Fredric Brown Placet è una gabbia di matti

Titolo originale: Placet is a Crazy Place
Traduzione di Gian Paolo Cossato e Sandro Sandrelli
Tratto da Le grandi storie della fantascienza 8
© 1946 Astounding Science Fiction

Persino quando ci siete abituati, la faccenda continua a deprimervi. Come quella mattina… sempre che possiate chiamarla mattina. In realtà era notte. Ma su Placet andiamo avanti col tempo terrestre, perché l’ora locale di Placet vi farebbe ammattire come qualunque altra cosa su quell’imbecille di pianeta. Voglio dire, qui avete un giorno di sei ore, poi una notte di due, e poi un giorno di quindici ore e una notte di un’ora e… be’ com’è possibile batter giusto il tempo d’un pianeta che descrive un’orbita a otto intorno a due soli dissimili, passandogli intorno e in mezzo come un pipistrello sbucato dall’inferno, mentre i soli girano l’uno intorno all’altro così in fretta e così vicini che gli astronomi della Terra avevano sempre creduto che fosse un unico sole fino al giorno in cui vent’anni fa atterrò qui la spedizione Blakeslee?

Capite, la rotazione di Placet non è neanche una frazione approssimata del periodo di rivoluzione e nel bel mezzo tra i due soli c’è un “campo di Blakeslee” — una porzione di spazio in cui i raggi luminosi rallentano fino a strisciare e rimangono indietro e… be’… Se non vi siete già letti i rapporti di Blakeslee su Placet, tenetevi forte mentre vi dico questo:

Placet è l’unico pianeta conosciuto in grado di eclissare se stesso due volte nello stesso tempo, precipitarsi su se stesso ogni quaranta ore e poi darsi la caccia fino a vedersi scomparire.

Non vi biasimo.

Non ci avevo creduto neppure io, e mi presi una fifa dannata la prima volta che mi trovai su Placet e vidi Placet precipitare dritto su di noi. Eppure avevo letto i rapporti di Blakeslee, e sapevo ciò che stava realmente accadendo, e perché. È un po’ come quei primi film, quando la macchina da presa veniva messa davanti a un treno e gli spettatori vedevano la locomotiva precipitarsi verso di loro e provavano l’irresistibile impulso a scappar via malgrado sapessero che la locomotiva, in realtà, non si trovava là.

Ma avevo cominciato a dire come, quel mattino, me ne stessi seduto alla mia scrivania, il cui ripiano era coperto d’erba. I miei piedi erano — o sembravano essere — appoggiati sopra una distesa d’acqua increspata. Ma non erano bagnati.

Sopra l’erba della mia scrivania c’era un vaso da fiori rosa, sul quale era piantata, col muso, una grossa lucertola saturniana. Si trattava in realtà — ma me lo diceva la ragione, non la vista — del mio calamaio e della mia penna. C’era anche un ricamo a punto croce, ottimamente eseguito, che diceva: «Dio Benedica la Nostra Casa». In realtà si trattava d’un messaggio del Centro Terrestre appena arrivato per telescrivente. Non sapevo cosa dicesse, perché ero arrivato in ufficio dopo che l’effetto C.B. era cominciato. In ogni caso, non credevo proprio che dicesse «Dio Benedica la Nostra Casa» soltanto perché così appariva. E poi, cosa cavolo m’importava di ciò che realmente diceva? Ero arrabbiato, stufo marcio fino al collo di tutto.

Vedete — forse sarà meglio che vi spieghi — l’effetto del Campo Blakeslee si manifesta quando Placet si trova giusto in posizione mediana tra Argyle I e Argyle II, i due soli intorno ai quali descrive i suoi otto. Esiste una spiegazione scientifica del fenomeno, che dovrebbe essere espressa in formule, non in parole, ma che in sostanza si riduce a questo: Argyle I è fatto di materia terrena e Argyle II è invece di materia controterrena, o materia negativa. A metà strada fra le due stelle, e per una considerevole estensione di spazio, esiste un campo all’interno del quale i raggi luminosi vengono rallentati, e di parecchio. Si riducono a muoversi all’incirca alla velocità del suono. Come risultato, se qualcosa si muove, dentro il campo, più veloce del suono — e Placet fa appunto così — potete ancora vederlo arrivare dopo che vi è già passato davanti.

L’immagine visiva di Placet impiega ventisei ore ad attraversare il campo. Per quell’ora, Placet ha compiuto il giro completo di uno dei soli e incontra la propria immagine sulla via del ritorno. Dentro il campo c’è, dunque, un’immagine che va e una che viene, e Placet eclissa se stesso due volte, occultando entrambi i soli nello stesso tempo. Un po’ più lontano, corre incontro a se stesso in arrivo dalla direzione opposta — e vi spaventa a morte se state guardando, anche se sapete che in realtà non sta accadendo niente di simile.

Lasciate che ve lo spieghi in questo modo, prima che vi vengano le vertigini. Immaginiamoci una di quelle vecchie locomotive che vi sta venendo incontro, soltanto che lo fa a una velocità assai maggiore di quella del suono. A un miglio di distanza, fischia. Vi sorpassa, e poi udite il fischio, proveniente da un punto un miglio più indietro, là dove la locomotiva non c’è più. È l’effetto sonoro di un oggetto che viaggia più veloce del suono, mentre ciò che ho descritto poco più sopra è l’effetto ottico di un oggetto che viaggia — in un’orbita a forma di otto — più veloce della propria immagine visuale.

Ma questa non è la parte peggiore; potreste sempre starvene tappati in casa, evitando le eclissi e le collisioni frontali. Ma non potete evitare gli effetti psico-fisiologici del Campo Blakeslee.

E questi, gli effetti psico-fisiologici, sono un’altra cosa ancora. Il Campo agisce in qualche modo sui centri del nervo ottico, oppure su quella parte del cervello con cui i nervi ottici sono collegati, qualcosa di simile agli effetti di certe droghe. Si hanno… ma non si può definirle esattamente allucinazioni, poiché di solito non si vedono cose inesistenti, ma cose che senz’altro esistono, ma non si trovano là.

Sapevo benissimo d’essere seduto a una scrivania il cui ripiano era di vetro e non d’erba; il pavimento sotto i miei piedi era di comune plastica e non una superficie d’acqua increspata; gli oggetti sopra la scrivania non erano un vaso da fiori rosa con una lucertola saturniana piantata dentro, bensì un calamaio antico, del ventesimo secolo, e una penna — e quel ricamo «Dio Benedica la Nostra Casa» era in realtà un messaggio telescritto su un comune foglio di carta. Potevo controllare ognuna di queste cose col mio senso del tatto, sul quale il Campo Blakeslee non ha alcuna influenza.

Se chiudete gli occhi, naturalmente, ma non lo fate mai… poiché, anche al colmo dell’effetto, la vista continua a darvi le dimensioni e le distanze reciproche delle cose, e se rimanete in un ambiente familiare, la vostra memoria e la vostra ragione vi dicono ciò che esse sono in realtà.

Così, quando si aprì la porta ed entrò un mostro a due teste, seppi che era Reagan. Reagan non è un mostro a due teste, ma riconobbi il tipico rumore dei suoi passi.

— Sì, Reagan? — chiesi.

Il mostro a due teste disse: — Capo, l’officina traballa. Dovremo violare la regola di non lavorare mentre siamo dentro il Campo.

— Gli uccelli? — chiesi.

Tutte e due le teste annuirono. — Le fondamenta devono esser ridotte un colabrodo, con tutti gli uccelli che ci volano attraverso, e sarà meglio versarci subito del cemento. Le sbarre di rinforzo di quella nuova lega che l’Ark ci sta portando riusciranno a fermarli?

— Sicuro, — mentii. Scordandomi del campo, mi voltai a guardare l’orologio, ma c’era una corona da morto di lillà bianchi sulla parete, dove avrebbe dovuto esserci il quadrante. Aggiunsi: — Speravo che non saremmo stati costretti a rinforzare quelle pareti fino a quando non avessimo avuto le sbarre da affondarci dentro. L’Ark dovrebbe arrivare da un momento all’altro… anzi, è probabile che stia galleggiando là fuori nello spazio in attesa che usciamo dal campo. Pensi che possiamo aspettare fino a quando…

Si udì uno schianto.

— Sì, possiamo aspettare, — disse Reagan. — L’officina è partita, così, adesso, non c’è più fretta… Proprio non ce n’è più.

— Non c’era nessuno dentro?

— No, ma vado a controllare. — Si precipitò fuori della porta.

Questa è la vita su Placet. Ne avevo abbastanza; ne avevo le scatole piene. Presi la decisione mentre Reagan era fuori.

Quando rientrò era uno scheletro articolato d’un vivace azzurro.

Disse: — Tutto a posto, capo. Non c’era nessuno dentro.

— Qualcuna delle macchine… si è sfasciata?

Scoppiò a ridere. — Ce la fa a guardare un cavallo di gomma di quelli che usano sulle spiagge, a pois scarlatti, e a dirmi se è un tornio intero oppure a pezzi? Ehi, capo, lo sa che aspetto ha, adesso?

Sbottai: — Se me lo dici, sei licenziato.

Non so se stessi scherzando oppure no; avevo i nervi a fior di pelle. Aprii il cassetto della scrivania e ci ficcai dentro il ricamo del — Dio Benedica la Nostra Casa, — e tornai a chiuderlo sbattendolo. Ero stufo: Placet è una gabbia di matti, e se vi ci fermate a lungo, finite per ammattire anche voi. In media, uno ogni dieci impiegati del Centro Terrestre su Placet deve tornarsene a casa per cure psichiatriche dopo essere rimasto un anno o due su questo maledetto pianeta. Ed io ci sono da quasi tre anni. Il mio contratto era scaduto, e ormai ero deciso.

— Reagan, — dissi.

Si era diretto verso la porta. Si voltò. — Sì, capo?

Gli ordinai: — Voglio che tu spedisca un messaggio con la telescrivente al Centro Terrestre. Niente di complicato, due sole parole: Vi lascio.

Annuì: — Va bene, capo. — Uscì e chiuse la porta.

Mi afflosciai sulla poltroncina e chiusi gli occhi per pensare. L’avevo fatto. A meno che non fossi corso dietro a Reagan, ordinandogli di non spedire il messaggio, era fatta, finita e irrevocabile. In quelle cose, il Centro Terrestre è strano: per quasi tutto è di manica molto larga, ma una volta che avete dato le dimissioni, il comitato non vi lascia più cambiare idea. È una regola ferrea, e novantanove volte su cento è giustificata, quando si tratta di progetti interplanetari o intragalattici. Un uomo dev’essere entusiasta al cento per cento del suo lavoro, per poterlo fare, ma quando il lavoro gli esce dagli occhi, non ha più mordente o peggio ancora.

Sapevo che Placet stava ormai per uscire dal Campo Blakeslee, ma preferii restarmene lì con gli occhi chiusi. Non volevo aprirli e guardare l’orologio fino a quando non avessi potuto vedere l’orologio come un orologio, e non come un’altra cosa qualunque, ripugnante o anche soltanto strana. Per cui, me ne restai seduto a pensare.

Mi sentivo un po’ ferito dall’indifferenza con cui Reagan aveva accolto il mio messaggio; era stato mio buon amico per dieci anni; avrebbe potuto almeno dire che gli dispiaceva che me ne andassi. Certo, c’era una buona possibilità che lui ne ottenesse una promozione, ma anche se aveva questo, in testa, avrebbe potuto mostrarsi un po’ più diplomatico. O almeno provarci…

Oh, smettila di sentirti dispiaciuto per te stesso, mi rimproverai. Ormai l’hai fatta finita con Placet e col Centro Terrestre, e adesso tornerai presto sulla Terra, non appena ti daranno il cambio, là avrai un altro lavoro, e forse potrai rimetterti a insegnare.

Ma ugualmente, dannazione a Reagan. Era stato mio allievo al Politecnico di Terra City, e gli avevo fatto avere quel posto su Placet, un buon posto per la sua età, primo assistente dell’amministratore di un pianeta con una popolazione di quasi mille persone. Ma del resto, questo mio lavoro era anch’esso buono per uno della mia età — anch’io ne ho soltanto trentuno. Un lavoro eccellente, solo che non si poteva continuare a innalzare edifici che sarebbero subito crollati, e… Piantala di denigrarti, m’intimai. Adesso ne sei fuori. Torna sulla Terra e ricomincia a insegnare. Dimenticatene.

Ero stanco. Appoggiai la testa sulle braccia adagiate sul piano della scrivania… e mi appisolai per un paio di minuti.

Alzai gli occhi a un rumore di passi, alla porta; non erano i passi di Reagan. Sì, la qualità delle illusioni stava senz’altro migliorando. Era — o sembrava essere — una splendida testarossa. Ma non poteva esserlo, naturalmente. C’è qualche donna, su Placet, per la maggior parte mogli di tecnici, ma…

Disse: — Non si ricorda di me, signor Rand? — Sì, era una donna; la sua era una voce di donna… una voce bellissima. E mi suonava anche familiare.

— Non sia sciocca, — replicai. — Come potrei riconoscerla proprio adesso, mentre siamo nel bel mezzo del… — D’un tratto, colsi con la coda dell’occhio l’orologio dietro le sue spalle, ed era un orologio e non una corona da morto o un nido di cuculo, e d’improvviso mi resi conto che ogni altra cosa nella stanza era ritornata normale. Ciò significava che eravamo usciti dal Campo ed io non vedevo più le cose…

Il mio sguardo tornò alla testarossa. Mi resi conto che era vera. E d’un tratto la riconobbi, anche se era cambiata… cambiata in abbondanza, s’intende. Tutti i cambiamenti erano in meglio, anche se Winifred Aksho era stata una ragazza già molto graziosa quando faceva parte della mia terza classe di botanica extraterrestre al Politecnico di Terra City, quattro… no, cinque anni prima.

Allora era stata graziosa; adesso era uno splendore. Era sbalorditiva. Come mai le telechiacchiere l’avevano trascurata? Ma l’avevano trascurata, poi? Cosa ci faceva, qui? Doveva essere appena scesa dall’Ark, ma… mi resi conto che la stavo ancora fissando a bocca aperta. Mi alzai così in fretta che quasi caddi lungo disteso sopra la scrivania.

— Certo che mi ricordo di lei, signorina Aksho, — tartagliai. — Non vuole sedersi? Com’è arrivata qui? Hanno per caso mitigato i regolamenti che proibiscono i visitatori?

Lei scosse la testa, sorridendo. — Non sono un visitatore, signor Rand. Il Centro ha diffuso un annuncio in cui cercava una segretaria-tecnica per lei, io ho risposto, e hanno scelto me per questo lavoro… se lei approverà, naturalmente. Vale a dire, sono in prova per un mese.

— Magnifico, — esclamai. Ma era troppo inadeguato. Cominciai a ricamarci su: — Splendido…

Udii qualcuno schiarirsi la gola. Mi guardai intorno: c’era Reagan sulla soglia. Stavolta non uno scheletro azzurro o un mostro con due teste. Solo il semplice Reagan.

— È appena arrivata la risposta al suo telescritto, — annunciò. Attraversò la stanza e lasciò cadere il foglio di carta sulla scrivania. Ci buttai un’occhiata. Diceva: «D’accordo. 19 agosto». La mia momentanea, assurda speranza che non avessero accettato le mie dimissioni svanì come uno stormo d’uccelli in autunno. Erano stati pronti, precisi e succinti quanto me.

19 agosto… il prossimo arrivo dell’Ark. Certo non perdevano tempo — il mio o il loro. Quattro giorni!

Reagan aggiunse: — Pensavo che volesse vederlo subito, Phil.

— Già, — risposi. Lo guardai furioso. — Grazie. — Con una punta di dispetto, o magari assai più d’una punta, pensai, Be’, bello mio, non hanno affidato il lavoro a te, altrimenti la risposta l’avrebbe specificato. Manderanno un sostituto col prossimo viaggio dell’Ark.

Ma non lo dissi; la vernice di civiltà che mi rivestiva era troppo spessa. Invece, dissi: — Signorina Aksho, voglio presentarle… — Si guardarono e scoppiarono a ridere, ed io ricordai. Ma certo, Reagan e Winifred avevano fatto entrambi parte del mio corso di botanica, proprio come il fratello gemello di Winifred, Wilfrid. Solo che, naturalmente, nessuno chiamava mai i due gemelli testarossa Winifred e Wilfrid, bensì Winn e Will, per tutti gli intimi.

Reagan spiegò: — Ho incontrato Winn quando è scesa dall’Ark. Le ho spiegato come trovare il mio ufficio, visto che lei non era là a fare gli onori di casa.

— Grazie, — annuii. — Le sbarre di rinforzo sono arrivate?

— Immagino di sì. Hanno scaricato delle casse. Avevano una gran fretta di andarsene. E sono andati.

Grugnii.

Reagan disse ancora: — Be’, andrò a controllare il carico. Sono venuto soltanto a portarle la risposta. Ho pensato che volesse subito la buona notizia.

Uscì, ed io lo seguii con uno sguardo furente. Quello schifoso! Quel…

Winifred disse: — Devo cominciar subito a lavorare, signor Rand?

In qualche modo sciolsi i muscoli irrigiditi e riuscii a sorridere. — Certo che no, — replicai. — Prima vorrà dare un’occhiata al posto. Ammiri il paesaggio e si adegui al clima. Vuole che l’accompagni al villaggio a bere qualcosa?

— Certo.

C’incamminammo lungo il sentiero verso il gruppetto d’edifici, tutte casette a un piano, quadrate.

La ragazza disse: — È… è bello. Mi sembra di camminare su una nuvola, mi sento così leggera. Qual è esattamente la gravità, qui?

— Zero virgola settantaquattro, — l’informai. — Se pesa… uhm… cinquantacinque chilogrammi sulla Terra, qui ne peserà soltanto quaranta. E senz’altro le stanno benissimo.

Rise. — Grazie, professore… oh, no, lei non è più professore, adesso. È il mio principale. Devo chiamarla signor Rand.

— A meno che non sia disposta a chiamarmi Phil, Winifred.

— Se lei mi chiamerà Winn. Detesto Winifred, quasi quanto Will odia Wilfrid.

— Come sta Will?

— Bene. È assistente al Politecnico, ma non gli piace molto star lì, fra gli studenti. — La ragazza fissò il villaggio davanti a loro. — Perché tanti piccoli edifici, invece di pochi e grandi?

— Perché la vita media d’una struttura qualunque su Placet è all’incirca di tre settimane. E non si sa mai quando sta per crollare… con qualcuno dentro. È il nostro problema più grosso. Tutto quello che possiamo fare è costruire tutto piccolo e leggero, salvo per le fondamenta, che facciamo quanto più robuste possibili. Finora nessuno è rimasto ferito gravemente nel crollo d’un edificio, proprio per queste precauzioni, ma… ha sentito?

— La vibrazione? Cos’era? Un terremoto?

— No, — spiegai. — Uno stormo di uccelli.

— Cosa?

Fui costretto a ridere nel vedere la faccia che aveva fatto. Dissi: — Placet è una gabbia di matti. Un minuto fa mi ha detto che le sembrava di camminare sulle nuvole. Be’, in un certo senso è ciò che sta facendo. Placet è uno di quei rari oggetti nell’universo composto sia da materia normale che da materia pesante. Materia con una struttura atomica collassata, così pesante che non riuscirebbe a sollevarne neppure un sassolino. Placet ha un nucleo composto da quel tipo di materia; è per questo che un pianeta così minuscolo, con una superficie neppure il doppio dell’isola di Manhattan, ha una gravità che raggiunge i tre quarti di quella terrestre. C’è vita — vita animale, non intelligente — che vive sulla superficie del nucleo. Ci sono uccelli, la cui struttura atomica è simile a quella del nucleo del pianeta, così densa che, per loro, la materia normale è tenue come lo è per noi l’aria. Ci volano attraverso, come gli uccelli della Terra volano attraverso l’aria. Dal loro punto di vista, noi camminiamo sopra l’atmosfera di Placet.

— Ed è la vibrazione prodotta dal loro volo sotto la superficie che fa crollare le case?

— Sì… ma fanno anche peggio. Volano dritti attraverso le fondamenta, qualunque sia il materiale con cui le costruiamo. Qualunque sostanza con cui noi lavoriamo per loro è soltanto gas. Volano attraverso il ferro o l’acciaio con la stessa facilità con cui volano attraverso la sabbia o l’argilla. Ho appena ricevuto dalla Terra un carico di roba particolarmente compatta e dura — quella speciale lega d’acciaio di cui mi ha sentito chiedere a Reagan — ma non spero che servirà a molto.

— Ma quegli uccelli non sono pericolosi? Voglio dire, oltre a far crollare gli edifici. Qualcuno di essi non potrebbe prendere abbastanza slancio da schizzar fuori dal suolo, penetrando nell’aria per un tratto? E non trapasserebbe da parte a parte chiunque si trovi sulla sua traiettoria?

— Potrebbe, — annuii, — ma non accade. Voglio dire, magari sfiorano la superficie, dal di sotto, a pochi centimetri. Ma qualche senso sembra avvertirli quando si avvicinano al tetto della loro “atmosfera”. Qualcosa di analogo alle onde supersoniche usate dai pipistrelli. Lei sa, naturalmente, in che modo un pipistrello riesce a volare nella più completa oscurità senza mai sbattere contro un oggetto solido.

— Sì, come il radar.

— Appunto, come il radar. Salvo il fatto che il pipistrello usa onde sonore invece che onde radio. E questi uccelli sotterranei devono usare qualcosa che funziona sullo stesso principio, ma all’incontrano. Qualcosa che li fa tornare indietro non appena si avvicinano a pochi centimetri da quello che per loro sarebbe l’equivalente del vuoto. Essendo fatti di materia pesantissima, non potrebbero volare, o comunque sopravvivere, nell’aria, non più di quanto un uccello terrestre potrebbe volare o sopravvivere nel vuoto.

Mentre stavamo sorseggiando un cocktail, Winifred accennò di nuovo a suo fratello. Disse: — A Will non piace affatto insegnare, Phil. C’è qualche possibilità che lei possa fargli avere un lavoro qui su Placet?

Replicai: — Ho tempestato il Centro Terrestre perché mi mandassero un altro assistente amministrativo. Il lavoro è aumentato da morire, da quando abbiamo messo a coltivazione dell’altra superficie. Reagan ha davvero bisogno di aiuto. Io…

Il volto di Winifred irradiava tutto una luce speranzosa. Ed io ricordai. Per me era finita. Mi ero licenziato, e il Centro Terrestre, d’ora in poi, avrebbe prestato ad ogni mia raccomandazione la stessa garbata sollecitudine che avrebbero riservato a uno di quegli uccelli sotterranei di Placet. Conclusi, con voce incerta: — Vedrò… vedrò se posso fare qualcosa.

Lei disse: — Grazie, Phil. — Tenevo la mano sul tavolo, accanto al bicchiere, e lei per un attimo vi appoggiò sopra la sua. D’accordo, sarà una vecchia e stantia metafora, ma fu come se una corrente ad alto voltaggio mi avesse trapassato. E fu una scossa mentale, oltre che fisica, poiché mi resi conto, là per là, di esser cotto di lei. Ero crollato peggio di quanto avesse mai fatto un qualunque altro edificio di Placet. Il tonfo mi lasciò senza fiato. Non stavo guardando il volto di Winifred, ma dal modo in cui aveva premuto la sua mano sulla mia per un millisecondo, per poi staccarla di scatto come da una fiamma, anche lei doveva aver sentito un po’ di quella corrente.

Mi alzai un po’ scosso e suggerii che tornassimo a piedi al quartier generale.

Sì, riflettei amaramente, rivoltando la lama nella piaga, mi ero proprio cacciato in una situazione impossibile. Adesso che il Centro aveva accettato le mie dimissioni, ero privo di un qualunque sostegno, visibile o invisibile. In un momento di aberrazione mentale, mi ero conciato per le feste tutto da solo. Non ero neppure sicuro che sarei riuscito a ottenere di nuovo un posto d’insegnante. Il Centro Terrestre è una delle più potenti organizzazioni dell’universo, e ha un dito, per così dire, in ogni torta. Se mi avessero messo sulla lista nera…

Lungo la via del ritorno lasciai che Winifred parlasse per la maggior parte del tempo; avevo fin troppe cose a cui pensare. Volevo dirle la verità… e non volevo.

Fra una risposta a monosillabi e l’altra, dibattei la cosa tra me. E alla fine persi. O vinsi. Non gliel’avrei detto… fino al prossimo arrivo dell’Ark. Avrei finto che tutto fosse normale e andasse alla perfezione, per quel periodo, così avrei potuto accertare se Winifred si stava innamorando di me. Quest’opportunità, almeno, me la sarei concessa. Una possibilità di quattro giorni.

E poi… be’, se per allora avesse finito per provare nei miei confronti ciò che io provavo per lei, le avrei detto quant’ero stato sciocco, e quanto mi sarebbe piaciuto se lei… No, non le avrei consentito di ritornare sulla Terra con me, neppure se lei l’avesse voluto, fino a quando non avessi scorto un po’ di luce nel mio futuro nebuloso. Tutto quello che potevo dirle era che, se e quando avessi avuto l’occasione di risalire la china fino a riavere un lavoro decente… e dopotutto avevo soltanto trentun anni, e forse sarei riuscito a…

Quel tipo di cose, insomma.


Reagan mi stava aspettando nel mio ufficio, infuriato come un calabrone fradicio. Sbottò: — Quegli imbranati del Reparto Spedizioni al Centro Terrestre hanno mandato tutto a monte un’altra volta. Quelle casse con l’acciaio speciale… non lo sono.

— Non sono cosa?

— Non sono niente. Sono vuote. Qualcosa è andato storto con l’imballatrice, e non se ne sono accorti.

— Sei sicuro che quelle casse dovessero contenere proprio l’acciaio speciale?

— Sicuro che sono sicuro. Tutto il resto che c’era sull’ordine è arrivato, e la bolla di carico specificava proprio l’acciaio per quelle casse. — Si passò la mano tra i capelli arruffati. Lo facevano sembrare un terrier più del solito. Lo fissai sogghignando: — Forse è acciaio invisibile.

— Invisibile, senza peso e intangibile. Posso compilare io il messaggio per dirlo al Centro?

— Fagli pure vedere i sorci verdi, — replicai. — Però, aspetta un minuto. Faccio vedere a Winn dov’è il suo alloggio, poi vorrei parlarti un momento.

Condussi Winifred al miglior cubicolo da notte disponibile del gruppo intorno al quartier generale. Mi ringraziò di nuovo per averle promesso di cercare un lavoro per Will là sul pianeta, e tornai in ufficio col morale più sottoterra della tana d’un uccello scavatore.

— Sì, capo? — fece Reagan.

— A proposito di quel messaggio per la Terra, — gli dissi. — Voglio dire, quello che ho spedito stamattina. Non voglio che Winifred sappia niente.

Ridacchiò. — Vuol esser lei a dirglielo, eh? D’accordo. Terrò la bocca chiusa.

Commentai, con uno sforzo: — Forse sono stato sciocco a spedirlo.

— Uh? — esclamò. — Ma no. Io sono proprio contento che l’abbia spedito. Magnifica idea.

Uscì, ed io solo a prezzo d’un duro sforzo riuscii a non tirargli dietro qualcosa.


Il giorno seguente era un giovedì, sempre che il fatto abbia importanza. Lo ricordo perché fu il giorno in cui risolsi uno dei due maggiori problemi di Placet. Un momento piuttosto ironico per farlo, forse.

Stavo dettando degli appunti su certe colture indigene… Placet è importante per la Terra perché certe sue piante native, che non crescono in nessun altro luogo, producono sostanze assai importanti per la nostra farmacopea. I concetti continuavano a scivolarmi via dalla testa perché stavo osservando Winifred che prendeva appunti; aveva insistito per cominciare a lavorare già al suo secondo giorno su Placet.

E, d’un tratto, da un cielo sereno e una niente stracotta, ecco balzarmi fuori un’idea. Smisi di dettare e suonai per chiamare Reagan. Entrò.

— Reagan, — dissi, — ordina cinquemila fiale di quel condizionatore… il J-17. Digli che facciano una spedizione espresso.

— Capo, non ricorda? Abbiamo già provato quella roba. Pensavamo che potesse condizionarci a veder tutto normale anche dentro il Campo Blakeslee… ma non aveva nessun effetto sui nervi ottici. Continuavamo a vedere tutte quelle balordaggini. Va benissimo per condizionare la gente alle alte o alle basse temperature, oppure a…

— A periodi di sonno e di veglia più lunghi o più corti, — completai. — È di questo che sto parlando, Reagan. Senti, Placet, poiché ruota intorno a due soli, ha dei periodi irregolari di buio e di luce così brevi che noi non li abbiamo mai presi seriamente. Giusto?

— Certo. Ma…

— Ma dal momento che su Placet non esistono un giorno e una notte logici che noi possiamo usare, ci siamo resi schiavi di un sole così lontano che da qui non possiamo neppure vederlo. Noi usiamo un giorno di ventiquattro ore. Ma il periodo del Campo si manifesta regolarmente ogni venti ore. Possiamo usare il condizionatore per adattarci a un giorno di venti ore: otto ore di sonno e dodici svegli, con tutti pacificamente addormentati durante il periodo in cui i nostri occhi ci fanno tutti quegli scherzi. E in una stanza da letto buia così da non veder niente, neppure se ci si dovesse svegliare. Più giorni in un anno, e più brevi… e nessuno diventa più psicopatico. Dimmi cosa c’è di sbagliato in quest’idea.

Sgrana gli occhi, poi il suo sguardo diventa vacuo e si dà una gran botta in testa col palmo della mano.

— Troppo semplice, — dice, — ecco il guaio. Così maledettamente semplice che soltanto un genio poteva pensarci. Per due anni sono scivolato lentamente nella pazzia, e la risposta era così facile che nessuno riusciva a vederla. Spedirò subito l’ordine.

Fece per uscire, poi tornò a voltarsi: — E come facciamo a tener su gli edifici? Presto, finché ha ancora quelle sue facoltà divinatorie!

Scoppiai a ridere. — Perché non provi con quell’acciaio invisibile nelle casse vuote?

— Al diavolo, — esclamò, e sbatté la porta.

Il giorno dopo era mercoledì. Piantai il lavoro e accompagnai Winifred in una passeggiata turistica intorno a Placet. Un giro completo è una bella passeggiata d’un giorno intero. Ma con Winifred Aksho qualunque gita d’un giorno avrebbe significato uno splendido giorno per una gita. Salvo, naturalmente, il fatto che io sapevo che mi restava soltanto un giorno intero da passare con lei. Il mondo sarebbe finito venerdì.

Domani l’Ark avrebbe lasciato la Terra, con il carico di condizionatori che avrebbe risolto uno dei nostri più grossi problemi, e col tizio, chiunque fosse, che il Centro Terrestre avrebbe mandato a sostituirmi. Sarebbe giunta distorcendo lo spazio fino a un punto a distanza di sicurezza fuori dal sistema di Argyle I-II e da lì avrebbe compiuto l’ultimo balzo coi razzi. Venerdì sarebbe stata da noi, ed io sarei ripartito con essa. Ma mi sforzai di non pensarci.

Mi riuscì benissimo di dimenticarlo finché non fummo di ritorno al quartier generale e Reagan mi venne incontro con un sogghigno così largo che gli spaccava quel suo muso da vecchia ciabatta in due metà. Esclamò: — Capo, c’è riuscito!

— Magnifico, — risposi. — A far cosa?

— Mi ha dato la risposta su cosa usare per rinforzare le fondamenta. Ha risolto il problema.

— Sì? — dissi.

— Sì. Non è vero, Winn?

Winifred pareva perplessa quanto me. — Stava scherzando, — disse. — Ha detto di usare la roba delle casse vuote, no?

Reagan tornò a sogghignare: — Credeva di scherzare. Ma è proprio questo che useremo d’ora in poi. Niente. Senta, capo, è come la faccenda del condizionatore… cosi semplice che non ci avevamo mai pensato. Fino al momento in cui mi ha detto di usare quello che c’era nelle casse vuote, e io ci ho pensato su.

Restai lì a bocca aperta, a pensarci un attimo anch’io, e poi feci lo stesso gesto di Reagan, il giorno prima — mi diedi una pacca sulla fronte col palmo della mano.

Winifred era ancora perplessa.

— Le fondamenta vuote, — le dissi. — C’è una cosa attraverso la quale quei maledetti uccelli non volerebbero mai… è l’aria. Adesso, finalmente, potremo costruire degli edifici grandi quanto ci servono. Affonderemo nel terreno, come fondamenta, dei muri doppi, con un ampio spazio pieno d’aria in mezzo. Potremo…

M’interruppi; non era più il caso di adoperare il — noi. — L’avrebbero fatto loro, dopo che io fossi ripartito per la Terra alla ricerca d’un nuovo lavoro.

Passò giovedì e arrivò venerdì.

Avevo lavorato fino all’ultimo, perché era la cosa più semplice da fare. Con l’aiuto di Reagan e Winifred stavo completando gli elenchi dei materiali per i nostri nuovi progetti costruttivi. Per prima cosa, un edificio di tre piani con quaranta stanze come nuovo quartier generale.

Lavoravamo in fretta, poiché mancava poco al periodo del Campo, e non si possono fare lavori burocratici quando non si può né leggere, né scrivere, ma soltanto udire e toccare.

Ma la mia mente ormai era fissa sull’Ark. Presi su il telefono e chiamai la saletta della telescrivente per chiedere notizie.

— Ci hanno appena chiamato, — m’informò l’operatore. — Sono usciti dalla distorsione, ma non sono abbastanza vicini per atterrare prima del periodo del Campo. Atterreranno subito dopo.

— D’accordo, — risposi, abbandonando ogni speranza che potessero arrivare con un giorno di ritardo.

Mi alzai in piedi e mi avvicinai alla finestra. Ci stavamo proprio avvicinando al punto di mezzo tra le due stelle. Su nel cielo, verso nord, potevo vedere Placet che stava piombandoci addosso.

— Winn, — gridai. — Vieni qui.

Lei mi raggiunse alla finestra e restammo lì a guardare. L’avevo cinta con un braccio. Non ricordavo d’avercelo messo, ma non lo tolsi e lei non si scostò.

Dietro di noi Reagan si schiarì la gola. Disse: — Darò intanto questa parte della lista all’operatore. Potrà trasmetterla subito dopo il periodo del Campo. — Uscì e si chiuse la porta alle spalle.

Winifred parve accostarsi un po’ di più a me. Stavamo entrambi guardando Placet che si precipitava verso di noi. Winifred disse: — È bello, non è vero, Phil?

— Sì, — dissi. Mi voltai, dicendolo, e la guardai in viso. Poi — non avevo avuto intenzione di farlo — la baciai.

Tornai indietro e mi sedetti di nuovo alla scrivania. Winifred disse: — Phil, cosa c’è? Non avrai mica una moglie e sei figli nascosti da qualche parte, o qualcosa di simile, non è vero? Eri scapolo, quando mi son presa una cotta per te al Politecnico… ho aspettato cinque anni per superarla, ma non ci sono riuscita, e adesso che ho potuto finalmente procurarmi questo lavoro su Placet, così da esser… insomma, devo essere io a farti la dichiarazione?

Cacciai un gemito, evitando di guardarla. Esclamai: — Winn, sono pazzo di te. Ma… proprio prima che tu arrivassi, ho mandato un telex di due parole alla Terra. Diceva: “Vi lascio”. Perciò, appunto, devo lasciare Placet con questa nave-traghetto dell’Ark, e dubito che riuscirò mai a trovare un lavoro d’insegnante, adesso che mi sono messo contro il Centro Terrestre, e…

Lei disse: — Ma, Phil! — e fece un passo verso di me.

Qualcuno bussò alla porta. Era il modo di bussare di Reagan. Per una volta fui contento dell’interruzione. Gli gridai di entrare, e lui si affacciò:

— L’ha già detto a Winn, capo? — fece.

Annuii, tetro.

Reagan sogghignò. — Bene, — commentò. — Avevo una voglia matta di dirglielo io. Sarà magnifico vedere di nuovo Will.

— Uh? — sbottai. — Will chi?

Il sogghigno sparì dal volto di Reagan. Fece: — Phil, ha perso la memoria, o cosa? Non ricorda di avermi dato la risposta a quel messaggio del Centro Terrestre, quattro giorni fa, poco prima che arrivasse Winn?

Lo fissai a bocca aperta. Non l’avevo neppure letto quel messaggio, per cui, come avrei fatto a rispondergli? Reagan era diventato del tutto pazzo, oppure lo ero diventato io… Ricordavo di averlo ficcato nel cassetto della scrivania. Aprii di scatto il cassetto e lo tirai fuori. La mano mi tremava un po’ mentre leggevo: approvata richiesta per altro assistente. chi vuole per il lavoro?

Alzai gli occhi su Reagan, e chiesi: — Stai cercando di dirmi che ho risposto a questo?

Mi fissò con un’espressione sconcertata almeno quanto la mia.

— Me l’ha detto lei, — balbettò.

— Cosa ti ho detto di trasmettere?

— Will Aksho[1]. — Mi squadrò dalla testa ai piedi. — Capo, si sente bene?

Mi sentivo talmente bene che qualcosa parve esplodermi in testa. Balzai in piedi e feci un passo verso Winifred. Farfugliai: — Vuoi sposarmi? — La presi fra le braccia, proprio un istante prima che il periodo del Campo Blakeslee si chiudesse su di noi, cosicché non potei vedere a che cosa somigliasse adesso, e viceversa lei non poté vedere me. Ma da sopra la sua spalla vedevo benissimo ciò che sembrava essere diventato Reagan. Gli intimai: — Vattene da qui, scimmione, — e l’avevo descritto alla lettera, perché adesso sembrava proprio quello, uno scimmione color giallo vivo.

Il suolo tremava sotto i miei piedi, ma stavano succedendo anche altre cose, e non mi resi conto di cosa significassero quelle violente scosse fino a quando lo scimmione non si girò di scatto, urlando: — Uno stormo di uccelli sotto di noi, capo! Uscite in fretta prima che…

Ma non riuscì a dire nient’altro, poiché in quel preciso istante l’edificio ci crollò completamente addosso, e il tetto mi picchiò sulla testa, stordendomi. Placet è una gabbia di matti… ma mi piace così.

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