Edward mi aiutò a salire sulla sua auto, attento a non rovinare gli svolazzi di seta e chiffon del mio vestito, i fiori che aveva appena appuntato sui miei riccioli acconciati alla perfezione e l’ingombrante ingessatura alla gamba. Ignorò la mia espressione scocciata.
Dopo avermi sistemata sul sedile, si accomodò al posto di guida e fece retromarcia sul viale lungo e stretto.
«Posso sapere quando ti prenderai la briga di rivelarmi cosa sta succedendo?», chiesi, scontrosa. Odiavo sinceramente le sorprese. E lui lo sapeva.
«È assurdo che tu non abbia ancora capito». Ridacchiava di un riso beffardo che mi tolse il respiro. Mi sarei mai abituata a tutta quella perfezione?
«Ti ho informato del fatto che sei molto carino, vero?».
«Sì». Sorrise ancora. Non l’avevo mai visto vestito di nero, e il contrasto dell’abito con la carnagione pallida rendeva la sua bellezza assolutamente surreale. Non potevo negarlo, benché il fatto che indossasse uno smoking mi rendesse molto nervosa.
Mai nervosa quanto mi rendeva il mio vestito. E la scarpa. Solo una, visto che l’altro piede era ancora alloggiato nell’ingessatura. Ma il tacco a spillo ancorato al mio piede solo da un laccetto di seta non mi avrebbe affatto aiutata a zampettare in giro.
«Non verrò mai più da nessuna parte con te, se mi toccherà di nuovo farmi trattare da Alice come Barbie-cavia-da-laboratorio», brontolai. Avevo trascorso quasi l’intera giornata nel bagno di Alice, tanto grande da potercisi perdere, vittima inerme di lei che giocava alla parrucchiera e alla truccatrice. Ogni volta che mi lamentavo o le suggerivo qualcosa, mi pregava, visto che non aveva memoria del suo essere stata umana, di non rovinarle quel divertimento. Poi mi aveva costretta a indossare il più ridicolo dei vestiti: blu scuro, pieno di trine e senza spalline, con un sacco di etichette francesi che non capivo. Si addiceva più a una passerella di moda che a Forks. Il nostro abbigliamento formale non prometteva niente di buono, di questo ero sicura. A meno che... ma avevo paura di tradurre i miei sospetti in parole o in pensieri.
A quel punto fui distratta dallo squillo di un telefono. Edward estrasse il cellulare da una tasca della giacca e per un istante osservò il numero sul display.
«Pronto, Charlie», disse sospettoso.
«Charlie?».
Charlie era diventato un po’... difficile, da quando ero tornata a Forks. La sua reazione alla mia brutta esperienza si era scissa in due compartimenti stagni. Da una parte, la sua gratitudine per Carlisle sfiorava l’adorazione. Dall’altro, era testardamente convinto che fosse colpa di Edward, perché, se non fosse stato per lui, non me ne sarei mai e poi mai andata di casa. Edward, da par suo, era tutt’altro che in disaccordo. A questo punto, dovevo obbedire a regole del tutto nuove: coprifuoco... e orari di visita.
Alle parole di Charlie Edward strabuzzò gli occhi incredulo, poi scoppiò in un gran sorriso.
«Sta scherzando!».
«Che c’è?», chiesi io.
Non mi ascoltò. «Posso parlargli io?», suggerì, palesemente solleticato dall’idea. Attese qualche secondo.
«Ciao Tyler, sono Edward Cullen». All’apparenza era molto amichevole. Ma ormai conoscevo abbastanza bene la sua voce da cogliervi un vago tono di minaccia. Che ci faceva Tyler a casa mia? Iniziai a intuire la terribile verità. Osservai ancora il vestito fuori luogo in cui Alice mi aveva costretta a entrare.
«Mi dispiace che ci sia stato un fraintendimento, ma Bella è occupata, stasera». Poi cambiò tono e si fece apertamente minaccioso: «Anzi, per la verità è occupata tutte le sere, per chiunque, escluso il sottoscritto. Senza offesa. Spiacente se la tua serata non andrà come speravi». Non sembrava affatto dispiaciuto. Fece scattare lo sportellino del telefono e chiuse la comunicazione, ridendo soddisfatto.
Arrossii di rabbia. Sentivo già lacrime di irritazione pronte a salire.
Lui mi guardò sorpreso: «Credi che abbia esagerato un po’? Non volevo essere offensivo riguardo a te».
Lo ignorai.
«Mi stai portando al ballo di fine anno!», strillai.
Era un’ovvietà tale da mettermi in imbarazzo. Se ci avessi fatto caso, avrei notato la data sui manifesti che tappezzavano la scuola. Ma ero convinta che nemmeno per scherzo mi avrebbe fatto subire un’umiliazione del genere. Non mi conosceva?
Di sicuro non si aspettava una reazione tanto energica. Mi guardò serio, a denti stretti: «Non fare la difficile, Bella».
Lanciai uno sguardo al finestrino: eravamo già a metà strada.
«Perché mi stai facendo questo?», chiesi, terrorizzata.
Lui indicò il suo smoking. «Sinceramente, Bella, dove credevi che ti volessi portare?».
Ero mortificata. Prima di tutto, perché l’evidenza mi era sfuggita. E poi, perché i vaghi sospetti - speranze, in realtà - che avevo avuto nel pomeriggio, mentre Alice tentava di trasformarmi in una reginetta di bellezza, erano lontanissimi dal vero. Le mie speranze velate di paura, a quel punto, sembravano un’idiozia.
Avevo intuito che fosse un’occasione speciale. Ma non il ballo! Era l’ultimo dei miei pensieri.
Sentii lacrime di rabbia scorrermi sulle guance. Ricordai con fastidio che, contro le mie abitudini, avevo il mascara. Mi strofinai subito sotto gli occhi per evitare di macchiarmi. La mano non era sporca: la saggia Alice aveva scelto cosmetici resistenti all’acqua.
«È ridicolo. Perché piangi?», chiese irritato.
«Perché mi hai fatta arrabbiare!».
«Bella». Mi colpì con tutta la forza dei suoi occhi dorati e ardenti.
«Cosa?», mormorai, turbata.
«Assecondami. Per piacere».
Il suo sguardo aveva sciolto tutta la mia furia. Era impossibile litigare, quando barava in quel modo. Mi arresi, tutt’altro che di buon grado.
«Bene», mormorai, incapace di squadrarlo come mi sarebbe piaciuto. «Te la do vinta. Ma vedrai. È un bel po’ che non m’imbatto in una vera disgrazia. Come minimo mi romperò l’altra gamba. Guarda la scarpa! È una trappola mortale!». Gli mostrai la gamba buona per convincerlo.
«Mmm». La fissò molto più a lungo del necessario. «Stasera voglio ringraziare Alice, ricordamelo».
«Ci sarà anche lei?». L’idea mi dava un pò di sollievo.
«Assieme a Jasper, Emmett... e Rosalie».
Il sollievo svanì. Non avevo fatto il minimo progresso con Rosalie, benché i rapporti con il suo quasi marito fossero più che buoni. Emmett apprezzava la mia presenza: lo divertivo, forse per le mie bizzarre reazioni umane... o forse perché trovava buffo che inciampassi in continuazione. Rosalie si comportava come se non esistessi. Scrollai il capo come per indirizzare i miei pensieri altrove e cambiai discorso.
«Charlie è al corrente di questo?» chiesi, diffidente.
«Certo». Poi soffocò una risata: «A quanto pare, solo Tyler non sapeva nulla».
Ero allibita. Era incredibile che Tyler non avesse smesso di illudersi, nonostante tutto. A scuola, lontani dall’interferenza di Charlie, io ed Edward eravamo inseparabili, tranne che nelle rare giornate di sole.
Eccoci arrivati. La cabriolet rossa di Rosalie spiccava nel parcheggio. Le nuvole erano sottili quella sera e lasciavano trapelare qualche timido raggio di sole a occidente.
Edward scese dall’auto e venne ad aprirmi la portiera. Mi offrì la mano.
Rimasi testardamente seduta al mio posto, a braccia conserte, beandomi in segreto della mia vanità. Il parcheggio era affollato di persone in abito da sera: tutti testimoni. Edward non avrebbe potuto estrarmi dall’auto con la forza, come non avrebbe esitato a fare se fossimo stati soli.
Sospirò: «Di fronte a un assassino sei coraggiosa come un leone, ma basta che qualcuno parli di ballare...». Scosse il capo.
Trasalii. Ballare.
«Bella, ti terrò lontana da tutti i pericoli, compresa te stessa. Non ti mollerò un attimo, lo prometto».
Ci pensai sopra, e subito mi sentii molto meglio. Me lo si leggeva in faccia.
«Forza, adesso», disse gentile. «Non sarà così male». Si chinò e con un braccio mi cinse la vita. Afferrai l’altra mano, e mi lasciai sollevare per uscire dall’auto.
Mi aiutò a zoppicare fino all’ingresso della scuola, tenendomi stretta.
A Phoenix, le feste di fine anno scolastico avvenivano nelle sale da ballo degli alberghi. Il ballo di Forks era in palestra, ovvio. Probabilmente era l’unico locale in città che fosse grande a sufficienza. Quando entrammo, mi scappò un risolino. C’erano veri arcobaleni di palloncini e ghirlande attorcigliate di carta crespa sulle pareti.
«Sembra l’inizio di un film dell’orrore», dissi, ridendo sotto i baffi.
«Be’», mormorò Edward mentre ci avvicinavamo a fatica al tavolo che fungeva da biglietteria - lui reggeva quasi tutto il mio peso, ma ero comunque costretta a dondolare il piede per trascinarmi in avanti -, «in effetti i vampiri non mancano».
Guardai la pista da ballo, al centro si era formato uno spazio vuoto in cui due coppie piroettavano con grazia. Gli altri ballerini restavano ai margini della sala, per fare spazio: tutti temevano il confronto con tanto splendore. Emmett e Jasper mettevano soggezione, maestosi e impeccabili com’erano nei loro smoking. Alice era straordinaria nel suo vestito di seta nera, con fessure geometriche che scoprivano ampi triangoli di pelle candida. E Rosalie... be’, era Rosalie. Non ci si poteva credere. L’abito rosso scuro, che aderiva fin sotto il ginocchio e si allargava in un ampio strascico, le lasciava la schiena scoperta con una scollatura vertiginosa. Non potei che compatire tutte le ragazze presenti, me compresa.
«Vuoi che blocchi le uscite, così potete massacrare gli ignari cittadini?», sussurrai, con fare cospiratorio.
«E tu da che parte stai?».
«Con i vampiri, ovvio».
Non riuscì a trattenere un sorriso. «Qualsiasi cosa, pur di non ballare».
«Qualsiasi cosa».
Comprò i biglietti, poi mi voltò in direzione della pista da ballo. Stavo abbarbicata al suo braccio e trascinavo i piedi.
«Ho tutta la serata», mi avvertì.
Alla fine riuscì a trascinarmi nel punto in cui i suoi fratelli piroettavano eleganti in uno stile totalmente inadatto ai giorni nostri e alla musica contemporanea. Restavo ferma a guardare, terrorizzata.
«Edward». Dalla mia gola totalmente secca non uscì che un rantolo. «Sinceramente, non so ballare!». Sentivo il panico bruciarmi dentro.
«Sciocca, non preoccuparti», rispose. «Io sì». Guidò le mie mani a cingergli il collo, mi sollevò appena e fece scivolare i piedi sotto i miei.
E anche noi ci ritrovammo a roteare.
«Mi sembra di avere cinque anni», dissi ridendo, dopo qualche minuto di quel valzer in cui ero trasportata senza sforzo.
«Non li dimostri», mormorò stringendomi di più a sé, e per un istante volai a qualche centimetro dal suolo.
Alice incrociò il mio sguardo e mi rivolse un sorriso di incoraggiamento, che ricambiai. A sorpresa, mi resi conto che mi stavo divertendo... un po’.
«Okay, non è così male, lo ammetto».
Ma Edward fissava la porta e sembrava arrabbiato.
«Che c’è?», chiesi ad alta voce. Seguii il suo sguardo, disorientata dai volteggi, ma infine riuscii a individuare cosa lo preoccupasse. Jacob Black, non in smoking ma con una camicia bianca e la cravatta, i capelli raccolti all’indietro nella solita coda, attraversava la pista e veniva verso di noi.
Dopo lo stupore iniziale, non potei fare a meno di compatirlo. Era evidentemente a disagio, quasi tormentato. Incrociò il mio sguardo con espressione mortificata.
Edward ringhiò sottovoce.
«Controllati!», sibilai.
La voce di Edward era inquietante. «Vuole fare due chiacchiere con te».
A quel punto Jacob ci raggiunse, l’imbarazzo e la vergogna ancora più evidenti sul suo volto.
«Ehi, Bella, speravo proprio di trovarti». A sentirlo, sembrava che avesse sperato l’esatto contrario. Ma il sorriso era affettuoso come sempre.
«Ciao, Jacob», risposi, ricambiando. «Tutto bene?».
«Mi concedi un ballo?», azzardò, lanciando per la prima volta un’occhiata a Edward. Rimasi sbalordita quando mi accorsi che per guardarlo negli occhi non doveva alzare la testa. Dall’ultima volta che ci eravamo visti era cresciuto quindici centimetri, come minimo.
L’espressione di Edward restò composta, neutra. Si limitò a farmi scendere dai suoi piedi e a fare un passo indietro.
«Grazie», disse Jacob, cortese.
Edward annuì e mi rivolse uno sguardo deciso, prima di allontanarsi.
Jacob mi si avvicinò e prendemmo posizione nella danza. Per posargli le mani sulle spalle dovetti quasi arrampicarmi.
«Accidenti, Jake, quanto sei alto adesso?».
«Più di un metro e ottanta», rispose fiero.
In realtà non ballavamo: ero immobilizzata dall’ingessatura. Ci limitavamo a dondolare goffi sul posto. Andava bene lo stesso. La crescita improvvisa lo aveva reso dinoccolato e scoordinato; probabilmente non era meglio di me, come ballerino.
«Come sei finito qui, stasera?», chiesi, ma non ero troppo curiosa. Probabilmente a causa della reazione di Edward.
«Ci credi se ti dico che mio padre mi ha dato venti verdoni per venire al tuo ballo di fine anno?», confessò, leggermente intimidito.
«Sì, ci credo», bofonchiai. «Be’, se non altro spero che tu ti stia divertendo. Hai visto qualcuna che ti piace?». Indicai un gruppo di ragazze, allineate lungo la parete come pastelli dentro una scatola.
«Sì», sospirò, «una, ma è occupata».
Abbassò gli occhi e incontrò i miei per un istante. Poi entrambi distogliemmo lo sguardo, imbarazzati.
«A proposito, sei molto carina stasera», aggiunse timido.
«Ehm, grazie. Ma perché Billy ti avrebbe pagato per venire qui?», chiesi svelta, malgrado conoscessi già la risposta.
Jacob non sembrava contento che avessi cambiato discorso; guardò altrove, di nuovo a disagio. «Secondo lui era un posto “sicuro” per parlare con te. Mi sa tanto che il vecchio ha perso qualche rotella».
Mi unii senza entusiasmo alla sua risata.
«E comunque, mi ha detto che se ti riferisco un certo messaggio, mi procurerà il cilindro freni che cerco», ammise, sorridendo impacciato.
«Allora parla. Ci tengo a vedere la tua macchina finita», risposi ammiccandogli. Se non altro, Jacob non credeva affatto a suo padre, e ciò rendeva tutto un po’ più facile. Appoggiato alla parete, Edward, imperturbabile, osservava la mia espressione. Una studentessa del secondo anno vestita di rosa se lo stava rimirando timida, ma lui non se ne accorse.
Jacob distolse di nuovo lo sguardo, vergognandosi: «Non arrabbiarti, okay?».
«Non sono capace di arrabbiarmi con te, Jacob. E non mi arrabbierò con Billy. Dimmi pure».
«Be’... scusa, Bella, mi sembra talmente stupido... vuole che lasci il tuo ragazzo. Mi ha pregato di chiedertelo “per favore”». Scosse la testa, disgustato.
«È ancora superstizioso, eh?».
«Sì. Ha... perso la bussola, quando ti sei fatta male a Phoenix. Non ha creduto che...». Jacob si interruppe, imbarazzato.
Lo guardai, severa. «Sono caduta».
«Lo so».
«Pensa che Edward abbia a che fare con ciò che mi è successo». La mia non era una domanda e, malgrado la promessa, ero arrabbiata.
Jacob non osava guardarmi negli occhi. Non ci preoccupavamo nemmeno più di dondolare a ritmo, benché le sue mani fossero rimaste sui miei fianchi e le mie allacciate al suo collo.
«Senti, Jacob, so che Billy stenterà a crederci, ma te lo dico lo stesso». A quel punto tornò a fissarmi, rincuorato dal tono sincero delle mie parole. «Edward mi ha davvero salvato la vita. Se non fosse stato per lui e suo padre, a quest’ora sarei morta».
«Lo so», rispose, ma sembrava che fossero state le mie parole a rassicurarlo. Forse sarebbe riuscito a convincere suo padre almeno di questo.
«Senti, mi dispiace che tu sia venuto fin qui solo per questo, Jacob. Se non altro, vedi di rimediare il tuo pezzo mancante, eh?».
«Sì», bisbigliò. Era ancora impacciato... e sulle spine.
«C’è dell’altro?», chiesi, incredula.
«Lascia perdere. Mi troverò un lavoro e metterò da parte qualche soldo».
Restai a fissarlo finché non incrociò il mio sguardo: «Sputa il rospo, Jacob».
«Non ce la faccio».
«Non m’importa. Parla».
«Va bene... però, uffa, non è una bella cosa». Scosse il capo. «Ha detto di dirti, no, di avvertirti - guarda che il plurale è suo, non mio - che...», staccò le mani da me e mimò le virgolette, «“ti terremo d’occhio”». Attese la mia reazione, ansioso.
Sembrava la battuta di un film sulla mafia. Non riuscii a trattenere una risata ad alta voce.
«Mi dispiace che ti sia toccato farlo, Jake».
«A me non dispiace granché». Sorrise, finalmente rilassato. Lanciò un’occhiata di apprezzamento al mio vestito. «Quindi devo dirgli di farsi gli affaracci suoi?», chiese speranzoso.
«No», sospirai. «Ringrazialo. So che lo fa per il mio bene».
La canzone finì, e sciolsi l’abbraccio.
Lui esitò e guardò la mia gamba malconcia. «Vuoi ballare ancora? O vuoi che ti aiuti a spostarti?».
«Tutto a posto. La riprendo io».
Con grande stupore di Jacob, Edward era riapparso al nostro fianco.
«Ehi, non ti avevo visto», mormorò. «Allora ci vediamo, Bella». Fece un passo indietro e un cenno di saluto.
Sorrisi. «Sì, ci rivediamo presto».
«E scusami», ripeté ancora e si diresse verso la porta.
Appena attaccò la canzone successiva, le braccia di Edward mi avvolsero. Era un ritmo un po’ troppo sostenuto per ballare un lento, ma il mio cavaliere non sembrava preoccuparsene. Poggiai la testa sul suo petto, soddisfatta.
«Ora va meglio?», sondai.
«Non proprio».
«Non prendertela con Billy», sospirai. «È preoccupato per me perché Charlie è suo amico. Niente di personale».
«Non ce l’ho con Billy», precisò lui, brusco. «È suo figlio a irritarmi».
Indietreggiai per guardarlo meglio. Era molto serio.
«Perché?».
«Prima di tutto, mi ha costretto a violare la mia promessa».
Restai a guardarlo confusa.
Accennò un sorriso: «Avevo promesso che stasera non ti avrei mollata neanche per un secondo».
«Ah. Be’, sei perdonato».
«Grazie. Ma c’è dell’altro». Aggrottò le sopracciglia.
Aspettai che proseguisse.
«Ha detto che sei carina», aggiunse, infine, scuro in volto. «Il che è praticamente un insulto, stasera. Sei molto più che bellissima».
«Forse il tuo è un giudizio di parte», dissi ridendo.
«Non credo. Inoltre, la mia vista è perfetta».
Avevamo ricominciato a roteare vicini, i suoi piedi sotto i miei.
«Mi spieghi il perché di tutto questo?», domandai.
Mi guardò, confuso, e io accennai ai festoni di carta crespa.
Restò a pensare per un momento, e poi cambiò direzione, volteggiando assieme a me attraverso la folla, verso l’uscita posteriore della palestra. Con la coda dell’occhio mi accorsi di Jessica e Mike che ballavano. Lei mi salutò, e io risposi con un mezzo sorriso. C’era anche Angela, felice come una pasqua tra le braccia del piccolo Ben Cheney: non staccava gli occhi dai suoi, e lui era una spanna più basso. Poi Lee e Samantha, e Lauren, che ci osservava, insieme a Conner: riconoscevo i volti dentro la spirale che attraversavamo. Infine, eccoci all’aperto, nella luce fresca e morbida del tramonto.
Rimasti soli, mi sollevò tra le braccia e mi portò con sé attraverso il prato ormai buio, fino alla panchina ai piedi dei corbezzoli. Si sedette e prese a cullarmi stringendomi contro il suo petto. La luna era già sorta, faceva capolino attraverso le nuvole sottili, e il volto di Edward brillava pallido alla luce bianca. Le labbra erano tese, gli occhi irrequieti.
«Allora?», chiesi io sottovoce.
Non mi ascoltava, guardava la luna.
«Di nuovo il crepuscolo», mormorò. «Un’altra fine. Ogni giorno deve finire, anche il più perfetto».
«Non è detto che tutto abbia una fine», mormorai tra me, improvvisamente tesa.
Lui lasciò sfuggire un sospiro.
Infine, rispose alla mia domanda, lentamente: «Ti ho portata al ballo perché desidero che tu non ti perda niente. Non voglio che la mia presenza ti privi di nulla, finché mi è possibile. Voglio che tu sia umana. Voglio che la tua vita prosegua come se fossi morto nel 1918, come era mio destino».
Tremai a quelle parole e scossi il capo con stizza. «In quale strana dimensione parallela pensi che sarei venuta al ballo di mia spontanea volontà? Se tu non fossi mille volte più forte di me, non ti avrei mai lasciato fare».
Sulle sue labbra passò un sorriso, ma lo sguardo restò serio. «Non è andata così male, l’hai ammesso anche tu».
«Perché ero con te».
Per un po’ restammo in silenzio: Edward guardava la luna, io guardavo lui. Come avrei voluto sapergli spiegare quanto poco mi interessasse una normale vita da umana.
«Mi dici una cosa?», chiese, sbirciandomi col suo solito mezzo sorriso sulle labbra.
«Non ti dico sempre tutto?».
«Promettilo», insistette.
Sapevo che me ne sarei pentita all’istante: «D’accordo».
«Mi sei sembrata sinceramente sorpresa quando hai capito che ti stavo portando qui...».
«Sì, lo ero», lo interruppi.
«Appunto... ma certo sospettavi qualcos’altro... Sono curioso: per quale occasione pensavi che ti avessi fatto vestire così?».
Ecco, pentimento istantaneo. Increspai le labbra, esitante. «Non te lo dico».
«Hai promesso».
«Lo so».
«Che problema c’è?».
Di certo pensava che fosse soltanto per imbarazzo. «Non vorrei farti arrabbiare... o intristire».
Aggrottò le sopracciglia e ci pensò su. «Non m’importa. Per favore, dimmelo».
Feci un sospiro. Lui restò in attesa.
«Be’... davo per scontato che fosse un’occasione... speciale. Ma non immaginavo che fosse una mediocre faccenda umana... Il ballo di fine anno!», dissi sprezzante.
«Umana?», chiese, senza fare una piega. Aveva colto la parola chiave.
Mi guardai il vestito, giocherellando con un lembo dello chiffon. Edward, muto, restava in attesa.
«Va bene». Mi decisi a confessare. «Ecco, speravo che avessi cambiato idea... e che ti fossi deciso a cambiare me, dopotutto».
Sul suo viso apparve un arcobaleno di emozioni. Alcune erano riconoscibili: rabbia... tormento... ma alla fine si ricompose e la sua espressione si fece allegra, divertita.
«E secondo te quella sarebbe stata un’occasione da vestito da sera, eh?», disse, provocandomi, e aggiustò il risvolto della giacca da smoking.
Abbassai gli occhi per nascondere l’imbarazzo. «Non so come funzionano queste cose. A me, però, sembra più logico che per un ballo di fine anno». Non smetteva di sogghignare. «Non c’è niente da ridere», tagliai corto.
«No, hai ragione, certo che no», e il suo sorriso spari. «Però preferisco prenderla a ridere, piuttosto che credere che tu possa dire sul serio».
«Ma io dico sul serio».
Fece un sospiro profondo. «Lo so. E ci terresti davvero?».
Nei suoi occhi si riaffacciò il tormento. Annuii, mordendomi un labbro.
«E allora preparati alla fine», mormorò, quasi tra sé. «Preparati al crepuscolo della tua vita appena iniziata. Preparati a rinunciare a tutto».
«Non è la fine, è l’inizio. È la luce dell’alba», lo corressi, sottovoce.
«Non ne sono degno», rispose lui, triste.
«Ricordi quando mi hai detto che non avevo una percezione chiara di me stessa?», chiesi, alzando le sopracciglia. «Evidentemente tu sei cieco allo stesso modo».
«Io so ciò che sono».
Sospirai.
Ma nel suo umore volubile, si concentrò su di me. Strinse le labbra e iniziò a scrutarmi da vicino. Per qualche lunghissimo istante esaminò il mio viso.
«Perciò, ti senti pronta?».
«Ehm», deglutii. «Sì».
Sorrise e inclinò la testa fino a sfiorarmi con le labbra fredde l’incavo sotto il mento.
«Adesso?», disse in un soffio e mi fece sentire il fiato fresco sul collo. Involontariamente, rabbrividii.
«Sì», sussurrai, per nascondere che la voce mi tremava. Se pensava che stessi bluffando, si sbagliava di grosso. Avevo già deciso, ero sicura. Non importava che in quel momento fossi rigida come una tavola di legno, stringessi i pugni e respirassi a malapena...
Rise cupo e si allontanò. Sembrava deluso.
«Secondo te cederei così facilmente?», chiese sarcastico, ma con un filo di amarezza.
«Sognare non costa niente».
Sgranò gli occhi. «Questo sarebbe il tuo sogno? Diventare un mostro?».
«Non proprio», risposi, rabbuiandomi alla parola che aveva scelto. Mostro, figuriamoci. «Più che altro, sogno di restare con te per sempre».
La sua espressione cambiò, resa mesta e dolce dal sottile dolore che m’incrinava la voce.
«Bella». Con le dita sfiorò il contorno delle mie labbra. «Starò sempre con te. Non ti basta?».
Il sorriso mi si aprì sotto le sue dita. «Mi basta, per ora».
La mia tenacia lo fece spazientire. Nessuno dei due si sarebbe arreso, quella sera. Dalla sua bocca uscì uno sbuffo che somigliava più a un ruggito.
Gli sfiorai il viso. «Stammi a sentire. Ti amo più di qualsiasi altra cosa al mondo, senza eccezioni. Non ti basta?».
«Sì, mi basta», rispose, sorridendo. «Mi basta, per sempre».
E mi sfiorò di nuovo il collo con le labbra fredde.