Parte terza

Mai potranno i miei affanni essere placati,

poiché la pietà è fuggita;

e lacrime e sospiri e gemiti i miei stanchi giorni

di ogni gioia hanno privato.

21

— Alys! — urlò Jason Taverner. Non ci fu risposta. “È la mescalina?” si chiese. Goffo e impacciato, si spostò dal giradischi alla porta dietro cui era scomparsa Alys. Un lungo corridoio, uno spesso tappeto di lana. In fondo, scale con una ringhiera in ferro battuto, nero, che portavano al primo piano.

Percorse il corridoio alla massima velocità che gli era possibile, raggiunse le scale, le salì.

Il primo piano. Un atrio con un antico tavolo Hepplewhite in un angolo, ingombro di numeri della rivista “Box”. Stranamente, quel particolare attirò la sua attenzione: chi leggeva una rivista pornografica di basso livello e di ampia diffusione come “Box”? Felix o Alys? O tutti e due? Andò avanti, continuando a notare minimi particolari, senza dubbio a causa della mescalina. Il bagno. L’avrebbe trovata lì.

— Alys — disse truce. Il sudore gli colava dalla fronte su naso e guance; le ascelle si erano intrise di umidità per colpa delle emozioni che gli percorrevano a cascata il corpo. — Dio ti maledica! — disse, parlando con lei anche se non la vedeva. — Non c’è niente su quei dischi. Non ci sono io. Sono falsi, vero? — “O sarà solo un effetto della mescalina?” si chiese. — Devo saperlo! Fammeli sentire, se sono veri. È rotto il giradischi, per caso? La puntina si è spezzata? — “Succede” pensò. “Magari passa sopra i solchi senza leggerli.”

Una porta socchiusa. La spalancò. Una camera da letto, col letto sfatto. E, sul pavimento, un materasso con un sacco a pelo. Un mucchietto di articoli per uomo: crema da barba, deodorante, rasoio, dopobarba, pettine… “Un ospite” pensò Jason. “È stato qui, ma se n’è andato.”

— C’è qualcuno? — urlò. Silenzio.

Più avanti c’era il bagno. Dietro la porta socchiusa intravide una vasca sorprendentemente vecchia, che poggiava su zampe di leone verniciate. “Un pezzo d’antiquariato” pensò. “Persino la vasca.” Percorse a passi incerti il corridoio, superò altre porte. Arrivò al bagno e spalancò l’uscio.

E vide, sul pavimento, uno scheletro.

Indossava calzoni neri, una camicia di pelle rossa, una cintura a maglie di catena con la fibbia in ferro battuto. Le ossa dei piedi si erano liberate delle scarpe dai tacchi alti. Qualche ciuffo di capelli era ancora attaccato al cranio, ma, oltre a quelli, non restava nulla: erano scomparsi gli occhi, tutta la carne. E lo scheletro si era già ingiallito.

— Dio. — Jason barcollò. Vacillò, e la sua percezione della gravità si frantumò. Il suo orecchio medio, sottoposto a pressioni, si mise a fluttuare, e la stanza prese a ruotargli attorno, nel silenzio di una danza perpetua. Come una ruota panoramica in un luna park.

Chiuse gli occhi, si appoggiò al muro, poi, alla fine, guardò di nuovo.

“È morta” pensò. “Ma quando? Centomila anni fa? Un minuto fa?”

“Perché è morta?

“È un effetto della mescalina che ho preso? È reale?”

Era reale.

Si chinò a toccare la camicia con le frange. La pelle era morbida, soffice; non si era decomposta. Il tempo non aveva toccato i vestiti. Il che significava qualcosa, ma lui non era in grado di capirlo. “Soltanto lei” pensò. “Tutto il resto, in questa casa, è com’era prima. Quindi non può essere colpa dell’effetto della mescalina. Però non posso esserne certo. “Devo scendere al piano di sotto. Andarmene da qui.” Ripercorse a zigzag il corridoio. Non aveva ancora ritrovato del tutto la posizione eretta, per cui corse piegato in due, come una scimmia di una specie insolita. Si aggrappò alla ringhiera in ferro nero, scese due, tre scalini alla volta, inciampò e cadde, si tirò su, si rimise in piedi. Nel petto, il suo cuore batteva affannosamente, e i polmoni, sottoposti a uno sforzo eccessivo, si riempivano e si svuotavano come mantici.

In un attimo aveva attraversato il soggiorno, era alla porta d’ingresso. Poi, per ragioni che gli erano oscure ma che in qualche modo gli erano parse importanti, prese i due album dal giradischi, li infilò nelle copertine, li portò con sé quando uscì dalla casa, nel sole caldo e luminoso della mattina già avanzata.

— Se ne va, signore? — chiese il pol privato con l’uniforme marrone, quando lo vide apparire ansante.

— Non mi sento bene — rispose Jason.

— Mi spiace, signore. Posso esserle d’aiuto?

— Le chiavi del trabi.

— Di solito la signorina Buckman lascia le chiavi nel cruscotto — disse il pol.

— Le ho già cercate — ansimò Jason.

Il pol disse: — Vado a chiederle alla signorina Buckman.

— No — ribatté Jason. Poi pensò: “Ma se è solo effetto della mescalina, è tutto a posto, giusto?”.

— No? — ripeté il pol, e di colpo la sua espressione cambiò. — Resti lì dov’è — disse. — Non si avvicini al trabi. — Girò sui tacchi e schizzò verso la casa.

Jason corse sull’erba, in direzione dello spiazzo d’asfalto e del trabi. Le chiavi. Erano nel cruscotto? No. Nella borsa. La afferrò, rovesciò l’intero contenuto sui sedili. Mille oggetti ma le chiavi non c’erano. Poi, a trafiggerlo, un urlo rauco.

Il pol apparve al cancello della casa, con un’espressione stravolta. Si spostò di lato, con più calma. Alzò la pistola, la tenne stretta con entrambe le mani, e sparò a Jason. Ma l’arma sussultò; il pol tremava troppo.

Jason strisciò fuori dall’altra portiera del trabi, si gettò sul prato alto e umido, corse verso le querce.

Il pol sparò un’altra volta. E mancò di nuovo il bersaglio. Jason lo sentì bestemmiare. Il pol cominciò a correre verso di lui, per raggiungerlo; poi, all’improvviso, fece dietrofront e ripartì a tutta velocità verso la casa.

Jason arrivò agli alberi. Si infilò tra gli arbusti, tra i rami che gli sferzavano di continuo il volto. Un alto muro di mattoni… e cosa aveva detto Alys? Frammenti di vetro cementati in cima? Strisciò lungo la base del muro, combattendo con i folti arbusti, poi di colpo si trovò davanti una porta in legno: era socchiusa, e dietro si vedevano degli altri alberi e una strada.

Non era l’effetto della mescalina. Anche il poliziotto l’aveva visto. Il corpo di Alys. Quel vecchio scheletro. Di qualcuno morto da tanti anni.

Sul lato opposto della via, una donna, con le braccia cariche di pacchi, stava aprendo la portiera del suo flipflap.

Jason attraversò la strada. Costrinse la propria mente a rimettersi al lavoro, a scacciare i postumi della mescalina. — Signora…— ansimò.

La donna, stupefatta, alzò gli occhi. Giovane, di corporatura robusta, ma con bellissimi capelli biondo rame. — Sì? — chiese nervosa, scrutandolo.

— Mi è stata somministrata una dose tossica di qualche droga — disse Jason, cercando di mantenere calma la voce. — Mi accompagna a un ospedale?

Silenzio. Lei continuò a fissarlo con occhi sgranati; lui non disse niente, restò lì ad aspettare, ansimando. Sì o no: o una cosa, o l’altra.

La ragazza con i capelli biondo rame disse: — Non… non sono una grande autista. Ho preso la patente la settimana scorsa.

— Guido io — disse Jason.

— Però io non vengo. — La ragazza indietreggiò, stringendo al petto i pacchi avvolti in carta marrone. Probabilmente stava andando all’ufficio postale.

— Posso avere le chiavi? — Jason tese la mano e aspettò.

— Ma lei potrebbe svenire, e il mio flipflap…

— Allora venga con me.

Lei gli diede le chiavi e si sistemò sul sedile posteriore. Jason, con il cuore che pulsava di sollievo, si mise alla cloche, inserì la chiave nel cruscotto, e un istante dopo il flipflap si alzò in cielo, alla sua velocità massima di quaranta nodi orari. Per qualche bizzarra ragione, notò che era un modello non costoso, un Ford Greyhound. Molto economico. E nemmeno nuovo.

— Soffre molto? — gli chiese la ragazza, ansiosa. Il suo viso, nello specchietto retrovisore, mostrava ancora nervosismo, quasi panico. La situazione era troppo insolita per lei.

— No — le rispose Jason.

— Che droga era?

— Non me l’hanno detto. — La mescalina aveva praticamente esaurito il suo effetto. Per fortuna, la fisiologia da Sei di Jason possedeva tutta la forza necessaria per combatterlo. Non gli sarebbe affatto piaciuta l’idea di pilotare un flipflap così lento nel traffico mattutino di Los Angeles mentre era imbottito di mescalina. Di una dose molto forte. Nonostante quel che aveva detto lei.

Lei. Alys. “Perché non c’è inciso niente sui dischi?” si chiese. I dischi. Dov’erano? Si guardò attorno, frenetico. Oh, sul sedile al suo fianco. Li aveva caricati a bordo senza nemmeno rendersene conto. “Quindi, sono in salvo. Posso provare ad ascoltarli su un altro giradischi.”

— L’ospedale più vicino — disse la ragazza — è il St Martin, fra la Trentacinquesima e la Webster. È piccolo, però io ci sono stata per farmi togliere un porro dalla mano, e mi sono sembrati molto coscienziosi e gentili.

— Andremo lì — disse Jason.

— Si sente meglio o peggio?

— Meglio.

— È uscito dalla casa dei Buckman?

Lui annuì. — Sì.

La ragazza disse: — È vero che il signore e la signora Buckman sono fratello e sorella? Cioè…

— Gemelli.

— È quello che mi risulta — disse la ragazza. — Però, sa, è strano. Vedendoli assieme, sembrano marito e moglie. Si baciano e si tengono per mano, e lui tratta lei con molta gentilezza, e poi a volte fanno delle litigate tremende. — Restò in silenzio per un attimo, poi si protese in avanti e disse: — Io mi chiamo Mary Anne Dominic. E lei?

— Jason Taverner — rispose lui. Non che significasse qualcosa. A conti fatti. Dopo quello che gli era parso per un istante… Poi la voce della ragazza spezzò il corso dei suoi pensieri.

— Sono una vasaia. — Il tono era timido. — Questi sono vasi che porto all’ufficio postale, per spedirli a negozi della California settentrionale. Soprattutto Gump’s a San Francisco e Frazer’s a Berkeley.

— Lavora bene? — chiese lui. Quasi tutta la sua mente, le sue facoltà, si erano fermate nel tempo, fissate nell’istante in cui aveva aperto la porta del bagno e visto Alys, quella cosa, sul pavimento. La voce della signorina Dominic gli giungeva remota.

— Ci provo. Ma non si sa mai. Comunque, vendo.

— Ha due mani forti — commentò lui, in mancanza di meglio da dire. Le parole continuavano a uscire dalle sue labbra quasi per automatismo, come se le stesse formulando solo con un frammento della mente.

— Grazie — disse Mary Anne Dominic. Silenzio.

— Ha superato l’ospedale — disse Mary Anne Dominic. — È un po’ più indietro, sulla sinistra. — L’ansietà dei primi attimi era tornata a insinuarsi nella sua voce. — Vuole davvero andarci, oppure è solo…

— Non abbia paura — le rispose Jason, e questa volta prestò attenzione a ciò che diceva. Utilizzò tutte le sue doti per assumere un tono gentile e rassicurante. — Non sono uno studente in fuga. E non sono nemmeno scappato da un campo di lavori forzati. — Girò la testa, fissò la ragazza in viso. — Però sono nei guai.

— Allora lei non ha assunto una droga tossica. — La voce della ragazza tremò. Era come se si fosse finalmente verificata la cosa che aveva sempre temuto di più in vita sua.

— Adesso atterro — disse Jason. — Per rassicurarla. A me sta bene. La prego, non si agiti. Non le farò del male. — Ma la ragazza era rigida, immobile. Stava aspettando… Nessuno dei due sapeva cosa.

A un incrocio, molto affollato, Jason atterrò sul marciapiede e aprì la portiera. Poi, d’impulso, restò a bordo del flipflap per un altro attimo. Si girò di nuovo verso la ragazza.

— Per favore, scenda — implorò lei. — Non vorrei essere scortese, ma ho molta paura. Girano di continuo voci sugli studenti affamati che in un modo o nell’altro riescono a superare le barricate attorno ai campus…

— Mi stia a sentire — la interruppe lui, seccamente, interrompendo il fiume delle parole di Mary Anne Dominic.

— Okay. — La ragazza si ricompose, appoggiò le mani sui pacchi che aveva in grembo, in un’attesa rispettosa e carica di timore.

— Non dovrebbe lasciarsi spaventare così facilmente. Se no la vita sarà sempre troppo stressante per lei.

— Certo. — Lei annuì, poi si dispose ad ascoltare come se fosse a scuola.

— Ha sempre paura degli sconosciuti? — le chiese Jason.

— Sì. — Lei annuì di nuovo. Quella volta tenne la testa bassa, come se lui l’avesse rimproverata. E, in un certo senso, l’aveva fatto.

— La paura può portare a commettere più errori dell’odio o dell’invidia. Se hai paura, non ti butterai mai completamente tra le braccia della vita. La paura ti spinge sempre a frenarti in qualcosa.

— Credo di capire — disse Mary Anne Dominic. — Un giorno, più o meno un anno fa, qualcuno ha bussato freneticamente alla mia porta, e io sono corsa in bagno e mi sono chiusa dentro a chiave e ho fatto finta di non esserci, perché credevo che stessero cercando di introdursi in casa mia… E più tardi ho saputo che la signora del piano di sopra era rimasta con una mano imprigionata nello scarico del lavandino. Ha uno di quei tritarifiuti, ha presente? C’era finito dentro un coltello, e lei aveva infilato la mano e non riusciva più a tirarla fuori. Era suo figlio che bussava alla porta…

— Allora lei capisce cosa intendo dire — disse Jason.

— Sì. Vorrei non essere fatta così. Sul serio. Ma purtroppo… Jason chiese: — Quanti anni ha?

— Trentadue.

Ne fu sorpreso. Mary Anne Dominic gli sembrava molto più giovane. Evidentemente, non era mai cresciuta. Provò un’ondata di simpatia per lei: doveva esserle stato difficilissimo lasciargli il comando del suo flipflap. E le sue paure erano giustificate, in un certo senso. I motivi che lui aveva addotto per chiederle aiuto erano falsi.

Le disse: — Lei è bellissima.

— Grazie — rispose la ragazza con umiltà.

— Lo vede quel caffè? — chiese Jason, indicandole un locale nuovo, all’apparenza ben frequentato. — Andiamo a sederci là. Voglio parlare con lei. — “Devo parlare con qualcuno” pensò. “Con chiunque. Se no, Sei o non Sei, impazzirò.”

— Ma — protestò lei, ansiosa — devo consegnare i miei pacchi all’ufficio postale prima delle due. Per farli partire nel primo pomeriggio per la zona della Baia.

— Allora provvederemo subito. — Jason si girò verso il cruscotto, tolse le chiavi, la restituì a Mary Anne Dominic. — Guidi lei. In tutta calma.

— Signor Taverner — rispose la ragazza, — io voglio solo essere lasciata in pace. Starmene da sola.

— No. Lei non deve stare da sola. È una cosa che la sta uccidendo. La sta minando. Ogni giorno, sempre, lei dovrebbe essere in compagnia di altra gente.

Silenzio. Poi Mary Anne disse: — L’ufficio postale è tra la Quarantanovesima e la Fulton. Guida lei? Io sono un po’ nervosa.

A Jason parve una grande vittoria morale. Se ne compiacque.

Si fece restituire le chiavi e, poco dopo, erano in volo verso l’incrocio tra la Quarantanovesima e la Fulton.

22

Più tardi sedevano in un séparé del caffè, un locale pulito e molto carino, con cameriere giovani e una clientela piuttosto tranquilla. Dal juke-box uscivano le note di Memory of Your Nose di Louis Panda. Jason ordinò soltanto caffè; la signorina Dominic, macedonia di frutta e tè freddo.

— Cosa sono quei due dischi? — chiese lei.

Jason glieli passò.

— Ehi, ma li ha incisi lei. Se è Jason Taverner. Lo è sul serio?

— Sì — rispose lui. Di quello, perlomeno, era certo.

— Non credo di averla mai sentita — disse Mary Anne Dominic. — Mi piacerebbe moltissimo, ma in genere non amo la musica pop. Mi piacciono i grandi cantanti folk del passato, come Buffy St Marie. Oggi non c’è più nessuno che sia capace di cantare come Buffy.

— Sono d’accordo — convenne lui, serio. La sua mente tornava di continuo alla casa, al bagno, alla fuga dal pol privato. “Non è stato un effetto della mescalina” si ripeté un’altra volta. “Perché l’ha visto anche il pol.

“O comunque, ha visto qualcosa.”

— Forse non ha visto quel che ho visto io — disse a voce alta. — Forse l’ha solo vista riversa sul pavimento. Magari è caduta. Magari… — Pensò: “Magari dovrei tornare là”.

— Chi non ha visto cosa? — chiese Mary Anne Dominic, poi arrossì. — Non volevo immischiarmi nei suoi affari. Lei mi ha detto di essere nei guai, e vedo che la sua mente è ossessionata da qualcosa di angoscioso.

— Devo capire che cos’è successo. È tutto là, in quella casa. — “E su questi dischi” pensò Jason.

“Alys Buckman sapeva del mio programma televisivo. Sapeva dei miei album. Sapeva quale ha venduto più di tutti. Ne aveva una copia. Però…”

Sui dischi non era inciso niente. Puntina spezzata un accidente: si sarebbe dovuto sentire qualcosa, magari anche solo dei suoni distorti. Aveva avuto a che fare con dischi e giradischi per troppo tempo per non saperlo.

— Lei è una persona malinconica — disse Mary Anne Dominic. Aveva estratto dalla borsetta di stoffa un paio di occhiali e si mise a leggere con attenzione le note biografiche riportate sul retro delle copertine dei dischi.

— È stato quello che mi è successo a rendermi malinconico — spiegò Jason in breve.

— Qui dice che lei conduce un programma televisivo.

— Esatto. — Annuì. — Alle nove di sera del martedì. Sulla NBC.

— Allora è proprio famoso. Me ne sto seduta qui a parlare con una persona famosa che dovrei conoscere. Che sensazione le dà… Cos’ha provato quando ha visto che io non la riconoscevo, dopo che mi ha detto il suo nome?

Jason scrollò le spalle. Era un’ironia quasi divertente.

— Nel juke-box ci sarà qualche disco con uno dei suoi pezzi? — La ragazza indicò la struttura gotico-babilonese, multicolore, all’angolo opposto della sala.

— Può darsi — rispose lui. “Una buona domanda.”

— Vado a vedere. — La signorina Dominic pescò dalla tasca una moneta da due dollari e mezzo, lasciò il séparé, attraversò il locale, si mise a leggere titoli e nomi dei cantanti nel juke-box.

“Quando tornerà, non si sentirà più troppo colpita dalla mia presenza” rifletté Jason. Conosceva l’effetto anche di un’unica mancanza: se non fosse riuscito a essere presente ovunque, in ogni radio e giradischi, juke-box e negozio di articoli musicali, in ogni televisore dell’universo, l’incantesimo sarebbe svanito.

Lei tornò con il sorriso sulle labbra. — Nowhere Nuthin’ Fuck-up — disse, rimettendosi a sedere. E Jason si accorse che non aveva più la moneta. — Dovrebbe essere il prossimo brano.

Lui schizzò in piedi all’istante e corse attraverso il locale precipitandosi al juke-box.


Mary Anne Dominic aveva ragione. Il brano B4. Il successo più recente di Jason, Nowhere Nuthin’ Fuck-up, un pezzo sentimentale. E il meccanismo del juke-box aveva già cominciato a far scendere il disco.

Un attimo dopo, la sua voce, resa più morbida dalla tecnologia quadrifonica e dall’uso dell’eco, riempì il locale.

Esterrefatto, tornò al séparé.

— Lei è supermeraviglioso! — disse Mary Anne, forse per pura cortesia, visti i suoi gusti, quando la canzone terminò.

— Grazie. — La voce era davvero la sua. I solchi di quel disco non erano vuoti.

— Lei è davvero fantastico! — Mary Anne, entusiasta, era tutta sorrisi e sfolgorio di lenti.

— Sono un vecchio professionista — rispose semplicemente Jason. I complimenti gli sembravano sinceri.

— Le ha dato fastidio che io non la conoscessi?

— No. — Lui scosse la testa, ancora stordito. Di certo la ragazza non era l’unica a non avere mai sentito il suo nome, come avevano dimostrato gli eventi degli ultimi due giorni. Due giorni? Solo?

— Posso ordinare qualcosa d’altro? — Mary Anne esitò. — Ho speso tutti i soldi che avevo per i francobolli. Non…

— Offro io.

— Secondo lei, come sarà la torta di formaggio alle fragole?

— Eccezionale — rispose lui, divertito dalla ragazza. La sua onestà, l’ansietà… “Avrà un ragazzo?” si chiese. Probabilmente no. Viveva in un mondo di vasi, ceramica, carta marrone per pacchi, problemi con il suo piccolo Ford Greyhound; e, sullo sfondo, le voci solo stereo delle grandi del passato: Judy Collins e Joan Baez.

— Mai sentita Heather Hart? — le domandò dolcemente. Mary Anne aggrottò la fronte. — Non… non sono certa di ricordarmene. È una cantante folk o… — La sua voce si spense. Il suo viso aveva un’aria triste, come se lei intuisse di non essere all’altezza della situazione, di non sapere quello che chiunque avrebbe dovuto sapere. Lui provò un’ondata di tenerezza.

— Canzoni melodiche — le disse. — Come le mie.

— Possiamo risentire il suo pezzo?

Lui tornò al juke-box, programmò di nuovo il suo brano. Questa volta non sembrò che piacesse a Mary Anne.

— Cosa c’è? — le chiese Jason.

— Oh, mi dico sempre che sono un tipo creativo. Faccio vasi eccetera. Però non so se siano davvero belli. Non riesco a capirlo. La gente mi dice…

— La gente può dirti di tutto. Che non vali niente, oppure che sei impagabile. Le cose peggiori e quelle migliori. Riesci sempre a toccare qualcuno qui… — Jason batté le dita sul portasale. — E non tocchi qualcun altro qui. — Tamburellò sulla ciotola della macedonia di frutta.

— Ma dev’esserci un modo…

— Ci sono gli esperti. Puoi starli ad ascoltare. Sentire le loro teorie. Quelli hanno sempre delle teorie da sciorinare. Scrivono lunghi articoli e discutono della tua produzione tornando indietro fino al primo disco che hai inciso, diciannove anni prima. Stabiliscono paragoni tra pezzi che non ricordi nemmeno di avere cantato. E i critici televisivi…

— Ma essere famosi… — Di nuovo, per un attimo, gli occhi della ragazza brillarono.

— Chiedo scusa. — Jason si alzò di nuovo. Non poteva aspettare oltre. — Devo fare una telefonata. Se tutto va bene, tornerò subito. Se no… — Mise una mano sulla spalla di Mary Anne, sul maglione bianco che probabilmente lei si era fatta da sola. — È stato un piacere conoscerla.

Perplessa, con quel suo modo di fare timoroso e obbediente, lei lo guardò mentre andava in fondo al locale e raggiungeva il telefono pubblico.

Jason si chiuse in cabina. Trovò il numero dell’accademia di polizia di Los Angeles sull’elenco dei numeri d’emergenza. Inserì una moneta nella fessura e chiamò.

— Vorrei parlare con il generale Felix Buckman — disse, e non lo sorprese scoprire che gli tremava la voce. “Psicologicamente, sono al tappeto” si rese conto. “Tutto quello che è successo, fino al disco nel juke-box, è troppo per me. Ho una paura del diavolo. E sono disorientato. Quindi, forse l’effetto della mescalina non è del tutto finito, a conti fatti. Però sono riuscito a pilotare il flipflap senza problemi: questo deve significare qualcosa. Fottuta droga! Riesci sempre a capire quando comincia a fare effetto, ma mai quando smette, ammesso che smetta. Ti taglia le gambe per sempre, o così pensi. Non puoi mai essere sicuro. Magari non esce mai dal tuo corpo. E ti dicono: ‘Ehi, tu, ti sei bruciato il cervello’, e tu rispondi: ‘Può darsi’. Non puoi esserne certo. E tutto perché hai mandato giù una capsula, o una capsula di troppo, quando qualcuno ti ha detto: ‘Questa ti tirerà su’.”

— Sono la signorina Beason — disse al suo orecchio una voce femminile. — L’assistente del signor Buckman. Posso aiutarla?

— Peggy Beason. — Jason inspirò tremante una boccata d’aria. — Sono Jason Taverner.

— Oh, sì, signor Taverner. Cosa voleva? Ha dimenticato qualcosa qui?

— Voglio parlare con il generale Buckman.

— Temo che il signor Buckman…

— Si tratta di Alys — disse lui.

Silenzio. Poi: — Un momento per favore, signor Taverner — rispose Peggy Beason. — Chiamo il signor Buckman e vedo se riesce a liberarsi un attimo.

Ticchettii. Una pausa. Altro silenzio. Poi lo misero in comunicazione con qualcuno.

— Signor Taverner? — Non era il generale Buckman. — Sono Herbert Maime, alle dirette dipendenze del signor Buckman. Mi risulta che lei abbia detto alla signorina Beason che si tratta della sorella del signor Buckman, Alys Buckman. Francamente vorrei chiederle in seguito a quali circostanze lei sia giunto a conoscere la signorina…

Jason riappese. E tornò alla cieca al séparé, dove Mary Anne Dominic stava mangiando la sua torta di formaggio alle fragole.

— Allora è tornato — disse lei, allegra.

— Com’è la torta? — chiese lui.

— Un po’ troppo sostanziosa. — La ragazza aggiunse: — Però è buona.

Lui si rimise a sedere, rabbioso. Aveva fatto del suo meglio per contattare Felix Buckman. Per dirgli di Alys. Ma cosa sarebbe riuscito a raccontargli, in definitiva? L’inutilità di tutto, la perpetua impotenza dei suoi sforzi e delle sue intenzioni… “Ancora più indebolite” pensò “da quello che mi ha dato lei. Dalla capsula di mescalina.”

Se era davvero mescalina.


Il che rappresentava una nuova possibilità. Non aveva alcuna prova, proprio nessuna, che Alys gli avesse realmente dato della mescalina. Poteva essere di tutto. Per esempio, perché mai la mescalina doveva arrivare dalla Svizzera? Non aveva senso. Questo fatto suggeriva l’idea che si trattasse di qualcosa di sintetico. Un prodotto chimico. Magari una nuova droga alla moda composta di vari ingredienti. O qualcosa rubato dai laboratori della polizia.

Il disco con Nowhere Nuthin’ Fuck-up. Se fosse stata la droga a farglielo sentire? E a fargli vedere l’elenco di titoli nel juke-box? Ma anche Mary Anne Dominic aveva sentito il pezzo; anzi, l’aveva scoperto lei.

Ma i due album non incisi…

Mentre stava lì a riflettere, un adolescente in jeans e maglietta si chinò verso di lui e gli disse: — Ehi, lei è Jason Taverner, vero? — Gli tese una biro e un pezzo di carta. — Posso avere il suo autografo, signore?

Alle sue spalle, una ragazzina dai capelli rossi, molto graziosa, senza reggiseno e con gli short bianchi, sorrise eccitata. — La guardiamo sempre, il martedì sera. Lei è fantastico. E visto dal vivo, be’, è esattamente uguale a com’è sullo schermo, solo che dal vivo è più, come dire, abbronzato. — I suoi cordiali capezzoli sussultarono.

Senza rendersene conto, per abitudine, Jason firmò il foglio. — Grazie, ragazzi — disse. Adesso i suoi fan erano quattro.

Chiacchierando tra loro, se ne andarono. Agli altri séparé, i clienti scrutavano Jason e parlottavano eccitati. “Come sempre” si disse lui. Era così che stavano le cose fino all’altro giorno. “La mia realtà sta tornando.” Provava un’allegria incontenibile, frenetica. Era quello il mondo che conosceva; era il suo stile di vita. Lo aveva perso per un breve periodo, ma ora, finalmente, stava cominciando a riaverlo.

Heather Hart. Pensò: “Adesso la posso chiamare. E riuscirò a parlarle. Non mi prenderà per un ‘aborto di fan’.

“Forse esisto solo se prendo la droga. Quella droga che mi ha dato Alys, qualunque cosa sia.

“Ma allora la mia carriera, questi vent’anni sono soltanto un’allucinazione retroattiva creata dalla droga.”


“Quello che è successo” pensò Jason Taverner “è che la droga ha smesso di fare effetto. Lei o qualcun altro hanno smesso di darmela, e io mi sono risvegliato nella realtà, in quella stanza d’hotel scalcinata e cadente, con lo specchio crepato e il materasso infestato di pulci. E sono rimasto in quello stato sino ad ora, finché Alys non mi ha dato un’altra dose.”

Pensò: “Era ovvio che sapesse di me, del mio show televisivo del martedì sera. L’ha creato lei con la droga. E quei due album… Involucri vuoti che teneva con sé per dare più credibilità all’allucinazione.

“Gesù Cristo, è proprio così?

“Ma i soldi che avevo in tasca quando mi sono svegliato nella camera d’hotel, allora? Tutto quel malloppo?” Si batté una mano sul petto, avvertì la spessa presenza del denaro, ancora lì. “Se nella vita reale trascorro i miei giorni in hotel infestati da pulci a Watts, da dove saltano fuori questi soldi?

“E inoltre sarei stato presente negli archivi della polizia, e in tutte le altre banche dati del pianeta. Non come un famoso cantante, ma come un barbone che non ha mai concluso niente. Uno che, per andare su di giri, può al massimo imbottirsi di pasticche. Solo Dio sa per quanto tempo. è possibile che io mi droghi da anni.

“Alys” ricordò “ha detto che ero già stato a casa sua.

“E, a quanto sembra” decise, “è vero. Dovevo andarci. Per prendere la mia dose.

“Forse sono soltanto uno tra molti che vivono esistenze sintetiche fatte di popolarità, denaro e potere grazie a una pasticca. Mentre in realtà vivono in vecchie e schifose camere d’hotel infestate dalle pulci. Nel ghetto. Derelitti, nullità. Zero. Che però, intanto, sognano.”

— Certo che lei dev’essere proprio immerso in profonde riflessioni — disse Mary Anne. Aveva finito la torta. Mostrava un’aria soddisfatta. E contenta.

— Ma — le disse — nel juke-box c’è davvero il mio disco?

Lei sgranò gli occhi nel tentativo di capire. — Come sarebbe a dire? L’abbiamo ascoltato. E c’è scritto il titolo su uno di quei cartellini. I juke-box non sbagliano mai.

Jason tirò fuori una moneta. — Me lo faccia risentire. Tre volte.

Obbediente, lei si alzò dal séparé, percorse il locale, si chinò sul juke-box. I capelli, lunghi e bellissimi, le scendevano sulle spalle forti. Dopo un po’, Jason sentì il disco. Sentì la sua canzone da hit parade. E la gente, nei séparé e al banco, annuiva e gli sorrideva, perché l’aveva riconosciuto. Sapevano che era lui a cantare. Erano il suo pubblico.

Quando il brano terminò, i clienti del caffè si misero ad applaudire. Jason rispose con il suo sorriso più automatico, più professionale, per ringraziarli di essere stato riconosciuto e di godere del loro favore.

— C’è — disse, quando la canzone ricominciò. Strinse il pugno, assestò un colpo robusto al tavolo di plastica che lo separava da Mary Anne Dominic. — Per Dio, c’è!

Mossa da uno di quei bizzarri, profondi, intuitivi desideri femminili di portare aiuto, Mary Anne disse: — E ci sono anch’io.

— Non mi trovo in una scalcinata stanza d’hotel, sdraiato su una brandina a sognare — disse lui.

— No, certo che no. — Il tono della ragazza era tenero, ansioso. Era ovvio che si preoccupava per lui. Per la sua apprensione.

— Sono di nuovo reale — disse Jason. — Ma se è potuto succedere una volta, per due giorni… Andare e venire in quel modo, svanire e riapparire…

— Forse è meglio uscire — disse Mary Anne, preoccupata.

Quella frase schiarì la mente a Jason. — Mi scusi — disse, ansioso di rassicurarla.

— È solo che qui la gente sta ascoltando.

— Non gli farà male. Lasci che ascoltino. Lasci che vedano che anche una star famosa in tutto il mondo ha comunque dei problemi e delle preoccupazioni. — Poi si alzò. — Dove vuole andare? — chiese a Mary Anne. — A casa sua? — Significava tornare indietro, ma si sentiva tanto ottimista da correre il rischio.

— A casa mia? — balbettò lei.

— Pensa che potrei farle del male?

Per un breve intervallo, lei restò a riflettere nervosamente. — N… No — rispose alla fine.

— Ha un giradischi — le chiese lui — a casa?

— Sì, ma non dei migliori. È soltanto stereo. Però funziona.

— Okay. — Jason la prese per mano e l’accompagnò verso la cassa. — Andiamo.

23

Mary Anne Dominic aveva dipinto da sé le pareti e il soffitto. Colori bellissimi, forti, pieni. Jason si guardò attorno, colpito. E i pochi oggetti d’arte nel soggiorno avevano una loro potente bellezza. Pezzi di ceramica. Jason prese in mano un delizioso vaso azzurro verniciato a vetro e lo studiò.

— L’ho fatto io — disse Mary Anne.

— Questo vaso apparirà nel mio show.

Mary Anne lo fissò meravigliata.

— Lo userò molto presto. Per la precisione… — Se lo immaginava già. — Un bel numero con effetti speciali. Io che emergo dal vaso cantando, come un genio. — Alzò il vaso in aria, lo fece ruotare su una mano. — Nowhere Nuthin’ Fuck-up — disse. — E la sua carriera decollerà.

— Forse è meglio se lo regge con tutte e due le mani — disse Mary Anne un po’ nervosa.

Nowhere Nuthin’ Fuck-up. La canzone che ci ha dato più soddisfazioni… — Il vaso scivolò dalle dita di Jason e cadde. Mary Anne balzò in avanti, ma troppo tardi. Il vaso si ruppe in tre pezzi ai piedi di Jason. Gli orli non verniciati, sbiaditi e frastagliati, non avevano più la minima attrattiva.

Ci fu un lungo silenzio.

— Penso di poterlo aggiustare — disse Mary Anne. A lui non venne in mente niente che potesse dire.

— La cosa più imbarazzante che mi sia mai successa — continuò Mary Anne — mi è accaduta una volta con mia madre. Lei aveva una malattia progressiva ai reni, il morbo di Bright. Andava di continuo in ospedale, quando io ero piccola, e in tutte le conversazioni riusciva sempre a dire che sarebbe morta di quello e che io ne avrei sofferto un mondo, come se fosse stata colpa mia. E io le credevo sul serio, credevo che un giorno sarebbe morta. Però poi sono diventata adulta, ho lasciato casa nostra, e mia madre non era ancora morta. E io, quasi, mi sono dimenticata di lei. Avevo la mia vita, le mie cose da fare. Quindi, ovviamente, ho scordato la sua maledetta malattia renale. Poi un giorno lei è venuta a trovarmi, non qui, nell’appartamento che avevo prima, e ha continuato a tormentarmi con il racconto dei suoi dolori e con le sue lamentele eccetera eccetera… Alla fine le ho detto: “Devo andare a fare la spesa per la cena”, e sono uscita. Mia madre è venuta con me, camminando come poteva. Lungo la strada mi ha informata che ormai tutti e due i reni erano ridotti in condizioni tali che glieli dovevano togliere, che sarebbe stata ricoverata per l’operazione, che avrebbero cercato di trapiantarle un rene artificiale ma che, probabilmente, non avrebbe funzionato. Stava per morire sul serio, come aveva sempre detto… E all’improvviso io ho alzato gli occhi e mi sono resa conto di essere nel supermarket, al banco della carne, e quel commesso così carino che mi piaceva tanto si era avvicinato a salutare, e poi mi ha chiesto: “Cosa posso darle oggi, signorina?”. E io gli ho risposto: “Stasera a cena vorrei un timballo di rognoni”. Era imbarazzante. “Un grosso timballo di rognoni” gli ho detto, “croccante e tenero e ripieno di un buon sugo.” “Per quante persone?” ha chiesto lui. Mia madre continuava a fissarmi con un’espressione stravolta. Mi ero ficcata in quella situazione e non sapevo più come venirne fuori. Alla fine ho comperato un timballo di rognoni, ma ho dovuto andare al reparto gastronomia. Era in scatola, veniva dall’Inghilterra. L’ho pagato mi pare quattro dollari. Era ottimo.

— Le pagherò il vaso — disse Jason. — Quanto vuole?

Lei esitò. — Be’, a lei dovrei fare il prezzo al minuto perché non è un negoziante, e quindi…

Lui tirò fuori i soldi. — Prezzo al minuto.

— Venti dollari.

— Potrei presentarla nel mio show in un altro modo — disse Jason. — Basta trovare il modo giusto. Senta: possiamo mostrare al pubblico un vaso antico di valore inestimabile, diciamo un vaso cinese del V secolo. Ci sarà l’esperto di un museo a garantirne l’autenticità. Poi arriverà lei. Modellerà un vaso direttamente sotto gli occhi del pubblico, e noi dimostreremo che il suo vaso è migliore.

— Impossibile. Gli antichi vasi cinesi sono…

— Ma noi lo dimostreremo. Glielo faremo credere. Conosco il mio pubblico. Quei trenta milioni di persone si fanno le loro opinioni sulla base di quello che io gli dico. Faremo un primo piano sul mio viso, in modo che si veda la mia ammirazione per il suo vaso.

Mary Anne abbassò la voce. — Non posso presentarmi in televisione, con tutte quelle telecamere puntate su di me. Sono… troppo grassa. La gente riderebbe.

— Sarebbe una pubblicità enorme. Pensi a quanto potrebbe vendere. Musei e negozi conosceranno il suo nome, i suoi manufatti. Spunteranno acquirenti da ogni parte.

— Mi lasci in pace, per favore. — Il tono di Mary Anne era pacato. — Io sono felice così. Sono una buona vasaia. So che i negozi, quelli di qualità, apprezzano il mio lavoro. Non posso vivere la mia piccola vita come preferisco? — Fissò Jason con occhi intensi. La sua voce era solo un mormorio. — Non vedo cosa abbia fatto per lei tutta la sua celebrità. La fama. Nel caffè mi ha chiesto se nel juke-box ci fosse davvero il suo disco. Aveva paura che non fosse così. Era molto più insicuro di quanto sarò mai io.

— A proposito, vorrei sentire questi due album sul suo giradischi. Prima di andarmene.

— Lasci fare a me — disse Mary Anne. — Il mio impianto è scassato. — Prese i due dischi, e i venti dollari. Jason restò immobile dov’era, accanto ai tre pezzi di vaso.

Dopo un po’, sentì una musica familiare. Il suo album che aveva venduto di più. I solchi del disco non erano più vuoti.

— Può tenere gli album — disse. — Io vado. — “Adesso” pensò “non ne ho più bisogno. Probabilmente potrò comperarli in qualunque negozio di dischi.”

— Non è il tipo di musica che mi piace… Non credo che li ascolterei molto.

— Glieli lascio lo stesso.

Mary Anne disse: — Le darò un altro vaso per i suoi venti dollari. Un momento. — Corse nell’altra stanza. Jason udì rumore di carta, di cose spostate. La ragazza tornò con un altro vaso azzurro verniciato a vetro. Aveva qualcosa in più dell’altro. Jason intuì che lei lo considerava una delle sue migliori opere.

— Grazie — le disse.

— Glielo incarto e lo metto in una scatola, così non si romperà come l’altro. — Mary Anne si mise al lavoro con un’intensità febbrile e allo stesso tempo con estrema cura. — Trovo molto eccitante — disse, porgendogli la scatola — avere fatto colazione con un uomo famoso. Sono molto felice di averla incontrata e me ne ricorderò. E spero che i suoi problemi si risolvano.

Jason Taverner infilò la mano nella tasca interna della giacca, estrasse il piccolo portatessere di cuoio con le sue iniziali. Prese uno dei biglietti da visita multicolori e lo porse a Mary Anne. — Mi chiami allo studio quando vuole. Se cambiasse idea e volesse partecipare al mio programma. Sono sicuro che riusciremo a inserirla in scaletta. Qui c’è anche il mio numero privato.

— Addio. — Mary Anne gli aprì la porta.

— Addio. — Jason avrebbe voluto aggiungere qualcosa di più. Ma non restava altro da dire. — Abbiamo fallito — disse alla fine. — Tutti e due.

Lei sbatté le palpebre. — Cosa vorrebbe dire?

— Abbia cura di sé. — Jason uscì dall’appartamento, emerse sul marciapiede, nella luce del pomeriggio. Sotto il sole caldo del giorno.

24

Il medico legale, inginocchiato accanto al cadavere di Alys Buckman, disse: — Al momento posso dirle solo che è morta per un’overdose di una droga tossica o semitossica. Occorreranno ventiquattro ore per poter stabilire esattamente di che cosa si tratti.

Felix Buckman rispose: — Doveva succedere. Prima o poi. — Con sua grande sorpresa, non provava una forte emozione. Anzi, in un certo senso, avere saputo da Tim Chancer, la loro guardia privata, che Alys era stata trovata morta nel bagno del primo piano gli aveva procurato un profondo sollievo.

— Ho pensato che quel Taverner le avesse fatto del male — continuava a ripetere Chancer, nel tentativo di attirare l’attenzione di Buckman. — Il suo comportamento era strano. Ho capito che era successo qualcosa. Gli ho sparato un paio di volte, ma è riuscito a fuggire. Probabilmente è meglio che non l’abbia colpito, se è innocente. O magari si sentiva in colpa per avere spinto Alys a prendere la droga. È possibile?

— Nessuno doveva costringere Alys a prendere droga — rispose acido Buckman. Uscì dal bagno in corridoio. I pol in uniforme grigia erano sull’attenti. Aspettavano ordini. — Non aveva bisogno né di Taverner né di altri per drogarsi. — Adesso Buckman si sentiva male. “Dio” pensò, “come la prenderà Barney ?” Sarebbe stato straziante dirgli cos’era successo. Per motivi che gli erano oscuri, il figlio adorava la madre. “Be’” pensò, “nessuno riesce a capire i gusti degli altri.”

Eppure, la amava anche lui. “Alys possedeva una sua peculiare forza. Mi mancherà.” Alys aveva riempito molto del suo spazio.

E buona parte della sua vita. Nel bene o nel male.

Terreo in volto, Herbert Maime salì i gradini a due a due, gli occhi fissi su Buckman. — Sono arrivato il più in fretta possibile — disse, porgendo la mano a Buckman. Che gliela strinse. — Cos’è stato? — Herb abbassò la voce. — Un’overdose?

— A quanto sembra — rispose Buckman.

— Qualche ora fa mi è arrivata una telefonata da Taverner — disse Herb. — Voleva parlare con lei. Ha detto che si trattava di Alys.

— Voleva informarmi della morte di Alys. Era qui quando è successo.

— Perché? Come mai la conosceva?

— Non lo so — rispose Buckman. Comunque, al momento la cosa non gli sembrava molto importante. Non c’era motivo di incolpare Taverner dell’accaduto. Dato il temperamento e le abitudini di Alys, probabilmente era stata lei a trascinarlo lì. Forse, quando Taverner aveva lasciato il palazzo dell’accademia, lei l’aveva fermato e l’aveva caricato sul suo trabi truccato. E portato lì. Dopo tutto, Taverner era un Sei. E ad Alys piacevano i Sei. I maschi come le femmine.

Soprattutto le femmine.

— Potrebbe esserci stata un’orgia — disse.

— Con loro due soli? O sta dicendo che c’era altra gente?

— Non c’era nessun altro. Chancer lo saprebbe. Volevo dire che potrebbero avere fatto un’orgia via telefono. Alys è arrivata così vicino tante di quelle volte a bruciarsi il cervello con quelle fottute orge telefoniche… Quanto mi piacerebbe riuscire a pizzicare i nuovi gestori, quelli che sono subentrati dopo che abbiamo fatto fuori Bill e Carol e Fred e Jill. Degenerati. — Con dita tremanti, portò alle labbra una sigaretta e aspirò avidamente il fumo. — Mi viene in mente una cosa che ha detto una volta Alys. Una battuta involontaria. Stava parlando di organizzare un’orgia e si chiedeva se dovesse spedire degli inviti formali. “Forse è meglio” ha detto, “se no non verranno tutti contemporaneamente.” — Rise.

— Me l’aveva già raccontato — commentò Herb.

— È morta sul serio. Morta stecchita. — Buckman spense la sigaretta in un posacenere. — Mia moglie — disse a Herb Maime. — Era mia moglie.

Herb scosse la testa, indicò i due agenti in uniforme grigia immobili sull’attenti.

— E con ciò? — chiese Buckman. — Non hanno letto il libretto di Die Walküre? — Tremante, accese un’altra sigaretta. — Sigmund e Siglinde. Schwester und Braut. Sorella e sposa. E al diavolo Hunding. — Buttò la sigaretta sul tappeto. La guardò bruciare, cominciare ad appiccare il fuoco alla lana. Poi, con il tacco dello stivale, la spense.

— Dovrebbe mettersi a sedere — disse Herb. — O sdraiarsi. Ha un aspetto terribile.

— È orrendo — disse Buckman. — Davvero. C’erano tante cose in lei che non mi piacevano, ma Cristo!, com’era vitale. Era sempre pronta a provare tutte le novità. È stato questo a ucciderla. Probabilmente una nuova droga che lei e le sue amiche streghe hanno preparato nei loro miserabili laboratori, in qualche cantina. Qualcosa che conteneva liquido per lo sviluppo fotografico o Drano o anche di peggio.

— Penso che dovremmo parlare con Taverner — disse Herb.

— Okay. Portalo dentro. Ha addosso quel microtras, no?

— A quanto pare, no. Tutte le microspie che gli abbiamo messo addosso quando è uscito dall’accademia hanno smesso di funzionare. Tranne forse la bomba-seme. Ma non abbiamo motivo di attivarla.

— Taverner è un bastardo furbo — disse Buckman. — Oppure l’hanno aiutato. Una o più d’una delle persone con le quali lavora. Non prenderti il disturbo di far detonare la bomba-seme. Senza dubbio qualche suo zelante collega gliel’ha tolta dalla pelle. — “Oppure è stata Alys” pensò. “La mia servizievole sorellina. Sempre pronta ad assistere la polizia in ogni occasione. Splendido.”

— Sarà meglio che lei lasci la casa per un po’ — disse Herb. — Intanto che lo staff del coroner completa il suo lavoro.

— Riportami all’accademia. Non credo di riuscire a guidare. Tremo troppo. — Buckman sentì qualcosa sul viso. Si toccò e scoprì di avere il mento bagnato. — Che cos’è? — chiese stupefatto.

— Sta piangendo — rispose Herb.

— Riportami all’accademia. Finirò quello che devo fare prima di passare tutto nelle tue mani. Poi voglio tornare qui. — “Forse Taverner le ha dato qualcosa” si disse Buckman. “Ma Taverner è una nullità. È stata lei. Eppure…”

— Andiamo. — Herb lo prese per il braccio e lo guidò giù per la scala.

Mentre scendevano, Buckman chiese: — Avresti mai pensato di vedermi piangere in questo cazzo di mondo?

— No — rispose Herb. — Ma è comprensibile. Voi due eravate molto uniti.

— Puoi dirlo forte. — Buckman fu invaso da un’ira improvvisa, tremenda. — Dio la maledica! Gliel’avevo detto che prima o poi le sarebbe successo. Qualcuno dei suoi amici ha preparato quella roba e ha usato lei come cavia.

— Non si sforzi di lavorare troppo in ufficio — disse Herb. Dal soggiorno raggiunsero l’uscita. Fuori erano parcheggiati i loro due trabi. — Faccia solo il minimo indispensabile per poter passare il lavoro a me.

— Gliel’avevo detto. Nessuno mi dà mai ascolto, cazzo!

Herb gli diede una pacca sulla spalla e non parlò. I due attraversarono il prato in silenzio.

Durante il volo di ritorno all’accademia, Herb, che guidava, disse: — Ho delle sigarette nella giacca. — Era la prima frase che uno dei due pronunciasse da quando erano saliti sul trabi.

— Grazie. — Buckman aveva finito la sua razione settimanale di tabacco.

— Voglio discutere di una cosa con lei — aggiunse Herb. — Vorrei poterla rimandare, ma non si può.

— Non puoi aspettare finché saremo in ufficio?

— Quando torneremo, potrebbe esserci altro personale ad alto livello. Oppure anche solo altra gente. Il mio staff, per esempio.

— Io non ho niente da dire che…

— Mi stia a sentire — lo interruppe Herb. — Si tratta di Alys. Del suo matrimonio con lei. Con sua sorella.

— Il mio incesto — disse Buckman con voce rauca.

— Alcuni dei marescialli potrebbero esserne informati. Alys ne ha parlato con troppa gente. Sa come la pensava.

— Ne era orgogliosa. — Buckman accese una sigaretta con una certa difficoltà. Non riusciva ancora a togliersi dalla mente il fatto di essersi messo a piangere. “Dovevo amarla sul serio” si disse. “E invece mi sembrava di provare solo paura e disgusto. E l’attrazione sessuale. Quante volte ne abbiamo discusso prima di farlo. Per tutti quegli anni.” — Io l’ho detto soltanto a te.

— Ma Alys…

— Okay. D’accordo, forse alcuni dei marescialli lo sanno. E magari il direttore, se la cosa può essere di qualche interesse per lui.

— I marescialli che le sono nemici — disse Herb — e che sanno del… — Esitò. — Dell’incesto… Diranno che si è suicidata. Per la vergogna. Se lo può aspettare. E faranno filtrare la notizia ai media.

— Tu credi? — Buckman si disse che sarebbe stata una bella storia. Il matrimonio di un generale di polizia con la sorella, benedetto dalla nascita di un bambino nascosto in Florida. Il generale e la sorella che si presentano come marito e moglie in Florida, quando sono con il figlio. E il bambino: il frutto di quello che dev’essere un patrimonio genetico segnato da tare.

— Quello che vorrei farle capire — disse Herb, — e temo che dovrà riflettere sulla cosa proprio adesso, che non è certo il momento ideale data la morte di Alys…

— È il nostro coroner. È un uomo nostro, dell’accademia. — Buckman non capiva dove volesse arrivare Herb. — Dirà che si è trattato di un’overdose di una droga semitossica, come ci ha già anticipato.

— Ma ingerita deliberatamente. Una dose da suicidio.

— Cosa vuoi che faccia?

Herb rispose: — Lo costringa a compilare un referto di omicidio. Glielo ordini.

E Buckman capì. Col tempo, superata l’ondata di dolore, ci sarebbe arrivato anche lui. Ma Herb Maime aveva ragione: la questione andava affrontata subito. Ancora prima di tornare all’accademia.

— Così — disse Herb — potremo dire che…

— Che gli uomini della gerarchia della polizia ostili alla mia politica nei confronti dei campus e dei campi di lavoro si sono vendicati uccidendo mia sorella — concluse a denti stretti Buckman. Gli si raggelava il sangue all’idea di avere già cominciato a pensare a una cosa simile. Ma…

— Qualcosa del genere — disse Herb. — Senza fare nomi in particolare. Nessun nome di alti ufficiali. Basterà lasciar capire che loro hanno pagato qualcuno per farlo. O hanno dato l’ordine a qualche giovane funzionario ansioso di far carriera. Non crede che io abbia ragione? E bisogna agire in fretta, fare una dichiarazione immediata. Non appena rientreremo all’accademia lei dovrebbe spedire un comunicato di questo tenore a tutti i marescialli e al direttore.

“Devo trasformare una terribile tragedia personale in un vantaggio” si rese conto Buckman. “Sfruttare la morte accidentale di mia sorella. Se è stata accidentale.”

— Magari è vero — disse. Per esempio, forse l’omicidio poteva essere stato organizzato dal maresciallo Holbein, che lo odiava a morte.

— No — disse Herb. — Non è vero. Ma apra un’inchiesta. E deve trovare qualcuno da accusare. Deve esserci un processo.

— Sì — convenne lui, cupo. Un processo coi fiocchi. Che si concludesse con un’esecuzione capitale. Coi media che strepitavano truci, che parlavano del coinvolgimento di “autorità superiori” intoccabili grazie alla loro posizione. E il direttore, se tutto fosse filato liscio, avrebbe espresso ufficialmente il suo cordoglio per la tragedia unitamente alla speranza che i colpevoli venissero identificati e puniti.

— Mi spiace di avergliene dovuto parlare così presto — disse Herb. — Ma l’hanno già degradata da maresciallo a generale. Se la storia dell’incesto diventasse di dominio pubblico, potrebbero riuscire a costringerla ad andare in pensione. Ovviamente, se prendiamo noi l’iniziativa, potrebbero diffondere la storia dell’incesto. Speriamo che lei sia coperto a sufficienza.

— Ho fatto tutto il possibile — disse Buckman.

— Chi dobbiamo incolpare?

— Il maresciallo Holbein e il maresciallo Ackers. — L’odio di Buckman per i due era grande quanto il loro per lui: cinque anni prima, avevano massacrato più di diecimila studenti della Stanford University: l’ultimo, e del tutto superfluo, atroce bagno di sangue dell’atrocità suprema rappresentata dalla seconda guerra civile.

— Non alludevo ai mandanti dell’omicidio — disse Herb. — Holbein e Ackers e gli altri. Parlavo di chi ha materialmente somministrato la droga.

— Il pesce piccolo. Qualche prigioniero politico di uno dei campi di lavori forzati. — Non aveva la minima importanza. Sarebbe andato benissimo uno dei milioni di prigionieri dei campi, o uno studente che vivesse in un kibbutz destinato al fallimento.

— Io incriminerei qualcuno più in alto — disse Herb.

— Perché? — Buckman non riusciva a seguire la logica del suo sottoposto. — Si è sempre fatto così: l’apparato sceglie uno sconosciuto, un insignificante…

— Incastriamo uno degli amici di Alys. Qualcuno che potesse starle alla pari. Anzi, qualcuno molto noto. Anzi, qualcuno dell’ambiente artistico di questa zona. Alys era una fotticelebrità.

— Perché qualcuno d’importante?

— Per poter collegare Holbein e Ackers a quei degenerati, ai fanatici delle orge telefoniche che Alys frequentava. — Adesso Herb sembrava veramente arrabbiato. Buckman gli lanciò un’occhiata perplessa. — Quelli che l’hanno effettivamente uccisa. I suoi amici di queste porcate alla moda. Scelga qualcuno che stia il più in alto possibile. A quel punto, avrà davvero qualcosa di grosso da scaricare sui marescialli. Pensi allo scandalo che ne nascerà. Holbein coinvolto nelle orge via telefono.

Buckman spense la sigaretta e ne accese subito un’altra. Intanto continuava a pensare. “Quel che devo fare è batterli sul terreno dello scandalo. La mia storia dev’essere più schifosa della loro.”

Sarebbe occorsa una storia molto forte.

25

Nella sua suite ufficio, nel palazzo dell’accademia di polizia di Los Angeles, Felix Buckman si mise al lavoro sui messaggi, le lettere e i documenti che trovò sulla scrivania. Selezionò quelli da sottoporre all’attenzione di Herb Maime e accantonò quelli che potevano aspettare. Lavorò frettolosamente, senza impegno. Mentre lui studiava le varie carte, Herb, nel proprio ufficio, cominciò a scrivere la prima bozza del comunicato sulla morte di Alys che Buckman avrebbe reso di dominio pubblico.

Finirono tutti e due in poco tempo e si riunirono nell’ufficio di Buckman, dove il generale lavorava alle questioni cruciali.

Seduto all’enorme scrivania di quercia, lesse la prima stesura preparata da Herb. — Dobbiamo proprio farlo? — chiese quando ebbe finito.

— Sì. Se lei non fosse così ottenebrato dal dolore, sarebbe il primo ad ammetterlo. È stata la sua lungimiranza su opportunità come queste a mantenerla ai massimi livelli. Se non avesse avuto questa abilità, cinque anni fa l’avrebbero degradata a maggiore e sbattuta in una scuola d’addestramento.

— Allora dirama subito il comunicato — disse Buckman. — Aspetta. — Fece cenno a Herb di tornare indietro. — Hai citato il coroner. I media non supporranno che non può avere completato i suoi esami così in fretta?

— Ho retrodatato la morte. Ho scritto che si è verificata ieri. Proprio per questo motivo.

— È necessario?

Herb rispose semplicemente: — La nostra dichiarazione deve arrivare prima della loro. E loro non aspetteranno che il coroner finisca i suoi esami.

— Va bene. Procedi pure.


Peggy Beason entrò nell’ufficio di Buckman. Aveva con sé diversi memorandum e una cartella gialla. — Signor Buckman, non vorrei disturbarla in un momento simile, ma questi…

— Gli darò un’occhiata — disse Buckman. “Ma niente di più” pensò. “Poi tornerò a casa.”

Peggy disse: — Sapevo che stava cercando questo fascicolo. Come l’ispettore McNulty. È appena arrivato. Una decina di minuti fa, dalla centrale dati. — Mise la cartella davanti al generale, sulla scrivania. — Il fascicolo di Jason Taverner.

Buckman, stupefatto, disse: — Ma non esiste un fascicolo su Jason Taverner.

— Pare che l’avesse preso in consultazione qualcun altro. Comunque, ce l’hanno appena trasmesso, quindi dev’essere stato restituito. Non ci sono note esplicative. La centrale dati ha solo…

— Vattene. Lo esaminerò.

Peggy Beason uscì in silenzio dall’ufficio e chiuse la porta alle proprie spalle.

— Non avrei dovuto parlarle in quel modo — disse Buckman a Herb Maime.

— è un momento particolare…

Buckman aprì il fascicolo di Jason Taverner e si trovò di fronte una foto pubblicitaria, venti centimetri per dodici. Il foglietto graffettato alla fotografia diceva: “Per gentile concessione del Jason Taverner Show, ogni martedì sera alle 21.00, sulla nbc”.

— Mio Dio! — esclamò Buckman. “Gli dei” pensò “stanno giocando con noi. Ci tarpano le ali.”

Herb allungò il collo per guardare. Assieme, muti, i due osservarono la fotografia pubblicitaria. Alla fine, fu Herb a dire: — Vediamo che altro c’è.

Buckman tolse la foto col foglietto e lesse la prima pagina del dossier.

— Quanti spettatori? — chiese Herb.

— Trenta milioni. — Buckman attivò il citofono interno. — Peggy, chiama la consociata della nbc qui a Los Angeles. La knbc o come si chiama. Fammi parlare con uno dei dirigenti. Un pezzo grosso. Il più grosso che puoi. Di’ che è la polizia.

— Sì, signor Buckman.

Un attimo dopo, un viso dall’aria autorevole si materializzò sullo schermo del videotelefono, e una voce disse a Buckman: — Sì, signore? Cosa possiamo fare per lei?

— Trasmettete voi il Jason Taverner Show?

— Tutti i martedì sera, da tre anni. Alle ventuno in punto.

— Lo mandate in onda già da tre anni?

— Sì, generale.

Buckman riappese.

— Allora — chiese Herb Maime — come mai Taverner è andato a procurarsi dei documenti d’identità falsi a Watts?

— Non avevamo trovato nemmeno il suo certificato di nascita — disse Buckman. — Abbiamo provato con tutte le banche dati, tutti gli archivi di giornale. Tu hai mai sentito parlare del Jason Taverner Show del martedì sera?

— No. — Il tono di Herb era cauto, esitante.

— Non ne sei certo?

— Abbiamo parlato così tanto di Taverner…

— Io non l’ho mai sentito. E guardo la televisione tutte le sere, per due ore. Dalle otto alle dieci. — Buckman passò al foglio successivo. Lanciò via il primo, che cadde sul pavimento. Herb si chinò a raccoglierlo.

Sulla seconda pagina c’era un elenco dei dischi che Jason Taverner aveva inciso nel corso degli anni con titolo, numero di serie e data. Buckman rimase a fissare il foglio. L’elenco iniziava diciannove anni prima.

— Ci ha detto di essere un cantante — commentò Herb. — E da uno dei documenti risultava iscritto al Sindacato musicisti. Quindi la sua versione era vera.

— È tutto vero — disse Buckman. Passò alla terza pagina, che illustrava la situazione finanziaria di Jason Taverner, le fonti e l’ammontare del suo reddito.

— Molto più di quanto guadagni io come generale di polizia. Più di quello che guadagniamo tu e io messi assieme.

— È pieno di soldi. E ne ha dati parecchi a Kathy Nelson. Ricorda?

— Sì. Kathy l’ha detto a McNulty. Ricordo bene di averlo letto nel suo rapporto. — Buckman rifletté. Si mise a fare le orecchie al foglio fotocopiato, automaticamente. Poi si fermò. Di colpo.

— Cosa c’è? — chiese Herb.

— Questa è una fotocopia. I dossier originali non escono mai dalla centrale dati. Vengono inviate solo delle copie.

— Però bisogna estrarre l’originale dall’archivio per poterlo fotocopiare.

— Un arco di tempo di cinque secondi — disse Buckman.

— Non lo so. Non mi chieda spiegazioni. Non so quanto tempo occorra.

— Sì che lo sai. Lo sappiamo tutti. L’abbiamo visto fare un milione di volte. Succede tutti i giorni.

— Allora il computer ha sbagliato.

— Okay. Non ha mai avuto affiliazioni politiche. È assolutamente pulito. Buon per lui. — Buckman continuò a sfogliare il dossier. — Per un po’ ha avuto a che fare con il crimine organizzato. Andava in giro armato di pistola, ma aveva il porto d’armi. Due anni fa gli ha fatto causa uno spettatore. Diceva che l’avevano preso in giro in una scenetta comica del programma. Un certo Artemus Franks che vive a Des Moines. Hanno vinto gli avvocati di Taverner. — Lesse qua e là, senza cercare nulla in particolare, stupendosi a ogni notizia. — Il suo quarantacinque giri Nowhere Nuthin ‘ Fuck-up, l’ultimo che ha inciso, ha venduto più di due milioni di copie. Ne hai mai sentito parlare?

— Non so — rispose Herb.

Buckman lo fissò per qualche istante. — Io, mai. È questa la differenza tra te e me, Maime. Tu non sei sicuro. Io lo sono sempre.

— Ha ragione. Però, a questo punto, non ho più certezze. Trovo molto sconcertante l’intera faccenda, e abbiamo altre cose da sistemare. Dobbiamo pensare ad Alys e al rapporto del coroner. Dovremmo parlargli al più presto possibile. Probabilmente è ancora a casa sua. Lo chiamo e lei potrebbe…

— Taverner — disse Buckman — era con Alys quando è morta.

— Sì, lo sappiamo. L’ha detto Chancer. Lei ha deciso che non era importante. Però, secondo me, solo per amore di completezza, dovremmo farlo portare qui e parlargli. Sentire cos’ha da dire.

— È possibile che Alys lo conoscesse già da prima? — Buckman si mise a riflettere. Sì, le erano sempre piaciuti i Sei, specialmente quelli che lavoravano nel campo dello spettacolo. Come Heather Hart. L’anno precedente, Alys e la Hart avevano avuto una storia che era durata tre mesi… “Una relazione della quale ho rischiato di rimanere all’oscuro. Sono state bravissime a nasconderla. Una delle poche volte in cui Alys ha tenuto la bocca chiusa.”

E, in quel momento, Buckman vide nel dossier di Jason Taverner un accenno a Heather Hart. Studiò le frasi, pensando alla cantante. Heather Hart era l’amante di Taverner da circa un anno.

— Dopo tutto — disse, — sono entrambi Sei.

— Taverner e chi?

— Heather Hart. La cantante. Il dossier è aggiornato. Dice che Heather Hart ha partecipato allo show di Jason Taverner questa settimana. Come ospite speciale. — Buckman allontanò il dossier e frugò nella giacca in cerca di sigarette.

— Tenga. — Herb gli passò il suo pacchetto. Buckman si grattò il mento. — Vediamo di convocare anche la Hart. Assieme a Taverner.

— Okay. — Herb annuì e prese un appunto sul taccuino che portava sempre nel taschino del panciotto.

— È stato Jason Taverner — disse in tono sommesso Buckman, come parlando a se stesso — a uccidere Alys. Era geloso di Heather Hart. Ha saputo della relazione tra le due.

Herb Maime sbatté le palpebre.

— Non va bene? — Buckman scrutò Herb Maime con intensità.

— Okay — rispose dopo un po’ Herb Maime.

— Movente. Occasione. Un testimone: Chancer, che può giurare che Taverner è uscito di corsa da casa mia, stravolto, e ha cercato di impossessarsi delle chiavi del trabi di Alys. Poi, quando Chancer si è insospettito ed è entrato in casa a controllare, Taverner è fuggito. Con Chancer che sparava dei colpi in aria a scopo intimidatorio e gli urlava di fermarsi.

Herb annuì. Muto.

— È fatta — disse Buckman.

— Vuole che lo arrestiamo subito?

— Al più presto.

— Avvertiremo tutti i punti di controllo. Dirameremo un mandato di cattura. Se Taverner è ancora a Los Angeles, potremmo riuscire a rintracciarlo facendo proiettare il suo elettroencefalogramma da un elicottero. Un confronto di onde cerebrali, come stanno cominciando a fare a New York. Volendo, possiamo richiedere un elicottero a New York proprio per questo.

— Ottimo.

— Diremo che Taverner era coinvolto nelle orge di Alys?

— Non c’è stata nessuna orgia — disse Buckman.

— Holbein e i suoi alleati faranno…

— Che si provino a dimostrarlo. Qui, in un tribunale della California. Nella nostra giurisdizione.

— Perché Taverner? — chiese Herb.

— Qualcuno dev’essere stato — rispose Buckman, quasi tra sé. Intrecciò le dita sul piano della grande, antica scrivania di quercia. Premette un dito contro l’altro, in una spinta convulsa, facendo ricorso a tutta la forza che possedeva. — È sempre, sempre — disse — qualcuno. E Taverner è qualcuno d’importante. Proprio il tipo di persona che Alys amava. In effetti, lui era a casa mia proprio per questo. È il tipo di celebrità che lei preferiva. E… — Alzò lo sguardo. — Perché no? Andrà benissimo.

“Già, perché no?” pensò. E continuò, cupo, a premere le dita l’una contro l’altra, sempre più forte, sulla scrivania.

26

Mentre camminava sul marciapiede allontanandosi dall’appartamento di Mary Anne Dominic, Jason Taverner si disse: “La ruota della fortuna è girata. Mi è stato restituito tutto, tutto quello che avevo perso. Sia ringraziato Dio!

“Sono l’uomo più felice di questo fottuto mondo. È il giorno più bello della mia vita. Non sei mai in grado di apprezzare ciò che hai finché non lo perdi, finché all’improvviso non l’hai più. Be’, per due giorni ho perso il mio mondo, e ora l’ho ritrovato, e adesso lo apprezzo di più.”

Stringendo a sé la scatola con il vaso di Mary Anne, corse in strada a fermare un taxi che stava passando.

— Dove andiamo, signore? — chiese il taxi aprendo la portiera.

Col fiatone per la stanchezza, Jason salì a bordo e chiuse manualmente la portiera. — Northern Lane, 803. Beverly Hills. — L’indirizzo di Heather Hart. Finalmente sarebbe tornato da lei.

Il taxi schizzò in cielo e lui si adagiò, sollevato, sul sedile. Si sentiva ancora più stanco di quanto fosse nell’appartamento di Mary Anne. Erano successe tante cose. “E Alys Buckman?” si chiese. “Dovrei tentare di nuovo di contattare il generale Buckman? Ma ormai, con ogni probabilità, sarà già stato informato dei fatti. E io dovrei tenermi fuori da questa storia.

Una star della televisione e della canzone non deve restare coinvolta in faccende come questa. La stampa scandalistica è sempre pronta a sfruttare sino in fondo occasioni simili.

“Però sono in debito con lei. È stata Alys a togliere i congegni elettronici che mi hanno messo addosso prima che lasciassi l’accademia di polizia.

“Ma adesso non mi cercheranno più. Ho di nuovo i miei documenti; sono conosciuto nel mondo intero. Trenta milioni di spettatori possono testimoniare la mia esistenza.

“Non dovrò mai più avere paura di un punto di controllo” si disse. Chiuse gli occhi e si appisolò.

— Ci siamo, signore — disse all’improvviso il taxi. Jason riaprì gli occhi e si tirò su. Già arrivati? Guardò fuori dal finestrino e vide il condominio dove Heather aveva il suo nascondiglio sulla West Coast.

— Okay. — Si frugò in tasca, in cerca del denaro. — Grazie. — Pagò il taxi, che aprì la portiera per lasciarlo scendere. Nuovamente di buonumore, Jason chiese: — Se non avessi i soldi per la corsa, mi lasceresti uscire?

Il taxi non rispose. Non era programmato per quella domanda. Ma, del resto, a lui che diavolo importava? I soldi li aveva.

Si avviò sul marciapiede, poi imboccò il sentiero lastricato ad assi di sequoia che portava all’atrio d’ingresso del lussuoso edificio: dieci piani che galleggiavano, su cuscini di aria compressa, a un paio di metri dal suolo. Il fluttuare del condominio dava agli inquilini la continua sensazione di venire dolcemente cullati, come se fossero attaccati al petto di una madre gigantesca. A Jason era sempre piaciuto. Sulla East Coast non aveva preso piede, ma lì, all’Ovest, era una delle mode più costose.

Suonò il campanello dell’appartamento di Heather. Teneva la scatola del vaso sulle punte delle dita della mano destra. “Meglio di no” decise. “Potrebbe cadermi anche questo, come mi è già successo con l’altro. Però adesso non mi tremano più le mani.

“Regalerò il vaso a Heather” decise. “Un dono che ho scelto per lei perché conosco bene i suoi gusti raffinati.”

Si accese lo schermo del videocitofono dell’appartamento di Heather. Apparve un viso femminile che lo scrutò: Susie, la cameriera di Heather.

— Oh, signor Taverner — disse, e fece subito scattare la serratura della porta: tutto comandato a distanza, dal regno della massima sicurezza. — Entri. Heather è uscita ma…

— Aspetterò. — Jason attraversò l’atrio, entrò in ascensore, premette il pulsante di salita e aspettò.

Un attimo dopo, Susie teneva aperta per lui la porta dell’appartamento di Heather. Scura di carnagione, minuta e carina, lo salutò come faceva sempre: con molto calore. E con familiarità.

— Ciao — le disse Jason, ed entrò.

— Come le dicevo, Heather è uscita a fare shopping, ma dovrebbe rientrare per le otto. Oggi ha un sacco di tempo libero e mi ha detto che vuole sfruttarlo al meglio, perché per il fine settimana ha in programma una lunga seduta di registrazione con la RCA.

— Non ho fretta — rispose in tutta sincerità lui. Passò in soggiorno e mise la scatola con il vaso sul tavolino da caffè, esattamente al centro, dove Heather non avrebbe potuto fare a meno di vederla. — Ascolterò un po’ di musica — disse. — Se per te va bene.

— Non lo fa sempre? — ribatté Susie. — E poi devo uscire anch’io. Ho un appuntamento con il dentista alle quattro e un quarto, e sta dall’altra parte di Hollywood.

Lui le circondò il corpo con un braccio e strinse il sodo seno destro.

— Oggi siamo eccitati, eh? — disse Susie, compiaciuta.

— Diamoci da fare.

— Lei è troppo alto per me. — Susie tornò alle sue solite occupazioni.

Raggiunto il giradischi, Jason si mise a studiare una pila di dischi che erano stati ascoltati di recente. Non ce n’era uno solo che gli interessasse, così si chinò a guardare i dorsi degli altri album. Ne scelse diversi di Heather, e un paio dei suoi. Li sistemò tutti sul perno cambiadischi e accese l’apparecchio. La puntina scese sul primo, e la musica di The Heart of Hart, uno dei suoi brani preferiti, riecheggiò nel grande soggiorno. Gli splendidi tendaggi rendevano ancora più morbidi gli accordi musicali diffusi dalle casse quadrifoniche sapientemente sparse nel locale.

Si sdraiò sul divano, si tolse le scarpe e si mise comodo. “Heather ha fatto un lavoro davvero buono quando ha inciso questo disco” si disse. “E io sono più esausto di quanto lo sia mai stato in vita mia. La mescalina mi fa sempre questo effetto. Potrei dormire per una settimana. Magari lo farò. Dormirò al suono della voce di Heather e della mia. Perché non abbiamo mai inciso un album assieme? Sarebbe una buona idea. Venderebbe bene.” Chiuse gli occhi. “Vendite doppie, e Al potrebbe farci ottenere una grossa promozione dalla RCA. Però io sono sotto contratto con la Reprise. Be’, si può trovare un accordo. Ci sarà da lavorarci su. Parecchio. Ma ne vale la pena.”

A occhi chiusi, disse: — E ora, la voce di Jason Taverner. — Il perno fece scendere il disco successivo. Di già? Si rizzò a sedere, guardò l’orologio. Aveva dormicchiato mentre The Heart of Hart girava sul piatto. Non l’aveva praticamente sentito. Si sdraiò e chiuse di nuovo gli occhi. “Dormire” pensò “al suono del mio canto.” La sua voce, esaltata da due piste di chitarre e archi, gli risuonava attorno.

Buio. Riaprì gli occhi e si mise a sedere. Si rese conto che era passato molto tempo.

Silenzio. Tutti i dischi che aveva messo sul perno automatico erano stati suonati. Era trascorso un sacco di tempo. Che ora era?

A tentoni trovò una lampada che gli era familiare. Individuò l’interruttore e l’accese.

Il suo orologio segnava le dieci e mezzo. Aveva freddo, e fame. “Dov’è Heather?” si chiese, armeggiando con le scarpe. “Ho i piedi freddi e umidi e lo stomaco vuoto. Magari potrei…”

La porta d’ingresso si spalancò. Apparve Heather, con il suo cappotto leggero. Aveva in mano una copia del “Los Angeles Times”. Il suo viso grigio, livido, scrutò Jason come una maschera funebre.

— Cosa c’è? — chiese lui terrorizzato.

Lei gli si avvicinò e gli tese il giornale. In silenzio. In silenzio, lui lo prese. Lesse.


DIVO TELEVISIVO RICERCATO PERCHÉ COINVOLTO NELL’OMICIDIO DELLA SORELLA DI UN GENERALE DI POLIZIA


— Hai ucciso tu Alys Buckman? — chiese Heather con un tono ansioso di voce.

— No.

Jason lesse l’articolo.


La polizia di Los Angeles ritiene che il popolare divo televisivo Jason Taverner, star dello show di varietà che porta il suo nome, sia coinvolto in quello che le autorità giudicano un omicidio perpetrato a scopo di vendetta e preparato con ogni cura. L’ha annunciato oggi l’accademia di polizia. Taverner, quarantadue anni, è ricercato sia…


Lui smise di leggere e accartocciò furiosamente il giornale. — Merda — disse. Inspirò a fondo e rabbrividì.

— Qui scrivono che Alys aveva trentasette anni — disse Heather. — Io so per certo che ne ha, ne aveva di più.

— Ero presente quando è morta — disse Jason. — Mi trovavo a casa sua.

— Non sapevo che la conoscessi.

— L’avevo appena incontrata. Oggi.

— Oggi? Soltanto oggi? Ne dubito.

— È vero. Il generale Buckman mi ha interrogato all’accademia di polizia e lei mi ha fermato quando sono uscito. Mi avevano messo addosso tutta una serie di apparecchi elettronici, compresa…

— Lo fanno solo agli studenti — disse Heather.

— E lei me li ha tolti — concluse lui. — Poi mi ha invitato a casa loro.

— Ed è morta.

— Sì. — Jason annuì. — Ho visto il suo corpo come se fosse uno scheletro ingiallito dal tempo e mi sono spaventato. Maledizione se mi sono spaventato! Ho tagliato la corda il più in fretta possibile. Non l’avresti fatto anche tu?

— Perché l’hai vista come se fosse uno scheletro? Avevate preso qualche droga? Lei ne prendeva sempre, così immagino che l’abbia fatto anche tu.

— Mescalina. O così mi ha detto lei, ma non credo che lo fosse. — “Vorrei tanto sapere che roba era” si disse Jason, il cuore ancora stretto nella morsa della paura. “E questa che sto vivendo è un’allucinazione provocata sempre da quella schifezza, come lo era lo scheletro? Sto vivendo tutto realmente oppure mi trovo in quella stanza di motel infestata dalle pulci? Buon Dio, cosa faccio adesso?”

— Ti conviene costituirti — disse Heather.

— Non possono addossare la colpa a me — ribatté lui. Ma sapeva che non era vero. Negli ultimi due giorni aveva imparato parecchie cose sul conto della polizia che dominava il loro mondo. L’eredità della seconda guerra civile, pensò. Dai porci ai pol. In un solo balzo.

— Se non hai fatto niente, non ti incrimineranno. I pol sono giusti. Non hai alle calcagna i naz.

Jason riaprì il giornale e lesse qualche altra riga.


… ritiene si sia trattato di un’overdose di un composto tossico somministrato da Taverner mentre la signorina Buckman dormiva oppure si trovava in stato…


— Qui dicono che l’omicidio è avvenuto ieri — disse Heather. — Tu dov’eri, ieri? Ho chiamato il tuo appartamento e non ho avuto risposta. E mi hai appena detto…

— Non è stato ieri. È successo stamattina. — Tutto era diventato irreale. Jason si sentiva privo di peso, come se stesse fluttuando, assieme all’appartamento, verso un cielo sterminato. Il cielo dell’oblio. — Hanno retrodatato la morte. Una volta ho avuto ospite del mio show un tecnico dei laboratori di polizia, e dietro le quinte mi ha spiegato come…

— Chiudi il becco! — ordinò Heather, secca.

Lui smise di parlare. E restò lì. Inerme. In attesa.

— Nell’articolo c’è anche qualcosa su di me — disse Heather a denti stretti. — Vai all’ultima pagina.

Obbediente, lui passò all’ultima pagina, dove l’articolo continuava.


Come ipotesi, i funzionari di polizia hanno proposto la tesi che la relazione tra Heather Hart, a sua volta una figura molto popolare della televisione e dell’industria discografica, e Alys Buckman abbia scatenato il desiderio di vendetta di Taverner, che…


— Che tipo di relazione avevi con Alys? — chiese Jason. — Conoscendola…

— Ma hai detto di non conoscerla. Hai detto di averla incontrata solo oggi.

— Era un tipo strano. Francamente, penso che fosse lesbica. Voi due avete avuto una relazione sessuale? — Jason sentì aumentare il volume della propria voce. Non riusciva a controllarlo. — È questo che l’articolo lascia intendere. Giusto o no?

La forza dello schiaffo gli fece bruciare il volto. Jason indietreggiò automaticamente e alzò le mani per difendersi. Nessuno l’aveva mai schiaffeggiato in quel modo. Faceva un male del diavolo. Gli rimbombavano le orecchie.

— Okay — sussurrò Heather. — Restituiscimi il colpo.

Lui alzò il braccio, strinse la mano a pugno, poi lasciò ricadere il braccio e riaprì le dita. — Non ci riesco — disse. — Anche se mi piacerebbe. Sei fortunata.

— È probabile. Se hai ucciso lei, potresti uccidere anche me. Cos’hai da perdere? Ti manderanno comunque nella camera a gas.

— Tu non mi credi. Non credi che non sia stato io.

— Questo non ha importanza. Loro pensano che sia tu il colpevole. Anche se ne verrai fuori, sarà la fine della tua carriera. E della mia, tra l’altro. Siamo finiti. Lo capisci? Ti rendi conto di cosa hai fatto? — Adesso Heather stava urlando. Jason, spaventato, le si avvicinò, poi si allontanò di nuovo, quando il volume della voce di lei si alzò. Era completamente confuso.

— Se potessi parlare con il generale Buckman — le disse, — forse riuscirei a…

— Suo fratello? Vuoi chiedere aiuto a lui? — Heather si piazzò di fronte a Jason. Le sue dita si contraevano come artigli. — È il capo della commissione che sta indagando sul delitto. Non appena il coroner ha stabilito che si è trattato di omicidio, il generale Buckman ha annunciato che si sarebbe occupato personalmente della cosa. Ma non riesci nemmeno a leggere l’articolo per intero? Io l’ho letto dieci volte mentre tornavo a casa. Ho comperato il giornale a Bel Air, dopo avere ritirato la mia nuova veletta, quella che mi avevano ordinato in Belgio. Era arrivata, finalmente. E adesso… Che importanza può più avere?

Jason tentò di prenderla tra le braccia. Lei si sottrasse all’abbraccio, rigida.

— Non mi costituirò — disse lui.

— Fai quello che vuoi. — La voce di Heather si era ridotta a un sussurro. — Non m’interessa. Basta che te ne vada. Non voglio avere più niente a che fare con te. Vorrei che foste morti tutti e due, tu e lei. Quella puttana pelle e ossa. Più che guai non ha saputo darmi. Alla fine l’ho dovuta buttare fuori di peso. Mi si era attaccata come una sanguisuga.

— Era brava a letto? — chiese Jason, e schizzò all’indietro quando le dita di Heather scattarono verso i suoi occhi.

Per un po’, nessuno dei due parlò. Erano vicinissimi. Jason udiva il respiro di lei, e del proprio: rapidi, rumorosi spostamenti d’aria. Dentro e fuori, dentro e fuori. Chiuse gli occhi.

— Tu fai quello che vuoi — disse alla fine Heather. — Io mi presento all’accademia.

— Vogliono anche te?

— Ma non riesci proprio a leggere tutto l’articolo? Non puoi fare almeno questo? Vogliono la mia testimonianza. Su quello che provavi per la mia relazione con Alys. Era di dominio pubblico il fatto che all’epoca tu e io andassimo a letto assieme, Cristo santo!

— Io non sapevo della vostra storia.

— Glielo dirò. Quando… — Heather esitò, poi continuò: — Quando l’hai scoperto?

— L’ho saputo da quel giornale. Adesso.

— Non lo sapevi ieri, quando lei è stata uccisa?

A quel punto, lui si arrese. “È inutile” si disse. “È come vivere in un mondo fatto di gomma. Tutto rimbalza. Tutto cambia forma appena viene sfiorato o anche solo guardato.”

— Oggi, allora — disse Heather. — Se è questo che credi. Tu più di chiunque altro dovresti saperlo.

— Addio. — Jason andò a sedersi, pescò le scarpe da sotto il divano, le infilò, allacciò le stringhe e si alzò. Poi tese le mani e sollevò la scatola di cartone dal tavolino da caffè. — Per te — disse, e lanciò la scatola. Heather cercò di afferrarla. La scatola la colpì al petto e cadde sul pavimento.

— Cos’è? — chiese lei.

— Ormai me lo sono dimenticato.

Heather si inginocchiò, raccolse la scatola, la aprì, tirò fuori i fogli di giornale che servivano per l’imballo e il vaso verniciato in azzurro. Non si era rotto. — Oh — mormorò. Si rialzò, lo studiò, lo sollevò alla luce. — È incredibilmente bello — disse. — Grazie.

Jason disse: — Non ho ucciso quella donna.

Heather si allontanò da lui, sistemò il vaso su uno scaffale in alto, pieno di ninnoli. Non aprì bocca.

— Cosa posso fare, a parte andarmene? — chiese lui. Aspettò, ma Heather continuava a stare zitta. — Non sai più parlare?

— Chiamali — rispose lei. — E di’ loro che sei qui.

Jason alzò il ricevitore del telefono e fece il numero del centralino. — Voglio parlare con l’accademia di polizia di Los Angeles — disse al centralinista. — Con il generale Felix Buckman. Gli dica che è Jason Taverner. — Il centralinista rimase muto. — Pronto? — disse Jason.

— Lei può chiamare quel numero direttamente, signore.

— Voglio che lo chiami lei.

— Ma signore…

— Per favore — disse Jason.

27

Phil Westerburg, il capo coroner della polizia di Los Angeles, disse al generale Felix Buckman, suo superiore: — Cercherò di spiegarle nel modo più chiaro cosa sia questa droga. Lei non ne ha mai sentito parlare perché non è ancora in uso. Sua sorella deve averla rubata dal laboratorio dei progetti speciali della polizia. — Tracciò uno schizzo su un pezzo di carta. — Il senso del tempo è una funzione del cervello. È una strutturazione di percezione e orientamento.

— Cosa l’ha uccisa? — chiese Buckman. Era tardi e gli faceva male la testa. Avrebbe voluto che quel giorno finisse. Avrebbe voluto che tutti se ne andassero. — Un’overdose?

— Non abbiamo ancora modo di determinare cosa costituisca un’overdose di kr-3. Lo stiamo testando su prigionieri del campo di lavori forzati di San Bernardino che si sono offerti volontari, ma per il momento… — Westerburg continuò a disegnare. — Comunque, come le stavo dicendo, il senso del tempo è una funzione del cervello. Si verifica finché il cervello riceve degli input. Ora, sappiamo che il cervello non può funzionare se non è in grado di strutturare anche lo spazio. Però non sappiamo ancora perché. Probabilmente sono processi legati all’istinto di stabilizzare la realtà in maniera tale da poter ordinare le sequenze in termini di prima e dopo, per quanto riguarda il tempo, e, cosa ancora più importante, in termini di occupazione dello spazio. In parole povere, la differenza che corre tra un oggetto tridimensionale e, diciamo, il disegno di quell’oggetto.

Mostrò a Buckman il suo schizzo. Per Buckman non aveva alcun senso. Lo fissò senza capire e si chiese dove potesse procurarsi del Darvon per il suo mal di testa, a quell’ora. Alys ne teneva in casa? Era stata una collezionista fanatica di pillole.

Westerburg continuò: — Ora, un aspetto dello spazio è che una sua data unità esclude tutte le altre unità date: se una cosa sta qua, non può stare là. Esattamente come con il tempo: se un evento viene prima, non può venire anche dopo.

Buckman chiese: — Non potremmo rimandare a domani? Stamattina mi ha detto che le sarebbero occorse ventiquattro ore per stendere un rapporto sulla tossina che ha determinato la morte. Ventiquattro ore per me vanno bene.

— Ma lei ci ha chiesto di accelerare l’analisi — fece presente Westerburg. — Voleva che l’autopsia iniziasse immediatamente. Alle due e dieci di oggi pomeriggio, quando mi ha fatto convocare ufficialmente.

— Davvero? — “Sì” pensò Buckman, “è vero. Gliel’ho chiesto io. Per agire prima che i marescialli potessero mettere assieme la loro storia.” — Per favore, non disegni — disse. — Ho mal di testa. Parli e basta.

— Abbiamo scoperto che l’esclusività dello spazio è solo una funzione del cervello per gestire le percezioni. Ordina i dati in termini di unità spaziali che si escludono reciprocamente. A milioni. Anzi, in teoria a trilioni. Ma, di per sé, lo spazio non è esclusivo. In effetti, di per sé lo spazio non esiste affatto.

— Il che significa?

Westerburg frenò l’impulso di disegnare. — Una droga come il KR-3 annulla la capacità del cervello di escludere un’unità spaziale da un’altra. Quindi, nel processo di gestione delle percezioni, i concetti di “qui” e “là” scompaiono. Il cervello non è più in grado di capire se un oggetto non c’è più o c’è ancora. Quando questo accade, il cervello non può più escludere i vettori spaziali alternativi. Spalanca l’intero spettro di varianti spaziali. Non è più capace di dire quali oggetti esistano e quali siano solo possibilità latenti, non spaziali. Il risultato è che si aprono corridoi alternativi. Il sistema percettivo alterato vi entra e il cervello percepisce un intero nuovo universo in via di creazione.

— Capisco — disse Buckman. In realtà non capiva, e non gliene importava niente. “Voglio solo andare a casa” pensò. “E dimenticare tutto.”

— È una cosa molto importante — continuò Westerburg, entusiasta. — Il kr-3 è una scoperta straordinaria. Chiunque ne subisca gli effetti è costretto a percepire universi irreali, lo voglia o no. Come dicevo, in teoria trilioni di possibilità diventano improvvisamente reali. Entra in gioco il caso, e il sistema percettivo della persona sceglie una possibilità fra tutte quelle che gli si presentano. Deve scegliere, perché, se non lo facesse, gli universi alternativi si sovrapporrebbero e svanirebbe il concetto stesso di spazio. Mi segue?

Herb Maime sedeva poco lontano dai due, alla propria scrivania. Disse: — Sta dicendo che il cervello sceglie l’universo spaziale più a portata di mano.

— Sì — confermò Westerburg. — Lei ha letto il rapporto sul kr-3, vero, signor Maime?

— L’ho letto poco più di un’ora fa — rispose Maime. — In buona parte era troppo tecnico per me. Però ho notato che gli effetti sono transitori. Alla fine, il cervello torna a prendere contatto con i veri oggetti spazio-temporali che percepiva in precedenza.

— Esatto. — Westerburg annuì. — Ma, nell’intervallo in cui la droga è attiva, il soggetto esiste, o pensa di esistere…

— Non c’è alcuna differenza — disse Herb — tra i due universi. È il modo di agire della droga: abolisce le distinzioni.

— Tecnicamente — disse Westerburg. — Ma il soggetto si sente parte di un ambiente reale, un ambiente alieno a quello che ha sempre sperimentato, e agisce come se fosse entrato in un nuovo mondo. Un mondo con dei cambiamenti… L’entità di tali cambiamenti è determinata dalla distanza, per così dire, tra il mondo spazio-temporale che il soggetto percepiva prima e quello nuovo nel quale si trova costretto ad agire.

— Io vado a casa — disse Buckman. — Non ce la faccio più. — Si alzò. — Grazie, Westerburg. — Tese automaticamente la destra al suo capo coroner Si strinsero la mano. — Preparami un rapporto riepilogativo — disse a Maime. — Lo leggerò domattina. — Si incamminò, con il soprabito grigio sul braccio. Come sempre.

— Sa cos’è successo a Taverner? — chiese Herb.

Buckman si fermò. — No.

— Si è trasferito in un universo nel quale non esisteva. E noi ci siamo trasferiti con lui perché siamo oggetti del suo sistema percettivo. Poi, quando l’effetto della droga è finito, si è trasferito di nuovo qui. A riportarlo qui non è stato qualcosa che ha assunto ma la morte di Alys. Dopo di che, com’è ovvio, dalla centrale dati ci è arrivato il suo dossier.

— Buonanotte — disse Buckman. Lasciò l’ufficio, attraversò la grande, muta sala con le immacolate scrivanie di metallo, tutte identiche, tutte in perfetto ordine al termine della giornata, compresa quella di McNulty; e finalmente si trovò nel tubo di salita, diretto al tetto.


L’aria della notte, fredda e tersa, portò il mal di testa a un livello terribile. Chiuse gli occhi e strinse i denti. Poi pensò: “Potrei farmi dare un analgesico da Phil Westerburg. Ce ne saranno probabilmente una cinquantina di tipi diversi nella farmacia dell’accademia. E Westerburg ha le chiavi”.

Ridiscese al tredicesimo piano, tornò nella sua suite ufficio, dove Herb Maime e Westerburg stavano ancora parlando.

Herb gli disse: ·.— Vorrei spiegarle una cosa che ho detto. Il fatto che noi siamo oggetti del sistema percettivo di Taverner.

— Non lo siamo — replicò Buckman.

— Lo siamo e non lo siamo — continuò Herb. — Non è stato Taverner a prendere il kr-3. L’ha preso Alys. Taverner, come tutti noi, è diventato un dato del sistema percettivo di sua sorella ed è stato trascinato nell’insieme alternativo di coordinate nel quale è finita Alys. Evidentemente sua sorella vedeva in Taverner un potente catalizzatore, la realizzazione concreta dei suoi desideri nei confronti degli artisti, e da un po’ di tempo cullava la fantasia di poterlo conoscere di persona. Ma, anche se è riuscita a realizzarla prendendo la droga, Taverner e noi siamo rimasti, allo stesso tempo, nel nostro universo. Abbiamo occupato due corridoi spaziali contemporaneamente: uno reale, l’altro irreale. Uno è una realtà. L’altro è una possibilità latente tra molte, concretizzata momentaneamente dal kr-3. Ma solo momentaneamente. Per due giorni circa.

— Quanto basta — disse Westerburg — per provocare un enorme danno fisico al cervello del soggetto. Il cervello di sua sorella, signor Buckman, probabilmente non è stato distrutto dalla tossicità ma da un sovraccarico elevatissimo e continuo. Potremmo scoprire che la causa scatenante della morte sono stati i danni irreversibili ai tessuti corticali, un’accelerazione del normale decadimento neurologico. Il suo cervello, per così dire, è morto di vecchiaia in un intervallo di due giorni.

— Potrebbe darmi del Darvon? — domandò Buckman a Westerburg.

— La farmacia è chiusa.

— Ma lei ha la chiave.

— Non sono autorizzato a servirmene quando il farmacista non è in servizio.

— Faccia un’eccezione — disse Buckman, secco. — Per questa volta.

Westerburg si allontanò, frugando tra le sue chiavi.

— Se ci fosse il farmacista — disse Buckman dopo un po’, — non avrebbe bisogno della chiave.

— L’intero pianeta — disse Herb — è in mano a burocrati. — Scrutò Buckman. — Lei è a pezzi. Non sta più in piedi. Dopo avere preso il Darvon, torni a casa.

— Non sto male. Però non mi sento troppo bene.

— Comunque, non resti qui. Penso io a finire il lavoro. Lei sta sempre per andarsene, e poi torna indietro.

— Sono come un animale — disse Buckman. — Un topo da laboratorio.

Il telefono sulla grande scrivania di quercia ronzò.

— C’è qualche possibilità che sia uno dei marescialli? — chiese Buckman. — Stanotte non sono in grado di parlare con loro. Dovrò rimandare.

Herb andò ad alzare il ricevitore. Ascoltò. Poi mise la mano sul microfono e disse: — È Taverner. Jason Taverner.

— Gli parlo io. — Buckman prese il ricevitore dalla mano di Herb Maime. — Pronto? Taverner, è tardi.

La voce sottile di Taverner rispose: — Voglio costituirmi. Sono nell’appartamento di Heather Hart. Stiamo aspettando assieme.

— Vuole costituirsi — disse Buckman a Herb Maime.

— Gli dica di venire qui — rispose Herb.

— Venga qui — disse Buckman nel telefono. — Perché vuole costituirsi? La uccideremo, miserabile figlio di puttana. Omicida. E lei lo sa. Perché non scappa?

— Dove? — strillò Taverner.

— In uno dei campus. Vada alla Columbia. Per un po’ avranno acqua e cibo.

— Non voglio che continuiate a darmi la caccia.

— Vivere è essere cacciati — ansimò Buckman. — Okay, Taverner, venga qui e la chiuderemo in cella. Porti anche la Hart. Vogliamo sentire cos’ha da dire. — “Maledetto idiota” pensò, “costituirti!” — Già che c’è, si tagli anche i testicoli, stupido bastardo! — Gli tremava la voce.

— Voglio provare la mia innocenza — mormorò all’orecchio di Buckman la voce esile di Taverner.

— Quando arriverà qui — disse Buckman, — la ucciderò io stesso, con la mia pistola. Resistenza all’arresto, degenerato che non è altro. O qualunque cosa decideremo di dire. Diremo quello che ci parrà meglio. Qualunque cosa. — Riappese. — Sta venendo qui a farsi uccidere — disse a Herb Maime.

— L’ha scelto lei come capro espiatorio. Può lasciarlo andare, se vuole. Lasciar cadere le accuse. Rimandarlo ai suoi dischi e al suo stupido show televisivo.

— No. — Buckman scosse la testa.

Westerburg riapparve con due capsule rosa e un bicchiere di carta pieno d’acqua. — Darvon — disse, porgendo il tutto a Buckman.

— Grazie. — Buckman mandò giù le capsule, bevve l’acqua, accartocciò il bicchiere di carta e lo gettò nel suo tritarifiuti. I denti del meccanismo macinarono ronzando piano, poi si fermarono. Silenzio.

— Vada a casa — disse Herb. — O, meglio ancora, vada in un motel a passare la notte. Un buon motel del centro. Domattina dorma fino a tardi. Penserò io ai marescialli, quando chiameranno.

— Devo vedere Taverner.

— No. Me ne posso occupare io. Oppure uno dei sergenti di turno. Come per qualsiasi altro criminale.

— Herb — disse Buckman, — io voglio ucciderlo. Come ho detto al telefono. — Andò alla scrivania, aprì il cassetto più in basso, prese una scatola di legno di cedro e la mise sul piano. L’aprì e tirò fuori una Derringer a un solo colpo, calibro 22. La caricò con una pallottola a punta concava, armò il cane, tenendo la canna puntata verso il soffitto. Per sicurezza. Per abitudine.

— Me la faccia vedere — disse Herb.

Buckman gli passò l’arma. — Fabbricata dalla Colt. La Colt ha acquistato gli stampi e i brevetti. Non ricordo più quando.

— È una bella pistola. — Herb la soppesò nella mano. — Una splendida pistola. — La restituì. — Ma una pallottola calibro 22 è troppo piccola. Dovrebbe centrarlo esattamente in mezzo alla fronte. Dovrebbe stargli davanti. — Mise una mano sulla spalla di Buckman. — Usi una 38 special o una 45. Okay? Lo farà?

— Sai di chi è questa pistola? — chiese Buckman. — Di Alys. La teneva qui perché diceva che, se l’avesse avuta a casa, avrebbe potuto spararmi durante una delle nostre discussioni, oppure a notte fonda, quando si sente… quando si sentiva depressa. Però non è una pistola da donna. Derringer faceva delle pistole da donna, ma questa non lo è.

— Gliel’ha comperata lei?

— No. Alys l’ha trovata in un monte di pietà a Watts. L’ha pagata venticinque dollari. Non un cattivo prezzo, considerate le condizioni dell’arma. — Alzò la testa, guardò Herb in faccia. — Dobbiamo proprio ucciderlo. I marescialli mi crocifiggeranno, se non scarichiamo la colpa su Taverner. E io devo restare a galla.

— Ci penso io — rispose Herb.

— Okay. — Buckman annuì. — Vado a casa. — Rimise la pistola nella scatola, appoggiata sul velluto rosso, chiuse la scatola, la riaprì e tolse dalla canna la pallottola calibro 22. Herb Maime e Phil Westerburg restarono a guardarlo. — La canna si apre di lato, in questo modello — disse. — È insolito.

— Sarà meglio che si faccia accompagnare a casa da un agente — disse Herb. — Con la stanchezza che ha addosso dopo tutto quello che è successo, non dovrebbe guidare.

— Posso guidare benissimo. Posso sempre guidare. Quello che non riesco a fare per bene è uccidere un uomo che mi sta di fronte con una pallottola calibro 22. Deve farlo qualcun altro per me.

— Buonanotte — disse sottovoce Herb.

— Buonanotte. — Buckman li lasciò, attraversò i diversi uffici, le suite e le camere deserte dell’accademia, di nuovo diretto al tubo di salita. Il Darvon aveva già cominciato ad alleviare il dolore alla testa; provava un grande sollievo. “Adesso potrò respirare l’aria della notte” pensò. “Senza soffrire.”

La porta del tubo di salita si aprì. Dietro apparve Jason Taverner. E, con lui, una donna attraente. Erano entrambi spaventati e pallidissimi. Due persone belle, alte e nervose. Palesemente Sei. Sei sconfitti.

— Siete in arresto — disse Buckman. — I vostri diritti sono questi: tutto ciò che direte potrà essere usato contro di voi; avete diritto all’assistenza legale e, se non potete permettervi un avvocato, ve ne sarà fornito uno d’ufficio; avete il diritto di essere processati da una giuria, oppure potete rinunciare a questo diritto ed essere processati da un giudice scelto dall’accademia di polizia della città e della contea di Los Angeles. Avete capito quello che ho appena detto?

— Sono venuto qui per provare la mia innocenza — disse Jason Taverner.

— Il mio staff prenderà le vostre deposizioni — disse Buckman. — Andate negli uffici azzurri lì dietro, dove lei, Taverner, è già stato. — Indicò con la mano. — Lo vede là dentro? L’uomo con la giacca monopetto e la cravatta gialla?

— Posso chiarire la mia posizione? — chiese Jason Taverner. — Ammetto di essermi trovato a casa sua quando Alys è morta, ma io non ho avuto nulla a che fare con il suo decesso. Sono salito al primo piano e l’ho trovata in bagno. Era andata a prendermi la Torazina. Per controbilanciare gli effetti della mescalina che mi aveva dato.

— L’ha vista sotto forma di uno scheletro — disse la donna, che evidentemente doveva essere Heather Hart. — Per colpa della mescalina. Non può essere scagionato, visto che si trovava sotto l’effetto di un potente allucinogeno? Questo non lo scagiona legalmente? Non aveva il controllo di ciò che faceva, e io non ho avuto niente a che fare con tutto questo. Non sapevo nemmeno che Alys fosse morta prima di leggerlo sul giornale.

— In alcuni Stati potrebbe bastare a scagionarlo — disse Buckman.

— Ma non qui — sussurrò la donna. Che aveva capito.

Herb Maime emerse dall’ufficio, valutò la situazione e disse: — Lo registro io e prendo le testimonianze di tutti e due, signor Buckman. Lei vada a casa.

— Grazie. Dov’è il mio soprabito? — Buckman si guardò attorno. — Dio, che freddo. Di notte spengono il riscaldamento — spiegò a Taverner e alla Hart. — Mi spiace.

— Buonanotte — gli disse Herb.

Buckman entrò nel tubo di salita e premette il pulsante che chiudeva la porta. Non aveva trovato il soprabito. “Magari dovrei farmi accompagnare da un agente” si disse. “Trovare un pivello appena uscito dall’accademia ansioso di riportarmi a casa, o magari, come ha detto Herb, a uno dei migliori motel in centro. O a uno di quei nuovi hotel a isolamento acustico totale dalle parti dell’aeroporto. Però il mio trabi resterebbe qui, e domattina non lo avrei per arrivare in ufficio.”

L’aria fredda e l’umidità sul tetto lo fecero rabbrividire. “Nemmeno il Darvon riesce ad aiutarmi” pensò. “Non del tutto. Sento ancora il freddo.”

Aprì la portiera del trabi, salì e richiuse. “Qui dentro fa più freddo che fuori” pensò. “Gesù!” Mise in moto e accese il riscaldamento. Un vento gelido gli soffiò addosso dalle ventole sul tettuccio. Buckman cominciò a tremare. “Mi sentirò meglio appena arrivato a casa” pensò. Guardò l’orologio e scoprì che erano le due e mezzo. “C’è poco da meravigliarsi se fa così freddo.

“Perché ho scelto proprio Taverner?” si chiese. “Su un pianeta con sei miliardi di persone, questo particolare individuo che non ha mai fatto del male a nessuno, non ha mai fatto niente di niente, se non lasciare che il suo dossier attirasse l’attenzione delle autorità. È questo il nocciolo della questione” si disse. “Jason Taverner è entrato nelle maglie della giustizia e, come dicono, una volta che hai attirato l’attenzione delle autorità, non verrai mai del tutto dimenticato.

“Ma posso scagionarlo, come mi ha fatto notare Herb.

“No. Assolutamente no. Il dado era tratto sin dall’inizio. Prima ancora che qualcuno di noi l’avesse in mano. Taverner, tu eri condannato sin dal primo momento. Da quando hai compiuto il tuo primo atto per arrivare alla vetta.

“Noi interpretiamo delle parti” pensò Buckman. “Occupiamo delle posizioni: alcune piccole, altre grandi. Alcune normali, altre strane. Alcune inconsuete e bizzarre. Alcune visibili, alcune oscure o del tutto invisibili. La parte di Jason Taverner ha finito con l’essere importante, e bisognava prendere una decisione. Se fosse riuscito a rimanere ciò che era all’inizio: un ometto insignificante senza veri documenti d’identità, uno che viveva in un hotel scalcinato, infestato dai topi, nel ghetto… Se fosse rimasto quello, forse se la sarebbe cavata. O, nella peggiore delle ipotesi, sarebbe finito in un campo di lavori forzati. Ma Taverner non aveva scelto così.

“Un’irrazionale spinta interiore gli ispirava il desiderio di apparire, di essere visibile, di essere conosciuto. D’accordo, Jason Taverner, adesso sei di nuovo noto come prima; però adesso lo sei in un modo diverso. Un modo che serve fini superiori, fini dei quali tu non sai nulla. Ma devi accettarli senza capirli. Quando scenderai nella tomba, la tua bocca sarà ancora aperta a ripetere la stessa domanda: ‘Cos’ho fatto?’. Sarai sepolto così, con la bocca ancora aperta.

“E io non potrei mai spiegartelo. Potrei solo dirti: ‘Non entrare nelle maglie della giustizia. Fa’ in modo che non ci occupiamo mai di te, per nessun motivo. Non spingerci a volerne sapere di più sul tuo conto’.

“Un giorno la tua storia, la vicenda della tua caduta, potrebbe essere resa di dominio pubblico, in un remoto futuro, quando non avrà più importanza. Quando non ci saranno più campi di lavori forzati e campus circondati da uomini della polizia armati di mitragliatrici, con maschere antigas che li fanno somigliare a roditori dal grande muso e dagli occhi enormi, come se fossero esseri viventi di una classe inferiore. Un giorno potrebbe esserci un’inchiesta post mortem e si scoprirà che in realtà tu non hai fatto niente di male; che non hai fatto proprio niente, però ti sei fatto notare.

“L’ultima, vera verità è che, nonostante la tua fama e il grande pubblico che ti segue, tu sei sacrificabile. E io no. È questa la differenza tra noi due. Quindi tu te ne devi andare e io devo restare.”

Il suo trabi si alzò in cielo, verso la stellata notturna. E Buckman si mise a cantare fra sé. Cercò di guardare più in là, di vedere nel tempo a venire: il mondo della sua casa, della musica e delle idee e dell’amore, dei libri, delle tabacchiere decorate e dei francobolli rari. Della scomparsa, per un attimo, del vento che correva davanti al suo velivolo, un punticino quasi perso nella notte.

“Esiste una bellezza che non andrà mai persa” disse a se stesso. “La preserverò io: sono uno di coloro che la amano. E sono fedele. E questo, in ultima analisi, è tutto ciò che conta.”

Canticchiò tra sé un motivetto qualunque. E cominciò finalmente a sentire un po’ di caldo quando, sul trabi che era un modello standard della polizia, l’impianto di riscaldamento sotto i suoi piedi iniziò a funzionare.

Qualcosa gli cadde dal naso sul tessuto della giacca. “Mio Dio” pensò orripilato. “Sto ancora piangendo.” Sollevò una mano e asciugò dagli occhi quel liquido che aveva qualcosa di viscoso. “Per chi?” si chiese. “Per Alys? Per Taverner? Per la Hart? O per tutti loro?

“No” pensò. “È una risposta fisiologica alla stanchezza e alla preoccupazione. Non significa niente. Perché piange un uomo?” si chiese. “Non come una donna; non per quello. Non per sentimento. Un uomo piange per la perdita di qualcosa, qualcosa di vivo. Un uomo può piangere su un animale malato se sa che non ce la farà. La morte di un bambino: un uomo può piangere per quello. Ma non perché la situazione generale è triste.

“Un uomo non piange per il futuro o per il passato, ma per il presente. E qual è il presente, ora? All’accademia di polizia stanno incriminando Jason Taverner e lui sta raccontando la sua storia. Come chiunque, ha una sua versione dei fatti, una spiegazione che possa provare la sua innocenza. Jason Taverner, mentre io sono in volo, in questo stesso momento sta cercando di salvarsi.”

Sterzò e fece percorrere al trabi una lunga traiettoria che terminò con un’inversione di rotta. Fece tornare indietro il veicolo, verso la direzione dalla quale era venuto, senza aumentare né diminuire la velocità. Si mise a volare nella direzione opposta. Per tornare all’accademia.

Continuava a piangere. Le sue lacrime diventavano più grandi e dolorose di momento in momento. “Sto andando nella direzione sbagliata” pensò. “Herb ha ragione: devo allontanarmi dall’accademia. Adesso, l’unica cosa che potrei fare lì sarebbe assistere a qualcosa che non sono più in grado di controllare. Vivo all’interno di un dipinto, di un affresco. Esisto in due sole dimensioni. Io e Jason Taverner siamo figure di un vecchio disegno infantile. Persi nella polvere.”

Premette il piede sull’acceleratore e diede un’altra sterzata al volante. Il motore sputacchiò e perse colpi. “La valvola automatica dell’aria è ancora chiusa” si disse Buckman. “Avrei dovuto scaldare il motore per un po’. È freddo.” Cambiò di nuovo direzione.

Stremato dal dolore e dalla stanchezza, alla fine inserì la scheda con la rotta per casa sua nella torretta della sezione di guida e mise in funzione il pilota automatico. “Devo riposare” si disse. Alzò una mano e attivò il circuito ipnoinducente che aveva sopra la testa. Il meccanismo ronzò e lui chiuse gli occhi.

Come sempre, il sonno artificialmente indotto lo ghermì all’istante. Buckman sentì la propria coscienza precipitare a spirale, e ne fu lieto. Ma poi, sfuggendo al controllo del congegno, arrivò un sogno. Era molto chiaro. Lui non lo voleva, ma non poteva fermarlo.

La campagna, bruna e arida nell’estate, dove aveva vissuto da bambino. Stava cavalcando, e alla sua sinistra un gruppo di cavalli si avvicinava lentamente. Su di essi, uomini in lunghe vesti sgargianti, tutte di colore diverso. Gli uomini portavano elmetti a punta che brillavano alla luce del sole. I lenti, solenni cavalieri lo superarono, e quando lo incrociarono lui riuscì a vedere il viso di uno di loro: un antico volto di marmo, un uomo vecchissimo, con una lunga barba bianca che gli scendeva a cascata dal mento. Aveva un naso forte. Tratti del viso nobilissimi. Così stanco, così serio, così al di là dei comuni mortali. Era palesemente un re.

Felix Buckman li lasciò passare; non rivolse loro la parola, e loro non gli dissero nulla. Unito, il gruppo procedette verso la casa dalla quale era venuto lui. Un uomo si era chiuso in quella casa, un uomo solo, Jason Taverner, nel silenzio e nel buio, senza finestre, solo da quel momento in poi, per l’eternità. Si limitava a esistere, inerte. Felix Buckman proseguì, raggiunse l’aperta campagna. E poi udì, alle proprie spalle, un unico terribile grido. Avevano ucciso Taverner e, vedendoli entrare, intuendo la loro presenza nel buio che lo circondava, sapendo cosa avevano intenzione di fare di lui, Taverner aveva urlato.

Felix Buckman provò un dolore totale, la desolazione più completa. Ma nel sogno non tornò indietro, non si voltò a guardare. Non si poteva fare niente. Nessuno avrebbe potuto fermare l’orda di uomini dalle vesti multicolori; non era possibile opporre loro resistenza alcuna. E comunque, era finita. Taverner era morto.

Il suo cervello esagitato riuscì a spedire un segnale al circuito del sonno, servendosi di minuscoli relè. Un interruttore di tensione si aprì, e un suono continuo, irritante, risvegliò Buckman interrompendo il sogno.

“Dio” pensò, e rabbrividì. Come faceva freddo. Come si sentiva vuoto e solo.

Il grande dolore interiore lasciato dal sogno vagava nel suo petto, continuava a turbarlo. “Devo atterrare” si disse. “Vedere qualcuno. Parlare con qualcuno. Non posso restare solo. Se anche soltanto per un secondo riuscissi a…”

Escluse il pilota automatico e fece rotta verso un quadrato di luci fluorescenti sotto di lui: una stazione di servizio aperta tutta la notte.

Un attimo più tardi atterrò davanti alle pompe di benzina della stazione. Si fermò a lato di un altro trabi, deserto, abbandonato. A bordo non c’era nessuno.

Al bagliore delle luci distinse la forma di un nero di mezza età. Portava il soprabito, aveva una bella cravatta colorata, e il suo viso era aristocratico; ogni suo lineamento spiccava netto. Camminava avanti e indietro sul cemento chiazzato d’olio, le braccia incrociate sul petto, un’espressione assente in viso. Evidentemente stava aspettando che il roboinserviente finisse di fare il pieno al suo velivolo. Non era né impaziente né rassegnato; semplicemente, esisteva, remoto e isolato e splendido, forte nel corpo, diritto. Non vedeva nulla perché non c’era nulla che valesse la pena di vedere.

Felix Buckman parcheggiò il trabi, spense il motore, attivò il comando che apriva la portiera e scese rigido nella fredda aria della notte. Si incamminò verso il nero.

Quello non lo guardò neanche. Mantenne le distanze. Continuò a passeggiare calmo. Non parlò.

Felix Buckman affondò le dita intirizzite nella tasca della giacca; trovò la penna a sfera, la tirò fuori, cercò in tasca un pezzo di carta, forse un foglio di un taccuino. Dopo averlo trovato, l’appoggiò sul cofano del trabi del nero. Nella luce bianca, cruda, della stazione di servizio, Buckman disegnò sul foglio un cuore trafitto da una freccia. Tremante di freddo, si voltò verso il nero che passeggiava e gli tese il foglio con il disegno.

Con un guizzo di sorpresa negli occhi, il nero grugnì, accettò il foglio, lo alzò alla luce, lo studiò. Buckman aspettò. Il nero rigirò il foglio, non vide niente sul retro, tornò a esaminare il cuore e la freccia che lo trafiggeva. Aggrottò la fronte, scrollò le spalle, poi restituì il foglio a Buckman e si rimise in movimento, le braccia ancora conserte sul petto. Girò la possente schiena al generale. Il foglio di carta volò via, si perse.

Felix Buckman, in silenzio, tornò al suo trabi, aprì la portiera e si mise al volante. Accese il motore, richiuse la portiera e si alzò nel cielo notturno. Le spie che segnalavano il decollo lampeggiavano rosse davanti e dietro di lui. Poi si spensero, automaticamente, e lui si mise in volo sulla linea dell’orizzonte, con la mente sgombra di pensieri.

Tornarono le lacrime.

All’improvviso, Buckman fece una sterzata. Il trabi sussultò violentemente, diede un forte sobbalzo, si stabilizzò su una traiettoria di discesa. Qualche attimo dopo, si posò di nuovo, nella luce abbagliante, a fianco del trabi vuoto del nero che passeggiava avanti e indietro, delle pompe di benzina. Buckman frenò, spense il motore, scese.

Il nero lo stava guardando.

Buckman si avviò verso di lui. Il nero non indietreggiò, restò fermo dov’era. Buckman lo raggiunse, tese le braccia, le usò per stringere il nero a sé. Quello grugnì di sorpresa. E sgomento. Nessuno dei due parlò. Rimasero abbracciati per un istante, poi Buckman lasciò andare il nero, girò sui tacchi, tornò su gambe tremanti al suo trabi.

— Aspetti — disse il nero. Buckman si girò a guardarlo.

Il nero esitò, scosso da brividi. Poi disse: — Sa come arrivare a Ventura? Sulla rotta aerea Trenta? — Aspettò. Buckman non rispose. — È un’ottantina di chilometri a nord di qui — disse il nero. Buckman continuò a non parlare. — Ha una carta di questa zona?

— No. Mi spiace.

— Chiederò alla stazione di servizio. — Il nero accennò un sorriso esile. Timido. — È stato… un piacere conoscerla. Come si chiama? — Aspettò un lungo momento. — Non me lo vuole dire?

— Io non ho un nome — rispose Buckman. — Non al momento. — Non sopportava proprio l’idea di pensarci.

— È un funzionario pubblico? Organizza cerimonie ufficiali? O magari lavora per la Camera di commercio di Los Angeles? Ho avuto a che fare con loro. Sono persone per bene.

— No — disse Buckman. — Sono un semplice individuo. Come lei.

— Be’, io ho un nome. — Il nero infilò la mano nella tasca interna della giacca, estrasse un piccolo biglietto da visita che porse a Buckman. — Montgomery L. Hopkins. Dia un’occhiata al biglietto. Non è uno splendido lavoro di stampa? Mi piacciono le lettere in rilievo. Mi sono costati cinquanta dollari al migliaio. Mi hanno fatto un prezzo speciale grazie a un’offerta promozionale che non si ripeterà. — Sul biglietto erano stampate splendide lettere nere in rilievo. — Io produco auricolari di biofeedback di basso costo, di tipo analogico. Sono venduti al dettaglio per meno di cento dollari.

— Mi venga a trovare — disse Buckman.

— Mi chiami. — In tono fermo, pacato, ma a voce piuttosto alta, il nero disse: — Questi posti, queste stazioni di rifornimento robotizzate, sono deprimenti, a notte fonda. Un’altra volta potremo parlare di più. In un posto accogliente. Mi rendo conto. Capisco come ci si sente quando succede che un posto del genere ti butti giù di morale. Tante volte io faccio rifornimento appena uscito dalla mia fabbrica, per non essere costretto a fermarmi più tardi. Ma mi succede spesso di uscire per chiamate notturne, per tanti motivi. Sì, capisco benissimo che lei si senta giù di corda. Insomma, depresso. Per questo mi ha passato quel foglietto che temo di non avere compreso al momento, ma adesso capisco, e poi ha voluto abbracciarmi, e l’ha fatto, come farebbe un bambino, per un secondo. Ho provato quel tipo di desiderio, o forse sarebbe meglio chiamarlo impulso, di tanto in tanto in vita mia. Oggi ho quarantasette anni. Capisco. Lei non vuole trovarsi solo a notte fonda, specialmente quando fa un freddo tremendo come ora. Sì, sono d’accordo con lei, e ora lei non sa di preciso cosa dire perché ha fatto un gesto improvviso, irrazionale, senza riflettere sulle sue conseguenze. Ma non c’è problema. Ho capito. Non si preoccupi. Lei deve proprio fare un salto da me. Le piacerà casa mia. È molto accogliente. Conoscerà mia moglie e nostro figlio.

— Verrò —disse Buckman. — Terrò il suo biglietto da visita. — Estrasse il portafogli, vi ripose il biglietto del nero. — Grazie.

— Vedo che il mio trabi è pronto — disse il nero. — Mi mancava anche l’olio. — Esitò, fece per andarsene, poi tornò indietro e porse la mano. Buckman gliela strinse. — Addio — disse il nero.

Buckman restò fermo a guardare. Il nero pagò la stazione di servizio, salì sul suo trabi un po’ ammaccato, accese il motore e decollò verso il buio. Quando passò sopra Buckman, staccò la destra dal volante e fece un cenno di saluto.

“Buonanotte” pensò Buckman, rispondendogli con dita morse dal gelo. Poi risalì sul suo trabi, esitò incerto, aspettò; quindi, visto che non accadeva nulla, richiuse di colpo la portiera e avviò il motore. Un attimo dopo era in volo.

“Scorrete, mie lacrime” pensò. “Il primo brano di musica astratta mai scritto. John Dowland nel suo secondo libro di composizioni per liuto, nel 1600. Lo ascolterò sul mio nuovo impianto quadrifonico, appena sarò a casa. Così potrà ricordarmi Alys e tutti gli altri. E ci saranno una sinfonia e un fuoco e tutto sarà calore.

“Andrò a prendere il mio bambino. Domattina presto volerò in Florida da Barney. Da domani in poi lo terrò con me. Noi due assieme. Quali che possano essere le conseguenze. Ma non ce ne saranno. È tutto finito. Siamo al sicuro. Per sempre.”

Il suo trabi volava nel cielo notturno. Come un insetto ferito, lo riportava a casa.

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