Fredric Brown Toc, toc

C’è una soave, piccola storia dell’orrore che è lunga soltanto due frasi:

L’ultimo uomo della Terra sedeva solo in una stanza. Qualcuno bussò alla porta…

Due frasi, e un’ellissi di tre puntini. L’orrore, naturalmente, non sta affatto nelle due frasi, sta nell’ellissi, cioè nell’implicazione: cosa bussò alla porta? Davanti all’ignoto, la mente umana è assai propensa a supplire con qualcosa di vagamente orribile.

Ma non era orribile, no.

L’ultimo uomo della Terra — o anche in tutto l’universo, se era per questo — sedeva solo in una stanza. Era una stanza molto strana, in verità. Lui aveva appena notato quant’era strana, e si era messo a studiare le ragioni di quella stranezza. La sua conclusione non lo fece inorridire, ma l’infastidì.

Walter Phelan, che era stato professore associato di antropologia alla Nathan University fino a due giorni prima, quando la Nathan University aveva cessato di esistere, non era un uomo che si lasciasse inorridire facilmente. Non che Walter Phelan fosse una figura eroica, neppure spingendo al massimo l’immaginazione. Era di corporatura esile e di carattere mite. A vedersi, non era granché. E lui lo sapeva.

Non che in quel momento il suo aspetto lo preoccupasse. In quel momento, infatti, non provava molti sentimenti. Sapeva, in maniera astratta, che due giorni prima, nello spazio di un’ora, la razza umana era stata distrutta, escluso lui e, da qualche parte, una donna… una donna soltanto. E quello era un fatto che non riguardava neanche minimamente Walter Phelan. Probabilmente non l’avrebbe mai vista, né gl’importava che ciò accadesse.

Le donne non avevano costituito un fattore di qualche importanza nella vita di Walter, sin da quando Martha era morta un anno e mezzo prima. Non che Martha non fosse stata una buona moglie — anche se un po’ sul lato autoritario. Sì, lui aveva amato Martha, in maniera profonda e tranquilla. Adesso, lui aveva quarant’anni, e ne aveva avuto soltanto trentotto quando Martha era morta ma… insomma… da allora non aveva più pensato alle donne. Tutta la sua vita era stata costituita dai libri, quelli che leggeva e quelli che scriveva.

Adesso non aveva più alcun motivo per scrivere libri, ma poteva passare il resto della sua vita a leggerli.

È vero che aver compagnia sarebbe stato simpatico, ma poteva cavarsela anche senza. Forse, dopo un po’, avrebbe potuto arrivare a tal punto da godere dell’occasionale compagnia di uno degli zan, anche se gli era un po’ difficile immaginarlo. Il loro modo di pensare era talmente alieno rispetto al suo che pareva non ci fosse nessun terreno comune per discutere malgrado, in un certo modo, fossero intelligenti.

Una formica è intelligente, in un certo modo, ma nessun essere umano ha mai comunicato con una formica. Lui pensava agli zan, in un certo modo, come a delle superformiche, malgrado non avessero l’aspetto delle formiche, e aveva la sensazione che gli zan considerassero la razza umana nello stesso modo in cui la razza umana aveva considerato le comuni formiche. Certo, ciò che gli zan avevano fatto alla Terra era ciò che, appunto, gli uomini avevano fatto ai formicai — e per di più era stato fatto in maniera molto più efficiente.

Ma gli avevano dato libri in abbondanza. Sì, erano stati molto gentili in proposito, non appena aveva detto loro ciò che voleva, e gliel’aveva detto nel momento in cui aveva appreso che era destinato a passare il resto della sua vita da solo in quella stanza. Il resto della sua vita o, come si erano curiosamente espressi gli zan, per sempre. Perfino una mente brillante — ed era ovvio che gli zan avevano una mente brillante — aveva le sue idiosincrasie. Gli zan avevano imparato a parlare l’inglese terrestre nel giro di poche ore, ma persistevano nel voler parlare scandendo le sillabe. Ma stiamo divagando.

Qualcuno bussò alla porta.

Adesso avete tutto, salvo l’ellissi, i tre punti di sospensione. Ma sono inutili, poiché sto per andare avanti e dimostrarvi che non era affatto orribile.

Walter Phelan gridò: — Entra pure, — e la porta si aprì. Era, naturalmente, soltanto uno zan. Pareva esattamente uguale agli altri zan; se c’era un modo per distinguerli, l’uno dall’altro, Walter non l’aveva ancora trovato. Era alto all’incirca un metro e venti e non assomigliava a niente che esistesse sulla Terra… niente, vale a dire, che fosse esistito sulla Terra fino a quando non erano arrivati gli zan.

Walter disse: — Ciao, George. — Quando aveva appreso che nessuno di loro aveva un nome, aveva deciso di chiamarli tutti George, e gli zan non avevano fatto nessuna obiezione.

Questo zan rispose: — Ci-ao Wal-ter. — Erano rituali: il bussare alla porta e il saluto. Walter aspettò.

— Pun-to pri-mo, — disse lo zan. — Vuoi per fa-vo-re, su-bi-to, se-de-re con la tua se-dia ri-vol-ta dall’al-tra par-te?

Walter annuì. — L’avevo immaginato, George. Quella parete uniforme è trasparente dall’altra parte, non è vero?

— È tra-spa-ren-te.

— Proprio come pensavo. Sono in uno zoo, giusto?

— Giu-sto.

— Walter sospirò. — Lo sapevo. Quella parete uniforme e vuota, senza un solo infisso, un mobile. È fatta d’un materiale diverso da quello delle altre pareti. Se insisterò a restar seduto con la schiena rivolta verso di essa, cosa accadrà? Mi ucciderete? Lo chiedo pieno di speranza.

— Ti por-te-re-mo via i li-bri.

— Mi hai colpito nel vivo, George. D’accordo, mi volterò dall’altra parte, quando sto seduto e leggo. Quanti altri animali oltre a me ci sono in questo zoo?

— Due-cen-to-se-di-ci.

Walter scosse il capo. — Troppo incompleto, George. Perfino uno zoo da quattro soldi dovrebbe averne di più… dovrebbe, ribadisco, se fosse rimasto qualche zoo da quattro soldi. Li avete scelti a caso?

— Cam-pio-ni a ca-so, sì. Tut-te le spe-cie sa-reb-be-ro sta-te trop-pe. Ma-schio e fem-mina di cen-to-ot-to spe-cie.

— E cosa gli date da mangiare? A quelli carnivori, voglio dire?

— Fac-cia-mo il ci-bo. Sin-te-ti-co.

— Bravi. E la flora? Avete anche una raccolta di vegetali?

— La flo-ra non è sta-ta toc-ca-ta dal-le vibra-zio-ni. Cre-sce anco-ra

— Ottimo per la flora, — commentò Walter. — Allora, non siete stati duri con lei quanto lo siete stati con la fauna. Bene, George. Questo dunque è il “punto uno”. Immagino che ci sia un “punto due” che sta scalpitando nelle vicinanze. Cos’è?

— Qual-cosa che non ca-pia-mo. Due de-gli al-tri ani-ma-li dormo-no e non si sve-glia-no. Sono fred-di.

— Capita anche negli zoo meglio gestiti, George — disse Walter Phelan. — È probabile che non ci sia niente di sbagliato in loro, salvo il fatto che sono morti.

— Mor-ti? Que-sto signi-fi-ca fer-ma-ti. Ma nien-te li ha fer-ma-ti. Ognu-no era so-lo.

Walter fissò lo zan. — Vuoi dirmi, George, che non sapete cos’è la morte naturale?

— La mor-te è quan-do un es-se-re vie-ne uc-ci-so, ferma-to dal vi-vere.

Walter Phelan sbatté gli occhi. — Quanti anni hai, George? — gli chiese.

— Se-di-ci… ma tu non puoi ca-pi-re. Il tuo pia-ne-ta ha gi-ra-to in-torno al tuo so-le sette-mi-la vol-te. Io sono an-co-ra gio-va-ne.

Walter fischiò sommessamente. — Un bambino in fasce, — commentò. Rifletté intensamente per un momento. — Senti, George, — gli disse. — C’è qualcosa che dovete imparare su questo pianeta dove vi trovate. Qui c’è un tizio che non abita là da dove venite voi. Un vecchio con la barba e una falce e una clessidra. Le vostre vibrazioni non lo hanno ucciso.

— Cos’è?

— Noi lo chiamiamo il Feroce Mietitore, George. La Morte Secca. La nostra gente e gli animali vivono fino a quando qualcuno — il Feroce Mietitore, appunto — ferma i loro battiti.

— Ha fat-to smet-te-re le due creatu-re? Ne fa-rà smet-te-re anco-ra?

Walter aprì la bocca per rispondere, poi tornò a chiuderla. Qualcosa nella voce dello zan indicava che avrebbe dovuto esserci una ruga di preoccupazione sulla sua faccia, se avesse avuto una faccia riconoscibile come tale.

— Cosa ne diresti di portarmi quegli animali che non vogliono svegliarsi? — chiese Walter. — È contro le regole?

— Vie-ni, — disse lo zan.

Questo era accaduto il pomeriggio del secondo giorno. Il mattino seguente gli zan tornarono, in parecchi. Cominciarono a traslocare i libri e i mobili di Walter Phelan. Quand’ebbero finito, traslocarono anche lui. Si trovò in una stanza assai più grande, a un centinaio di metri da lì.

Walter Phelan si sedette e aspettò e anche stavolta, quando bussarono alla porta, seppe cosa stava arrivando, e si alzò cortesemente in piedi. Uno zan aprì la porta e si fece da parte. Entrò una donna.

Walter eseguì un leggero inchino. — Walter Phelan — disse, — nel caso in cui George non le abbia detto il mio nome. George cerca di essere cortese, ma non conosce tutte le nostre buone maniere.

La donna appariva calma; Walter fu lieto di notarlo. E gli disse: — Mi chiamo Grace Evans, signor Phelan. Cos’è tutta questa storia? Perché mi hanno portata qui?

Walter la studiò, mentre lei stava parlando. Era alta di statura, alta quanto lui, e ben proporzionata. Pareva essere agli inizi della trentina, circa l’età che aveva avuto Martha. Aveva la stessa tranquilla sicurezza che gli era sempre piaciuta in Martha, anche se a volte aveva formato un vivo contrasto con la sua semplicità e trascuratezza. Sì, ripeté a se stesso, assomigliava un po’ a Martha.

— Credo di sapere perché l’hanno portata qui, ma torniamo un po’ indietro, — le disse. — Lei sa quello che è successo?

— Vuol dire che hanno ucciso… tutti?

— Sì. Prego, si sieda. Sa come l’hanno fatto?

La donna si lasciò sprofondare in una comoda poltrona lì accanto. — No, — rispose. — Non so come l’abbiano fatto. Non che abbia importanza, vero?

— Non molta, infatti. Ma ecco la storia… quello che ne so, quanto meno. Sono riuscito a far parlare uno di loro, e poi ho messo insieme i vari brandelli d’informazione. Non ce ne sono molti di loro… qui tra noi, in ogni caso. Non so quanto siano numerosi, come razza, là, nel posto da dove sono venuti, e neppure so dove si trovi questo posto, ma immagino che sia fuori dal sistema solare. Ha visto la nave spaziale con la quale sono arrivati?

— Sì. È grande quanto una montagna.

— Quasi, — precisò lui. — Insomma, è equipaggiata per emettere un certo tipo di vibrazione — la chiamano così, nella nostra lingua, ma immagino sia più simile a un’onda radio che ad una vibrazione sonora — la quale distrugge ogni forma di vita animale. La nave degli invasori, naturalmente, è isolata contro la vibrazione. Non so se la sua portata sia tale da uccidere tutte le forme di vita d’un pianeta in un colpo solo, oppure se abbiano girato tutt’intorno alla Terra continuando a emettere le onde vibratorie. Ma ha ucciso tutti, e istantaneamente e, spero, in modo indolore. La sola ragione per cui noi due, e gli altri duecento e più animali in questo zoo non siamo stati uccisi, era perché ci trovavamo dentro la nave. Siamo stati prelevati come campioni. Lei sa che questo è uno zoo, non è vero?

— Io… lo sospettavo.

— Le pareti anteriori sono trasparenti, per chi guarda da fuori. Gli zan sono stati molto abili nel sistemare l’interno di ciascun cubicolo, così da riprodurre l’habitat naturale delle creature che contiene. Questi cubicoli, come quello nel quale ci troviamo, sono fatti di plastica, e gli zan hanno una macchina che ne produce uno in circa dieci minuti. Se la Terra avesse avuto una macchina e un procedimento del genere, non ci sarebbe stata nessuna carenza di alloggi. Be’, in ogni caso adesso non c’è più nessuna carenza di alloggi. E immagino che la razza umana — in modo specifico io e lei — possiamo senz’altro smettere di preoccuparci della bomba atomica e della prossima guerra mondiale. Non c’è dubbio che gli zan abbiano risolto un sacco di nostri problemi.

Grace Evans sorrise debolmente. — Un altro caso in cui l’operazione ha avuto successo ma il paziente è morto. Le cose andavano proprio malissimo. Lei ricorda di essere stato catturato? Io no. Una sera sono andata a letto e mi sono risvegliata in una gabbia sulla nave spaziale.

— Neppure io lo ricordo, — dichiarò Walter. — Secondo me, dapprima hanno usato onde vibratorie a bassa intensità, quel tanto che bastava a far perdere i sensi a tutti. Poi sono andati in giro a raccoglier campioni, più o meno a caso, per il loro zoo. Quando ne hanno avuto il numero desiderato, o quando hanno riempito tutto lo spazio disponibile a bordo della nave, hanno aperto i rubinetti al massimo. Ed è finita. Ed è stato soltanto ieri che si sono accorti di avere fatto un errore e di averci sopravvalutati. Pensavano che fossimo immortali, come loro.

— Che fossimo… cosa?

— Loro possono venir uccisi, ma non sanno cos’è la morte naturale. In ogni caso, non lo sapevano fino a ieri. Due di noi, ieri sono morti.

— Due di… ooh!

— Sì, due di noi animali del loro zoo. Uno era un serpente e un altro un’anitra. Due specie scomparse in maniera irrevocabile, definitiva. E secondo il modo in cui gli zan misurano il tempo, i membri rimasti di ciascuna specie vivranno soltanto pochi minuti. Loro credevano invece di avere degli esemplari eterni.

— Vuol dire che non si erano resi conto che noi siamo creature dalla vita breve?

— Proprio così, — annuì Walter. — Ho parlato con uno di loro che si considera un giovanottino perché ha soltanto settemila anni… Sono bisessuati anche loro, incidentalmente, ma è probabile che generino una volta ogni diecimila anni o giù di lì. Quando ieri hanno appreso quant’è ridicolmente breve l’arco di vita di noi animali della Terra, è probabile che siano rimasti scossi fino al midollo… sempre che abbiano un midollo. In ogni caso hanno deciso di riorganizzare il loro zoo… a due a due, invece che ognuno di noi da solo. Hanno calcolato che saremmo durati più a lungo collettivamente, come razza, invece che come singoli individui.

— Oh! — Grace Evans balzò in piedi. C’era un vago rossore sul suo viso. — Se lei pensa… se loro pensano… — Si avviò verso la porta.

— Sarà chiusa a chiave, — disse Walter Phelan, senza scomporsi. — Ma non si preoccupi. Forse loro lo pensano, ma io non lo penso. Non c’è neppure bisogno che lei mi dica che non mi vorrebbe neppure se fossi l’ultimo uomo sulla faccia della Terra. Sarebbe trito e ritrito, viste le circostanze.

— Ma hanno intenzione di tenerci chiusi a chiave, insieme, in questa stanzetta?

— Non è piccola; ci arrangeremo. Io posso dormire molto comodamente in una di queste poltrone sovrimbottite. E non deve credere che io non sia perfettamente d’accordo con lei, mia cara. A parte ogni considerazione personale, il meno che possiamo fare per la razza umana è lasciare che finisca con noi cosicché non si perpetui per far mostra di sé in uno zoo.

La donna disse: — Grazie, — con voce quasi inaudibile, e il rossore sparì dalle sue guance. C’era collera nei suoi occhi, ma Walter sapeva che non era diretta a lui. Con gli occhi che le brillavano in quel modo, pensò, assomigliava moltissimo a Martha. Le sorrise e aggiunse: — Altrimenti…

La donna balzò su un’altra volta dalla poltrona, e Walter pensò per un istante che volesse avvicinarsi a lui e dargli una sberla. Poi ricadde giù con un gesto di stanchezza.

— Se lei fosse un uomo, penserebbe a qualche sistema per… Ha detto che possono venir uccisi? — C’era dell’amarezza nella sua voce.

— Oh, certo. Li ho studiati. Sembrano orribilmente diversi da noi, ma penso che abbiano all’incirca il nostro stesso metabolismo, lo stesso tipo di sistema circolatorio e con tutta probabilità lo stesso tipo di sistema digerente. Penso che qualunque cosa in grado di uccidere noi, ucciderebbe anche uno di loro.

— Ma lei ha detto…

— Oh, ci sono delle differenze naturalmente. Qualunque sia il fattore che fa invecchiare l’uomo, loro non ce l’hanno. Oppure hanno una ghiandola che l’uomo non ha, qualcosa che rinnova le cellule.

Adesso la donna aveva dimenticato la propria collera. Si sporse in avanti avidamente. — Sì, dev’essere proprio così. E credo che non sentano il dolore.

— Anch’io l’ho sperato. Ma cosa le fa pensare che sia così, mia cara?

— Ho steso attraverso la porta un pezzo di fil di ferro che avevo trovato nel mio cubicolo, cosicché lo zan c’inciampasse e cadesse per terra. È andato proprio così: ci ha inciampato e il filo gli ha fatto un grosso taglio alla gamba.

— Ha sanguinato?

— Sì, ma non è parso dargli nessun fastidio. Non si è infuriato. Non ne ha neppure parlato. Quando è tornato la volta successiva, poche ore dopo, il taglio non c’era più. Be’… quasi più. Ho potuto vedere un piccolo segno in quel punto, così da essere sicura che fosse lo stesso zan.

Walter Phelan annuì lentamente.

— È naturale che non si sia arrabbiato, — dichiarò. — Sono privi di emozioni. Forse, se anche ne uccidessimo uno, neppure ci punirebbero. Ma non servirebbe a niente. Ci darebbero il cibo attraverso uno sportello e ci tratterebbero come gli uomini avrebbero trattato un animale dello zoo che avesse ucciso un guardiano. Farebbero in modo che non tentasse di ripetere l’impresa con qualche altro guardiano.

— Quanti ce ne sono? — chiese la donna.

— Circa duecento, credo, in questa loro nave spaziale. Ma senza alcun dubbio ce ne sono molti altri là, nel luogo da cui sono venuti. Ho la sensazione che questa sia soltanto un’avanguardia, mandata a sgomberare questo pianeta e a renderlo sicuro per l’occupazione da parte degli zan.

— Hanno fatto un buon…


Qualcuno bussò alla porta. E Walter Phelan disse: — Entra pure. — Uno zan comparve sulla soglia.

— Ciao. George, — disse Walter.

— Ci-ao, Wal-ter, — disse lo zan.

Poteva o non poteva trattarsi dello stesso zan, ma il rituale era quello, sempre lo stesso.

— Cos’hai in mente? — chiese Walter.

— Un’al-tra di quel-le creatu-re dor-me e non vuo-le sve-gliar-si. Una pic-co-la chia-ma-ta don-no-la.

Walter scrollò le spalle.

— Succede, George. È la Vecchia Morte. Ti ho parlato di lei —

— È peg-gio. Uno zan è mor-to. Sta-mat-tina.

— Questo sarebbe peggio? — Walter lo fissò, calmo. — Be’, George, dovrete abituarvi, se avete intenzione di restare qui.

Lo zan non disse niente. Restò là, immobile.

Alla fine, Walter chiese: — Allora?

— Cir-ca la don-no-la. Consi-gli lo stes-so?

Walter tornò a scrollare le spalle. — Probabilmente non servirà a niente. Ma certo, perché no?

Lo zan se ne andò.

Walter sentì i suoi passi che si smorzavano in distanza. Sogghignò. — Potrebbe funzionare, Martha, — disse.

— Mar… il mio nome è Grace, signor Phelan. Cosa potrebbe funzionare?

— Il mio nome è Walter, Grace. Tanto vale che tu ti abitui. Sai, Grace, mi ricordi molto Martha. Era mia moglie. È morta un paio di anni fa.

— Mi spiace, — disse Grace. — Ma cosa potrebbe funzionare? Di che cosa stavi parlando con lo zan?

— Lo sapremo domani, — rispose Walter. E non riuscì a tirargli fuori un’altra sola parola.

Quello era il quarto giorno dall’arrivo degli zan.

Il successivo fu l’ultimo.

Era quasi mezzogiorno, quando arrivò uno zan. Dopo il consueto rituale, si fermò sulla soglia con un’aria più aliena che mai. Sarebbe interessante descriverlo, ma non ci sono parole.

Disse: — Ce ne andia-mo. Il no-stro con-si-glio si è riu-ni-to e ha de-ciso.

— È morto un altro dei vostri?

— Que-sta not-te. Que-sto è un pia-ne-ta di mor-te.

Walter annuì. — Avete fatto la vostra parte. Lasciate vive duecentotredici creature, su parecchi miliardi. Non affrettatevi a tornare.

— C’è nien-te che pos-sia-mo fa-re?

— Sì. Potete spicciarvi. E potete lasciare aperta la porta. Questa soltanto, non quelle degli altri animali. Ci occuperemo noi degli altri.

Qualcosa fece clic alla porta; lo zan se ne andò.

Grace Evans era balzata in piedi. Gli occhi le brillavano.

Chiese: — Come…? Come…?

— Aspetta, — l’ammonì Walter. — Sentiamo prima che decollano. È un suono che voglio ricordare.

Il suono arrivò pochi minuti dopo, e Walter Phelan, accorgendosi d’essere rimasto rigido tutto il tempo, si rilassò nella poltrona.

— Anche nel giardino dell’Eden c’era un serpente, Grace, e ci ha messo nei guai, — disse, pensieroso. — Ma questo ci ha compensato. Voglio dire, il compagno del serpente morto l’altro ieri. Era un serpente a sonagli.

— Vuoi dire che ha ucciso i due zan che sono morti? Ma…

Walter annuì. — Qui, erano come bambini nel bosco. Quando mi hanno condotto a dare un’occhiata alle prime creature che si erano addormentate e non volevano svegliarsi, e ho visto che uno dei due era un serpente a sonagli, allora mi è venuta un’idea, Grace. Ho pensato che, forse, le creature velenose erano uno sviluppo tipico della Terra e che gli zan non le conoscessero. E anche che, forse, il loro metabolismo era abbastanza simile al nostro, cosicché il veleno li avrebbe uccisi. Comunque, non avevo niente da perdere se tentavo. Ed entrambi i forse si sono rivelati giusti.

— Ma come sei riuscito a fare in modo che il serpente…

Walter Phelan sogghignò. Proseguì: — Gli ho spiegato che cos’era l’affetto. Non lo sapevano. Avevo scoperto che erano interessati a conservare l’esemplare rimasto di ciascuna specie il più a lungo possibile, per studiarne l’immagine e registrarla prima che morisse. Gli dissi che il serpente sarebbe morto subito, a causa della perdita del compagno, a meno che non ricevesse affetto e carezze… costantemente. Gliel’ho fatto vedere prendendo in braccio l’anitra. Per fortuna era domestica. L’ho stretta al petto e l’ho accarezzata per un po’, per fargli vedere. Poi ho lasciato che lo facessero loro… con l’anitra, e anche col serpente a sonagli.

Si alzò in piedi e si stiracchiò. Poi tornò a sedersi, più comodamente.

— Be’, abbiamo un intero mondo da progettare, — riprese. — Dovremo far uscire gli animali dall’arca, e questo richiederà una certa riflessione prima di decidere. Gli erbivori selvatici possiamo lasciarli uscire subito. Quelli domestici faremo meglio a tenerli qui e a prendercene cura: ne avremo bisogno. Ma i carnivori… be’, dovremo decidere. Ma temo che dovrà essere pollice verso.

La fissò. — È la razza umana. Dovremo prendere una decisione in merito. Una decisione molto importante.

Il suo volto stava nuovamente imporporandosi, com’era successo l’altra volta. Rimase seduta rigida sulla poltrona.

No! — esclamò.

Walter non parve averla sentita. — È stata una bella arrampicata, la nostra, anche se nessuno ci ha battuto le mani. Ora, la razza umana potrebbe tornare indietro e riprendere un po’ di fiato, prima della nuova rincorsa, ma intanto potremo raccogliere i libri e mantenere intatte la maggior parte delle conoscenze, in ogni caso le cose più importanti. Possiamo…

S’interruppe quando lei s’incamminò, furibonda, verso la porta. Proprio come si sarebbe comportata la sua Martha, pensò, ai vecchi tempi, quando le faceva la corte prima che si sposassero.

Le disse: — Pensaci, mia cara, e prenditela con calma. Ma torna.

La porta sbatté. Rimase seduto ad aspettare, pensando a tutte le cose che c’erano da fare, una volta che avesse cominciato, ma senza nessuna fretta di cominciarle; e dopo un po’ sentì il rumore dei suoi passi esitanti che ritornavano.

Ebbe un lieve sorriso. Visto? Non era poi così orribile.

L’ultimo uomo sulla Terra sedeva solo in una stanza. Qualcuno bussò alla porta…

Загрузка...