— Bene — disse Ellud — stiamo cercando di risalire il più lontano possibile con quei documenti. Quando i canali ufficiali decidono di falsificare qualcosa, ci riescono lasciando pochissime tracce.
— Non importa. — Duun teneva la schiena dritta. La costola incrinata e la notte passata steso su Thorn rendevano lenti i suoi movimenti. Sedeva a gambe incrociate sul rialzo nell’ufficio di Ellud, con una tazza d’infuso di erbe in mano. Si godeva il calore e la quiete. — Mi congratulo con il concilio. Le notizie fornite dal servizio di sicurezza, vere o false che siano, spiegano la maniera in cui si è comportata.
— Giovane, brillante, e probabilmente indebitata fino al collo con qualcuno.
— Prova la Compagnia Dallen. Segui la pista e fai tutto il baccano che ti pare. Dovrebbe servire a tenere Shbit tranquillo per un po’.
— Sono imbarazzato per quanto è successo.
— Gli è costata parecchio. Un sacco di anni per creare quell’identità. Quello che non riesco a capire è come sia riuscita a fuggire dall’edificio senza lasciare tracce. Accidenti, come hanno fatto a nasconderle?
— Stiamo cercando di scoprire anche questo.
Duun fissò Ellud un momento, e si versò un’altra tazza di tè. Sollevò la tazza e guardò di nuovo Ellud. La faccia di Duun non aveva nessuna espressione e i suoi occhi sembravano di vetro. — Sta diventando un uomo, a parte tutto il resto. Prima o poi doveva succedere. Betan era una soluzione, quando l’ho scelta. Intuivo che aveva il coraggio sufficiente per trattare con lui. L’ho sottovalutata. Thorn, gli dei lo sanno, è in grado di badare a se stesso… fino a un certo punto. Come minimo lei era intenzionata a provocare un incidente. È l’ipotesi più probabile. Ma non dimentichiamoci che se le cose fossero andate in un certo modo, l’avrebbe probabilmente anche ucciso. Il coraggio di farlo non le mancava. Peccato che la Corporazione non l’abbia presa.
— Una libera hatani?
— Ci ho pensato. Non credo. Libera ghota, forse.
— Per gli dei, se pensavi una cosa simile…
— Il senno di poi. Può essere del medesimo vukun delle guardie del corpo di Shbit. Sono abili. Forse perfino una dei sicari della Compagnia Dallen. Certo ha combinato un pasticcio, se l’intenzione era di ucciderlo. Ma in fondo non era malvagia e io temo che la faccenda non sia poi — semplice. — Un altro sorso. — Non la troverai più, ormai, credo. Probabilmente è uscita dall’edificio. Cerca vecchi amici alla Sicurezza.
— Lo sto facendo.
— Probabilmente si è suicidata dopo aver fatto il suo rapporto. L’ho imbarazzata, e non nel suo giovanile pudore. Shbit penserà a far sparire il corpo. Francamente mi farebbe piacere se fosse andata da lui. Renderebbe molto più facili le soluzioni.
— A me questa faccenda non piace.
— Neanche a me. Può darsi che vada lo stesso da Shbit. Questa sconfitta dovrebbe tenerlo buono per un po’. Non può mettere in campo la sua testimone, adesso. È andato tutto all’aria: le accuse di assalto e violenza… — Duun respirò a fondo. Il disagio di Ellud era evidente. — Be’, è finita. Per il momento. Questa mattina l’ho messo al lavoro in palestra e mi sono rifiutato di rispondere alle sue domande. Poi gli ho dato un sedativo. In questo momento dorme, e c’è Hosi che lo sorveglia. Domani cambieremo la situazione a scuola. Penso che sia meglio. E grazie ai tuoi uomini. Mi piacerebbe tirarlo fuori, portarlo un po’ in campagna…
— Dei, no! Abbiamo appena avuto una falla nei sistemi di sicurezza. Vuoi che succeda di nuovo come a Sheon?
— … ma so che non è fattibile.
— Duun. Duun-hatani. — Ellud allungò una mano sulla scrivania, prese il foglio ottico e lo agitò. — Mi arrivano domande. Abbiamo una piccola falla che può provocare un maremoto, per l’amor del cielo, Duun! Non ci resta molto spazio di manovra. Voglio che il programma continui. Voglio che torni ai ritmi prestabiliti. Ti dico una cosa. Non c’è solo Shbit, adesso. Ci si sono messe anche le province. Riceviamo domande. Capisci?
— Ho sempre capito. C’è un limite, Ellud. La mente ha dei limiti. Voglio che Thorn sia tranquillo. Lo voglio in buona salute. È ormai a un buon punto. Ma bisogna lasciargli spazio.
— Non sa di Betan, vero?
— Come potrei spiegarglielo senza entrare nell’intera questione del concilio? È per questo che non ho potuto fermarla sul posto. Cosa avrei dovuto dirgli? C’è qualcuno che vuole ucciderti? Ci sono troppe cose che non capisce. Lascia che le ferite si rimarginino, prima che affronti il resto. — Duun guardò la tazza, la fece rotolare tra le due dita e la mise giù. — Prendi Sagot.
— Non può.
— Chiedilo a lei. No, le spiegherò io. È vecchia, astuta e femmina: la migliore combinazione possibile.
La guardia era ancora alla porta, la stessa di sempre, e Thorn si voltò per guardare quella che l’aveva scortato al piano superiore… non un’occhiata dura o vendicativa. (Lui ha avvisato Duun.) Dapprima Thorn aveva pensato a Cloen. Ma Thorn non aveva giocato d’astuzia. Non aveva pensato, in realtà, di coprire le sue tracce, né che fosse necessario.
Varcare quella porta, era tutto ciò che poteva fare. (“Betan se n’è andata”, gli aveva detto Duun il giorno prima. “È stata trasferita. Su sua richiesta.”) (“L’hai uccisa?” aveva chiesto Thorn, rabbrividendo una seconda volta. Non era una domanda razionale, forse; ma l’aria stessa gli sembrava fragile, piena di dubbi e d’inganni. Duun l’aveva allora guardato negli occhi, rispondendogli: “No. Niente del genere…”. Solennemente come Duun gli aveva sempre risposto e come gli aveva sempre detto le mezze verità, tenendolo lontano dal mondo fino a quanto Betan non ce l’aveva fatto entrare.)
(In che anno siamo?)
(Non avrei dovuto ridere. Sheon non è proprio la capitale del mondo, vero?)
Thorn entrò nell’anticamera, bianca di sabbia e di nude pareti; sul rialzo c’era un vaso solennemente ricolmo di ramoscelli d’albero. La sabbia mostrava i segni del rastrello, passato la sera prima e una singola fila d’impronte di piedi conduceva nella grande sala dove tutte le finestre erano bianche e nude.
La seguì e si fermò sulla soglia, di fronte ai rialzi scrivania, deserti. Le impronte conducevano alla scrivania più lontana, nella sala bianca, quella che era stata di Elanhen.
Uno sconosciuto sedeva lì, con le gambe incrociate e le mani sulle cosce. Il naso, la bocca e gli occhi erano bordati di bianco che sfumava nel grigio, tranne che sulla punta delle orecchie. La cresta era di un bianco candido. Le braccia magre. Thorn lo fissò pensando che doveva essere ammalato.
— Avvicinati. — Era una voce sottile, giusta per quel corpo. Thorn si avvicinò e rimase a guardare lo sconosciuto. — Tu sei Haras. Thorn.
(Dei, non lo sa?) Il riso era lì, pronto a sgorgare come sangue da una ferita, ma non poteva ridere in quel grande silenzio sterile. Era un uomo? D’improvviso Thorn sospettò di no, per delle ragioni che non avrebbe saputo ben definire. — Dov’è Elanhen? Dove sono Sphitti e Cloen?
— Mi chiamo Sagot. Perché mi fissi? C’è qualcosa in me che ti turba?
— Scusami. Dove sono gli altri?
— Sono andati via. Siediti. Siediti, Thorn.
Non sapeva come dire di no a una voce così gentile. Duun non gli aveva insegnato come dire no all’autorità. L’aveva imparato da solo; e il mondo era troppo pericoloso per opporsi avventatamente all’autorità. Si sedette sull’orlo del rialzo più vicino, con i piedi penzoloni.
— Mi chiamo Sagot. Non hai mai visto nessun vecchio fino ad ora, vero?
— No, Sagot. — Dire qualsiasi cosa gli sembrava difficile. (La vecchiaia. Dei, è così fragile… Dev’essere una donna, senz’altro. Diventerò anch’io così? E mi conosce… è un’amica di Duun.)
— D’ora in poi t’insegnerò io.
— E a loro no?
— No. Solo a te. Devo chiamarti Haras o Thorn? Cosa preferisci?
— Uno qualsiasi, Sagot. È lo stesso. — (Come devo chiamarla? È hatani? O un medico? Oh, Duun, fammi uscire di qui. Voglio i miei compagni. Perfino Cloen, se non Betan, almeno Sphitti! O Elanhen, o qualcuno che conosco!)
— Ho avuto due figli. Entrambi maschi. Sono cresciuti e hanno dei figli, e i loro figli hanno a loro volta dei figli, già grandi. È passato molto tempo da quando ho insegnato a un ragazzo. Mi è sempre piaciuto.
(O dei.) La gentilezza trovò una carne morbida e vi scivolò dentro come una lama; liberò le lacrime con tanta facilità che non ci fu modo di nasconderle. Thorn si coprì la faccia con le mani, svergognando se stesso e Duun, mentre il petto gli faceva male come se qualcosa si fosse spezzato dentro. Quando ebbe smesso di singhiozzare e di tremare, si fregò la faccia e il naso con le mani umide, e alzò gli occhi. L’educazione lo voleva.
— Sei un bravo giovane — disse Sagot. — Mi piaci.
— Menti, menti, è stato Duun a mandarti…
— È vero. Ma sei un bravo giovane lo stesso. Lo vedo. Posso vedere più di quanto immagini; ho educato troppi ragazzi per non averne trovato qualcuno che piangeva e mi confidava i suoi guai, ogni tanto; e anche ragazze… Ti dirò, ho conosciuto anche persone non più tanto giovani, che piangevano e tremavano per dispiaceri da loro considerati grandi. Simili tormenti sono come grandi bufere. Ti fanno bene. Investono le foreste e spezzano un po’ di rami. Ma segnalano i cambiamenti. Portano la nuova stagione. Rinnovano le cose. E questo è bene. I tuoi occhi sono luminosi… molto belli, anche se differenti. Sono azzurri, vero, quando non piangi?
— Lasciami in pace!
— È sorprendente quanto i giovani siano uguali; prima piangono, poi gridano. Lo so che fa male. Mi sono morti due mariti. So qualcosa del dolore.
— Sei hatani?
Lei sorrise. — Dei, no. Ma conosco Duun. Sai, un hatani sa fare un sacco di cose, ma quando si tratta di avere a che fare con gli altri… be’: la ragione non risolve tutto. “Prenditi cura di lui”, mi ha detto. “Sagot, parla con lui, insegnagli.” “E perché dovrei farlo?” ho detto io. “Ho il mio lavoro, ho delle cose da fare, ho quattordici pro-nipoti. Non ho bisogno di un altro ragazzo.” Ma poi ho pensato: è passato tanto tempo. Sono tutti cresciuti. Ho centocinquantanove anni, ragazzo mio; e ho viaggiato per tutto il mondo, ho seguito il corso dei fiumi, sono stata ai due poli, ho scritto dei libri… alcuni dei libri che stai studiando, tra l’altro; ho avuto nove mariti, amanti che ho dimenticato e altri che non ho dimenticato; ho medicato giovani ginocchia, aggiustato ossa, messo al mondo bambini, e visto abbastanza di questo mondo da non essere sconvolta da niente. Questa è la verità.
— Forse è per questo che Duun ti ha mandato da me. - Con amarezza. Fra una chiacchiera e l’altra, il dolore che sentiva al petto, grazie a Sagot, era cessato, e lui non sentiva più il desiderio di scappare. Rimase seduto con i piedi penzoloni, le mani in grembo, e le lacrime che si asciugavano sulla faccia nuda. (Ma la pelle di Betan era come seta e aveva lo stesso sapore del profumo che emanava…)
— Credo che tu non pensi abbastanza a te stesso — disse Sagot. — Va bene essere hatani, ma non sei solo quello: come non sei soltanto un paio di occhi o un paio di mani o il sesso fra le gambe. — (Thorn arrossì). — Oh, lo so, lo so, ragazzo, l’hai scoperto solo adesso, e per un po’ sarà la cosa più importante per te; ma anche questo passerà, diventerà meno importante man mano che diventerai più cose e avrai più capacità, più pensieri; ogni cosa cambia e si trasforma, fino a quando il mondo diventa così grande e le cose che sei così complicate, che non riesci più a contenerle. Tu non sei solo Thorn, nato in un laboratorio, in fondo a questo corridoio; sei Thorn l’hatani, Thorn il mio studente, Thorn che andrà in giro, farà delle cose e sarà delle cose che non hai mai pensato, e io neppure e troverai delle risposte alle tue domande, e domande ancora senza risposta; di questo è fatta la vita, dopo tutto. Perciò piangi pure se devi farlo, e se vuoi venire da me ogni giorno a sfogarti, perché senti che ti fa bene, vieni pure. Ma quando avrai finito e sarai pronto, ho molte cose da darti. È un dare, sai, una specie di dono. Quando avrai vissuto tanti anni come me, vorrai sicuramente lasciare qualche cosa nel mondo. Questo è il mio insegnamento. Ed è quanto sto facendo.
Ritornò a sopraffarlo il singhiozzo, inaspettato, come un respiro improvviso. Ma gli fece meno male. Thorn si pulì la faccia con la mano, in un rapido gesto di disgusto. Si spostò più indietro sul rialzo e tirò su i piedi. Non c’era scelta. Sagot non gliene lasciava nessuna.
— Ti ascolto, Sagot. — (O dei, cos’ha da insegnarmi?) Sagot era piena di segreti e incuteva paura, come Duun. Difficile da affrontare, al pari di Duun, e altrettanto implacabile. — Sei sicura di non essere hatani?
Sagot rise gentilmente, con la sua fragile voce. — Lo prendo come un complimento. Cosa ti piace di più studiare?
— La fisica.
— La fisica, allora. Dimmi quello che conosci. Così saprò da dove cominciare.
— Se un oggetto viaggiasse alla velocità della luce, e un uomo viaggiasse su di esso fino alla stella più vicina… qual è questa stella?
— Goth.
— E dista…?
— Cinque anni luce.
— Cinque virgola uno. Ci vuole precisione, in questo caso. Supponiamo che questo uomo abbia quarant’anni, e che partendo, lasci sulla terra una sorella…
— C’è un tipo di parassita che infesta il cervello del bestiame, sul fiume Sgoht. Ricordo che una volta ho visto un…
— Sei stata là?
— Ragazzo, ho vissuto nove mesi sullo Sgoth, e un magistrato del villaggio era mio amante. Aveva un anello infilato qui, sul fianco del labbro, e gli dava un’aria strana quando sorrideva, te lo dico io. Era stato sposato sei volte, e aveva una cicatrice nel naso, dove una delle sue mogli gli aveva infilato un bastone; ma era matta, e la figlia lo era ancora di più. Si era messa in testa di vendere la terra di sua madre, senza possederla… voleva vendere la sua prospettiva di eredità all’uomo con cui viveva. Col denaro ricavato se ne sarebbe andata lungo il fiume a cercarsi un marito con una drogheria; non chiedermi perché, ma credo che il cibo fosse l’unica cosa a cui riusciva a pensare… Pesava infatti circa cento chili. Bene, il magistrato, il mio amante, alla fine le diede i soldi per andarsene, e quel matto con cui lei viveva andò a cercarlo con un’ascia…
— Per gli dei!
— Proprio così. E rincorse il magistrato in giro per l’ufficio e sulla strada finché qualcuno non gli sparò. Si diceva che la donna gli desse da mangiare la carne di animali malati e che, in questo modo, il parassita del bestiame l’avesse infettato; ma il mio amante magistrato diceva che chiunque sposava una donna come quella, era matto già da prima.
— Osserva lo schermo. È una simulazione. Questo è il quadro degli strumenti: c’è l’indicatore del carburante, dell’altezza, la bussola… ricordi il viaggio in città, vero?
— Certo che ricordo.
— Bene, questo non è un elicottero. È un aeroplano. Devi usare la cloche e i pulsanti. Ti faccio vedere. Questa è la pista. È un aereo di vecchio tipo, ma cominceremo con questo.
— Sei capace a pilotare?
— Oh, sì, una volta volavo. Adesso non ci vedo più tanto bene. Volo solo come passeggera.
— Passeggera?
— Caro ragazzo, gli aerei vanno e vengono per il mondo in continuazione; come credi che viaggi la gente?
— Per ferrovia.
— Oh, be’, quella serve quasi solo per le merci, oggi. Proviamo di nuovo a decollare; ho paura che siamo appena precipitati.
Qualche volta il dolore cessava. Thorn si svegliò una mattina e si rese conto che l’asprezza era passata; era giunto a una condizione di rimpianto, e non doveva faticare molto per mantenere l’autocontrollo; e mentre faceva colazione con Duun, un’altra mattina, provò un dolore diverso: perché lui e Duun avevano ormai poco da dirsi, fatta eccezione per qualche considerazione di ordine domestico, e per le parole scambiate in palestra. Non c’erano racconti nella sua vita se non quelli di Sagot, non c’erano suoni nella casa. Solo talvolta, nelle lunghe serate, lui o Duun suonavano il dkin, ma con scarsa passione: Duun senza scopo, oppure in lunghe e complesse composizioni che davano sui nervi a Thorn; Thorn suonava tristi canzoni hatani, oppure le canzonette più allegre e triviali che aveva imparato nell’infanzia, come accuse scagliate contro Duun. E Duun sedeva e ascoltava, oppure si ritirava nel suo studio in cerca di tranquillità e (qualche volta, perché il fianco gli faceva ancora male) prendeva un sedativo e chiudeva la porta della sua stanza.
Thorn era il pupillo di Sagot. Duun viveva con lui e basta; preparava da mangiare quando era il suo turno, e si occupava dell’addestramento ginnico di Thorn. (Da un po’ di tempo, Duun sentiva male a respirare; ma anche questo era poco importante.)
(Mi ha tenuto stretto tutta la notte, quella notte. Deve avergli fatto male. Riusciva a stento a muoversi quando si è alzato. Non ha emesso un solo lamento.)
(Guarirà?) In una parte di lui, la vista di Duun ridotto a entrare in palestra, dargli istruzioni e uscirne, gli dava soddisfazione.
(Ma è troppo tranquillo. Non mi parla. Cosa aspetta?)
(O dei, vorrei che mi gridasse, si accigliasse, o almeno mi guardasse negli occhi. Ha le spalle curve. Si muove come Sagot. Non sarei mai riuscito a colpirlo, quella volta, se in quel passaggio non si fosse sbilanciato sulla parte che gli faceva male. Se fosse stato più giovane e non fosse stato ferito, dei, sarebbe stato impossibile batterlo. E io avrei avuto paura a misurarmi con lui.)
(O Duun, guardami!)
(Perché deve importarmi se mi ha portato via Betan, Elanhen, Sphitti, perfino Cloen, se mi ha portato via tutto quello che mi sta a cuore? Ha fatto venire Sagot, e un giorno manderà via anche lei. Sempre così, con tutti.)
(Mi spiava. Probabilmente è collegato con il computer della scuola; so che può farlo: basta inserire i codici, siamo nello stesso edificio. Sapeva tutto, ha letto tutto quello che Betan e io ci siamo scambiati, probabilmente glielo hanno riferito le guardie.)
(O Duun, non mi piace questo silenzio. Non mi piace che mi guardi così, mi fa stare male.)
Un giorno, di ritorno da Sagot, trovò Duun nella palestra. Lo stava aspettando. Si tolse tutto tranne il piccolo kilt e attese istruzioni. Duun venne invece verso di lui muovendo il braccio sinistro, avanti e indietro.
— Duun, stai attento.
— Thorn, non ho bisogno che tu me lo dica. Ricordati solo di quello che ti ho detto: niente colpi duri. Solo un po’ di esercizio.
Duun lo stese a terra. Gli ci volle un bel po’, e fu la sua abilità che alla fine sbilanciò Thorn e portò il piede di Duun contro la sua schiena.
— Sono morto — disse Thorn, e si sedette sulla sabbia. Duun lo imitò, più lentamente, respirando affannosamente e leccandosi i denti. Thorn ansimò e si appoggiò alle ginocchia, guardandolo. Improvvisamente, si mise a sorridere: essere battuto da Duun era nella natura delle cose e lo faceva sentire meno solo.
Duun sorrise a sua volta. Nessuna parola. E le cose andarono subito meglio. Quella sera Duun suonò vecchi pezzi familiari, uno dopo l’altro, e la musica li riportò indietro, ai bei tempi; non cantarono le canzoni tristi, ma quelle giocose, piene del sottile e crudele umorismo hatani.
Thorn si addormentò, e si svegliò all’incirca a metà del “buio”, con le stelle che davano le vertigini attorno al suo letto, e l’aria che sapeva di falsi venti freddi, come se venissero da nevi invernali; tutto era silenzioso, e Thorn aveva una vaga sensazione di terrore, a cui non riusciva a dare un nome.
(Duun è stato qui. È stato qui poco fa.) Forse era un odore impercettibile disperso dal condizionatore. La porta era chiusa.
Gli occhi di Thorn scrutarono il buio della stanza, fermandosi sui contorni: conosceva l’abilità di Duun. (È ancora qui? Aspetta che mi muova?) Il cuore di Thorn batteva veloce e gli pulsavano le vene del collo. (È assurdo. Come può essere entrato? La porta fa rumore; non potevo dormire così profondamente.)
(Non potevo?)
Il suo cuore batteva all’impazzata. (Non lo farebbe. Non può. Non dopo Betan. Sa che sono furente. Lo odio. Odio che mi faccia questo.)
Si alzò dal letto. (Mai fidarsi di lui. Mai darlo per scontato…) Ma non c’era niente nella stanza, solo le false stelle, nel loro lento movimento vertiginoso.
Thorn si sedette sul bordo del letto. Il cuore gli martellava ancora nel torace.
(Com’è il mondo? Pieno di gente come Sagot? E come Duun? Cos’ha in mente? Per cosa sono stato fatto? Importa davvero tanto al governo se vivo o muoio? Tanto da chiamare un hatani per risolvere il mio problema? Potrebbe ucciderli. Uccidermi. Mi dà una possibilità, dice… una possibilità contro cosa?)
(Un hatani stabilisce le mosse dell’avversario. Un hatani giudica. Un hatani vaga nel mondo mettendo a posto le cose. Un hatani può lasciarti un sasso nel letto, o nel bicchiere; può passare attraverso una porta chiusa, e inseguirti nel buio. È un cacciatore… non la preda. Di chiunque voglia. Cos’altro è?)
(Ogni cosa che Duun fa ha uno scopo. E Sagot è sua amica. Forse… forse anche Betan lo era. No. Sì. O dei, forse è tutto programmato? Possibile che Betan avesse scelto uno come me? O era curiosa? Curiosa…)
(Shitti che rideva e scherzava con me, e anche Elanhen, fin dal primo momento. Non sarebbe stato naturale sentire ribrezzo? Ma loro erano preparati. Sapevano com’ero. Forse Cloen è stato l’unico sincero… l’unico che ha detto la verità.)
(Sciocco, lo sapevi: lo sapevi fin dal momento in cui sei entrato in quella stanza, ma volevi credere qualcos’altro. Hai visto come si muoveva Betan… hai pensato hatani, e hai messo da parte quel pensiero.)
(All’ultimo momento si è tirata indietro e io ho reagito… Ho sentito l’odore della paura, lei ha perso il controllo… Mi sono tirato indietro, mi sono spaventato, è stata una reazione incontrollabile, lei mi era contro, e io ho sentito l’odore della paura…)
(Thorn, dove hai la mente? L’hai lasciata a Sheon, su quella collina, quando sei tornato per lui? Ti sei dimenticato come lavora Duun?)
(Io lo amo. Lui mi ama?)
(Ma Sagot è vera? Tutte le sue chiacchiere, dall’inizio: “Mi piaci, ragazzo”. Thorn, sciocco.)
(Duun ha detto la verità, su quello che sono, e da dove vengo?)
Thorn rimase seduto sul letto, con le mani fra le ginocchia. Alla fine si alzò, accese le luci e controllò il letto, come se potesse esserci un sasso.
Non c’era.
(Lo odio. Lo odio per quello che mi ha fatto.)
(È stata la cosa più bella del mondo quando lui mi ha sorriso, oggi.)