le battaglie che abbiamo combattuto per serbare intatti questi documenti? Tutti i monaci diventati ciechi nella copisteria? per il vostro bene? Eppure voi dite che non ne abbiamo fatto nulla, li abbiamo nascosti nel silenzio.
— Non intenzionalmente — disse lo studioso — ma in effetti voi l'avete fatto… e per gli stessi motivi che, come voi sottintendete, dovrebbero essere i miei. Se voi tentate di salvare la saggezza fino a che il mondo diventerà saggio, Padre, il mondo non l'avrà mai.
— Vedo che l'incomprensione è radicale! — disse burberamente l'abate. — Servire prima Dio o servire prima Hannegan… questa scelta spetta a voi.
— Ho poca scelta, allora — rispose il Thon. — Vorreste forse che lavorassi per la Chiesa? — Il sarcasmo nella sua voce era inconfondibile.
Era il giovedì dell'Ottava di Ognissanti.
In preparazione per la partenza, il thon e il suo seguito dividevano gli appunti e i documenti nel sotterraneo. Lo studioso aveva attirato un piccolo pubblico di monaci, e prevaleva uno spirito di amicizia, ora che il momento di andarsene si avvicinava.
In alto, la lampada ad arco continuava a scintillare abbagliante, riempiendo l'antica biblioteca di una dura luce biancazzurra, mentre la squadra di novizi azionava fiaccamente la dinamo a mano. L'inesperienza del novizio che sedeva in cima alla scaletta per regolare costantemente la distanza tra i due carboni dell'arco provocava scintillii irregolari: quel novizio aveva sostituito il precedente e più abile operatore, che in quel momento era nell'infermeria, con compresse umide sugli occhi.
Il Thon Taddeo aveva risposto a domande sul suo lavoro con minor reticenza del solito, non più preoccupato, evidentemente, di argomenti controversi come le proprietà di rifrazione della luce o le ambizioni del Thon Esser Shon.
— Ora, a meno che questa ipotesi sia senza senso — stava dicendo — dovrebbe essere possibile confermarla in qualche modo mediante l'osservazione. Io ho prospettato l'ipotesi con l'aiuto di alcune nuove… o meglio, di alcune antichissime forme matematiche suggerite dal nostro studio dei vostri Memorabilia. L'ipotesi sembra offrire una spiegazione più semplice dei fenomeni ottici, ma francamente, non riuscivo a pensare ad alcun metodo per sperimentarla, dapprima. E allora il vostro fratello Kornhoer mi è stato di grande aiuto. — Fece un cenno con il capo in direzione dell'inventore, sorridendo, e spiegò uno schizzo del proposto apparecchio di prova.
— Che cos'è? — chiese qualcuno dopo un breve intervallo di sbalordimento.
— Ecco… è una pila di lastre di vetro. Un raggio solare che colpisce la pila con questo angolo sarebbe in parte riflesso in parte trasmesso. La parte riflessa sarà polarizzata. Ora, noi regoliamo la pila per riflettere il raggio attraverso questo oggetto, che è un'idea di frate Kornhoer, e facciamo cadere la luce su questa seconda pila di lastre di vetro. La seconda pila è disposta in modo di riflettere quasi tutto il raggio polarizzato, e per non trasmettere quasi nulla. Guardando attraverso il vetro, difficilmente vedremmo la luce. Tutto questo è stato sperimentato. Ma ora, se la mia ipotesi è corretta, chiudendo questo interruttore sulla bobina di campo di frate Kornhoer si dovrebbe provocare un improvviso ravvivamento della luce trasmessa. Se non sarà così… — scrollò le spalle — …allora scarteremo l'ipotesi.
— Dovreste scartare la bobina, invece — propose modestamente frate Kornhoer. — Non sono certo che produrrà un campo abbastanza forte.
— Io sì. Voi avete un istinto per queste cose. Io trovo molto più facile sviluppare una teoria astratta che realizzare un metodo pratico per provarla. Ma voi avete il dono straordinario di vedere tutto sotto forma di viti, fili e lenti, mentre io sto ancora pensando a simboli astratti.
— Ma, tanto per cominciare, a me le astrazioni non verrebbero neppure in mente, Thon Taddeo.
— Noi due faremmo un'ottima squadra di ricerca, fratello. Vorrei che voi accettaste di venire da noi al collegium, almeno per un certo tempo. Credete che il vostro abate vi permetterebbe di partire?
— Non ho la presunzione di indovinarlo — mormorò l'inventore, improvvisamente imbarazzato.
Il Thon Taddeo si rivolse agli altri. — Ho sentito parlare di "fratelli assenti". Non è forse vero che qualche membro della vostra comunità è impiegato altrove, temporaneamente?
— Qualcuno soltanto, Thon Taddeo — disse un giovane prete. — Un tempo, l'Ordine forniva impiegati, scrivani e segretari al clero secolare, e alle corti reali ed ecclesiastiche. Questo, tuttavia, fu durante i tempi delle maggiori ristrettezze, qui all'abbazia. I fratelli che lavoravano altrove qualche volta hanno salvato gli altri dalla morte per fame. Ma ora non è più necessario, e avviene di rado. Naturalmente, vi sono alcuni fratelli che studiano a Nuova Roma, adesso, ma…
— Ecco! — disse il thon con improvviso entusiasmo. — Vi offro di studiare al collegium, fratello. Stavo parlando al vostro abate, ma…
— Sì? — chiese il giovane prete.
— Ecco, mentre non siamo d'accordo su alcune cose, posso comprendere il suo punto di vista. Penso che uno scambio di studenti potrebbe migliorare i nostri rapporti. Naturalmente vi verrebbe assegnato uno stipendio, e io sono sicuro che il vostro abate ne farebbe l'uso migliore.
Frate Kornhoer chinò il capo ma non disse nulla.
— Suvvia! — rise lo studioso. — Non mi sembrate compiaciuto dell'invito, fratello!
— Ne sono lusingato, naturalmente. Ma non spetta a me decidere su queste cose.
— Certo, e io naturalmente lo comprendo. Ma non mi sognerei di chiederlo al vostro abate, se l'idea vi dispiace.
Frate Kornhoer esitò. — La mia vocazione è per la Religione — disse alla fine. — Cioè… per una vita di preghiera. Noi pensiamo che anche il nostro lavoro sia una specie di preghiera. Ma quella… — e indicò la sua dinamo — …mi sembra piuttosto un gioco. Tuttavia, se Don Paulo decidesse di mandarmi…
— Partireste con riluttanza — concluse indispettito lo studioso. — Sono sicuro che potrei indurre il collegium a mandare al vostro abate almeno cento hannegan d'oro ogni anno, mentre voi sarete presso di noi. Io… — Si interruppe, per guardare le espressioni dei religiosi. — Scusatemi, ho detto qualche cosa di sbagliato?
A metà della scala, l'abate si fermò per osservare il gruppo nel sotterraneo. Parecchi visi inespressivi erano rivolti verso di lui. Dopo pochi secondi il Thon Taddeo notò la presenza dell'abate e lo salutò con un cordiale cenno del capo.
— Stavamo parlando proprio di voi, Padre — disse. — Se avete ascoltato, forse dovrei spiegare…
Don Paulo scosse il capo. — Non è necessario.
— Ma mi piacerebbe discutere…
— Potete aspettare? In questo momento ho molta fretta.
— Certamente — disse lo studioso.
— Tornerò prestissimo. — Risalì le scale. Padre Gault lo stava aspettando nel cortile.
— Lo hanno già saputo, Domne? — chiese cupo il priore.
— Non l'ho chiesto, ma sono sicuro che non l'hanno saputo — rispose Don Paulo. — Stanno facendo sciocche conversazioni, laggiù. Stanno parlando di portare frate Kornhoer a Texarkana con loro.
— Allora non l'hanno saputo, questo è certo.
— Sì. E ora, dov'è?
— Nella foresteria, Domne. C'è il medico, con lui. È in delirio.
— Quanti fratelli sanno che è qui?
— Non più di quattro. Stavamo cantando Nona quando è arrivato alla porta.
— Dite a quei quattro di non parlarne con nessuno. Poi raggiungete i nostri ospiti nel sotterraneo. Siate molto cortese, e non fateglielo sapere.
— Ma dovrebbero esserne informati prima che partano.
— Naturalmente. Ma lasciate che si preparino, prima. Sapete che questo non impedirà loro di partire. Quindi, per ridurre al minimo l'imbarazzo, aspettiamo l'ultimo minuto per dirglielo. Ora, l'avete con voi?
— No, l'ho lasciato con i suoi documenti nella foresteria.
— Andrò a vederlo. E adesso avvertite i fratelli, e raggiungete i nostri ospiti.
— Sì, Domne.
L'abate si avviò verso la foresteria. Quando entrò, il Frate Farmacista stava uscendo dalla stanza del fuggitivo.
— Vivrà, fratello?
— Non posso saperlo, Domne. Torture, inedia, febbre da sfinimento… se Dio lo vuole… — E scrollò le spalle.
— Posso parlargli?
— Sono certo che non ha importanza. Ma non riesce a parlare con lucidità.
L'abate entrò nella stanza e chiuse senza far rumore la porta dietro di sé. — Frate Claret?
— No, basta! — boccheggiò l'uomo disteso sul letto. — Per l'amore di Dio, basta… vi ho detto tutto ciò che so. Io l'ho tradito. E adesso lasciatemi… essere.
Don Paulo guardò con pietà il segretario del defunto Marcus Apollo. Guardò le mani dello scrivano. C'erano soltanto piaghe dove c'erano state le unghie.
L'abate rabbrividì e si voltò verso il tavolino accanto al letto. In un mucchietto di documenti e di effetti personali, trovò subito il documento, rozzamente stampato, che il fuggitivo aveva portato con sé da occidente.
HANNEGAN IL PODESTÀ per Grazia di Dio: Sovrano di Texarkana, Imperatore di Laredo, Difensore della Fede, Dottore delle Leggi, Capo dei Clan dei Nomadi e Vacquero Supremo delle Pianure, a TUTTI I VESCOVI, E PRELATI della Chiesa in tutto il Nostro Legittimo Reame, Salute e AVVISO perché questa è la LEGGE videlicet vale a dire:
1) Laddove un certo principe straniero, certo Benedetto XXII, Vescovo di Nuova Roma, presumendo di asserire un'autorità che non gli compete di diritto sul clero di questa nazione, ha osato tentare, primo, di porre la Chiesa Texarkana sotto sentenza di interdizione e, più tardi, di sospendere questa sentenza, creando conseguentemente grande confusione e spirituale abbandono fra tutti i fedeli. Noi, unico legittimo dominatore al di sopra della Chiesa in questo reame, agendo in concordia con un concilio di vescovi e di prelati, con la presente dichiariamo ai Nostri leali sudditi che il predetto principe e vescovo, Benedetto XXII, è un eretico, simoniaco, assassino, sodomita e ateo, indegno di qualsiasi riconoscimento da parte dalla Santa Chiesa nelle terre del Nostro regno, impero o protettorato. Chi lo serve non serve Noi.
2) Sia noto, pertanto, che sia il decreto di interdizione sia il decreto che lo sospende sono con la presente CANCELLATI, REVOCATI, DICHIARATI NULLI E PRIVI DI CONSEGUENZA, perché non ebbero mai alcuna validità originaria…
Don Paulo gettò soltanto una breve occhiata al seguito. Non c'era bisogno di leggere oltre. L'avviso podestarile ordinava che il clero texarkano si procurasse licenze per esercitare il ministerio, proclamava la somministrazione dei Sacramenti da parte di persone non autorizzate un crimine punibile secondo la legge, faceva del giuramento di suprema lealtà al Podestà una condizione per ottenere autorizzazione e riconoscimento. Era firmato non soltanto con la X del Podestà, ma anche da parecchi "vescovi" i cui nomi erano sconosciuti all'abate.
Ributtò il documento sulla tavola e sedette accanto al letto. Il fuggitivo aveva gli occhi spalancati, ma si limitava a guardare il soffitto e ad ansimare.
— Frate Claret? — chiamò dolcemente. — Fratello…
Nel sotterraneo, gli occhi dello studioso brillavano dell'esuberanza di uno specialista che invade il campo di un altro specialista allo scopo di chiarire una grande confusione. — In realtà, sì! — disse, in risposta alla domanda di un novizio. — Io ho individuato una fonte, qui, che dovrebbe secondo me, essere di grande interesse per il Thon Mario. Naturalmente, non sono uno storico, ma…
— Thon Maho? È quello che, ehm, sta cercando di correggere la Genesi? — chiese maliziosamente Padre Gault,
— Sì, è lui… — Lo studioso si interruppe, lanciando uno sguardo un po' sorpreso a Gault.
— Benissimo — disse il prete, ridacchiando. — Molti di noi pensano che la Genesi sia più o meno allegorica. Che cosa avete scoperto?
— Abbiamo individuato un frammento prediluviale che suggerisce un concetto molto rivoluzionario, secondo me. Se interpreto correttamente il frammento, l'Uomo non fu creato se non poco tempo prima della caduta dell'ultima civiltà.
— Co-o-sa? E allora da dove veniva la civiltà?
— Non dall'umanità. Fu sviluppata da una razza precedente che si estinse durante il Diluvium Ignis.
— Ma la Sacra Scrittura risale a migliaia di anni prima del Diluvium!
Il Thon Taddeo conservò un silenzio significativo.
— Voi proponete — disse Gault, improvvisamente sgomento — l'ipotesi che noi non siamo discendenti di Adamo? Che non siamo legati all'umanità storica?
— Aspettate! Io propongo soltanto la congettura che la razza prediluviale, che si definiva umana, riuscisse a creare la vita. Poco prima della distruzione della loro civiltà, quegli esseri riuscirono a creare gli antenati dell'umanità attuale… "a loro immagine"… come una razza di schiavi.
— Ma anche se voi respingete completamente la Rivelazione, questa è una complicazione assolutamente non necessaria, alla luce del semplice buon senso! — protestò Gault.
L'abate aveva sceso quietamente le scale. Si fermò sull'ultimo pianerottolo e ascoltò, incredulo.
— Potrebbe sembrare così — affermò il Thon Taddeo — fino a che non considerate quante cose spiegherebbe, questa ipotesi. Voi conoscete le leggende della Semplificazione. Assumono tutte un significato, mi sembra, se si considera la Semplificazione come una ribellione di una razza schiava contro l'originale specie dei creatori, così come suggerisce il frammento di cui parlo. E spiegherebbe anche perché l'umanità di oggi sembra così inferiore a quella antica, perché i nostri antenati precipitarono nella barbarie, quando i loro padroni si estinsero, perché…
— Dio abbia misericordia di questa casa! — gridò Don Paulo, avanzando verso l'alcova. — Risparmiaci, o Signore… noi non sappiamo quello che facciamo.
— Io dovrei saperlo — mormorò lo studioso, rivolto a tutto il mondo lontano.
Il vecchio prete avanzò come una nemesi verso il suo ospite.
— Dunque noi siamo soltanto creature di altre creature, Signor Filosofo? Siamo stati fatti da dèi inferiori a Dio, e di conseguenza comprensibilmente meno che perfetti… senza nostra colpa, naturalmente.
— È soltanto una congettura che spiegherebbe molte cose — disse impettito il thon, non disposto a cedere.
— E che assolverebbe da molte colpe, non è vero? La ribellione dell'Uomo contro i suoi creatori era, senza dubbio, soltanto un giustificabile tirannicidio contro gli infinitamente malvagi figli di Adamo, dunque.
— Io non ho detto…
— Mostratemi, Signor Filosofo, questo brano straordinario!
Il Thon Taddeo si affrettò a frugare fra i suoi appunti. La luce cominciò ad ammiccare, quando i novizi che azionavano la dinamo si tesero per ascoltare. Il piccolo pubblico dello studioso era rimasto in uno stato di trauma fino a che l'ingresso tempestoso dell'abate non aveva mandato in frantumi l'ottuso sbigottimento degli ascoltatori. I monaci sussurravano tra loro; qualcuno osò ridere.
— Ecco qui — annunciò il Thon Taddeo, porgendo a Don Paulo parecchie pagine.
L'abate gli lanciò una breve occhiata fulminante e cominciò a leggere. Il silenzio era impacciato. — L'avete trovato nella sezione "Non classificati", vero? — chiese, dopo pochi secondi.
— Sì, ma…
L'abate continuò a leggere.
— Bene, penso che dovrei finire di preparare i bagagli — mormorò lo studioso, e ricominciò a dividere i documenti. I monaci si agitavano irrequieti, come se desiderassero allontanarsi senza farsi notare. Kornhoer meditava, tutto solo.
Dopo pochi minuti di lettura, Don Paulo porse bruscamente gli appunti al priore. — Lege! - ordinò, burbero.
— Ma cosa…?
— Un frammento di commedia, o un dialogo, sembra. L'ho già visto prima. È qualcosa che parla di qualcuno che aveva creato alcuni esseri artificiali come schiavi. E gli schiavi si rivoltano contro il loro creatore. Se il Thon Taddeo avesse letto il De Inanibus del Venerabile Boedullus, avrebbe trovato questo frammento classificato come "probabile favola o allegoria". Ma forse al thon non importerebbe molto la valutazione del Venerabile Boedullus, quando può darne una propria.
— Ma che specie di…
— Lege!
Gault si trasse in disparte con gli appunti. Paulo si volse verso lo studioso e parlò con tono educato, informativo, enfatico: — A immagine di Dio Egli li creò: maschio e femmina Egli li creò.
— Le mie osservazioni erano pure congetture — disse il Thon Taddeo. — La libertà di speculare è necessaria…
— E il Signore Iddio prese l'uomo, e lo mise nel paradiso di delizie, perché lo curasse. E…
— …per il progresso della scienza. Se volete intralciarci la via con la cieca osservanza, con un dogma non ragionato, allora voi preferite…
— E Dio lo comandò, dicendo: Di ogni albero del paradiso tu potrai mangiare; ma non mangerai i frutti dell'albero della conoscenza del bene…
— …lasciare il mondo nella stessa ignoranza e superstizione contro cui affermate che il vostro Ordine…
— … e del male. Perché nel giorno in cui tu ne mangerai, tu morirai.
— …ha lottato. Non potremmo neppure combattere la carestia, le malattie, le malformazioni, o rendere il mondo un po' migliore di quanto è stato per…
— E il serpente disse alla donna: Dio sa che nel giorno in cui voi ne mangerete, i vostri occhi saranno aperti, e voi sarete come Dèi, e conoscerete il bene e il male.
— …dodici secoli, se ogni via di speculazione deve essere sbarrata e ogni pensiero nuovo denunciato…
— Non è mai stato migliore, e non sarà mai migliore. Sarà soltanto più ricco o più povero, più triste, ma non più saggio, fino all'ultimo giorno.
Lo studioso scrollò le spalle, in segno di impotenza. — Vedete? Sapevo che vi sareste offeso, ma mi avevate detto… Oh, a che serve? Voi avete la vostra versione!
— La "versione" che io stavo citando, Signor Filosofo, non era una versione del modo della creazione, ma una versione del modo in cui la tentazione portò alla Caduta. Questo vi è sfuggito? "E il serpente disse alla donna…".
— Sì, sì. Ma la libertà di speculare è essenziale…
— Nessuno ha tentato di privarvene. E nessuno si è offeso. Ma abusare dell'intelletto per ragioni dell'orgoglio e della vanità, o per sfuggire alla responsabilità, è il frutto dello stesso albero.
— Mettete in dubbio l'onorabilità dei miei motivi? — chiese il Thon oscurandosi.
— Qualche volta metto in dubbio i miei. Non vi accuso di nulla. Ma chiedete questo a voi stesso: perché vi prendete diletto di balzare a una simile bizzarra congettura da un trampolino così fragile? Perché volete screditare il passato, fino al punto di disumanizzare l'ultima civiltà? Perché non avete bisogno di imparare dagli errori degli antichi? O forse non sopportate di essere soltanto un "riscopritore" e dovete convincervi di essere anche voi un "creatore"?
Il thon sibilò un'imprecazione. — Questi documenti dovrebbero essere affidati nelle mani di persone competenti — disse, incollerito. — Che ironia è questa!
La luce vacillò e si spense. L'interruzione non era d'origine meccanica. I novizi che azionavano la dinamo avevano smesso di lavorare.
— Portate qualche candela — gridò l'abate.
Furono portate le candele.
— Scendete — disse Don Paulo al novizio che stava sulla scaletta. — E portate con voi quella cosa. Frate Kornhoer? Frate Korn…
— E andato in magazzino un momento fa, Domne.
— Bene, chiamatelo. — Don Paulo si volse di nuovo allo studioso, porgendogli il documento che era stato trovato fra gli effetti di frate Claret. — Leggetelo, se riuscite a decifrarlo alla luce delle candele, Signor Filosofo!
— Un editto del Podestà!
— Leggetelo, e rallegratevi della vostra diletta libertà.
Frate Kornhoer ritornò nella stanza. Reggeva il pesante crocifisso che era stato tolto dall'archivolto per fare posto alla nuova lampada. Porse la croce a Don Paulo.
— Come sapevate che volevo proprio questo?
— Ho deciso che era venuto il momento, Domne. — E scrollò le spalle.
Il vecchio salì sulla scaletta e riappese la croce al suo gancio di ferro. Il corpo scintillò aureo nella luce delle candele. L'abate si volse e gridò ai suoi monaci:
— Chi leggerà in questa alcova, d'ora innanzi, leggerà ad Lumina Christi!
Quando scese dalla scala, il Thon Taddeo stava già stipando gli ultimi documenti in una grande cassa, per dividerli più tardi. Guardò cautamente il prete, ma non disse nulla.
— Avete letto l'editto?
Lo studioso annuì.
— Se, per qualche improbabile eventualità, desideraste asilo politico qui…
Lo studioso scosse il capo.
— Allora posso chiedervi di chiarire la vostra osservazione a proposito dell'opportunità di porre i nostri documenti in mani competenti?
Il Thon Taddeo abbassò lo sguardo. — L'ho detto nel calore della discussione, Padre. Lo ritiro.
— Ma non avete smesso di pensarlo. L'avete sempre pensato.
Il thon non lo negò.
— E allora sarebbe inutile ripetervi la mia supplica perché intercediate in nostro favore… quando i vostri ufficiali diranno a vostro cugino che splendida guarnigione militare sarebbe questa abbazia. Ma per il suo stesso bene, ditegli che quando i nostri altari e i Memorabilia sono stati minacciati, i nostri predecessori non hanno esitato a resistere con le armi. — E fece una pausa. — Partirete oggi o domani?
— Credo che sarebbe meglio oggi — disse sottovoce il Thon Taddeo.
— Ordinerò di preparare le provviste. — L'abate si voltò per andarsene, ma si fermò per aggiungere, gentilmente: — Ma quando ritornerete, riferite un messaggio ai vostri colleghi.
— Naturalmente. Lo avete scritto
— No. Dite semplicemente che chiunque desideri studiare qui sarà il benvenuto, nonostante la scarsa illuminazione. Il Thon Maho, specialmente, o il Thon Esser Shon con i suoi sei ingredienti. Gli uomini devono dibattersi per qualche tempo nell'errore per separarlo dalla verità, io credo… purché non afferrino avidamente l'errore solo perché ha un sapore più gradevole. Dite loro anche, figlio mio, che quando verrà il tempo, come sicuramente verrà, in cui non soltanto i preti ma anche i filosofi avranno bisogno di un rifugio… dite loro che le nostre mura sono robuste.
Fece un cenno di congedo ai novizi, poi risalì le scale, per chiudersi da solo nel suo studio. Perché la Furia torceva di nuovo le sue viscere, e sapeva che si avvicinava la tortura.
Nunc dimittis servum tuum, Domine… Quia viderunt oculi mei salutare…
Forse questa volta si torcerà fino a staccarsi, pensò, quasi con speranza. Desiderava chiamare Padre Gault perché udisse la sua confessione, ma decise che sarebbe stato meglio aspettare che gli ospiti fossero partiti. Fissò di nuovo l'editto.
Un colpo alla porta interruppe la sua sofferenza.
— Non potete tornare più tardi?
— Temo che più tardi non sarò più qui — rispose una voce soffocata dal corridoio.
— Oh, Thon Taddeo… entrate, allora. — Don Paulo si raddrizzò; cercò di dominare la sofferenza, senza tentare di scacciarla, ma soltanto di controllarla, come avrebbe fatto con un servitore indisciplinato.
Lo studioso entrò e posò un fascio di carte sulla scrivania dell'abate. — Ho pensato che fosse giusto lasciarvi questi — disse.
— Che cosa sono?
— I disegni delle vostre fortificazioni. Quelli fatti dagli ufficiali. Vi suggerisco di bruciarli immediatamente.
— Perché avete fatto questo? — mormorò Don Paulo. — Dopo quello che ci siamo detti nel sotterraneo…
— Non fraintendetemi — interruppe il Thon Taddeo. — Li avrei restituiti in ogni caso… è una questione d'onore, non approfittare della vostra ospitalità per… ma non importa. Se avessi restituito prima i disegni, gli ufficiali avrebbero avuto il tempo e la possibilità di prepararne un'altra serie completa.
L'abate si alzò lentamente e tese la mano verso lo studioso.
Il Thon Taddeo esitò. — Non vi prometto alcun tentativo in vostro favore…
— Lo so.
— …perché sono convinto che ciò che avete qui dovrebbe essere aperto a tutto il mondo.
— Lo è. Lo è sempre stato, lo sarà sempre.
Si strinsero la mano, imbarazzati, però Don Paulo sapeva che non era un pegno di tregua, ma soltanto di reciproco rispetto fra avversari. Forse non sarebbe mai stato altro.
Ma perché tutto doveva accadere di nuovo?
La risposta era a portata di mano: c'era ancora il serpente che sussurrava: Perché Dio sa che nel giorno in cui ne mangerete, i vostri occhi saranno aperti; e voi sarete come Dèi. Il vecchio padre delle menzogne era abile nel dire mezze-verità: Come conoscerete il bene e il male, fino a quando non ne avrete assaggiato? Assaggiatene, e diventerete Dèi. Ma né l'infinita potenza né l'infinita sapienza poteva concedere la divinità agli uomini. Perché sarebbe stato necessario anche l'infinito amore.
Don Paulo mandò a chiamare il priore. Si avvicinava il momento di andarsene. E presto sarebbe venuto un nuovo anno.
Fu l'anno di un torrente di pioggia senza precedenti nel deserto, che fece fiorire semi sepolti da lungo tempo.
Fu l'anno in cui un vestigio di civiltà venne ai nomadi della Pianura, e persino il popolo di Laredo cominciò a mormorare che probabilmente tutto andava per il meglio. Nuova Roma non fu d'accordo.
In quell'anno un temporaneo accordo fu concluso e spezzato fra gli stati di Denver e di Texarkana. Fu l'anno in cui il Vecchio Ebreo ritornò alla sua precedente vocazione di Medico e di Vagabondo, l'anno in cui i monaci dell'Ordine Albertiano di Leibowitz seppellirono un abate e si inchinarono al suo successore. V'erano splendide speranze per il domani.
Fu l'anno in cui un re venne cavalcando dall'Est, per sottomettere quella terra e possederla. Fu un anno dell'Uomo.
Era spiacevolmente caldo, vicino al sentiero assolato che sfiorava la collina boscosa, e il caldo aveva aggravato la sete del Poeta. Dopo molto tempo sollevò il capo dal suolo, in preda alle vertigini, e cercò di guardarsi intorno. La lotta era finita; tutte le cose se ne stavano quiete, ora, tranne l'ufficiale di cavalleria. Le poiane scendevano per atterrare, senza far rumore.
C'erano parecchi profughi morti, un cavallo morto, e l'ufficiale morente, bloccato sotto il peso del cavallo. Ogni tanto, il cavaliere rinveniva e gridava, con voce fioca. Qualche volta invocava sua madre, qualche volta invocava un prete. Le sue grida disturbavano le poiane e nauseavano ulteriormente il Poeta, che già si sentiva bisbetico. Era un Poeta molto fuori di sé. Non si era mai aspettato che il mondo si comportasse in modo cortese o sensato, e di rado il mondo si era comportato così; spesso si era rincuorato della consistenza della sua rozzezza e della sua stupidità. Ma mai, prima di quella volta, il mondo aveva colpito il Poeta all'addome con un moschetto. Questo non gli sembrava affatto incoraggiante.
E, cosa anche peggiore questa volta non doveva biasimare la stupidità del mondo, ma la sua propria. Era stato il Poeta a sbagliare. Stava pensando solo alle proprie faccende e non dava fastidio a nessuno quando aveva visto il gruppo di profughi galoppare da oriente verso la collina, inseguito da un drappello di cavalieri. Per evitare di essere coinvolto, si era nascosto dietro un cespuglio che cresceva sull'orlo di una delle scarpate che fiancheggiavano il sentiero, un punto da cui avrebbe potuto assistere allo spettacolo senza essere visto. Non era un combattimento che attraesse il Poeta, quello. Non gli importavano affatto i gusti politici o religiosi dei profughi o dei cavalieri. Se il destino voleva un massacro, non avrebbe potuto trovare un testimonio meno disinteressato del Poeta. Quindi, perché aveva provato quel cieco impulso?
L'impulso l'aveva spinto a lanciarsi dalla scarpata e a sbalzare di sella l'ufficiale e a pugnalarlo tre volte con il coltello prima che entrambi cadessero al suolo. Non riusciva a comprendere perché lo aveva fatto. Non aveva ottenuto nulla. Gli uomini dell'ufficiale l'avevano abbattuto prima che potesse rimettersi in piedi. Il massacro dei profughi era continuato. Poi i cavalieri si erano allontanati per inseguire altri fuggitivi, lasciandosi indietro i morti.
Sentiva il suo addome brontolare. L'inutilità, ahimè, di tentare di digerire una palla di moschetto. Aveva compiuto un gesto inutile, decise finalmente, per colpa di quella sciabola spuntata. Se l'ufficiale si fosse limitato ad uccidere la donna e a buttarla di sella con un solo colpo netto, e avesse proseguito, il Poeta avrebbe ignorato il suo gesto. Ma continuare a colpirla e a colpirla in quel modo…
Rifiutò di ripensarvi. Pensò all'acqua.
— O Dio… O Dio… — continuava a lamentarsi l'ufficiale.
— La prossima volta, affila la tua coltelleria — gemette il Poeta.
Ma non vi sarebbe stata una prossima volta.
Il Poeta non riusciva a ricordare di aver mai temuto la morte, ma aveva sospettato spesso la Provvidenza di tramare il peggio ai suoi danni, quando sarebbe venuto il momento di morire. Si era aspettato di imputridire. Lentamente, e non molto profumatamente. Qualche poetico presentimento l'aveva avvertito che sarebbe morto sicuramente di un bubbone lebbroso, penitente ma non pentito. Non aveva mai pensato a nulla di così ottuso e definitivo come una pallottola nello stomaco, senza neppure un pubblico che ascoltasse i suoi gemiti morenti. L'ultima cosa che l'avevano sentito dire quando gli avevano sparato era stato «Uf!»… il suo testamento per la posterità. Uuf!… un Memorabile per voi, Domnissime.
— Padre? Padre? — gemette l'ufficiale.
Dopo un po', il Poeta raccolse le sue forze e alzò di nuovo la testa, sbatté le palpebre per farne cadere il terriccio, e studiò l'ufficiale per qualche secondo. Era certo che fosse lo stesso che aveva assalito, anche se adesso era diventato d'un verde gessoso. Sentirlo belare invocando un prete in quel modo cominciava a infastidire il Poeta. C'erano almeno tre religiosi che giacevano morti fra i profughi, eppure adesso l'ufficiale non era molto schizzinoso nello specificare la sua richiesta. Forse lo farò io, pensò il Poeta.
Cominciò a trascinarsi, lentamente, verso il cavaliere. L'ufficiale lo vide arrivare e cercò di prendere una pistola. Il Poeta si fermò; non aveva previsto di essere riconosciuto. Si preparò per rotolare al coperto. La pistola puntava, ondeggiando, nella sua direzione. La guardò ondeggiare per un momento, poi decise di continuare la sua avanzata. L'ufficiale premette il grilletto. Il colpo lo mancò di parecchi metri, sfortunatamente.
L'ufficiale stava cercando di ricaricare l'arma quando il Poeta gliela tolse. Sembrava in delirio, e continuava a cercare di farsi il segno della Croce.
— Continua — grugnì il Poeta, prendendo il coltello.
— Beneditemi, Padre, perché ho peccato…
— Ego te absolvo, figlio — disse il Poeta, e gli affondò il coltello nella gola.
Poi trovò la borraccia dell'ufficiale e bevve qualche sorso. L'acqua era riscaldata dal sole, ma sembrava deliziosa. Giacque, con la testa appoggiata sul cavallo dell'ufficiale e attese che l'ombra della collina avanzasse strisciando sulla strada. Gesù, come faceva male! Quest'ultimo gesto non sarà facile da spiegare, pensò; e non ho neanche il mio occhio di vetro. Eppure c'è veramente qualcosa da spiegare. Guardò il cavaliere morto.
— È caldo come l'inferno, laggiù, non è vero? — sussurrò con voce rauca.
Il cavaliere non era disposto a dargli informazioni. Il Poeta bevve un altro sorso dalla borraccia, poi un altro. Improvvisamente vi fu un doloroso movimento delle budella. Per un attimo o due lo fece soffrire molto.
Le poiane si avvicinarono; si allisciarono le penne, e litigarono sul pranzo; non era ancora adeguatamente preparato. Attesero i lupi per qualche giorno. Ce n'era per tutti. E finalmente mangiarono il Poeta.
Come sempre, i neri becchini dei cieli deposero le uova nella stagione adatta, e nutrirono amorosamente i piccini. Volarono alti sulle praterie, sulle montagne e sulle pianure, adempiendo al destino della vita che spettava loro, secondo il piano della Natura. I loro filosofi dimostravano, mediante la sola ragione e senza altri aiuti, che il Supremo Cathartes aura regnans aveva creato il mondo specialmente per le poiane. Lo onorarono con cordiale appetito per molti secoli.
Poi, dopo le generazioni delle tenebre vennero le generazioni della luce. E lo chiamarono l'Anno del Signore 3781… un anno della Sua pace, pregarono.