Cullandosi pigramente con Shadow, sdraiato su di un soffice cumulo di pellicce nel confortevole scompartimento passeggeri dell’aerocarro, Leaf udì la pioggia che cominciava a cadere e si fece scuro in volto: era probabile che presto gli sarebbe toccato alzarsi e assumere la guida del carro, se era davvero quel genere di pioggia che lui temeva.
Erano passati nove giorni da quando i Denti avevano distrutto le province orientali. L’aerocarro, con a bordo i quattro che stavano fuggendo dai fieri appetiti degli invasori, scivolava lungo l’Autostrada del Ragno, a mezza strada tra Theptis e Northman’s Rib diretto ad ovest, sempre ad ovest alla maggior velocità possibile. Il piccolo e nervoso Sting era alle energoredini, trasmettendo comandi onirici alle tre pariglie di incubi che trainavano il carro; il massiccio Crown era nel compartimento centrale, di sicuro intento a progettare la propria rivincita contro i Denti, perché era cosi che lui passava la maggior parte del tempo; questo permetteva a Leaf e Shadow di starsene tranquilli, ma non per molto. Ascoltando il furioso tamburellare della pioggia sui rotoli di pelle a grandi venature che ricoprivano il tetto, Leaf capì che quella non era una pioggia normale, bensì l’orribile pioggia purpurea, che ammorbava l’aria e faceva uscire a caccia i ragni senza gambe. Sting non sarebbe stato in grado di guidare il carro nella pioggia purpurea. Che seccatura, pensò Leaf, raggomitolandosi contro il corpo peloso e lucido di Shadow. E poco dopo udì lo sbuffare preoccupato degli incubi e sentì il carro sussultare e sbandare; sì, non c’erano dubbi: pioggia purpurea e ragni senza gambe. Il suo periodo di riposo stava per finire.
Non che avesse qualcosa da obbiettare a sobbarcarsi la sua normale parte di lavoro. Ma aveva finito il suo turno di guida appena mezz’ora prima. Si era guadagnato il riposo. Se Sting non era in grado di guidare il carro in quella bufera (come Shadow, anche lei non poteva farlo con la pioggia purpurea), allora toccava allo stesso Crown prendere le redini. Ma naturalmente Crown non avrebbe mai fatto niente del genere. Era il suo carro, ma lui non lo guidava mai. — Ho sempre avuto dei subrazziali che guidavano per me — aveva detto dieci giorni prima, mentre erano fermi nella grande piazza della Città Santa, con i fuochi dei Denti che ardevano nei sobborghi.
— Tutti i tuoi subrazziali sono fuggiti senza aspettare il loro padrone — gli aveva ricordato Leaf.
— E allora? Ci sono altri che possono guidare?
— Devo diventare il tuo subrazziale? — aveva chiesto Leaf in tono pacato. — Ricordati, Crown, io appartengo al ceppo della Pura Discendenza.
— Lo vedo dalla tua faccia, amico. Ma perché imbarcarci in discussioni filosofiche? Questo carro è mio. Gli invasori saranno qui prima del calar del sole. Se volete venire ad ovest con me, le condizioni sono queste. Se per te sono troppo amare da digerire, bene, allora resta qui e metti alla prova la tua fortuna contro la misericordia dei Denti.
— Accetto le tue condizioni — aveva risposto Leaf.
Così era salito a bordo, insieme a Sting e Shadow, con la clausola che loro tre si sarebbero sobbarcati la guida. Leaf si era sentito degradato: essere assunto come un subrazziale vincolato da un contratto, ma quale altra scelta gli restava? Era solo, e lontano dal suo popolo: aveva perduto tutto il suo denaro ed i suoi averi; sicuramente si sarebbe trovato ad affrontare la morte per mano delle orde di Denti che divoravano le terre orientali. Aveva accettato le condizioni di Crown. Un aristocratico conosce meglio degli altri l’arte del compromesso. Resisti all’umiliazione finché è possibile, certo, ma poi accetta, accetta, accetta. Il rifiuto di piegarsi di fronte all’inevitabile è volgare e melodrammatico. Leaf apparteneva alla casta più elevata, la Pura Discendenza, e ad essa veniva insegnato fin dall’infanzia ad essere arrendevoli, a piegarsi liberamente come salici al vento al volere dell’Anima. L’orgoglio è un peccato pericoloso, come lo è la testardaggine; ma peggiore di tutti è la stoltezza. Quindi lui faticava mentre Crown oziava. Ma vi erano limiti anche alla capacità di adattamento di Leaf, e lui sospettava che questi limiti sarebbero stati raggiunti molto presto.
La prima notte, quando solo due piccoli fiumi li separavano dai Denti, ed i tremendi fuochi della Città Santa rischiaravano il cielo, i fuggiaschi fecero una breve sosta per fare incetta di meloni in un campo abbandonato, e mentre se ne stavano accovacciati a rimpinzarsi di frutti succulenti e maturi, Leaf disse a Crown: — Dove andrai, una volta che sarai al sicuro dai Denti sulle sponde del Middle?
— Ho dei lontani parenti che vivono nelle Pianure — rispose Crown. — Andrò da loro e racconterò quello che è successo alla razza del Lago Scuro laggiù ad est, e li persuaderò a prendere le armi per ricacciare i Denti nelle terre selvagge e gelate da cui provengono. Un esercito di liberazione, Leaf, e io lo guiderò. — Sul viso scuro di Crown brillavano minuscole goccioline di succo. Lui si pulì con una mano. — Quali sono i tuoi piani?
— Non così grandiosi. Anch’io cercherò la mia gente, ma non per organizzare un esercito. Desidero solo arrivare al Mare Interno, dal mio popolo, e vivere di nuovo tranquillo tra di loro. Sono troppi anni che manco da casa. C’è un momento migliore per ritornare? — Leaf lanciò un’occhiata a Shadow. — E tu — le chiese. — Che cosa ti aspetti da questo viaggio?
— Io voglio solo andare dovunque vai tu — disse lei. Leaf sorrise. — E tu, Sting?
— Sopravvivere — rispose Sting. — Solo sopravvivere.
L’umanità aveva cambiato il mondo e quel mondo, così cambiato, aveva operato mutamenti nell’umanità. Ogni giorno il carro portava i viaggiatori a contatto con nuove e strane genti che si proclamavano discendenti dall’antico ceppo ancestrale, anche se magari respiravano acqua, avevano la pelle simile a cuoio conciato o molte paia di braccia. Umani, tutti umani, umani, umani. O almeno, insistevano nel ritenersi tali. Se ti ostini a considerarti umano, pensava Leaf, allora anch’io ti considererò umano. Ma vi erano gradazioni di umanità. Leaf, come appartenente alla Pura Discendenza si considerava più umano dei suoi tre compagni; e a volte era portato a considerare Crown, Sting e Shadow come qualcosa di molto diverso dagli esseri umani, anche se non lo riteneva un difetto. Tutte le creature viventi erano senza difetto, purché non facessero del male agli altri. A Leaf era stato insegnato il rispetto per tutte le specie di umanità, compresi i subrazziali. E i suoi compagni non lo erano certo, appartenevano alle caste intermedie, con un rango non molto inferiore al suo. Crown, il più grosso, il più forte e il più violento del gruppo, apparteneva alla stirpe del Lago Scuro. Shadow a quella delle Stelle Danzanti, ed era la più agile ed aggraziata, ed anche l’unica donna del gruppo. Sting, che discendeva dal ceppo del Cristallo Bianco, era il più rapido nel corpo e nella mente, il più vivace e volubile. Un curioso assortimento, pensava Leaf. Ma nei momenti estremi si accettano i compagni di viaggio che si trovano. Lui non si lamentava. Scoprì che gli era possibile convivere con tutti loro, anche con Crown. Persino con Crown.
Con uno scossone, il carro si fermò. Si udì il rumore degli zoccoli che schizzavano sul suolo intriso d’acqua; poi le grida acute e laceranti di Sting e il ruggito rabbioso e roboante di Crown; ed infine una serie di esplosioni sibilanti e soffocate. Leaf scosse il capo con tristezza. — Sprecare le munizioni per i ragni senza gambe…
— Forse stanno attaccando i cavalli — disse Shadow. — Crown è rozzo, ma non è uno stupido.
Leaf le accarezzò teneramente i fianchi lisci. Shadow cercava sempre di essere gentile. Lui non aveva mai amato una Stella Danzante, anche se la loro vista gli aveva sempre procurato piacere; erano creature snelle, dall’ossatura fragile, il torace piatto, ricoperte dalle caviglie al cranio crestato da una pelliccia folta e molto fine dello stesso colore del crepuscolo invernale. Shadow aveva una voce musicale e movenze aggraziate: era l’opposto di Crown.
Comparve Crown, una figura corpulenta che avanzava con movimenti bruschi tra le tende di perline scintillanti che circondavano il compartimento centrale. Lanciò a Leaf un’occhiata malevola. Anche nei suoi momenti di buonumore Crown dava l’impressione di essere corrucciato, un effetto probabilmente causato dal colore delle cornee, che erano di un rosso brillante, mentre quelle di Leaf e della maggior parte delle altre specie umane erano bianche. Il corpo di Crown era un blocco di carne, due volte più grande e più alto di Leaf, anche se Leaf non proveniva certo da una razza di bassa statura. La pelle era lucida, rosso-verdastra, simile a bronzo brunito; era completamente privo di peli e assomigliava alla massiccia statua di un gladiatore, più che ad un essere vivente. Le braccia arrivavano oltre le ginocchia e avevano alcune giunture in più, e le mani erano grosse come canestri; quegli arti erano superbi strumenti di morte. Leaf gli rivolse il più cordiale dei suoi sorrisi. Senza ricambiare il sorriso, Crown disse: — È meglio che tu riprenda le redini, Leaf. La strada si sta trasformando in una palude. I cavalli sono nervosi. È la pioggia purpurea.
In quei nove giorni, Leaf si era abituato ad obbedire ai bruschi ordini di Crown. Anche ora, si staccò da Shadow e fece l’atto di alzarsi in piedi per obbedire. Ma poi, improvvisamente, raggiunse i limiti della propria sopportazione.
— Il mio turno è appena finito — disse.
Crown lo fissò. — Questo lo so. Ma Sting non è in grado di guidare il carro in queste condizioni. E in più ho appena ucciso un bel po’ di ragni senza gambe dall’aria minacciosa. E ne arriveranno altri se non ci muovimo subito da qui.
— E allora?
— Che cosa stai cercando di fare, Leaf?
— Può darsi che non me la senta di tornare là davanti tanto presto.
— Pensi che Shadow sia in grado di tenere le redini in mezzo a questo temporale? — chiese freddamente Crown.
Leaf si irrigidì. Vide l’ira addensarsi sul viso di Crown. Il gigante controllava a fatica la propria natura violenta: presto sarebbero nati dei guai, se Leaf avesse continuato a sfidarlo. Questo spirito di ribellione andava contro tutti i suoi principi, eppure si trovò ad insistervi, provando persino una sorta di perverso piacere. Decise di rischiare un confronto per vedere fino a che punto arrivasse la fermezza di Crown. Con impudenza disse: — Potresti provare a tenere le redini tu stesso, amico.
— Leaf! — sussurrò Shadow atterrita.
Sul viso di Crown apparve un’espressione omicida. Le guance nere e lucide si gonfiarono e si tesero: gli occhi scintillarono come metallo fuso, le mani si chiusero e si aprirono, si chiusero e si aprirono, cercando furiosamente la presa. — Che razza di cretinate stai dicendo? Hai un contratto, Leaf, a meno che tu non abbia improvvisamente deciso che uno di Pura Discendenza non è obbligato a tener fede…
— Risparmiami i pregiudizi di classe, Crown. Non sto usando la Pura Discendenza come un pretesto per schivare il lavoro. Sono stanco e il mio riposo me lo sono guadagnato.
Sottovoce, Shadow disse: — Nessuno ti nega il riposo, Leaf. Ma Crown ha ragione quando dice che io non sono in grado di guidare con la pioggia purpurea. Lo farei, se ne fossi capace. E neppure Sting può farlo. Resti solo tu.
— E Crown — disse Leaf ostinato.
— Ci sei solo tu — mormorò Shadow. Era da lei non prendere mai posizione, cercando sempre di mediare. — Avanti, Leaf. Prima che nascano dei guai. Di solito non ti comporti così, non è nel tuo stile.
Leaf si sentiva obbligato a seguire quella linea di condotta, anche se era pericolosa. Scosse la testa. — Tu, Crown. Guidi tu.
Con voce strozzata, Crown disse: — Stai tirando troppo la corda. Abbiamo un contratto.
Lo spirito di ribellione della Pura Discendenza si era esaurito, adesso. — Contratto? Ero d’accordo di fare il mio turno di guida, non di essere privato del riposo non appena…
Crown tirò un calcio ad uno sgabello di vimini, mandandolo in pezzi. La sua rabbia stava per esplodere. Le vene del collo si gonfiarono e pulsarono. Riuscendo ancora a controllarsi, disse: — Esci di qui ora, Leaf, o, per l’Anima, ti spedirò al Tutto-che-è-Uno!
— Magnifico, Crown! Uccidimi, se senti di doverlo fare. E poi chi guiderà per te questo maledetto carro?
— Ci penserò dopo.
Crown avanzò, deglutendo, e serrando i pugni.
Shadow diede a Leaf una violenta gomitata nelle costole. — La faccenda sta oltrepassando i limiti del ragionevole — gli disse. Lui era d’accordo. Aveva messo alla prova Crown e aveva avuto la risposta che cercava, cioè che Crown non avrebbe ceduto; ora era il momento di smettere; perché Crown era capace di uccidere. La massiccia creatura del Lago Scuro torreggiò sopra di lui sollevando le enormi braccia come se volesse abbatterle sul capo di Leaf. Lui alzò le mani, in un gesto di sottomissione più che di autodifesa.
— Aspetta — disse. — Fermati, Crown. Guiderò.
Le braccia di Crown si abbassarono ugualmente. Lui riuscì a fermare a metà il corpo mortale, perdendo l’equilibrio e appoggiandosi alla fiancata del carro. Si raddrizzò goffamente. Scosse piano la testa. Con voce bassa e minacciosa disse: — Non ci riprovare mai più, Leaf.
— È la pioggia — disse Shadow. — La pioggia purpurea. Tutti fanno cose strane quando c’è la pioggia purpurea.
— Sarà così — disse Crown, lasciandosi cadere sull’accogliente ammasso di pellicce mentre Leaf si alzava. — La prossima volta saranno guai grossi. Ora muoviti, vai davanti.
Con un cenno di assenso, Leaf disse: — Vieni davanti con me, Shadow.
Lei non rispose. Un guizzo di paura lampeggiò nei suoi occhi.
Crown disse: — Il guidatore guida da solo. Questo lo sai, Leaf. Stai ancora mettendomi alla prova? Se è così, dillo e io saprò come trattarti.
— Voglio solo un po’ di compagnia dal momento che devo fare un turno extra.
— Shadow resta qui.
Ci fu un istante di silenzio. Shadow tremava. — Va bene — disse Leaf alla fine. — Shadow resta qui.
— Ti accompagno per un pezzetto — disse lei lanciando una timida occhiata verso Crown. Lui si rabbuiò ma non disse nulla. Leaf uscì dallo scompartimento passeggeri e Shadow lo seguì. Fuori, nello stretto passaggio che conduceva alla cabina centrale, Leaf si fermò, scosso e tremante, e la strinse a sé. Lei premette il proprio corpo contro il suo e si abbracciarono intensamente, furiosamente.
Quando lui si sciolse, lei gli chiese: — Perché hai cercato di contrariarlo in quel modo? È una cosa insolita per te, Leaf.
— Semplicemente non me la sentivo di riprendere le redini tanto presto.
— Lo so.
— Volevo stare con te.
— Starai con me un po’ più tardi — disse lei. — È stata una cosa insensata voler discutere con Crown. Non c’era scelta. Tu dovevi guidare.
— Perché?
— Lo sai. Sting non poteva farlo. E nemmeno io.
— E Crown?
Lei lo guardò in modo strano. — Crown? Come avrebbe potuto Crown prendere le redini?
Dal compartimento passeggeri giunse il grugnito rabbioso di Crown: — Vuoi stare lì tutto il giorno, Leaf? Muoviti! Shadow, vieni qui.
— Vengo! — gridò Shadow.
Leaf la trattenne per un istante. — Perché no? Perché non avrebbe potuto guidare? Può mostrarsi orgoglioso, ma non al punto di…
— Chiedimelo in un altro momento — disse Shadow allontanandolo. — Vai, vai. Devi guidare. Se non ci muoviamo, i ragni ci saranno addosso.
Il terzo giorno del loro viaggio verso ovest, giunsero al villaggio dei Metamorfi. La maggior parte del territorio che avevano attraversato era deserto, anche se i Denti non erano ancora arrivati fin lì; ma quei Metamorfi continuavano la loro vita come se nelle province vicine non fosse successo nulla. Erano individui ossuti, dalle lunghe gambe, con la pelle olivastra, quasi verde, classificati molto al di sotto delle caste intermedie, ma al di sopra dei subrazziali. La loro dote particolare era quella della metamorfosi: erano in grado di controllare volontariamente un progressivo ammorbidimento delle ossa, che nel giro di una settimana alterava drasticamente l’aspetto dei loro corpi; ma Leaf non vide niente del genere, a parte alcuni bambini che sembravano nel bel mezzo di strane trasformazioni, uno con le spalle grottescamente distese, un altro con le gambe che sembravano trampoli. Gli adulti si avvicinarono al carro, ammirandone al bellezza con deboli suoni sommessi, e Crown uscì per andare a parlare con loro. — Sto andando a radunare un esercito — disse. — Sarò di ritorno tra un mese o due alla testa della mia gente delle Pianure. Volete combattere nelle nostre file? Insieme sconfiggeremo i Denti e le province orientali saranno di nuovo sicure.
I Metamorfi risero di cuore. — Come si possono sconfiggere i Denti? — chiese un vecchio con un ciuffo untuoso di capelli bianco-azzurri. — È per volontà dell’Anima che essi avanzano da conquistatori e nessuno può mettersi a discutere con l’Anima. I Denti rimarranno in queste terre per migliaia e migliaia di anni.
— Possono essere sconfitti — gridò Crown.
— Distruggeranno tutto ciò che si trova sul loro cammino e nessuno potrà fermarli.
— Se è così che la pensate, perché allora non fuggite? — chiese Leaf.
— Oh, abbiamo tempo. Ma ce ne saremo già andati da molto tempo quando tornerai con il tuo esercito. — Si udirono dei risolini. — Ci terremo alla larga dai Denti. Abbiamo i nostri sistemi. Cambiamo forma e scivoliamo via.
Crown insistette: — Potremmo usarvi nella guerra contro di loro. Voi avete talenti preziosi. Se non volete combattere come soldati, almeno fateci da spie. Vi manderemo al campo dei Denti, camuffati da…
— Noi non saremo qui — disse il vecchio. — E nessuno riuscirà a trovarci. — E questo chiuse la discussione.
Quando l’aerocarro ripartì dal villaggio dei Metamorfi, con Shadow alle redini, Leaf chiese a Crown: — Credi davvero di poter sconfiggere i Denti?
— Devo.
— Hai sentito il vecchio Metamorfo. La venuta dei Denti è stata per volontà dell’Anima. Puoi sperare di contrastare quel volere?
— Anche un temporale è volontà dell’Anima — rispose tranquillo Crown. — Ma io faccio tutto quello che posso per restare asciutto. Non ho mai saputo che questo dispiacesse all’Anima.
— Non è la stessa cosa. Un temporale è una faccenda tra il cielo e la terra. Noi non siamo coinvolti; se vogliamo ripararci, questo non muta la realtà di ciò che sta accadendo. Ma l’invasione dei Denti è una cosa tra tribù e tribù, un riassetto delle regole sociali. Nel grande schema delle cose, Crown, può darsi che sia un processo necessario, preordinato, per raggiungere certi fini al di là della nostra comprensione. Tutti gli eventi sono parte di un disegno più grande e tutto si bilancia, ogni cosa ne compensa qualcun’altra. Prima c’era la pace ed ora è il tempo degli invasori, capisci? Se è così, resistere è inutile.
— I Denti hanno invaso le terre orientali — disse Crown, — massacrando migliaia di innocenti tra il popolo del Lago Scuro. La mia preoccupazione per i processi inevitabili si ferma a questo. La mia tribù è stata quasi completamente spazzata via. La tua è ancora al sicuro, là sulle rive ricoperte di felci. Io cercherò aiuto e otterrò la vendetta.
— I Metamorfi hanno riso di te. Anche altri lo faranno. Nessuno vorrà combattere i Denti.
— Ho dei cugini nelle Pianure. Se non lo farà nessun altro, loro si mobiliteranno. Vorranno ripagare i Denti per i crimini che hanno commesso contro il popolo del Lago Scuro.
— Può darsi che i tuoi cugini occidentali dichiarino di voler restare dove sono, al sicuro. Perché dovrebbero andare ad est a morire in nome della vendetta? La vendetta, non importa quanto sanguinosa, riporterà forse in vita quelli della tua stirpe?
— Combatteranno — disse Crown.
— Preparati all’eventualità che non vogliano farlo.
— Se rifiutano — disse Crown, — allora ritornerò ad est e continuerò la mia guerra da solo finché non sarò sopraffatto. Ma non temere per me, Leaf, sono sicuro che troverò reclute in abbondanza.
— Quanto sei testardo, Crown. Hai una buona ragione per odiare i Denti, come tutti noi. Ma perché permettere che quest’odio ti costi la vita? Perché non accetti il disastro e non ti rifai una nuova esistenza oltre il fiume Middle, dimenticando questo sogno di rovesciare l’irreversibile?
— Ho il mio compito — disse Crown.
Leaf avanzò verso la parte anteriore del carro, lentamente, a testa bassa e con le spalle curve, i piedi che formicolavano per il desiderio di prendere a calci qualcosa. Si sentiva di umore tetro, raggelato da un cupo risentimento. Si era lasciato prendere dalla rabbia verso Crown, il che era deprecabile: ma, peggio ancora, si era lasciato possedere ed avvelenare dall’ira. Nemmeno la bellezza del carro riusciva a sollevarlo: normalmente, le sue linee superbe e l’elegante arredamento gli procuravano gioia: i drappi di pelliccia dal disegno ondulato, gli stendardi dai tessuti finissimi, i raffinati intarsi, le aggraziate strisce di nappa e semi essicati che pendevano dai soffitti ricurvi, tutte queste meraviglie non significavano nulla per lui, ora. Non era giusto, lo sapeva.
L’aerocarro era più lungo di dieci uomini della Pura Discendenza sdraiati testa contro piedi e largo quasi quanto la carreggiata della strada.
Alla sua costruzione avevano collaborato gli artigiani migliori: senza dubbio i Donatori di Fiori, solo loro sapevano costruire con tanta perfezione. Leaf immaginò decine di quei piccoli esseri fragili che per mesi si erano affannati, sorridenti e silenziosi, con dita lunghe e affusolate, occhi ardenti ed acuti, a dare una forma al carro, con la stessa passione con cui si dà forma ad una poesia. La struttura principale era costituita da lunghi pali di leggero e resistente legno-vela, sapientemente tagliati in ampie strisce ricurve, ricoperte da una sostanza liquida incolore e fragrante, e assicurate con fibre elastiche di vimini delle paludi meridionali. Su questa elaborata struttura erano stesi rotoli di pelle, legati con spesse fibre gialle ricavate dai corpi cartilaginosi delle stesse creature che fornivano la pelliccia. Il pavimento era costituito da tavole di scuro e brillante legno di fiordinotte, perfettamente lucidate e fissate con grande perizia. Nella costruzione del carro non erano stati impiegati metalli o altre sostanze artificiali: tutto era stato fornito dalla natura. Per quanto enorme e maestoso, il carro era arioso e leggero, abbastanza da galleggiare su di una colonna di aria calda generata dai rotori magnetici sistemati nella parte inferiore; finché la terra girava, avrebbero girato anche i rotori e quando i rotori erano in funzione, il carro si sollevava da terra di una decina di centimetri e poteva venir trainato facilmente da pariglie di incubi.
Era un palazzo mobile, più che un carro, e dovunque suscitava meraviglia: era l’amore di Crown, la sua gioia, la sua proprietà, un sofisticato giocattolo. Per pagarne la costruzione doveva aver spedito molte anime al Tutto-che-è-Uno, perché era così che Crown si era guadagnato da vivere, come guerriero mercenario, assassino prezzolato, combattente nei duelli al posto di ricchi signorotti dell’est, troppo pigri o troppo deboli per difendere il proprio onore. Non aveva mai riportato neppure un graffio e praticava tariffe elevate: ma tutto questo era finito, ora che i Denti dilagavano nelle terre orientali.
Leaf non riusciva più a sopportare di essere così irritabile. Si fermò per ritrovare l’equilibrio, chiudendo gli occhi per ascoltare quella nota limpida che risuonava sempre al centro del suo essere. Dopo alcuni minuti la udì, si sintonizzò su di essa, e lasciò che lo purificasse. L’ingiustizia di Crown cessò di avere importanza e Leaf ritrovò se stesso, vigile ed estroverso, conscio e responsabile.
Con un sorriso, attraversò fischiettando il largo e confortevole scompartimento centrale, gaiamente illuminato e decorato con le armi di Crown e altri truci cimeli di battaglia, ed entrò nel corridoio che portava alla cabina di guida.
Sting sedeva alle redini, piegato in avanti. La gente del Cristallo Bianco, a cui apparteneva Sting, sembrava sempre pulsare e vibrare di energia; ma Sting pareva esausto, svuotato, mezzo morto per la stanchezza. Era un essere piccolo, vigoroso, stretto di spalle e di fianchi, con la pelle cerea e incolore, dalla consistenza cornea, butterata di piccoli nocchi pelosi. La muscolatura era lunga e piatta; il viso cavernoso, con il naso a becco e le guance minuscole, gli occhi scuri e maliziosi nascosti in profonde cavità osse. Leaf gli toccò una spalla. — Va tutto bene — gli disse. — Crown mi ha mandato a darti il cambio. — Sting annuì debolmente ma non si mosse. L’ometto tremava come una foglia. Leaf aveva sempre pensato che fosse indistruttibile, ma in quel frangente Sting sembrava anche più fragile di Shadow.
— Vieni — mormorò Leaf. — Ti riposerai per qualche ora, Shadow si prenderà cura di te.
Sting scrollò le spalle. Era chinato in avanti, lo sguardo puntato al finestrino curvo e trasparente, ora macchiato da schizzi di acqua mista a fango.
— Quei luridi ragni — disse con voce roca e stanca. — La schifosa pioggia. Il fango. Guarda i cavalli, Leaf. Stanno morendo di paura e anch’io. Moriremo tutti su questa strada, Leaf; se non a causa dei ragni, per la pioggia avvelenata, o se non per la pioggia allora a causa dei Denti, e se non sarà per causa loro, allora sarà di certo qualche altra cosa. Non c’è altra strada che questa, per noi, lo capisci? Questa è la strada, e noi siamo legati ad essa come inermi subrazziali, e su di essa moriremo.
— Noi moriremo quando verrà la nostra ora, come per tutte le cose, Sting, e non un attimo prima.
— La nostra ora sta arrivando. Troppo presto. Troppo presto. Sento vicini i fantasmi della morte.
— Sting!
— Mi sento perseguitato, su questo carro, Leaf.
Sting emise un bizzarro suono gutturale, come una specie di singhiozzo rauco. Leaf lo sollevò di peso, togliendolo dal sedile del guidatore e posandolo gentilmente nel corridoio. Era come se Sting fosse senza peso. Forse in quel momento era così. Sting aveva molte strane doti. — Avanti — disse Leaf, — riposati un po’, adesso che puoi.
— Come sei gentile, Leaf.
— E niente più discorsi di fantasmi.
— Sì — rispose Sting. Leaf lo vide lottare contro la paura, la disperazione, lo sfinimento. Sembrò illuminarsi per un attimo, sul punto di riprendere l’antica vitalità; poi il breve brillio si spense e, con un pallido sorriso ed un mormorio di ringraziamento, Sting andò a poppa.
Leaf si sistemò sul sedile del guidatore.
Guardando dal finestrino del carro (fatto di sottili e resistenti strisce di pelle arrotolata, disposte con cura e perfettamente trasparenti), si trovò di fronte ad una scena lugubre. Una pioggia scura come il sangue cadeva obliquamente, flagellando il terreno spugnoso e sollevando piccoli zampilli di fango. Un miasma bluastro si sollevava dal suolo in ondate di nebbia scura e fumigante, il cui odore acre già cominciava a pervadere il carro. Leaf sospirò e prese le redini. Fantasmi di morte, pensò. Ossessionato. Povero Sting, gli aveva dato di volta il cervello.
Eppure, eppure ripensando alle parole di Sting, Leaf si rese conto che anche lui aveva provato qualcosa di simile nei giorni precedenti: si era sentito teso, incalzato, ossessionato. Ossessionato. Come se presenze invisibili, irridenti, ostili, incombessero su di lui. Fantasmi? Era più probabile che si trattasse della tensione per tutto quello che aveva passato dal giorno del primo massacro dei Denti. Era sopravvissuto al crollo di una civiltà ricca e intricata, e ora si muoveva in un mondo strano, fatto di ceneri e alghe. Forse era ossessionato dal peso di un passato non ancora sepolto, dal ricordo di tutto quello che aveva perduto.
Forse era necessaria una formula esorcistica.
A voce alta e tranquilla disse: — Se qui ci sono dei fantasmi, voglio che mi ascoltino. Uscite da questa cabina. È un ordine. Io ho un lavoro da svolgere.
Rise. Prese in mano le redini e si preparò ad assumere il controllo delle pariglie di incubi.
La sensazione di una presenza invisibile era soverchiante. Qualcosa di intangibile e palpabile ad un tempo, lo teneva stretto in una morsa rischiosa. Si sentiva circondato e risucchiato. È la nebbia, si disse. Una nebbia scura, che premeva contro il finestrino, sigillando il carro in una sacca di vapore. O non era la nebbia? Leaf rimase assolutamente silenzioso e si guardò intorno ispezionando con attenzione la cabina. Non c’era nessuno. Era assurdo agitarsi in quel modo. Eppure il disagio persisteva. Ora non era più uno scherzo. L’ansia di Sting l’aveva contagiato e ormai si nutriva di se stessa, facendosi più intensa ad ogni istante che passava, rendendolo vulnerabile a qualunque sussurro di terrore. Solo con la tranquillità mentale poteva ottenere lo stato di trance necessario ad un guidatore di incubi: e non sarebbe entrato in trance se avesse continuato a sentire lo sguardo di un osservatore invisibile. Questa pioggia, pensò. Questa maledetta pioggia. Fa impazzire tutti. Con voce chiara e ferma disse: — Ora parlo seriamente. Mostrati ed esci da questa cabina.
Silenzio.
Riprese le redini. Inutile. Concentrarsi era impossibile. Lui conosceva molte tecniche per farlo, per portare la propria coscienza ad un livello di inattaccabile serenità. Ma era in grado di ottenerla, ora, così turbato e fuori fase? Ci avrebbe provato. Doveva riuscirci. Il carro aveva indugiato già troppo in quel luogo. Leaf chiamò a raccolta tutte le sue migliori risorse, purificò se stesso da ogni dissonanza, si costrinse a cadere lentamente in trance.
Sembrò funzionare. L’oscurità lo chiamò. Lui si fermò sulla soglia. Fu sul punto di attraversarla.
— Stupido, davvero uno stupido — disse all’improvviso una voce secca scaturita dal nulla, che gli perforò le orecchie come i denti aguzzi dei topi del Deserto Bianco.
La trance si interruppe. Leaf tremò come se fosse stato pugnalato e si raddrizzò con il viso rosso per l’eccitazione.
— Chi ha parlato?
— Metti giù quelle redini, amico. Continuare lungo questa strada è un grosso spreco di energie.
— Allora non ero pazzo e non lo era neppure Sting. Qui c’è qualcosa!
— Un fantasma, sì, un fantasma, un fantasma, un fantasma. — Il fantasma lo inondò con uno scroscio di risa.
Leaf sentì la tensione allentarsi. Meglio essere afflitti da un fantasma vero che essere infastidito dalle fantasie della propria mente malata. La pazzia lo spaventava molto di più dell’invisibile. E poi pensava di sapere chi fosse quella creatura.
— Dove sei, fantasma?
— Non lontano da te. Sono qui. Qui. Qui. — Una voce da tre punti diversi della cabina, in rapida successione. L’essere invisibile cominciò a cantare. Era un canto acuto e lamentoso, un suono lacerante che mise a dura prova la sopportazione di Leaf. Continuava a non vedere nessuno, pur strizzando gli occhi e sforzandosi al massimo. Pensò di intravedere un pallido velo di luce rosa che galleggiava lungo la parete della cabina, una foschia fumosa che si muoveva da un punto all’altro, una specie di patina luccicante, come un velo di olio sull’acqua, ma tutte le volte che cercava di fissarvi lo sguardo, quella vaga presenza sembrava evaporare.
Leaf disse: — Da quanto tempo sei a bordo di questo carro?
— Da quanto basta.
— Sei salito a Theptis?
— Era quello il nome del luogo? — chiese il fantasma fingendo di non saperlo. — L’hq dimenticato. È così difficile ricordare le cose.
— Theptis — disse Leaf. — Quattro giorni fa.
— Forse ero a Theptis — disse il fantasma. — Stupido! Sognatore!
— Perché mi insulti?
— Viaggi su di una strada morta, sciocco, eppure nulla ti distoglierà da essa. — La creatura invisibile fece un risolino. — Pensi che io sia un fantasma, Pura Discendenza?
— So chi sei.
— Come sei diventato saggio!
— Che fantasma miserabile! Che meschino spettro vagante! Mostrati a me, fantasma!
La risata riecheggiò dagli angoli della cabina. La voce, parlando da un punto vicino all’orecchio sinistro di Leaf, disse: — La strada che avete scelto di percorrere è stata uccisa più avanti. Ve lo avevano già detto quando siete venuti da noi, eppure avete voluto proseguire, e proseguite ancora. Perché avete tanta fretta?
— Perché non ti fai vedere? Un gentiluomo si sente a disagio quando parla al vuoto.
Dopo una breve pausa, il fantasma rinunciò compiacente ad una frazione della propria invisibilità. Una vaporosa macchia purpurea apparve nell’aria di fronte a Leaf ed in mezzo ad essa lui vide delle fattezze tenui ed inconsistenti, come una proiezione su di uno schermo di densa nebbia. Credette di riuscire a distinguere una sottile barba bianca, occhi acuti e scintillanti, labbra sottili e ricurve; un viso assolutamente arcigno, un tronco scarnificato. La macchia diventò di colore scarlatto e per un attimo Leaf vide l’intera figura dell’estraneo, un uomo alto, dall’ossatura stretta, rinsecchito e avvizzito, che lo fissava con una smorfia feroce. I bordi della figura sfumarono e divennero bruma. Leaf vide di nuovo solo vapore, e poi più nulla.
— Mi ricordo di te a Theptis — disse Leaf. — Nella tenda degli Invisibili.
— Che cosa farete quando arriverete al punto morto sull’autostrada? — domandò l’Invisibile. — Ci volerete sopra? Scaverete una galleria sotto di esso?
— Facevi le stesse domande a Theptis — rispose Leaf. — Ti darò la stessa risposta che ti diede allora Crown del Lago Scuro: andremo avanti, ostacolo o no. Questa è la sola strada per noi.
Erano arrivati a Theptis il quinto giorno dopo la loro fuga: una città grandiosa, uno splendido centro commerciale, la porta dell’ovest, posta alla confluenza di due grandi fiumi e di molte autostrade. Nei tempi felici a Theptis si trovavano persone di tutti i generi: Pure Discendenze e Cristalli Bianchi; Donatori di Fiori e Plasmatori di Sabbia e dozzine di altre razze, che si affollavano nelle strade principali, comprando e vendendo, vendendo e comprando. Ma Theptis era soprattutto la città degli Arti, la casta dei mercanti, industriosi e grassocci, concentrati a migliaia in quella sola città.
Il giorno che l’aerocarro di Crown giunse a Theptis, gran parte della città era in fiamme ed essi si fermarono in un’ampia pianura percorsa da un fiumicello, appena fuori dall’area metropolitana. Là era sorto un improvvisato campo profughi e le tende nere, dorate e verdi, coprivano il prato come tanti germogli spuntati nottetempo. Leaf e Crown andarono in cerca di notizie. I Denti avevano saccheggiato anche Theptis? No, rispose loro un vecchio e logoro Plasmatore di Sabbia. Secondo quello che si diceva, i Denti erano ancora molto lontani, ad imperversare sulle città costiere ad est. E quegli incendi, allora? Il vecchio scosse il capo. La sua energia si era esaurita, o forse la sua pazienza e la sua cortesia. Se volete sapere altro, disse, chiedetelo a loro. Loro sanno tutto. E indicò una tenda di fronte alla sua.
Leaf guardò nella tenda ma la trovò vuota; poi guardò di nuovo e vide delle ombre sottili che si muovevano all’interno, esili figure che sfioravano i limiti estremi della visibilità, e che lui riusciva a percepire mentre si muovevano nella tenda solo grazie ai giochi di luce. Gli dissero di entrare e Crown lo seguì. Alla luce velata del fuoco acceso nella tenda era più facile vederli: sette o otto uomini della razza degli Invisibili, nomadi avvolti dal mistero, dotati della capacità di far viaggiare i raggi luminosi attraverso o intorno ai loro corpi, in modo da sfuggire alla vista dei comuni normali. Leaf, come tutti quelli che non appartenevano alla loro razza, si sentiva a disagio con gli Invisibili. Nessuno si fidava di loro; nessuno era in grado di intuire le loro azioni, perché erano creature capricciose e imprevedibili, che seguivano un codice la cui logica era incomprensibile agli estranei. Diedero il benvenuto a Crown e Leaf, muovendo i loro corpi per rendersi visibili ed offrirono ai visitatori una caraffa di vino ed un vassoio colmo di frutta. Crown fece un gesto in direzione di Theptis. Chi aveva incendiato la città? Un Invisibile con la barba rossiccia ed una voce roboante e rauca, rispose che la seconda notte dell’invasione, gli Arti più ricchi erano stati colti dal panico ed avevano cominciato ad abbandonare la città con tutti i loro averi più preziosi e mentre i loro carri oltrepassavano le porte della città, i subrazziali avevano dato inizio alo saccheggio dei palazzi degli Arti e quando erano giunti alle cantine, erano cominciati i disordini ed erano scoppiati vari incendi, e nessuno era stato in grado di costringere i pompieri a fare il loro dovere perché questi erano tutti subrazziali ed i loro padroni erano fuggiti. Così la città bruciò, e stava ancora bruciando, ed i sopravvissuti erano ammucchiati su quella pianura, in attesa che le macerie si raffreddassero, in modo da poter recuperare le cose di valore, con la speranza che i Denti non piombassero su di loro prima che avessero terminato la loro ricerca. Per quanto riguardava gli Arti, disse l’Invisibile, ora a Theptis non ce n’era più nessuno.
Da che parte erano andati? In un primo tempo, soprattutto verso nord-ovest, con l’Autostrada del Tramonto, ma poi l’ingresso a quella strada era stato ingorgato da carri impantanati che si erano urtati e messi di traverso, per cui ora l’unico modo di raggiungere l’autostrada era di fare una lunga deviazione attraverso le terre sabbiose a nord della città, e una volta che questa notizia si era sparsa, gli Arti avevano voltato i loro carri verso sud. Crown si meravigliò che nessuno prendesse l’Autostrada del Ragno verso ovest. Al che un secondo Invisibile con la barba bianca si unì alla conversazione. L’Autostrada del Ragno è bloccata a pochi giorni di viaggio da qui in direzione ovest; una strada morta, una strada inutile. Questo lo sanno tutti, disse l’Invisibile con la barba bianca.
— Quella è la nostra strada — disse Crown.
— Vi auguro buona fortuna — disse l’Invisibile. — Non andrete lontani.
— Io devo arrivare alle Pianure.
— Prova con le terre sabbiose — gli consigliò quello con la barba rossa, — e prendi quella del Tramonto.
— Perderei due settimane o più — replicò Crown. — L’Autostrada del Ragno è l’unica da prendere in considerazione. — Leaf e Crown si scambiarono occhiate circospette. Leaf chiese quale fosse la natura del guaio sull’autostrada, ma l’Invisibile rispose solo che la strada era stata «uccisa» e non fornì altre spiegazioni.
— Noi andremo avanti — disse Crown, — ostacolo o no.
— Come volete — disse l’Invisibile più anziano versando dell’altro vino. Entrambi gli Invisibili cominciavano già a svanire; la caraffa sembrava sospesa nella foschia. E così anche la discussione divenne irreale come un sogno, poiché le risposte non seguivano più strettamente il senso delle domande e le parole degli Invisibili giungevano a Leaf e Crown con un suono ovattato. Alla fine vi fu un lungo intervallo di silenzio, e quando Leaf tese il bicchiere vuoto, la caraffa non gli venne più offerta e così i due capirono di essere rimasti soli nella tenda. Uscirono e si fermarono in altre tende a fare domande a proposito dell’ostacolo sull’Autostrada del Ragno, ma nessuno ne sapeva nulla: né alcuni giovani Stelle Danzanti, né tre femmine Respira-acqua dal viso piatto, né una famiglia di Donatori di Fiori. Quando ci si poteva fidare delle parole dell’Invisibile? Che cosa intendevano con strada «morta»? Era probabile che con ciò volessero dire semplicemente che la strada era ritualmente impura per qualche ragione nota solo agli Invisibili. Chi poteva mai essere certo del significato delle parole di un Invisibile? Quella notte, nel carro, i quattro si erano interrogati sull’idea di una strada che era stata «uccisa», ma neppure la percezione intuitiva di Shadow, e neanche l’estesa conoscenza che Sting aveva dei dialetti e dei costumi delle tribù poterono far luce sulla cosa. Alla fine Crown riaffermò la propria decisione di continuare sull’itinerario che a suo tempo avevano scelto, e fu l’Autostrada del Ragno che essi imboccarono uscendo da Theptis. Mentre procedevano verso ovest non incontrarono nessuno che viaggiasse in senso inverso, anche se si erano aspettati di trovare nelle corsie in direzione est un flusso di veicoli che tornavano indietro da quell’ostacolo che ostruiva la strada più avanti. Questo rallegrò Crown; ma Leaf osservò fra sé che il loro sembrava essere l’unico veicolo sulla strada in entrambe le direzioni, come se tutti gli altri sapessero che era meglio non tentare neppure. In quella solitudine assoluta viaggiarono per quattro giorni verso ovest, prima che la pioggia purpurea li colpisse.
Ora l’Invisibile disse: — Entra in trance e guida i tuoi cavalli. Io sognerò al tuo fianco finché verrà il risveglio.
— Preferisco l’intimità.
— Non sarai disturbato.
— Ti chiedo di andartene.
— Tratti freddamente i tuoi ospiti.
— Sei mio ospite? — chiese Leaf. — Non mi ricordo di averti invitato.
— Hai bevuto il vino nella nostra tenda. Questo ti obbliga a ricambiare l’ospitalità. — L’Invisibile aumentò la propria intensità corporea fino ad apparire solido come Crown; ma proprio mentre Leaf lo osservava, si assottigliò di nuovo, scomparendo a chiazze. Attraverso il suo petto si vedeva la parete più distante della cabina. Le braccia erano scomparse, ma non le mani dalle lunghe dita adunche. Stava sogghignando, mettendo in mostra una doppia fila di denti storti. Nella cabina c’era uno strano odore, acuto e muschiato, come aceto misto a miele. L’Invisibile disse: — Farò ancora un pezzetto di strada con voi. — E scomparve del tutto.
Leaf cercò negli angoli della cabina, sapendo che un Invisibile si poteva sempre sentire al tatto anche se si sottraeva alla vista. Le sue mani non incontrarono nulla. Svanito, svanito, svanito, sgattaiolato nel luogo in cui finiscono le fiamme spente, eh? Anche l’odore di aceto e miele stava diminuendo. — Dove sei? — chiese Leaf: — Ti nascondi ancora qui vicino? — Silenzio. Leaf fece spallucce. L’odore della pioggia purpurea aveva di nuovo preso il sopravvento. Era ora di muoversi, con o senza passeggero clandestino. La pioggia batteva contro il finestrino con enormi gocce fangose sospinte dal vento. Ancora una volta Leaf prese le redini. Bandì l’Invisibile dalla propria mente.
Le piogge purpuree scaturivano da nuclei gassosi alla deriva negli strati superiori dell’atmosfera: nuvole impregnate dei residuati chimici che si innalzavano dai luoghi più colpiti e contaminati, e circondavano il pianeta come tempeste maligne. Scontrandosi con una massa di aria fredda, quelle nuvole velenose spesso scaricavano il loro fardello di acidi e carburi maleodoranti sotto forma di tremendi temporali; e quelle fetide precipitazioni erano spesso fatali per piante, cespugli e piccoli animali, qualche volta anche per l’uomo.
La pioggia purpurea era per certe creature il segnale per uscire dai loro nascondigli: predatori furtivi che si nutrivano di ciò che era morto e moribondo, e creature più grandi e pericolose che attaccavano qualunque essere vivente non abbastanza lesto a fuggire. I ragni senza gambe erano tra le creature più disgustose.
Erano bestie sinistre di forma sferica, della taglia di un grosso cane, di appetito vorace e spietati nella caccia. Avevano corpi grassocci, ricoperti di peli marroni ruvidi e folti; sopra la bocca dai denti aguzzi avevano otto occhi luccicanti. Erano davvero senza gambe, ma non immobili, perché un unico enorme piede carnoso, qualcosa di simile al corpo di una lumaca, spuntava da sotto il ventre di questi ragni e li faceva avanzare con un passo lento ma inesorabile. Come inseguitori erano scarsi, facilmente distanziati dagli animali più sani e robusti: ma per le vittime stordite dalla pioggia purpurea, erano un pericolo mortale, pronti a colpire con artigli aguzzi e velenosi, che balzavano fuori da rientranze poste lungo il loro dorso. Ma erano davvero ragni? Leaf non ne aveva idea. Come ogni altra cosa, erano specie recenti, mutazioni di l’Anima-sa-che-cosa, risalenti al periodo dei burrascosi rivolgimenti biologici sopravvenuti alla fine della vecchia civiltà industriale, e nessuno li aveva ancora studiati da vicino o aveva voglia di farlo.
Crown ne aveva uccisi quattro. I loro corpi giacevano rovesciati sul bordo della strada, con i piedi che pendevano avvizziti e cadenti come funghi strappati. Un’altra dozzina di ragni erano emersi dalle basse colline che fiancheggiavano l’autostrada e strisciavano lentamente verso il carro impantanato; parecchi avevano già raggiunto i loro compagni morti e stavano per cibarsi di essi, mentre qualcuno degli altri adocchiava i cavalli.
I sei incubi, prigionieri dei loro finimenti, si agitavano a disagio nello stretto spazio disponibile, raspando con gli zoccoli il suolo fangoso. Erano animaletti grossi e robusti, neri come la morte, con lunghe orecchie piumose e il cranio alto e rotondo che conteneva una mente acuta come quella di molti esseri umani, e in alcuni casi anche di più. La pioggia infastidiva le giumente, ma non costituiva una seria minaccia e i ragni potevano venir tenuti a bada con i calci, ma era chiaro che tutta quella situazione era spiacevole.
Leaf intendeva toglierle di lì più in fretta possibile.
Una pellicola viscida ricopriva tutto ciò che la pioggia aveva toccato, e la strada era un miserevole pantano scivoloso come il ghiaccio. La cosa era pericolosa per tutti. Se una giumenta inciampava e cadeva, poteva fratturarsi una zampa e causare tanto scompiglio da far cadere anche il resto della pariglia: e mentre le giumente ferite si agitavano nel fango, i ragni affamati si sarebbero precipitati su di loro, sfoderando gli artigli velenosi, con punture che avrebbero stordito e lasciato gli animali paralizzati, impotenti, vulnerabili di fronte a quei denti famelici e alle mandibole voraci. Mentre il carro si muoveva in quei luoghi paludosi e impregnati di pioggia, Leaf avrebbe dovuto costantemente rassicurare i cavalli, inondandoli con la propria energia per confortarli, un compito estenuante, un compito che aveva sfinito il povero Sting.
Leaf si fece scivolare le redini sopra la testa. Percepì la consapevolezza dei sei cavalli impauriti.
Poiché era ancora sveglio, il contatto era incerto e confuso. Una mente cosciente non poteva comunicare in modo utile con gli animali. Per guidare le pariglie doveva entrare in uno stato di trance, uno stato simile al sogno: loro non avrebbero risposto ad una entità tanto rozza come un’intelligenza cosciente. Si guardò intorno per cercare qualche segno dell’Invisibile. No, non si vedeva. Bene. Leaf focalizzò la mente.
Chiuse gli occhi. La tecnica della trance era semplice per lui, quando non c’erano distrazioni.
Visualizzò una galleria scura, con l’imboccatura stretta, che scendeva verso il basso. Scivolò verso l’ingresso. Rimase sospeso per un attimo.
Entrò.
Galleggia, galleggia, sospinto verso il basso da correnti calde, gentili: affonda in una lenta discesa a spirale, come una foglia autunnale in una brezza di primavera. Le pareti della galleria sono circolari, cristalline, illuminate dall’interno da una luce che brilla più viva a mano a mano che lui cade verso il centro del mondo. Abbaglianti fiori azzurri e scarlatti, trasparenti come il vetro, spuntano dalle fenditure ad intervalli perfettamente regolari.
Lui scende più in basso, senza toccare nulla. Giù.
Entra in un luogo dove la galleria si allarga diventando una stanza dalle pareti lisce, sigillate ad una estremità. Lui si sdraia sul pavimento. Questo è di pietra nera, viscida e scivolosa; lui sogna in un calore dolce e acquiescente simile al grembo materno. Qui i colori sono confusi, i suoni attutiti. Ode una musica lontana, soffocata e tambureggiante, rat-a-tat, rat-a-tat, bllooom, bllooom.
Ora può entrare completamente in contatto con le menti dei cavalli. Il suo spirito si espande verso di loro: lui le avvolge, le accoglie dentro di sé. Avverte l’identità di ognuna, percepisce il mutevole gioco delle loro emozioni, l’impennata delle loro fantasie, le loro paure. Ogni giumenta ha una propria reazione alla pioggia, ai ragni, alla strada fradicia d’acqua. Una è irrequieta, l’altra timorosa, una furente, una scontrosa, l’altra tesa, l’altra torpida. Immette energia in loro. Le unisce. Avanti, radunate le forze, portateci avanti; questa è la strada, dobbiamo andare.
Gli incubi si agitano.
Rispondono bene al suo tocco. Lui pensa che come guidatore lo preferiscano a Sting e a Shadow: Sting è troppo rigido, Shadow troppo permissiva. Leaf le tiene unite, le dirige con facilità, dà loro la guida di cui hanno bisogno. Esse sono intelligenti, sì hanno personalità, scopi, ideali, ma sono anche bestie da soma, e Leaf non lo dimentica mai, perché anche gli stessi incubi non lo dimenticano.
Forza, ora, avanti.
La strada è spaventosa. Gli zoccoli producono un suono simile ad un risucchio uscendo dal fango. Loro si lamentano; abbiamo freddo, siamo bagnate, siamo stanche. Sogna per loro delle ali, perché il cammino sia più agevole. Per ammansirle sogna la luce del sole, un calore munifico, una strada asciutta, un trotto lieve. Sogna colline verdi, cascate di fiori gialli, il fruscio delle ali dei colibrì, il ronzio delle api. Dona alle giumente una dolce estate ed esse si calmano; sollevano la testa, spiegano le loro ali di sogno e si lisciano le penne: sono pronte a riprendere il viaggio. Tirano all’unisono, il rotore ronza allegramente. Il carro scivola in avanti con un movimento fluido e costante.
Leaf, sprofondato nella trance, non è in grado di vedere la strada, ma questo non ha importanza; le giumente la vedono per lui e gli inviano le immagini, cangianti e fluide immagini di sogno, polarizzate, rifratte e diffratte dalla stranezza del loro modo di vedere e dalla distorsione di quella comunicazione sognante: sei visioni simultanee e individuali. Ecco la strada, contornata da bianche betulle sferzate da un vento furioso. Ecco la strada, una linea di terra che taglia una foresta di pini maestosi curvati dal peso della candida neve appena caduta. Ecco la strada, un nastro fertile su cui spuntano brillanti papaveri rossi nei punti toccati dagli zoccoli. Pesci azzurri dalle piume carnose sono a testa in giù ai lati della strada. Panciuti borghesi della tribù degli Arti stendono brillanti tovaglie candide sui margini erbosi e si cibano di ostriche dagli occhi enormi, pieni di riprovazione. Figure mascherate corrono rapidissime tra le zampe dei cavalli. La strada devia, devia ancora, si ripiega su se stessa, incrocia se stessa formando una sorta di cappio. Leaf integra questa pioggia di dati vertiginosa e confusa, dividendo il reale dall’irreale, miscelando e concentrando l’afflusso, e usandolo per guidare se stesso nella guida degli animali. Serenamente, coordina i loro movimenti con impulsi di pensiero rapidi e sicuri, in modo che ogni animale spinga con uguale forza. Il carro è in equilibrio precario sulla sua colonna d’?ria e una spinta ineguale può farlo scivolare nell’insidioso boschetto alla sinistra della strada. Invia rapidi messaggi lungo lo spesso condotto che unisce la sua mente alla loro. Attente, attente! Guardate quel pantano davanti a voi! Ah! Ah, ecco la mia bambina. Attente, ragni sulla sinistra! Bene! Sì, sì, ah sì! Con un refolo della propria mente accarezza i loro fianchi possenti. Ricompensa la loro agilità con visioni della stalla, del fieno fresco, degli stalloni che le attendono alla fine del viaggio.
Da loro (perché loro lo amano, lui sa che lo amano) riceve calde visioni di una strada tutta gioia e bellezza; tutte le visioni convergono in una singola visione idealizzata: maestosi boschetti di alberi-vela e larghi prati in mezzo ai quali scorrono torrenti limpidi. Sognano per lui anche la sua vita passata, rimandandogli casuali perle autobiografiche disseminate nelle pieghe del suo essere. Quello che gli trasmettono è filtrato e trasformato dalla loro sensibilità aliena, colorato di brillanti allucinazioni, stirato e contorto in altre forme e dimensioni, eppure lui è ugualmente in grado di percepire il significato essenziale di ogni quadro: la sua infanzia nei parchi e nei giardini dell’oasi della Pura Discendenza vicino al Mare Interno, gli anni dei suoi vagabondaggi tra le razze innumerevoli, sconosciute, e non completamente umane, dell’entroterra; il breve e felice soggiorno nelle terre occidentali coperte di nebbia, il viaggio verso est nei primi anni dell’età adulta, sempre seguendo il volere dell’Anima, sempre piegandosi ai venti, accettando qualunque destino gli si presentasse; verso est, con un gruppo di amici che erano più che fratelli, in quelle province orientali da lui adottate; la sua casa là, adagiata sulle rive di un lato, padiglioni di legno lucido e tende che si gonfiavano al vento, la sua collezione di vestigia del genere umano dei tempi andati (pezzi di macchinari, eleganti serpentine di metallo, monete arrugginite, statuette grottesche, cunei di plastica indistruttibile) tutti alloggiati in un’ala apposita, con un proprio sovrintendente. Perso in quelle fantasticherie, non ricorda più che la casa sul lago è stata ridotta in cenere dai Denti, che gli amici dei giorni più lieti sono morti, i suoi possedimenti devastati, tutte le sue cose sparpagliate tra le macerie.
Impercettibilmente, il sogno perde la sua dolcezza.
Ragni, pioggia e fango vi si insinuano. Il vago oscurarsi delle immagini che pervadono la sua mente sognante gli ricorda che è stato spogliato di ogni cosa e che è divenuto, ora che si è dato alla fuga, solo un guidatore al soldo di un bestiale mercenario del Lago Scuro, anche lui fuggiasco.
Ora Leaf fa più fatica a controllare le pariglie. Il passo dei cavalli sembra meno sicuro, rallenta; qualche cosa li disturba ed un’ansia aspra e querula pervade i messaggi che gli inviano. Lui comprende il loro umore, vede se stesso aggiogato ai lati del carro ed è Crown a tenere le redini, Crown che agita un’orribile frusta, Crown che spinge il carro a velocità pazza, in cerca di alleati che lo aiutino ad appagare il suo sogno di liberare le terre conquistate dai Denti. Non c’è modo di sfuggire a Crown. Si leva sul paesaggio come un mostro di fumo congelato, crescendo fino ad oscurare il cielo. Leaf si domanda come farà a liberarsi di Crown. Shadow corre al suo fianco, accarezzandogli il viso, mormorando, e lui le chiede di sciogliere i finimenti, ma lei risponde che non può, che è loro dovere servire Crown, e allora Leaf si rivolge a Sting, anche lui legato al suo fianco, e gli domanda aiuto, ma Sting scivola nel fango quando la frusta di Crown gli si abbatte sulla schiena. Non c’è scampo. Il carro trema e sbanda. Il cavallo di destra scarta, sta per cadere, si riprende. Leaf decide che la stanchezza sta cominciando a farsi sentire. Quel giorno ha guidato moltissimo e lo sforzo è stato grande. Ma la pioggia continua a cadere (per un attimo lui penetra oltre il velo delle illusioni, oltre le scene di primavera, estate e autunno, e vede l’acqua purpurea cadere a grandi scrosci dal cielo) e non c’è nessun altro che possa guidare, così lui deve continuare.
Cerca di immergersi in una trance più profonda, dove sarà più difficile distorglierlo dalla guida.
Ma no, qualcosa non va, qualcosa bussa alla sua consapevolezza, trascinandolo verso la veglia. Le cavalle lo spingono verso il risveglio con scene terrificanti. Una gli mostra il carro sul punto di tuffarsi in un muro di fuoco. Un’altra gli proietta l’immagine di massi enormi disseminati lungo la strada; un’altra, una montagna di ghiaccio che blocca la via; un’altra un branco di lupi ringhianti, e l’ultima una fila di guerrieri in armatura allineati spalla a spalla con le lance in resta. Non c’è dubbio. Guai. Guai. Guai. Forse sono giunti al punto morto della strada. Non c’è da stupirsi che l’Invisibile si tenesse nascosto. Leaf si costringe a svegliarsi.
Non c’era un muro di fuoco. Né guerrieri o lupi, nulla di tutto ciò. Solo una palizzata di tronchi appena tagliati ad un centinaio di metri dal carro, tronchi alti due volte Crown, appuntiti ad entrambe le estremità e conficcati in profondità nel terreno uno accanto all’altro, e legati strettamente con viticci tagliati da poco. La palizzata ostruiva la strada completamente, da un lato all’altro; sulla destra era contornata da un groviglio impenetrabile di cespugli spinosi e a sinistra si stendeva fino all’orlo di una ripida scarpata.
Erano bloccati.
Un simile sbocco su di un’autostrada pubblica era inconcepibile. Leaf sbatté le palpebre, tossì, si sfregò la fronte dolorante. I sogni discordanti degli ultimi minuti gli avevano lasciato il cervello ottenebrato, arrugginito. Anche quel muro di legno era una sorta di sogno, un sogno molto spiacevole. Leaf immaginò di udire accanto a sé la fredda risata dell’Invisibile. Almeno, sembrava che la pioggia stesse diminuendo e non c’erano ragni in giro. Piccole consolazioni, in mancanza di meglio.
Confuso, Leaf, si liberò delle redini e rimase in attesa degli eventi. Dopo pochi istanti udì il ritmo scandito che gli annunciava il pesante avvicinarsi di Crown. L’omone si affacciò alla cabina del guidatore.
— Che succede? Perché non ci muoviamo più?
— Strada morta.
— Che cosa stai dicendo?
— Guarda tu stesso — disse stancamente Leaf, indicando il finestrino.
Crown si sporse oltre Leaf per guardare. Per un interminabile momento fissò la scena, reagendo lentamente. — Che cos’è quello? Un muro?
— Un muro, sì.
— Un muro che attraversa un’autostrada? Non ho mai visto niente di simile.
— Forse l’Invisibile di Theptis stava cercando di metterci in guardia contro questo.
— Un muro. Un muro. — Crown tremava, furente e sconcertato. — Questo viola tutte le norme di manutenzione! Per l’Anima, Leaf, un’autostrada pubblica è…
— … sacra ed inviolabile! Sì. Anche quello che i Denti hanno fatto nell’est viola parecchie norme di manutenzione — disse Leaf. — Come pure quelle territoriali. Questi sono tempi inconsueti ovunque. — Si domandò se dovesse accennare all’Invisibile che era a bordo. Un problema alla volta, decise. — Forse è così che questa gente intende tenere lontani i Denti dalla propria terra, Crown.
— Ma bloccare una strada pubblica…
— Eravamo stati avvertiti.
— Chi può fidarsi della parola di un Invisibile?
— C’è il muro — replicò Leaf. — Ora sappiamo perché non abbiamo incontrato nessuno lungo la strada. Probabilmente hanno innalzato questo muro appena hanno saputo dei Denti, tutta la provincia ne era al corrente ed hanno deciso di evitare l’Autostrada del Ragno. Tutti, tranne noi.
— Che popolo abita qui?
— Non ne ho idea. È Sting che dovrebbe saperlo.
— Sì, Sting lo sa — disse la voce chiara ed acuta di Sting dal corridoio. Infilò la testa nella cabina. Dietro di lui Leaf vide Shadow. — Questa è la terra dei Compagni degli Alberi. Li conoscete?
Crown scosse il capo. — E nemmeno io — disse Leaf.
— Abitanti della foresta — disse Sting. — Adoratori degli alberi. Teste piccole, cervelli lenti. Pericolosi in battaglia: usano dardi avvelenati. Ci sono nove tribù in questa regione, sotto un unico capo, credo. Una volta pagavano un tributo al mio popolo, ma suppongo che con i tempi che corrono la cosa sia finita.
— Adorano gli alberi? — chiese Shadow con aria ironica. — E allora quante delle loro divinità hanno tagliato per costruire questa barriera?
Sting rise. — Se devi avere degli dèi, perché non farne buon uso?
Crown fissò il muro che tagliava la strada con la stessa espressione con cui una volta era solito guardare un avversario nell’arena dei duelli. Digrignando i denti, camminò avanti e indietro nella cabina affollata. — Non possiamo perdere altro tempo. Di sicuro i Denti si dirigeranno in questa regione tra pochi giorni. Dobbiamo raggiungere il fiume prima che succeda qualcosa ai ponti.
— Il muro — disse Leaf.
— Ci sono molti cespugli qui intorno — disse Sting. — Potremmo fare un falò e bruciarlo.
— È legna verde — disse Leaf. — Non si può.
— Abbiamo delle accette — fece notare Shadow, — quanto ci metteremmo a tagliare quel legno così spesso?
Sting disse: — Ci vorrebbe una settimana. I Compagni degli Alberi ci riempirebbero di dardi molto prima.
— Hai qualche idea? — chiese Shadow a Leaf.
— Be’, potremmo ritornare verso Theptis e cercare di passare per l’autostrada del Tramonto attraversando il deserto. Da qui al fiume ci sono solo due strade, questa e quella del Tramonto. Però, se decidiamo di tornare indietro, perderemo cinque giorni e potremmo restare invischiati nella confusione che c’è a Theptis; oppure ritrovarci nei guai nel deserto mentre cerchiamo di raggiungere l’autostrada. L’altra possibilità è di abbandonare il carro e cercare di aggirare il muro a piedi, ma dubito molto che Crown vorrà…
— Crown non vorrà — disse questi, che aveva continuato a mordersi le labbra in silenzio. — Ma vedo anche altre possibilità.
— Continua.
— Una è di scovare questi Compagni degli Alberi e obbligarli a sgombrare l’autostrada. Dardi o non dardi, un Lago Scuro ed una Pura Discendenza fianco a fianco dovrebbero riuscire ad incutere timore a venti tribù di ottusi abitanti della foresta.
— E se non ci riuscissimo? — chiese Leaf.
— Questo ci porta all’altra possibilità: e cioè che i Compagni degli Alberi non abbiano costruito questo muro per proteggere il paese dai Denti, ma per creare una stazione di pedaggio, traendo così un vantaggio dalla confusione generale. In questo caso, se non riusciamo a costringerli ad aprire la strada, possiamo scoprire ciò che vogliono, che genere di pedaggio esigono, e pagare, in modo da poter proseguire.
— È proprio Crown che parla? — chiese Sting. — Che parla di pagare un pedaggio a dei subrazziali della foresta? Incredibile!
Crown disse: — Non mi garba il pensiero di dover pagare qualcosa a qualcuno. Ma potrebbe essere il sistema più semplice e rapido per andarcene da qui. Pensi che in me ci sia solo orgoglio, Sting?
Leaf si alzò in piedi. — Se hai ragione, e questa è davvero una stazione di pedaggio, allora dovrebbe esserci un passaggio nel muro. Andrò fuori a vedere.
— No — disse Crown, spingendolo di nuovo sul sedile. — Qui c’è pericolo, Leaf. Questa parte del lavoro tocca a me. — Si avviò verso lo scompartimento centrale e vi rimase alcuni minuti, quando tornò, indossava l’armatura completa: corazza, elmo, maschera, schinieri, tutto lucidato e brillante. La pelle, nei pochi minuti in cui era scoperta, sembrava parte dell’armatura. Crown pareva una macchina. Dai fianchi gli pendeva la mazza, e la corta impugnatura della spada estensibile si adattava perfettamente all’interno del suo polso destro, pronta a distendersi in tutta la sua lunghezza alla minima pressione. Crown lanciò un’occhiata a Sting e disse: — Avrò bisogno delle tue gambe agili. Vieni con me?
— Come vuoi tu.
— Apri il portello mediano, Leaf.
Leaf toccò un pulsante su di un quadro sotto il finestrino centrale. Con un suono soffocato e lamentoso, una porta incernierata si spalancò nel compartimento centrale, scivolando verso l’alto e poi all’esterno, e una scaletta scese fino a terra. Crown si esibì in una uscita ad effetto. Sting, sdegnando la scaletta, saltò giù: era il dono dei Cristalli Bianchi quello di sapersi muovere per brevi tratti in maniera straordinaria.
Sting e Crown si incamminarono guardinghi verso il muro. Leaf, osservandoli dal posto di guida, passò un braccio intorno al corpo di Shadow in piedi accanto a lui, e accarezzò la morbida pelliccia. La pioggia era cessata: una nuvola grigia era ancora sospesa bassa nel cielo e già le gocce di umidità attenuavano la lucentezza dell’armatura di Crown. Lui e Sting erano quasi alla palizzata, e Crown scrutava in continuazione il sottobosco come se si aspettasse di vedere sbucare orde di Compagni degli Alberi. Al suo fianco saltellava Sting, simile ad un’agile e minuscola bestia a due zampe, con la testa che quasi non arrivava ai fianchi di Crown.
Raggiunsero la palizzata. La luce esile del tardo pomeriggio ne tingeva la sommità. Inginocchiandosi, Sting ispezionò la base del muro, saggiando il terreno con le dita, poi disse qualcosa a Crown che annuì e indicò verso l’alto. Sting indietreggiò, prese una breve rincorsa e si sollevò, come se avesse avuto le ali. Il salto lo portò ad innalzarsi al di sopra della sommità dentellata del muro con un rapido volo. Sembrò restare sospeso per un attimo mentre cercava un posto per atterrare. Alla fine raggiunse una posizione precaria e decisamente scomoda, disteso lungo la cima del muro, con il corpo arcuato per evitare le estremità appuntite dei pali, afferrando con le mani due di essi e incuneando i piedi in mezzo ad altri due. Sting mantenne quell’incredibile contorsione per un tempo notevolmente lungo, osservando tutto quello che si trovava al di là della barricata; poi lasciò la presa, saltò con leggerezza e galleggiò verso terra, da una distanza tre volte superiore alla sua altezza. Atterrò in piedi, senza incespicare. Ci fu un breve conciliabolo tra lui e Crown, poi entrambi tornarono verso il carro.
— È proprio un casello per il pedaggio — borbottò Crown. — I pali centrali non sono conficcati nel terreno: si fermano al liello del suolo e formano un cancello su cardini, chiuso all’estremità da due pesanti spranghe.
— Ho visto almeno un centinaio di Compagni degli Alberi dall’altra parte — disse Sting. — Sono armati di cerbottane. Si faranno vivi tra poco.
— Dovremmo armarci — disse Leaf.
Crown scrollò le spalle. — Non possiamo combatterne tanti. Non nella misura di venticinque a uno. Il miglior specialista del mondo nel corpo a corpo è impotente contro il piccolo popolo della foresta armato di dardi avvelenati. Se non riusciamo ad intimorirli al punto da convincerli a lasciarci passare, allora in qualche modo dovremo pagarli. Ma non so. Quel cancello non è abbastanza largo per il carro.
In questo aveva ragione. Si udì lo stridore secco del legno contro il legno (venivano sollevate le spranghe) e poi il cancello si aprì lentamente. Quando fu spalancato del tutto, rivelò un’apertura attraverso la quale sarebbe potuto passare un carro di dimensioni normali, ma non il maestoso veicolo di Crown. Si sarebbero dovuti togliere cinque o sei pali da ogni lato, perché il carro potesse transitare.
I Compagni degli Alberi sciamarono verso il carro, a decine, piccoli, nudi, con membra snelle e una liscia pelle verde-azzurra. Sembravano statuette di argilla animata, a cui fosse stata data una forma in modo casuale: le teste calve erano strette e allungate, la fronte piatta e sporgente, e i lunghi colli sembravano fragili ed inconsistenti. Avevano il torace piatto ed un corpo ossuto. Tutti, sia gli uomini che le donne, portavano cerbottane legate ai fianchi. Mentre danzavano e si dimenavano intorno al carro, intonarono un canto rabbioso, irregolare, privo di melodia e di tono, come le canzoni improvvisate dei bambini alle prese con un gioco frenetico.
— Andremo fuori — disse Crown. — State calmi. Non fate mosse improvvise. Ricordatevi che sono dei subrazziali. Finché penseremo a noi stessi come a degli uomini e a loro come nient’altro che scimmie, e finché si rendono conto che la pensiamo così, riusciremo a tenerli sotto controllo.
— Sono uomini — disse piano Shadow. — Come noi. Non scìmmie.
— Pensa a loro come a delle scimmie — le rispose Crown. — Altrimenti siamo perduti. Venite, ora.
Uscirono dal carro. Prima Crown, poi Leaf, Sting e Shadow. I saltellanti Compagni si fermarono per un attimo, mentre i quattro viaggiatori si avvicinavano: sollevarono lo sguardo, fecero delle smorfie, parlottarono, fecero gesti, capriole e si misero a testa in giù. Non sembravano per nulla intimoriti. Una Pura Discendenza non significava nulla, per loro? Non avevano paura di un Lago Scuro? Con sguardo minaccioso, Crown chiese a Sting: — Sai parlare la loro lingua?
— Poche parole.
— Parlagli. Chiedigli di mandare da me il loro capo.
Sting si portò davanti a Crown, mise le mani a coppa davanti alla bocca e gridò qualcosa in tono acuto e penetrante in una lingua cantilenante. Parlava con esagerata chiarezza, come se stesse rivolgendosi ad un cieco o ad uno straniero. I Compagni degli Alberi ridacchiarono e si scambiarono piccole grida esultanti. Poi uno di loro avanzò danzando, avvicinò il viso ad un palmo da quello di Sting e ne ripeté le parole, rifacendogli il verso con comica puntigliosità. Sting sembrò spaventato e indietreggiò di un passo, andando a sbattere contro il petto di Crown. Il Compagno si lanciò in un fiume di parole e, quando tacque, Sting ripeté la sua prima frase in tono più sommesso.
— Che cosa sta succedendo? — chiese Crown. — Riesci a capire qualcosa?
— Poco. Molto poco.
— Chiameranno il capo?
— Non ne sono sicuro. Non so se lui e io stiamo parlando della stessa cosa.
— Hai detto che questa gente paga un tributo ai Cristalli.
— Pagava — corresse Sting. — Non so se questa sottomissione esiste ancora. Credo che si stiano divertendo a nostre spese. Penso che quello che mi ha detto fosse un insulto, ma non ne sono sicuro. Non ne sono affatto sicuro.
— Scimmie puzzolenti!
— Attento, Crown — mormorò Shadow, — noi non sappiamo parlare la loro lingua, ma può darsi che loro capiscano la nostra.
Crown disse: — Prova ancora. Parla più lentamente, fai che quella scimmia parli più adagio. Il capo, Sting, vogliamo vedere il capo. Non c’è un modo per comunicare?
— Potrei entrare in trance — disse Sting, — e Shadow potrebbe aiutarmi per i significati. Ma ho bisogno di tempo per riprendermi. Adesso mi sento troppo teso, agitato. — E come per illustrare quello che intendeva, si esibì in un salto, uno scatto e una giravolta, che lo portarono verso sinistra di qualche passo, poi ancora un salto, uno scatto e una giravolta e fu di nuovo dove era prima. I Compagni risero deliziati, gli afferrarono le mani e cercarono di imitare il suo salto. Altri della tribù si fecero avanti: adesso ce n’erano dieci o dodici affollati intorno all’entrata del carro. Sting saltò ancora: era come una contrazione, un tic. Cominciò a tremare. Shadow si sporse verso di lui e gli passò le braccia snelle intorno al corpo, come per ancorarlo. I Compagni degli Alberi si fecero più agitati; la loro giocosità divenne più tesa, più dura. I guai sembravano imminenti. Leaf, in piedi al fianco di Crown, sentì contrarsi i muscoli alla bocca dello stomaco. Qualcosa attirò la sua attenzione sulla destra, in mezzo alla folla dei Compagni; guardò in quella direzione e vide una luminosità azzurra, eretta ed allungata, una striscia di nebbia e di foschia alta come un uomo, che si spostava ondeggiando tra il popolo della foresta. Era l’Invisibile? O forse solo lo scherzo della morente luce del giorno che scivolava tra i vapori lasciati dal temporale? Cercò di metterla a fuoco, ma la figura eludeva il suo sguardo, sparendo alla vista quando lui la seguiva con gli occhi. All’improvviso udì Crown emettere un ruggito e si voltò in tempo per vedere un Compagno che sgattaiolava sotto il gomito del gigante e schizzava all’interno del carro. — Fermo! — ruggì Crown. — Torna indietro! — E come se fosse stato dato un segnale, sette o otto piccole creature si intrufolarono a bordo.
Negli occhi di Crown c’era la morte. Chiamò Leaf con un gesto selvaggio e si lanciò all’interno. Leaf lo seguì. Sting, scosso dai singhiozzi, era fermo in mezzo al portello e non cercava di fermare i Compagni degli Alberi che sciamavano nel carro. Leaf li vide arrampicarsi su ogni cosa, esaminando, scrutando, commentando. Scimmie, sì. In fondo al corridoio, Crown stava lottando con quattro di loro, tenendone uno con ciascuna delle mani enormi e cercando di scrollarsi di dosso gli altri due che gli si erano arrampicati sulle gambe chiuse negli schinieri. Leaf si trovò di fronte una donna in miniatura, una specie di gnomo dagli occhi brillanti, il cui corpo nudo e magro luccicava di sudore acido, e quando lui fece per afferrarla, lei estrasse dal fodero non la cerbottana ma una lama lunga e stretta, e lo colpì ferocemente alla parte interna dell’avambraccio. Ci fu un improvviso e pauroso fiotto di sangue, e solo dopo qualche istante avvertì l’acuta fitta di dolore. Un coltello avvelenato? Bene, allora sarai con il Tutto-che-è-Uno, Leaf. Ma se c’era del veleno, lui non ne avvertiva l’effetto; le strappò il coltello, lo sbatté contro la parete, afferrò la donna e la gettò fuori dal portello del carro. I Compagni avevano smesso di entrare. Leaf ne scovò altri due e li buttò fuori; ne strappò via un altro dalle travi del tetto e lo scaraventò dietro i primi due. Poi andò a cercarne altri. Shadow era in piedi in mezzo al portello e bloccava l’entrata con le fragili braccia aperte. Dov’era Crown? Ah, là. Nella stanza dei trofei. — Afferrali e buttali fuori dal portello. Ci siamo liberati di quasi tutti — urlò Leaf.
— Le scimmie puzzolenti — gridò Crown. Fece un gesto infuriato. I Compagni degli Alberi avevano preso uno dei tesori di Crown, un’antica cotta di maglia, e nella loro infantile esuberanza avevano tirato le fragili maglie, strappandole. Furioso, Crown si avventò contro di loro, afferrò quei crani affusolati, uno per mano… — No! — urlò Leaf, temendo il lancio dei dardi per vendetta… e li schiacciò, rompendoli come noci. Buttò i corpi di lato e sollevando il trofeo strappato cercò tristemente di riagganciare le maglie, in un goffo tentativo di riparare la cotta.
— Hai combinato il guaio! — disse Leaf. — Erano solo curiosi. Adesso ci sarà la guerra, e prima di sera saremo morti.
— Mai — grugnì Crown.
Lasciò cadere la cotta, raccolse i Compagni morti e li trascinò attraverso il carro, e li scaraventò come rifiuti in mezzo alla radura. Poi rimase in piedi nel vano del portello, sfidando i loro dardi. Cinque o sei Compagni che erano ancora a bordo del carro sbucarono silenziosi, a mani vuote, e scivolarono fuori girando intorno al corpo massiccio del Lago Scuro. Leaf andò ad unirsi a Crown. Il sangue continuava a uscire dalla ferita: non osava accelerare la coagulazione o permettere al taglio di cicatrizzarsi finché non si fosse purgato del veleno che poteva essere stato sulla lama. Uno squarcio dritto, sottile, profondo e doloroso gli correva dal gomito al polso. Shadow lanciò un piccolo grido soffocato e gli afferrò la mano. Il suo respiro era caldo contro i lembi del taglio. — Sei ferito gravemente? — sussurrò.
— Non credo. Si tratta solo di vedere se il coltello era avvelenato.
— Avvelenano solo i dardi — disse Sting. — Ma dovrai fare i conti con l’infezione. È meglio che Shadow si occupi di te.
— Sì — disse Leaf. Lanciò un’occhiata nella radura. I Compagni degli Alberi, come stupiti dalla violenza suscitata dalla loro breve invasione del carro, restavano impietriti in gruppi di nove o dieci lungo la strada, mantenendosi a distanza. I due che erano stati uccisi giacevano scompostamente dove li aveva gettati Crown. L’inconfondibile figura dell’Invisibile, trasparente ma delineata in modo netto da un contorno scuro, era apparsa sulla destra, vicino al limitare del boschetto; gli occhi brillavano, le labbra erano piegate in uno strano sorriso. Crown lo stava fissando attonito, a bocca aperta. Ogni cosa sembrava sospesa, come se stesse fluttuando immobile nella bolla del tempo. Per Leaf la scena era un quadro soprannaturale, in cui l’unica sensazione dello scorrere del tempo era data dal pulsare doloroso del braccio ferito. Lui era sospeso, ancorato al centro; in attesa, in attesa, incapace di muoversi, intrappolato come gli altri in quello stallo temporale. Durante quella lunga pausa si accorse che nel corso dello scontro era comparsa un’altra figura, che ora si ergeva calma ad una decina di passi alla sinistra dell’Invisibile sogghignante: un Compagno degli Alberi più alto degli altri, rivestito di ninnoli e fronzoli, ma indubbiamente un essere imponente e maestoso.
— Il capo è arrivato — disse Leaf con voce roca.
La stasi fu interrotta. Leaf respirò e rilassò il corpo teso. Shadow lo sfiorò dicendogli: — Lascia che ti pulisca la ferita. — Il capo dei Compagni fece ampi cenni puntando tre dita in direzione del carro, e gridò cinque sillabe giubilanti e acute. Lentamente e maestosamente, si incamminò verso il carro. Nello stesso istante, l’Invisibile brillò con più intensità, come un sole sul punto di morire, e scomparve del tutto alla vista. Crown si rivolse a Leaf: — Qui stiamo impazzendo tutti. Mi è appena sembrato di vedere uno degli Invisibili di Theptis che si rintanava nel sottobosco.
— Non era la tua immaginazione — gli disse Leaf. — Ha viaggiato in segreto con noi fin da Theptis, aspettando di vedere cosa ci sarebbe successo una volta arrivati al muro dei Compagni.
Questo sembrò scuotere Crown. — Quando l’hai scoperto? — domandò.
Shadow disse: — Lascialo stare, Crown. Vai a parlamentare con il capo. Se non pulisco subito la ferita di Leaf…
— Solo un attimo. Devo sapere la verità. Leaf, quando hai saputo di questo Invisibile?
— Quando sono andato nella cabina a dare il cambio a Sting. Lui era lì. Rideva di me, mi canzonava. Come fanno loro.
— E tu non me l’hai detto. Perché?
— Non ne ho avuto l’occasione. Mi ha seccato per un po’, poi è svanito, e dopo ero troppo occupato a guidare; e poi siamo arrivati al muro, sono arrivati i Compagni degli Alberi…
— Che cosa vuole da noi? — chiese Crown in tono duro, avvicinando il viso a quello di Leaf.
Leaf cominciava a sentire la febbre che saliva. Barcollò e si appoggiò a Shadow. Il piccolo e resistente corpo della donna lo sorresse con forza sorprendente. Lui disse con voce stanca: — Non lo so. Chi può sapere che cosa vogliono? — Nel frattempo, il capo dei Compagni era giunto accanto a loro, molto sicuro di sé, e batté con forza più volte il palmo della mano sulla fiancata del carro, come se stesse per prenderne possesso. Crown girò su se stesso. Il capo parlò freddamente, con voce piana e priva di inflessioni. Crown scosse la testa. — Che cosa sta dicendo? — abbaiò. — Sting? Sting?
— Vieni, ora — disse Shadow a Leaf. — Ti prego.
Lo condusse nello scompartimento passeggeri. Lui si sdraiò sulle pellicce mentre lei cercava nella sua cassetta di unguenti e pomate; poi tornò da lui con una lunga fiala verde tra le mani e disse: — Ora sentirai dolore.
— Aspetta.
Si concentrò e, per quanto gli fu possibile, escluse la rete sensoriale che portava gli impulsi di dolore dal braccio al cervello. Subito sentì la pelle diventare fredda e per la prima volta dal momento dello scontro, si rese conto di quanto dolore avesse provato: al punto tale da impedirgli di provvedere in qualche modo.
Con distacco, osservò Shadow che con molta efficienza e senza la minima repulsione sondava il profondo taglio, separando i bordi della ferita e pulendo l’interno. Lui provava solo un debole formicolio, fastidioso ma non doloroso. Alla fine lei sollevò il capo e disse: — Non farà infezione. Adesso puoi lasciare che la ferita si rimargini. — A questo scopo, Leaf doveva ristabilire in una certa misura le connessioni neurali, e quando sbloccò il flusso di impulsi, provò un dolore improvviso, sia per il taglio che per la medicazione di Shadow; attivò subito la coagulazione, e pochi istanti dopo era immerso nelle discipline che avrebbero permesso alla ferita di rimarginarsi. Il taglio cominciò a richiudersi. Delicatamente, Shadow ripulì il braccio dalle tracce di sangue e poi preparò un impiastro; quando glielo applicò, lo squarcio si era ridotto ad una sottile linea infiammata. — Vivrai — gli disse. — È una fortuna per te che non usino avvelenare i coltelli. — Lui le baciò la punta del naso e insieme tornarono al portello.
Sting e il capo dei Compagni degli Alberi stavano conducendo una specie di conversazione a gesti: ampi e ondulati quelli di Sting, semplici e brevi movimenti delle dita quelli del capo, mentre Crown era in piedi lì accanto, come un’impassibile colonna scura, a braccia conserte. Quando vide comparire Leaf e Shadow, disse: — Sting non conclude nulla. Dobbiamo parlamentare in trance o non riusciremo a comunicare. Aiutalo, Shadow.
Lei annuì. Crown si rivolse a Leaf: — Come va il braccio?
— Guarirà.
— Quanto ci vorrà?
— Un giorno, forse due. Resterà indolenzito per una settimana.
— Potremmo essere costretti a combattere di nuovo all’alba.
— Hai detto tu stesso che non avremmo possibilità di sopravvivere ad una battaglia con questa gente.
— Anche così — disse Crown — dovremo forse combattere all’alba. Se non c’è altra scelta, combatteremo.
— E moriremo?
— E moriremo — disse Crown.
Leaf si allontanò lentamente. Era sceso il crepuscolo. Le ultime tracce di pioggia erano scomparse, l’aria era limpida e frizzante, e la temperatura stava calando, con un leggero vento da nord che andava rinforzando. Oltre il boschetto, le cime degli alti alberi filamentosi sferzavano l’aria. Erano comparsi i frammenti della luna, grezze lame di bianca lucentezza che danzavano lente nel cielo che oscurava. La povera luna frantumata, ricordo di un’era tramontata da lungo tempo: sembrava uno specchio incrinato del tormentato pianeta a cui apparteneva, di quella frantumata razza a sua volta composta di molte razze che era il genere umano. Leaf andò dagli incubi che attendevano pazienti e passò in mezzo a loro, accarezzando dolcemente le orecchie arruffate e i nasi lisci. Quegli occhi liquidi, intelligenti e scrutatori fissavano i suoi con aria di rimprovero. Ci avevi promesso una stalla, sembravano dire, stalloni, calore e fieno fresco. Leaf scosse le spalle. In questo mondo, disse loro senza parole, non sempre è possibile mantenere le promesse. Si fa del proprio meglio, sperando che possa bastare.
Sting si è seduto vicino al carro incrociando le gambe sulla terra bagnata. Shadow si accoccola accanto a lui; il capo, ammantato di dignità, si erge rigido di fronte a loro, ma Shadow, con gesti gentili, lo invita a sedersi. Gli occhi di Sting sono chiusi e la testa gli ciondola in avanti. È già in trance. La sua mano sinistra afferra la coscia muscolosa di Shadow: distende la destra, con il palmo in alto, e dopo un attimo il capo vi appoggia il suo. Contatto: il circuito è chiuso.
Leaf non ha idea di quali messaggi i tre si stiano scambiando, eppure, stranamente, non si sente escluso. Un tale senso di amore e di calore emana da Sting, Shadow e anche dal Compagno, che lui viene trascinato nella loro comunione, e ne rimane avviluppato. E anche Crown viene assorbito ed avvolto dall’aura del gruppo; la sua posa rigida e marziale si rilassa, il viso arcigno sembra stranamente sereno. Naturalmente sono Sting e Shadow quelli in contatto più stretto; ora Shadow è più vicina a Sting di quanto lo sia mai stata a Leaf, ma lui non ne è turbato. La gelosia e la rivalità sono inconcepibili, ora. Lui è Sting, Sting è Leaf, tutti loro sono Shadow e Crown, non ci sono barriere a separarli l’uno dall’altro, proprio come non ci saranno barriere nel Tutto-che-è-Uno che attende ogni creatura vivente: Sting, Crown, Shadow, Leaf, i Compagni degli Alberi, gli Invisibili, gli incubi, i ragni senza gambe.
Ora stanno arrivando al nocciolo. Leaf è conscio dei conflitti e delle opposizioni che vengono alla luce in quell’intricato negoziato. Benché continui a non sapere che cosa si stiano dicendo, tuttavia capisce che il capo dei Compagni avanza precise richieste, ed è irremovibile, calmo e duro, mentre Sting e Shadow gli stanno spiegando che Crown non sarà disposto a cedere. Leaf non riesce a percepire altro, anche quando è immerso più profondamente nella consapevolezza allargata dei tre sprofondati nella trance. Né si rende conto di quanto tempo sia trascorso. Quello scambio sinfonico — richiesta, risposta, sviluppo, culmine — si ripete, indefinitamente, senza giungere ad una conclusione.
Alla fine sente che la comunione si attenua, diminuisce. Comincia a muoversi al di fuori del campo di contatto, o fa’ sì che esso si allontani da lui. Trame sottili di sensibilità continuano a legarlo agli altri anche quando Sting, Shadow e il capo si separano e si alzano, ma in pochi istanti anche queste si attenuano, diventano fragili e si spezzano.
Il contatto finisce.
L’incontro era terminato, Durante la trance era scesa la notte, una notte straordinariamente buia, sul cui sfondo le stelle sembravano avere una luminosità innaturale. I frammenti della luna si erano spostati di molto nel cielo. Quindi era stato uno scambio lungo; eppure, nelle immediate vicinanze del carro, nulla sembrava mutato; Crown si ergeva simile ad una statua accanto all’ingresso; i Compagni degli Alberi erano ancora fermi nello spiazzo tra il carro e il cancello. Ancora una volta una sorta di quadro; com’è facile scivolare nell’immobilità, pensò Leaf, in quest’epoca miserabile. Stare in piedi e aspettare, stare in piedi e aspettare; ma poi il movimento ritornò. Il Compagno fece dietro front e se ne andò senza pronunciare parola, facendo segno alla sua gente che raccolse i morti e lo seguì attraverso il cancello. Lo sprangarono dall’interno; ci fu il suono stridulo dei catenacci che si richiudevano. Sting, intontito, mormorò qualcosa a Shadow che annuì toccandogli leggermente il braccio. Tornarono esitanti verso il carro.
— Allora? — chiese Crown.
— Ci permettono di passare — disse Sting.
— Come sono cortesi!
— … ma reclamano il carro e tutto quello che contiene.
Crown sussultò. — Con che diritto?
— Diritto di profezia — disse Shadow. — C’è fra di loro una veggente, una vecchia mezzosangue, parte Cristallo Bianco, parte Compagno degli Alberi e parte Invisibile. Lei ha rivelato che tutto ciò che è successo nel mondo negli ultimi tempi è stato causato dall’Anima allo scopo di arricchire i Compagni degli Alberi.
— Tutto? Considerano i massacri dei Denti un segno del favore divino?
— Tutto — disse Sting. — L’intero sconvolgimento. Tutto in loro favore. Tutto predeterminato, in modo che iniziassero le migrazioni e i profughi venissero da questa parte portando con sé le cose di valore, da cedere poi a coloro che secondo il valore dell’Anima avrebbero dovuto possederle, cioè i Compagni degli Alberi.
Crown scoppiò in una risata roca. — Se vogliono dedicarsi al brigantaggio, perché non farlo come si deve, chiamandolo per nome, senza attribuire all’Anima la loro cupidigia?
— Loro non si sentono dei briganti — disse Shadow. — Non si può equivocare sulla sincerità del capo. Lui e la sua gente credono sinceramente che l’Anima abbia decretato tutto ciò a loro beneficio, che sia giunto il tempo…
— Sincerità!
— … che i Compagni degli Alberi diventino un popolo ricco e prospero. Quindi hanno costruito questo muro attraverso l’autostrada e quando i profughi vengono ad ovest, essi li privano dei loro averi con la benedizione dell’Anima.
— Mi piacerebbe conoscere la loro profetessa — mormorò Crown.
— Credevo che gli Invisibili non potessero incrociarsi con altre razze — disse Leaf.
Scrollando le spalle, Sting rispose: — Riferiamo solo quello che abbiamo appreso mentre eravamo seduti a sognare con il capo. Lui ha detto che la strega è in parte Invisibile. Forse sbagliava, ma non stava mentendo. Di questo sono certo.
— Anch’io — interloquì Shadow.
— Che cosa succede a quelli che rifiutano di pagare il tributo? — chiese Crown.
— I Compagni li considerano degli oppositori al volere dell’Anima — disse Sting, — per cui li catturano e li mettono a morte. E si impossessano dei loro beni.
Crown passeggiava irrequieto davanti al carro, sollevando a calci spruzzi di terra dalla dura pavimentazione della strada. Dopo un momento disse: — Si dondolano sulle liane. Schiamazzano come stupide scimmie. Che cosa se ne fanno della mercanzia dei popoli civili? Le nostre pellicce, le nostre statue, gli intagli, gli abiti, i flauti?
— Ai loro occhi, possedere quelle cose li rende uguali alle razze più elevate — disse Sting. — Non le cose in se stesse, ma il possederle, capisci, Crown?
— Non avranno nulla di mio!
— Allora cosa facciamo? — chiese Leaf. — Restiamo qui seduti ad aspettare i loro dardi?
Crown posò con forza una mano sulla spalla di Sting. — Ci hanno dato qualche limite di tempo? Quanto abbiamo prima che ci attacchino?
— Non c’è stato niente che assomigliasse ad un ultimatum. Il capo non sembra voler entrare in guerra con noi.
— Perché ha paura di chi è superiore!
— Perché pensa che la violenza sminuisca il valore dell’Anima — replicò Sting in tono piatto. — Quindi intende aspettare finché non cederemo le nostre cose spontaneamente.
— Può aspettare cent’anni!
— Aspetterà qualche giorno — disse Shadow. — Se non cederemo, attaccheranno. Ma che farai, Crown? Supponiamo che loro siano disposti ad aspettare cent’anni. Tu lo saresti? Non possiamo restare accampati qui per sempre.
— Stai suggerendomi di dargli quello che chiedono?
— Voglio solo sapere quale strategia hai in mente — disse lei. — Tu stesso hai ammesso che non possiamo sconfiggerli in una battaglia. Direi proprio che non siamo riusciti ad ispirargli tanto timore da costringerli a sottomettersi. Riconosci che qualunque tentativo da parte nostra di abbattere il muro attirerebbe le loro frecce. Ti rifiuti di tornare indietro e di cercare un’altra strada verso ovest. Scarti la possibilità di cedere. Molto bene, Crown, che cos’hai in mente?
— Aspetteremo qualche giorno — disse Crown testardo.
— I Denti stanno avanzando in questa direzione — gridò Sting. — Dobbiamo restare qui ad aspettare che ci prendano?
Crown scosse il capo. — Sting, molto prima che i Denti arrivino qui, questo posto sarà pieno di profughi, molti dei quali saranno riluttanti come noi a cedere a questa gente quello che possiedono. Sento che sono già per strada, diretti qui, a due giorni di marcia da noi, forse anche meno. Ci uniremo a loro. In quattro possiamo anche essere impotenti contro un’orda di sporche scimmie, ma cinquanta o cento forti combattenti li costringeranno ad arrampicarsi di corsa sui loro alberi.
— Da questa parte non verrà nessuno — disse Leaf. — Nessuno tranne gli svitati. Tutti quelli che passano da Theptis sanno quello che è stato fatto su questa autostrada. A che ci serve l’aiuto di qualche svitato?
— Noi siamo venuti da questa parte — scattò Crown. — Siamo tanto stupidi?
— Forse lo siamo. Ci avevano avvertiti di non prendere l’Autostrada del Ragno, ma noi l’abbiamo fatto ugualmente.
— Perché non abbiamo voluto fidarci delle parole degli Invisibili.
— Be’, per caso l’Invisibile diceva la verità, questa volta — disse Leaf. — E la notizia deve essere ormai risaputa in tutta Theptis. E ora nessuno con un po’ di buon senso verrà da questa parte.
— Vedo gente già in marcia in questa direzione, a centinaia — disse Crown. — Qualche volta sono in grado di sentire queste cose. E tu, Sting? Tu riesci a vedere le cose in anticipo, vero? Stanno arrivando, non è così? Non temere, Leaf, fra un giorno o due avremo degli alleati e allora guai a questi ladruncoli di Compagni. — Crown fece un ampio gesto. — Leaf, fai pascolare le giumenta. E poi tutti nel carro. Ci chiuderemo dentro e faremo dei turni di guardia per la notte. Questo è il momento del coraggio e della vigilanza.
— Questo è il momento di scavare delle tombe — mormorò acido Sting mentre si arrampicavano nel carro.
Crown e Shadow fecero il primo turno di guardia, mentre Sting e Leaf sonnecchiavano nel retro. Leaf si addormentò immediatamente e sognò di vivere in qualche immensa e brutale città dell’est (gli edifici e la topografia erano sconosciuti, ma l’architettura era decisamente di stile orientale, grigia e massiccia, piena di parapetti e cornicioni), che veniva attaccata dai Denti.
Lui osservava ogni cosa da una vetrata in cima ad un’enorme torre quadrata di mattoni, che sembrava sopravvissuta a qualche remota epoca preistorica. Al principio venne dal nord l’eco della canzone di guerra degli invasori, un orrendo ed insopportabile ronzio, intenso e penetrante, come il rumore di spazzole ad alta velocità che lucidano una piastra di metallo. Quella musica tremenda fece uscire nelle strade gli abitanti della città, appartenenti a tutte le razze, Donatori di Fiori e Plasmatori di Sabbia, Cristalli Bianchi e Stelle Danzanti e anche Compagni degli Alberi, assurdamente rivestiti degli abiti dei mercanti, come se fossero tanti grossi Arti di città; ma nessuno poté scappare, perché erano in troppi, e si scontravano, si spintonavano, inciampavano e cadevano l’uno sull’altro, impotenti, in mucchi disordinati, bloccando ogni strada e ogni vicolo.
Poi in quel caos irruppe l’avanguardia dei Denti; strisciavano in avanti con quella loro caratteristica posizione accosciata, calpestando quelli che erano caduti. Avevano l’aspetto di mezze bestie e mezzi demoni, creature accovacciate, muscolose, con il muso allungato, nude e pelose, con la pelle color sabbia e gli occhi che brillavano di una fame insaziabile. La mente sognante di Leaf lì distorse e li ingigantì, rendendoli simili ad una banda di enormi rane dai lunghi denti, che entravano a balzi nella città, con i piedi nudi che battevano l’asfalto con vibrazioni sinistre, le braccia corte e poderose che dondolavano in modo quasi comico ad ogni balzo. La parentela con il genere umano non significava nulla per quelle creature carnivore. Troppo a lungo erano rimaste confinate in quel territorio montagnoso a nord est, freddo e sterile, vivendo di quel poco che ricavavano dagli animali della foresta, e gli altri esseri umani erano per loro semplicemente carne che l’Anima aveva ammassato in previsione di questo giorno di vendetta. Ed ora, con efficienza cominciarono il loro rastrellamento nella città appena conquistata, afferrando tutti quelli che trovavano, ammassando i prigionieri storditi in recinti allestiti in gran fretta: questi li mangiamo questa notte alla festa della vittoria; questi li teniamo per il pranzo di domani; questi diverranno carne essiccata che porteremo con noi nella nostra avanzata; questi li uccidiamo per divertirci; questi li teniamo come schiavi. Leaf osservò i Denti costruire enormi spiedi per arrostire le vittime, attizzando fuochi mostruosi. Diligenti squadre di ricerca si sparpagliarono per i sobborghi. Nessuno sarebbe sfuggito. Leaf si agitò e si lamentò, fu sul punto si svegliarsi, ripiombò nel sonno. L’avrebbero trovato in quella torre? Un fumo greve e grigio si innalzò in almeno cento punti della città. Le fiamme lambivano il cielo. Rivoli di sangue scorrevano per le strade. Lui stava soffocando. Un sogno terribile. Ma era poi solo un sogno? Questo era ciò che in realtà era capitato nella Città Santa qualche ora dopo che lui, Sting, Crown e Shadow erano riusciti a fuggire, e senza dubbio questo era quello che era avvenuto in ognuna delle città della tormentata costa orientale, e molto probabilmente era quello che stava accadendo ora… dove? a Bone Harbor? Veduru? Alsandar? Sentiva l’odore penetrante della carne che arrostiva, sentiva il rumore saltellante di una pattuglia di Denti che saliva le scale della sua torre. L’avevano preso. Sì, qui, ora, una dozzina di Denti sbucavano all’improvviso nel suo nascondiglio, con una larga smorfia sorridente sul viso… una Pura Discendenza! Avevano catturato una Pura Discendenza! Che colpo! Bestie. Bestie che lo pungolavano, gli tastavano la carne. Non abbastanza grasso per loro, eh? Questo è piuttosto magro. Ma lo cuoceremo lo stesso. La carne di una Pura Discendenza ti allarga lo spirito, ti trasforma in qualcosa di più di quello che eri. Portatelo di sotto. Allo spiedo, allo spiedo, allo…
— Leaf?
— Vi avverto… non vi piacerà… il sapore…
— Leaf, svegliati!
— I fuochi… oh, il puzzo!
— Leaf!
Era Shadow. Lo scosse gentilmente per le spalle. Lui sbatté le palpebre e lentamente si sollevò a sedere. Il braccio ferito aveva ricominciato a pulsare; si sentiva la febbre. Effetti del sogno. Un sogno, solo un sogno. Rabbrividì e cercò di concentrarsi, bandendo la febbre, allontanando i brandelli dell’oscura fantasia che ancora gli ottenebravano la mente.
— Stai bene? — domandò lei.
— Stavo sognando i Denti — le disse. Scosse la testa, cercando di schiarirsela. — Devo montare di guardia, ora?
Lei fece cenno di sì. — Davanti, nella cabina di guida.
— È successo qualcosa?
— Niente, assolutamente niente. — Lei allungò le mani e gli passò le dita sulle guance. Il suo sguardo era caldo, acceso, il sorriso amoroso. — I Denti sono molto lontani, Leaf.
— Da noi forse. Ma non da altri.
— È stata la volontà dell’Anima a mandarli.
— Lo so, lo so. — Quante volte lui aveva predicato l’accettazione! Questo è il volere e noi pieghiamo il capo. Questa è la strada e noi la percorriamo senza lamentarci. Eppure, eppure… tremò. Le sensazioni del sogno persistevano. Lui era completamente disorientato. I Denti del sogno gli mordicchiavano la carne. Le profondità del suo spirito risuonavano delle urla degli uomini sugli spiedi, dei suoni della lacerazione, sentivano l’insopportabile odore del fumo acre della città in fiamme. In dieci giorni, metà del mondo era stata fatta a pezzi. Tanto dolore, tanta morte, tanta bellezza distrutta da selvaggi implacabili che non si sarebbero fermati finché, solo l’Anima sapeva quando, non avessero completato la loro vendetta. Il volere dell’Anima li manda contro di noi. Accettalo, accettalo. Non riusciva più a trovare il centro. Shadow lo stringeva, sforzandosi di circondargli completamente il corpo con le braccia. Dopo un momento cominciò a sentirsi meno turbato, ma il suo essere restava dilaniato, presente solo in parte; come se dei chiodi tenessero una parte della sua mente fissata a quella mostruosa landa deserta e ricoperta di ceneri, che era tutto ciò che restava delle fertili e belle province orientali dopo il passaggio dei Denti.
Lei lo lasciò andare. — Vai — gli bisbigliò. — Là davanti è tutto tranquillo. Riuscirai a ritrovare te stesso.
Prese il suo posto nella cabina di guida, oltrepassando in silenzio Sting che aveva rimpiazzato Crown nello scompartimento centrale. Metà della notte era trascorsa. Nello spiazzo tutto era tranquillo; il grande cancello di legno era sprangato e in giro non c’era nessuno. Alla fredda luce delle stelle Leaf vide gli incubi che brucavano pazienti al limitare del boschetto. Cavalli docili, quasi umani. Se devo ricevere la visita degli incubi, fa’ che siano della loro razza, pensò.
Shadow aveva avuto ragione. Nella quiete si calmò e gli ritornò la prospettiva delle cose. I lamenti non avrebbero ricostruito le terre orientali distrutte, le espressioni di orrore e di dolore non avrebbero trasformato i Denti in pii agricoltori. L’Anima aveva decretato il caos: così sia! Questa è la strada che dobbiamo percorrere, e chi osa chiedere il perché? Una volta il mondo era stato un tutt’uno, ora era frammentato e le cose erano così perché così dovevano essere. Si sentì meno teso. L’angoscia lo abbandonò. Fu di nuovo Leaf.
Verso l’alba il mondo perse i crudi contorni creati dalla luce delle stelle; una nebbiolina leggera avvolse il carro e per un po’ cadde la pioggia, una pioggia leggera, pura, completamente diversa dal maligno temporale del giorno prima. Nella luce misteriosa che precede il sorgere del sole, il mondo assunse una delicata nebbiosità perlacea e in questa foschia si materializzò un’apparizione. Leaf vide una figura ondeggiare attraverso il cancello chiuso — attraverso di esso — una figura spettrale, incorporea. Pensò che fosse l’Invisibile, nascosto nel carro fin da Theptis, eppure no, questa era una donna, vecchia e fragile, una donna in miniatura, persino più piccola di Shadow, più esile. Leaf sapeva di chi doveva trattarsi: la donna di sangue misto. La profetessa, la veggente, colei che aveva incitato i Compagni degli Alberi a bloccare l’autostrada. La sua pelle aveva la consistenza cerea ed i noduli di peli scuri ed ispidi dei Cristalli Bianchi; la forma del corpo era essenzialmente quella dei Compagni degli Alberi, magra e con le braccia lunghe; e dai suoi antenati Invisibili aveva ereditato quella strana intangibilità, quell’apparenza di vivere sempre al confine tra l’allucinazione e la realtà, tra la carne e la bruma. I mezzosangue erano poco comuni; Leaf ne aveva visti pochissimi e non ne aveva mai incontrato uno che riunisse in sé tante razze differenti. Si diceva che la gente di sangue misto avesse strani poteri. Era certo il caso di questa donna. Come aveva fatto a superare il muro? Neppure gli Invisibili potevano passare attraverso il solido legno. Allora forse questo era solo un sogno, o magari lei conosceva il modo di proiettare un’immagine di se stessa nella sua mente, restando all’interno del villaggio dei Compagni degli Alberi. Lui non capiva.
La osservò a lungo. Sembrava proprio reale. Si fermò a venti passi dal carro e scrutò lentamente tutto l’orizzonte e alla fine gli occhi si posarono sul finestrino della cabina di guida. Di certo lei era conscia del fatto di essere osservata e ricambiò lo sguardo, i suoi occhi fissi in quelli di Leaf, senza battere ciglio. Rimasero avvinti così per qualche minuto. L’espressione di lei era cupa e opaca, un cipiglio avvizzito che all’improvviso si rischiarò, e lei gli rivolse un sorriso intenso, ed era un sorriso così penetrante, che Leaf fu preso dal terrore e distolse lo sguardo, sconfitto e umiliato.
Quando sollevò la testa lei era scomparsa: lui si lanciò verso il finestrino, piegò il collo e la vide vicino alla parte centrale del carro. Stava ispezionando da vicino il lavoro degli artigiani, curiosando e toccando il rivestimento esterno. Poi si allontanò e si diresse nel luogo in cui Sting, Shadow e il capo avevano parlamentato e si sedette lì a gambe incrociate. Rimase perfettamente immobile, come se fosse addormentata o in trance. Proprio quando Leaf cominciò a pensare che non si sarebbe mossa mai più, lei estrasse da un sacchetto legato in vita una pipa d’osso intagliato, la riempì con una polvere bluastra e la accese. Lui le osservò il viso, in cerca di segni rivelatori, ma essa non mostrava nulla: divenne ancor più impassibile ed imperscrutabile. Quando la pipa si spense, lei la riempì di nuovo e fumò una seconda volta, e Leaf continuò a guardarla con il viso premuto goffamente contro il vetro ed il corpo tutto indolenzito. Ora spuntavano i primi raggi di sole, di un rosa che divenne rapidamente dorato. Con l’aumentare della luminosità, la strega divenne sempre meno solida; stava sbiadendo attimo dopo attimo e dopo un poco lui vide solo la pipa e il fazzoletto, e poi lo spiazzo rimase vuoto. Le lunghe ombre dei sei incubi si infrangevano contro la palizzata di legno. La testa di Leaf ciondolò. Mi sono appisolato, pensò. È mattina e tutto va bene. Andò a svegliare Crown.
Fecero una leggera colazione. Leaf e Shadow portarono i cavalli ad abbeverarsi ad un piccolo ruscello a cinque minuti di cammino in direzione di Theptis. Nel boschetto, Sting fece incetta di bacche e noci, e dopo averne riempiti due sacchi andò a riposare sulle pellicce. Crown andò a rintanarsi nella stanza dei trofei e non parlò con nessuno. Sulla collina appena dietro il muro, si vedevano dei Compagni appollaiati sui rami degli alti alberi dalle foglie rosse, intenti a fissare il carro. Fino a metà mattina non successe nulla. Poi, in un momento in cui tutti e quattro i viaggiatori erano all’interno del carro, apparvero una dozzina di persone, avanguardia di quella tribù di profughi che Crown aveva giustamente predetto. Arrivarono lentamente, a piedi lungo la strada, ricoperti di polvere e con l’aspetto stanco, barcollando sotto il peso di enormi e disordinati fardelli contenenti provviste e averi. Erano individui muscolosi, alti come Leaf o anche di più, ed avevano l’apparenza di guerrieri: portavano corte spade legate in vita e sia gli uomini che le donne erano abbondantemente ricoperti di cicatrici. La loro pelle era color grigio tendente al verde pallido, ed avevano un numero di dita delle mani e dei piedi superiore al normale.
Leaf non aveva mai visto prima quella razza. — Li conosci? — chiese a Sting.
— Cacciatori delle Nevi — rispose lui. — Credo imparentati con i Plasmatori di Sabbia. Della casta intermedia e con la fama di non essere amichevoli con gli estranei. Vivono a sud-ovest di Theptis, nella zona delle colline.
— Si poteva pensare che là fossero al sicuro — disse Shadow.
Sting si strinse nelle spalle. — Nessuno è al sicuro contro i Denti, eh? Nemmeno sulle colline più alte. Nemmeno nella giungla più impenetrabile.
I Cacciatori delle Nevi lasciarono cadere i fagotti e si guardarono intorno. Fu il carro che attirò la loro attenzione; sembravano sbalorditi dalla sua opulenza. Lo esaminarono meravigliati, toccandolo come aveva fatto la strega, scrutandolo da ogni lato e poi si scambiarono sguardi d’intesa, bisbigliando e facendo cenni, ma non sorrisero e non accennarono a salutare. Dopo un po’ si diressero verso il muro e lo studiarono con la stessa infantile curiosità. Sembrò lasciarli perplessi. Lo misurarono a braccia allargate, vi premettero contro il corpo, lo spinsero con le spalle, picchiarono sui pali, tirarono i resistenti legami di fibra vegetale. A quel punto dalla strada ne era arrivata un’altra dozzina ed anche quelli si affollarono intorno al carro, facendo quello che avevano fatto i primi, e poi anch’essi si diressero verso il muro. Continuavano ad arrivare Cacciatori delle Nevi, a gruppi di tre o quattro. Un terzetto, che si teneva in disparte dagli altri, dava l’impressione di essere composto dai capi tribù: si consultavano, annuivano, chiamavano altri membri della tribù e poi li congedavano con energici movimenti delle mani.
— Usciamo a parlare con loro — disse Crown. Indossò la sua migliore armatura e scelse un assortimento di eleganti armi da parata. Diede a Sting un sottile pugnale. Shadow non volle armi e Leaf preferì armarsi solo del prestigio della sua appartenenza alla Pura Discendenza. Aveva scoperto che negli incontri con gli stranieri essere un membro della razza pura gli era utile quanto l’avere una spada.
I Cacciatori delle Nevi (ora ce n’erano circa un centinaio, ed altri continuavano ad arrivare) guardarono con apprensione quando Crown e i suoi tre compagni scesero dal carro. L’andatura baldanzosa di Crown e la sua mole sembrarono impressionare molto di più questa robusta razza di guerrieri di quanto avessero impressionato i garruli Compagni degli Alberi. Ed anche la presenza di Leaf sembrava disturbarli. Circospetti, si mossero fino a formare un semicerchio intorno ai loro tre capi; si strinsero l’un l’altro con le mani sull’elsa delle spade, mormorando.
Crown fece un passo avanti. — Attento — disse Leaf. — Sono nervosi. Non forzarli.
Ma Crown, sfoggiando abili doti di diplomazia, piuttosto insolite per lui, mise rapidamente a loro agio i Cacciatori delle Nevi con un caldo gesto di saluto — le mani tese in avanti, il palmo verso l’alto con le dita aperte — e alcune calorose parole di benvenuto. Vennero fatte le presentazioni. Il portavoce della tribù, un uomo dal viso duro, con occhi gelidi e zigomi pronunciati, si chiamava Sky; gli altri due capi erano Biade e Shield. Sky parlava con voce piatta e misurata, senza mai cambiare tono. Sembrava vuoto, inaridito, un uomo che pareva aver raggiunto uno stato di esaurimento ben al di là dello sfinimento. Erano per strada da tre giorni e tre notti, quasi senza sosta, disse Sky. La settimana prima, il grosso delle forze dei Denti si era diretto ad ovest attraverso le basse terre costiere, verso Theptis, ed una banda composta da poche centinaia di guerrieri si era perduta e si era diretta a sud, nelle terre collinari. Quel girovagare aveva portato quei Denti sbandati a piombare senza alcun preavviso su di un villaggio isolato di Cacciatori delle Nevi ed era scoppiata una terribile battaglia in cui era perita più della metà della gente di Sky. I sopravvissuti erano riusciti a far perdere le loro tracce nella foresta e, seguendo strade secondarie, erano arrivati all’Autostrada del Ragno ed intontiti dal dolore e dalla disperazione avevano marciato come automi verso il fiume Middle, nella speranza di trovare nuove colline nei territori scarsamente popolati del lontano nord-ovest. Non sarebbero mai più potuti tornare alle loro terre, dichiarò Shield, perché queste erano state profanate dai banchetti dei Denti.
— Ma che cos’è questo muro? — chiese Sky.
Crown spiegò, raccontando ai Cacciatori delle Nevi qualcosa a proposito dei Compagni degli Alberi, della loro profetessa e della sua promessa che gli averi di tutti i profughi sarebbero stati consegnati a loro.
— Ci attendono con i loro dardi — disse Crown. — In quattro eravamo impotenti. Ma non oserebbero mai sfidare una forza come la vostra. Al tramonto avremo abbattuto quel muro!
— Si dice che i Compagni degli Alberi siano avversari fieri — fece notare Sky con tranquillità.
— Null’altro che scimmie — disse Crown. — Correranno ad arrampicarsi sulla cima dei loro alberi non appena estrarremo le nostre spade.
— E ci inonderanno di dardi avvelenati — mormorò Shield. — Amico, non abbiamo più lo stomaco per altre battaglie. Troppi di noi sono caduti questa settimana.
— Che cosa farete? — gridò Crown. — Gli darete le vostre spade, le vostre tuniche, gli anelli delle vostre mogli e i sandali che avete ai piedi?
Sky chiuse gli occhi e rimase immobile e muto per un lungo istante. Poi, senza aprire gli occhi, parlò con una voce che veniva dal centro di un immenso vuoto: — Parleremo con i Compagni e sentiremo le loro richieste, poi prenderemo le nostre decisioni e formuleremo i nostri piani.
— Il muro… se combattete al nostro fianco potremo distruggerlo ed aprire la strada a tutti quelli che fuggono dai Denti!
Con gelida pazienza, Sky disse: — Ne parleremo di nuovo con te. — E si voltò. — Ora riposeremo, in attesa che i Compagni degli Alberi si facciano avanti.
I Cacciatori delle Nevi si ritirarono e si sedettero ai margini del boschetto proprio sotto il muro. Lì si misero in fila, con lo sguardo fisso a terra, in attesa. Crown sputò con disprezzo e scosse il capo. Rivolto a Leaf disse: — Hanno l’aspetto di veri combattenti. C’è qualcosa che distingue un combattente dagli altri uomini, Leaf, e io sono in grado di capirlo, e questi Cacciatori delle Nevi ce l’hanno. In loro c’è la forza, la potenza, e lo spirito della battaglia. Eppure, guardali ora! Accovacciati come grossi Arti spaventati!
— Sono stati duramente battuti — disse Leaf. — Sono stati allontanati dalla loro terra. Sanno cosa significa guardare da una collina e vedere i fuochi su cui stanno arrostendo i tuoi parenti. Questo priva una persona dello spirito combattivo, Crown.
— No. La sconfitta fa ardere più alta la fiamma. Ti fa bruciare per il desiderio di vendetta.
— Davvero? Che ne sai tu della sconfitta? I tuoi avversari non ti hanno mai neppure scalfito.
Crown lo fissò con ira. — Non sto parlando di duelli. Tu pensi che la mia vita non sia stata sfiorata dai Denti? Che cosa ci faccio su questa sporca strada con tutto quello che ancora possiedo ammassato in un unico carro? Ma io non sono un morto che cammina, come quei Cacciatori delle Nevi. Io non scappo, io sto andando a reclutare un esercito. E poi tornerò nell’est e consumerò la mia vendetta, mentre loro… spaventati dalle scimmie…
— Hanno marciato giorno e notte — disse Shadow. — Dovevano essere sulla strada quando è caduta la pioggia purpurea. Hanno speso tutte le loro energie, mentre noi viaggiavano nel carro, Crown. Forse, quando si saranno riposati…
— Spaventati dalle scimmie!
Crown era scosso dall’ira. Andava avanti e indietro di fronte al carro, battendosi le cosce con i pugni. Leaf temeva che andasse dai Cacciatori delle Nevi e tentasse con le minacce di costringerli ad un’alleanza: per quanto svuotati e confusi, avrebbero potuto infuriarsi selvaggiamente se Crown li avesse spronati con troppa insistenza. Magari dopo qualche ora di riposo, come aveva suggerito Shadow, si sarebbero sentiti più inclini ad aiutare Crown ad aprirsi la strada attraverso il muro dei Compagni. Ma non ora. Non ora.
Il cancello si aprì. Ne uscirono una ventina di abitanti della foresta con il capotribù e (Leaf trattenne il fiato per lo stupore) la vecchia profetessa che guardò nella sua direzione e lo gratificò di un altro dei suoi penetranti sorrisi.
— Che genere di creatura è quella? — chiese Crown.
— La strega mezzosangue — disse Leaf. — L’ho vista all’alba, mentre ero di guardia.
— Guardate! — gridò Shadow. — Tremola e sbiadisce come un Invisibile! Ma la sua pelle è come la tua, Sting, e la sua forma è quella di…
— Mi terrorizza — disse Sting con voce rauca. Stava tremando. — Ci predice la morte. Ci resta poco tempo, amici. È la dea della morte, quella! — Si aggrappò al gomito di Crown che non era protetto dall’armatura. — Venite! Ritorniamo indietro sull’Autostrada del Ragno! Meglio tentare la fortuna nel deserto che restare qui a morire!
— Calmati — scattò Crown. — Non si torna indietro.! Denti sono già a Theptis. Fra un giorno o due avanzeranno su questa strada. C’è un’unica direzione, per noi.
— Ma il muro — disse Sting.
— Al tramonto il muro sarà in pezzi — gli disse Crown.
Il capo dei Compagni stava conferendo con Sky, Biade e Shield. Evidentemente i Cacciatori conoscevano in parte il linguaggio dei Compagni, perché Leaf udiva scambi vocali, accompagnati da pantomime e linguaggio di segni. Il capo indicava ripetutamente se stesso, il muro, la profetessa: indicò i fagotti dei Cacciatori delle Nevi, fece un rabbioso gesto con il pollice in direzione del carro di Crown. La conversazione durò mezz’ora e sembrò raggiungere una conclusione amichevole. I Compagni se ne andarono, questa volta lasciando aperto il cancello. Sky, Blade e Shield passarono tra i loro uomini, dando istruzioni. I Cacciatori trassero dai loro fagotti del cibo: radici essicate, semi, carne affumicata e mangiarono in silenzio. Poi alcuni ragazzi, con grossi otri di pelle per l’acqua sospesi a un palo che due di loro si portavano sulle spalle, andarono al ruscello a riempirli, e gli altri Cacciatori si alzarono, stirandosi e vagando per lo spiazzo come se fossero pronti a riprendere la marcia. Crown venne afferrato da una furiosa impazienza. — Che cosa fanno? — domandò. — Che patto avranno concluso?
— Immagino che si saranno arresi alle loro condizioni — disse Leaf.
— No! No! Mi serve il loro aiuto! — Angosciato, Crown si prendeva i pugni. — Devo parlare con loro — mormorò.
— Aspetta. Non forzarli, Crown.
— A che serve? A che serve? — Ora i Cacciatori si stavano issando i fardelli sulle spalle. Non c’era dubbio: erano in partenza. Crown attraversò in fretta lo spiazzo. Sky, occupato a dare gli ordini per la marcia, gli prestò attenzione di malavoglia. — Dove state andando? — chiese Crown.
— Ad ovest.
— E noi?
— Marciate con noi, se volete.
— Il mio carro!
— Non puoi farlo passare per il cancello, vero?
Crown indietreggiò come se volesse colpire il Cacciatore. — Se ci aiutaste, quel muro crollerebbe! Ascolta, come posso abbandonare il mio carro? Devo raggiungere quelli del mio popolo nelle Pianure. Radunerò un esercito; tornerò ad est e ricaccerò i Denti sulle montagne da cui sono venuti. Ho già perso troppo tempo. Io devo passare. Tu non vuoi vedere i Denti distrutti?
— Per noi non significa nulla — replicò Sky senza alzare la voce. — Le nostre terre per noi sono perdute per sempre. La vendetta è senza significato. Ti chiedo scusa, la mia gente ha bisogno della mia guida.
Già più della metà dei Cacciatori delle Nevi aveva oltrepassato il cancello. Leaf si unì alla processione. Sul lato più lontano del muro scoprì che il folto bosco lungo il margine dell’autostrada era stato abbattuto per un tratto considerevole e alcuni piccoli edifici di legno erano stati eretti sul bordo della strada. Dopo una ventina di passi, un sentiero secondario portava a nord attraverso la foresta: di certo quella era la strada che conduceva al villaggio dei Compagni degli Alberi. In quel momento il traffico sul sentiero era intenso. Centinaia di abitanti della foresta sciamavano dal villaggio all’autostrada, dove era in atto una scena strana e repellente. Ogni Cacciatore delle Nevi, a turno, si fermava, si toglieva il fardello dalle spalle e lo apriva. Allora tre o quattro Compagni vi frugavano dentro, ognuno di loro si impossessava di qualcosa di valore, un coltello, un pettine, un gioiello, un mantello di buona fattura, e poi correva via trionfante. Dopo essersi sottomesso al saccheggio delle sue proprietà, il Cacciatore richiudeva il proprio fagotto, se lo rimetteva sulle spalle e si incamminava a testa bassa e con le spalle curve. Leaf si sentì gelare. Questi guerrieri orgogliosi, ora senza una casa, che cedevano quello che restava dei loro tesori a… cercò di soffocare le parole, ma non vi riuscì… ad una tribù di scimmie. E continuavano ad andare avanti, afflitti e umiliati. Di tutte le cose che Leaf aveva visto da quando i Denti avevano sconvolto il mondo, questa era la più triste.
Tornò verso il carro. Alla retroguardia della colonna dei Cacciatori vide Sky, Shield e Biade. I loro volti erano cinerei: non ebbero il coraggio di incrociare il suo sguardo. Sky riuscì a fargli un saluto mentre gli passava accanto.
— Vi auguro buona fortuna per il vostro viaggio — disse Leaf.
— Io vi auguro miglior fortuna di quella che abbiamo avuto noi — disse cupamente Sky e proseguì.
Leaf trovò Crown in piedi in mezzo all’autostrada, con le mani sui fianchi. — Codardi! — gridò con voce amara. — Deboli!
— E adesso è il nostro turno — disse Leaf.
— Che cosa vuoi dire?
— È arrivato il momento di affrontare la dura verità. Dobbiamo abbandonare il carro, Crown.
— Mai.
— Siamo d’accordo che non possiamo tornare indietro. E non possiamo andare avanti finché c’è quel muro. Se restiamo qui, alla fine i Compagni ci uccideranno, se non saranno i Denti a farlo. Ascoltami, Crown. Non dobbiamo dare ai Compagni tutto quello che abbiamo. Il carro, qualcuno dei nostri abiti di ricambio, qualche ninnolo, i mobili sul carro… si accontenteranno di questo. Possiamo caricare il resto delle nostre cose sulle giumente e attraversare il cancello a piedi.
— Non voglio neppure prendere in considerazione questa possibilità, Leaf.
— Lo so. So che cosa significa il carro per te. Vorrei che tu potessi tenerlo. Non credi che preferirei andare ad ovest in modo confortevole invece di dover arrancare a fatica in mezzo alla pioggia e al freddo? Ma non possiamo tenerlo. Non possiamo tenerlo, Crown, questo è il nocciolo della faccenda. Possiamo andare ad est con il carro e perderci nel deserto, possiamo restare qui e aspettare che i Compagni perdano la pazienza e ci uccidano, oppure possiamo rinunciare al carro e andarcene di qui salvando la pelle. Che razza di scelte sono queste? Noi non abbiamo scelta. Sono due giorni che te lo dico. Sii ragionevole, Crown!
Crown lanciò un’occhiata gelida a Sting e Shadow. — Trovate il capo ed entrate di nuovo in trance con lui. Ditegli che gli darò spade, armature, tutte le cose più belle che troverà nel carro. Ma che smantelli una parte del muro in modo che il carro possa passare.
— Gli abbiamo fatto quest’offerta ieri — fece Sting cupo.
— E allora?
— Insiste per il carro. La vecchia strega gliel’ha promesso come palazzo.
— No — disse Crown. — NO! — Le colline rimandarono l’eco del suo ruggito selvaggio. Dopo qualche istante, disse con più calma: — Ho un’altra idea. Leaf, Sting, venite con me. Il cancello è aperto. Andiamo al villaggio e catturiamo la strega. In fretta, prima che qualcuno si accorga di quanto stiamo facendo. Non oseranno molestarci finché sarà nelle nostre mani. Poi, Sting, tu dirai al capo che se non ci apriranno il muro, noi la uccideremo. — Crown ridacchiò. — Quando si sarà accorta che facciamo sul serio, gli dirà di obbedire. Chi è tanto vecchio vuole vivere per sempre. E loro le obbediranno. Potete scommetterci. Le obbediranno! Venite ora. — Crown si incamminò verso il cancello con passo spedito. Dopo una decina di metri si fermò e si voltò indietro. Né Leaf né Sting si erano mossi.
— Be’? Perché non venite?
— Non lo farò — disse stancamente Leaf. — È una follia, Crown. È una strega, è in parte Invisibile… sarà già a conoscenza del tuo piano. Probabilmente lo sapeva ancor prima di te. Come possiamo sperare di catturarla?
— Lascia che me ne occupi io.
— Anche se ci riuscissimo, Crown… no, no. Non voglio aver parte in questa cosa. È un’idea impossibile. Anche se riuscissimo a prenderla. Staremmo qui a puntarle una spada alla gola e loro ci trafiggerebbero con un centinaio di dardi senza neppure lasciarci muovere un muscolo. È una pazzia, Crown.
— Ti ho chiesto di venire con me.
— Hai avuto la tua risposta.
— Allora andrò senza di voi.
— Come vuoi — fece tranquillo Leaf. — Ma non mi vedrai più.
— Eh?
— Raccoglierò quello che mi appartiene e lascerò che i Compagni degli Alberi scelgano quello che vogliono, poi mi affretterò a raggiungere i Cacciatori delle Nevi. Tra una settimana sarò al fiume Middle. Shadow, verrai con me o sei decisa a restare qui a morire con Crown?
La Stella Danzante abbassò lo sguardo verso il terreno fangoso. — Non so — disse. — Lasciami pensare un momento.
— Sting?
— Vengo con te.
Leaf si rivolse a Crown: — Ti prego, sii ragionevole, Crown. Per l’ultima volta, cedi il carro ed andiamocene, tutti e quattro.
— Mi disgusti.
— Allora ci separiamo qui — disse Leaf. — Ti auguro buona fortuna. Sting, raduniamo le nostre cose. Shadow? Vieni con noi?
— Abbiamo un obbligo verso Crown — disse lei.
— Di aiutarlo a guidare il carro, sì. Ma non di morire per lui in modo stupido. Crown ha perso il carro, Shadow, anche se non vuole ancora ammetterlo. Se il carro non è più suo, il nostro contratto non vale più. Spero che ti unirai a noi.
Entrò nel carro ed andò alla credenza dello scompartimento centrale dove teneva le poche cose che era riuscito a portare con sé dall’est. Un paio di lucidi stivali fatti con la pelle di minuscole creature-asticciola, due antiche monete di rame, tre medaglioni di avorio, una camicia di seta rosso scuro, una cintura spessa e riccamente lavorata: non era molto, non era davvero molto ciò che restava di un’esistenza. Fece i bagagli rapidamente. Prese una striscia di carne essicata e del pane; gli sarebbero bastati per un giorno o due, e poi avrebbe imparato da Sting o dai Cacciatori delle Nevi l’arte di procurarsi il cibo nei luoghi selvaggi.
— Sei pronto?
— Più pronto di così! — disse Sting. Il suo fagotto era quasi vuoto: un cambio d’abiti, un’accetta, un coltello, del pesce affumicato e nient’altro.
Mentre Sting e Leaf si dirigevano al portello centrale, Shadow entrò nel carro: aveva il viso teso e preoccupato, le narici frementi e gli occhi bassi. Senza una parola, superò Leaf e cominciò a preparare il sacco. Lui la aspettò. Dopo pochi minuti lei riapparve e annuì.
— Povero Crown — bisbigliò, — non c’è modo…
— L’hai sentito — disse Leaf.
Uscirono dal carro. Non si era mosso. Era come radicato a terra, a metà strada tra il carro e il muro. Leaf gli lanciò un’occhiata interrogativa, come per chiedergli se avesse cambiato idea, ma Crown non lo notò. Stringendosi nelle spalle, Leaf gli girò intorno e si diresse verso il limitare del boschetto dove gli incubi stavano mangiucchiando delle foglie. Con affetto, allungò il braccio per accarezzare il lungo collo dell’animale più vicino: improvvisamente Crown prese vita e urlò: — Quegli animali sono miei! Tieni giù le mani da loro!
— Sto soltanto dicendo loro addio.
— Pensi che te ne lascerò prendere qualcuno? Credi che io sia pazzo, Leaf?
Leaf lo guardò con tristezza. — Intendiamo fare il viaggio a piedi, Crown. Sto soltanto salutandoli. Erano miei amici. Questo non puoi caprilo, vero?
— Stai lontano da quegli animali! Stai lontano!
Leaf sospirò. — Come vuoi. — Come sempre, Shadow aveva ragione: povero Crown. Leaf sistemò il suo fagotto e si diresse verso il cancello, con Shadow al suo fianco e Sting che seguiva a breve distanza. Quando lui e Shadow raggiunsero il cancello, Leaf si volse indietro e vide Crown ancora immobile, e poi Sting che si fermava e posava il pacco inginocchiandosi a terra. — Qualcosa non va? — chiese Leaf.
— Ho strappato una stringa — disse Sting. — Voi due andate avanti. Ci metto un attimo ad aggiustarla.
Leaf e Shadow restarono in attesa al cancello mentre Sting si annodava la stringa. Dopo qualche istante si alzò e si sporse per prendere il fagotto: — Dovrebbe tenere fino a stasera e poi vedrò se riesco…
— Attento! — urlò Leaf.
Crown si destò improvvisamente dalla sua immobilità e lanciando un urlo da indemoniato, corse a incredibile velocità verso Sting. Lui non ebbe la possibilità di fare uno dei suoi balzi: Crown lo afferrò, lo tenne alto sopra la testa come se fosse un bambino e grugnendo con rabbia frenetica lo scagliò verso il burrone. Agitando braccia e gambe, Sting descrisse un ampio arco oltre l’orlo del precipizio, per un istante sembrò danzare a mezz’aria, e poi scomparve alla vista. Si udì un urlo che diminuì d’intensità e poi il silenzio. Silenzio.
Leaf era paralizzato. — Presto — disse Shadow — Crown sta arrivando!
Dopo aver girato su se stesso, Crown correva ora come una macchina di morte verso Leaf e Shadow. I selvaggi occhi rossi brillavano feroci. Leaf non si muoveva; Shadow lo scosse e finalmente lui si decise ad entrare in azione. Insieme afferrarono il massiccio cancello e con uno sforzo lo fecero ruotare, riuscendo a chiuderlo proprio nell’istante in cui Crown andava a sbattergli contro. Leaf fece calare le spranghe. Crown ruggì e picchiò i pugni contro il cancello, ma non fu in grado di forzarlo.
Shadow tremava e piangeva. Leaf la attirò a sé e la strinse per un istante. Poi disse: — È meglio che ci muoviamo. I Cacciatori delle Nevi sono già molto avanti a noi.
— Sting…
— Lo so. Lo so. Vieni ora.
Una mezza dozzina di Compagni degli Alberi li attendevano vicino alle costruzioni di legno. Fecero delle smorfie, dissero qualcosa e indicarono i fagotti. — Va bene — disse Leaf. — Avanti. Prendete quello che volete. Prendete anche tutto.
Dita indaffarate frugarono nel suo fagotto e in quello di Shadow. Da lei presero un nastro di broccato ed una pietra verde piatta e liscia. A Leaf presero uno dei medaglioni d’avorio, le due monete di rame e uno dei suoi stivali di pelle sottile. Tributo. Giorno dopo giorno frammenti del passato scivolavano via dalle sue mani. Prese l’altro stivale e lo offrì ai Compagni, ma loro ridacchiarono e scosse il capo. — Uno solo non mi serve — disse lui. Loro non lo vollero. Leaf buttò lo stivale nell’erba a fianco della strada.
La strada piegava dolcemente verso nord e cominciava a salire, seguendo il fianco delle colline boscose in cui i Compagni avevano costruito le loro case. Leaf e Shadow camminavano come automi, parlando poco. Le impronte degli stivali dei Cacciatori ricoprivano tutta la strada, ma i Cacciatori erano molto più avanti, non ancora in vista. Era primo pomeriggio e la giornata si era fatta luminosa ed inaspettatamente calda. Dopo un’ora Shadow disse: — Debbo riposarmi.
Batteva i denti. Si accoccolò sul lato della strada e si strinse le braccia intorno al corpo. Le Stelle Danzanti, ricoperte da una folta pelliccia, normalmente non portavano vestiti, tranne che negli inverni più freddi; ma il pelo non le serviva a nulla, ora.
— Stai male? — chiese Leaf.
— Passerà. È la reazione. Sting…
— Sì.
— E Crown. Sono così triste per Crown.
— Un folle — disse Leaf. Un assassino.
— Non giudicarlo affrettatamente, Leaf. È un uomo condannato a morte, lo sa e ne soffre, e quando la paura e il dolore sono diventati insopportabili, si è scagliato su Sting. Non sapeva quello che stava facendo. Aveva bisogno di frantumare qualcosa, per alleviare il suo tormento, ecco tutto.
— Prima o poi moriremo tutti — disse Leaf. — Ma generalmente questo non ci spinge ad uccidere i nostri amici.
— Non intendo prima o poi. Intendo dire che Crown morirà questa notte o domani.
— Perché dovrebbe morire?
— Che può fare ora per salvarsi, Leaf?
— Potrebbe piegarsi ai Compagni e oltrepassare il cancello a piedi, come abbiamo fatto noi.
— Sai che non abbandonerà mai il carro.
— Be’, allora può aggiogare i cavalli e tornare verso Theptis. Almeno così avrà una possibilità di raggiungere l’Autostrada del Tramonto.
— Non può fare nemmeno quello — disse Shadow.
— Non c’è più nessuno che lo faccia per lui. È in gioco la sua vita. Per una volta può reprimere il suo orgoglio e…
— Non ho detto che non vuole guidare il carro, Leaf. Ho detto che non può. Crown non ne è capace. Non è in grado di stabilire il contatto onirico con gli incubi. Perché credi che abbia sempre assunto dei guidatori? Perché ha insistito tanto perché fossi tu a guidare nella pioggia purpurea? Non ha il potere mentale. Hai mai visto un Lago Scuro guidare gli incubi? L’hai mai visto?
Leaf la fissò con stupore. — Tu l’hai sempre saputo?
— Fin dall’inizio, sì.
— È per questo che hai esitato ad abbandonarlo al cancello? Quando parlavi del nostro contratto con lui?
Lei accennò di sì. — Se tutti e tre lo avessimo abbandonato, lo avremmo condannato a morte. Ora non ha modo di sfuggire ai Compagni se non costringendosi ad abbandonare il carro, e questo non lo farà mai. Loro gli saranno addosso e lo uccideranno, oggi, domani, in un momento qualsiasi.
Leaf chiuse gli occhi e scosse il capo. — Ora provo una specie di vergogna. Mi rendo conto che lo abbiamo lasciato senza vie d’uscita. Avrebbe potuto parlare.
— Troppo orgoglioso.
— Sì. Sì. È meglio che non abbia detto niente. Tutti abbiamo delle responsabilità verso gli altri, ma ci sono dei limiti. Tu, io e Sting non avevamo l’obbligo di morire solo perché Crown non poteva indursi a cedere il suo grazioso carro. Eppure… eppure…
Strinse con forza le mani. — Allora perché alla fine hai deciso di andartene?
— Per la ragione che hai appena detto. Non volevo che Crown morisse, ma non ritenevo che la mia vita gli appartenesse. E poi tu avevi detto che te ne saresti andato comunque.
— Povero folle Crown.
— E quando ha ucciso Sting… una vita per una vita, Leaf! Tutte le promesse sono cancellate, ora. Non mi sento colpevole.
— Nemmeno io.
— Penso che la febbre mi stia abbandonando.
— Riposiamoci ancora qualche minuto — disse Leaf.
Passò più di un’ora prima che, secondo il giudizio di Leaf, Shadow fosse in grado di proseguire. L’autostrada ora saliva in modo graduale, senza strappi improvvisi, ma ciò metteva a dura prova la loro resistenza.
Quando il calore del giorno cominciava a diminuire raggiunsero la cresta e fecero un’altra sosta in un punto da cui potevano vedere un tratto di strada che si snodava tortuosa in una verde e amena vallata. Molto più in basso c’erano i Cacciatori, che si erano fermati presso un torrente di apprezzabili dimensioni.
— Fumo — disse Shadow. — Lo senti?
— I fuochi da campo laggiù, penso.
— Non credo che abbiano acceso dei fuochi. Non ne vedo.
— I Compagni degli Alberi, allora.
— Deve essere un fuoco molto grande.
— Non ha importanza — disse Leaf. — Sei pronta a continuare?
— Sento un suono…
Una voce alle loro spalle disse: — E così tutto finisce nel solito modo, nella follia e nella morte, e il Tutto-che-è-Uno diventa sempre più potente.
Leaf saltò in piedi, facendo un giro su se stesso. Udì una risata sul fianco della collina e vide dei movimenti nel sottobosco; dopo un momento riuscì a distinguere una figura fioca, vagamente delineata, e capì che un Invisibile stava venendo verso di loro; quello stesso, senza dubbio, che aveva viaggiato con loro da Theptis.
— Che cosa vuoi? — chiese Leaf.
— Volere? Volere? Io non voglio nulla. Sono solo di passaggio. — L’Invisibile indicò dietro le spalle. — Potete vedere tutto dalla cima della collina. Il vostro grosso amico ha dato inizio ad una furiosa lotta, e ne ha uccisi molti, ma i dardi, i dardi… — L’Invisibile rise. — Stava morendo, ma anche così non voleva che si prendessero il suo carro. Che uomo testardo. Che uomo sciocco. Be’, buon viaggio ad entrambi.
— Non andartene! — gridò Leaf. Ma i contorni dell’Invisibile stavano svanendo. Rimase solo la risata, poi anche quella scomparve. Leaf lanciò disperate domande al vuoto e, non ottenendo risposta, si voltò e corse su per la collina aggrappandosi ai folti cespugli. In dieci minuti raggiunse la sommità e rimase lì ansante, a guardare verso la valle, verso quel tratto di strada che avevano appena percorso. Da lì vedeva tutto: il villaggio dei Compagni degli Alberi annidato nella foresta, l’autostrada, le capanne ai lati della strada, il muro, lo spiazzo al di là del muro. E il carro. Il tetto non c’era più e le fiancate erano crollate verso l’esterno. Grosse lingue di fuoco saettavano verso l’alto, e una densa nuvola di fumo nero stagnava nell’aria. Leaf rimase a lungo a guardare la pira di Crown prima di tornare da Shadow.
Discesero verso il luogo in cui erano accampati i Cacciatori delle Nevi. Rompendo un lungo silenzio, Shadow disse: — Ci deve essere stato un tempo in cui il mondo era diverso, quando tutti erano della stessa razza e vivevano in pace. Un’età d’oro, tanto tempo fa. Come hanno potuto cambiare le cose, Leaf? Come siamo riusciti a fare tutto questo?
— Nulla è cambiato — disse Leaf, — tranne l’aspetto dei nostri corpi. Dentro siamo gli stessi. Un’età d’oro non è mai esistita.
— Una volta non c’erano i Denti.
— I Denti ci sono sempre stati, con questo o con un altro nome. La vera pace non è mai durata a lungo. Odio e cupidigia sono sempre esistiti.
— Ci credi veramente?
— Sì. Credo che il genere umano sia sempre il genere umano. Siamo tutti uguali, qualunque sia il nostro aspetto, e i cambiamenti che sono avvenuti sono insignificanti; ed il meglio che possiamo fare è di trovare sempre un po’ di felicità per noi stessi, anche se i tempi sono bui.
— Questi sono tempi peggiori di altri, Leaf.
— Forse.
— Questi sono tempi maledetti. La fine di tutte le cose si avvicina.
Leaf sorrise. — Lascia che venga. Questi sono i tempi che siamo stati destinati a vivere, senza chiedere il perché, e senza desiderarne altri più facili. li dolore finisce quando comincia l’accettazione. Questo è ciò che abbiamo ora. Prendiamone il meglio. Questa è la strada su cui viaggiamo. Giorno dopo giorno perdiamo ciò che non è mai stato nostro, giorno dopo giorno scivoliamo più vicini al Tutto-che-è-Uno, e nulla importa, Shadow, nulla tranne l’accettare quello che viene. Sì?
— Sì — disse lei. — Quanto dista il fiume Middle?
— Qualche giorno.
— E di lì fino ai tuoi parenti del Mare Interno?
— Non lo so — rispose lui. — Dista quanto deve distare. Sei molto stanca?
— Non quanto avrei creduto.
— Il campo dei Cacciatori non è lontano. Questa notte dormiremo bene.
— Crown — disse lei. — Sting.
— Che cosa?
— Anche loro dormono.
— Nel Tutto-che-è-Uno — disse Leaf. — Al di là di ogni dolore. Al di là di ogni male.
— E quel bel carro è una rovina fumante!
— Se almeno Crown l’avesse ceduto spontaneamente quando ormai era sicuro di morire! Ma allora non sarebbe stato Crown. Povero Crown. Povero folle Crown. — Ci fu un movimento davanti a loro. — Guarda. I Cacciatori ci hanno visti. Ecco Sky e Biade. — Leaf agitò la mano e gridò. Sky gli restituì il saluto, e anche Biade e qualcuno degli altri. — Possiamo dormire con voi, stanotte? — gridò Leaf. Sky rispose qualcosa, ma le sue parole furono portate lontano dal vento. Sembrava amichevole, pensò Leaf. Sembrava proprio un tono amichevole. — Vieni — disse, e lui e Shadow si affrettarono giù per il pendio.