Era tardo pomeriggio, e il cielo senza nubi stava passando dal blu reale a un violetto intenso, con una spruzzatala di rosso-arancio e giallo-verde a ovest, sopra Kensington, dove, dal punto di vista di Old Bailey, il sole era appena tramontato.
Cieli. Mai due uguali. Né di giorno né di notte. Era un esperto di cieli, Old Bailey, e questo era proprio un bel cielo.
Old Bailey aveva piantato la tenda per la notte su un tetto di fronte alla cattedrale di St Paul, nel centro della City di Londra. Era affezionato a St Paul, e almeno lei era cambiata poco negli ultimi trecento anni. Era stata costruita in pietra Portland bianca, che era lentamente diventata nera a causa della fuliggine e della sporcizia nella fumosa aria londinese, ma adesso era stata ripulita ed era ritornata bianca. Comunque, era sempre St Paul.
Non era certo che si potesse dire altrettanto del resto della City: scrutò oltre i tetti, fissando lo sguardo lontano dal suo amato cielo, giù sul marciapiede illuminato al sodio. Poteva scorgere telecamere di sicurezza affisse a un muro, qualche auto, un impiegato che aveva lavorato fino a tardi e ora chiudeva una porta e si dirigeva verso la metropolitana.
Brrr. Il solo pensiero di scendere sottoterra gli metteva i brividi. Era un uomo dei tetti, e orgoglioso di esserlo; aveva abbandonato il mondo a livello del terreno tanto tempo prima…
Old Bailey si ricordava di quando la gente viveva nella City, invece di lavorarci soltanto; viveva, amava e rideva, costruiva case una appoggiata all’altra, ogni casa piena di persone. In effetti, il rumore, la confusione, la puzza e le canzoni dal viale là in fondo (allora noto come Shitten Alley, il viale merdoso) erano diventati leggendari a quel tempo.
Adesso nella City non abitava più nessuno. Era una zona fredda e squallida, piena di uffici e di persone che ci lavoravano di giorno per tornarsene a casa da un’altra parte la sera. Non era più un luogo dove vivere. Gli mancava persino la puzza.
L’ultimo sprazzo di sole arancione stava svanendo nel porpora della sera.
Copri le gabbie, in modo che gli uccelli si facessero un sonnellino. Questi brontolarono, poi si misero a dormire.
Old Bailey si grattò il naso, dopo di che entrò nella tenda a prendere un vecchio tegame per stufato, tutto annerito, dell’acqua, patate, carote, sale e un paio di storni morti e spennati.
Usci di nuovo all’aperto, accese un fuocherello in una latta da caffè nera di fuliggine ed era sul punto di mettere a cuocere lo stufato quando si accorse che qualcuno, nell’ombra accanto a un gruppo di camini, lo stava osservando.
Brandì il forchettone da barbecue e lo agitò con aria minacciosa verso i camini. «Chi è là?»
Il Marchese de Carabas usci dall’ombra, accennò un inchino e fece uno splendido sorriso. Old Bailey abbassò il forchettone. «Oh,» disse «sei tu. Be’, cosa vuoi? Notizie? O uccelli?»
Il Marchese si avvicinò, prese una rondella di carota cruda dallo stufato di Old Bailey e si mise a sgranocchiarla. «Informazioni, in realtà.»
Old Bailey ridacchiò esultante. «Ah ah! C’è un colpo di scena! Eh?» Quindi si chinò verso il Marchese. «Cosa offri in cambio?»
«Cosa ti serve?»
«Forse dovrei fare come te. Dovrei chiedere un favore, un giorno. Un investimento» ghignò Old Bailey.
«Troppo costoso, a lungo termine» disse il Marchese senza traccia di ironia.
Old Bailey annui. Il sole era calato, e cominciava a fare freddo, molto freddo e molto in fretta.
«Scarpe, allora. E una balalaica.» Diede una controllatina ai guanti senza dita: c’erano più buchi che guanto. «E guanti nuovi. Ci aspetta un inverno bastardo.»
«Molto bene. Te li porterò.» Il Marchese de Carabas infilò la mano in una tasca interna e, come un prestigiatore fa apparire una rosa dal nulla, fece apparire la statuirla nera rappresentante un animale che aveva preso nello studio di Portico. «Ora, cosa mi puoi dire di questa?»
Old Bailey inforcò gli occhiali e prese l’oggetto dalle mani di de Carabas. Era freddo al tatto. Si sedette su un condotto dell’aria condizionata, quindi dopo avere rigirato in mano la statuetta di ossidiana più e più volte, dichiarò: «È la Grande Bestia di Londra.»
Il Marchese non disse nulla, gli occhi impazienti che correvano dalla statuina a Old Bailey, il quale, godendo del piccolo momento di disagio del Marchese, continuò. «Dunque, dicono che prima dell’incendio e della peste, un macellaio che viveva accanto al fossato di Fleet Street tenesse all’ingrasso una qualche povera creatura per Natale. (Qualcuno dice che era un maialino, altri dicono di no, altri non sono nemmeno sicuri che avesse un animale). Una notte la bestia scappò, corse verso il fossato e scomparve nelle fogne. E nelle fogne si è nutrita, ed è cresciuta, cresciuta sempre di più, diventando inoltre sempre più malvagia e pericolosa. Hanno anche mandato delle squadre di cacciatori a cercarla, di tanto in tanto.»
«Deve essere morta trecento anni fa.»
Old Bailey scosse il capo. «Cose come quella, sono troppo feroci per morire. Troppo vecchie, grandi e pericolose.»
Il Marchese sospirò. «Pensavo fosse solo una leggenda» disse. «Come quella degli alligatori nelle fogne di New York.»
Old Bailey annui, come uno che sa: «Cosa, quei grossi predoni bianchi? Ci sono eccome! Avevo un amico che ci ha perso una testa con uno di loro.» Un momento di silenzio. Old Bailey restituì la statuetta al Marchese. Poi alzò la mano e la fece scattare verso de Carabas come fossero fauci di coccodrillo. «Nessun problema,» grugnì Old Bailey «ne aveva un’altra.»
Il Marchese fece sparire la statua della Bestia nel soprabito.
«Aspetta» disse Old Bailey.
Entrò nella tenda marrone e ne usci con in mano la scatola d’argento che il Marchese gli aveva dato l’ultima volta che si erano visti. «E di questa che si fa?» chiese. «Sei pronto a riprendertela? Mi fa venire i brividi e mi si accappona la pelle ad averla intorno.»
Il Marchese era andato verso il limitare del tetto e aveva saltato i due metri e mezzo che lo separavano dall’edificio vicino. «Me la riprenderò quando sarà tutto finito» gridò. «Speriamo che tu non debba usarla.»
Old Bailey si sporse. «Come farò a sapere se devo usarla?»
«Lo saprai» strillò il Marchese. «E i ratti ti diranno come fare.» E con questo era già al di là dell’edificio e scivolava lungo la facciata usando tubi di scarico e cornicioni come appigli.
«Spero di non scoprirlo mai, è tutto quello che posso dire» disse tra sé Old Bailey. Poi un pensiero lo colpi. «Ehi!» urlò alla notte e alla City. «Non ti dimenticare le scarpe e i guanti!»
I cartelli pubblicitari decantavano la magnesia effervescente, gite al mare per due scellini, aringhe affumicate e lustrascarpe. Erano relitti anneriti della fine degli anni Venti o dell’inizio dei Trenta.
Sembrava regnare un totale abbandono: un luogo dimenticato. «È la stazione del British Museum» ammise Richard. «Ma… ma non c’è mai stata una stazione del British Museum. È tutto sbagliato.»
«È stata chiusa all’incirca nel 1933, e poi venne isolata» spiegò Porta.
«Che cosa strana» commentò Richard. Era come passeggiare attraverso la storia. Poteva udire i treni echeggiare nei tunnel vicini, sentiva un soffio d’aria al loro passaggio. «Ce ne sono molte di stazioni come questa?»
«Più o meno cinquanta» disse Hunter. «Ma non tutte sono accessibili. Nemmeno a noi.»
Nell’ombra al margine della banchina ci fu un movimento.
«Salve» disse Porta. «Come stai?» Si accucciò a terra. Un ratto marrone uscì alla luce e le annusò la mano.
«Grazie» disse allegramente la ragazza. «Anch’io sono felice che neppure tu sia morta.»
Richard si avvicinò. «Hmm, Porta, potresti dire al ratto qualcosa per me?»
Il ratto voltò la testa verso di lui.
«La signorina Baffetti dice che se hai qualcosa da dirle, puoi farlo tu direttamente» disse Porta.
«La signorina Baffetti?»
Porta fece spallucce. «È una traduzione letterale. In rattese suona molto meglio.»
Richard non ne dubitava affatto. «Hmm, salve… signorina Baffetti… Senta, c’era una dei vostri parla-coi-ratti, una ragazza di nome Anestesia. Mi stava accompagnando al mercato. Stavamo attraversando quel ponte nel buio e lei semplicemente non è mai arrivata dall’altra parte.»
Il ratto lo interuppe con un acuto squiik. Porta iniziò a parlare, un po’ esitante, come un traduttore simultaneo. «Dice… che i ratti non danno a te la colpa della perdita. La tua guida è stata… hmm… presa dalla notte come tributo.»
«Ma…»
Il ratto squittì di nuovo. «A volte ritornano…» disse Porta. «Lei ha preso nota del tuo interessamento… e te ne ringrazia.»
Il ratto fece a Richard un cenno con la testa, socchiuse gli occhietti neri e lucidi, quindi saltò sul pavimento e si affrettò a tornare nell’ombra.
«Ratto simpatico» commentò Porta. Il suo umore pareva essere notevolmente migliorato da quando aveva la pergamena. «Su di là» disse, indicando un passaggio a volta completamente bloccato da una porta di ferro.
Giunti li, Richard si mise a spingere contro la lastra di metallo. Era sprangata dall’esterno.
«Sembra sia stata sigillata» disse Richard. «Ci servono degli attrezzi speciali.»
Porta sorrise, all’improvviso, e il suo viso parve illuminarsi. Per un attimo, il volto da folletto divenne bellissimo. «Richard,» disse «nella mia famiglia… Siamo apritori. È il nostro talento. Guarda…» Allungò una mano sudicia e toccò la porta. Per un lungo istante non accadde nulla, poi si udi un gran fracasso dall’altro lato, e un clunk dal loro. Porta spinse il portone che, con un poderoso stridore dei cardini arrugginiti, si apri.
Porta alzò il colletto della giacca di pelle e si ficcò le mani in tasca: Hunter illuminò con la torcia l’oscurità al di là del portone: una rampa di scale di pietra che saliva, nel buio.
«Hunter, puoi restare in retroguardia?» domandò Porta. «Vado avanti io e Richard può stare nel mezzo.»
Salì un paio di gradini. Hunter rimase dov’era. «Signora?» chiese. «Stai andando a Londra Sopra?»
«Proprio cosi» rispose Porta. «Andiamo al British Museum.»
Hunter si mordicchiò il labbro inferiore. Poi scosse il capo. «Io devo rimanere a Londra Sotto» disse, con un tremolio nella voce.
Richard notò che per la prima volta vedeva Hunter manifestare un’emozione che non fosse spontanea competenza o, occasionalmente, indulgente divertimento.
«Hunter,» disse Porta «sei la mia guardia del corpo.»
Hunter pareva a disagio. «Sono la tua guardia del corpo a Londra Sotto» rispose. «Non posso venire con voi a Londra Sopra.»
«Ma devi!»
«Mia signora, non posso. Pensavo avessi capito. Il Marchese lo sa.»
Hunter si prenderà cura di te finché sei a Londra Sotto, ricordò Richard. Già.
«No» disse Porta, il mento appuntito sollevato e all’infuori, gli occhi dallo strano colore stretti a fessura. «Non capisco. Cos’è?» aggiunse sprezzante. «Una maledizione o qualcosa del genere?»
Hunter esitava, si inumidì le labbra, poi annui. Era come se stesse ammettendo di avere una malattia socialmente imbarazzante.
«Senti, Hunter,» Richard udì la propria voce dire, «non essere sciocca.»
Per un attimo pensò che l’avrebbe colpito, e sarebbe stata un brutta cosa, o persino che si sarebbe messa a piangere, e sarebbe stato molto, molto peggio. Invece, fece un respiro profondo e disse, con tono misurato: «Camminerò al tuo fianco mentre sarai a Londra Sotto, e guarderò il tuo corpo da qualunque male possa accaderti. Ma non mi chiedere di seguirti a Londra Sopra. Non posso.»
Incrociò le braccia sul petto, si mise a gambe leggermente divaricate e, per l’inferno, aveva proprio l’aspetto della statua di una donna che non andava da nessuna parte, realizzata in ottone, bronzo e zucchero caramellato.
«D’accordo» disse Porta. «Andiamo, Richard.» E iniziò a salire i gradini.
«Senti,» disse Richard «perché non restiamo qui sotto? Possiamo trovare il Marchese e andare tutti insieme, e…» Porta stava sparendo nell’oscurità sopra di lui. Hunter era piantata in fondo alle scale.
«Aspetterò qui finché torna» gli disse. «Tu puoi andare o rimanere, come vuoi.»
Richard si mise all’inseguimento su per le scale, più in fretta che poteva, al buio. Ben presto scorse la luce della lampada di Porta. «Aspetta!» ansimò. «Per favore!»
La ragazza si fermò ad aspettarlo, poi quando l’ebbe raggiunta e si trovava accanto a lei su un pianerottolo claustrofobicamente piccolo, attese che riprendesse fiato.
«Non puoi semplicemente scappar via cosi» disse Richard.
Porta, invece, non disse nulla; la linea delle sue labbra era diventata leggermente più stretta, il mento sempre leggermente sollevato.
«È la tua guardia del corpo!» disse Richard.
Porta cominciò a salire la successiva rampa di scale e Richard la segui. «Be’, saremo di ritorno abbastanza presto» ribadi la ragazza. «Allora potrà ricominciare a proteggermi.»
L’aria era pesante, opprimente e umida. Richard si chiese come è possibile stabilire se l’aria è malsana in assenza di un canarino, e si accontentò di sperare che non lo fosse. «Penso sia probabile che il Marchese lo sapesse. Della maledizione o quello che è» disse.
«Si» concordò lei. «Immagino che lo sapesse.»
«Lui…» cominciò Richard. «Il Marchese. Be’, insomma, a essere sincero mi pare un pochino evasivo.»
Porta si fermò. Gli scalini terminavano contro un rozzo muro di mattoni. «Hmm. Dire che è un pochino evasivo è come affermare che i ratti sono impercettibilmente coperti di peluria.»
«E allora perché ti sei rivolta a lui? Non potevi mandarmi a cercare qualcun altro perché ti aiutasse?»
«Ne parleremo poi.» Srotolò la pergamena che le aveva dato il Conte, diede un’occhiata alla grafia arcaica, quindi la arrotolò di nuovo. «Non avremo problemi» affermò in tono conclusivo. «È tutto qui. Dobbiamo solo entrare al British Museum. Troviamo l’Angelus e usciamo. Facile. Una bazzecola. Non c’è da preoccuparsi. Chiudi gli occhi.»
Obbediente, Richard chiuse gli occhi.
«Non c’è da preoccuparsi» ripeté lui. «Quando lo dicono nei film significa sempre che sta per succedere qualcosa di terribile.»
Senti una leggera brezza sul viso. Era cambiato qualcosa nella qualità del buio oltre le sue palpebre chiuse.
«Allora, qual’è la tua opinione?» chiese Porta. Anche l’acustica era cambiata: si trovavano in una stanza più grande. «Puoi aprire gli occhi, adesso.»
Aprì gli occhi. Erano dall’altra parte del muro, in quello che a prima vista sembrava lo sgabuzzino di un rigattiere. Ma non si trattava di normali cose vecchie: c’era un che di strano e di speciale nella qualità degli oggetti sparsi. Era il genere di cianfrusaglie rare, magnifiche, strane e costose che ci si aspetta di trovare in un posto come…
«Siamo nel British Museum?» chiese.
La ragazza aggrottò le sopracciglia, meditabonda, o forse in ascolto. «Non esattamente. Siamo molto vicini. Penso che questo sia una specie di deposito o di magazzino. Qualcosa del genere.»
Allungò la mano per toccare la stoffa di un abito antico indossato da un manichino di cera.
«Vorrei che fossimo rimasti con la guardia del corpo» disse Richard.
Porta piegò la testa da un lato e lo guardò seria. «E tu da cosa devi essere protetto, Richard Mayhew?»
«Da niente» ammise. Quindi svoltarono un angolo e disse, «Be’… forse da loro» e allo stesso tempo Porta esclamò «Merda!»
Il motivo per cui Richard aveva detto «Forse da loro» e Porta aveva esclamato «Merda!» era il seguente: mister Croup e mister Vandemar se ne stavano in piedi su dei plinti ai lati del corridoio che stavano percorrendo. A Richard ricordarono orribilmente una mostra di arte moderna a cui una volta l’aveva portato Jessica: un affascinante giovane artista aveva allestito una mostra che prometteva di abbattere tutti i tabù dell’arte, e a questo scopo il suddetto artista aveva intrapreso una campagna sistematica di ruberie nelle tombe, per esporre quindi in contenitori di vetro i trenta reperti più interessanti dei suoi saccheggi.
La mostra venne chiusa dopo che «Cadavere trafugato numero 25» fu venduto a un’agenzia pubblicitaria per una somma a nove zeri, e che i parenti del Cadavere trafugato numero 25, vedendo una fotografia della scultura sul quotidiano Sun, citarono in giudizio artista e agenzia per avere una parte dei proventi e la possibilità di cambiare il titolo dell’opera d’arte in «Edgar Fospring, 1919-1987, marito, padre e zio affettuoso. Riposa in pace, papà.»
Richard aveva fissato con orrore i cadaveri rinchiusi nel vetro con i loro completi macchiati e i vestiti rovinati: si odiava perché stava guardando, eppure non riusciva a distogliere lo sguardo.
Mister Croup sorrise, come un serpente che tenta di inghiottire una falce di luna, cosa che aumentava ulteriormente la sua somiglianza con i Cadaveri trafugati dal numero 1 al numero 30. «Cosa?» disse il sorridente mister Croup. «Nessun signor Marchese ’So tutto e quanto sono intelligente’? Nessuna ’Oh, non te l’avevo detto? Accidenti! Non posso salire’ Hunter?» Fece una pausa, per ottenere un effetto drammatico. C’era qualcosa del prosciutto marcio in mister Croup. «Cospargetemi il capo di cenere e datemi del lupo cattivo se questi non sono due agnellini sperduti, tutti soli, fuori dopo il tramonto.»
«Può dare del lupo anche a me, mister Croup» disse mister Vandemar, servizievole.
Mister Croup scese dal suo plinto. «Una parolina gentile nelle vostre orecchiette confuse, piccoli agnellini» disse. Richard si guardò intorno. Doveva pur esserci un posto dove scappare. Allungò la mano e afferrò quella di Porta, continuando a cercare disperatamente con lo sguardo.
«No, vi prego. Restate dove siete» disse mister Croup. «Ci piacete cosi, e non vogliamo essere costretti a farvi del male.»
«Si che lo vogliamo» intervenne mister Vandemar.
«Be’, d’accordo, mister Vandemar, se vuole metterla in questi termini. Vogliamo fare del male a entrambi. Vogliamo farvi decisamente molto male. Ma non è per questo che siamo qui ora. Siamo qui per rendere le cose più interessanti. Vedete, quando le cose si fanno noiose, il mio socio e io diventiamo irrequieti e, per quanto possa risultarvi difficile crederlo, perdiamo il nostro carattere deliziosamente solare.»
Mister Vandemar mostrò i denti, a riprova del carattere deliziosamente solare. Era senza dubbio la cosa più orribile che Richard avesse mai visto.
«Lasciateci soli» disse Porta, con voce chiara e ferma.
Richard le strinse la mano. Se riusciva a essere cosi coraggiosa, poteva esserlo anche lui. «Se volete farle del male» annunciò «dovrete prima uccidere me.»
Mister Vandemar parve sinceramente compiaciuto all’idea. «Benissimo» disse. «Grazie.»
«E faremo del male anche a te» disse mister Croup.
«Non ancora, però» aggiunse mister Vandemar.
«Vedete,» spiegò mister Croup con una voce che pareva burro rancido, «in questo momento siamo qui solo per spaventare la ragazzina.»
La voce di mister Vandemar era un vento notturno che soffia su un deserto di ossa. «Farti soffrire» disse. «Rovinarti la giornata.»
Mister Croup si sedette alla base del plinto di mister Vandemar. «Siete andati in visita alla Corte del Conte, oggi» disse, in quello che Richard sospettava essere un tono lieve e familiare.
«E allora?» disse Porta. Si stava lentamente allontanando dai due.
Mister Croup sorrise. «Come facciamo a saperlo? Come sapevamo dove trovarti?»
«Ti possiamo prendere in qualunque momento» disse mister Vandemar, quasi in un sospiro.
«Sei stata venduta, piccola coccinella» disse mister Croup, rivolto solo e unicamente a Porta. «C’è un traditore nel tuo nido. Un cuculo.»
«Andiamo!» disse la ragazza. E si mise a correre.
Richard correva con lei, nella sala con le cianfrusaglie, verso una porta. Che al tocco di Porta si apri.
«Mandi loro un saluto, mister Vandemar» disse la voce di mister Croup, un po’ più lontana.
«Addio» disse mister Vandemar.
«No-no» corresse mister Croup. «Au revoir.»
E allora fece un suono — il cu-cù cu-cù che potrebbe fare un cuculo se fosse alto un metro e settanta e avesse una predilezione per la carne umana — mentre mister Vandemar, fedele alla propria natura, piegava all’indietro il testone e ululava come un lupo, spettrale, selvaggio e pazzo.
Erano fuori, all’aria aperta, nella notte, e correvano lungo un marciapiede. Richard cominciava a pensare che il cuore gli sarebbe schizzato dal petto per la violenza con cui batteva. Vennero superati da una grossa auto scura.
Il British Museum era al di là di un’alta cancellata dipinta di nero. Discrete luci nascoste illuminavano l’esterno del grande palazzo bianco, le colonne, i gradini e i muri.
Arrivarono a un cancello, che Porta afferrò con entrambe le mani, spingendo. Non accadde nulla.
«Non riesci ad aprirlo?» chiese Richard.
«Cosa ti sembra stia cercando di fare?» rispose seccamente la ragazza.
All’ingresso principale a qualche metro di distanza, stavano arrivando dei gran macchinoni da cui scendevano coppie eleganti che proseguivano a piedi verso il museo.
«Laggiù» disse Richard. «L’ingresso principale.»
Porta annui, poi si guardò alle spalle.
«Si direbbe che non ci stiano seguendo» disse. Si affrettarono verso il cancello aperto.
«Stai bene?» chiese Richard. «Cosa è successo?»
Porta quasi spari nella giacca di pelle. Era pallida e aveva dei semicerchi scuri sotto gli occhi.
«Sono stanca» disse con tono piatto. «Ho aperto troppe porte oggi. Consumo energia ogni volta e mi serve un po’ di tempo per recuperare. Qualcosa da mangiare e sono a posto.»
Al cancello c’era una guardia che esaminava minuziosamente gli inviti istoriati che ognuno degli uomini ben rasati e in smoking e delle signore profumate in abito da sera doveva presentare, per spuntarne i nomi sulla lista prima di farli entrare. Accanto a lui, un poliziotto in uniforme osservava inflessibile gli ospiti.
Richard e Porta attraversarono il cancello, e nessuno diede loro una seconda occhiata. Sui gradini di pietra che portano all’ingresso del museo si era formata una coda a cui si unirono anche Richard e Porta. Un uomo dai capelli bianchi accompagnato da una signora molto orgogliosa della pelliccia di visone che indossava, si mise ordinatamente in coda dietro di loro.
Un pensiero colpì Richard: «Possono vederci?» chiese.
Porta si rivolse al signore dietro di lei, lo fissò e disse «Salve.»
L’uomo si guardò attorno con un’espressione stupita sul volto, come non fosse certo di cosa avesse attirato la sua attenzione. Quindi si accorse di Porta che gli stava proprio di fronte. «Salve…?» disse.
«Sono Porta» si presentò la ragazza. «E questo è Richard.»
«Oh…» fece l’uomo. Poi si frugò in tasca, ne estrasse un sigaro e si dimenticò di loro.
«Ecco. Visto?» disse Porta.
«Penso di si» ribatté lui.
Per qualche tempo non dissero nulla, mentre la coda procedeva lentamente verso l’unico ingresso aperto del museo. Porta controllò lo scritto sulla pergamena, quasi a cercare rassicurazione. Quindi Richard chiese, «Un traditore?»
«Volevano solo farci innervosire» rispose Porta. «Cercavano di turbarci.»
«E hanno fatto un lavoro dannatamente buono, se è per questo» commentò Richard. Attraversarono la porta aperta ed eccoli nel British Museum.
Mister Vandemar era affamato, perciò tornarono indietro passando da Trafalgar Square.
«Spaventarla» mormorò mister Croup, disgustato. «Spaventarla. Come siamo ridotti.»
In un cestino dei rifiuti, mister Vandemar aveva trovato un mezzo panino alla lattuga e gamberetti e lo stava facendo diligentemente a pezzettini da lanciare sul selciato di fronte a sé per attirare un piccolo stormo di piccioni tiratardi.
«Dovevamo seguire la mia idea» disse mister Vandemar. «L’avremmo spaventata molto di più se gli avessi strappato la testa mentre lei non guardava. Poi gli facevo salire la mano su dalla gola e agitavo le dita all’interno. Strillano sempre» disse in confidenza «quando cadono le palle degli occhi.»
Fece una dimostrazione con la mano destra, conficcando le dita verso l’alto per poi agitarle con forza.
Mister Croup proprio non voleva sentirne parlare. «Perché diventare cosi schifiltoso a questo punto del gioco?» domandò.
«Non sono schifiltoso, mister Croup» ribadì mister Vandemar. «Mi piace tanto quando cadono le palle degli occhi. Prendere gli occhi e sbatacchiare.»
Alcuni piccioni grigi, in giro anche se era passata l’ora di andare a dormire, si avvicinarono tutti impettiti per beccare i frammenti di pane e gamberetti, disdegnando la lattuga.
«Non lei,» disse mister Croup «il principale. Uccidetela, rapitela, spaventatela. Perché non si decide?»
Mister Vandemar aveva terminato il panino, perciò balzò sul gruppo di piccioni, che fecero ricorso alle ali producendo dei suoni secchi e qualche occasionale e lamentoso cuu.
«Gran bella presa, mister Vandemar» disse mister Croup con aria di approvazione.
Mister Vandemar stringeva in mano un piccione stupito e sconvolto che brontolava e si dimenava per liberarsi, cercando senza successo di beccargli le dita.
Mister Croup sospirò, con tono drammatico. «Be’, comunque, non c’è dubbio che adesso abbiamo messo la volpe nel pollaio» disse soddisfatto.
Mister Vandemar teneva il piccione all’altezza della faccia. Si udi un rumore di mandibole, quando gli staccò la testa con un morso e iniziò a masticare.
Le guardie di sicurezza stavano dirigendo gli ospiti del museo verso un corridoio che sembrava quasi fungere da sala di attesa. Porta le ignorò completamente e prosegui verso i saloni del museo con Richard alle calcagna.
Attraversarono la sala egizia, salirono parecchie rampe di scale e giunsero in una stanza che un cartello indicava con il nome di Gotico inglese del primo periodo.
«Secondo questa pergamena» disse la ragazza «l’Angelus è proprio qui.»
Porta abbassò lo sguardo sulla pergamena. Lo rialzò per guardarsi intorno. Fece una smorfia di dissenso e ridiscese le scale, percorrendo di nuovo la strada da cui erano arrivati.
Richard provava un’intensa sensazione di déjà vu, prima di rendersi conto che si, certo che il posto gli pareva familiare: era li che passava i fine settimana all’epoca di Jessica. E cominciava a sembrargli una cosa accaduta a qualcun altro tanto, tanto tempo prima.
«Allora, l’Angelus non c’era?» chiese Richard.
«No, non c’era» rispose Porta con una foga che Richard ritenne un po’ eccessiva rispetto alla domanda.
«Oh» disse. «Tanto per sapere.»
Entrarono in un’altra stanza. Richard si chiese se stava cominciando a soffrire di allucinazioni per l’eccesso di zuccheri assunti alla Corte del Conte o per deprivazione sensoriale. «Sento della musica» disse. Sembrava un quartetto d’archi.
«La festa» disse Porta.
Giusto. Le persone in smocking con cui avevano fatto la coda. No, l’Angelus non sembrava essere neppure là. Porta si incamminò verso il salone successivo e Richard le andò subito dietro. Avrebbe voluto rendersi più utile.
«Questo Angelus» chiese «che aspetto ha?»
Per un attimo pensò che stesse per sgridarlo per aver fatto la domanda, invece si fermò e si sfregò la fronte. «Qui dice solo che ha sopra l’immagine di un angelo. Ma non dovrebbe essere tanto difficile trovarlo. In fondo,» aggiunse speranzosa «quante cose con sopra un angelo potranno mai esserci?»