CLICHÉ CINEMATOGRAFICO N. 14: Il party. Frammenti casuali di conversazioni bizzarre, eccessivo uso di S, comportamenti assurdi.
VEDERE: Notorious, Greed, Il laurealo, Risky Business, Colazione da Tiffany, La via del male, Hollywood Party.
Era nata l’anno della morte di Fred Astaire. Hedda me lo disse quando conobbi Alis. Fu a uno di quei party nelle case degli studenti sponsorizzati dagli studios. Ce n’è uno tutte le settimane, in teoria per fare sfoggio delle ultime innovazioni di CG e tentare di convincere qualche studente techno degli ultimi anni ad accettare una vita di digitalizzazione e schiavitù regolata da contratto; ma in realtà il vero scopo è permettere ai dirigenti di farsi un po’ di chocha (di quella non ce n’è mai abbastanza) o qualche squinzia (di queste ce ne sono a quintali, tutte in abito bianco col top e capelli biondo platino). Hollywood al suo meglio, ed è per questo che io ne sto lontano, ma quel party era sponsorizzato dall’ILMGM e Mayer mi aveva promesso di partecipare.
Gli avevo fatto un copia-e-incolla. Avevo digitalizzato la squinzia del direttore dei suoi studi in un film di River Phoenix. Volevo consegnare il disco ottico a Mayer e farmi pagare prima che il direttore scoprisse un’altra faccia. Avevo già fatto l’incollaggio due volte e inserito i by-pass tre volte perché quello aveva cambiato ragazze, e questa volta la faccia nuova aveva preteso una scena “con” River Phoenix, il che significava che mi ero dovuto guardare tutti i film con River Phoenix, e sono una marea: è stato uno dei primi attori a essere messo sotto copyright. Volevo avere i soldi prima che il boss di Mayer cambiasse donna di nuovo. I soldi e un po’ di S.
Il party era nel salone della casa degli studenti, come sempre: matricole e facce e techno e parassiti. I soliti sospetti. Al centro della stanza c’era un grande schermo col cavo a fibre ottiche. Diedi uno sguardo, pregando Dio che non fosse il nuovo film di River Phoenix. Fu una sorpresa scoprire Fred Astaire e Ginger Rogers che ballavano su una scala. Fred era in frac, Ginger portava un abito bianco che avvampava di nero sull’orlo. Nel frastuono del party non sentivo la musica, ma pareva il continental.
Mayer non si vedeva. Sotto lo schermo c’era un tizio col berretto da baseball dell’ILMGM e la barba (l’uniforme dei techno), col telecomando in mano. Blaterava con un paio di pezzi grossi della CG. Scrutai la folla, in cerca di completi da uomo e/o di qualcuno di mia conoscenza che potesse darmi un po’ di chocha.
— Ciao — ansimò una delle facce. Aveva capelli biondo platino, un vestito bianco col top, un neo, ed era molto fatta. I suoi occhi non si mettevano a fuoco.
— Ciao — risposi, continuando a scrutare la folla. — E tu chi dovresti essere? Jean Harlow?
— Chi? — disse lei, e io avrei voluto credere che fosse colpa degli S che aveva inghiottito, ma probabilmente non era così. Ah, Hollywood, dove tutti vogliono stare nei film e nessuno si è mai preso la briga di guardarne uno.
— Jeanne Eagles? — dissi. — Carole Lombard? Kim Basinger?
— “No” — rispose lei, cercando di mettere a fuoco lo sguardo. — Marilyn Monroe. Sei un dirigente degli studios?
— Dipende. Hai della chocha?
— No — rispose lei, triste. — Finita.
— Allora non sono un dirigente degli studios — dissi. Comunque vedevo un dirigente nei paraggi della scala. Stava parlando con un’altra Marilyn. Che indossava un vestito bianco col top identico a quello della Marilyn che stava parlando con me.
Non ho mai capito perché le facce, che hanno da vendere soltanto una personalità originale, una faccia originale, cerchino tutte di somigliare a qualcun’altra. Ma probabilmente la cosa ha senso. Perché dovrebbero essere diverse da tutta l’altra gente di Hollywood, un posto che ha sempre amato sequel e imitazioni e remake?
— Sei nei film? — insistette la mia Marilyn.
— Nessuno è nei film — risposi, e mi avviai verso il dirigente nella calca.
Fu più dura che rimorchiare la Regina d’Africa nel canneto. Mi feci strada tra un gruppo di facce che chiacchieravano della voce che la Columbia Tri-Star scritturasse corpicaldi, superai un paio di freakkati con casco dati che stavano vivendo tutto un altro party, e finalmente pilotai verso le scale.
Riuscii a capire che non era Mayer solo quando arrivai tanto vicino da sentire la voce. I dirigenti degli studios sono come le Marilyn. Sembrano tutti uguali. E usano le stesse frasi.
— …Cercando una faccia per il mio nuovo progetto — stava dicendo quello. Il nuovo progetto era un remake di Ritorno al futuro con, ovviamente, River Phoenix. — È il momento perfetto per una riedizione — disse, puntando gli occhi sulla scollatura del top di Marilyn. — Dicono che siamo vicini “così…” — Alzò pollice e indice. Quasi si toccavano. — Ad averlo sul serio.
— Ad averlo sul serio? — chiese Marilyn, in una discreta imitazione della voce roca di Marilyn Monroe. Somigliava all’originale più della mia, anche se era un po’ larga di fianchi. Ma le facce non si preoccupano più come una volta di cose del genere. Qualche chilo in più si può cancellare. O aggiungere. — Vuoi dire il viaggio nel tempo?
— Voglio dire il viaggio nel tempo. Solo che non useremo più una DeLorean. Metteremo una macchina del tempo a forma di scivolo. Abbiamo già la grafica pronta. L’unica cosa che non abbiamo è un’attrice che reciti con River. Il regista voleva usare Michelle Pfeiffer o Lana Turner, ma io gli ho detto che secondo me dovremmo prendere una sconosciuta. Una con una faccia nuova, una speciale. Ti interessa lavorare nel cinema?
Avevo già sentito quella battuta. In Palcoscenico. 1937.
Mi rituffai nel party. Arrivai allo schermo, dove berretto-da-baseball-e-barba stava tenendo concione ad alcune matricole. — …Programmato per ogni tipo d’inquadratura. Dolly, schermo suddiviso, panoramiche. Diciamo che volete un primo piano di questo tizio. — Indicò lo schermo col telecomando.
— Fred Astaire — dissi io. — Quel tizio è Fred Astaire.
— Premete “primo piano”…
Il viso sorridente di Fred Astaire invase lo schermo.
— È il nuovo programma di editing dell’ILMGM — mi disse Berretto Da Baseball. — Cambia angolo di ripresa, fonde tra loro fotogrammi, taglia. Basta avere come base di lavoro un’inquadratura unica come quella. — Premette un pulsante del telecomando, e al posto della faccia di Fred riapparvero Fred e Ginger che ballavano. — Le inquadrature uniche sono una merce rara. Ho dovuto tornare al bianco e nero per trovare qualcosa di abbastanza lungo, ma stiamo lavorando al problema.
Premette un altro pulsante, e mi venne offerto un primo piano della bocca di Fred, poi della sua mano. — Puoi fare tutti i tipi di editing che vuoi — disse Berretto Da Baseball, guardando lo schermo. Di nuovo la bocca di Fred, il garofano bianco al suo occhiello, la mano. — Adesso prendo l’inquadratura di partenza e faccio l’editing usando la sequenza iniziale di Quarto potere.
Un campo medio di Ginger, poi il garofano. Mi chiesi quale dei due elementi fosse Rosebud.
— È tutto preprogrammato — disse Berretto Da Baseball. — Non bisogna fare niente. Fa tutto lui.
— Sa dove sia Mayer? — domandai.
— Era qui — rispose lui, guardandosi vagamente attorno e poi riportando gli occhi sullo schermo, dove Fred stava eseguendo i suoi passi. — Può estrapolare campi lunghi, riprese aeree, panoramiche.
— Fagli estrapolare qualcuno che sappia dove sta Mayer — dissi. Mi spostai di lato e tornai al bagno di folla. Il numero di ospiti continuava a crescere. Gli unici con un po’ di spazio a disposizione erano Fred e Ginger, che piroettavano su e giù per la scala.
Il dirigente che avevo visto prima era in mezzo al salone. Si stava imburrando la stessa Marilyn, oppure un’altra. Forse sapeva dove fosse Mayer. Mi incamminai verso lui, poi intravidi Hedda in abito aderente rosa senza spalline e braccialetti tempestati di diamanti. Gli uomini preferiscono le bionde.
Hedda sa tutto, tutte le novità, tutte le voci. Se qualcuno poteva sapere dove fosse Mayer, era Hedda. Mi feci strada verso lei, oltre il dirigente, che stava spiegando il viaggio nel tempo alla Marilyn. — È lo stesso principio dello scivolo — disse. — L’effetto Casimir. Gli atomi randomizzati nelle pareti creano una regione di antimateria che produce un intervallo di sovrapposizione.
Doveva essere stato un techno prima di morpharsi in un dirigente.
— L’effetto Casimir permette di sovrapporre lo spazio per spostarsi da una stazione all’altra dello scivolo, e in teoria la stessa cosa è possibile per trasferirsi da una linea temporale a un’altra parallela. Ho un disco ottico che spiega tutto — disse, lasciando correre una mano sul collo di Marilyn. — Ti va di salire nella tua stanza a dargli un’occhiata?
Lo aggirai strusciandolo, sperando di non ritrovarmi coperto di sanguisughe, e mi portai a fianco di Hedda. — Mayer è qui? — chiesi.
— No. — La sua testa platinata era china sull’assortimento di cubetti e capsule che teneva nella mano guantata di rosa. — È stato qui per qualche minuto, ma se n’è andato con una delle matricole. E all’inizio del party c’era uno della Disney che fiutava l’aria. Dicono che la Disney abbia una mezza idea di assorbire l’ILMGM.
Un altro motivo per farmi pagare subito. — Mayer ha detto se tornava?
Lei scosse la testa, ancora immersa nello studio della sua piccola farmacia.
— C’è della chocha? — chiesi.
— Credo siano queste — disse lei, porgendomi due capsule viola e bianco. — Questa roba me l’ha data una faccia, e mi ha spiegato cosa sia cosa, ma non ricordo più. Sono quasi sicura che queste siano chocha. Ne ho prese un po’. Tra un minuto potrò dirti.
— Grande. — Mi sarebbe piaciuto poterle mandare giù subito. Il fatto che Mayer se ne fosse andato con una matricola poteva significare che era in caccia di un’altra donna per il suo boss, il che avrebbe significato un nuovo lavoro d’incollaggio. — Cosa si dice del boss di Mayer? La sua nuova ragazza lo ha già scaricato?
L’interesse di Hedda si risvegliò all’istante. — Non che io sappia. Perché? Hai sentito voci?
— No. — E se nemmeno Hedda ne sapeva qualcosa, non era successo. Quindi Mayer aveva portato la matricola in stanza solo per una veloce scopatina o un’ancor più veloce fiutatina o due di neve, e sarebbe tornato nel giro di pochi minuti, e magari io sarei riuscito a farmi pagare.
Abbrancai un bicchiere di plastica da una Marilyn di passaggio e mandai giù le capsule.
— Allora, Hedda — continuai, visto che era meglio parlare con lei che con Berretto Da Baseball o con il dirigente che viaggiava nel tempo — quali altre chiacchiere metterai questa settimana nella tua rubrica?
— Rubrica? — ribatté lei, perplessa. — E mi chiami sempre Hedda. Perché? È una star del cinema?
— Una giornalista che aveva una rubrica di pettegolezzi. Sapeva sempre tutto di quello che succedeva a Hollywood. Allora? Che succede?
— La Viamount ha un nuovo programma di foley automatico — disse all’istante lei. — L’ILMGM si sta preparando a chiedere i copyright su Fred Astaire e Sean Connery, che finalmente si è deciso a morire. E gira voce che la Pinewood scritturi corpicaldi per il nuovo sequel di Batman. E la Warner… — Si interruppe a metà della frase e fissò perplessa la propria mano.
— Cosa c’è?
— Secondo me non è chocha. Sento una strana… — Si studiò la mano. — Forse le gialle erano chocha. — Pescò nella farmacia. — Queste sembrerebbero ghiaccio.
— Chi te le ha date? — chiesi. — Il tizio della Disney?
— No. Uno che conosco. Una faccia.
— Che aspetto ha? — Domanda stupida. Esistono due sole varietà di facce maschili: James Dean e River Phoenix. — È qui?
Lei scosse la testa. — Me le ha date perché se ne andava. Ha detto che non gli servivano più, e comunque in Cina lo arresterebbero per il possesso di questa roba.
— In Cina?
— Dice che là hanno uno studio per livefilm e scritturano controfigure e corpicaldi per i loro film di propaganda.
E io che pensavo che fare inserimenti digitali per Mayer fosse il peggior lavoro del mondo.
— Magari è filarossa — disse lei, tastando le capsule. — Spero di no. La filarossa mi dà sempre un aspetto di merda il giorno dopo.
— Invece di un aspetto da Marilyn Monroe — commentai. Mi guardai attorno. Mayer non era ancora riapparso. Il dirigente che viaggiava nel tempo stava raggiungendo la porta con una Marilyn. I freakkati col casco ridevano e abbrancavano l’aria; il loro party doveva essere molto meglio del nostro. Fred e Ginger stavano facendo pubblicità a un altro programma di editing. Primi piani a montaggio frenetico di Ginger, le tende della sala da ballo, la bocca di Ginger, le tende. Doveva essere la scena della doccia di Psycho.
Il programma finì e Fred afferrò la mano tesa di Ginger, si scaraventò tra le sue braccia. L’orlo nero del vestito di Ginger si gonfiò di spinta centrifuga. Gli orli dello schermo cominciarono a essere sfuocati. Guardai le scale. Erano un po’ sfuocate anche quelle.
— Merda. Non è filarossa — dissi. — È klieg.
— Davvero? — Hedda fiutò le capsule.
Sì che lo è, pensai disgustato, e adesso cosa devo fare? Un trip di klieg era la situazione meno adatta per incontrarmi con un porco come Mayer, e quella roba fottuta non ti dà niente che valga la pena. Non c’è eccitazione, o allucinazioni, nemmeno un senso di sbronza. Solo una vista sfuocata e poi un flash di realtà indelebile. — Merda.
— Se è klieg — disse Hedda, muovendo le capsule col dito guantato — per lo meno possiamo fare del grande sesso.
— Non ho bisogno del klieg per quello — ribattei, ma cominciai a cercare con gli occhi una da scopare. Hedda aveva ragione. Fare sesso sotto klieg significa avere un orgasmo indimenticabile. Alla lettera. Scrutai le Marilyn. Potevo esibirmi nel numero del dirigente in cerca di attrici con una matricola, ma era impossibile prevedere quanto tempo avrebbe richiesto, e la mia sensazione era di avere a disposizione solo pochi minuti. La Marilyn che mi aveva abbordato prima era davanti allo schermo, ad ascoltare il discorsetto di un produttore.
Guardai la porta. Sulla soglia c’era una ragazza. Si stava guardando attorno con aria incerta, come fosse in cerca di qualcuno. Aveva capelli castano chiaro a riccioli, tirati indietro alle tempie. La soglia alle sue spalle era scura, ma da qualche parte doveva esserci una luce perché i capelli splendevano come fossero illuminati da dietro.
— Di tutti gli spacci di gin del mondo… — dissi.
— Gin? — chiese Hedda, assorta sul suo assortimento di pillole. — Non avevi detto che è klieg? — Fiutò la sua farmacia personale.
La ragazza doveva essere una faccia, era troppo carina per non esserlo, ma l’acconciatura era sbagliata, e anche il vestito, che non aveva il top e non era bianco. Era nero, con un giubbetto verde, e la faccia portava guanti verdi, corti. Deanna Durbin? No, il colore dei capelli era sbagliato. E aveva anche un nastro verde per tenerli fermi. Shirley Tempie?
— Chi è quella? — borbottai.
— Chi? — Hedda si leccò l’indice e lo passò sulla polvere che le pillole le avevano lasciato sul guanto.
— Quella faccia là. — Le indicai la porta. La ragazza si era spostata. Adesso era appoggiata alla parete, ma i suoi capelli catturavano ancora la luce, avevano attorno una specie d’alone.
Hedda succhiò la polvere sul dito. — Alice — disse.
Alice chi? Alice Faye? No, Alice Faye era una bionda platinata, come tutte a Hollywood. Charlotte Henry in Alice nel paese delle meraviglie?
Chiunque stesse cercando (il Coniglio Bianco, probabilmente), la ragazza si era arresa. Ora guardava lo schermo. Fred e Ginger danzavano l’uno attorno all’altra senza toccarsi, tenendosi stretti solo con lo sguardo.
— Alice chi? — chiesi.
Hedda fissava il proprio indice a fronte aggrottata. — Eh?
— Chi dovrebbe essere? Alice Faye? Alice Adams? Alice non abita più qui?
La ragazza si era allontanata dal muro, gli occhi ancora puntati sullo schermo, e si dirigeva verso il Berretto Da Baseball. Quello balzò avanti, eccitato all’idea di avere nuovo pubblico, e attaccò la sua tiritera, ma lei non lo ascoltava. Guardava Fred e Ginger, la testa piegata all’insù, i capelli che catturavano la luce dello schermo.
— Secondo me qui non c’è niente di quel che mi ha detto quello — disse Hedda, leccandosi un’altra volta il dito. — Si chiama così.
— Cosa?
— Alice. Alis. Si chiama così. È una matricola. Storia del cinema. Viene dall’Illinois.
Be’, quello spiegava il nastro nei capelli, ma non il resto dell’abbigliamento. Non era Alice Adams. I guanti erano degli anni Cinquanta, non dei Trenta, e il suo viso non era abbastanza angoloso da poter tentare un’imitazione di Katharine Hepburn. — Chi dovrebbe essere?
— Chissà qual è il ghiaccio — disse Hedda, ricominciando a frugare sul palmo della mano. — Dovrebbe far finire più in fretta il flash. Vuole ballare nei film.
— Secondo me hai già esagerato abbastanza con la lotteria delle pillole — dissi, cercando di afferrare la mano di Hedda.
Lei la chiuse a pugno, per proteggere le pastiglie. — No, sul serio. È una ballerina.
La guardai. Chissà quante pillole ignote aveva ingoiato prima che arrivassi io.
— È nata l’anno della morte di Fred Astaire — disse Hedda, gesticolando col pugno chiuso. — Lo ha visto al cinema e ha deciso di venire a Hollywood per ballare nei film.
— “Quali” film? — chiesi.
Lei scrollò le spalle, di nuovo presa dalla propria mano.
Scrutai la ragazza. Stava ancora guardando lo schermo, con espressione attenta. — Ruby Keeler — dissi.
— Eh? — fece Hedda.
— La piccola ballerina coraggiosa di Quarantaduesima strada che vuole diventare una star. — Solo che Alis era in ritardo di una ventina d’anni. Però era arrivata giusto in tempo per me, e se era tanto ingenua da pensare di potercela fare nel cinema, portarla nella mia stanza doveva essere una passeggiata.
Non sarei stato costretto a spiegarle il viaggio nel tempo, come quel dirigente. Che adesso stava parlando serio serio a una Marilyn con le frange nere e l’ukulele. A qualcuno piace caldo.
— Capisci, in questa linea temporale mi stai rispondendo picche — stava dicendo il dirigente — ma in una linea temporale parallela noi stiamo già scopando. — Si protese sulla Marilyn. — Esistono centinaia di migliaia di linee temporali parallele. “Chissà” cosa stiamo facendo in alcune.
— E se ti stessi rispondendo picche in tutte quante? — chiese la Marilyn.
Scivolai oltre le sue frange, pensando che avrei potuto ripiegare su lei se Ruby non ci fosse stata, e mi avviai verso lo schermo, in mezzo alla calca.
— "Non farlo!” — disse a voce molto alta Hedda.
Almeno metà della stanza si girò a guardarla.
— Non devo fare cosa? — Tornai da lei. Hedda guardava oltre me, fissava Alis, e sul suo viso c’era l’espressione vacua, leggermente stupefatta che è tipica del klieg.
— Hai appena avuto un flash, eh? — dissi. — Te l’avevo detto che era klieg. E questo significa che tra un po’ succederà anche a me, per cui se vuoi scusarmi…
Lei mi prese per il braccio. — Penso che non dovresti… — Continuava a fissare Alis. — Lei non… — Mi guardava preoccupata. Mildred Natwick in I cavalieri del nord-ovest, quando dice a John Wayne di stare attento.
— Non cosa? Non si lascerà scopare? Vuoi scommettere?
— No. — Hedda scosse la testa come cercasse di schiarirsi le idee. — Lei… sa quello che vuole.
— Anch’io. E grazie al tuo approccio stile roulette russa agli stupefacenti, questa promette di essere un’esperienza indimenticabile. Se riesco a portare Ruby nella mia stanza entro i prossimi dieci minuti. Se non ci sono altre obiezioni… — E mi avviai.
Lei fece per tendere la mano, come se volesse prendermi per la manica, poi lasciò ricadere il braccio.
Il dirigente stava parlando delle regioni di antimateria. Lo aggirai e arrivai sotto lo schermo. Alis stava guardando la faccia di Fred, la scala, la gonna di Ginger con l’orlo nero, la mano di Fred.
In primo piano era bella quanto lo era stata in campo lungo. I capelli tirati all’indietro imprigionavano i lampi di luce dello schermo, e sul suo viso c’era un’espressione intensa, concentrata.
— Non dovrebbero farlo — disse.
— Cosa? Proiettare un film? — chiesi. — A un party bisogna proiettare un film. È la legge di Hollywood.
Lei si girò e mi sorrise, deliziata. — Conosco questa battuta. È di Cantando sotto la pioggia — disse, compiaciuta. — Non parlavo del film. È per tutti quegli editing. — Tornò ad alzare la testa verso lo schermo. O meglio a guardarlo dall’alto in basso. Adesso c’era una ripresa aerea, e si vedevano soltanto le teste di Ginger e Fred.
— Allora non ti piace il programma di editing di Vincent? — le chiesi.
— Vincent?
Annuii in direzione di Berretto Da Baseball, che si era ritirato in un angolo a farsi una fiutata. — Non ti ricorda Vincent Price in La maschera di cera?
Il programma di editing tornò al montaggio accelerato: i gradini, il viso di Fred, primo piano di un gradino. La scena della carrozzina dalla Potemkin.
— Per più di un verso — dissi.
— Fred Astaire ha sempre preteso che i suoi numeri venissero girati in un’unica ripresa e un’unica inquadratura — disse lei, senza staccare gli occhi dallo schermo. — Diceva che è l’unico modo possibile per filmare il ballo.
— Ah sì, eh? Non mi stupisce che mi piaccia di più l’originale. — La guardai. — Ne ho una copia nella mia stanza.
E questo la spinse a distogliere gli occhi da piedi, spalle, capelli di Ginger montati all’impazzata e guardare me. Era la stessa espressione intensa, concentrata, che aveva rivolto allo schermo. Io cominciai a notare che i margini del mio campo visivo si stavano sfuocando.
— Niente cambi d’inquadratura, niente piroette di cinepresa — dissi a raffica. — Niente di preprogrammato. Un’unica ripresa e un’unica inquadratura. Vuoi venire a dare un’occhiata?
Lei si voltò un attimo verso lo schermo. Il petto di Fred, il viso, le ginocchia. — Sì — disse. — Hai il film vero? Non colorizzato o niente?
— L’articolo originale — risposi, e le feci strada su per la scala.
RUBY KEELER: [Nervosamente] Non ero mai stata nell’appartamento di un uomo.
ADOLPHE MENJOU: [Versando champagne] Non eri mai stata a Hollywood. [Porgendole il bicchiere] Tieni, mia cara, questo ti aiuterà a rilassarti.
RUBY KEELER: [Indugiando vicino alla porta] Avevi detto di avere qui il modulo per un provino. Non dovrei compilarlo?
ADOLPHE MENJOU: [Spegnendo le luci] Più tardi, mia cara, dopo che avremo avuto occasione di conoscerci.
— Ho tutto quello che potresti desiderare — dissi ad Alis mentre salivamo. — Tutte le librerie dell’ILMGM e della Warner e della Fox-Mitsubishi, almeno tutto quello che è stato digitalizzato, il che dovrebbe essere tutto quello che puoi desiderare. — La guidai in corridoio. — I film di Fred Astaire e Ginger Rogers erano Warner, no?
— RKO — disse lei.
— Stessa cosa. — Inserii la tessera nella serratura elettronica. — Eccoci qua — dissi, e spalancai la porta sulla mia stanza.
Lei, fiduciosa, fece un passo all’interno, poi si fermò vedendo le apparecchiature che coprivano tre pareti, gli schermi a specchio. — Mi pareva avessi detto di essere uno studente.
Non era il momento giusto per raccontarle che non frequentavo da più di un semestre. — Infatti — dissi, aggirandola di struscio per costringerla a entrare. Mi chinai a raccogliere una camicia dal pavimento. — Vestiti da per tutto, e il letto non è fatto. — Depositai la camicia in un angolo. — Andy Hardy va al college.
Lei stava guardando il digitalizzatore col cavo a fibre ottiche. — Credevo che solo gli studios avessero i Cray.
— Faccio qualche lavoretto per loro per pagarmi l’università — dissi. E per non restare a corto di chocha.
— Che tipo di lavori? — chiese lei, scrutando l’immagine del proprio volto riflessa negli schermi argentati. Non era nemmeno il momento di dirle che la mia specialità era procurare ragazze ai dirigenti degli studios.
— Remake — risposi. Lisciai le coperte. — Siediti.
Si appollaiò sull’orlo del letto, a ginocchia strette.
— Okay. — Mi sedetti al computer. Chiesi il menu della libreria Warner. — Il continental era in Cappello a cilindro, giusto?
— Cerco il mio amore — disse lei. — Verso la fine.
— Schermo principale, ultimo fotogramma e indietro a 96 — dissi. Fred e Ginger balzarono sullo schermo e su un tavolo. — Indietro a 96 fotogrammi al secondo — e saltarono giù dal tavolo e fecero colazione e tornarono in sala da ballo.
Arrivai all’inizio del numero e lo feci partire. — Vuoi il sonoro? — chiesi.
Lei scosse la testa. La sua attenzione era già concentrata sullo schermo, e forse la mia non era stata poi una grande idea. Si protese in avanti, e sul suo viso comparve lo stesso sguardo assorto che avevo visto sotto, come stesse cercando di imparare a memoria i passi. Io avrei anche potuto non essere nella stanza, il che non era esattamente il mio obiettivo nel portarla lì.
— Menu — dissi. — Film di Fred Astaire e Ginger Rogers. — Apparve il menu. — Schermo uno, Follie d’inverno. — Di solito in cose del genere c’era sempre un gran finale di ballo, no? — Ultimo fotogramma e indietro a 96.
C’era. Sullo schermo in alto a sinistra, Fred in frac faceva piroettare Ginger vestita d’argento. — Fotogramma 102-044 — dissi, leggendo il codice sul fondo. — Avanti in tempo reale fino alla fine e ripetere. Ripetizione continua. Schermo due, Seguendo la flotta, schermo tre, Cappello a cilindro, schermo quattro, Girandola. Ultimi fotogrammi e indietro a 96.
Misi tutto in ripetizione continua e feci partire il resto dell’elenco di Fred e Ginger, riempiendo quasi tutti gli schermi di sinistra coi loro balli: piroette, tip tap, volteggi, con Fred in frac, in uniforme da marinaio, in tweed, Ginger in lunghi abiti aderenti che sotto le ginocchia fiorivano in un ribollire di piume e pelliccia e lustrini. Sgambettavano, saltavano, volavano nel carioca, nello yam, nel piccolino. E tutte inquadrature uniche. Tutte senza tagli.
Alis fissava gli schermi. L’espressione seria, intensa era svanita per lasciare il posto a un sorriso deliziato.
— Qualcosa d’altro?
— Voglio danzar con te — disse lei. — Il numero che dà il titolo al film. Fotogramma 87-1309.
Lo misi sulla fila in fondo. Fred, in un frac impeccabile, ballava con una fila di bionde in velluto nero e veli. Tutte quante avevano maschere col viso di Ginger Rogers, e se le mettevano davanti al volto e piroettavano via da Fred. Le maschere erano rigide come le facce di Hollywood.
— Qualche altro film? — chiesi, richiamando il menu. — Restano parecchi schermi. Ti va Un americano a Parigi?
— Non mi piace Gene Kelly — rispose lei.
— Okay. — Ero sorpreso. — E Meet Me in Saint Louis?
— Non ci sono veri balli. Ce n’è uno solo, Sotto il baniano, con Margaret O’Brien. Colpa di Judy Garland. Era una ballerina terribile.
— Okay — dissi, ancora più sorpreso. — Cantando sotto la pioggia? No, aspetta, Gene Kelly non ti piace.
— Il numero di Good Morning è okay.
Lo trovai. Gene Kelly, Debbie Reynolds e Ronald O’Connor che ballavano su scalini e mobili in frenetica esuberanza. Okay.
Cercai sul menu film senza Gene Kelly o Judy Garland. — Good News?
Lei annuì. — The Varsity Drag. È alla fine. Hai Sette spose per sette fratelli?
— Sicuro. Che numero?
— La costruzione del fienile. Fotogramma 27-986.
Lo richiamai. Cercai qualcosa con Ruby Keeler. — Quarantaduesima strada?
Lei scosse la testa. — È di Busby Berkeley. Non c’è vero ballo, a parte un secondo piano di un provino e circa sedici passi del numero nel parco. Non c’è mai stato vero ballo nella roba di Busby Berkeley. Hai Un giorno a New York?
— Credevo non ti piacesse Gene Kelly.
— Anne Miller — disse lei. — Il numero Uomo preistorico. Fotogramma 28-650. La Miller ha un’ottima tecnica, quando si limita al tip tap.
Non so perché fossi così sorpreso o cosa mi fossi aspettato. L’adorazione totale delle star, immagino. Ruby Keeler che ansima: “Mio Dio, signor Ziegfield, una parte nel suo spettacolo! Sarebbe meraviglioso!” O magari Judy Garland che guarda estasiata la fotografia di Clark Gable in Follie di Broadway. Ma ad Alis non piaceva Judy, e aveva liquidato Gene Kelly come fosse un ragazzino insignificante che faceva un provino per Busby Berkeley. Che a sua volta non le piaceva.
Riempii gli schermi di Fred Astaire, che le andava a genio, anche se nessuno dei suoi film a colori valeva quelli in bianco e nero. Del resto nemmeno le sue partner erano più all’altezza. Quasi tutte se ne stavano lì rigide mentre lui le faceva piroettare, oppure assumevano una posa fissa e lasciavano che lui volteggiasse attorno a loro.
Alis non guardava quelle partner. Aveva riportato gli occhi sullo schermo centrale e fissava Fred che faceva volare sul pavimento una Ginger priva di peso.
— Allora è questo che vuoi fare — dissi, puntando l’indice. — Vuoi ballare il continental?
Lei scosse la testa. — Non sono ancora abbastanza brava. Conosco solo qualche routine. Potrei fare quello — disse, indicando il Varsity Drag, e poi il numero dei cowboy di Girl Crazy. — E magari quello. Ballerina di fila, non prima ballerina.
Nemmeno questo mi aspettavo. L’unica cosa che le facce hanno in comune sotto i loro nei alla Marilyn è l’incrollabile certezza di possedere la stoffa della star. Per la maggior parte non la posseggono; non sanno recitare o fingere emozioni, non sono nemmeno capaci di una ragionevole imitazione della voce roca e della vulnerabilità sexy di Norma Jean, ma sono tutte convinte che l’unica cosa che impedisca loro di raggiungere il rango di star sia la sfortuna, non la mancanza di talento. Non ne avevo mai sentito una dire: — Non sono abbastanza brava.
— Ho bisogno di trovare un maestro di ballo — stava dicendo Alis. — Tu ne conosci qualcuno, per caso?
A Hollywood? Trovarne uno era probabile quanto imbattersi in Fred Astaire. Anzi, meno.
E se anche lei avesse avuto tanto cervello da conoscere a fondo le proprie capacità? Se avesse studiato e analizzato i film? Non sarebbe stato quello a far rinascere il musical. Non sarebbe stato quello a spingere l’ILMGM a ricominciare a girare livefilm.
Guardai gli schermi. Sulla fila in fondo, Fred stava cercando di rintracciare la vera Ginger tra le maschere. Sul terzo schermo della fila in alto, stava tentando di convincerla a fare un salto a letto: lei piroettava via, lui avanzava, lei tornava, lui si chinava su lei, lei si ritraeva languida.
E io avrei fatto meglio a spicciarmi, o il mio flash sarebbe arrivato mentre Alis se ne stava sull’orlo del letto, vestita e a ginocchia unite.
Chiesi il sonoro per lo schermo tre e sedetti vicino ad Alis sul letto. — Secondo me sei brava abbastanza — dissi.
Lei mi guardò, confusa, poi capì che stavo cercando di farmela. — Non sono abbastanza brava. — Pausa. — Non mi hai mai vista ballare.
— Non stavo parlando di ballo — dissi io, e mi chinai per baciarla.
Lo schermo centrale diventò bianco. — Messaggio — c’era scritto. — Da Hedda Hopper. — Hedda si era sbagliata a scrivere il nome. Chissà se aveva avuto un altro flash rivelatore e si stava intromettendo per rivelarmelo.
— Annullare messaggio — dissi, e mi alzai per ripulire lo schermo, ma era troppo tardi. Il messaggio era già apparso.
— Mayer è qui. Devo mandarlo su? Hedda.
L’ultima cosa che desiderassi era Mayer nella mia stanza. Dovevo fare una copia del taglia-e-incolla e portargliela giù. — File River Phoenix — dissi al computer, e inserii un disco ottico vergine. — La spiaggia del desiderio. Registra il remake.
Gli altri schermi si svuotarono d’immagini e Alis si alzò. — Devo andare? — chiese.
— No! — Mi misi a cercare un telecomando. Il computer sputò il disco e io lo presi. — Resta qui. Torno subito. Devo solo dare questo a uno.
Le porsi il telecomando. — Tieni. Premi “M” per menu e chiedi quello che vuoi. Se il film che ti interessa non è dell’ILMGM, puoi richiamare le altre librerie premendo Files. Torno prima che finisca il continental. Promesso.
Raggiunsi la porta. Avrei voluto chiuderla per tenerla lì, ma lasciarla aperta le avrebbe dato l’impressione che sarei tornato subito. — Non andartene — dissi, e corsi via.
Hedda mi aspettava ai piedi delle scale. — Scusa — disse. — Te la stavi scopando?
— Grazie a te, no — risposi, cercando con gli occhi Mayer. Il salone si era riempito ancora di più da quando Alis e io ce n’eravamo andati. E anche lo schermo: una dozzina di Fred e Ginger si rincorrevano in cerchio.
— Non ti avrei interrotto — disse Hedda — ma prima mi avevi chiesto se ci fosse Mayer.
— Tutto okay. Dov’è?
— Là. — Puntò l’indice in direzione dei Fred e delle Ginger. Mayer era sotto di loro. Ascoltava Vincent illustrare il suo programma di editing e sussultava di continuo per la troppa chocha. — Ha detto che voleva parlarti di un lavoro.
— Grande. Questo significa che il suo boss ha una nuova ragazza e che io devo incollare una nuova faccia.
Lei scosse la testa. — La Viamount sta per rilevare l’ILMGM e Arthurton sarà il nuovo direttore del Settore Progetti, quindi il boss di Mayer è fuori, e Mayer si è messo a strisciare un po’. Deve prendere le distanze dal suo boss e convincere Arthurton che gli conviene tenere lui, invece di far subentrare il suo team. Quindi questo lavoro è probabilmente un tentativo di impressionare Arthurton, il che potrebbe significare un remake, o addirittura un nuovo progetto. Nel qual caso…
Avevo smesso di ascoltare. Il boss di Mayer era fottuto, il che significava che il disco che avevo in mano valeva esattamente niente, e che il lavoro che Mayer voleva farmi fare era incollare chissà dove la ragazza di Arthurton. O magari le ragazze di tutto il consiglio di amministrazione della Viamount. In un’ipotesi o nell’altra, non sarei stato pagato.
— …Nel qual caso — stava dicendo Hedda — il fatto che si rivolga a te è un buon segno.
— Piripacchio — esclamai, battendo le mani. — Potrebbe essere la mia grande occasione.
— Be’, potrebbe sì — disse lei, sulla difensiva. — Anche un remake sarebbe meglio delle tue ultime ruffianate.
— Sono tutte ruffianate. — Mi avviai nel caos verso Mayer.
Hedda si fece strada alle mie spalle. — Se è un progetto ufficiale — mi disse — digli che vuoi il tuo nome nei titoli.
Mayer si era spostato all’altro lato dello schermo, probabilmente per sottrarsi a Vincent, che gli stava dietro e continuava a parlare. Sopra le loro teste, la folla sullo schermo piroettava ancora, ma sempre più lentamente, e i lati della stanza stavano diventando sfuocati. Mayer si girò, mi vide, e salutò con la mano, il tutto al rallentatore.
Mi fermai, e Hedda mi sbatté contro. — Hai dello slalom? — le chiesi, e lei ricominciò a frugare sul suo guanto. — O del ghiaccio? Qualcosa che ritardi il flash del klieg?
Mi tese lo stesso assortimento di capsule e cubetti che aveva prima, solo che adesso la merce era diminuita. — Non credo — rispose, sbirciando la farmacia.
— Trovami qualcosa, okay? — Chiusi gli occhi, serrai le palpebre, tornai a guardare. I contorni della stanza erano meno sfuocati.
— Vedo se riesco a trovarti un ludo — disse Hedda. — Ricordati, se è una cosa seria vuoi il tuo nome nei titoli. — Scivolò via verso una coppia di James Dean, e io arrivai da Mayer.
— Servito — dissi a Mayer, e cercai di smollargli il disco. Non mi avrebbe pagato, ma valeva la pena tentare.
— Tom! — disse Mayer. Non prese il disco.
Hedda aveva ragione. Il boss di Mayer era fuori.
— Proprio l’uomo che cercavo — disse lui. — Cosa hai fatto di recente?
— Ho lavorato per te — risposi, e tentai di nuovo di passargli il disco. — Tutto fatto. Come avevi ordinato. River Phoenix, primo piano, bacio. La squinzia ha persino quattro battute.
— Grande. — Mayer mise il disco in tasca. Tirò fuori un palmtop e batté sulla tastiera. — Vuoi i soldi sul tuo conto, giusto?
— Giusto. — Mi chiesi se fosse un tipo particolarmente bizzarro di sintomo pre-flash: ottenere quel che si vuole. Mi girai a cercare Hedda. Non stava più parlando coi due James Dean.
— Posso sempre contare su te per i lavori duri — disse Mayer. — Ho un nuovo progetto che ti potrebbe interessare. — Mi mise un braccio cordiale sulla spalla e mi guidò via da Vincent. — Non lo sa nessuno, ma c’è la possibilità di una fusione tra l’ILMGM e Viamount, e se va così, il mio boss e le sue ragazze saranno lettera morta.
Come fa Hedda a sapere certe cose? mi chiesi, colmo di meraviglia.
— La cosa è ancora a livello di discorsi generali, naturalmente, ma siamo tutti molto eccitati all’idea di lavorare con una grande compagnia come la Viamount.
Traduzione: l’affare è concluso, e “strisciare” non è esattamente il verbo giusto. Guardai le mani di Mayer: quasi mi aspettavo di vedere sangue sotto le unghie.
— La Viamount è interessata quanto l’ILMGM a produrre film di qualità, ma lo sai come reagisce il pubblico americano alle fusioni. Quindi il nostro primo compito, “se” questo affare andrà in porto, è trasmettere agli spettatori questo messaggio: “Noi ci teniamo a voi”. Tu conosci Austin Arthurton?
Mi spiace, Hedda, pensai. È un’altra ruffianata.
— Qual è il lavoro? — chiesi. — Inserire la ragazza di Arthurton? Il suo ragazzo? Il suo pastore tedesco?
— Gesù, no! — Mayer si guardò attorno per assicurarsi che nessuno sentisse. — Arthurton è assolutamente etero, vegetariano, pulito. Un vero tipo alla Gary Cooper. La sua unica missione è convincere il pubblico che lo studio è in mani responsabili. Ed è qui che entri in gioco tu. Ti forniremo un upgrade di memoria e uno stampa-e-invia automatico, e ti pagherò via rete appena ricevuto il materiale. — Mi sventolò sotto il naso il disco con la ragazza del suo vecchio boss. — Non dovrai più venirmi a cercare ai party. — Sorrise.
— Qual è il lavoro?
Lui non rispose. Si guardò attorno, sussultando. — Vedo un sacco di facce nuove — disse, e sorrise a una Marilyn in piume gialle. Follie dell’anno. — Qualcosa di interessante?
Sì, nella mia stanza, e io vorrei avere il flash con lei, non con te, Mayer, per cui vieni al punto.
— Ultimamente l’ILMGM si è tirata addosso un po’ di pubblicità negativa. Conosci il ritornello: violenza, stupefacenti, influenze deleterie. Niente di serio, ma Arthurton vuole proiettare un’immagine positiva…
Ed è un vero tipo alla Gary Cooper. Mi sbagliavo, Hedda. Non è una ruffianata. Si tratta solo di fare terra bruciata.
Mayer ricominciò a sussultare. — Non è un lavoro di censura, solo qualche aggiustatina qua e là. La revisione media non toccherà più di dieci fotogrammi. Ti occorreranno forse una quindicina di minuti a film, e per la maggior parte si tratta semplicemente di cancellare. A questo i computer possono provvedere automaticamente.
— E cosa devo togliere? Sesso? Chocha?
— Droghe. Sostanze che danno assuefazione. Venticinque a film, e tu sarai pagato che ti tocchi cambiare qualcosa o no. Avrai chocha assicurata per un anno.
— Quanti film?
— Non tanti. Non so di preciso.
Frugò nella tasca della giacca e mi diede un disco identico a quello che gli avevo consegnato io. — Qui c’è il menu.
— Tutto? Sigarette? Alcol?
— Tutte le sostanze che danno assuefazione. Audio, video, e ogni possibile riferimento. Comunque la Lega Antifumo ha già eliminato la nicotina, e quasi tutti i film dell’elenco hanno solo un paio di scene da rifare. Molti sono già ripuliti. Tu dovrai solo guardarli, fare uno stampa-e-invia, e prenderti i soldi.
Come no. E poi stare a impostare codici di accesso per due ore. La cancellazione è semplice, cinque minuti al massimo, e una sovrapposizione dieci, anche lavorando su una videocassetta. È l’accesso che ti ammazza. Persino la mia maratona di film di River Phoenix era nulla a paragone delle ore che avevo speso a leggere codici di accesso, ad aggirare i livelli di autorizzazione e le chiavi d’identificazione, per evitare che il cavo a fibre ottiche rifiutasse automaticamente i cambiamenti che avevo fatto.
— No, grazie — dissi, e cercai di restituirgli il disco. — Non senza accesso totale.
Mayer assunse un’aria paziente. — Lo sai perché sono necessari i codici di autorizzazione.
Sicuro. Sono necessari perché nessuno possa modificare un pixel di tutti quei film sotto copyright, o arrecare danni a un solo capello sulla testa di tutte quelle star pagate e comperate. A parte gli studios.
— Mi spiace, Mayer. Non mi interessa. — Feci per andarmene.
— Okay, okay — sussultò lui. — Cinquanta a film e pieno accesso da dirigente. Non posso fare niente per le chiavi d’identificazione e per i copyright della Società per la Salvaguardia dei Film. Ma avrai completa libertà per i cambiamenti. Niente approvazioni a priori. Potrai essere creativo.
— Come no. Creativo.
— Affare fatto? — chiese.
Hedda stava passando sotto lo schermo, lo sguardo levato su Fred e Ginger. I due, in primo piano, si fissavano negli occhi.
Se non altro, quel lavoro mi sarebbe servito a pagarmi gli studi e gli S. Meglio che dovermi procurare la chocha da Hedda, meglio che prendere del klieg per sbaglio e dovermi preoccupare all’idea di avere un flash con Mayer e portarmi per sempre nella testa la sua immagine indelebile. E sono tutti lavori da ruffiano, in un modo o nell’altro. Ufficialmente o no.
— Perché no? — dissi, e arrivò Hedda. Mi prese la mano e fece scivolare un ludo nel mio palmo.
— Grande — disse Mayer. — Ti farò avere un elenco. Potrai seguire l’ordine che preferisci. Un minimo di dodici a settimana.
Annuii. — Comincerò subito. — Mi avviai alle scale, e intanto mandai giù il ludo.
Hedda mi seguì fino ai piedi delle scale. — Hai avuto il lavoro?
— Sì.
— È un remake?
Non avevo il tempo di stare ad ascoltare quei che avrebbe detto se avesse saputo che era solo un’operazione di terra bruciata. — Sì — risposi, e salii a razzo.
Non c’era nessuna fretta. Il ludo mi avrebbe dato come minimo mezz’ora, e Alis era già sul letto. Se era ancora lì. Se non ne aveva avuto abbastanza di Fred e Ginger e non aveva tagliato la corda.
La porta era socchiusa come l’avevo lasciata io, il che poteva essere un buon segno o un cattivo segno. Sbirciai dentro. La fila di schermi davanti a me era spenta. Grazie, Mayer. La ragazza se n’è andata, e io in cambio ho avuto solo un elenco uscito diritto dall’Ufficio Hays. Con un po’ di fortuna avrò il mio flash mentre guardo Walter Brennan che si beve una sorsata di torcibudella.
Feci per spalancare la porta e mi fermai. Lei c’era, dopo tutto. Vedevo la sua immagine riflessa negli schermi. Seduta sul letto, china in avanti, guardava qualcosa. Scostai un poco più la porta per vedere cosa. La porta grattò sulla moquette, ma lei non si mosse. Stava guardando lo schermo centrale. Era l’unico acceso. Non doveva essere riuscita a capire come usare gli altri schermi dalle mie frettolose istruzioni, oppure a Bedford Falls era abituata a un solo schermo.
Stava guardando con l’espressione concentrata che aveva giù nel salone, ma non era il continental. Non c’era nemmeno Ginger a ballare con Fred. C’era Eleanor Powell. Lei e Fred ballavano il tip tap su un pavimento nero, lucido. Sullo sfondo c’erano luci che avrebbero dovuto ricordare le stelle, e il pavimento le rifletteva in lunghe, brillanti scie chiare.
Fred ed Eleanor erano in bianco: lui in completo senza cappello a cilindro, lei in un abito bianco con la gonna alle ginocchia che si gonfiava quando lei piroettava. I suoi capelli castano chiari erano lunghi come quelli di Alis ed erano trattenuti da un fermacapelli bianco che sfolgorava, illuminato dai riflessi sul pavimento.
Fred ed Eleanor danzavano fianco a fianco, molto naturali, con le braccia solo leggermente protese in fuori per mantenere l’equilibrio. Le mani non si sfioravano nemmeno, e il sincronismo dei passi era perfetto.
Alis aveva tolto il sonoro, ma anche senza udire il ritmo delle loro scarpe o la musica sapevo benissimo di cosa si trattasse. Balla con me, la seconda metà del numero Begin the Beguine. La prima metà era un tango, abito da cerimonia per lui e lungo vestito bianco per lei, il tipo di cosa che Fred faceva con tutte le sue partner, solo che non doveva rimediare allo scarso talento di Eleanor Powell o tracciarle attorno passi complicati. Lei sapeva ballare quanto lui.
E la seconda metà era quella: niente costumi complicati, niente scenografie arzigogolate, solo loro due che ballavano fianco a fianco, un’unica ripresa e un’unica, lunga inquadratura. Lui batteva una combinazione con le scarpe, lei la ripeteva con un tempo impeccabile, lui ne inventava un’altra, lei gli rispondeva; e non si guardavano, erano attenti solo alla musica.
Non attenti. Aggettivo sbagliato. Non c’era in loro la minima concentrazione, il minimo sforzo. Sembrava quasi che si fossero inventati tutto il numero quando si erano trovati su quel pavimento lucido, che lo stessero improvvisando di secondo in secondo.
Restai sulla soglia, a guardare Alis che li scrutava dall’orlo del letto, con l’aria di chi non pensa nemmeno lontanamente al sesso. Hedda aveva ragione: era stata una cattiva idea. Avrei dovuto tornare giù e trovarmi una faccia che non tenesse le ginocchia strette, una che come massima ambizione volesse lavorare come corpocaldo per la Columbia Tri-Star. Il ludo che avevo appena preso mi avrebbe dato tutto il tempo per riuscire a convincere una delle Marilyn.
E Ruby Keeler non avrebbe mai sentito la mia mancanza. Era indifferente a tutto, concentrata solo su Fred Astaire ed Eleanor Powell che stavano sparando una raffica di passi velocissimi. Probabilmente, se avessi buttato la Marilyn sul letto per scoparmela, Alis non se ne sarebbe nemmeno accorta. Ed era quello che avrei dovuto fare, finché avevo tempo.
Ma non lo feci. Mi appoggiai alla porta, guardai Fred ed Eleanor e Alis, guardai l’immagine di Alis riflessa negli schermi spenti della fila di destra. Anche Fred ed Eleanor erano riflessi negli schermi; i loro visi si sovrapponevano all’espressione attenta di Alis.
Ma “attenta” non era il termine giusto nemmeno per lei. Aveva perso quell’espressione concentrata che aveva quando guardava il continental, quando contava i passi e cercava di memorizzarne le combinazioni. Era andata oltre guardando Fred ed Eleanor che danzavano fianco a fianco, senza toccarsi; e neanche loro contavano mentalmente, erano persi nella spontaneità dei passi, nella semplicità delle giravolte, persi nella danza; e lo era anche Alis. Il suo viso li guardava assolutamente immobile, come un fotogramma fermato sullo schermo, e in qualche modo erano fermi anche Fred Astaire ed Eleanor Powell, per quanto stessero ballando.
Ruotarono su se stessi, ed Eleanor spinse Fred indietro sul pavimento. Adesso era di fronte a lui ma ancora non lo guardava, tracciava l’eco dei suoi passi; e poi furono fianco a fianco, in un ritmo cadenzato, coi piedi e la gonna roteante e le stelle finte riflesse sul pavimento lucido, sugli schermi, sul viso immoto di Alis.
Eleanor eseguì una piroetta, senza guardare Fred, senza doverlo guardare, in perfetta sincronia con la piroetta di lui, e furono di nuovo fianco a fianco, intrecciarono passi in contrappunto, con le mani che quasi si toccavano e il viso di Eleanor immobile come quello di Alis, concentrato, dimentico di tutto. Fred accennò un movimento ondulatorio, ed Eleanor lo ripeté, e girò la testa e sorrise a Fred, un sorriso di piena consapevolezza e complicità e gioia assoluta.
Io ebbi il mio flash.
Di solito il klieg dà almeno qualche secondo di preavviso, il tempo sufficiente per fare qualcosa per rimandare l’attimo o chiudere gli occhi, ma non quella volta. Nessun preavviso, nessuna sfocatura, niente.
Un minuto ero appoggiato alla porta, a guardare Alis che guardava il tiptappare di Fred ed Eleanor, e un minuto dopo: fotogramma bloccato, tagliare!, stampare, come il flash di una macchina fotografica che ti esplode in faccia, solo che l’immagine che ti resta impressa sulla retina è chiara quanto la fotografia, e non sbiadisce, non se ne va.
Alzai la mano davanti agli occhi, come chi cerchi di schermarsi da un’esplosione nucleare, ma era troppo tardi. L’immagine si era già impressa a fuoco nella mia corteccia cerebrale.
Devo avere barcollato all’indietro, e forse ho anche urlato, perché quando riapersi gli occhi lei mi guardava allarmata, preoccupata.
— Ti è successo qualcosa? — Si alzò dal letto e mi prese per il braccio. — Stai bene?
— Sto benissimo — risposi. Benissimo. Alis aveva in mano il telecomando. Glielo presi e spensi il computer. Gli schermi divennero argentei e vuoti; c’era solo l’immagine di noi due in piedi davanti alla porta. E sovrimposta a quella un’altra immagine riflessa: il viso rapito, assorto di Alis che guardava Fred ed Eleanor danzare sul pavimento costellato di stelle finte.
— Vieni — dissi, e afferrai la mano di Alis.
— Dove andiamo?
In qualche posto. In qualunque posto. In un cinematografo dove proiettino qualche altro film. — A Hollywood — le risposi, trascinandola in corridoio. — A ballare nei film.
Rapido movimento orizzontale della macchina da presa. Campo medio: l’insegna della stazione LATT. Scritte sullo schermo: LOS ANGELES ISTANTRANSITO a grandi lettere rosa vivo, STAZIONE WESTWOOD in verde chiaro.
Prendemmo lo scivolo. Errore. La sezione posteriore era chiusa, ma lo scivolo era praticamente vuoto: poche crocchie di turi di ritorno dagli Universal Studios raggruppati al centro della stanza, un paio di drogati che dormivano con la schiena contro la parete sul fondo, tre tizi a ridosso della parete di fronte a noi che facevano il gioco delle tre carte sulla striscia gialla di sicurezza, una Marilyn solitaria.
I turi scrutavano ansiosi l’insegna delle stazioni, quasi avessero paura di perdersi la loro fermata. Figuriamoci. Il trasferimento da una stazione all’altra può anche essere istantaneo, ma lo scivolo impiega dieci minuti buoni a generare la regione di antimateria che produce lo spostamento, e poi ne occorrono altri cinque prima che si accendano le frecce che segnalano le uscite, e per tutto quel tempo nessuno va da nessuna parte.
I turi potevano anche rilassarsi e godersi lo show. Per quel che ce n’era. Una sola delle pareti era accesa, e su metà scorreva a ripetizione un raffica di spot pubblicitari dell’ILMGM, che evidentemente non sapeva ancora di essere stata assorbita. Al centro della parete, un leone digitalizzato ruggiva sotto lo slogan dello studio in color oro acceso: TUTTO È POSSIBILE! Lo schermo si oscurò, apparve una nebbia vorticosa. Una voce fuori campo annunciò: — ILMGM! Più stelle di quante ne esistano in cielo! — e poi si mise a recitare nomi, mentre le stelle spuntavano dalla nebbia. Vivien Leigh che ci veniva incontro in un’enorme gonna a crinolina; Arnold Schwarzenegger che passava su una motocicletta rombante; Charlie Chaplin che faceva roteare il suo bastone.
— Lavoriamo senza sosta per darvi le stelle più luminose del firmamento — disse la voce, il che significava le star sulle quali tutti stavano litigando per ottenerne il copyright. Marlene Dietrich, Macaulay Culkin all’età di dieci anni, Fred Astaire in frac e cappello a cilindro che camminava agile, sicuro, verso noi.
Avevo trascinato Alis fuori dalla casa dello studente per sfuggire agli schermi e alla beguine e a Fred che ballava il tip tap sul mio lobo frontale, per trovare qualcosa di diverso da guardare se mi fosse capitato un altro flash, e invece avevo solo scambiato il mio schermo con uno più grande.
L’altra parete era ancora peggio. Doveva essere più tardi di quanto credessi. Avevano smesso di trasmettere spot, e la parete era solo una lunga distesa a specchio. Come il pavimento lucido sul quale ballavano Fred Astaire ed Eleanor Powell, fianco a fianco, con le mani che quasi…
Puntai lo sguardo sulle immagini riflesse. I drogati parevano morti. Probabilmente avevano mandato giù capsule regalate da Hedda, convinti che fosse chocha. Marilyn si stava allenando davanti allo specchio a mettere il broncio, a spalancare la bocca in un’espressione di sorpresa assoluta, e abbassava le mani sulla gonna bianca per impedire che si sollevasse. La scena della grata di Quando la moglie è in vacanza.
I turi stavano ancora guardando l’insegna delle stazioni, che annunciava LA BREA TAR PITS. Anche Alis la scrutava, assorta, e persino nella luce fluorescente e lampeggiante della pubblicità dei futuri remake dell’ILMGM i suoi capelli avevano quel curioso effetto di un’illuminazione da dietro. Teneva i piedi divaricati e le mani protese in avanti, pronta a reagire a un movimento improvviso.
— Non avete scivoli a Riverwood, eh? — chiesi.
Lei sorrise. — Riverwood. È il posto dove vive Mickey Rooney in Musica indiavolata — disse. — Ce n’è solo uno molto piccolo a Galesburg. E ha i sedili.
— Senza sedili, nelle ore di punta si può inscatolare molta più gente. Guarda che non c’è bisogno di stare in quella posizione.
— Lo so. — Lei riavvicinò i piedi. — Ma io mi aspetto sempre che ci si muova.
— Ci siamo già mossi — ribattei, guardando l’insegna delle stazioni. Adesso eravamo a Pasadena. — Per un nanosecondo circa. Da stazione a stazione, e niente fermate intermedie. Tutto fatto con specchi.
Arrivai alla striscia gialla di sicurezza e tesi la mano verso la parete al mio fianco. — Solo che non sono specchi. Sono pannelli di antimateria che potresti attraversare con la mano. Trovati un dirigente di uno studio in caccia di donne e ti spiegherà tutto.
— Non è pericoloso? — chiese lei, abbassando gli occhi sulla striscia gialla.
— No, a meno che uno non cerchi di passarci attraverso, come fa a volte qualche svitato. Anni fa c’erano delle barriere, ma gli studios le hanno fatte togliere. Disturbavano i loro spot.
Lei si girò a guardare la parete di fronte. — È così grande!
— Dovresti vederlo di giorno. Di notte chiudono la sezione posteriore. Se no i drogati pisciano sul pavimento. Lì dietro c’è un’altra stanza. — Le indicai la parete sul fondo. — È grande il doppio di questa.
— Sembra una sala per le prove di uno spettacolo — disse Alis. — Come il teatro di Follie d’inverno. Qui dentro si potrebbe quasi ballare.
— Non ballerò — le dissi. — Non chiedermelo.
— Hai sbagliato film — sorrise lei. — Quello era Roberta.
Si voltò verso la parete a specchio. La sua gonna si gonfiò, e la sua immagine riflessa evocò quella di Eleanor Povvell a fianco di Fred Astaire sul pavimento nero, lucido, con la mano che…
Ricacciai indietro il ricordo, fissai l’altra parete, sulla quale stava scorrendo il trailer del nuovo Star Trek. Il flash batté in ritirata, e io mi girai verso Alis.
Stava guardando l’insegna delle stazioni. Pasadena lampeggiava. Una fila di frecce verdi guidava alle uscite, e i turi le stavano seguendo. Si dirigevano all’uscita di sinistra, verso Disneyland.
— Dove andiamo? — chiese Alis.
— A fare turismo. Le case delle star. Che dovrebbero abitare al cimitero di Forest Lawn, solo che non stanno più lì. Sono tornate sullo schermo e lavorano gratis.
Agitai la mano in direzione di una parete, dove stava scorrendo il trailer del remake di Pretty Woman, ovviamente interpretato da Marilyn Monroe.
Marilyn apparve vestita di rosso, e la Marilyn smise di allenarsi col broncio e si avvicinò a guardare. Marilyn tirò una lumaca a un cameriere, andò a fare shopping in Rodeo Drive per comperarsi un vestito bianco col top, sfumò su un tremulo bacio a Clark Gable.
— Tra poco su tutti gli schermi nella parte di Lena Lamont in Cantando sotto la pioggia — dissi. — Spiegami perché odii Gene Kelly.
— Non lo odio. Non esattamente. — Alis rifletté. — Un americano a Parigi è orribile, e anche certi numeri di Cantando sotto la pioggia, ma quando balla con Donald O’Connor e Frank Sinatra è in gamba. È solo che lo fa sembrare così “faticoso”.
— E non lo è?
— No, “lo è”. È questo il punto. — Lei aggrottò la fronte. — Quando salta o esegue passi complicati, agita le braccia e sbuffa e ansima. È come se volesse farti capire quanto sia faticoso. Fred Astaire non lo fa. I suoi numeri sono molto più difficili di quelli di Gene Kelly, i passi sono “tremendi,” ma sullo schermo non si vede niente di tutto questo. Quando balla lui, non sembra nemmeno che si stia sforzando, che stia lavorando. Sembra tutto così semplice, inventato all’istante…
L’immagine di Fred ed Eleanor si fece di nuovo avanti. Vestiti di bianco, facevano il tip tap rilassati, senza il minimo sforzo, sul pavimento costellato di scie luminose…
— E lo fa sembrare così facile che anche tu hai pensato di venire a Hollywood e poterlo fare — dissi.
— Lo so che non sarà facile. — Il suo tono era tranquillo. — Lo so che non si girano più molti livefilm…
— Non se ne gira più “nessuno”. Non esiste più “un solo” livefilm. A meno di andare a Bogotà. O a Pechino. È tutta computer grafica. Non c’è bisogno di attori.
O di ballerine, pensai, ma non lo dissi. Speravo ancora di potermela scopare, se fossi riuscito a restarle attaccato fino al flash successivo. Mi stava venendo un’emicrania da esplodere, e come effetto collaterale non era prevista.
— Ma se è solo computer grafica — stava dicendo Alis, pacata — possono fare tutto quel che vogliono. Compresi i musical.
— E cosa ti fa pensare che vogliano farlo? Non c’è più stato un solo musical dal 1996.
— Stanno mettendo sotto copyright Fred Astaire. — Alis gesticolò in direzione dello schermo. — Lo vorranno per qualcosa, no?
Ma certo, per qualcosa, pensai. Il sequel di L’inferno di cristallo. O per dei pornohorror.
— Te l’ho detto, lo sapevo che non sarebbe stato facile. — Alis si mise sulla difensiva. — Lo sai cosa hanno detto di Fred Astaire quando è arrivato a Hollywood? Tutti hanno detto che era finito, che l’unica ad avere talento era sua sorella, che lui poteva andare bene per il vaudeville ma nel cinema non ce l’avrebbe mai fatta. Dopo il suo primo provino qualcuno scrisse “Trent’anni, sulla via della calvizie, sa ballicchiare”. Pensavano che anche lui non ce l’avrebbe fatta, e guarda com’è andata.
Non le dissi che per Fred esistevano film nei quali ballare, ma probabilmente lei me lo lesse in faccia, perché continuò: — Era pronto a lavorare sodo, e sono pronta anch’io. Lo sapevi che provava i suoi numeri per settimane, ancora prima che cominciassero le riprese? Con le prove per Girandola ha fatto fuori sei paia di scarpe da tip tap. Io sono pronta a provare con lo stesso impegno. So di non essere abbastanza brava. E devo prendere lezioni di balletto classico. Ho studiato solo jazz e tip tap. E non conosco ancora molte routine. E devo trovare qualcuno che mi insegni tango, valzer, e tutto il resto.
“Dove?” pensai. A Hollywood non c’era un maestro di ballo da vent’anni. O un coreografo. O un musical. La CG poteva avere ucciso i livefilm, ma non aveva ucciso il musical. Quello era morto da sé negli anni Sessanta.
— Dovrò anche trovare un lavoro per pagarmi le lezioni di danza — stava dicendo lei. — La ragazza che parlava con te al party, quella che sembrava Marilyn Monroe, ha detto che magari potrei trovare un lavoro come faccia. Cosa fanno le facce?
Vanno ai party, cercano di farsi notare da qualcuno disposto a metterle in un taglia-e-incolla in cambio di una scopata, spacciano chocha, pensai. Mi sarebbe piaciuto averne un po’.
— Sorridono e parlano e prendono un’aria triste intanto che un techno o l’altro registrano una scansione.
— Una specie di provino cinematografico? — chiese Alis.
— Una specie di provino cinematografico. Poi il techno digitalizza la scansione della tua faccia e la incolla in un remake di È nata una stella e tu diventi la nuova Judy Garland. Però c’è un piccolo particolare. Perché farlo se lo studio ha già Judy Garland? E Barbra Streisand. E Janet Gaynor. E sono tutte sotto copyright, sono già star, quindi perché gli studios dovrebbero correre rischi con una faccia nuova? E perché correre rischi con un film nuovo quando si può fare un sequel o una copia o un remake di qualcosa che è già di loro proprietà? E già che ci siamo, perché non fare remake dei remake? Hollywood, il top del riciclaggio!
Sventolai la mano in direzione dello schermo sul quale l’ILMGM reclamizzava le sue future uscite. — Il fantasma dell’opera — disse la voce fuori campo. — Con Anthony Hopkins e Meg Ryan.
— Ma guarda — dissi. — L’ultimo parto di Hollywood. Il remake di un remake di un film muto!
Il trailer finì, e la sequenza ricominciò da capo. Il leone digitalizzato emise il suo ruggito digitalizzato, e sopra la sua criniera una scritta laser digitalizzata annunciò a lettere dorate: TUTTO È POSSIBILE!
— Tutto è possibile — dissi — se hai i digitalizzatori e i Cray e la memoria e i cavi a fibre ottiche per trasmettere a uno schermo quello che hai fatto. E i copyright.
Le parole dorate svanirono nella nebbia, e Scarlett avanzò verso noi, reggendo delicatamente la sua gonna a crinolina.
— Tutto è possibile, ma solo agli studios. Sono proprietari di tutto, controllano tutto, hanno…
Mi interruppi. Pensai: impossibile che si lasci scopare dopo questa tirata. Perché non le hai semplicemente detto, chiaro e tondo, che il suo piccolo sogno è impossibile?
Ma lei non mi ascoltava. Guardava lo schermo, sul quale le bestie da copyright stavano sfilando per l’ispezione. Aspettava che apparisse Fred Astaire.
— La prima volta che l’ho visto, ho capito cosa volevo — disse, gli occhi puntati sulla parete. — Solo che “volere” non è il verbo giusto. Insomma, non è come volere un vestito nuovo…
— O un po’ di chocha — dissi io.
— Non è nemmeno quel tipo di voglia. È… In Cappello a cilindro c’è una scena in cui Fred Astaire sta ballando nella sua camera d’hotel e Ginger Rogers ha la camera sotto la sua, e così sale sopra per lamentarsi del rumore, e lui le dice che a volte si mette a ballare senza nemmeno rendersene conto, e “lei” dice…
— Dev’essere una specie di malattia — dissi io.
Mi aspettavo che Alis sorridesse, come aveva fatto con le mie altre citazioni di battute da film, ma non sorrise.
— Una malattia. — Era molto seria. — Solo che non è nemmeno quello, esattamente. È… Quando lui balla, non si limita a farlo sembrare così semplice. È come se tutti i passi e la musica e le prove siano servite soltanto da allenamento, e invece quello che fa in quel momento sia la realtà. È come se lui sia andato oltre il ritmo e il tempo dei passi e le movenze e abbia raggiunto quell’altro posto… Se solo potessi arrivarci anch’io, fare quello che fa lui…
Smise di parlare. Fred Astaire avanzava verso noi dalla nebbia in frac e cappello a cilindro, e con la punta del bastone spingeva sulla fronte il cappello. Guardai Alis.
Stava fissando Fred Astaire con quell’aria persa, trepidante, che aveva nella mia stanza mentre guardava Fred ed Eleanor, fianco a fianco, vestiti di bianco, volteggianti eppure immobili, muti, al di là del movimento, al di là del…
— Andiamo. — Le afferrai la mano. — È la nostra fermata. — E seguii le frecce verdi che ci guidavano all’uscita.
SCENA: Première hollywoodiana al Cinematografo Cinese Grauman. Fasci di luce dei riflettori che s’intersecano nel cielo notturno, palme, fan che urlano, limousine, smoking, pellicce, flash di macchine fotografiche.
Sbucammo in Hollywood Boulevard, all’angolo tra Caos e Sovraccarico Sensoriale, il peggiore posto possibile per un flash.
Una scena alla DeMille, come sempre. Facce e turi e battitrici libere e svitati e migliaia di comparse che si aggiravano tra le videosale e le spelonche della RV. E tra gli schermi: roto e megaschermi e videolosanghe e ologrammi, tutti con trailer montati alla Psycho da Vincent.
Davanti al Cinema Cinese Trump c’erano due grandi rotoschermi che facevano pubblicità all’ultimo remake di Ben Hur. Su uno dei due, Sylvester Stallone in gonnellino bronzeo e sudore digitalizzato, proteso in avanti sulla biga, frustava i cavalli.
Non si riusciva a vedere l’altro roto. Di fronte c’era un’insegna al neon che diceva LIETO FINE e un oloschermo con Scarlett O’Hara avvolta nella nebbia che diceva: — Ma Rhett, io ti amo.
— Francamente, mia cara, ti amo anch’io — rispondeva Clark Gable, e la stritolava tra le braccia. — Ti ho sempre amata!
— Nel cemento ci sono le stelle — dissi ad Alis, e puntai l’indice. C’era troppa folla per vedere il marciapiede, e tanto meno le stelle. La trascinai sulla strada, che era altrettanto affollata, ma se non altro lì la gente si muoveva. La guidai verso le videosale.
Gli imbonitori delle spelonche RV ci misero in mano gettoni, due dollari di fuga dalla realtà, e un River Phoenix spacciava. — Erba? Neve? Ero?
Comperai un po’ di chocha e la mandai subito giù, sperando che ritardasse un flash finché non fossimo tornati alla casa dello studente.
La folla si diradò un poco. Riportai Alis sul marciapiede. Superammo una spelonca RV che prometteva: — Cento per cento di collegamento corporeo! Cento per cento di realismo!
Cento per cento di realismo, come no. Stando a Hedda, che sa tutto, il simsesso richiede più memoria di quanta se ne possano permettere la maggioranza delle spelonche RV. Metà delle spelonche infilano un casco dati in testa al cliente, aggiungono un po’ di rumore per dare l’impressione dell’immagine in realtà virtuale, e mettono al lavoro una battitrice libera.
Trainai Alis oltre la spelonca, diritta verso un gregge di turi che stavano di fronte a una cabina con l’insegna È NATA UNA STELLA e guardavano a occhi aperti il promo. — Fai avverare i tuoi sogni! Diventa una stella del cinema! 89,95 dollari, disco incluso. Autorizzato dagli studiosi Digitalizzazione di qualità professionale!
— Non so. Secondo te cosa dovrei scegliere? — stava chiedendo una turi grassa, mentre scorreva il menu.
Un techno dall’aria annoiata, in camice bianco e pompadour alla James Dean, diede un’occhiata al film che la donna indicava, le passò un fagotto di plastica, e le fece cenno di entrare in un cubicolo con una tendina.
La donna si fermò a mezza strada. — Potrò vederlo sul mio impianto, giusto? Sul cavo a fibre ottiche?
— Sicuro — rispose James Dean, e aprì la tendina.
— Hai dei musical? — chiesi. Chissà se James avrebbe mentito anche a me come aveva fatto con la turi. Che non sarebbe finita su un disco. Sui supporti per i cavi a fibre ottiche possono finire solo le modifiche autorizzate dagli studios. I copia-e-incolla e i lavori da terra bruciata. La donna avrebbe ricevuto una cassetta della scena e l’ordine di non farne copie.
James assunse un’espressione vacua. — Musical?
— Dove ballano e cantano, hai presente? — dissi, ma la turi era di ritorno. Indossava una specie di tunica bianca troppo corta e una parrucca castana, con trecce che le giravano attorno alle orecchie.
— Mettiti qui — disse James Dean, indicando una cassa di plastica. Allacciò una cintura dati all’abbondante pancia della donna, si spostò a un vecchio miscelatore per digitrasparenti e lo accese.
— Guarda lo schermo — ordinò, e tutti i turi si spostarono per poterlo vedere. Una raffica di raggi laser, e Luke Skywalker apparve su una soglia sospesa sul nulla. Teneva il braccio attorno a uno spazio azzurro e vuoto.
Lasciai Alis a guardare e sgomitai fino al menu. Ombre rosse, Il Padrino, Gioventù bruciata.
— Okay, pronta — disse James Dean, battendo su una tastiera. La donna apparve sullo schermo a fianco di Luke. — Bacialo sulla guancia e scendi dalla cassa. Non devi saltare. Farà tutto la cintura dati.
— Ma non si vedrà nel film?
— La macchina la taglierà.
Non avevano un solo musical. Nemmeno Ruby Keeler. Tornai da Alis nella calca.
— Okay. Azione — disse James Dean. La grassa turi sbaciucchiò l’aria, ridacchiò, e saltò giù dalla cassa. Sullo schermo, baciò la guancia di Luke, e poi i due si lanciarono sopra un abisso ad alta tecnologia.
— Vieni — dissi ad Alis. La riportai in strada e la guidai alla Città dei Provini.
C’era un multischermo pieno di facce di star, e un vecchio con gli occhietti a punta, come una penna a sfera. — Diventa una stella! Metti la tua faccia sullo schermo! Chi vuoi essere, ragazza? — chiese, sbirciando lascivo Alis. — Marilyn Monroe?
Ginger Rogers e Fred Astaire stavano fianco a fianco sulla fila in basso dello schermo. — Quello — dissi io. Uno zoom, e i due riempirono tutto lo schermo.
— Siete fortunati a essere venuti stasera — disse il vecchio. — Sta per cominciare una zuffa legale su Fred. Cosa volete? Foto di scena o sequenza?
— Sequenza — risposi. — Solo lei. Non tutti e due.
— Mettiti di fronte allo scanner — disse il vecchio, puntando l’indice — e lasciami fare una scansione del tuo sorriso.
— No, grazie. — Alis mi guardò.
— E dai. Avevi detto che vuoi ballare nei film. Questa è la tua occasione.
— Tu non devi fare niente — disse il vecchio. — A me serve solo un’immagine da digitalizzare. Il resto lo fa lo scanner. Non devi nemmeno sorridere.
Prese Alis per il braccio, e io mi aspettai che lei si liberasse con uno strattone, ma non reagì.
— Voglio ballare nei film — disse, guardandomi — non fare digitalizzare la mia faccia sul corpo di Ginger Rogers. Voglio ballare.
— Ballerai — disse il vecchio. — Lì sullo schermo, e ti vedranno tutti. — Agitò la mano in direzione delle migliaia di comparse. Non ce n’era una sola che guardasse il suo schermo. — E su disco ottico.
— Tu non capisci — mi disse Alis. I suoi occhi erano gonfi di lacrime. — La rivoluzione CG…
— È qui davanti a te. — Di colpo, ero stufo marcio. — Simsesso, copia-e-incolla, horrorshow, fai-da-te dei remake. Guardati attorno, Ruby. Vuoi ballare nei film? Questo è il massimo che riuscirai a combinare!
— Credevo tu avessi capito — singhiozzò lei, e ruotò sui tacchi prima che uno di noi due potesse fermarla, e si tuffò tra la folla.
— Alis, aspetta! — urlai, e mi lanciai all’inseguimento, ma lei era già lontana. Svanì nell’ingresso dello scivolo.
— Hai perso la ragazza? — chiese una voce, e io mi girai incazzato nero. Ero di fronte alla cabina del Lieto Fine. — Ti ha scaricato? Cambia il finale. Fai tornare Rhett da Scarlett. Fai tornare a casa Lassie.
Attraversai la strada. Su quel lato erano tutte cabine di simsesso. Promettevano scopate con Mel Gibson, Sharon Stone, i fratelli Marx. Cento per cento di realismo. Magari valeva la pena. Infilai la testa nel casco dei promo, e non apparvero immagini sfuocate. Evidentemente la chocha stava facendo effetto.
— Non dovresti farlo — disse una voce femminile.
Tirai fuori la testa dal casco. C’era una battitrice libera, bionda, col neo e il body con le calze a rete strappato. Fermata d’autobus. — Perché accontentarti di un’imitazione virtuale quando puoi avere l’articolo originale?
— E quale sarebbe? — chiesi.
Il sorriso non svanì, ma lei si mise immediatamente sul chi vive. Mary Astor in Il mistero del falco. — Quale sarebbe cosa?
— L’articolo originale. Cos’è? Sesso? Amore? Chocha?
La battitrice libera alzò le mani in aria, come se la stessero arrestando. — Sei della narcotici? Perché io non so di cosa stai parlando. Stavo solo facendo un commento, okay? È che penso che uno non dovrebbe accontentarsi della RV, tutto qui, quando può parlare con una persona vera.
— Come Marilyn Monroe? — ribattei, e mi incamminai sul marciapiede. Superai altre tre prostitute. Marilyn in vestito bianco col top, Madonna coi coni d’ottone, Marilyn in raso rosa. Gli articoli originali.
Ebbi in omaggio dell’altra chocha e un pizzico di Hollywood da un James Dean troppo fatto per ricordare che quella roba l’avrebbe dovuta vendere, e mandai giù, passai davanti agli snuffshow, ma da qualche parte devo essere tornato sui miei passi, perché mi ritrovai davanti all’oloschermo del Lieto Fine. Scarlett correva nella nebbia all’inseguimento di Rhett, Butch e Sundance balzavano avanti in un inferno di pallottole, Humphrey Bogart e Ingrid Bergman si guardavano negli occhi fermi davanti a un aeroplano.
— Sei tornato, eh? — disse l’imbonitore. — Il meglio che esista per un cuore infranto. Uccidi i bastardi. Beccati la ragazza. Che vuoi? Orizzonte perduto? Terminator 9?
Ingrid stava dicendo a Bogie che avrebbe voluto non partire, e Bogie le stava dicendo che era impossibile.
— Qual è il lieto fine che offri alla gente per questo? — chiesi.
— Casablanca? — Il tizio scrollò le spalle. — Arrivano i nazisti e uccidono il marito. Ingrid e Bogie si sposano.
— E luna di miele ad Auschwitz — dissi.
— Non ho mai detto che siano finali “buoni”.
Sullo schermo, Bogie e Ingrid si fissavano. Negli occhi di lei si gonfiarono lacrime, e i bordi dello schermo diventarono sfuocati.
— Ti va Viaggio in Inghilterra? — chiese l’imbonitore, ma io stavo già sgomitando tra la folla. Tentavo di arrivare allo scivolo prima di avere il flash.
Quasi ce la feci. Avevo superato la corsa delle bighe quando una Marilyn mi sbatté contro e io caddi, e pensai: ovvio, avrò un flash col cemento. Ma non fu così.
Il marciapiede diventò sfuocato e poi accecante, e dentro c’erano le star, e Fred ed Eleanor, vestiti di bianco, ballavano sereni, eleganti in mezzo alla folla, e sovrimpressa a loro c’era Alis, che li guardava con espressione spersa e triste. Come Ingrid.
SCENA DI MONTAGGIO: Niente colonna sonora. L’EROE, seduto al computer, batte sulla tastiera e cancella le sostanze che danno assuefazione mentre la scena sullo schermo cambia. Saloon da western, elegante nightclub, casa di un’associazione studentesca, bar del porto.
Qualunque effetto abbia avuto su Alis la mia predica alla giudice Hardy, non la spinse a rinunciare al suo sogno e riprendere la via di Meadowville. La settimana seguente era di nuovo al party.
Io non c’ero. Avevo ricevuto l’elenco di Mayer e la notizia che la mia borsa di studio era stata annullata per “mancanza di risultati”, e lavoravo sull’elenco di Mayer al puro scopo di restare nella casa dello studente. E di non trovarmi a secco di chocha.
Comunque non mi persi niente. Hedda salì nella mia stanza a metà del party a riferirmi. — L’ILMGM è stata senz’altro assorbita — disse. — Il boss di Mayer è stato trasferito allo Sviluppo Progetti, il che significa che è in dirittura d’uscita. La Warner ha presentato una controistanza per Fred Astaire. Domani vanno in tribunale.
Alis avrebbe dovuto farsi incollare la faccia sul corpo di Ginger finché ne aveva la possibilità. Adesso non avrebbe più avuto occasione di ballare con Fred.
— Al party c’è Vincent — disse Hedda. — Ha un nuovo tipo di morph. Fa imputridire gli attori.
— Che peccato dovermelo perdere — commentai.
— Ma cosa ci fai quassù? Non ti eri mai perso un party. Giù ci sono tutti. Mayer, Alis… — Si interruppe, mi scrutò in faccia.
— Mayer, eh? Devo chiedergli un aumento. Lo sai chi beve nei film? Tutti. — Tracannai una sorsata di scotch per illustrare il concetto. — Persino Gary Cooper.
— Ti conviene mandare giù questa roba? — chiese Hedda.
— Scherzi? Costa poco, è legale, e so cos’è. — Ed era anche ottimo per bloccare i flash.
— È roba sicura? — Hedda, che non ci avrebbe pensato due volte a fiutare la polvere bianca trovata per caso sul pavimento, stava leggendo con cautela l’etichetta della bottiglia.
— Certo che è sicura. È adottata da W.C. Fields, John Barrymore, Bette Davis ed E.T. E dagli studios più importanti. È in tutti i film della lista di Mayer. Camilla, Il mistero del falco, Gunga Din. Persino Cantando sotto la pioggia. Champagne al party dopo la prima. Quello dove Donald O’Connor diceva: “A un party bisogna proiettare un film. È la legge di Hollywood”.
Finii la bottiglia. — Anche in Oklahoma! Il povero Jud è morto. Sbronzo marcio.
— Al party, Mayer si dava da fare con Alis — disse lei, continuando a guardarmi.
Già. Inevitabile.
— Alis gli stava raccontando quanta voglia abbia di ballare nei film.
Anche quello era inevitabile.
— Spero che siano molto felici — dissi. — Oppure lui la lascerà stare per fare il Gary Cooper?
— Alis non riesce a trovare un maestro di ballo.
— Mi piacerebbe molto continuare la nostra chiacchierata — dissi — ma devo tornare all’Ufficio Hays. — Richiamai Casablanca e mi misi a cancellare le bottiglie di liquore.
— Secondo me dovresti darle una mano — disse Hedda.
— Mi spiace. Io non tiro fuori la testa per nessuno.
— È una citazione da un film, giusto?
— Tombola. — Cancellai la bottiglia di cristallo dalla quale Humphrey Bogart si stava versando un drink.
— Secondo me dovresti trovarle un maestro di ballo. Tu conosci un sacco di gente del giro.
— Non c’è “nessuno” nel giro. È tutto computer grafica, tutto uno e zero e attori digitalizzati e programmi di editing. Gli studios non scritturano nemmeno più corpicaldi. Le uniche “persone” del giro sono morte, assieme ai livefilm. Assieme al musical. Kaput. Finis. Fine di Rico.
— Un’altra citazione da un film, eh?
— Sì — risposi. — Film che sono a loro volta morti, nel caso non lo avessi capito dal nuovo morph di Vincent.
— Potresti trovarle un lavoro come faccia.
— Tipo quello che hai tu?
— Be’, allora un lavoro come techno. Tecnico del suono, assistente ai set. Qualcosa. Ne sa un sacco sui film.
— Non vuole fare la techno — dissi — e anche se volesse, gli unici film di cui sappia qualcosa sono i musical. Un assistente ai set deve sapere tutto, immagazzinare nel cervello filmati di repertorio, ambienti, numeri di fotogramma. Sarebbe il lavoro perfetto per te, Hedda. Adesso devo proprio tornare a lavorarmi Lee Remick.
Hedda parve sul punto di chiedere se anche quello fosse un film.
— La carovana dell’alleluia — dissi. — Una leader antialcolica che si batte contro il demone del liquore. — Rovesciai la bottiglia, cercando di far uscire le ultime gocce. — Hai della chocha?
Lei diventò nervosetta. — No.
— Allora cos’hai? A parte il klieg. Non mi servono altre dosi di realtà.
— Non ho niente. — Hedda arrossì. — Sto cercando di fare un po’ d’astinenza.
— Tu?! Cos’è successo? Il nuovo morph di Vincent ti ha dato alla testa?
— No — rispose, sulla difensiva. — L’altra sera, quando ho preso il klieg, ascoltavo Alis parlare del suo desiderio di essere una ballerina, e all’improvviso mi sono resa conto che io non desidero niente, a parte la chocha e scopare.
— Così hai deciso di metterti a secco, e adesso tu e Alis percorrerete la via del successo a passi di tip tap. Vi vedo già. I vostri nomi sull’insegna. Ruby Keeler e Una Merkel in La danza delle luci del 2018!
— No — disse lei. — Ma ho deciso che mi piacerebbe essere come Alis, mi piacerebbe desiderare qualcosa.
— Anche se fosse qualcosa d’impossibile?
Non riuscii a decifrare la sua espressione. — Già.
— Be’, smettere con la chocha non è il modo per riuscirci. Se vuoi capire cosa desideri, il modo giusto per farlo è guardare un sacco di film.
Lei si mise di nuovo sulla difensiva.
— Come credi abbia fatto Alis a saltare fuori con la voglia di ballare? Coi film. Non vuole semplicemente ballare nei film, vuole essere Ruby Keeler in Quarantaduesima strada. La piccola ballerina di fila col cuore d’oro. Tutto è contro di lei, e Ruby ha soltanto la sua testardaggine e un paio di scarpe da ballo, ma non preoccuparti. Le basterà continuare a sgambettare e sperare, e non solo ce la farà alla grande, ma avrà lo show e “anche” Dick Powell. È tutto scritto nella sceneggiatura. Non avrai pensato che Alis se la sia inventata da sé, per caso?
— Cosa dovrebbe essersi inventata?
— La sua “parte”. Ecco cosa fanno i film. Non ci fanno divertire, non ci trasmettono il messaggio “Noi ci teniamo a voi”. Ci danno battute da pronunciare, ci assegnano parti. John Wayne, Theda Bara, Shirley Temple, scegli quella che preferisci.
Indicai lo schermo, sul quale il comandante nazista stava ordinando una bottiglia di Veuve Cliquot ’26 che non avrebbe bevuto. — Che te ne pare di Claude Rains che fa sviolinate ai nazisti? No, scusa, quella parte l’ha già presa Mayer. Ma non preoccuparti, ci sono parti in abbondanza per tutti, e chiunque ha il proprio ruolo, lo sappia o no. Persino le facce. Credono di interpretare Marilyn, ma non è vero. Impersonano Greta Garbo nel ruolo di Sadie Thompson. Secondo te perché i pezzi grossi continuano a fare tutti quei remake? Perché continuano a scritturare Humphrey Bogart e Bette Davis? Perché tutte le parti buone sono già state assegnate, e noi non facciamo altro che provini per un remake o l’altro.
Mi fissò con un’intensità tale che mi chiesi se la rinuncia alla droga non fosse una bugia e lei non fosse fatta di chocha. — Alis aveva ragione — disse. — Tu ami i film.
— Cosa?
— Ti conosco da tanto tempo e non me n’ero mai accorta, ma Alis ha ragione. Tu conosci tutti gli attori e tutte le battute, e le citi in continuazione. Alis dice che fai finta che non te ne importi niente, ma sotto sotto ami i film, se no non li conosceresti a memoria.
Io dissi, nella mia migliore imitazione di Claude Rains: — “Ricky, credo che sotto quel guscio da cinico tu sia un vero sentimentale.” Ruby Keeler che fa Ingrid Bergman in Io ti salverò. La dottoressa Bergman ha dato altri suggerimenti psichiatrici?
— Ha detto che è per questo che prendi tanta droga. Perché ami i film e non sopporti di vederli macellati.
— Sbagliato — dissi. — Tu non sai tutto, Hedda. È perché ho spinto Gregory Peck sulle punte di una staccionata quando eravamo bambini.
— Visto? — Hedda era meravigliata. — Lo fai anche nel momento in cui lo neghi.
— Be’, è stato molto divertente, ma sono un macellaio e devo rimettermi al lavoro, e tu devi decidere se vuoi impersonare Sadie Thompson o Una Merkel. — Mi girai verso lo schermo. Peter Lorre, aggrappato al bavero di Humphrey Bogart, lo implorava di salvarlo.
— Hai detto che tutti recitano una parte, lo sappiano o no — disse Hedda. — Io che parte recito?
— Al momento? Thelma Ritter in La finestra sul cortile. L’amica impicciona che non riesce a tenere il naso fuori dagli affari altrui — le risposi. — Chiudi la porta quando esci.
Lei la chiuse, poi la riaprì e si fermò sulla soglia a guardarmi. — Tom?
— Sì?
— Se io sono Thelma Ritter e Alis è Ruby Keeler, tu che ruolo interpreti?
— King Kong.
Hedda se ne andò, e io rimasi lì per un po’, a guardare Humphrey Bogart che lasciava arrestare Peter Lorre, e poi mi alzai a controllare se avessi sostanze stupefacenti in casa. C’era del klieg nell’armadietto dei medicinali, proprio quello che mi ci voleva, e una bottiglia di champagne rimasta dalla volta che Mayer mi aveva portato in stanza una faccia per farle vedere quel che facevo per incollarla in La valle dell’Eden. Assaggiai un sorso. Era svaporato, ma meglio di niente. Ne versai un po’ in un bicchiere e corsi avanti fino alla scena di “Suonala ancora, Sam”.
Bogart trangugiò un drink, le immagini sullo schermo si sfuocarono, e Bogart stava versando champagne a Ingrid Bergman davanti a un trasparente che avrebbe dovuto essere Parigi.
La porta si aprì.
— Ti sei scordata di riferirmi qualche voce di corridoio, Hedda? — chiesi, ingollando un altro sorso.
Era Alis. Portava uno scamiciato con le maniche gonfie. I capelli erano più scuri, e divisi in due da un profondo solco, ma sembravano sempre illuminati da dietro. Il suo viso era incorniciato di luce.
Fred Astaire tiptappò una serie di passi sul pavimento lucido, ed Eleanor Powell li ripeté e si voltò a sorridergli…
Trangugiai lo champagne rimasto nel bicchiere, me ne versai dell’altro. — Mi venisse un colpo se non è Ruby Keeler — dissi. — Cosa vuoi?
Lei si fermò sulla soglia. — I musical che mi hai fatto vedere l’altra sera… Hedda dice che forse potresti prestarmi i dischi.
Bevvi un sorso di champagne. — Non sono su disco. Li ricevo direttamente via cavo. — Mi rimisi a sedere al computer.
— È questo che fai? — chiese Alis, alle mie spalle. Stava fissando lo schermo. — Rovini film?
— È quello che laccio — risposi. — Proteggo il pubblico che va al cinema dai demoni dei liquoracci e della chocha. Soprattutto dai liquoracci. La valle delle bambole, Cartoline dall’inferno, un paio di Cheech e Chong, Il ladro di Baghdad. Toglierei anche la nicotina se la Lega Antifumo non fosse arrivata per prima. — Cancellai la coppa di champagne che Ingrid Bergman stava portando alle labbra. — Che dici? Cioccolata o tè?
Lei non rispose.
— È un lavoro grosso. Forse tu potresti pensare ai musical. Vuoi che contatti Mayer e gli chieda se è disposto ad assumerti?
Alis si era intestardita. — Hedda dice che potresti prepararmi i dischi dei film che ricevi via cavo — disse, rigida. — Mi servono solo per allenarmi. Finché non troverò un maestro di ballo.
Ruotai la poltroncina e la guardai. — E poi?
— Se non me li vuoi prestare, potrei guardare i film qui e farmi schizzi dei passi. Quando tu non usi il computer.
— E poi? — ripetei. — Ti fai gli schizzi dei passi e ti alleni e poi cosa? Gene Kelly ti tira fuori dalla fila. No, scusa, mi ero scordato, non ti piace Gene Kelly. Gene Nelson ti tira fuori dalla fila e ti dà la parte di prima ballerina? Mickey Rooney decide di metterti in uno spettacolo? Cosa?
— Non lo so. Quando troverò un maestro di ballo…
— "Non esistono” maestri di ballo. Sono tutti tornati a casa a Meadowville quindici anni fa, quando gli studios sono passati all’animazione computerizzata. Non esistono palcoscenici o teatri per spettacoli musicali o orchestre da studio. Non esistono “studios”, Dio santissimo! Esiste solo una manciata di tecnoidioti che si danno da fare con le loro macchine e una manciata di dirigenti che dicono loro cosa devono fare. Ti faccio vedere una cosa. — Ruotai di nuovo la sedia. — Menu. Cappello a cilindro. Fotogramma 97-265.
Fred e Ginger apparvero sullo schermo. Stavano piroettando al ritmo del piccolino. — Tu vuoi riportare in vita il musical. Lo faremo qui. Avanti a cinque al secondo. — Lo schermo passò a una sequenza di fotogrammi singoli. Sgambettata e. Piroetta e. Elevazione.
— Quanto tempo hai detto che impiegava Fred a provare i suoi numeri?
— Sei settimane. — La voce di Alis era incolore.
— Troppo. Pensa al costo dell’affitto della sala prove. E tutte quelle scarpe. Da fotogramma 97-288 a 97-631. Ripeti quattro volte, poi da 99-006 a 99-115, e ripetizione continua. Ventiquattro al secondo. — Lo schermo tornò al tempo reale, e Fred sollevò in aria Ginger, la sollevò un’altra volta, e di nuovo, senza il minimo sforzo, con leggerezza totale. Sollevare, sollevare. Gamba in avanti e piroetta.
— Quella gamba ti pare abbastanza alta? — chiesi, indicando lo schermo. — Fotogramma 99-108 e fermo immagine. — Armeggiai con la tastiera, sollevai la gamba di Fred fino a che gli toccò il naso. — Troppo alta? — La abbassai un poco, aggiustai le ombre. — Avanti a ventiquattro.
Fred alzò la gamba, che si sollevò in aria. E si sollevò. E si sollevò. E si sollevò. E si sollevò.
— Va bene — disse Alis. — Ho afferrato il punto.
— Già stufa? Hai ragione. Qui ci vorrebbe un numero imponente. — Pigiai il tasto “Moltiplica”. — Undici, fianco a fianco — dissi, e dodici Fred Astaire sgambettarono in perfetto sincronismo, gambe su, e su, e su, e su. — Moltiplica le file. — E lo schermo si riempì di Fred che sgambettavano, piroettavano, si toglievano il cappello a cilindro.
Mi girai a guardare Alis. — Cosa vuoi che se ne facciano di te quando possono avere Fred Astaire? Cento Fred Astaire? Mille? E nessuno di loro avrà problemi a imparare un passo, nessuno si farà venire le vesciche ai piedi o una crisi di nervi o dovrà essere pagato o invecchierà o…
— Sbronzati — disse lei.
— Vuoi Fred sbronzo? Posso fare anche quello. Fotogramma 97-412 e fermo immagine. — Fred Astaire si bloccò a metà di una piroetta, sorridente.
— Fotogramma 97… — dissi. Lo schermo diventò color argento, poi apparve una scritta in lingua leguleia. — Il personaggio di Fred Astaire non è al momento disponibile per trasmissioni via cavo a fibre ottiche. La causa ILMGM contro RKO-Warner per la proprietà del copyright…
— Ops. Si stanno disputando Fred. Peccato. Avresti dovuto fare quel copia-e-incolla finché eri in tempo.
Alis non guardava lo schermo. Guardava me. Il suo sguardo era attento, intenso, come quando seguiva i passi del piccolino. — Se sei così certo che quel che voglio sia impossibile, perché stai cercando con tanto accanimento di convincermi a lasciare perdere?
Perché non voglio vederti passeggiare in Hollywood Boulevard in calze a rete e vestito strappato. Non voglio dover incollare la tua faccia in un film con River Phoenix intanto che tu ti lasci scopare dal boss di Mayer.
— Hai ragione. Perché diavolo lo sto facendo? — Mi girai verso il computer e dissi: — Stampa i codici di accesso. Tutti i file. — Strappai il foglio dalla stampante. — Tieni. Usa i miei accessi al cavo e preparati tutti i dischi che vuoi. Allenati fino a farti sanguinare i piedini. — Le lanciai il foglio.
Lei non lo prese.
— Avanti — dissi, e infilai la carta nella sua mano inerte. — Chi sono io per mettermi sulla tua strada? Nelle immortali parole di Leo il Leone, tutto è possibile. Chi se ne frega se gli studios posseggono tutti i copyright e le macchine per la trasmissione via cavo e i digitalizzatori e gli accessi? Ci cuciremo da soli i costumi. Costruiremo i nostri set. E poi, appena prima del debutto, Bebe Daniels si romperà una gamba e tu dovrai sostituirla!
Alis appallottolò il foglio. Pareva avesse voglia di tirarmelo. — E tu come fai a sapere cosa sia possibile e cosa impossibile? Non “tenti” nemmeno. Fred Astaire…
— È paralizzato in tribunale, ma non lasciarti fermare da questo. C’è sempre Ann Miller. E Sette spose per sette fratelli. E Gene Kelly. Oh, scusa, dimenticavo, tu sei troppo brava per Gene Kelly. Tommy Tune. E non scordarti Ruby Keeler.
Lei lanciò il foglio.
Lo afferrai al volo e lo aprii. — Calma, calma, Scarlett — biascicai. Lisciai il foglio, lo infilai nella tasca del suo scamiciato, diedi una pacca alla tasca. — Adesso fuori di qui. Corri al palcoscenico. È l’ora dello spettacolo! L’intero cast conta su di te. Ricorda che comincerai come ragazzina, ma quando tornerai dovrai essere una star.
Lei strinse il pugno, ma non lanciò il foglio un’altra volta. Girò sui tacchi. La sua gonna si gonfiò come quella di Eleanor. Dovetti chiudere gli occhi all’improvvisa immagine di Fred ed Eleanor che danzavano sul pavimento lucido, con le stelle finte che brillavano in un mare di scie, e mi persi l’uscita di scena di Alis.
Lei sbatté la porta, e l’immagine si dileguò. Apersi la porta e mi affacciai. — Devi essere tanto brava da costringermi a odiarti — le urlai, ma era già scomparsa.
SCENA: Un numero di Busby Berkeley. Gigantesche fontane rotanti con ballerine di fila in lamé dorato a ogni livello riempiono calici con lo champagne che scorre dalla fontana. Movimento di macchina. Primo piano di una coppa di champagne, poi primo piano delle bollicine. Dentro ogni bollicina, una ragazza in pantaloncini a lustrini d’oro e top balla il tip tap.
Dopo quella volta, Alis non tornò. Hedda si fece in quattro per tenermi aggiornato: Alis non aveva trovato un maestro di ballo, l’assorbimento dell’ILMGM da parte della Viamount era cosa fatta, La Columbia Tri-Star stava preparando un remake di Ovunque nel tempo.
— C’era questo dirigente della Columbia al party — mi disse Hedda, appollaiata sul mio letto. — Ha raccontato che hanno fatto esperimenti con immagini proiettate in regioni di antimateria, e si verifica un chiaro sbalzo temporale. Sono vicini “così”… — Premette il pollice sulla punta dell’indice. — …A inventare il viaggio nel tempo.
— Grande. Alis potrà tornare agli anni Trenta e prendere lezioni di ballo da Busby Berkeley in persona.
Solo che Busby Berkeley non le piaceva, e dopo avere tolto tutte le sostanze che danno assuefazione da Viva le donne e La danza delle luci, non piaceva più nemmeno a me.
Alis aveva ragione. Non c’era vero ballo nei suoi film. Si intravedevano piedi impegnati nel tip tap in Quarantaduesima strada, c’era una prova in secondo piano in una scena di passaggio, e qualche passo nel numero del parco per Ruby, che era capace di ballare più o meno come Judy Garland. Per il resto era tutto sviolinate al neon e torte nuziali e fontane rotanti e ballerine di fila biondo platino in pose plastiche, che probabilmente erano state scopate dalla prima all’ultima da qualche pezzo grosso dello studio. Riprese aeree a caleidoscopio e movimenti di macchina e riprese dal basso delle gambe divaricate delle ragazze, roba che avrebbe fatto venire l’infarto all’Ufficio Hays. Ma niente vero ballo.
Però si beveva un sacco. Spacci clandestini e party dietro le quinte e fiaschette argentee infilate nei reggicalze delle ballerine. Persino un numero in un bar con Ruby Keeler nella parte di Shanghav Lil, una che si era fatta un sacco di droga e un sacco di marinai. Un inno alle più nobili virtù dell’alcol.
Che ne ha molte. Costa poco, non fa danni come la linearossa, e se anche non ti regala il beato stato d’oblio della chocha serve comunque a bloccare i flash e a sfuocare in maniera piuttosto gradevole tutto quanto. E mi stava rendendo più facile il lavoro sull’elenco di Mayer.
Inoltre, ha un notevole assortimento di aromi: Martini per La via dell’impossibile, vino di bacca di sambuco per Arsenico e vecchi merletti, un delizioso Chianti per Il silenzio degli innocenti. Nel frattempo io bevevo champagne, che a quanto pareva era presente in tutti i film mai girati, e maledicevo Mayer, e cancellavo bekher e beute dalla scena della taverna di Guerre stellari.
Andai al party successivo, e a quello dopo, ma Alis non c’era. C’era Vincent, che illustrava le doti di un nuovo programma, e il solito dirigente che magnificava il viaggio nel tempo alle Marilyn, e Hedda.
— Guarda che quella roba non era klieg — mi informò. — Era chocha di lusso dal Brasile.
— Il che spiega perché continuo a sentire la beguine.
— Eh?
— Niente. — Mi guardai attorno nel salone. Il programma di Vincent doveva essere un simulatore di lacrime. Sullo schermo, Gary Cooper, con un liso cappello a cilindro e una cravatta a pallini, piangeva come un vitello sul suo cane morto.
— Lei non c’è — disse Hedda.
— Cercavo Mayer — le risposi. — Mi deve pagare il doppio per Scandalo a Filadelfia. Quel film è pieno zeppo di alcol. Sherry prima di pranzo, Martini sul bordo della piscina, champagne, cocktail, emicranie da doposbronza, borse del ghiaccio. Cary Grant, Katharine Hepburn, Jimmy Stewart. Tutto quanto il cast puzza.
Bevvi una sorsata della crème-de-menthe che mi era rimasta da I giorni del vino e delle rose. — Per la parte video occorreranno almeno tre settimane, e non parliamo dei dialoghi. “Ho il singhiozzo. Posso prendere qualcosa da bere?”
— Prima c’era — disse Hedda. — Uno dei dirigenti l’aveva puntata.
— No, no. “Io” dico “Posso prendere qualcosa da bere?” e “tu” rispondi “Ma certo. Nottole ad Atene.” — Mandai giù un’altra sorsata.
— Devi proprio bere tutto quell’alcol? — chiese Hedda, la regina della chocha.
— Ci sono costretto. È il pessimo effetto di tutti quei film che devo guardare. Grazie a Dio l’ILMGM li sta ripulendo, così non corromperanno più nessuno. — Bevvi dell’altra crème-de-menthe.
Hedda mi guardò con due occhi molto fissi, come avesse preso dell’altro klieg. — L’ILMGM sta facendo un remake di L’uomo venuto dall’impossibile. Un dirigente ha detto ad Alis che forse riuscirà a farle avere una parte.
— Grande. — Andai a guardare il programma di Vincent.
Adesso sullo schermo c’era Audrey Hepburn. Se ne stava sotto la pioggia e singhiozzava sul suo gatto.
— È il nostro nuovo programma di pianto — disse Vincent. — E ancora in fase sperimentale.
Disse qualcosa al telecomando, e lo schermo si divise in due. Un attore digitalizzato, computerizzato, singhiozzava al fianco di Audrey, torcendo quello che pareva un tappetino giallo. Le lacrime non erano l’unica cosa in fase sperimentale.
— Le lacrime sono la forma più difficile di simulazione idrica — disse Vincent. Adesso era apparso il Boscaiolo di Latta. Si stava facendo arrugginire da solo braccia e gambe. — È perché le lacrime non sono vera acqua. L’indice di rifrazione ne risente e diventa più difficile riprodurle — spiegò. Stava sulla difensiva.
E gli conveniva. Le lacrime del digi-boscaiolo parevano vaselina che colasse da occhi digitalizzati. — Programmi mai la RV? — gli chiesi. — Partendo, diciamo, dalla scena di un film come quella che hai usato per il tuo programma di editing un paio di settimane fa? La scala con Fred.Astaire e Ginger Rogers che ballano?
— Realtà virtuale? Sicuro. Posso creare dati per il casco e per tutto il corpo. Cos’è, stai lavorando a qualcosa per Mayer?
— Già. Potresti, diciamo, mettere un’altra persona al posto di Ginger Rogers per farla ballare con Fred Astaire?
— Sicuro. Collegamenti a piedi e ginocchia, stimolazione dei nervi. Avrebbe la sensazione di ballare.
— Non una semplice sensazione — dissi. — Puoi fare in modo che questa persona balli sul serio?
Ci pensò su un po’, fissando accigliato lo schermo. Il Boscaiolo di Latta era scomparso. Ingrid Bergman e Humphrey Bogart si stavano dicendo addio all’aeroporto.
— Forse — disse Vincent. — Può darsi. Potremmo mettere sensori sotto i piedi e trasmettere al corpo un feedback rinforzato, per amplificare i movimenti e poter muovere avanti e indietro i piedi.
Guardai lo schermo. Negli occhi di Ingrid si stavano gonfiando lacrime che brillavano come quelle vere. Probabilmente non lo erano. Probabilmente quello era l’ottavo ciak, o il diciottesimo, e una ragazza del trucco era accorsa con gocce di glicerina o succo di cipolla per ottenere l’effetto giusto. Comunque, non erano le lacrime a creare l’atmosfera. Era quel viso, dolce e triste, che sapeva di non poter avere ciò che desiderava.
— Potremmo stimolare la sudorazione — disse Vincent. — Ascelle, collo.
— Lascia perdere. — Restai a guardare Ingrid. Lo schermo si divise in due e una digi-attrice, di fronte a un digi-aeroplano, versò digi-lacrime.
— Che te ne pare di un collegamento audio direzionale per seguire il suono dei passi? Endorfine a chili — disse Vincent. — Potrebbe giurare di ballare con Gene Kelly.
Scolai il resto della crème-de-menthe e gli diedi la bottiglia vuota e tornai nella mia stanza e massacrai Scandalo a Filadelfia per altri due giorni. Cercai di escogitare una buona giustificazione al fatto che Jimmy Stewart trasportasse in giro Katharine Hepburn e cantasse Somewhere Over the Rainbow senza essere sbronzo. Finsi che mi occorresse una ragione.
A Mayer non sarebbe fregato niente, e nemmeno a quel bacchettone del suo boss. E nessun altro guardava i livefilm. Se la trama non avesse avuto senso, sarebbe stato un problema dei techno incaricati del remake. In ogni caso, era molto probabile che facessero il remake del remake. Che era a sua volta sul mio elenco.
Lo richiamai. Alta società. Bing Crosby e Grace Kelly. Frank Sinatra nella parte di Jimmy Stewart. Ne visionai metà con l’avanti veloce, in cerca di ispirazione, ma era ancora più farcito di alcol e affini. Ed era un musical. Tornai a Scandalo e ritentai.
Inutile. Nella scena della piscina, Jimmy Stewart doveva essere sbronzo per dire a Katharine Hepburn che era innamorato di lei. Katharine doveva essere ubriaca perché il fidanzato la scaricasse e lei si rendesse conto di amare ancora Cary Grant.
Lasciai perdere quella scena e passai alla precedente. Peggio che mai. C’erano troppi dialoghi fondamentali per tagliarla, e per la maggior parte venivano pronunciati dalla voce strascicata di Jimmy Stewart. Mi portai all’inizio della scena e alzai il volume, col digitalizzatore audio pronto all’azione.
— Sei ancora innamorato di lei, non è vero? — disse Jimmy Stewart, protendendosi minaccioso verso Cary Grant.
— Sonoro zero — dissi, e guardai Cary Grant dire qualcosa con aria imperturbabile. La sua faccia non svelava niente.
— Insufficiente — disse il computer. — Sono necessari dati audio addizionali.
— Già. — Feci ripartire il sonoro.
— Liz dice di sì — disse Jimmy Stewart.
Tornai all’inizio della scena, chiesi il fermo immagine per avere il numero di fotogramma, poi ricominciai.
— Sei ancora innamorato di lei, non è vero? — chiese Jimmy Stewart. — Liz dice di sì.
Spensi lo schermo e chiamai Hedda. — Ho bisogno di sapere dov’è Alis.
— Perché? — chiese lei, sospettosa.
— Penso di averle trovato un maestro di ballo. Devo sapere l’orario delle sue lezioni.
— Mi spiace. Non lo conosco.
— E dai, tu sai tutto. Che fine ha fatto la tua predica sul fatto che dovrei aiutarla?
— Che fine ha fatto “Io non tiro fuori la testa per nessuno”?
— Te l’ho detto, ho trovato qualcuno che può darle lezioni di danza. Una vecchia signora di Palo Alto. Ex ballerina di fila. Negli anni Settanta ha lavorato in Sulle ali dell’arcobaleno e Funny Girl.
Hedda era ancora sospettosa, ma cantò. Alis seguiva Produzione Cinematografica 101, cioè le nozioni fondamentali di computer grafica, e un corso di storia del cinema, Musical 1939-1980. A Burbank.
Presi lo scivolo e una bottiglia di gin uscita diritta da Nemico pubblico e andai a cercarla. L’aula era in un vecchio edificio degli studios che l’UCLA aveva rilevato quando erano apparsi i primi scivoli, al secondo piano.
Socchiusi la porta e sbirciai dentro. Il professore, uno che sembrava Michael Caine in Rita Rita Rita, un film con troppe sostanze che danno assuefazione, stava di fronte a un vecchio monitor col telecomando in mano. Raccontava balle a una manciata di studenti, quasi tutti techno che seguivano le sue lezioni come corso facoltativo, qualche Marilyn, e Alis.
— Contrariamente a un’opinione assai diffusa, non è stata la rivoluzione della computer grafica a uccidere il musical — disse il prof. — Il musical ha tirato le cuoia… — Fece una pausa per dare un attimo di suspense agli allievi. — …Nel 1965.
Accese il monitor, che non era più grande dei miei schermi, e pigiò sul telecomando. Alle sue spalle apparvero cowboy che saltavano attorno a una stazione ferroviaria. Oklahoma.
— I musical, con le loro sceneggiature approssimative, con le sequenze non realistiche di canto e ballo e il lieto fine semplicistico, non riflettevano più il mondo degli spettatori.
Scrutai Alis, chiedendomi come avrebbe reagito alla notizia. Non le importava niente. Guardava i cowboy con quell’espressione intensa, attenta, e muoveva le labbra: contava le battute, memorizzava i passi.
— …Il che spiega come mai il musical, a differenza del noir e dell’horror, non sia stato riportato in auge nonostante la disponibilità di star come Judy Garland e Gene Kelly. Il musical è irrilevante. Non ha nulla da dire al pubblico di oggi. Per esempio, Balla con me…
Ridiscesi gli scalini e mi misi a sedere. Trangugiai gin e aspettai che quello finisse. Alla lunga, finì, e gli studenti sciamarono fuori. Un trio di facce stava parlando della voce che la Disney avrebbe usato corpicaldi per Grand Hotel. Una coppia di techno, il prof che mentre scendeva i gradini fiutava neve, un altro techno.
Finii il gin. Non uscì altra gente e io mi chiesi se per caso Alis mi fosse sfuggita. Andai a vedere, intanto che me ne stavo seduto, i gradini erano diventati più ripidi e impervii. A un certo punto scivolai e mi attaccai alla ringhiera. Restai in ascolto un minuto. Ci furono un frastuono metallico e poi un tonfo dall’interno della stanza, e il suono di una musica fioca. Un custode?
Aprii la porta e mi appoggiai allo stipite.
Alis, in vestito azzurro a gonna larga e cappellino a fiori, ballava in mezzo alla stanza. Aveva un parasole azzurro sulla spalla. Dal monitor usciva musica, e Alis ballava a tempo con una fila di ragazze col parasole, sullo schermo alle sue spalle.
Non riconobbi il film. Carousel, forse? Le ragazze di Harvey? Le ballerine vennero sostituite da ragazzi che sgambettavano in bombetta e cappelli di paglia, e Alis si fermò. Ansimante, estrasse il telecomando che aveva infilato in una scarpa. Tornò indietro all’inizio della scena, rimise il telecomando nella scarpa, e si aggiustò il parasole sulla spalla. Le ragazze riapparvero. Alis appoggiò la punta della scarpa sul pavimento e fece una piroetta.
Aveva accatastato i banchi sui due lati della stanza, ma non c’era lo stesso spazio a sufficienza. Quando si lanciò nella seconda piroetta, la sua mano tesa colpì i banchi e per poco non li rovesciò. Prese di nuovo il telecomando, tornò indietro, e mi vide. Spense il monitor e indietreggiò di un passo. — Cosa vuoi?
Le puntai contro l’indice. — Ti darò un piccolo consiglio. “Non desiderare quello che non puoi avere.” Michael J. Fox, Per amore o per soldi. Scena del bar, party, nightclub, tre bottiglie di champagne. Però non più. Il tuo umile servitore ha fatto il suo dovere. Tutto giù nel lavandino.
Allargai le braccia per illustrare il concetto, come James Mason in È nata una stella, e le sedie si rovesciarono.
— Sei fatto — disse lei.
— “Giammai.” — Sorrisi. — Gary Cooper in La conquista del West. — Mi incamminai verso lei. — Non fatto. Pieno, partito, sbronzo, ebbro. In altre parole, ubriaco come una foca. È una tradizione di Hollywood. Lo sai in quanti film c’è gente che beve? In tutti. Tranne quelli dai quali io ho tolto l’alcol. Tramonto, Quarto potere, Little Miss Marker. Western, film di gangster, strappalacrime. Si beve in tutti i film. Tutti. Persino in Balla con me. Lo sai perché Fred finisce a ballare la beguine con Eleanor? Perché George Murphy era troppo sbronzo per alzarsi — dissi, sventolando di nuovo il braccio. Per poco non la colpii. — Quel che devi fare è bere un goccio.
Cercai di passarle la bottiglia.
Lei indietreggiò di un altro passo verso il monitor. — Sei ubriaco.
— Tombola. “Veramente molto ubriaco”, come direbbe Audrey Hepburn. Colazione da Tiffany. Un film col lieto fine.
— Perché sei venuto qui? — chiese lei. — Cosa vuoi?
Portai la bottiglia alle labbra, ricordai che era vuota, la guardai triste. — Sono venuto a dirti che i film non sono la vita reale. Il semplice fatto di volere qualcosa non significa poterla avere. Sono venuto a dirti di tornare a casa prima che ti facciano il remake. Audrey avrebbe dovuto tornare a casa a Tulip, Texas. Sono venuto a dirti di tornare a casa a Carval. — Barcollante, aspettai che lei riconoscesse la battuta.
— Andy Hardy ha bevuto troppo — disse. — È lui che ha bisogno di tornare a casa.
Lo schermo diventò nero per qualche fotogramma, dopo di che mi ritrovai seduto a metà della scala, con Alis china su me. — Stai bene? — chiese, e le lacrime nei suoi occhi brillavano come stelle.
— Sto benissimo. “L’alcol è il grande livella-tore”, come direbbe Jimmy Stewart. Bisognerebbe versarne un po’ su questi gradini.
— Non credo dovresti prendere lo scivolo nel tuo stato — disse lei.
— Siamo tutti sullo scivolo. È l’unico posto che c’è rimasto.
— Tom — disse Alis, e ci fu un’altra dissolvenza in nero, e Fred e Ginger erano su tutte e due le pareti. Sorseggiavano Martini sul bordo di una piscina.
— Bisogna farlo — dissi. — Bisogna trasmettere il messaggio “Noi ci teniamo a voi”. Bisogna far tornare sobrio Jimmy Stewart. Ma se quello fosse l’unico modo per fargli trovare il coraggio di dirle che è innamorato di lei? Il fatto è che sa che lei è troppo per lui. Sa di non poterla avere. Deve ubriacarsi. Solo così riuscirà a dirle che è innamorato.
Le misi una mano sui capelli. — Com’è che fai? — chiesi. — Quell’illuminazione da dietro.
— Tom…
Lasciai ricadere la testa. — Non importa. Tanto nel remake lo rovineranno. E poi non è reale.
Agitai la mano in direzione dello schermo con fare melodrammatico, come Gloria Swanson in Viale del tramonto. — Tutte illusioni. Trucco e parrucche e set fasulli. Persino Tara. Solo una facciata finta. Effetti speciali e foley.
— È meglio che tu ti sieda. — Alis si impadronì del mio braccio.
Scrollai via la sua mano. — Persino Fred. Non è affatto reale. Tutti i colpi delle sue scarpe sono stati aggiunti dal doppiaggio sonoro, e le stelle non sono vere. Quelle sul pavimento. Tutto fatto con gli specchi.
Mi allungai verso la parete. — Solo che non è nemmeno uno specchio. Ci puoi far passare attraverso la mano.
Dopo di che, è tutto un lavoro di montaggio. Ricordo di avere cercato di scendere a Forest Lawn per vedere la tomba di Holly Golightly e Alis che mi strattonava e piangeva grandi lacrime gelatinose come quelle del programma di Vincent. E poi l’insegna delle stazioni che diceva “Beguine”, e poi eravamo nella mia stanza che aveva un aspetto strano, gli schermi erano sul lato sbagliato, e su tutti quanti c’era Fred che trasportava a braccia Eleanor sul bordo della piscina, e io dissi: — Lo sai perché il musical ha tirato le cuoia? Non bevevano abbastanza. A parte Judy Garland — e Alis chiese: — È fatto? — e si rispose da sola: — No, è ubriaco. — E io dissi: — Non voglio tu pensi che ho problemi con l’alcol. Posso smettere quando voglio. È solo che non voglio — e aspettai, sorridendo, che quelle due riconoscessero la battuta, ma non ci arrivarono. — A qualcuno piace caldo. Marilyn Monroe — dissi, e cominciai a versare lacrime dense, oleose. — Povera Marilyn.
Poi avevo buttato Alis sul letto e la stavo scopando e tenevo gli occhi puntati sul suo viso per vederlo all’arrivo del flash, ma il flash non arrivò, e i lati della stanza diventarono sfuocati, e io spinsi più forte, più veloce, inchiodandola al letto perché non potesse scappare, ma lei era già scappata e io cercai di rincorrerla e finii contro gli schermi, Fred ed Eleanor che si dicevano addio all’aeroporto, e alzai la mano e trapassai lo schermo e persi l’equilibrio. Ma quando caddi, non finii tra le braccia di Alis o in mezzo agli schermi. Finii nella regione di antimateria dello scivolo.
LEWIS STONE: [Severo] Spero che tu abbia imparato la lezione, Andrew. Bere non risolve i problemi. Serve solo a peggiorarli.
MICKEY ROONEY: [Vergognoso] Adesso lo so, papà. E ho imparato anche qualcosa d’altro. Ho imparato che devo farmi gli aflari miei e non impicciarmi di quelli degli altri.
LEWIS STONE: [Dubbioso] Lo spero, Andrew. Lo spero proprio.
In Scandalo a Filadelfia, la sbronza di Katharine Hepburn risolveva tutto: quel damerino del suo fidanzato rompeva il fidanzamento, Jimmy Stewart lasciava il giornalismo scandalistico e iniziava a scrivere il romanzo serio che la sua fedele ragazza si era sempre aspettata da lui, mamma e papà si riconciliavano, e Katharine Hepburn ammetteva finalmente di essere stata sempre innamorata di Cary Grant. Lieto fine per tutti.
Ma i film, come avevo cercato di spiegare ad Alis in uno stato tanto alterato, non sono la vita reale. E ubriacandomi avevo concluso una sola cosa: mi ero risvegliato nella stanza di Hedda nella sua casa dello studente, con postumi da sbornia per due giorni e una sospensione di sei settimane dallo scivolo.
Non che volessi andare da nessuna parte. Andy Hardy impara la lezione, lascia perdere le ragazze, e si dedica alla seria impresa di Farsi Gli Affari Suoi, compito facilitato dal fatto che Hedda si rifiutava di dirmi dove fosse Alis perché non parlava più con me.
E dal fatto che Hedda (o Alis) aveva versato tutto il mio liquore nel lavandino, come Katharine Hepburn in La regina d’Africa, e Mayer mi aveva bloccato il conto corrente finché non gli avessi consegnato la dozzina di film della settimana precedente. La dozzina di film della settimana precedente consisteva in Scandalo a Filadelfia, col quale ero appena a metà. Quindi, andiam, andiam, andiamo a lavorar, e qual era il posto migliore per trovare dodici film analcolici che potevo sostenere di avere ripulito? Ma Disney, naturalmente.
Solo che Biancaneve aveva un cottage pieno di boccali da birra e una segreta colma di coppe da vino e pozioni mortali. La bella addormentata non andava meglio (c’era un idiota di valletto reale che si sbronzava sino a finire letteralmente sotto il tavolo), e Pinocchio non solo beveva birra ma fumava sigari che chissà perché erano sfuggiti alla Lega Antifumo. Persino Dumbo si sbronzava.
Ma la cancellazione dei cartoni animati è relativamente più facile, e in Alice nel paese delle meraviglie c’era solo qualche anello di fumo, per cui riuscii a completare la sporca dozzina e a rimettere in sesto la “mia” scorta di pozioni mortali. Per lo meno non avrei dovuto guardare Fantasia in stato di sobrietà. E fu un vero bene. La parte della Pastorale di Fantasia era talmente piena di vino che mi occorsero cinque giorni per ripulirla, dopo di che tornai a Scandalo a Filadelfia e restai lì a fissare Jimmy Stewart cercando di escogitare un modo per salvare capra e cavoli. Poi mi arresi e aspettai che finisse la mia sospensione dallo scivolo.
Non appena terminò, andai a Burbank per scusarmi con Alis, ma doveva essere passato più tempo di quanto pensassi perché sedie e banchi, non più accatastati, erano occupati dagli studenti di un corso di CG, e quando chiesi a uno dei techno che fine avessero fatto Michael Caine e il corso di storia del cinema, quello mi disse: — C’erano l’altro semestre.
Feci scorta di chocha e andai al party successivo e chiesi a Hedda quali corsi seguisse Alis.
— Io non uso più la chocha — disse Hedda. Portava maglione aderente e gonna e occhiali con la montatura nera. Come sposare un milionario. — Perché non vuoi lasciarla in pace? Non fa del male a nessuno.
— Voglio… — cominciai, ma non sapevo cosa volessi. No, falso. Volevo trovare un film che non contenesse una sola sostanza capace di dare assuefazione. Solo che non ce n’erano.
— I dieci comandamenti — dissi, risalito nella mia stanza.
C’erano bevute nella scena del vitello d’oro e varie allusioni al “vino della violenza”, ma era sempre meglio di Scandalo a Filadelfia. Tirai fuori le mie riserve di grappa e chiesi una lista di kolossal biblici, e poi mi misi a giocare a Charlton Heston: distruggere vigne e porre fine alle orge romane. La vendetta è mia, dice il Signore.
SCENA: Esterno di casa Hardy in estate. Staccionata, aceri, fiori davanti alla porta d’ingresso. Dissolvenza lenta sull’autunno. Foglie che cadono. Primo piano su una foglia, seguita finché tocca terra.
Certe terre di nessuno somigliano molto allo scivolo. Te ne stai immobile a guardare uno schermo o, peggio, la tua immagine riflessa, e dopo un po’ finisci da qualche altra parte.
I party continuarono, affollati di dirigenti degli studios e Marilyn. Fred Astaire restava conteso, Hedda mi evitava, io bevevo. In eccellente compagnia. Bevevano gangster, capitani di corvetta, dolci vecchie signore, deliziose giovani ragazze, dottori, avvocati, capitribù. Fredric March, Jean Arthur, Spencer Tracy, Susan Hayward, Jimmy Stewart. E non solo in Scandalo a Filadelfia. Il tipico ragazzo americano della porta accanto, quello con tanto senso dell’onore e della patria, si sbronzava regolarmente. Acquavite in L’uomo che uccise Liberty Valance, brandy in Una strega in paradiso, “torcibudella” trangugiato direttamente dalla bottiglia in La conquista del West. In La vita è meravigliosa si ubriaca tanto da essere sbattuto fuori da un bar e finire con l’automobile contro un albero. In Harvey, è piacevolmente alticcio dall’inizio alla fine, e io che diavolo avrei dovuto combinare con quel film? Che diavolo dovevo combinare in generale?
In un momento o nell’altro di questo periodo, Hedda salì da me. — Ho una domanda da farti — disse, ferma sulla soglia.
— Questo significa che non ce l’hai più con me?
— Perché mi hai praticamente rotto un braccio? Perché mi hai scopata convinto che fossi un’altra? Perché dovrei avercela con te?
— Hedda…
— Tutto a posto. Mi succede di continuo. Dovrei aprire un locale di simsesso. — Entrò e sedette sul letto. — Ho una domanda da farti.
— Risponderò se tu risponderai alla mia — dissi.
— Non so dove sia lei.
— Tu sai tutto.
— Ha lasciato l’università. Gira voce che adesso lavori a Hollywood Boulevard.
— E cosa fa?
— Non lo so. Probabilmente non balla nei film, il che dovrebbe renderti felice. Hai sempre cercato di convincerla a…
La interruppi. — Qual è la domanda?
— Ho guardato quel film. Quello in cui dicevi che c’era la mia parte. La finestra sul cortile. Thelma Ritter. E tutte le sue rotture di scatole di cui parlavi, quando dice a lui di farsi gli affari suoi, di non impicciarsi. Erano buoni consigli. Thelma stava solo cercando di aiutarlo.
— Qual è la domanda?
— Ho guardato quell’altro film. Casablanca. Parla di questo tizio che ha un bar in una parte o nell’altra dell’Africa ai tempi della Seconda guerra mondiale, e di colpo rispunta la sua vecchia ragazza, solo che è sposata con quell’altro…
— Conosco la trama. Qual è la parte che non capisci?
— Tutto — rispose lei. — Perché il tizio del bar…
— Humphrey Bogart.
— Perché Humphrey Bogart continua a bere? Perché ripete che non la aiuterà mai e poi la aiuta? Perché le dice che lei non può restare? Se quei due sono così matti l’uno dell’altra, perché lei non può restare?
— C’era la guerra — dissi. — Avevano tutti e due un lavoro da fare.
— E il lavoro era più importante di loro due?
— Già — risposi, ma non ci credevo nemmeno io, nonostante il bel discorsetto di Ricky. Ilsa che dava sostegno morale al marito, Ricky che combatteva nella Resistenza non importavano più. Erano un sostituto. Erano quel che si fa quando non si può avere quello che si vuole. — Li avrebbero presi i nazisti — dissi.
— Okay — ammise lei, dubbiosa. — Quindi non possono restare assieme. Ma perché lui non se la può scopare prima che lei parta?
— All’aeroporto?
— “No” — rispose lei, serissima. — Prima. Al bar.
Perché non può averla, pensai. E lo sa.
— Per colpa dell’Ufficio Hays — dissi.
— Nella vita reale, lei almeno una scopata gliel’avrebbe regalata.
— Un’idea confortante — commentai. — Ma i film non sono la vita reale. E non possono dirti cosa provi la gente. Te lo devono far vedere. Valentino che alza gli occhi al cielo, Rhett che solleva Scarlett da terra, Lilian Gish che si stringe la mano sul cuore. Bogie ama Ingrid e non può averla. — Mi accorsi che Hedda ricominciava a non capire niente. — Il proprietario del bar ama la sua vecchia ragazza, quindi nel film devono “farti vedere” che lui non la tocca, non le dà nemmeno un bacio d’addio. Deve stare lì a guardarla e basta.
— Un po’ come te che bevi di continuo e ti precipiti in avanti sullo scivolo — disse lei.
Adesso ero io ad avere l’espressione di chi non capisce.
— La sera che Alis ti ha riportato alla mia stanza. La sera che eri così sbronzo.
Ancora non afferravo.
— Hai “fatto vedere” i tuoi sentimenti — disse Hedda. — Hai cercato di attraversare lo schermo dello scivolo e per poco non ti sei ucciso. È stata Alis a tirarti indietro.
SCENA: Esterno. Casa Hardy. Il vento spazza via le foglie morte. Dissolvenza lenta su un albero dai rami nudi. Neve. Inverno.
A quanto sembrava, quella sera avevo fatto follie. Avevo cercato di attraversare la parete dello scivolo come un fritto con troppa roba in corpo, e poi avevo scopato la persona sbagliata. Bel lavoretto, Andrew. E Alis mi aveva salvato. Arrivai con lo scivolo a Hollywood Boulevard per cercarla. Controllai alla Città dei Provini e a È Nata Una Stella, dove era di turno una copia carbone di River Phoenix. La cabina del Lieto Fine aveva cambiato nome: adesso era “Felici e Contenti” e sfoggiava Il dottor Zivago. Ornar Sharif e Julie Christie in un campo fiorito, sorridenti, con un bambino tra le braccia. Un gruppo di turi interessati a metà stava a guardare.
— Cerco una faccia — dissi.
— Scegli quella che vuoi — rispose il tizio. — Lara, Scarlett, Marilyn…
— Siamo stati qui qualche mese fa. — Tentai di risvegliargli la memoria. — Abbiamo parlato di Casablanca…
— Ho Casablanca — disse quello. — Ho Cime tempestose, Love Story…
— Questa faccia — lo interruppi. — È alta all’incirca così, capelli castano chiaro…
— Batte?
— No — risposi. — Lascia perdere.
Proseguii. Su quel Iato non c’era nient’altro, a parte le spelonche RV. Mi fermai e mi misi a pensarci su. Pensai ai locali di simsesso più avanti e alle battitrici libere che si affollavano davanti agli ingressi coi vestiti strappati, e tornai alla Felici e Contenti.
— Casablanca — dissi, passando davanti ai turi che avevano deciso di mettersi in fila. Sbattei giù la mia carta di credito.
Il tizio mi guidò dentro. — Hai già in mente un lieto fine? — chiese.
— Ci puoi scommettere.
Mi fece sedere davanti al computer, un Wang dall’aria antica. — Quello che devi fare è premere questo pulsante e sullo schermo appariranno le tue possibilità di scelta. Poi premi su quella che vuoi. Buona fortuna.
Ruotai l’aereo di quaranta gradi, lo appiattii a due dimensioni, e così tornò a essere lo scatolone fasullo che era sempre stato. Non avevo mai visto una macchina per la produzione di nebbia artificiale. Mi accontentai di un motore a vapore, che sputò grandi ammassi di nubi gonfie. Diedi l’avanti veloce fino al campo medio di Bogie che diceva a Ingrid:
— Avremo sempre Parigi.
— Espandi il perimetro del fotogramma — dissi, e cominciai a far apparire i piedi di Ingrid e Bogie. Per rialzare Bogie, gli avevano attaccato alle scarpe grosse, massicce zeppe di legno e pezzi di…
— Ma che cavolo pensi di fare? — disse il tizio, rientrando in cabina di corsa.
— Sto solo cercando di dare una modesta iniezione di realismo alla faccenda — gli risposi.
Mi fece alzare dalla poltroncina e si mise a battere tasti. — Fuori di qui.
I turi che stavano in fila prima di me erano ancora davanti allo schermo, e attorno a loro si era radunata una piccola folla.
— L’aereo era di cartone e i meccanici addetti all’aereo erano nani — dissi. — Bogie era alto solo un metro e sessanta. Fred Astaire era figlio di un immigrato che faceva l’operaio in una fabbrica di birra. Aveva frequentato soltanto le elementari.
Il tizio riemerse dalla cabina. Era surriscaldato come il mio motore a vapore.
— Bogie ha dovuto girare diciassette volte una scena del film — dissi, avviandomi verso lo scivolo.
— Niente di tutto quello è reale. È solo un gioco di specchi.
SCENA: Esterno. Casa Hardy in inverno. Neve sporca sul tetto, sul prato, ammucchiata ai lati del sentiero d’accesso. Dissolvenza lenta sulla primavera.
Non ricordo di essere tornato a Hollywood Boulevard. So di essere andato ai party, sperando che Alis riapparisse sulla porta, ma non c’era nemmeno Hedda.
Nel frattempo, andai avanti a stuprare e saccheggiare e cercare roba facile da ripulire. Non ce n’era. Far passare la sbornia al dottore di Ombre rosse rovinò la scena del parto. Due ore ancora defunse senza Dana Andrews che trangugiava sorsate di whisky, e L’Uomo Ombra scomparve del tutto.
Richiamai il menu, in cerca di qualcosa che non contenesse sostanze che danno assuefazione, qualcosa di molto pulito e molto americano. Come i musical di Alis.
Non Carousel. Billy Bigelow era un beone. Come Ava Gardner in Showboat e Van Johnson in Brigadoon. Bulli e pupe? Niente da fare. Marlon Brando riusciva a spingere all’alcol anche la gente dell’Esercito della Salvezza. Gigi? Era pieno di liquori e sigari, per non parlare di La sera che inventarono lo champagne.
Sette spose per sette fratelli? Forse. Non aveva numeri col saloon o col raduno generale al bar. Magari un po’ di brandy di sidro nella costruzione del fienile o in casa; niente che non si potesse togliere con una velocissima cancellazione.
— Sette spose per sette fratelli — dissi al computer, e mi versai un po’ del bourbon che avevo comperato per Il gigante. Howard Keel arrivava in città, sposava Jane Powell, e i due ripartivano per le montagne sul carro di lui. Avrei anche potuto usare l’avanti veloce. Era molto improbabile che Howard tirasse fuori una fiasca e offrisse un sorso a Jane, ma continuai a guardare in tempo reale mentre lei cinguettava con Howard delle proprie speranze e dei propri sogni. Che si sarebbero infranti non appena lei avesse scoperto che doveva cucinare e tenere in ordine per i sei fratelli di lui. Howard incitò i suoi cavalli fasulli e si innervosì.
— Perfetto, Howard. Non glielo dire — gli dissi. — Tanto non ti ascolterà. Deve scoprirlo da sé.
Arrivarono alla casa. Mi aspettavo che come minimo uno dei fratelli avesse una pipa fatta con un tutolo, e invece no. Ci fu qualche baruffa, un’altra canzone, e poi calma totale fino alla costruzione del fienile.
Mi versai un altro bourbon e mi protesi in avanti, in cerca di tracce di vizietti caserecci. Jane Powell porgeva torte dal carro, e una brocca ricoperta di paglia che dovevo trasformare in una pentola di fagioli o qualcosa del genere; poi iniziò il numero della costruzione del fienile. Alis lo aveva chiesto la sera che ci eravamo conosciuti. — Avanti fino alla fine della musica — dissi, e poi: — Aspetta — che non era un comando, e quelli continuarono a ballare, si fermarono, e attaccarono a costruire il fienile a tempo di record.
— Stop. Indietro a 96 al secondo — e tornai all’inizio della danza. — Avanti in tempo reale — dissi, ed eccola lì. Alis. In abitino di percalle rosa e calze bianche, coi capelli illuminati da dietro raccolti a crocchia.
— Fermo immagine — dissi.
È l’alcol, pensai. Ray Milland che vede elefanti rosa in Giorni perduti. Oppure un qualche effetto del klieg, un flash ritardato o roba simile, capace di sovrimporre il viso di Alis a quello delle ballerine come era successo con le figure di Fred Astaire ed Eleanor Powell che ballavano sul pavimento lucido.
E con quale frequenza si sarebbe ripetuto? Tutte le volte che avessi incontrato un numero di ballo? Appena un viso o un fermacapelli o una gonna gonfia mi avessero ricordato quel primo flash? Togliere l’alcol dai film di Mayer era già abbastanza brutto. Probabilmente non sarei riuscito a sopportarlo, se avessi anche dovuto trovarmi davanti Alis.
Spensi lo schermo e lo riaccesi, come stessi tentando di eliminare un bug da un programma, ma lei era ancora lì.
Guardai la scena un’altra volta, scrutando il viso di Alis, poi diedi l’avanti veloce fino alla scena del rapimento delle mogli. La ballerina, che adesso aveva i capelli coperti da un cappellino, sembrava Alis e al tempo stesso non la sembrava. Corsi al numero successivo, con le ragazze che adesso ballavano in pantaloni e calzettoni bianchi; ma l’elemento decisivo di identificazione, qualunque fosse stato (i capelli, o la musica, o il gonfiarsi della gonna), era scomparso, e ora quella ballerina era solo una ragazza che somigliava ad Alis. Una ragazza che, a differenza di Alis, era riuscita a ballare nei film.
Passai in rassegna il resto del film con l’avanti veloce, ma non c’erano altri numeri di ballo e nessuna traccia di Alis, e tutto quello cos’era? Solo un’altra lezione, Andrew, sul fatto che non bisogna mischiare il bourbon con la tequila di Rio Bravo.
— Titoli di testa — dissi, e tornai indietro e cancellai la bottiglia nella scena della pensione e poi corsi a velocità tripla alla costruzione del fienile per trasformare la brocca in una teglia di pane appena sfornato, e poi pensai che fosse il caso di riguardarmi il resto della scena per accertarmi che non ci fossero altre tracce della brocca.
— Stampa e invia — dissi. — E avanti in tempo reale.
Ed eccola di nuovo lì. A ballare nei film.
CLICHÉ CINEMATOGRAFICO N. 15: I postumi della sbronza. (Di solito viene dopo il n. 14: Il party.) Emicrania, sussulti a ogni rumore forte, insofferenza per la luce del sole.
VEDERE: L’Uomo Ombra, Il fidanzato di tutte, Dopo l’Uomo Ombra, McLintock, Si riparla dell’Uomo Ombra, Scandalo a Filadelfia, Il canto dell’Uomo Ombra.
Telefonata a Hedda. Niente video. — Conosci qualcosa che mi possa far passare la sbronza?
— Veloce o indolore?
— Veloce.
— Ridigaine — rispose subito lei. — Cosa c’è?
— Non c’è niente — ribattei. — Mayer mi sta facendo il culo perché vuole che lavori più in fretta sui suoi film, e io ho deciso che gli S mi rallentano. Ne hai un po’?
— Dovrò chiedere in giro. Trovo qualcosa e te la porto.
Non è necessario, avrei voluto dirle, ma questo l’avrebbe resa ancor più sospettosa. — Grazie.
Mentre l’aspettavo richiamai i titoli. Non mi servirono a molto. A conti fatti, le spose erano sette, e le uniche che io conoscessi erano Jane Powell e Ruta Lee, che aveva partecipato a tutti i film di serie B girati negli anni Settanta. Dorcas era Julie Newmever, che più tardi aveva cambiato il nome in Julie Newmar. Quando andai a rivedere la scena della costruzione del fienile, capii benissimo chi fosse.
Guardai, tendendo l’orecchio ai nomi degli altri personaggi. Il biondino Russ Tamblyn era innamorato della ragazza che si chiamava Alice, e Dorcas era la bruna alta. Corsi in avanti veloce alla scena del rapimento e stabilii le identità delle attrici e dei rispettivi personaggi. Quella col vestito rosa era Virginia Gibson.
Virginia Gibson. — Archivio dati attori — dissi, e poi diedi il nome dell’attrice.
Virginia Gibson aveva interpretato un bel misto di film, tra i quali Athena e le sette sorelle e qualcosa che si intitolava Ho ucciso Wild Bill Hickok.
— Musical — dissi, e l’elenco si ridusse a cinque titoli. No, quattro. In Cenerentola a Parigi c’era Fred Astaire, il che significava che il film non era disponibile per la controversia legale.
Bussarono alla porta. Spensi lo schermo, poi decisi che uno schermo vuoto mi avrebbe tradito. — Notorious — dissi, e mi prese il panico. E se anche Ingrid Bergman avesse avuto la faccia di Alis? — Annulla. — Cercai di pensare a un altro film, un film qualunque. Tranne Athena e le sette sorelle.
— Tom, stai bene? — strillò Hedda, dall’altro lato della porta.
— Arrivo! — Fissai lo schermo vuoto. Saratoga? No, c’era Ingrid anche lì; e comunque, se la cosa doveva succedere di continuo, meglio saperlo prima di richiamare qualcosa d’altro.
— Notorious — dissi sottovoce. — Fotogramma 54-119. — Aspettai che apparisse il viso di Ingrid.
— Tom! — urlò Hedda. — Ti senti male?
Cary Grant uscì dalla sala da ballo, e Ingrid lo seguì con gli occhi, ansiosa, a un passo dalle lacrime. E aveva la faccia di Ingrid, il che era un sollievo.
— Tom! — disse Hedda. Le aprii la porta.
Hedda entrò e mi porse qualche capsula azzurra. — Prendine due. Con dell’acqua. Perché non aprivi?
— Mi stavo sbarazzando delle prove incriminanti. — Indicai lo schermo. — Trentaquattro bottiglie di champagne.
— Ho visto quel film — disse lei, avvicinandosi allo schermo. — È ambientato in Brasile. Ci sono riprese di Rio de Janeiro e del Pan di Zucchero.
— Hai ragione come sempre — commentai. Poi, in tono distratto: — A proposito, tu che sai tutto, Hedda… Sai se il copyright su Fred Astaire è stato attribuito?
— No. L’ILMGM vuole ricorrere in appello.
— Quanto ci vuole perché il ridigaine faccia effetto? — Lo chiesi subito, prima che lei potesse domandarmi perché mi interessassi a Fred Astaire.
— Dipende da quanto alcol hai in circolo. Da come hai bevuto nelle ultime sei settimane.
— Sei “settimane”?
— Scherzo. Quattro ore, forse meno. Sei sicuro di volerlo prendere? E se ricominciassi ad avere dei flash?
Non le chiesi come facesse a sapere che avevo dei flash. Dopo tutto, era Hedda.
Mi passò un bicchiere. — Manda giù molta acqua. E fai tutta la pipì che puoi. — Una pausa. — Sul serio, cosa ti sta succedendo?
— Faccio terra bruciata. — Mi girai verso il fotogramma immobile sullo schermo. Cancellai un’altra bottiglia di champagne.
Lei sì chinò sulle mie spalle. — È la scena dove finiscono lo champagne e Claude Reins scende in cantina e ci trova Cary Grant?
— Non dopo che me la sarò ripassata io. Lo champagne diventerà gelato. Secondo te l’uranio dovrebbe essere nascosto nel freezer o nel sacco di salgemma?
Lei mi studiò, seria. — “Secondo me” c’è qualcosa che non va. Cos’è?
— Sono in ritardo di quattro settimane con l’elenco di Mayer, e lui mi sta strangolando, ecco cosa c’è. Sei sicura che sia ridigaine? — Scrutai le capsule. — Potrebbero essere di tutto.
— Sono sicura. — Hedda continuava a guardarmi sospettosa.
Infilai le capsule in bocca e allungai la mano verso il bicchiere di bourbon.
Hedda me lo strappò via. — Devi prenderle con “l’acqua”. — Andò in bagno. Sentii il gorgoglio del bourbon versato nel lavandino.
Hedda riemerse dal bagno e mi porse un bicchiere d’acqua. — Bevine il più possibile. Ti aiuterà a eliminare più in fretta il liquore. Niente alcol. — Aprì l’armadio, tastò con la mano, tirò fuori una bottiglia di vodka.
— “Niente” alcol — ripeté. Svitò il coperchio e tornò in bagno a versare nel lavandino. — Hai altre bottiglie?
— Perché? — le chiesi, buttandomi sul letto. — Perché hai deciso di smetterla con la chocha?
— Te l’ho detto, ne sono uscita. Alzati.
Obbedii, e lei si inginocchiò e si mise a tastare sotto il letto.
— Ecco perché so come ti sentirai dopo avere preso il ridigaine — disse, portando allo scoperto una bottiglia di champagne. — Ti verrà voglia di bere, ma non lo fare. Vomiteresti tutto. E intendo proprio tutto. — Giocherellò col tappo della bottiglia. — Quindi, non bere. E non cercare di fare niente. Sdraiati appena cominci a sentire qualcosa. Mal di testa, convulsioni. E resta sdraiato. Potresti avere allucinazioni. Serpenti, mostri…
— Conigli alti un metro e ottanta che si chiamano Harvey.
— Non sto scherzando. Quando l’ho preso ho avuto l’impressione di morire. E scrollarsi di dosso la chocha è molto più semplice che liberarsi dall’alcol.
— Perché hai smesso? — chiesi.
Lei mi scoccò un’occhiata di sbieco e ricominciò a giocherellare col tappo. — Pensavo che così qualcuno si sarebbe accorto di me.
— Ed è successo?
— No — rispose lei, e rimise le mani sul tappo. — Perché mi hai chiamata e mi hai chiesto di portarti il ridigaine?
— Te l’ho detto. Mayer…
Hedda fece saltare il tappo. — Mayer è a New York, in cerca di sostenitori per il suo nuovo boss che, stando a voci di corridoio, è sul punto di essere silurato. Pare che ai pezzi grossi dell’ILMGM non vada a genio il suo moralismo d’accatto. Per lo meno quando concerne loro. — Versò lo champagne in bagno e tornò da me. — Hai dell’altro champagne?
— A fiumi. — Mi sedetti al computer. — Fotogramma successivo — dissi, e sullo schermo apparve una marea di bottiglie di champagne. — Vuoi svuotare anche queste? — Mi girai, col sorriso sulle labbra.
Lei mi fissava molto seria. — Qual è il vero problema?
— Fotogramma successivo — dissi. Sullo schermo apparve Ingrid, ansiosa. I suoi capelli erano un’aureola. Feci sparire la coppa di champagne che teneva in mano.
— L’hai rivista, vero? — chiese Hedda.
Centro perfetto.
— Chi? — ribattei, anche se non avrei fregato nessuno. — Sì, l’ho rivista. — Feci sparire Notorious. — Vieni qui — dissi. — Voglio farti vedere una cosa.
— Sette spose per sette fratelli — dissi al computer. — Fotogramma 25-118.
Sullo schermo c’era Jean Povvell, seduta sul carro con un cestino.
— Avanti in tempo reale — dissi, e Jane Powell diede il cestino a Julie Newmar.
— Credevo ci fosse in ballo una causa legale — disse Hedda, alle mie spalle.
— Su chi? Jane Powell o Howard Keel?
— Russ Tamblyn — rispose lei, indicando l’attore. Era salito sul carro e stava guardando con occhi languidi la biondina, Alice. — La Virtusonic lo ha usato nei suoi pornohorror, e l’ILMGM non è contenta. Sostiene che c’è stato un abuso di copyright.
Russ Tamblyn, con un’aria molto giovane e innocente che probabilmente era il vero succo della situazione, se ne andò con Alice, e Howard Keel sollevò Jane Powell per aria e la tirò giù.
— Stop — dissi al computer. — Voglio che tu guardi la scena seguente — dissi a Hedda. — Le facce. Avanti in tempo reale. — E i ballerini formarono due file e si fecero l’inchino a vicenda.
Non sapevo che reazione mi aspettassi da Hedda. Magari che ansimasse e si stringesse le mani al cuore come Lillian Gish. O che si girasse verso me a metà del numero e chiedesse: — Di preciso cosa dovrei vedere?
Non fece nessuna delle due cose. Guardò l’intera scena, muta e immobile, con lo sguardo a fuoco sullo schermo quasi ai livelli di Alis; poi disse, calma: — Non credevo che ce l’avrebbe fatta.
Per un attimo non riuscii a decifrare le sue parole per il ruggito che avevo nella testa, il ruggito che diceva: — È lei. Non è un flash. È lei.
— Tutti quei discorsi sul fatto di trovare un maestro di ballo — stava dicendo Hedda. — Tutte quelle chiacchiere su Fred Astaire. Non avrei mai pensato che avrebbe…
— Non avresti mai pensato che avrebbe fatto cosa? — chiesi, stordito.
— Questo. — Hedda agitò la mano in direzione dello schermo, dove stavano prendendo forma i lati del fienile. — Che sarebbe finita a fare la squinzia di qualcuno — disse. — Che si sarebbe prostituita. Arresa. Venduta. — Gesticolò di nuovo verso lo schermo. — Mayer ti ha detto per quale dirigente hai fatto il lavoro?
— Non l’ho fatto “io”.
— Be’, “qualcuno” lo ha fatto. Mayer deve avere chiesto a Vincent o a qualcun altro. Non mi avevi detto che Alis non voleva fare incollare la sua faccia al corpo di un’altra?
— Infatti non voleva. Non vuole — risposi. — Quello non è un copia-e-incolla. È lei. Che balla.
Hedda guardò lo schermo. Un cowboy centrò il pollice di Russ Tamblyn col martello.
— Alis non si venderebbe mai — dissi.
— Per citare un mio amico — disse Hedda — tutti si vendono.
— No. La gente si vende per ottenere quello che vuole. Farsi incollare la faccia sul corpo di un’altra non era quello che Alis voleva. Lei voleva ballare nei film.
— Forse le servivano i soldi. — Hedda riportò gli occhi sullo schermo. Qualcuno assestò un colpo a Howard Keel con un’asse, e Russ Tamblyn gli tirò un pugno.
— Forse ha capito che non poteva avere quel che voleva.
— No. — Io ripensai ad Alis sul marciapiede di Hollywood Boulevard, alla sua espressione decisa. — Tu non capisci. No.
— “Okay” — disse Hedda, in tono conciliante. — Non si è venduta. Quello non è un copia-e-incolla. — Sventolò la mano verso lo schermo. — Allora cos’è? Come ha fatto Alis a finire lì se qualcuno non l’ha incollata?
Howard Keel spinse in un angolo due attaccabrighe, e il fienile crollò, si disintegrò in un rovinio di assi e angoscia. — Non so — risposi.
Per un minuto, restammo tutti e due a guardare il disastro.
— Posso rivedere la scena? — chiese Hedda.
— Fotogramma 25-200, avanti in tempo reale — dissi, e Howard Keel si protese di nuovo a tirare giù Jane Powell. I ballerini riformarono le due file. Ed ecco là Alis che ballava nel film.
— Forse non è lei — disse Hedda. — È per questo che mi hai chiesto di portarti il ridigaine, vero? Perché pensavi fosse colpa dell’alcol.
— La vedi anche tu.
— Lo so. — Hedda aggrottò la fronte. — Però non sono troppo sicura di sapere che faccia abbia. Tutte le volte che l’ho vista ero piuttosto fatta, e lo eri anche tu. E non l’abbiamo vista poi tanto spesso, no?
Quel party, e la volta che Hedda l’aveva mandata a chiedermi i codici di accesso, e l’episodio sullo scivolo. Tutte occasioni memorabili.
— No — dissi.
— Quindi potrebbe essere un’altra che le assomiglia. I suoi capelli sono più scuri, giusto?
— Una parrucca. Parrucca e trucco possono dare un aspetto molto diverso.
— Già — disse Hedda, come se quello provasse qualcosa. — O molto simile. Magari quella tizia ha una parrucca e un trucco che la fanno somigliare ad Alis. Come si chiama l’attrice?
— Virginia Gibson.
— Forse quella Virginia Gibson e Alis si assomigliano. Ha fatto altri film? Intendo Virginia Gibson. Se sì, potremmo guardarli, vedere che faccia ha, e decidere se questa è lei o no. — Mi scrutò preoccupata. — Prima però sarà meglio che lasci fare effetto al ridigaine. Hai già qualche sintomo? Emicrania?
— No.
— Be’, ti verrà tra qualche minuto. — Hedda tolse la coperta dal letto. — Sdraiati. Ti vado a prendere dell’acqua. Il ridigaine è veloce, ma è duro. La miglior cosa, se ci riesci, sarebbe…
— Dormirci sopra — finii per lei.
Hedda arrivò con un bicchiere d’acqua e lo mise sul comodino. — Chiamami se ti vengono le convulsioni e cominci a vedere cose.
— Stando a te, le vedo già.
— Non ho detto questo. Ho solo detto che dovresti controllare quella Virginia Gibson prima di saltare alle conclusioni. “Dopo” che il ridigaine avrà fatto effetto.
— Cioè quando sarò libero dall’alcol quella non somiglierà più ad Alis.
— Cioè quando sarai libero dall’alcol se non altro riuscirai a vederla bene. — Hedda mi puntò gli occhi addosso. — Tu vuoi che sia lei?
— Penso che mi sdraierò — dissi, per spingerla ad andarsene. — Mi fa male la testa. — Sedetti sul letto.
— Comincia ad agire — disse lei, trionfante. — Chiamami se ti serve qualcosa.
— Senz’altro. — Mi sdraiai.
Lei si guardò attorno nella stanza. — Qui dentro non c’è altro alcol, vero?
— A ettolitri. — Gesticolai in direzione dello schermo. — Bottiglie, brocche, fiaschette, bicchieri. Quello che vuoi. Lì dentro c’è tutto.
— Bere servirà solo a farti stare peggio.
— Lo so — dissi, mettendomi la mano sugli occhi. — Convulsioni, elefanti rosa, conigli alti un metro e ottanta, “e lei come sta, signor Wilson?”
— “Chiamami” — disse lei, e finalmente se ne andò.
Aspettai cinque minuti perché tornasse a dirmi di fare pipì, e poi altri cinque perché apparissero serpenti e conigli, o peggio ancora Fred ed Eleanor vestiti di bianco che ballavano fianco a fianco. E intanto pensai a quello che aveva detto Hedda. Se non era un copia-e-incolla, cos’era? E non poteva essere un incollaggio. Hedda non aveva sentito Alis parlare del suo desiderio di ballare nei film. Non l’aveva vista, quella sera in Hollywood Boulevard, quando le avevo offerto l’occasione di farlo. Quella sera avrebbe potuto farsi digitalizzare, essere Ginger Rogers, Ann Miller, chiunque volesse. Persino Eleanor Powell. Perché avrebbe dovuto cambiare idea di colpo e decidere di voler essere una ballerina che nessuno aveva mai sentito nominare? Un’attrice apparsa solo in una manciata di film? Uno dei quali era interpretato da Fred Astaire.
— Siamo vicini “così” al viaggio nel tempo — aveva detto il dirigente, con pollice e indice che quasi si toccavano.
E se Alis, che era disposta a tutto pur di ballare nei film, che era disposta a provare in una minuscola stanza dell’università con un monitor piccolissimo e a lavorare di notte in una trappola per turi, avesse convinto uno dei prezzolati che lavoravano al viaggio nel tempo a lasciarle fare la cavia? Se lo avesse convinto a rispedirla nel 1954, in giubbetto verde e guanti corti, e poi, invece di tornare come avrebbe dovuto, avesse preso il nome di Virginia Gibson e si fosse presentata alla MGM per i provini per Sette spose per sette fratelli? E poi fosse riuscita ad apparire in altri sei film? Uno dei quali era Cenerentola a Parigi. Con Fred Astaire.
Mi rizzai a sedere, lentamente, per non trasformare l’emicrania in qualcosa di peggio. Andai al terminale e richiamai Cenerentola a Parigi.
Hedda aveva detto che Fred Astaire era ancora conteso in tribunale, ed era vero. Misi il film, e Fred in generale, sotto controlla-e-avverti, nel caso la causa venisse risolta. Se Hedda aveva ragione (e quando non l’aveva?), la Warner avrebbe reagito immediatamente, ma se avesse tardato un po’, o se i suoi avvocati fossero stati troppo presi da Russ Tamblyn, poteva aprirsi una finestra. Attivai l’allarme sonoro del controlla-e-avverti e richiamai l’elenco dei musical di Virginia Gibson.
Slarlift era un bianco e nero sulla Seconda guerra mondiale, quindi non avrei avuto immagini chiare come quelle di un film a colori, e Virginia, dieci in amore era a sua volta oggetto di una contesa legale per qualcuno che non avevo mai sentito nominare. Restavano Athena e le sette sorelle, Femmine bionde, e Tè per due, tutti film che non ricordavo di avere mai visto.
Quando richiamai Athena e le sette sorelle, capii perché. Era un incrocio tra Il bacio di Venere e L’eterna illusione, con quintali di chiffon ed eccentrici salutisti e quasi nessun numero di ballo. Virginia Gibson, in chiffon verde, doveva incarnare Niobe, la dea del jazz o del tip tap o qualcosa del genere. Chiunque fosse, non era Alis. Le somigliava, specialmente con i capelli raccolti a coda di cavallo. “E con un mezzo litro di bourbon nel tuo stomaco” avrebbe detto Hedda. E una doppia dose di ridigaine. Ma anche così, non le somigliava quanto la ballerina nella scena della costruzione del fienile. Richiamai Sette spose. Lo schermo restò argenteo per un lungo momento, poi iniziò uno scrolling di linguaggio leguleio. “Questo film è al momento oggetto di una disputa legale e non è disponibile per la visione.”
Be’, quello tagliava la testa al toro. Quando il tribunale avesse deciso che era lecito fare a pezzettini Russ Tamblyn, io sarei stato libero dalla chocha e in grado di vedere una ragazza che semplicemente somigliava ad Alis, o nemmeno quello. Un giochetto di luci e trucco.
Ed era inutile strascicare i piedi in un altro pantano di musical per metterci una pietra sopra. Ogni somiglianza era puramente alcolica, e io dovevo fare quel che consigliava Doc Hedda, sdraiarmi e aspettare che passasse. E poi ricominciare a farmi a pezzettini, Dovevo richiamare Notorious e farla finita con quello.
— Tè per due — dissi.
Tè era un film con Doris Day. Mi chiesi se Doris fosse sull’elenco di cattive ballerine di Alis. Se lo sarebbe meritato. Se la cavicchiava a stento, tutta sorrisi a trecentosessanta gradi, in una routine di tip tap con Gene Nelson; se ne stava in una sala prove per la quale Alis avrebbe ucciso: un’enorme quantità di spazio libero e specchi e niente banchi accatastati. C’era una terribile versione in stile latino di Crazy Rhythm, Gordon MacRae che cantava I Only Have Eyes for You, e poi il grande numero di Virginia Gibson.
Ed era del tutto indiscutibile che non fosse Alis. Coi capelli sciolti, non le somigliava nemmeno più di tanto. O forse il ridigaine stava facendo effetto.
Il numero incarnava l’idea hollywoodiana del balletto: altro chiffon e una quantità di piroette, non certo il tipo di cosa che avrebbe potuto interessare ad Alis. “Se” avesse studiato balletto a Meadowville, non solo jazz e tip tap, ma non lo aveva studiato, e invece Virginia evidentemente sì, quindi Alis non era Virginia, e io non ero più sbronzo, e dovevo ricominciare a mettermi all’opera sulle bottiglie.
— Avanti a 64 al secondo — dissi, e guardai Doris sorridere per tutto il numero che dava il titolo al film, con una ripetizione superflua. Il numero successivo era di quelli di lusso, con un sacco di ballerini. Virginia non c’era, così cominciai con l’avanti veloce e poi mi fermai.
— Torna all’inizio della musica — dissi, e guardai il numero, tenendo il conto dei fotogrammi. Una coppia di biondi si portò avanti, eseguì una serie di passi, e indietreggiò, e un tizio coi capelli neri e una rossa in gonna a scacchi si fecero avanti e si lanciarono in un charleston, affiancati. Lei aveva capelli ricci e una camicetta coi bottoni sul davanti. I due appoggiarono le mani sulle ginocchia ed eseguirono i loro frenetici movimenti. — Fotogramma 75-005, avanti a 12 al secondo — dissi, e guardai la routine al rallentatore.
— Ingrandisci quadrante 2 — e vidi la rossa riempire lo schermo, per quanto non ci fosse alcun bisogno dell’ingrandimento, o nemmeno del rallentatore. Nessun dubbio sulla sua identità.
L’avevo saputo nell’istante in cui l’avevo vista, come mi era successo con la scena della costruzione del fienile, e non era l’alcol (che mi sarebbe rimasto in corpo come minimo per altri quindici minuti) o il klieg, o una vaga somiglianza sottolineata dalla cipria e dalla matita per gli occhi. Era Alis. Il che era impossibile.
— Ultimo fotogramma — dissi, ma quelli erano i Cari Vecchi Giorni: le ballerine di fila non comparivano nei titoli, e la data del copyright andava decifrata. MCML. 1950.
Tornai indietro per l’intero film, fermando i fotogrammi e chiedendo l’ingrandimento tutte le volte che intravedevo capelli rossi, ma non la rividi. Diedi l’avanti veloce fino al charleston e guardai di nuovo, cercando di formulare una teoria.
Okay. Il techno l’aveva spedita nel 1950 (no, sbagliato; la data del copyright era quella della distribuzione del film; l’aveva spedita nel 1949) e lei aveva atteso quattro anni, facendo la ballerina di fila e ingraziandosi Virginia Gibson, aspettando l’occasione buona per tirarle un colpo alla testa, nasconderla dietro il set e prendere il suo posto in Sette spose. Per poter talmente colpire il produttore di Cenerentola a Parigi con le sue doti di ballerina da spingerlo a offrirle una parte, e finalmente era riuscita a ballare con Fred, anche se magari in un numero da due soldi.
Non me la sarei bevuta nemmeno se fossi stato pieno di chocha. Ma era lei, quindi doveva esserci una spiegazione. Forse tra un numero di fila e l’altro Alis era stata scritturata come corpocaldo. A quei tempi succedeva. Le chiamavano controfigure, e magari lei era diventata la controfigura di Virginia Gibson perché si assomigliavano, e Alis aveva pagato Virginia perché le lasciasse prendere il suo posto per un solo numero, o aveva fatto in modo che Virginia quel certo giorno non si presentasse alle riprese. Anne Baxter in Eva contro Eva. O magari Virginia aveva problemi con l’alcol, e quando si era presentata ubriaca Alis aveva dovuto sostituirla.
Non era una teoria molto migliore. Richiamai il menu. Se Alis aveva ottenuto una scrittura come ballerina di fila, poteva averne ottenute altre. Passai in rassegna i musical, cercando di ricordare quali avessero numeri con ballerine di fila. Cantando sotto la pioggia ne aveva uno. La scena del party dalla quale avevo tolto tutto lo champagne.
Richiamai il registro dei cambiamenti per trovare il numero del fotogramma e corsi in avanti veloce nella completa assenza di champagne, fino al punto in cui Donald O’Connor diceva: “A un party bisogna proiettare un film. È la legge di Hollywood”. Arrivai all’inizio del numero con le ballerine.
Ragazze in gonne rosa e cappello si precipitavano in primo piano accompagnate dalla musica di You Are My Lucky Star e da un pessimo angolo di ripresa. Avrei dovuto chiedere un ingrandimento per vedere bene le facce. Ma non ce n’era alcun bisogno. Avevo trovato Alis.
Ed era possibile che avesse comprato coi soldi la complicità di Virginia Gibson. Poteva anche essere riuscita a nascondere lei e la rossa di Tè per due dietro i rispettivi set. Ma Debbie Reynolds non aveva problemi con l’alcol, e se Alis avesse infilato lei dietro un set, “qualcuno” se ne sarebbe accorto.
Non era il viaggio nel tempo. Era chissà quale tipo di illusione tecnologica che in un modo o nell’altro le aveva permesso di ballare nei film. Nel qual caso, Alis non era svanita per sempre nel passato. Era ancora a Hollywood. E io l’avrei ritrovata.
— Spegniti — dissi al computer. Afferrai la giacca e mi precipitai fuori dalla stanza.
CLICHÉ CINEMATOGRAFICO N. 419: La fuga impedita. L’Eroe/l’Eroina fuggono, riescono quasi a sottrarsi ai cattivi, a eluderli, sono quasi arrivati sani e salvi a casa, poi all’improvviso arriva il cattivaccio e chiede: “Stai andando da qualche parte?”.
VEDERE: La grande fuga, L’Impero colpisce ancora, Intrigo internazionale, Il club dei trentanove.
Hedda era appostata davanti alla porta. Teneva le braccia incrociate e batteva il piede. Rosalind Russell nella parte della madre superiora in Guai con gli angeli.
— Tu dovresti stare a letto — disse.
— Mi sento bene.
— Solo perché l’alcol non è ancora stato espulso del tutto dal tuo corpo. Certa gente impiega più tempo di altra. Hai fatto la pipì?
— Sì — risposi. — A catini. Adesso se vuole scusarmi, infermiera Ratchet…
— Non so dove tu voglia andare, ma di qualunque cosa si tratti può aspettare finché non ti sarai ripulito. — Hedda mi bloccò la strada. — Dico sul serio. Col ridigaine non si scherza. — Mi riportò in stanza. — Tu devi restare qui a riposarti. E comunque, dove stavi andando? A cercare Alis? Perché se fosse così, lei non c’è. Ha smesso di frequentare tutti i corsi e ha lasciato la casa dello studente.
E si è trasferita dal boss di Mayer. Quello Hedda non lo disse. — Non andavo da Alis.
— “Dove” andavi?
Mentire a Hedda è inutile, ma ci provai lo stesso. — In Cenerentola a Parigi c’era Virginia Gibson. Volevo cercare di trovarne una copia.
— Perché non te la fai arrivare via cavo?
— Ci recita Fred Astaire. Per questo ti ho chiesto se la causa sul suo copyright era chiusa. — Le lasciai digerire l’idea per un paio di fotogrammi. — Hai detto che poteva essere una semplice somiglianza. Volevo controllare se sia davvero Alis o solo qualcuno che le assomiglia.
— Allora volevi uscire in cerca di una copia pirata? — Pareva quasi che Hedda mi credesse. — Non mi hai detto che compare in sei musical? Non saranno mica tutti bloccati per dispute legali, no?
— Non ci sono primi piani in Athena e le sette sorelle — le risposi, e pregai che non mi chiedesse perché non avevo fatto un ingrandimento. — E lo sai cosa pensa di Fred Astaire. Se Alis ha ballato in un film, deve avere ballato in Cenerentola a Parigi.
Tutti quei discorsi non avevano senso, visto che in teoria l’idea era trovare qualcosa in cui apparisse Virginia Gibson, non Alis, ma Hedda annuì quando feci il nome di Fred Astaire. — Posso fartene avere una copia io — disse.
— Grazie. Non c’è bisogno che sia digitalizzata. Va bene anche un nastro. — La accompagnai alla porta. — Io resto qui e mi corico e lascio lavorare il ridigaine.
Lei intrecciò di nuovo le braccia.
— Giuro — dissi. — Ti do la mia chiave. Puoi chiudermi dentro.
— Ti metterai a letto?
— Promesso — mentii.
— Non lo farai — disse lei — e lo rimpiangerai. — Sospirò. — Per lo meno non prenderai lo scivolo. Dammi la chiave.
Le passai la tessera.
— Tutte e due — disse lei. Le passai l’altra tessera.
— Sdraiati — disse Hedda, e uscì e mi chiuse dentro.
CLICHÉ CINEMATOGRAFICO N. 86: Chiuso sotto chiave.
Vedere: Giglio infranto, Cime tempestose, Phantom Foe, Ritrovarsi, L’uomo dal braccio d’oro, Il collezionista.
Okay, in ogni caso mi occorrevano altre prove prima di affrontare Alis, e cominciavo a sentire sul serio il mal di testa sul quale avevo bluffato con Hedda. Andai in bagno, eseguii gli ordini, poi mi sdraiai sul letto e richiamai Cantando sotto la pioggia.
Non c’erano indizi rivelatori di trasparenti o ombre di pixel fraudolenti, e il controllo della colonna sonora non svelò livelli irregolari di degradazione. Il che non dimostrava nulla. Io stesso ero in grado di eseguire incollaggi non rilevabili, quando avevo in corpo un quinto del liquore trangugiato dall’Uomo Ombra di William Powell.
Avevo bisogno di altri dati. Preferibilmente qualcosa di lungo, riprese e inquadrature uniche, ma Fred era ancora conteso in tribunale. Richiamai l’elenco dei musical. Il giorno che ero andato a trovarla, Alis indossava un vestito a gonna larga, un costume d’epoca. Non Meet Me in St. Louis. Aveva detto che in quel film non c’era ballo. Showboat, forse. O Gigi.
Me li guardai tutti e due con l’avanti veloce, in cerca di parasoli e capelli illuminati da dietro, ma impiegai un’eternità, e i fotogrammi accelerati mi davano il capogiro.
— Ricerca globale — dissi, premendomi la mano sugli occhi. — Tutte le routine di ballo. — Poi passai dieci minuti a spiegare al computer cosa fosse una routine di ballo. — Avanti a 40 al secondo — dissi, e partii con Carousel.
Il programma funzionava bene, ma avrebbe sempre richiesto una vita. Mi chiesi se fosse il caso di eliminare il balletto, poi decisi che il computer non poteva sapere cosa fosse il balletto, non più di quanto lo sapesse Hollywood. Così inserii un override.
— All’ordine “Il prossimo, per favore” passa immediatamente alla routine successiva. — E richiamai Vecchia America.
Era un altro festival della dentatura di Doris Day, quindi anche con l’override ci impiegai troppo tempo, ma se non altro potevo dire: “Il prossimo, per favore” appena mi accorgevo che non c’erano vestiti a gonne larghe.
— La storia di Vernon e Irene Castle — dissi. No, era un film con Fred Astaire. Le ragazze di Harvey?
Un’altra scritta in leguleio. Ma tutti quanti si stavano facendo causa? Richiamai il menu e gli diedi un’altra scorsa.
— I fidanzati sconosciuti — dissi, e me ne pentii subito. Era un Judy Garland, e Alis aveva ragione, non c’era vero ballo nei film di Judy Garland. Cercai di ricordare che altro avesse detto Alis quella sera nella mia stanza e quali film avesse chiesto. Un giorno a New York.
Nessuno aveva portato quello in tribunale. Però c’era la nemesi di Alis, Gene Kelly, che salterellava in uniforme da marinaio e faceva sembrare tutto così faticoso. — Il prossimo, per favore — dissi, e Ann Miller apparve in un vestito scollato, guance rosee e fisico da Marilyn. Ballava il tip tap in mezzo a scheletri di dinosauro. Sarebbe stato impossibile prenderla per Alis anche col trucco e coi ritocchi digitali, e avevo la sensazione che quella fosse una cosa importante, ma i colpi secchi delle scarpe di Ann mi rimbombavano cupi in testa. Avanzai fino al numero di Meadowville che Alis aveva detto di amare: Vera-Ellen e l’esagitato Gene Kelly in scarpe morbide. Vera-Ellen aveva un fisico molto più simile a quello di Alis, portava anche un nastro nei capelli, ma nemmeno lei era Alis. — Il prossimo, per favore.
Gene Kelly eseguì uno dei suoi balletti ridondanti, Frank Sinatra e Betty Garrett ballarono il tango con un telescopio dell’Empire State Building, e poi apparve Ann Miller, in un abito ancora più scollato, e poi Vera-Ellen. Indossava il giubbetto verde e la gonna nera che Alis portava quella prima sera al party. Mi misi sul chi vive.
Vera-Ellen prese la mano di Gene Kelly e piroettò via dalla macchina da presa. — Fermo immagine — dissi. — Ingrandisci. — I capelli illuminati da dietro erano inconfondibili, e come no, quando tornò a girarsi verso me alla fine della piroetta era Alis. Tendeva la mano e sorrideva deliziata a Gene Kelly.
Chiesi il menu dei film di Vera-Ellen. — Belle of New York — dissi.
Leguleio. Fred Astaire. Idem Tre piccole parole. Alla fine ottenni Preferisco la vacca e lo studiai numero dopo numero, ma Alis non c’era. Dietro tutta la faccenda doveva esserci un altro tipo di logica. Quale? Gene Kelly? Interpretava sia Cantando sotto la pioggia che Un giorno a New York.
— Due marinai e una ragazza — dissi.
Le star che affiancavano Gene erano Kathryn Grayson e Jose Iturbi, due nomi non certo famosi per l’abilità nel ballo, quindi non mi aspettavo numeri spettacolari. Non ce n’erano. Gene Kelly ballava con Frank Sinatra, con una fila di marinai, con un topo dei cartoni animati.
Un altro di quei suoi numeri ridondanti, questa volta con uno sfondo animato e Tom Jerry e una quantità di effetti speciali pre-computer grafica; però lui e Tom il Topo ballavano fianco a fianco, con mano e zampa che quasi si toccavano, e nell’insieme l’effetto era piuttosto realistico.
Chiamai Vincent, decisi che non volevo fare registrare la telefonata, annullai il numero. Avrei dato l’anima per escogitare il modo di scoprire dove si fosse appostata Hedda senza aprire la porta.
Non me ne venne in mente nessuno, ma era tutto a posto. Hedda non c’era. Chiusi la porta con la terza tessera nel caso lei fosse tornata, e scesi al party. Vincent stava dando la dimostrazione di un nuovo programma a un trio di stupefatte Marilyn.
— Dategli un ordine — disse Vincent, e indicò lo schermo. Clint Eastwood, in poncho e cappellaccio, stava seduto su una sedia, le mani abbandonate lungo i fianchi come una marionetta stanca. — Forza.
Le Marilyn ridacchiarono. — Alzati — disse una delle tre, audace. Clint, legnoso, si alzò.
— Fai due passi indietro — disse un’altra Marilyn.
— Mammina, posso? — chiesi. — Vincent, ho bisogno di parlarti. — Mi intromisi fra lui e le Marilyn. — Devo inserire in un film una scena live col trasparente azzurro. Come faccio?
— È più facile creare tutto con la CG — rispose lui, guardando lo schermo sul quale Clint se ne stava immobile, in attesa di ordini. — O fare un copia-e-incolla. Che tipo di azione live? Umana?
— Sì, umana, ma un semplice copia-e-incolla non va bene. Come faccio a mettere il trasparente azzurro?
Lui scrollò le spalle. — Ci vogliono pixar e miscelatore. Magari un vecchio digitrasparente, se riesci a trovarlo. A volte le trappole per turi li usano. La parte difficile è l’assemblaggio degli elementi: luci, prospettiva, angoli di ripresa, ombre.
Avevo smesso di ascoltare. È Nata Una Stella, a Hollywood Boulevard, aveva un digitrasparente. E Hedda aveva detto che Alis aveva trovato lavoro lì.
— Non sarà mai all’altezza della CG — disse Vincent — ma se hai un tecnico in gamba è possibile.
E un pixar, e il know-how del computer, e i codici di accesso. Tutte cose che Alis non aveva. — E se uno non avesse gli accessi? Diciamo uno che vuole fare il lavoro senza che qualcun altro se ne accorga?
— Credevo avessi pieno accesso da dirigente. — L’interesse di Vincent si risvegliò subito. — Mayer ti ha licenziato?
— Lo sto facendo per Mayer. Devo togliere gli S da un film techno — inventai sui due piedi. — Sol levante. Ci sono troppi riferimenti video per poter cancellare. Devo preparare un’intera scena nuova, e voglio che sembri autentica.
Contavo sul fatto che lui non avesse mai visto il film, e che non sapesse che era stato girato prima dei codici d’accesso; ipotesi molto probabili, con uno pronto a trasformare Clint Eastwood in una marionetta. — L’eroe sovrappone un’immagine falsa a una reale. Per acciuffare un criminale.
Vincent aveva aggrottato la fronte. — In quel film qualcuno si inserisce nel circuito via cavo a fibre ottiche?
— Già. Allora, come faccio a farlo sembrare realistico?
— Pirateria sul cavo? Impossibile. Bisogna avere i codici d’accesso degli studios.
Chi va piano… — Non devo far vedere niente di illegale — dissi. — Solo un po’ di chiacchiere. Parole. Inventare un modo per bypassare le crittografie o scardinare le chiavi d’identificazione. — Ma lui stava già scuotendo la testa.
— Non è così che funziona — disse. — Gli studios hanno speso troppo per diritti e attori. Non possono permettere che si verifichino piraterie direttamente alla fonte. Crittografie, chiavi d’identificazione e tutto il resto si possono aggirare. È per questo che sono passati al loop sul cavo a fibre ottiche. Quello che esce torna indietro.
Sullo schermo, Clint aveva cominciato a muoversi. Alzai gli occhi. Camminava tracciando un otto sul pavimento, a mani in giù e testa bassa. Prigioniero di un loop.
— Sul cavo a fibre ottiche il segnale esce e rientra a ciclo continuo. C’è un meccanismo di identificazione incorporato. Un programma. La macchina fa il confronto tra il segnale in rientro e il segnale che è uscito, e se non corrispondono cambia il nuovo segnale e lo sostituisce col vecchio.
— Per ogni singolo fotogramma? — Magari il controllo avveniva solo ogni cinque minuti, il tempo sufficiente per inserire una routine in un numero di ballo.
— Ogni singolo fotogramma.
— Non occorre una tonnellata di memoria? Un confronto pixel per pixel?
— Controllo browniano — rispose lui, ma non era molto meglio. I controlli sul segnale sarebbero stati fatti su base randomizzata, e non c’era modo di sapere in anticipo quali pixel sarebbero stati scelti. In pratica, sarebbe stato possibile cambiare un’immagine solo con un’altra perfettamente identica.
— E se hai i codici di accesso? — Non avevo ancora staccato lo sguardo da Clint, che passeggiava all’infinito tracciando continui otto. Boris Karloff in Frankenstein.
— In questo caso, la macchina controlla che l’immagine alterata sia autorizzata e poi la lascia passare.
— E non è possibile procurarsi un accesso fasullo? — chiesi.
Vincent guardava lo schermo. Era irritato, come fosse stato lui a mettere in movimento Frankenstein. — Siediti — disse. Clint sedette.
— Resta lì — dissi io.
Vincent mi fulminò con lo sguardo. — Per quale film hai detto che ne avevi bisogno?
— Un remake. — Mi girai a guardare la porta. Hedda stava entrando. — Magari mi accontenterò di cancellare. — E schizzai verso la scala.
— Ancora non capisco perché tu voglia insistere a farlo manualmente — urlò Vincent alle mie spalle. — Non ha senso. Io ho un programma cerca-e-distruggi…
Corsi sopra, infilai la tessera, maledicendomi per avere chiuso la porta a chiave. Aprii, mi misi a letto, ricordai che la porta doveva essere chiusa a chiave. La chiusi e tornai a letto al volo.
Andare di fretta non era stata una buona idea. La testa aveva cominciato a picchiarmi come i tamburi nel numero di sapore latino di Tè per due.
Chiusi gli occhi e aspettai Hedda, ma quella che era apparsa sulla soglia non doveva essere lei. Oppure era rimasta bloccata da Vincent e dalle sue bambole ballerine. Richiamai Three Sailors and a Girl, ma tutti i “Il prossimo, per favore” mi davano una vaga sensazione di mal di mare. Chiusi gli occhi, aspettai che passasse il malore, poi li riaprii e cercai di escogitare una teoria che non puzzasse troppo di sceneggiatura cinematografica.
Alis non avrebbe potuto inserirsi nei film usando un trasparente azzurro, come il topolino di Gene Kelly. Non sapeva niente di computer; l’autunno prima, stando a quanto mi aveva riferito Hedda, Alis aveva seguito CG Basilare 101. E se anche fosse riuscita chissà come a imparare l’uso di tutte le attrezzature necessarie, non aveva comunque i codici d’accesso.
Forse si era fatta aiutare da qualcuno. Ma chi? Nemmeno i techno che frequentavano l’università avevano gli accessi, e Vincent non avrebbe capito perché lei pretendesse un lavoro fatto manualmente.
Quindi doveva trattarsi di un copia-e-incolla. E perché no? Magari Alis si era finalmente resa conto che ballare nei film era impossibile, oppure Mayer le aveva promesso di trovarle un maestro di ballo se lei si fosse lasciata scopare dal suo boss. Non sarebbe stata la prima ad arrivare a Hollywood per finire sul divano di un produttore.
Ma se fosse stato così, non avrebbe avuto quel certo sguardo. Richiamai di nuovo Un giorno a New York e lo sbirciai tra le fitte di emicrania. Alis saltellava nell’Empire State Building felice e contenta. Spensi il computer e cercai di dormire.
Se fosse stato un copia-e-incolla, lei non avrebbe avuto quello sguardo attento, intenso. Vincent, programmi o non programmi, non sarebbe mai riuscito a catturare quel sorriso.
Movimento lento di macchina dallo schermo del computer all’orologio, che segna le 11.05, poi di nuovo primo piano del computer. Sullo schermo ballano marinai. Movimento lento fino all’orologio che segna le 3.45.
Nel mezzo della notte mi venne in mente che un altro motivo impediva che Mayer avesse fatto un copia-e-incolla per Alis. Il miglior motivo possibile: Hedda non ne era informata.
Sapeva tutto, conosceva le squinzie dalla prima all’ultima, ogni mossa degli studios, ogni voce di fusione o assorbimento. Non le sfuggiva niente. Se Alis si fosse arresa a Mayer, Hedda lo avrebbe saputo prima che succedesse. E me lo avrebbe riferito, come fosse il tipo di cosa che volevo sentire.
E non lo era? Avevo detto ad Alis che non poteva ottenere ciò che desiderava, che ballare nei film era impossibile, che si doveva accontentare di un copia-e-incolla oppure niente, e a tutti fa piacere scoprire di avere ragione, no?
Specialmente quando si ha ragione. Non si può semplicemente entrare in uno schermo cinematografico come Mia Farrow in La rosa purpurea del Cairo e prendere il posto di Virginia Gibson. Non si può attraversare uno specchio come Charlotte Henry e ritrovarsi a ballare con Fred Astaire.
Anche se si può dare l’impressione di farlo. È un gioco di luci, tutto qui, e trucco, e troppo liquore, troppo klieg; e l’unica cura possibile era seguire gli ordini di Hedda, pisciare, bere un sacco d’acqua, cercare di dormire.
— Three Sailors and a Girl — dissi, e aspettai che qualcuno mi svelasse il trucco.
Movimento lento di macchina dallo schermo del computer all’orologio, che segna le 4.58, poi di nuovo primo piano del computer. Sullo schermo ballano marinai. Movimento lento fino all’orologio che segna le 7.22.
— Ti senti meglio? — chiese Hedda. Era seduta sul letto, con un bicchiere d’acqua in mano. — Te l’avevo detto che il ridigaine è duro.
— Vero. — Dovetti chiudere gli occhi al bagliore della luce riflessa dal bicchiere.
— Bevi questa — disse lei, e mi infilò una cannuccia in bocca — Come va la voglia di alcol? Brutta?
Non mi andava di bere niente, acqua compresa.
— No.
— Sicuro? — Hedda era sospettosa.
— Sono sicuro. — Riaprii gli occhi, e, visto che non succedeva niente, cercai di mettermi a sedere.
— Perché ci hai messo tanto?
— Dopo avere trovato Cenerentola a Parigi sono andata a parlare con un dirigente dell’ILMGM. Avevi ragione, Mayer non c’entra. Ha giurato di smetterla con le squinzie. Sta cercando di convincere Arthurton di essere il tipo più a posto di questo mondo.
Mi infilò di nuovo la cannuccia sotto il naso. — Ho parlato anche con uno dei techno. Dice che è impossibile inserire scene live nella roba che passa sul cavo senza avere gli accessi. Dice che ci sono un sacco di blocchi e crittografie e chiavi d’identificazione. Dice che sono così tante che nessuno, nemmeno il più in gamba dei techno, riuscirebbe ad aggirarle.
— Lo so. — Appoggiai la testa alla parete. — È impossibile.
— Ti senti in condizione di guardare il disco?
Non mi ci sentivo, ed era del tutto inutile, ma Hedda inserì il disco e guardammo Fred ballare in cerchio a Parigi, attorno ad Audrey Hepburn.
Comunque, il ridigaine a qualcosa serviva. Fred eseguiva piroette a tempo di swing, batteva i piedi con la massima naturalezza, a braccia tese, ma io non avvertivo nemmeno il più vago sintomo di flash o di sfocatura. Mi faceva ancora male la testa, però non sentivo più rimbombi cupi nel cranio. Erano stati sostituiti da un cupo silenzio che pareva il residuo di un flash e possedeva la stessa indiscutibile nettezza, la stessa chiarezza fotografica.
Ero certo che Alis non avrebbe mai ballato in quel film, fatto di passi moderni e numeri a due con le minuziose coreografie studiate da Fred per dare l’impressione che Audrey Hepburn fosse una ballerina migliore di quel che era. Di sicuro, quando fosse apparsa Virginia Gibson sarebbe stata Virginia Gibson, che somigliava tanto ad Alis.
Ed ero certo che se avessi richiamato Un giorno a New York e Tè per due e Cantando sotto la pioggia avrei ritrovato Alis. Per quanto il cavo a fibre ottiche potesse essere sicuro, per quanto fosse impossibile.
Spuntò Virginia Gibson. Indossava un vestito da morire dalle risate: l’idea di Hollywood dell’abito di alta sartoria. — Non la vedi, eh? — chiese Hedda, ansiosa.
— No — risposi, guardando Fred.
— Questa Virginia Gibson somiglia davvero molto ad Alis — disse Hedda. — Vuoi riprovare con Sette spose per sette fratelli, tanto per rassicurarti?
— Sono già sicuro.
— Bene. — Lei si alzò, decisa. — La cosa più importante da fare adesso che ti sei ripulito dall’alcol è tenerti occupato, così non penserai alla voglia di bere, e comunque devi darti da fare con l’elenco di Mayer prima che lui torni, e stavo pensando che magari potrei darti una mano. Ho guardato un sacco di film, e potrei dirti quali contengono sostanze che danno assuefazione e in quali punti si trovano. Il colore viola ha una scena con un locale dove…
— Hedda — dissi.
— E “dopo” che avrai finito con quella lista, magari tu e io potremmo farci assegnare da Mayer un vero remake. Adesso che siamo puliti tutti e due. Una volta mi hai detto che potrei essere una grande assistente ai set, e ho guardato un sacco di film. Saremmo una grande squadra. Tu potresti provvedere alla CG…
— Devi fare una cosa per me — le dissi. — C’era un dirigente della ILMGM che veniva sempre ai party e usava il viaggio nel tempo come trucco per abbordare squinzie. Devi scoprire come si chiama.
— Viaggio nel tempo? — ripeté Hedda, perplessa.
— Ha detto che erano vicini “così” a scoprire il viaggio nel tempo. Continuava a parlare di linee temporali parallele.
— Hai detto che non era lei in Cenerentola a Parigi. — Voce lenta, parole strascicate.
— Quello continuava a parlare di un remake di L’uomo venuto dall’impossibile.
Lei era ancora stupefatta. — Pensi che Alis sia tornata indietro nel tempo?
— Non lo “so” — dissi, e l’ultima parola fu un urlo. — Forse ha trovato un paio di babbucce magiche, forse è entrata nello schermo come Buster Keaton in Calma, signori miei! Non lo “so”!
Gli occhi di Hedda erano gonfi di lacrime. — Però continuerai a cercarla, vero? Anche se è impossibile — disse, amareggiata. — Come John Wayne in Sentieri selvaggi.
— E ha trovato Natalie Wood, no? Non l’ha trovata? — Ma Hedda era già uscita.
SCENA DI MONTAGGIO: Niente colonna sonora. L’EROE, seduto al computer col mento sulla mano, ripete “Il prossimo, per favore” e i numeri di ballo sullo schermo cambiano. Hula, ritmo latino, picnic in riva al mare, l’idea di Hollywood di un balletto, ballo di barboni, ballo acquatico, bambole che ballano.
L’alcol non era ancora stato eliminato del tutto dal mio corpo. Mezz’ora dopo l’uscita di Hedda, l’emicrania tornò più feroce di prima. Richiamai Due marinai e una ragazza (o era Due ragazze e un marinaio?) e dormii per due giorni di fila.
Quando mi alzai espulsi diversi litri di piscio, poi controllai se Hedda mi avesse chiamato. No. Tentai di chiamarla io, poi provai con Vincent, e ricominciai coi lilm.
Alis era in I Love Melvin e interpretava, ovviamente, la parte della ballerina di fila che cerca di sfondare nel cinema, e in Torna con me e Due settimane d’amore. La trovai in due film di Vera-Ellen, che guardai due volte, convinto che mi stesse sfuggendo un indizio importante, e in Femmine bionde, di nuovo al posto di Virginia Gibson in un numero di tip tap con Gene Nelson e Virginia Mayo.
Rintracciai Vincent e gli chiesi cosa fossero le linee temporali parallele. — È per Sol levante? — domandò lui, sospettoso.
— L’uomo che visse nel futuro. Paul Newman e Julia Roberts. “Cos’è” una linea temporale parallela? — e ottenni un diluvio di probabilità e causalità e universi paralleli.
— Ogni evento ha dieci, cento, mille possibili risultati finali — disse Vincent. — La teoria è che esista un universo nel quale ogni possibile risultato si è concretizzato.
Un universo nel quale Alis riesce a ballare nei film, pensai. Un universo nel quale Fred Astaire è ancora vivo e la rivoluzione CG non c’è mai stata.
Avevo controllato esclusivamente i musical girati negli anni Cinquanta. Ma se esistevano linee temporali parallele, e se Alis aveva trovato modo di entrare e uscire da quegli altri universi, non c’era motivo di non poterla trovare in musical realizzati dopo. O prima.
Cominciai coi film di Busby Berkeley, per quanto fossero poveri di ballo, e la trovai a ballare il tip tap senza musica in La danza delle luci e nel gran finale di Quarantaduesima strada, ma nient’altro. Ottenni risultati migliori (e, a quanto sembrava, anche lei) coi film che non erano di Busby. Cappelli in aria, dove ovviamente portava il cappello, e Show of Shows e Too Much Harmony, dove interpretava Buckin’ in the Wind, un numero pensato per Marilyn, in reggicalze e gonna bianca che le si gonfiava attorno alle gambe. Era anche in Nata per danzare, però come ballerina di fila, e non riuscii a rintracciarla in altri film di Eleanor Powell.
Mi occorse una settimana per finire i bianco e nero, e per tutto quel periodo non riuscii a contattare Hedda, e lei non mi chiamò. Quando alla fine il mio computer fece bip, non aspettai nemmeno di vedere la sua faccia. — Hai saputo qualcosa? — chiesi.
— Ho saputo sì! — rispose Mayer, sussultando. — Sono tre settimane che non mandi un film! Io volevo consegnare tutto il pacchetto al mio boss alla riunione della settimana prossima, e tu stai perdendo tempo con Sol levante, che non è neanche sull’elenco!
Il che significava che Vincent stava interpretando il ruolo di Joe Spinell, il soffia, in Il Padrino II.
— Avevo bisogno di sostituire un paio di scene — dissi. — Troppi elementi visivi per poter cancellare. Una delle due è una scena di ballo. Tu per caso conosci qualcuno che sappia ballare? — Lo scrutai, in cerca di un segno, di un’indicazione che lui ricordasse Alis, la conoscesse, e se la fosse voluta scopare talmente tanto da incollare la sua faccia su una dozzina di ballerine. Niente. Nemmeno una pausa nei sussulti.
— Un po’ di tempo fa è venuta una faccia a un paio di party — continuai. — Molto carina, capelli castano chiaro. Voleva ballare nei film.
Niente. Mayer non c’entrava.
— Lascia perdere le ballerine — disse. — Lascia perdere L’uomo che visse nel futuro. Togli il maledetto alcol “e basta”! Voglio quel che resta dell’elenco finito per lunedì, o non lavorerai mai più per l’ILMGM!
— Può contare su me, signor Potter — risposi, e gli lasciai dire che mi avrebbe bloccato il conto.
— Ti voglio sobrio! — urlò. Stranamente, lo ero.
Tolsi la Ninna nanna del liquore distillato di frodo da Anna, prendi il fucile e i narghilè da Il mendicante di Baghdad per fargli vedere che gli avevo dato retta, poi cominciai a passare in rassegna gli anni Quaranta in cerca di alcol e di Alis: due piccioni con una fava. Lei era in Ribalta di gloria e in un numero di I ragazzi di Broadway, dove indossava lo stesso scamiciato della sera che era venuta a chiedermi i dischi ottici.
Hedda entrò mentre stavo guardando Tre ragazze in blu, che conteneva molte gonne gonfie e Vera-Ellen, ma non Alis.
— Ho trovato il dirigente — disse. — Adesso lavora per la Warner. Dice che stanno considerando la possibilità di assorbire l’ILMGM.
— Come si chiama?
— Non ha voluto dirmi niente. Dice che non hanno prodotto Ovunque nel tempo perché non sono riusciti a decidere se farlo con Vivien Leigh o Marilyn Monroe.
— Gli parlerò io. Come si chiama?
Hedda esitò. — Ho parlato anche con i techno. Hanno detto che l’anno scorso hanno trasmesso immagini facendole passare attraverso una regione di antimateria e hanno riscontrato interferenze che hanno interpretato come una discrepanza temporale, ma non sono riusciti a duplicare i risultati e adesso pensano che si trattasse di trasmissioni da un’altra fonte.
— Una discrepanza temporale grande quanto? — chiesi.
Lei prese un’aria poco allegra. — Ho chiesto se siano in grado di duplicare i risultati, di spedire una persona indietro nel passato, e mi hanno detto che se anche funzionasse parlavano solo di elettroni, non di atomi, e che è impossibile che un essere vivente sopravviva a una regione di antimateria.
Ma il peggio doveva ancora venire. Hedda era ferma accanto alla porta, come Clara Bow in Ali, riluttante a darmi la cattiva notizia.
— L’hai trovata in altri film? — mi chiese.
— Sei. E se non si è servita del viaggio nel tempo, deve essere entrata nello schermo come Mia Farrow. Perché non sono copia-e-incolla. E Mayer non c’entra.
— C’è un’altra spiegazione. — Il tono di Hedda era tutt’altro che felice. — Per un po’ tu sei rimasto completamente fuori. Uno dei film che ho visto parlava di un alcolizzato.
— Giorni perduti. Ray Milland. — Avevo già afferrato l’antifona.
— Quando beveva, aveva vuoti di memoria. Faceva cose che poi non riusciva a ricordare. — Hedda mi guardò. — Tu conoscevi la sua faccia. E avevi gli accessi.
DANA ANDREWS: [Chino sulla scrivania del sergente di polizia] Non è stata lei, glielo dico io.
BRODERICK CRAWFORD: Davvero? Allora chi è stato?
DANA ANDREWS: Non lo so, ma so che non può essere stata lei. Non è quel tipo di ragazza.
BRODERICK CRAWFORD: Be’, qualcuno è stato. [Socchiudendo sospettoso gli occhi] Magari è stato lei. Lei dov’era quando hanno ucciso Carson?
DANA ANDREWS: Stavo facendo una passeggiata.
Era la spiegazione più probabile. Io ero un esperto di copia-e-incolla. E la sua faccia mi era rimasta impressa nella mente da quando avevo avuto il flash. E avevo un accesso da dirigente di studio. Movente e occasione.
Desideravo Alis, e lei desiderava ballare nei film, e nel meraviglioso mondo della CG tutto è possibile. Ma se fossi stato io, non le avrei dato due miserabili minuti in un balletto. Avrei cancellato Doris Day e i suoi denti e permesso ad Alis di ballare davanti agli specchi di quella grande sala. Se avessi conosciuto il numero, il che non era. Non avevo mai nemmeno visto Tè per due.
Oppure “non ricordavo” di averlo visto. Subito dopo l’episodio dello scivolo, Mayer mi aveva accreditato i soldi per una mezza dozzina di western che non ricordavo di avere ripulito. Ma se fossi stato io, non l’avrei infilata in una di quelle stupide gonne gonfie. Non l’avrei fatta ballare con Gene Kelly.
Avevo messo un controlla-e-avverti su Fred Astaire e Cenerentola a Parigi. Lo spostai su Balla con me e chiesi un rapporto sulla causa. La decisione del tribunale era vicina, ma si attendeva una controazione legale, e anche la SSF stava pensando di intervenire.
La Società per la Salvaguardia dei Film. Registrava automaticamente ogni minimo cambiamento, e gli studios non avevano alcun controllo sulla Società. Mayer non era riuscito a farmi scavalcare tutti quei codici perché erano parte integrante del sistema di trasmissione via cavo a fibre ottiche. Se si trattava di un incollaggio, doveva risultare nei loro archivi.
Chiamai i file della SSF e chiesi i dati su Sette spose.
Leguleio. Mi ero dimenticato che c’era una causa in corso. — Cantando sotto la pioggia — dissi.
C’erano le cancellazioni che avevo fatto alla scena del party, assieme a un’altra che non era opera mia. — Fotogramma 9-106 — c’era scritto, con le coordinate e i dati. Il bocchino di Jean Hagen. Lo aveva fatto scomparire la Lega Antifumo.
— Tè per due. — Tentai di ricordare i numeri di fotogramma della scena del charleston, ma era superfluo. Sullo schermo non c’era scritto niente.
Col che restava il viaggio nel tempo. Mi rimisi al lavoro sui musical, ripetendo: — Il prossimo, per favore — ai numeri di conga e alle file di ballerini e a un orribile numero con un bianco che aveva faccia e mani tinte di nero. Incredibile che nessuno lo avesse ancora cancellato. Alis era in Cancan e in Susanna agenzia squillo, entrambi girati nel 1960. Non mi aspettavo di trovare molto dopo quella data. In quegli anni, il musical era diventato una faccenda da grandi budget, il che significava acquistare i diritti degli spettacoli di Broadway e farli interpretare sullo schermo da campioni d’incasso come Audrey Hepburn e Richard Harris, cioè gente che non sapeva né cantare né ballare, e per nascondere quella verità i numeri musicali venivano semplicemente eliminati. Dopo di che, il musical si era dedicato alle grandi questioni sociali. Come se fosse stato necessario piantare qualche altro chiodo sulla bara.
Però nei musical degli anni Sessanta e Settanta c’era una bella quantità di alcol, anche se c’era poco ballo. Un padre marcio di gin in My Fair Lady, una squinzia marcia di gin in Oliver, un intero branco di minatori marci di gin in La ballata della città senza nome. E poi saloon, birra, whisky, liquoracci da due soldi, un Lee Marvin che crollava a terra sbronzo (il quale Marvin non sapeva né cantare né ballare, ma del resto non sapevano farlo nemmeno Clint Eastwood o Jean Seberg, e chi se ne frega? C’è sempre il doppiaggio). Gli anni Venti inzuppati di gin in un film di Lucilie Ball (che non sapeva nemmeno recitare; l’apice della depravazione), Mame.
E Alis come ballerina di fila in Addio mister Chips e Il boyfriend. Eseguiva la tapioca in Millie, sgambettava al ritmo di Put on Your Sunny Clothes in Hello Dolly!, in vestitino azzurro cielo e parasole.
Andai a Burbank. E magari il viaggio nel tempo era possibile. Erano trascorsi per lo meno due semestri, ma gli studenti erano ancora lì. E Michael Caine teneva la stessa lezione.
— Sono state prospettate molte ragioni per spiegare la fine del musical — stava intonando. — L’escalation dei costi di produzione, le complicazioni tecnologiche create dallo schermo panoramico, la scarsa fantasia negli allestimenti dei numeri. Ma la vera ragione è più profonda.
Io restai sulla soglia ad ascoltare il suo elogio funebre, mentre gli studenti prendevano rispettosi appunti sui loro palmtop.
— La morte del musical non è dovuta a catastrofi di regia e di cast, ma a cause naturali. Semplicemente, il mondo ritratto dal musical non esisteva più.
Il monitor che Alis aveva usato per provare era ancora lì, come le sedie ammonticchiate, solo che adesso ce n’erano molte di più. Michael Caine e gli studenti erano pigiati in uno spazio troppo stretto per una beguine, e le sedie non erano state mosse da un pezzo. Erano coperte di polvere.
— Il musical degli anni Cinquanta dipingeva un mondo di speranze innocenti e innocui desideri. — Caine borbottò qualcosa al computer, e apparve Julie Andrews, seduta sul fianco di una collina con chitarra e bambini assortiti. Strana scelta per la sua tesi dei “tempi più semplici”, visto che il film era stato girato nel 1965, l’anno dell’intervento americano in Vietnam. Per non parlare del fatto che era ambientato nel 1939, in piena era nazista.
— Erano tempi più solari, meno complicati, tempi in cui il lieto fine era ancora credibile.
Lo schermo mostrò Vanessa Readgrave e Franco Nero, circondati da soldati con torce e spade. Camelot. — Quel mondo idilliaco è morto, e con esso il musical hollywoodiano, che non risorgerà mai.
Aspettai che gli allievi fossero usciti e lui si fosse fatto la sua fiutata di neve, poi gli chiesi se sapesse dove fosse Alis, per quanto lo ritenessi inutile: lui non l’avrebbe mai aiutata, e l’ultima cosa di cui Alis potesse avere bisogno era qualcun altro pronto a ripeterle che il musical era morto.
Lui non se la ricordava nemmeno, neanche dopo che lo ebbi ammorbidito con la chocha, e si rifiutò di darmi l’elenco degli studenti che avevano seguito il corso con Alis. Potevo ottenerlo da Hedda, ma non volevo scatenare la sua commiserazione, farle pensare di essere impazzito. Charles Boyer in Angoscia.
Tornai alla mia stanza, tolsi da Carousel le bevute di Billy Bigelow e metà della trama, poi andai a letto.
Mezz’ora dopo il computer mi destò da un sonno profondo con un casino come quello del reattore di Sindrome cinese. Barcollai fino allo schermo e restai a sbattere le palpebre per cinque minuti buoni prima di rendermi conto che era il controlla-e-avverti. Quindi Sette spose non doveva più essere conteso. Mi occorse un altro minuto per capire quale comando dovessi dare.
Non si trattava di Sette spose. Si trattava di Fred Astaire, e la decisione della corte stava scorrendo sullo schermo: RICHIESTA DI PROPRIETÀ INTELLETTUALE RESPINTA, RICHIESTA DI FORMA D’ARTE NON RIPRODUCIBILE RESPINTA, RICHIESTA DI PROPRIETÀ SUL LAVORO ESEGUITO IN COLLABORAZIONE RESPINTA. Il che significava che gli eredi di Fred e la RKO-Warner dovevano avere perso, e che l’ILMGM, dove Fred aveva trascorso tanti anni a rimediare alle pecche di partner che non sapevano ballare, aveva vinto.
— Balla con me — dissi, e guardai iniziare la beguine esattamente come la ricordavo: stelle e pavimento lucido ed Eleanor in bianco, a fianco di Fred.
Non lo avevo mai guardato da sobrio. Avevo creduto che il silenzio, l’aria rapita, quella sensazione di immobile bellezza fossero effetto del klieg, ma non lo erano. Ballavano agili, leggeri, su un pavimento nero e lucido, con le mani che arrivavano appena a sfiorarsi, ed erano muti e immobili come la sera in cui ero rimasto a osservare Alis che li guardava. Erano la realtà del ballo.
E quel mondo innocuo, innocente, non era mai esistito. Nel 1940 Hitler bombardava a tappeto l’Inghilterra e deportava già ebrei sui carri bestiame. I dirigenti degli studios eseguivano manovre di corridoio contro la guerra e concludevano affari. Il vero Mayer dirigeva lo studio e le starlet si lasciavano scopare sul divano del produttore per una particina di cinque secondi. Fred ed Eleanor giravano cinquanta, cento ciak in uno studio caldo, senza aria, e tornavano a casa a mettere a mollo i piedi che sanguinavano.
Non era mai esistito quel mondo di pavimenti cosparsi di stelle e capelli illuminati da dietro e agili piroette, e il pubblico del 1940, guardandolo, sapeva che non esisteva. Ed era quello il suo fascino: non il fatto di riflettere “tempi più solari, meno complicati”, ma il fatto di essere impossibile. Il fatto di essere ciò che il pubblico desiderava e non avrebbe mai potuto avere.
Sullo schermo riapparve il leguleio. Il ricorso era già stato presentato, e io non avevo visto finire il numero, non lo avevo registrato su nastro o su disco.
Ma non importava. Quella era Eleanor, non Alis, e nonostante tutto ciò che potesse pensare Hedda, nonostante apparisse molto logico, non ero stato io a intervenire. Perché se lo avessi fatto, causa legale o no, avrei messo Alis lì, a ballare fianco a fianco con Fred, a girare la testa per rivolgergli quel sorriso deliziato.
SCENA DI MONTAGGIO: primissimo piano su uno schermo di computer. I titoli di testa si dissolvono l’uno nell’altro: South Pacific, Il trionfo della vita, Alla fiera per un marito, Musica indiavolata, L’allegra fattoria.
Dopo un po’ finii i film da guardare. Tornai a Hollywood Boulevard, ma nessuno si ricordava di lei e nessuno aveva un digitrasparente, a parte È Nata Una Stella, che aveva già chiuso con tanto di saracinesca. Le altre lezioni seguite da Alis erano state quelle sulla tecnologia della trasmissione via cavo a fibre ottiche, e la sua compagna di stanza, molto fatta, aveva l’impressione che Alis fosse tornata a casa.
— Ha messo tutto in valigia — disse. — Ha preso su tutta la roba che aveva, costumi e parrucche eccetera, e se n’è andata.
— Quanto tempo fa?
— Non so. L’altra settimana, mi sembra. Prima di Natale.
Parlai con la compagna di stanza cinque settimane dopo avere visto Alis in Sette spose. Al termine della sesta settimana avevo finito i musical. Non erano poi molti, e li avevo guardati tutti, fatta eccezione per quelli non disponibili per via di Fred. E di Ray Bolger, sul quale la Paramount chiese il copyright il giorno dopo la mia spedizione a Burbank.
La corte decise sul caso Russ Tamblyn, e così un bip mi svegliò nel cuore della notte per dirmi che qualcuno aveva ottenuto il diritto di stuprare e squartare Russ sul grande schermo. Richiamai la scena della costruzione del fienile e guardai anche West Side Story, per precauzione. Alis non c’era.
Riguardai il numero di Un giorno a New York e tutto Femmine bionde, convinto che contenesse qualcosa d’importante che mi stava sfuggendo. Era un remake di Gold Diggers of 1933, ma non era questo a tormentarmi. Richiamai tutti i numeri sullo schermo in ordine di difficoltà, dal più semplice al più difficile, probabilmente sperando di ricavare qualche indizio sulle mosse successive di Alis, ma non servì a niente. Sette spose per sette fratelli era la cosa più difficile che avesse fatto, e l’aveva fatta sei settimane prima.
Preparai un elenco dei film in base a data, casa di produzione e interpreti, poi eseguii un controllo incrociato dei dati. E per un po’ rimasi lì a fissare l’assoluta mancanza di risultati significativi. E gli schermi.
Bussarono alla porta. Mayer. Spensi gli schermi e cercai di pensare a un film da richiamare che non fosse un musical, ma mi si era svuotata la mente. — Scandalo a Filadelfia — dissi alla fine. — Fotogramma 115-010 — e urlai: — Avanti!
Era Hedda. — Sono venuta a dirti che Mayer è incazzato al fulmicotone perché non gli hai più mandato film. — Si mise a guardare lo schermo: la scena del matrimonio. Tutti quanti, Jimmy Stewart, Cary Grant, erano raccolti attorno a Katharine Hepburn, che aveva un grosso cappello e i postumi della sbronza.
— Corre voce che Arthurton farà arrivare un nuovo tizio, in teoria per dirigere l’Editing — disse Hedda — ma in realtà per fargli da assistente, nel qual caso Mayer è fuori.
Bene, pensai. Se non altro il macello finirà. Ma se Mayer fosse stato licenziato, io avrei perso il mio accesso e non avrei mai trovato Alis.
— Ci sto lavorando — dissi, e mi lanciai in una complessa spiegazione sul perché fossi ancora fermo su Scandalo a Filadelfia.
— Mayer mi ha offerto un lavoro — disse Hedda.
— Allora adesso che ti ha assunta come corpocaldo ti sta a cuore che non lo silurino, e sei venuta a raccomandarmi di darmi da fare?
— No. Non corpocaldo. Assistente ai set. Parto oggi pomeriggio per New York.
Era l’ultima cosa che mi aspettassi. Mi girai a guardarla e scopersi che indossava gonna e blazer. Hedda nella parte di una dirigente di uno studio.
— Parti? — ripetei, incredulo.
— Oggi pomeriggio. Sono venuta a darti il mio numero di accesso. — Tirò fuori un foglio. — È asterisco nove due punto otto tre tre — e mi porse il pezzo di carta.
Io lo guardai. Mi aspettavo il numero, ma era un elenco di titoli di film.
— In nessuno di questi c’è gente che beve — disse Hedda. — Corrispondono a circa tre settimane di lavoro. Per un po’ dovrebbero placare Mayer.
— Grazie. — Ero stupefatto.
— Betsy Booth colpisce ancora — disse lei.
Devo avere avuto l’aria di chi non capisce.
— Judy Garland. Love Finds Andy Hardy. Te l’ho detto che ho guardato un sacco di film. È per questo che ho ottenuto quel lavoro. L’assistente ai set deve conoscere tutti i set e i filmati di repertorio e gli ambienti e riuscire a ritrovarli per il techno. Così non se ne digitalizzano di nuovi e si risparmia memoria.
Indicò lo schermo. — Scandalo a Filadelfia ha una biblioteca pubblica, la redazione di un giornale, una piscina, e una Packard del 1936. — Sorrise. — Ricordi quando mi hai detto che i film ci insegnano a recitare la nostra parte e ci danno le battute da pronunciare? Avevi ragione. Però avevi torto sulla mia parte. Hai detto che era quella di Thelma Ritter, ma non è vero. — Agitò la mano in direzione dello schermo, del gruppo nuziale. — Era la parte di Liz.
Fissai le immagini pensoso, incapace per un momento di ricordare chi fosse Liz. La precoce sorellina di Katharine Hepburn? No, un minuto. L’altra reporter, la ragazza di Jimmy Stewart che aveva sofferto per tanto tempo.
— Ho interpretato Joan Blondell — disse Hedda. — Mary Stuart Masterson, Ann Sothern. La ragazza della porta accanto, la segretaria innamorata del suo boss, solo che lui non si accorge mai di lei, pensa che sia soltanto una ragazzina. Lui è innamorato di Tracy Lords, ma Joan Blondell lo aiuta lo stesso. È pronta a fare tutto per lui, pensino a guardare film.
Infilò le mani nelle tasche del blazer, e io mi chiesi quando diavolo avesse smesso di portare il vestito col top e i guanti di raso rosa.
— La segretaria gli resta fedele. Rimane al suo fianco e gli dà consigli. Addirittura lo aiuta nella sua storia d’amore, perché sa che alla fine del film lui si accorgerà di lei, si renderà conto di non poter andare avanti senza lei, capirà che Katharine Hepburn è la donna completamente sbagliata per lui e scoprirà di essere sempre stato innamorato della segretaria. — Hedda mi guardò. — Ma i film non sono la vita, giusto? — chiese tetra.
I suoi capelli non erano più biondo platino. Erano castano chiaro con le mèche. — Hedda… — dissi.
— Tutto okay. Ho già capito. È quel che succede a prendere troppo klieg. — Sorrise. — Nella vita reale, Liz deve togliersi Jimmy Stewart dalla mente, accontentarsi di essergli amica. Farò un provino per una nuova parte. Joan Crawford, magari?
Scossi la testa. — Rosalind Russell.
— Be’, come minimo Melanie Griffith. In ogni caso, io parto oggi pomeriggio, e volevo solo salutarti e farmi augurare buona fortuna.
— Sarai grande — le dissi. — Tra sei mesi sarai la proprietaria dell’ILMGM. — La baciai su una guancia. — Tu sai tutto.
— Già.
Si avviò alla porta. — Alla tua salute, ragazzo — disse.
La guardai scomparire in corridoio, poi rientrai nella stanza. Studiai l’elenco che Hedda mi aveva dato. Conteneva più di trenta film. Quasi una cinquantina. Quelli in fondo avevano qualche nota: “Fotogramma 14-1968, bottiglia sul tavolo” e: “Fotogramma 102-166, un’allusione alla birra”.
Avrei dovuto richiamare i primi dodici e spedirli a Mayer per calmarlo, ma non lo feci. Restai seduto sul letto a guardare l’elenco. Accanto a Casablanca Hedda aveva scritto: “Un caso disperato”.
— Ciao — disse Hedda dalla soglia. — Sono di nuovo Tess Truehart. — E restò lì, a disagio.
— Cosa c’è? — chiesi, alzandomi. — Mayer è tornato?
— Lei non è nel 1950. — Gli occhi di Hedda evitarono i miei. — È a Sunset Boulevard. L’ho vista.
— In Sunset Boulevard?
— No. Sullo scivolo.
Non in una linea temporale parallela. O in una terra fatata dove la gente penetra nello schermo e si infila nei film. Qui. Sullo scivolo. — Le hai parlato?
Lei scosse la testa. — Era mattina. L’ora di punta. Stavo tornando dal mio colloquio con Mayer e l’ho appena intravista con la coda dell’occhio. Lo sai com’è l’ora di punta. Ho cercato di raggiungerla in mezzo alla folla, ma quando sono riuscita a farmi strada lei era già scesa.
— Perché avrebbe dovuto fermarsi a Sunset Boulevard? L’hai vista scendere?
— Te l’ho detto, l’ho solo intravista tra la folla. Si trascinava dietro degli apparecchi. Ma deve essere scesa a Sunset Boulevard. È l’unica stazione alla quale ci siamo fermati.
— Hai detto che aveva degli apparecchi. Che tipo di apparecchi?
— Non lo so. Apparecchi. Te l’ho detto, l’ho…
— L’hai solo intravista. E sei sicura che fosse lei?
Hedda annuì. — Non volevo dirtelo, ma è difficile scrollarsi di dosso la parte di Betsy Booth. Ed è difficile odiare Alis, dopo tutto quello che ha fatto. — Gesticolò in direzione delle proprie immagini riflesse sugli schermi. — Guardami. Libera dalla chocha, libera dal klieg. — Si girò a fissarmi. — Ho sempre voluto essere nei film, e adesso ci sono.
Ripartì in corridoio.
— Hedda, aspetta — dissi, e me ne pentii subito. Avevo paura di incontrare, quando si fosse voltata, un viso colmo di speranza, e occhi gonfi di lacrime.
Ma quella era Hedda, che sa tutto.
— Come ti chiami? — chiesi. — Ho soltanto il tuo accesso, e ti ho sempre chiamato solo Hedda.
Lei mi sorrise con molta consapevolezza e molta tristezza. Emma Thompson in Quel che resta del giorno. — Mi piace Hedda — disse.
Movimento della macchina da presa fino a un campo medio: l’insegna della stazione LAIT. Scritte sullo schermo: LOS ANGELES ISTANTRANSITO a grandi lettere rosa vivo, SUNSET BOULEVARD in giallo.
Infilai in tasca il disco coi numeri di Alis e presi lo scivolo. Non c’era nessuno, a parte un gruppetto di turi con le orecchie da topo, una Marilyn molto fatta, ed Elizabeth Taylor, Sidney Poitier, Mary Pickford, Harrison Ford che emergevano l’uno dopo l’altro dalla nebbia dorata dell’ILMGM. Tenni d’occhio l’insegna, in attesa di Sunset Boulevard. Chissà che diavolo ci faceva Alis. Lì non c’era proprio niente, a parte la vecchia superstrada.
La Marilyn mi si avvicinò, traballante. Il suo vestito bianco col top era sporco, macchiato, e dietro un orecchio aveva un’impronta di rossetto.
— Vuoi farti una scopatina? — chiese. Non guardava me, ma Harrison Ford sullo schermo alle mie spalle.
— No, grazie — risposi.
— Okay — disse lei, docile. — E tu che ne dici? — Non aspettò che io o Harrison Ford le rispondessimo. Se ne andò e poi tornò indietro. — Sei il dirigente di uno studio?
— No, mi spiace.
— Io voglio essere nei film — disse lei, e ripartì.
Tenni gli occhi puntati sullo schermo. Ridiventò argenteo per un secondo, fra un trailer e l’altro, e io vidi me stesso: pulito, responsabile, sobrio. Jimmy Stewart in Mr. Smith va a Washington. Logico che Marilyn mi avesse scambiato per un dirigente.
Sull’insegna luminosa apparve la scritta SUNSET BOULEVARD e scesi. La zona non era cambiata. Continuava a non esserci niente, nemmeno i lampioni. La superstrada abbandonata incombeva scura al chiarore delle stelle. Vedevo in distanza, sotto uno degli svincoli, un falò.
Impossibile che Alis fosse lì. Doveva avere visto Hedda ed essere scesa per impedirle di scoprire quale fosse la sua vera destinazione. E qual era?
Era apparsa un’altra luce, un sottile fascio bianco che avanzava verso di me. Probabilmente svitati in cerca di vittime. Tornai allo scivolo.
La Marilyn era ancora lì. Seduta in mezzo al pavimento a gambe divaricate, frugava sul palmo della mano tra le pillole in cerca di chocha, klieg, o che altro. Le uniche attrezzature che servano a una battitrice libera, pensai, il che significava che qualunque cosa Alis stesse facendo, per lo meno non batteva; e mi resi conto di essermi sentito molto sollevato da quando Hedda mi aveva raccontato di avere visto Alis con quegli apparecchi, anche se non sapevo dove fosse. Se non altro, non si era messa a battere.
Erano le due e mezzo di notte. Hedda aveva visto Alis all’ora di punta; mancavano ancora quattro ore. Ammesso che Alis si recasse tutti i giorni allo stesso posto. Ammesso che non stesse semplicemente traslocando coi suoi bagagli. Ma Hedda non aveva parlato di bagagli. Apparecchi, aveva detto. E non poteva trattarsi di computer e monitor perché Hedda li avrebbe riconosciuti, e in ogni caso era roba leggera. Hedda aveva parlato di “trascinarsi dietro”. Cosa? Una macchina del tempo?
La Marilyn si era alzata, spargendo capsule in giro, e, superata la striscia gialla, si stava dirigendo verso la parete sulla quale sfilava ancora la cavalcata di star dell’ILMGM.
— No! — strillai, e l’afferrai per il braccio, a una trentina di centimetri dalla parete.
Lei mi guardò. Aveva le pupille completamente dilatate. — È la mia fermata. Devo scendere.
— Hai sbagliato strada, Corrigan. — La feci ruotare su se stessa, verso l’uscita. L’insegna diceva BEVERLY HILLS, e come destinazione della Marilyn non mi pareva molto probabile. — Dove volevi scendere?
Lei scrollò via la mia mano, si girò di nuovo verso lo schermo.
— L’uscita è di là. — Puntai l’indice.
Lei scosse la testa e indicò Fred Astaire che stava emergendo dalla nebbia. — Voglio passare da lì — disse, e crollò a sedere. La gonna bianca si allargò a cerchio. Lo schermo diventò argenteo, rifletté la forma seduta della ragazza che stava tentando di pescare su un palmo vuoto; poi ricomparve la nebbia dorata. L’inizio dei promo dell’ILMGM.
Fissai la parete, che non sembrava una parete, o uno specchio. Sembrava quel che era, una nebbia di elettroni, un velo disteso sul vuoto, e per un minuto tutto mi parve assolutamente possibile. Per un minuto pensai: Alis non è scesa a Sunset Boulevard. Non è mai scesa dallo scivolo. Ha attraversato lo schermo, come Mia Farrow, come Buster Keaton, ed è arrivata nel passato.
Quasi potevo vederla in gonna nera e giubbetto verde e guanti. Scompariva nella nebbia dorata ed emergeva su un Hollywood Boulevard pieno di automobili e di palme e di sale prova con le pareti a specchio.
— Tutto è possibile — ruggì la voce fuori campo.
La Marilyn era di nuovo in piedi e si dirigeva verso la parete di fronte a me.
— Non da quella parte — dissi, e schizzai avanti.
Buon per lei che quella volta non si era avviata verso uno degli schermi. Non ce l’avrei mai fatta. Quando la raggiunsi stava picchiando con entrambi i pugni sulla parete.
— Lasciami scendere! — urlò. — È la mia fermata!
— L’uscita è da questa parte — le dissi, e cercai di strattonarla via, ma doveva avere in corpo roba micidiale. Il suo braccio era ferro.
— Devo scendere qui. — Si mise a picchiare coi palmi delle mani. — Dov’è la porta?
— La porta è di là. — Mi chiesi se anch’io fossi stato in quelle condizioni, la sera che Alis mi aveva riportato a casa da Burbank. — Di qui non si può scendere.
— Lei lo ha fatto — disse la Marilyn.
Mi girai a guardare la parete in fondo, poi di nuovo la ragazza. — Chi lo ha fatto?
— “Lei”. È passata diritta attraverso la porta. L’ho vista. — E la Marilyn mi vomitò in faccia.
CLICHÉ CINEMATOGRAFICO N. 12: La morale. Un personaggio asserisce l’ovvio, e tutti afferrano l’antifona.
VEDERE: Il mago di Oz, L’uomo dei sogni, Love Story, Ciao Pussycat.
Feci scendere la Marilyn a Wilshire e la portai al pronto soccorso. A quel punto si era quasi svuotata del tutto lo stomaco. Restai un po’ per assicurarmi che si facesse ricoverare.
— Sei sicuro di avere il tempo di farlo? — mi chiese. Adesso non somigliava poi troppo a Marilyn. Sembrava di più Jodie Foster in Taxi Driver.
— Sono sicuro. — Avevo tutto il tempo che volevo, adesso che sapevo dove fosse Alis.
Mentre lei riempiva moduli, io chiamai Vincent. — Ho una domanda — gli dissi senza preamboli. — E se uno prendesse un fotogramma e lo sostituisse con un fotogramma identico? Così si riuscirebbe a scavalcare i controlli del cavo?
— Un fotogramma identico? Che senso avrebbe?
— Sarebbe possibile?
— Suppongo di sì — rispose Vincent. — È per Mayer?
— Già. E se immettessi una nuova immagine che corrispondesse alla vecchia? I controlli se ne accorgerebbero?
— Corrispondere in che senso?
— Un’immagine diversa che sia la stessa.
— Sei fatto — disse Vincent, e chiuse.
Non importava. Sapevo già che i programmi di controllo non erano in grado di percepire la differenza. La cosa avrebbe richiesto troppa memoria. E, come aveva detto Vincent, che senso aveva sostituire un’immagine con un’altra perfettamente identica?
Aspettai che Marilyn fosse a letto, sotto una fleboclisi di ridigaine, poi tornai allo scivolo. Dopo LaBrea la stanza rimase completamente deserta, ma solo alle tre e mezzo riuscii a trovare la porta di servizio della sezione chiusa, e impiegai fino alle cinque passate per aprirla.
Per un po’ mi preoccupai all’idea che Alis l’avesse sbarrata dall’interno, ed effettivamente lo aveva fatto, ma senza volerlo. Un cavo a fibre ottiche era appoggiato alla porta, però dopo che ebbi forzato la serratura mi bastò spingere.
Lei era voltata verso la parete a schermo, che a quell’ora avrebbe dovuto essere spenta, solo che non lo era. Al centro dello schermo, Peter Lawford e June Allyson stavano dando una dimostrazione del varsity drag in una palestra piena zeppa di studenti universitari in abiti da sera e smoking. June portava un abito rosa e scarpe rosa con tacchi alti e pompon, come Alis. I capelli di tutte e due erano tagliati alla paggio.
Alis aveva sistemato il digitrasparente sopra la sua custodia. Accanto, sul pavimento, c’erano il miscelatore e il pixar. Il cavo a fibre ottiche correva lungo la striscia gialla, passava davanti alla porta e arrivava all’alimentazione dello scivolo. Spinsi via il cavo dalla porta, ma piano, per non scollegarlo, e socchiusi la porta quel tanto da poter vedere. Poi rimasi lì, nascosto a metà sulla soglia, a guardare Alis.
— Giù sulle calcagna — spiegò Peter Lawford — su in punta di piedi — ed eseguì un passo triplo. Alis, armata di telecomando, corse alla fine della canzone e si fermò all’inizio del ballo. Restò a guardare attentissima, contando i passi. Tornò indietro alla fine della canzone. Premette un pulsante e tutti si immobilizzarono a metà di un passo.
Veloce, con quelle stupide scarpe rosa a tacco alto raggiunse il retro dello scivolo, lontano dallo schermo, e premette il pulsante. Peter Lawford cantò: — Ecco come si fa.
Alis depositò il telecomando sul pavimento. Il suo vestito a gonna lunga frusciò quando lei si chinò. Poi, di corsa, tornò al segno che aveva tracciato sul pavimento. In piedi, oscurava completamente June Allyson, tranne che per una mano e per un minuscolo lembo della gonna rosa. Aspettò il suo momento.
Che arrivò. Alis si chinò sulle calcagna, si rialzò in punta di piedi, e si lanciò in un charleston. Alle sue spalle, con quel particolare angolo, June era come una gemella, un’ombra. Mi spostai nella posizione giusta per poterla vedere con lo stesso angolo del digitrasparente. June Allyson scomparve, restò soltanto Alis.
Mi ero aspettato che June Allyson venisse cancellata dallo schermo come era stato fatto con la principessa Leia per la turi grassa a È Nata Una Stella, ma Alis non stava girando un video per i parenti, non stava nemmeno tentando di proiettare la propria immagine sullo schermo. Stava semplicemente provando. Aveva collegato il digitrasparente al cavo a fibre ottiche tramite il processore perché era così che le avevano insegnato a usarlo sul lavoro. Dal punto in cui mi trovavo potevo vedere che la spia della registrazione era spenta.
Mi rintanai di nuovo sulla soglia. Alis era più alta di June Allyson, e la stoffa del suo vestito era di un rosa più luminoso di quello di June, ma l’immagine che il digitrasparente ritrasmetteva al cavo era la versione corretta, con colore e illuminazione e messa a fuoco regolati al punto giusto. E in alcuni di quei numeri di ballo, provati per ore e ore nella sezione chiusa al pubblico dello scivolo, eseguiti una e dieci e cento volte, l’immagine corretta era stata talmente simile all’immagine originale che i meccanismi di controllo non se n’erano accorti, talmente identica che l’immagine di Alis aveva scavalcato tutte le protezioni del sistema per arrivare direttamente alla fonte delle trasmissioni via cavo. E Alis era riuscita a fare l’impossibile.
Fece una piroetta, si fermò, tornò al telecomando con le sue scarpe a pompon, diede l’indietro veloce fino a metà del numero, appena prima della piroetta, e mise il fermo immagine. Lanciò un’occhiata all’orologio del digitrasparente, poi premette un pulsante e corse al segno sul pavimento.
Le restava ancora mezz’ora al massimo, dopo di che avrebbe dovuto scollegare le sue apparecchiature, riportarle a Hollywood Boulevard, ricollegarle e aprire bottega. Non avrei dovuto interromperla. Potevo farle vedere il mio disco un’altra volta, e avevo scoperto quello che volevo sapere. Avrei dovuto chiudere la porta e lasciarla alle sue prove. Ma non lo feci. Restai lì, appoggiato allo stipite, a guardarla ballare.
Ripeté altre tre volte la parte centrale del numero, rendendo sempre più fluida la piroetta, poi tornò indietro alla fine della canzone e rifece tutto da capo. Il suo viso era attento, intenso, come lo era stato quella sera mentre guardava il continental, ma non possedeva l’estasi deliziata, il rapito abbandono della beguine.
Mi chiesi se fosse perché stava ancora imparando il numero, o se invece sarebbe stato sempre così. Il sorriso che June Allyson rivolgeva a Peter Lawford era soddisfatto, non gioioso, e il numero in sé del varsity drag era appena così così. Non era certo Cole Porter.
E in quel momento, guardandola ripetere pazientemente, all’infinito, gli stessi passi, come doveva avere fatto Fred, tutto solo in una sala prove ancora prima che iniziassero le riprese del film, capii di essermi sbagliato su Alis.
Avevo pensato che, come Ruby Keeler e l’ILMGM, credesse che tutto sia possibile. Avevo tentato di dirle che non lo è, che il semplice desiderare una cosa non significa poterla ottenere. Ma lei lo sapeva già, molto prima di conoscere me, molto prima di arrivare a Hollywood. Fred Astaire era morto l’anno della sua nascita, e lei non avrebbe mai, mai, mai potuto, nonostante la realtà virtuale e la computer grafica e i copyright, ballare la beguine con lui.
E tutto quello, i costumi e i corsi universitari e le prove dei numeri, erano semplicemente un sostituto, qualcosa da fare al posto della realtà. Come combattere nella Resistenza. A paragone di ciò che Alis era stata tanto sfortunata da desiderare, scavarsi una piccola nicchia in una Hollywood popolata di marionette e magnaccia doveva esserle parso un gioco da ragazzi.
Peter Lawford prese la mano di June Allyson, e Alis sbagliò nel girarsi e barcollò malamente. Andò a raccogliere il telecomando per tornare indietro, lanciò un’occhiata all’insegna della stazione, e mi vide. Restò a guardarmi per un lungo momento, poi si spostò in avanti e spense il digitrasparente.
— Non… — le dissi.
— Non cosa? — Lei si mise a scollegare le macchine. Infilò un camice bianco sopra il vestito rosa. — Non perdere tempo a cercare un maestro di ballo perché non ne esistono più? — Abbottonò il camice, si spostò a scollegare il cavo. — Come puoi vedere, me ne sono già resa conto. A Hollywood nessuno sa ballare. E se qualcuno lo sa, è fatto di chocha per cercare di dimenticare. — Cominciò ad arrotolare il cavo. — Tu sei fatto?
Alzò gli occhi sull’insegna della stazione, poi mise il cavo arrotolato sopra il digitrasparente e si inginocchiò davanti al miscelatore, nel fruscio della gonna. — Perché se sei fatto non ho il tempo di accompagnarti a casa e impedirti di cadere nella parete dello scivolo e frenare le tue avance. Devo riportare indietro questa roba. — Sistemò il pixar nella custodia e la chiuse.
— Non sono fatto di droga — dissi. — E non sono ubriaco. Ti sto cercando da sei settimane.
Alis sollevò il digitrasparente, lo mise nella custodia, cominciò a riporre i cavi elettrici. — Perché? Per potermi convincere che non sono Ruby Keeler? Che il musical è morto e che i computer possono fare meglio qualunque cosa io sappia fare? Benissimo. Ne sono convinta.
Sedette sulla custodia e slacciò le fibbie delle scarpe rosa. — Hai vinto. Non posso ballare nei film. — Si girò a guardare la parete a specchio, con una scarpa in mano. — È impossibile.
— No — le risposi. — Non sono venuto a dirti questo.
Lei infilò le scarpe in una tasca del camice. — Allora cosa sei venuto a dirmi? Che rivuoi indietro il tuo elenco di accessi? Benissimo. — Infilò i piedi in un paio di mocassini e si alzò. — Tanto ho già imparato quasi tutti i numeri da ballerina di fila e da prima ballerina, e continuare da sola non mi porterà da nessuna parte. Dovrò trovarmi un partner.
— Non rivoglio indietro i miei accessi — dissi.
Lei si tolse la parrucca a paggetto e scrollò quei meravigliosi capelli illuminati da dietro. — Allora cosa vuoi?
Te, pensai. Voglio te.
Alis raddrizzò le spalle di scatto e infilò la parrucca nell’altra tasca. — Di qualunque cosa si tratti, dovrà aspettare. — Si sistemò su una spalla il cavo a fibre ottiche. — Devo andare a lavorare. — Si chinò a raccogliere le custodie.
— Lascia che ti aiuti. — Mi incamminai verso lei.
— No, grazie — rispose Alis, appoggiandosi il pixar sull’altra spalla e raccogliendo il digitrasparente. — Posso fare da sola.
— Allora ti terrò la porta aperta. — E spalancai la porta.
Lei attraversò la soglia.
L’ora di punta. Pieno zeppo da parete a parete di Ray Milland e Rosalind Russell che andavano al lavoro. Nessuno si voltò a guardare Alis. Guardavano tutti le pareti, che erano all’apice dell’attività: ILMGM, più copyright di quanti ce ne siano in cielo. Il promo di Beverlv Hills Cop 15, il promo del remake di I tre moschettieri.
Chiusi la porta alle mie spalle, e un River Phoenix, accoccolato sulla striscia gialla, alzò gli occhi da una lametta da rasoio, dal palmo pieno di polvere bianca, ma era troppo fatto per capire cosa stesse vedendo. Il suo sguardo non si mise nemmeno a fuoco.
Alis era già al centro dello scivolo, con gli occhi puntati sull’insegna delle stazioni. Quando lampeggiò HOLLYWOOD BOULEVARD, si fece strada verso l’uscita, tallonata da me. Sbucammo sul Boulevard.
Era ancora buio pesto, ma tutto era aperto. E c’erano già (o magari ancora) turi in giro. Due tizi vecchiotti in bermuda, armati di videocamere, guardavano Ryan O’Neal salvare la vita di Ali McGraw al Felici E Contenti.
Alis si fermò alla saracinesca di È Nata Una Stella e armeggiò con la serratura. Cercò di inserire la tessera senza depositare un solo pezzo della sua attrezzatura. I due turi si avvicinarono.
— Faccio io — dissi, e le presi la tessera. Sollevai la saracinesca e tolsi il digitrasparente dalla mano di Alis.
— Avete Charles Bronson? — chiese uno dei due vegliardi.
— Non siamo ancora aperti — gli risposi. — Ho qualcosa da farti vedere — dissi ad Alis.
— Cosa? L’ultimo spettacolo di marionette? Un programma che fa automaticamente le prove per un numero di ballo? — Lei cominciò a sistemare il digitrasparente. Collegò i cavi elettrici, il cavo a fibre ottiche, posizionò il digitrasparente.
— Ho sempre voluto recitare in Il giustiziere della notte — disse il vegliardo. — Lo avete?
— Non siamo “aperti” — lo informai.
— Eccole il menu — disse Alis, e fece apparire il menu per il vegliardo. — Non abbiamo Charles Bronson, però abbiamo una scena di I magnifici sette. — Puntò l’indice.
— È una cosa che devi vedere, Alis — dissi io, e inserii il disco ottico. Per fortuna era tutto già pronto, non dovevo richiamare niente. Sullo schermo apparve Un giorno a New York.
— Ho dei clienti da… — cominciò Alis, e si bloccò.
Avevo preparato il disco per “Il prossimo, per favore” dopo quindici secondi. Un giorno a New York scomparve e apparve Cantando sotto la pioggia.
Alis si girò verso me, furibonda. — Perché hai…
— Non sono stato io. Sei stata tu. — Indicai lo schermo. Era partito lo spezzone di Tè per due, e Alis, in riccioli rossi, avanzava in primo piano a tempo di charleston.
— Non è un copia-e-incolla — dissi. — Guarda bene. Sono i film che hai provato, no? Giusto?
Sullo schermo, Alis danzava col parasole azzurro.
— La sera che ci siamo conosciuti hai parlato di Cantando sotto la pioggia. E alcuni degli altri avrei potuto indovinarli. Sono tutte riprese e inquadrature uniche. — Indicai la sua figura in gonna azzurra. — Però io non sapevo nemmeno in quale film ci fosse questo numero.
Lo schermo passò a Cappelli in aria. — E alcuni non li avevo mai visti.
— Ma io non ho… — disse Alis, fissando lo schermo.
— Il digitrasparente fa una sovrapposizione sull’immagine che arriva dal cavo e la mette su disco — le spiegai. — Quell’immagine torna indietro sul circuito di trasmissione, e la fonte che trasmette sul cavo a fibre ottiche esegue controlli randomizzati sui pixel e rifiuta automaticamente le immagini che sono state modificate. Solo che tu non stavi cercando di modificare l’immagine. Stavi cercando di riprodurla. E ci sei riuscita. Hai ottenuto una corrispondenza perfetta di tutti i movimenti, talmente perfetta che il controllo browniano ha pensato che fosse la stessa immagine, talmente perfetta che l’immagine è stata accettata ed è finita sulla fonte che trasmette via cavo. — Sventolai la mano sullo schermo, dove lei stava ballando in Quarantaduesima strada.
Alle nostre spalle, il vegliardo chiese: — Chi c’è nella scena dei Magnifici sette? — ma Alis non gli rispose. Guardava i numeri di ballo che scivolavano via, attenta. La sua espressione era indecifrabile.
— Quanti ce ne sono? — mi chiese, continuando a guardare lo schermo.
— Io ne ho trovati quattordici. Tu invece hai provato più numeri, giusto? Sei riuscita a scavalcare i programmi di controllo praticamente solo con ballerine che abbiano all’incirca la tua stessa corporatura e ti somiglino in viso. Hai provato con Ann Miller?
— Baciami Kate!
— Come pensavo. Ann Miller ha un viso troppo rotondo. Non le somigli tanto da poter superare i controlli. Ha funzionato solo quando esisteva già una somiglianza. — Indicai lo schermo. — Ce ne sono altri due che non ho potuto mettere su disco perché sono in corso azioni legali. Bianco Natale e Sette spose per sette fratelli.
Lei si girò verso me. — Sette spose? Sei sicuro?
— Sei presente nella scena della costruzione del fienile. Perché?
Lei si girò verso lo schermo. Fissò accigliata Shirley Temple che ballava con lei e Jack Haley, in uniformi militari. — Forse… — disse tra sé.
— Ti avevo detto che ballare nei film è impossibile — le dissi. — Mi sbagliavo. Eccoti lì.
In quel momento lo schermo si svuotò d’immagini, e il vegliardo chiese: — E quel tizio con poncho, cappellaccio e sigaro? Lo avete?
Allungai la mano per far ripartire il disco, ma Alis si era già voltata.
— Temo che non abbiamo nemmeno Clint Eastwood. La scena dei Magnifici sette ha Steve McQueen e Yul Brynner — disse. — Vuole vederla? — E si mise a battere i codici di accesso.
— Deve raparsi? — chiese l’amico del vegliardo.
— No. — Alis afferrò camicia, pantaloni e cappello neri. — Ci pensa il digitrasparente. — Cominciò a preparare tutto per la registrazione su nastro. Spiegò al vegliardo dove mettersi e cosa fare, ignara del suo amico, che stava ancora parlando di Charles Bronson, ignara di me.
Be’, cosa mi aspettavo? Che esplodesse di gioia nel vedersi sullo schermo, che mi gettasse le braccia al collo come Natalie Wood in Sentieri selvaggi? Non avevo fatto proprio niente. Al di là del dirle che era riuscita a fare qualcosa che non aveva cercato di fare, qualcosa che aveva rifiutato su quello stesso Boulevard.
— Yul Brynner — disse disgustato l’amico del vegliardo. — È non hanno Charles Bronson.
Sullo schermo era riapparso Un giorno a New York. Alis lo fece sparire senza battere ciglio e lo sostituì con I magnifici sette.
— Vuoi Charles Bronson e ti danno Steve McQueen — mugugnò il vegliardo. — Ti costringono sempre a scegliere roba di seconda mano.
È questo che mi piace nei film. C’è sempre un personaggio secondario che ti spiega la morale della storia, nel caso uno fosse troppo fesso per arrivare a capirla da sé.
— Non ottieni mai quel che vuoi — disse il vegliardo.
— Già — dissi io. — Casa dolce casa. — E mi avviai allo scivolo.
VERA MILES: [Correndo al recinto del bestiame, dove RANDOLPH SCOTT sta sellando il cavallo] Voleva andarsene così? Senza nemmeno dirmi addio?
RANDOLPH SCOTT: [Stringendo lo straccale del cavallo] Ho una faccenda da sistemare. E lei deve prendersi cura di un giovanotto. Gli ho tolto la pallottola dal braccio, ma bisogna fasciarlo. [RANDOLPH SCOTT infila il piede nella staffa e monta a cavallo]
VERA MILES: La rivedrò? Come farò a sapere che non le è successo niente?
RANDOLPH SCOTT: Non credo che mi succederà qualcosa. [Solleva il cappello in segno di saluto] Abbia cura di sé, signora. [Tira le redini del cavallo e si avvia verso il tramonto]
VERA MILES: [urlando nella direzione di RANDOLPH SCOTT] Non dimenticherò mai quello che ha fatto per me! Mai!
Tornai a casa e mi misi al lavoro. Feci per prime le cose più importanti: riportare il rito dell’accensione della sigaretta in Perdutamente tua, rimettere l’uranio nella bottiglia di vino in Notorious, fare tornare sbronzo il cavallo di Lee Marvin in Cat Ballou. E poi mi diedi da fare coi film che mi piacevano: Ninotchka e Rio Bravo e La fiamma del peccato. E Sette spose, che tornò disponibile il giorno dopo il mio incontro con Alis. Il computer stava lanciando i suoi bip quando mi svegliai. Rimisi il drink di Howard Keel e la bottiglia di whisky nella scena iniziale, poi corsi in avanti veloce fino alla costruzione del fienile e ritrasformai la padella di fagioli in una brocca prima di guardare di nuovo Alis.
Peccato che non avessi potuto mostrarle quel film. Era rimasta tanto sorpresa all’idea di avere ingannato il cavo. Doveva avere avuto grossi problemi, e c’era poco da stupirsi: le ballerine venivano sollevate di continuo in aria, e lei non aveva uno straccio di partner. Chissà che razza di attrezzature aveva dovuto trascinare in Hollywood Boulevard, e poi sullo scivolo, per ottenere l’effetto della sospensione a mezz’aria. Sarebbe stato bello farle vedere che espressione felice avesse mentre si librava nel vuoto.
Registrai su disco la scena della costruzione del fienile. La aggiunsi alle altre, nel caso gli eredi di Russ Tamblyn o la Warner fossero ricorsi in appello, poi cancellai ogni traccia delle mie ultime mosse, nel caso Mayer si fosse messo a fare una ricerca col Cray.
Pensavo di avere due settimane, forse tre se la Columbia avesse davvero rilevato l’ILMGM. Mayer doveva essere talmente preso a cercare di decidere su quale carrozzone saltare da non avere il tempo per preoccuparsi di alcol e sigarette. Come Arthurton. Pensai di chiamare Hedda, che senz’altro era al corrente degli ultimi sviluppi, poi decisi che era una cattiva idea. E comunque, era probabile che anche lei fosse impegnata con le sue brave acrobazie per non perdere il posto.
Come minimo, una settimana. Quanto bastava per ridare a Myrna Loy i postumi della sbronza e guardare il resto dei musical. Li avevo già trovati quasi tutti, tranne Good News e The Birds and the Bees. Già che c’ero, rimisi la dulce la leche in Bulli e pupe, e il brandy in My Fair Lady, e riportai Frank Morgan al rango di ubriaco in Summer Holiday. Il lavoro fu più lento di quanto prevedessi, e dopo una settimana e mezzo mi interruppi e trasferii tutto ciò che Alis aveva fatto su disco e su nastro. Aspettandomi che Mayer bussasse alla mia porta da un momento all’altro, attaccai Casablanca.
Bussarono alla porta. Diedi l’avanti veloce sino alla fine, dove il bar di Rick era ancora pieno di limonata. Estrassi il disco di Alis, me lo infilai in una scarpa, e andai ad aprire.
Era Alis.
Il corridoio alle sue spalle era buio, ma i suoi capelli raccolti a crocchia intercettavano luce da chissà dove. Aveva un’aria stanca, come avesse appena smesso di provare. Indossava ancora il camice bianco. Intravedevo sotto calzettoni bianchi e scarpe in pelle, e due o tre centimetri di crespe rosa. In cosa si era esercitata? Il numero Abba-Dabba Honeymoon di Due settimane d’amore? O qualcosa da By the Light of the Silvery Moon?
Infilò la mano nella tasca del camice e tirò fuori il disco che le avevo dato. — Sono venuta a riportartelo — mi disse.
— Tienilo.
Lei lo guardò per qualche secondo, poi lo rimise in tasca. — Grazie. — Lo tirò fuori di nuovo. — Mi sorprende che tanti dei miei numeri ce l’abbiano fatta. Quando ho cominciato non ero molto brava. — Rigirò il disco. — Non sono ancora molto brava.
— Sei brava quanto Ruby Keeler.
Lei sorrise. — Era la ragazza di qualcuno.
— Sei brava quanto Vera-Ellen. E Debbie Reynolds. E Virginia Gibson.
Lei corrugò la fronte. Guardò il disco e poi di nuovo me, come stesse cercando di decidere se dirmi qualcosa o no. — Hedda mi ha raccontato del suo lavoro — disse. Ma non era tutto lì. — Assistente ai set. Grande. — Puntò gli occhi sullo schermo, dove Bogart stava facendo un brindisi a Ingrid. — Mi ha detto che stai riportando i film a quello che erano.
— Non tutti i film. — Indicai il disco che lei aveva in mano. — Certi remake sono meglio degli originali.
— Non ti licenzieranno? Se rimetti dentro l’alcol e tutto il resto…
— È quasi certo — risposi. — Ma è di gran lunga la migliore, migliore cosa che io abbia fatto in vita mia. E…
— Le due città. Ronald Colman — disse lei, guardando lo schermo sul quale Bogart stava dicendo addio a Ingrid, poi il disco, di nuovo lo schermo. Stava cercando di decidere cosa dire.
Lo dissi io per lei. — Sei in partenza.
Lei annuì, sempre senza guardarmi.
— Dove vai? Torni a River City?
— Una battuta di Il capobanda. — Ma Alis non sorrise. — Non posso andare avanti da sola. Ho bisogno di qualcuno che mi insegni il lavoro di piedi di Eleanor Powell. E ho bisogno di un partner.
Per un solo momento, no, nemmeno un momento, solo per il fugace passare di un fotogramma, pensai a quel che sarebbe potuto accadere se io non avessi trascorso quel lungo semestre di sbronza continua a smantellare cocktail, se lo avessi invece trascorso a Burbank, a fare pratica di piroette.
— Dopo quello che mi hai detto l’altra sera, ho pensato che per le elevazioni potrei usare un’imbracatura e una cintura dati, e ho tentato. Funziona, più o meno. Insomma…
La sua voce si interruppe su un tono d’imbarazzo, come se lei avesse voluto aggiungere dell’altro. Chissà cosa. E cosa le avevo detto, esattamente? Che forse Fred sarebbe uscito dalle dispute legali?
— Ma l’equilibrio non è giusto. Se ci fosse una persona in carne e ossa sarebbe diverso — disse. — E io ho bisogno di imparare sul serio le routine di ballo. Non è sufficiente copiarle dallo schermo.
Quindi se ne andava da qualche parte dove giravano ancora livelilm. — Dove? — chiesi. — Buenos Aires?
— No. In Cina. In Cina.
— Girano dieci livefilm l’anno — disse Alis.
E ogni anno fanno venti purghe. Per non parlare delle sollevazioni delle province. E delle sommosse contro gli stranieri.
— I loro livefilm non sono un gran che. A dire il vero, sono orribili. Sono quasi tutti film di propaganda e di arti marziali, però l’anno scorso hanno girato un paio di musical. — Un sorriso malinconico. — Amano Gene Kelly.
Gene Kelly. Però sarebbero stati numeri veri. E il braccio di un uomo attorno alla sua vita al posto di una cintura dati, le mani di un uomo che l’avrebbero sollevata in aria. La realtà.
— Parto domani mattina — disse. — Stavo preparando i bagagli e ho trovato il disco e ho pensato che magari tu lo potessi volere indietro.
— No — risposi; e poi, per non trovarmi costretto a dirle addio: — Da dove parti?
— San Francisco. Ci vado stasera con lo scivolo. E non ho ancora finito di fare le valigie. — Alis mi guardò. Aspettava che io dicessi la mia battuta.
E avevo solo l’imbarazzo della scelta. Se c’è una cosa in cui i film sono forti, sono le frasi d’addio. Da: “Fai attenzione, amore!” a: “Non chiediamo la luna quando abbiamo le stelle” a: “Torna, Shane!” Persino: “Hasta la vista, piccola”.
Ma non ne dissi nemmeno una. Restai lì a guardarla, a fissare quei suoi stupendi capelli illuminati da dietro e quel viso indimenticabile. A guardare quello che desideravo e che non potevo avere, nemmeno per pochi minuti.
E se le avessi detto: “Non partire”. Se avessi promesso di trovarle un maestro di ballo, farle ottenere una parte, allestire uno spettacolo? E già. Con un Cray che aveva forse dieci minuti di memoria, un Cray che mi sarebbe stato tolto appena Mayer avesse scoperto cosa stavo facendo?
Sullo schermo alle mie spalle Bogart stava dicendo: “Qui non c’è posto per te” e guardava Ingrid, cercando di far durare quel momento per l’eternità. Sullo sfondo, le eliche dell’aereo cominciavano a girare, e di lì a un minuto sarebbero arrivati i nazisti.
Restarono a guardarsi, e negli occhi di Ingrid si gonfiarono le lacrime, e Vincent poteva pasticciare per secoli col suo programma del pianto e non avrebbe mai ottenuto il vero articolo. O forse sì. Avevano girato Casablanca con ghiaccio secco e cartone. Ed era così reale.
— Devo andare — disse Alis.
— Lo so. — Le sorrisi. — Avremo sempre Parigi.
E stando alla sceneggiatura, lei avrebbe dovuto rivolgermi un ultimo sguardo di desiderio e salire sull’aereo con Paul Henreid, e come mai io non avevo ancora imparato che Hedda ha sempre ragione?
— Addio — disse Alis, e poi era tra le mie braccia, e io la baciavo, la baciavo, e lei sbottonava il camice, scioglieva i capelli, sbottonava il vestito rosa, e una parte di me stava pensando “Questa è una cosa importante”, ma lei si era già tolta il vestito, e i pantaloni, e adesso l’avevo sul mio letto, e lei non svanì, non si morphò in Hedda, io ero sopra lei e dentro lei, e ci muovevamo assieme, fluidi, senza sforzo, con le mani tese che si sfioravano senza toccarsi sulle lenzuola stropicciate.
Tenni lo sguardo puntato sulle sue mani mentre mi abbassavo e rialzavo nella passione. Sapevo che se avessi guardato il suo viso si sarebbe impresso per l’eternità nella mia mente come un fotogramma fermo, klieg o non klieg, e avevo paura che guardarla potesse significare scoprire che lei mi guardava con dolcezza o, peggio ancora, non mi guardava affatto. Perché stava guardando, attraverso me, oltre me, due persone che ballavano su un pavimento striato di stelle.
— Tom! — disse quando venne, e io la guardai. I suoi capelli erano sciolti sul cuscino, illuminati da dietro e bellissimi, e il suo viso era attento come lo era stato quella sera al party, mentre guardava Fred e Ginger sullo schermo, rapito e meraviglioso e triste. E, finalmente, puntato su me.
CLICHÉ CINEMATOGRAFICO N. 1: Il lieto fine. Non richiede spiegazioni.
VEDERE: Ufficiale e gentiluomo, Un amore splendido, Insonnia d’amore, Il miracolo del villaggio, Voglio danzar con te, Grandi speranze.
Sono passati tre anni, e nel frattempo in Cina ci sono state quattro sollevazioni nelle province e sei rivolte studentesche, e Mayer è passato attraverso tre assorbimenti e otto boss, il penultimo dei quali lo ha promosso vicepresidente.
Mayer non si rese conto del fatto che stavo rimettendo l’alcol nei film da quasi tre mesi, e a quel punto io avevo completato tutta la serie dell’Uomo Ombra, Il mistero del falco e tutti i western, e Arthurton era sulla rampa di lancio.
Hedda, ancora nella parte di Joan Blondell, convinse Mayer a non uccidermi e a tenere un toccante discorso sul tema “La Censura e il Profondo Amore per i Film”, dopo di che Mayer venne licenziato in modo spettacolare giusto in tempo per essere riassunto dal suo nuovo boss come “l’unica persona dotata di morale in questa intera città corrotta.”
Hedda venne promossa direttore dei set e poi (dal penultimo boss) assistente produttore addetto ai Nuovi Progetti, e mi assunse immediatamente per dirigere un remake. Lieto fine per tutti.
Nel frattempo, io programmai i lieto fine per Felici E Contenti e mi laureai e continuai a cercare Alis. La trovai in Pennies from Heaven e Into the Woods, l’ultimo musical che sia mai stato girato, e in La provinciale. Credevo di avere trovato tutto. Fino a stasera.
Ho riguardato la scena di Indy, scrutando le scarpette argentee e le parrucche biondo platino e pensando al musical. Indiana Jones e il tempio maledetto non è un musical. Anything Goes è l’unico numero di ballo che contenga, e c’è solo perché una delle scene si svolge in un nightclub, e lo spettacolo nel night è quello.
E forse è questo il modo giusto di procedere. Nemmeno il remake che sto preparando è un musical, è uno strappalacrime su due innamorati perseguitati dal fato, ma potrei cambiare la scena nella sala da pranzo dell’hotel e ambientarla in un night-club. E poi, appena arriverà il nuovo boss, fare un remake che si svolga tutto in un nightclub, e metterci dentro Fred (che a quel punto non sarà più conteso in tribunale), in un solo numero. In Carioca interpretava appunto un solo numero. Era sui trent’anni, sulla via della calvizie, sapeva appena ballicchiare, e guardate com’è andata a finire.
E prima che qualcuno se ne possa rendere conto, Mayer racconterà a tutti che il musical sta tornando, e mi daranno da fare il remake di Quarantaduesima strada e scoprirò dove diavolo sia Alis e ci metteremo a lavorare sullo scivolo e allestiremo uno spettacolo. Tutto è possibile.
Persino il viaggio nel tempo.
L’altro giorno ho chiamato Vincent per farmi prestare il suo programma di editing, e lui mi ha detto che il viaggio nel tempo è fottuto. — Eravamo vicini “così”, — Il suo pollice e l’indice quasi si toccavano. — In teoria, l’effetto Casimir dovrebbe funzionare per il tempo come per lo spazio, ma hanno mandato immagini su immagini in una regione di antimateria, e niente. Nessuna sovrapposizione. Mi viene da pensare che forse certe cose non sono possibili.
Si sbaglia. La sera prima di partire, Alis mi ha detto: “Dopo quello che mi hai detto l’altra sera, ho pensato che magari per le elevazioni potrei usare un’imbracatura e una cintura dati” e io mi ero chiesto cosa le avessi detto, e quando le avevo fatto vedere il disco coi suoi numeri lei aveva commentato: “Sette spose per sette fratelli? Sei sicuro?”.
“Non è sul disco” le avevo detto. “C’è in ballo una causa legale.” Il film era rimasto inaccessibile fino al giorno dopo. E controllando avevo scoperto che lo era stato per tutte le settimane in cui io avevo cercato Alis.
E prima di allora, per altri otto mesi, chiuso in una camera blindata comperata dalla Società per la Salvaguardia dei Film. La sera in cui lo avevo visto, Sette spose era tornato disponibile esattamente da due ore. E un’ora dopo era di nuovo conteso in tribunale.
Alis aveva lavorato a È Nata Una Stella per soli sei mesi. Sette spose era rimasto bloccato per tutto quel periodo. Fino a dopo che io avevo ritrovato Alis. Fino a dopo che le avevo detto di averla vista in quel film. E quando l’avevo informata, lei aveva chiesto: “Sette spose per sette fratelli? Sei sicuro?”. E io avevo pensato che fosse sorpresa perché i salti e i balzi in aria erano così difficili, sopresa perché non aveva mai cercato di sovrimporre la sua immagine a quella della ballerina sullo schermo.
Sette spose era tornato disponibile solo il giorno dopo.
E una settimana e mezzo più tardi Alis era venuta da me. Era arrivata diritta dallo scivolo, dalle sue prove con l’imbracatura e la cintura dati che pensava potessero funzionare, dopo quello che le avevo detto io sere prima. E avevano funzionato. “Più o meno” aveva detto Alis. “Insomma…”.
Era venuta nella mia stanza diritta dalle sue prove, col vestito rosa di Virginia Gibson, coi pantaloni di Virginia Gibson, col costume per la scena della costruzione del fienile che aveva appena provato. La scena nella quale io l’avevo vista ballare sei settimane prima che lei la provasse. E quindi, a conti fatti la mia teoria del suo viaggio all’indietro nel tempo era giusta, anche se si trattava solo della sua immagine, solo di pixel su uno schermo. Alis non aveva cercato nemmeno di scoprire il viaggio nel tempo. Aveva cercato solo di imparare dei numeri di ballo, ma lo schermo davanti al quale provava non era uno schermo. Era una regione d’antimateria, piena di elettroni randomizzati e potenziali sovrapposizioni. Piena di possibilità.
Niente è impossibile, Vincent, penso guardando Alis che sgambetta nel suo costume coi lustrini. Non quando sai quello che vuoi.
Hedda mi ha chiamato. — Mi sbagliavo. Il trimotore Ford è all’inizio del secondo Indy. Indiana Jones e il tempio maledetto. Dal fotogramma…
— L’ho trovato — le rispondo, fissando accigliato lo schermo sul quale Alis, in parrucca biondo platino, sta eseguendo un passo.
— Cosa c’è? — chiede Hedda. — Non va bene?
— Non sono sicuro. Quand’è che verrà decisa la causa su Fred Astaire?
— Tra un mese — risponde immediatamente lei. — Ma si ricomincerà subito. La Sofracima-Rizzoli intenterà causa per violazione di copyright.
— E cosa diavolo sarebbe la Sofracima-Rizzoli?
— Lo studio che possiede i diritti su un film di Fred Astaire degli anni Settanta. Un taxi color malva. Prima o poi si metteranno d’accordo. Facciamo tre mesi. Perché? — chiede, sospettosa.
— L’aereo di Carioca. Ho deciso che voglio quello.
— Un biplano? Ma non c’è bisogno di aspettare. Ci sono tonnellate di altri film con biplani. La caduta delle aquile, Ali, Avventurieri ai confini del mondo… — Si interrompe. Non sembra contenta. E già, in quel film c’è di mezzo la Cina.
— In Cina hanno lo scivolo?
— Scherzi? Sono fortunati ad avere le biciclette. E il minimo indispensabile da mangiare. Perché? — Il suo interesse si risveglia di colpo. — Hai scoperto dove sta Alis?
— No.
Hedda esita. Sta cercando di decidere se dirmi qualcosa. — L’assistente ai set è tornato dalla Cina. Dice che adesso la parola d’ordine è Rivoluzione Culturale numero tre. Roghi di libri, rieducazione. Hanno chiuso come minimo uno studio e arrestato tutti quelli che lavoravano al film.
Dovrei essere preoccupato, ma non lo sono, e Hedda, che sa tutto, parte immediatamente all’attacco.
— È tornata? Hai avuto sue notizie?
— No — rispondo, un po’ perché ho finalmente imparato a mentire a Hedda, un po’ perché è vero. Non so dove sia Alis, e non ho avuto sue notizie. Ma ho ricevuto un messaggio.
Fred Astaire è tornato disponibile un paio di volte da quando Alis è partita, una volta tra un’istanza e l’altra per otto secondi esatti, un’altra il mese scorso quando l’American Film Institute ha presentato un’ingiunzione sostenendo che Fred è patrimonio storico.
Quella volta ero pronto. Avevo registrato il numero della beguine su disco ottico, computer e nastro ed ero pronto a controllare prima ancora che il controlla-e-avverti avesse smesso di strillare.
Era notte fonda, come al solito, e all’inizio ho pensato di dormire ancora o di avere un ultimo flash.
— Ingrandisci il quadrante in alto a sinistra — ho detto, e ho guardato di nuovo. E di nuovo. E poi il mattino dopo.
Ho visto sempre la stessa cosa, e il messaggio era forte e chiaro: Alis sta bene, nonostante le sommosse e le rivoluzioni, e ha trovato un posto dove provare e qualcuno che le insegni i passi di Eleanor Powell. E tornerà qui, perché in Cina non ci sono scivoli, e quando sarà tornata ballerà la beguine con Fred Astaire.
O forse lo ha già fatto. Io l’ho vista nel numero del fienile di Sette spose sei settimane prima che lei lo eseguisse, e ne sono passate quattro da quando l’ho vista in Balla con me. Forse è già tornata. Forse lo ha già fatto.
Ma non credo. Ho promesso all’attuale James Dean di È Nata Una Stella una fornitura a vita di chocha se mi avvertirà nel caso qualcuno toccasse il digitrasparente, e Fred è ancora conteso in tribunale. E io non so quanto indietro nel tempo possa spingersi la sovrapposizione. Io l’ho semplicemente vista in Sette spose sei settimane prima che lei eseguisse il numero. Non ho modo di sapere da quanto tempo l’immagine di Alis fosse nel film. Da meno di due anni, perché la prima volta che ho guardato Quarantaduesima strada, quando ho cominciato il lavoro sull’elenco di Mayer, lei non c’era, e okay, lo so che ero sbronzo e Alis avrebbe anche potuto sfuggirmi. Ma non è stato così. Riconoscerei il suo viso ovunque.
Quindi, meno di due anni. E Hedda, che sa tutto, dice che fra tre mesi Fred sarà di nuovo disponibile.
Nel frattempo, mi tengo occupato. Faccio remake e cerco di farli bene. Sto tentando di convincere Mayer a chiedere all’ILMGM di mettere sotto copyright Ruby Keeler ed Eleanor Powell. Lavoro nella Resistenza. Ho escogitato un lieto fine per Casablanca.
La guerra è finita, e Rick è tornato a Casablanca dopo avere combattuto nella Resistenza, dopo chissà quali prove. Il Café Américain è bruciato, e non c’è più nessuno, nemmeno il pappagallo, nemmeno Sam, e Bogie resta a guardare a lungo le macerie, poi si mette a frugare in cerca di qualcosa da recuperare.
Trova il pianoforte, ma quando lo rimette in piedi metà dei tasti cadono. Pesca una bottiglia intatta di scotch dai detriti e la mette sul tavolo e comincia a cercare un bicchiere. E appare lei, ferma su quel che resta della soglia dell’ingresso.
È diversa, ha i capelli raccolti all’indietro, ed è più magra, ha un’aria più stanca. Basta guardarla per capire che Paul Henreid è morto e che lei ha sofferto molto, ma quel viso si riconoscerebbe ovunque.
Lei è lì sulla porta, e Bogie, che sta ancora cercando un bicchiere, alza gli occhi e la vede.
Niente dialoghi. Niente musica. Niente abbracci appassionati, nonostante le arretrate idee di Hedda. Soltanto loro due, che non avrebbero mai pensato di rivedersi, che stanno lì a guardarsi.
Quando avrò finito il remake, metterò a disposizione dei turi il mio finale di Casablanca a Felici E Contenti.
Nel frattempo, devo dividere i miei sfortunati innamorati e spedirli a subire disgrazie assortite, a pagare per i loro peccati. E mi occorre un aereo.
Metto il numero Anything Goes su disco e sul computer, nel caso Kate Capshaw finisse al centro di una vertenza legale, e poi raggiungo in avanti veloce il trimotore Ford e salvo anche quello, nel caso mi andasse male col biplano.
— Avventurieri ai confini del mondo — dico, poi cancello l’ordine prima che il film possa comparire.
— Simultanea. Schermo uno, Il tempio maledetto. Due, Cantando sotto la pioggia. Tre, Good News…
Recito l’intera litania, e Alis appare sugli schermi, l’uno dopo l’altro, in pantaloni e gonna larga e giubbetto verde, coda di cavallo e riccioli rossi e taglio alla maschietta. Il suo viso ha la stessa espressione in tutte le scene, attento, intenso, concentrato sui passi e sulla musica, ignaro di avere vinto le crittografie e i controlli browniani e il tempo.
— Schermo diciotto. Sette spose per sette fratelli — e lei piroetta in avanti e balza tra le braccia di Russ Tamblyn. E anche lui ha vinto il tempo. Tutti lo hanno vinto, Gene e Ruby e Fred, nonostante la morte del musical, nonostante i dirigenti degli studios e i tecno e i tribunali. Hanno vinto il tempo in un salto, un sorriso, un guizzo. Hanno catturato per un momento eterno ciò che noi vorremmo e non possiamo avere.
Ho lavorato troppo a lungo sugli strappalacrime. Devo procedere col lavoro che mi attende, scegliere un aereo, tenere pronto il sentimento per il Grande Addio dei miei innamorati.
— Cancella tutti gli schermi — dico. — Schermo centrale, Avventurieri ai confini… — e mi fermo e fisso lo schermo argenteo, con lo stesso sguardo di Ray Milland che vuole qualcosa da bere in Giorni perduti.
— Schermo centrale — dico. — Fotogramma 96-1100. Niente sonoro. Balla con me. — E mi siedo sul letto.
Ballano fianco a fianco, vestiti di bianco, persi nella musica che io non sento e nei passi che sono costati loro settimane di prove. Ballano agili, fluidi, senza sforzo. I capelli castano chiaro di lei sono illuminati da una luce che viene da chissà dove.
Alis volteggia in una piroetta, e la sua gonna bianca si gonfia nello stesso arco elegante di quella di Eleanor, controllo browniano o no, e anche quello deve averle richiesto settimane.
Al suo fianco, sereno, elegante, indifferente ai copyright e alle fusioni tra uno studio e l’altro, Fred batte coi piedi un ritmo veloce, e Alis gli fa eco, e gira la testa a sorridergli.
— Fermo immagine — dico, e lei si ferma, ancora girata, con la mano tesa che quasi tocca la mia.
Mi protendo in avanti, guardo il viso che ho continuato a vedere dalla sera che lei è apparsa sulla porta, il viso che riconoscerei ovunque. Avremo sempre Parigi.
— Avanti di tre fotogrammi e fermo immagine — dico, e lei mi scocca un sorriso felice, infinitamente promettente.
— Avanti in tempo reale — dico, ed ecco lì Alis dove deve essere: a ballare nei film.