PARTE TERZA L’ULTIMA GENERAZIONE

14

«Guarda qui!» esplose George Greggson, lanciando il giornale verso Jean al disopra della tavola. Nonostante gli sforzi di lei per prenderlo al volo, il foglio cadde ad ali spiegate nel bel mezzo della tavola. Ripulitolo pazientemente della marmellata, Jean lesse il brano incriminato, facendo del suo meglio per dimostrare la sua disapprovazione. Non che fosse molto brava in questo, dato che anche troppo spesso era d’accordo con i critici. Di solito teneva per sé quelle opinioni eretiche, e non solo per spirito di pace e di armonia. George era dispostissimo ad accettare le sue lodi, ma appena Jean accennava la minima critica a una sua opera si vedeva infliggere una lezione da lasciare i lividi sulla sua ignoranza in fatto di estetica. Lesse la critica due volte e infine rinunciò a capire. Era una critica del tutto favorevole, e lo disse.

«A quanto pare lo spettacolo è piaciuto. Che cosa c’è da brontolare?»

«Qui» ringhiò George, battendo il dito al centro della colonna. «Rileggi qui.»

«Specialmente riposanti per gli occhi i delicati verdi pastello dello sfondo nella sequenza del balletto» lesse Jean. «Ebbene?»

«Ma non erano verdi! Non so quanto tempo ho sciupato per trovare pro-prio quella sfumatura azzurrina! E che cosa succede? O qualche maledetto tecnico della cabina controllo sconvolge l’equilibrio dei colori, o quel cretino d’un critico ha un difetto alla vista! A proposito, che colore è apparso sul tuo apparecchio?»

«Oh… non me lo ricordo» ammise Jean. «Bambola ha cominciato a strillare proprio in quel momento, e sono dovuta correre di là a vedere che cos’era successo.»

«Capisco» disse George, scivolando in uno stato di calma illusoria, dolcemente ribollente, sotto sotto. Jean capì che un’altra esplosione poteva verificarsi da un momento all’altro.

«Ho inventato una nuova definizione per la TV» riprese lui in un mormorio cupo. «È uno strumento per ostacolare i contatti fra l’artista e il suo pubblico.»

«E che cosa vorresti fare? Ritornare al teatro vero e proprio?»

«Perché no? È proprio quello che ho pensato di fare. Ti ricordi della lettera che ho ricevuto da quelli di Nuova Atene? Mi hanno scritto ancora. Questa volta ho deciso di rispondere.»

«Davvero?» disse Jean, lievemente preoccupata. «Secondo me, sono una manica di eccentrici.»

«Ebbene, questo è il solo modo per averne la prova. È mia intenzione andarli a trovare tra una quindicina di giorni. Bisogna riconoscere che la loro propaganda è delle più equilibrate e convincenti. E ci sono uomini eccellenti tra loro.»

«Se speri di vedermi cucinare un giorno o l’altro su di un fuoco di sterpi, o apparirti davanti vestita di pelli, ti fai…»

«Non dire sciocchezze! Sono tutte storie. La colonia ha tutto quello che serve per vivere in modo civile. Il loro sistema esclude i fronzoli e le sovrastrutture inutili, ecco tutto. Del resto, sono almeno due anni che non vedo più il Pacifico; sarà una bellissima gita per tutt’e due.»

«Sono d’accordo con te» disse Jean. «Ma non voglio che Bambola e Primo crescano come due selvaggi della Polinesia.»

«Non cresceranno come due selvaggi. Te lo prometto.»

Aveva ragione, ma non nel senso che intendeva lui.


«Come avrete osservato arrivando con l’aereo» disse l’uomo sull’altro lato della veranda «la Colonia consiste di due isole, collegate da una striscia di terra su cui passa la strada. Una è Atene, l’altra, l’abbiamo battezzata Sparta. È un’isola selvaggia, rocciosa, un luogo ideale per praticare lo sport o comunque ogni specie di esercizi fisici.» Il suo sguardo si soffermò momentaneamente sul ventre e i fianchi del visitatore, e George si agitò nella sua poltrona di vimini. «Sparta è un vulcano spento, incidentalmente. Almeno, i geologi dicono che sia spento. Ma, per tornare ad Atene: scopo della Colonia è di fondare un gruppo culturale, stabile e indipendente, con le sue tradizioni artistiche. Sarà meglio dire subito che molte ricerche sono state effettuate prima che noi intraprendessimo questa iniziativa. Si tratta in realtà di vera e propria scienza sociale applicata, che si basa su una matematica così complessa che non fingerò di averla capita. So però che i sociologi matematici hanno calcolato quanto dovrebbe essere numerosa la Colonia, quanti tipi di persone dovrebbe contenere, e soprattutto quale dovrebbe essere la sua costituzione per una stabilità di lunga durata. Siamo diretti da un Consiglio di otto direttori, che rappresentano Produzione, Energia, Tecnica Sociale, Arte, Scienze Economiche, Scienza, Sport e Filosofia. Non c’è un presidente in permanenza. La carica di presidente è ricoperta a turno da ognuno dei direttori per un anno ogni volta.

«La nostra popolazione presente è di poco superiore alle cinquantamila unità, cifra inferiore all’optimum desiderato. Ecco perché siamo sempre alla ricerca di reclute. E, naturalmente, c’è un minimo di sciupio: non siamo del tutto autosufficienti in alcune delle capacità più specializzate.

«Qui, su quest’isola, ci studiamo di salvare qualche cosa della indipendenza dell’uomo: le sue tradizioni artistiche. Non abbiamo nessuna ostilità nei riguardi dei Superni, vogliamo soltanto essere lasciati in pace e proseguire per la nostra strada. Quando essi hanno cancellato le antiche nazioni e il modo di vita che l’uomo conosceva dagli inizi della storia, hanno spazzato via, insieme con le cattive, molte buone cose. Il mondo ora è in pace, senza caratteristiche proprie, culturalmente morto. Niente di nuovo è stato creato dall’avvento dei Superni. La ragione è evidente. Non è rimasto niente per cui valga la pena di lottare, e ci sono troppi svaghi, distrazioni e divertimenti.

«Qui ad Atene lo svago ha le sue giuste proporzioni. Inoltre, è una cosa viva, non in scatola. In una comunità delle nostre dimensioni è possibile avere una partecipazione quasi completa del pubblico. A proposito, abbiamo anche un’orchestra sinfonica d’eccezionale valore. Ma non voglio che mi prendiate in parola. Di solito i candidati alla cittadinanza della Colonia si fermano qui qualche giorno ad assorbire l’atmosfera del posto. Se decidono di unirsi a noi, li sottoponiamo al tiro di sbarramento degli esami psicologici, che rappresentano la nostra vera linea principale di difesa. Un terzo circa dei candidati di solito viene respinto, quasi sempre per motivi che non hanno riflessi su di loro e che, fuori di qui, non avrebbero nessuna importanza. Coloro che superano la prova, di solito tornano a casa giusto il tempo per sistemare i loro affari, poi ritornano tra noi. Talvolta cambiano idea in questa fase, ma avviene molto di rado, e quasi sempre per motivi personali indipendenti dalla loro volontà. I nostri esami sono oggi praticamente sicuri nella misura del cento per cento: coloro che li superano sono proprio persone che desiderano venire tra noi.»

«E se qualcuno cambiasse idea più tardi?» domandò Jean ansiosamente.

«Sono liberi di andarsene. Non esiste nessuna difficoltà. Si è già verificato un paio di volte.»

Seguì un lungo silenzio. Jean guardò George, che si stropicciava pensieroso le folte basette, ritornate in gran voga negli ambienti artistici. Se non c’era bisogno di bruciare i ponti alle spalle, lei non si preoccupava più del necessario. La Colonia sembrava un posto interessante, e certamente non si componeva di stravaganti e di eccentrici come aveva temuto. E i ragazzi ci si sarebbero trovati benissimo. E questo, in definitiva, era la cosa che contava di più.


Si trasferirono a Nuova Atene sei settimane dopo. La casa a un solo piano era piccola, ma del tutto adeguata a una famiglia che non aveva intenzione di contare più di quattro membri. Tutti i congegni fondamentali per l’economia del lavoro manuale erano in mostra: almeno, come Jean dovette riconoscere, non c’era pericolo di ripiombare nelle tenebre medievali delle sfacchinate domestiche. Ma sconvolgeva un po’ scoprire che c’era una cucina. In una comunità così numerosa, si sarebbe potuto credere, normalmente, alla possibilità di telefonare alla Centrale Ristoranti, attendere cinque minuti e ricevere qualunque portata uno avesse scelto per pranzo o cena. L’autonomia individuale era una gran bella invenzione, ma questo, pensò Jean, era uno spingere le cose troppo in là. Si chiese vagamente se per caso non dovesse filare lei le stoffe con cui la famiglia si sarebbe vestita, oltre che preparare i pasti. Ma non si vedeva nessuna ruota di filatoio a mano tra la lavapiatti automatica e lo schermo del radar, per cui la situazione non si annunciava poi tanto terribile… Jean si avvicinò alla finestra ancora senza tendine e lasciò errare lo sguardo sulla Colonia. Era un posto stupendo, non c’era dubbio. La casa sorgeva sulle pendici occidentali della bassa montagna che dominava, senza rivali, l’isola di Atene. Due chilometri a nord si scorgeva la lingua di terra, una lama sottile nell’acqua, che portava a Sparta. Quell’isola rocciosa, col suo aggrondato cono vulcanico, faceva un tale contrasto con la serena Nuova Atene da mettere paura. Jean si chiese come facessero gli scienziati a dirsi tanto sicuri che il vulcano non si sarebbe ridestato per seppellirli tutti.

Un rumore metallico annunciò l’arrivo della bicicletta di George. Jean si chiese quanto tempo sarebbe occorso a entrambi per imparare ad andare in bicicletta. Questo era un altro aspetto inatteso della vita sull’isola. Le auto private non erano permesse, e infatti non erano necessarie, dato che la massima distanza che si potesse percorrere in linea retta era meno di quindici chilometri. C’erano numerosi veicoli di servizio pubblico, di proprietà della Colonia: autocarri, ambulanze, autopompe, tutti tenuti, salvo casi eccezionali, a non superare i cinquanta chilometri all’ora. Di conseguenza, gli abitanti di Atene facevano molto moto, disponevano di strade non congestionate dal traffico meccanizzato, e pertanto non conoscevano incidenti stradali.

George diede alla moglie un bacio frettoloso e distratto e si lasciò cadere con un sospiro di sollievo sulla sedia più vicina.

«Uff!» fece, asciugandosi la fronte. «Mi sono lasciato sorpassare da tutti sulla salita della collina, quindi è probabile che col tempo migliori anch’io. Sono convinto di avere già perso almeno dieci chili.»

«Com’è andata la giornata?» domandò Jean da brava moglie. Si augurava che George non fosse così stanco da non poterla aiutare a disfare le valige.

«Molto stimolante. Non posso ricordarmi nemmeno la metà della gente che ho conosciuto, ma sembrano tutti molto cordiali e gentili. E il teatro è proprio buono, esattamente come me lo aspettavo. Cominceremo a lavorare la settimana entrante con «Torniamo a Matusalemme» di Shaw. Mi è stata affidata tutta la scenografia. Sarà finalmente un refrigerio non avere più tra i piedi una mezza dozzina di persone che mi dicono tutto quello che non posso fare. Sì, credo proprio che finiremo per trovarci bene qui.»

«Nonostante le biciclette?»

George trovò energia sufficiente per un sorriso divertito.

«Sì» rispose. «Tra un paio di settimane non mi accorgerò più nemmeno di questa nostra insignificante collinetta.»

Non ci credeva, e invece fu proprio così. Ma a Jean ci volle almeno un mese per smetterla di rimpiangere l’automobile e scoprire tutte le cose che si possono fare con una cucina propria.


Nuova Atene non era nata spontaneamente da un primo agglomerato come aveva fatto la città di cui portava il nome: tutto, nella Colonia, era stato progettato, voluto e realizzato, dopo anni di studi, a opera d’un gruppo di uomini molto in gamba. Aveva avuto inizio come una cospirazione aperta contro i Superni, sfida sottintesa, se non alla loro potenza, alla loro politica. Dapprima gli esponenti della Colonia si erano sentiti quasi certi che Karellen avrebbe nettamente frustrato i loro sforzi, invece il Supercontrollore non aveva fatto niente, assolutamente niente. Non che ciò fosse parso rassicurante, come ci si sarebbe potuti aspettare. Karellen aveva a sua disposizione tutto il tempo che voleva: poteva anche preparare un colpo di risposta molto ritardato. Oppure era così certo del fallimento del progetto, da non avere bisogno di intraprendere niente contro la Colonia. Molti avevano predetto che la Colonia sarebbe stata un fallimento. Eppure anche nel passato, molto prima che si raggiungesse la conoscenza della dinamica sociale, erano esistite parecchie comunità con un loro specifico scopo religioso o filosofico. Era vero che la percentuale di simili comunità andate in rovina era altissima. Qualcuna però era sopravvissuta. E ora Nuova Atene aveva fondamenta rese sicure dalla scienza moderna. I motivi per la scelta di un’isola come sede della comunità erano numerosi. In un’epoca in cui le distanze erano abolite dalla facilità dei mezzi aerei, l’oceano non era più una barriera materiale, ma serviva ancora a dare una sensazione di isolamento. Inoltre, le dimensioni limitate di un’isola rendevano impossibile accettare nella Colonia più di un certo numero di persone. La popolazione massima era stata fissata in centomila abitanti, di più avrebbe significato la perdita dei vantaggi possibili invece a una piccola comunità affiatata. Uno degli scopi dei fondatori di Nuova Atene era che ogni membro della Colonia conoscesse tutti gli altri cittadini che avevano i suoi stessi interessi, e possibilmente l’uno o il due per cento anche degli altri. L’uomo che aveva voluto Nuova Atene era un ebreo. E, come Mosè, non aveva vissuto tanto da mettere piede nella sua terra promessa, perché la Colonia era stata fondata tre anni dopo la sua morte. Era nato in Israele, l’ultima nazione indipendente che fosse stata creata e pertanto quella che aveva avuto vita più breve. La fine della sovranità nazionale era stata sentita in Israele con maggior amarezza, forse, che altrove, perché è duro rinunciare a un sogno che si è appena conquistato dopo secoli di sforzi.

Ben Salomon non era un fanatico, ma i ricordi della sua infanzia dovevano avere pesato non poco sulle idee che poi aveva messo in pratica. Poteva soltanto ricordare che cos’era il mondo prima della comparsa dei Superni, e non aveva nessun desiderio che le cose tornassero come prima. Come molti altri uomini intelligenti e bene intenzionati, apprezzava tutto quello che Karellen aveva fatto per la razza umana, pur continuando a soffrire per lo sconosciuto scopo finale di Karellen. Era possibile, si chiedeva spesso, che nonostante la loro immensa intelligenza, i Superni non capissero veramente il genere umano e commettessero un terribile errore con le migliori intenzioni? Era possibile che nella loro passione altruista per l’ordine e la giustizia, avessero deciso di riformare il mondo degli uomini, e non si fossero accorti che insieme stavano distruggendo l’anima dell’uomo?

Il declino era appena cominciato, ma i primi sintomi della putredine già non erano difficili a scoprirsi. Salomon non era artista, ma aveva un’acuta comprensione dell’arte e sapeva che la sua epoca non avrebbe mai potuto rivaleggiare coi secoli precedenti in nessun campo artistico. Forse la situazione sarebbe migliorata col tempo, quando il trauma della collusione coi Superni si fosse attenuato. Ma poteva anche non migliorare, e un uomo prudente doveva cercare un riparo in qualche forma di assicurazione contro il peggio. Nuova Atene era stata la polizza d’assicurazione a cui Salomon aveva pensato.

La sua realizzazione aveva richiesto vent’anni e la spesa di alcuni miliardi di dollari-decimali, una frazione infinitesima delle ricchezze del mondo. Per i primi quindici anni non era successo niente, negli ultimi cinque, tutto. L’impresa di Salomon sarebbe stata impossibile se lui non fosse riuscito a convincere della bontà del suo progetto un gruppo di artisti di fama mondiale. Essi lo avevano approvato non perché era importante per la razza ma perché sollecitava il loro «io». Una volta convinti, però, erano riusciti a farsi ascoltare dal mondo e ad averne l’appoggio. Dietro questa spettacolare facciata di nomi illustri, i veri progettisti della Colonia avevano realizzato i loro piani. Una collettività umana consiste di individui la cui condotta, in quanto tali, non è prevedibile. Ma se si prende in considerazione un numero sufficiente di unità fondamentali, allora certe leggi cominciano ad affiorare, come era stato scoperto già da molto tempo da alcune società di assicurazioni. Nessuno può dire quali individui morranno entro un certo periodo di tempo, pure il numero totale dei decessi può essere previsto con notevole precisione. Ci sono altre leggi, più sottili, intravedute per la prima volta ai primordi del ventesimo secolo da matematici come Weiner e Rashavesky. Costoro avevano sostenuto che eventi come crisi economiche, le conseguenze delle corse agli armamenti, la stabilità dei gruppi sociali, e così via, potevano essere analizzati con esatte tecniche matematiche. La grande difficoltà era il numero enorme di variabili, molte delle quali difficili a definirsi in termini numerici. Non si poteva tracciare un gruppo di curve e dichiarare: «Quando si sarà raggiunta questa linea, vorrà dire la guerra». E non si potevano mai prendere in considerazione eventi così imprevedibili come l’assassinio di un importante uomo politico o gli effetti di una nuova scoperta scientifica, e ancora meno, catastrofi naturali come terremoti o inondazioni che avrebbero potuto avere un effetto profondo su gran numero di persone e sui gruppi sociali entro cui queste persone vivevano. Eppure si poteva fare molto, grazie alla conoscenza pazientemente accumulata negli ultimi cento anni. Il compito sarebbe stato impossibile senza l’aiuto delle gigantesche macchine calcolatrici che potevano compiere il lavoro di un migliaio di calcolatori umani in pochi secondi. Di tali aiuti ci si era valsi al massimo quando la Colonia era stata concepita. Anche allora, i fondatori di Nuova Atene erano in grado soltanto di provvedere il suolo e il clima in cui la pianta che essi volevano far crescere sarebbe potuta — o non sarebbe potuta — fiorire. Come lo stesso Salomon aveva osservato: «Dell’ingegno possiamo essere certi: per il genio possiamo soltanto pregare». Ma era una speranza ragionevole che in una soluzione così concentrata potessero verificarsi delle reazioni interessanti. Pochi artisti fioriscono in solitudine, e niente è più stimolante dell’urto di menti con affinità d’interessi.

Fino a quel momento, il conflitto aveva dato vita a opere di valore nel campo della musica, della scultura, della critica letteraria e della cinematografia. Era ancora troppo presto per sapere se il gruppo che lavorava nel campo delle ricerche storiche avrebbe realizzato le speranze di chi aveva voluto quelle gare, e che mirava a far rinascere l’orgoglio della razza per le proprie imprese. La pittura continuava a languire, dando così ragione a coloro che sostenevano che quella statica forma d’arte a due dimensioni non aveva futuro.

Cosa notevole fu — anche se una spiegazione soddisfacente non si sia mai avuta — che il tempo era una parte essenziale nei risultati artistici meglio riusciti della Colonia. La stessa cultura era ben di rado statica. Le curve e i volumi esasperanti di Andrew Carson mutavano lentamente a misura che si guardava l’opera, secondo lineamenti complessi il cui insieme la mente sapeva apprezzare pur senza comprenderli. Infatti Carson affermava in modo abbastanza veritiero di aver portato i «motivi» di un secolo prima alla loro conclusione ultima, intrecciando così, in una sola entità, scultura e balletto.

Gran parte della musica sperimentale della Colonia si basava, nel modo più consapevole, su quella che si potrebbe definire «durata del tempo». Qual era la nota più breve che la mente potesse afferrare… o la più lunga che potesse tollerare senza tedio? Il risultato poteva essere variato mediante il condizionamento o l’uso di un’orchestrazione appropriata? Di questi problemi si discuteva all’infinito, e le discussioni non erano solo accademiche perché ne erano risultate alcune composizioni di estremo interesse. Ma gli esperimenti più riusciti di Nuova Atene erano le opere d’arte realizzate nel campo dei cartoni animati. Nei cento anni passati dall’epoca di Disney non tutto era stato fatto di quel che era possibile fare con questo mezzo che offriva possibilità enormi. Dal punto di vista puramente spettacolare, si potevano ottenere risultati addirittura identici a quelli ottenuti con la fotografia, cosa questa che provocava lo sdegno di coloro che si dedicavano ai cartoni animati secondo una linea più astratta, più… impegnata. Il gruppo di artisti e scienziati che avevano fino a quel momento fatto meno era proprio quello che aveva destato il maggior interesse e ispirato la più grande apprensione. Si trattava del gruppo che lavorava alla «completa identificazione». La storia del cinema era la chiave stessa delle loro attività. Prima il cinema sonoro, poi quello a colori, quindi la stereoscopia, infine il cinerama avevano reso l’antica cinematografia sempre più simile alla realtà. Dove stava la conclusione ultima? Certo, l’ultima fase sarebbe stata raggiunta quando il pubblico, dimenticandosi di essere tale, sarebbe divenuto parte dell’azione stessa. Un uomo poteva diventare, almeno per un breve periodo, qualunque altra persona e poteva partecipare a qualunque specie di avventura, reale o immaginaria che fosse. Poteva diventare anche pianta o animale, se appariva possibile cogliere e registrare le impressioni sensorie di altre creature viventi. E quando il «programma» era concluso, il ricordo acquisito sarebbe stato così preciso e vivido come qualunque altra esperienza della sua vita reale, anzi, indistinguibile dalla realtà stessa. Prospettiva allucinante. Molti la trovavano anche terribile e si auguravano che l’iniziativa si concludesse con un fiasco. Ma sapevano nel fondo della loro anima che quando la scienza aveva dichiarato possibile una cosa, non c’era speranza di sfuggire alla sua attuazione definitiva… Questa, dunque, era Nuova Atene con alcuni dei suoi sogni. Essa sperava di diventare ciò che l’antica sarebbe potuta divenire se avesse posseduto macchine invece di schiavi, scienza invece di superstizioni. Ma era ancora troppo presto per poter dire se l’esperimento sarebbe riuscito.

15

Jeffrey Greggson era un isolano che per il momento non aveva ancora trovato niente d’interessante nella scienza o nell’estetica, le due principali passioni dei suoi genitori. Ma approvava con tutto il cuore la Colonia, anche se per motivi esclusivamente personali. Il mare, che non si trovava mai più lontano di qualche chilometro in qualunque direzione si guardasse, lo affascinava. La maggior parte della sua breve vita era trascorsa molto lontano, sul continente, e lui non si era ancora abituato del tutto alla novità di essere circondato dall’acqua. Era un buon nuotatore e se ne andava spesso in bicicletta, con altri compagni, portando la maschera e le pinne, a tuffarsi per esplorare le acque limpide e basse della laguna.

Dapprima Jean non fu per niente contenta di queste esplorazioni, ma dopo aver fatto lei stessa qualche tuffo, dimenticò rapidamente la sua paura del mare e delle strane creature che l’abitavano, e lasciò che Jeffrey si divertisse a suo piacere, ma a una condizione: che non andasse in acqua da solo.

L’altro membro della famiglia Greggson che aveva approvato in pieno la nuova vita era Fey, la bionda cagnetta da riporto che nominalmente apparteneva a George, ma che era inseparabile da Jeffrey. I due stavano sempre insieme tanto di giorno, quanto (se Jean non fosse risolutamente intervenuta) di notte. Solo quando Jeffrey se ne andava via in bicicletta, Fey restava a casa, distesa con aria inquieta presso la porta, a fissare la strada con umidi occhi tristi, il muso appoggiato sulle zampe anteriori. Cosa che mortificava George, il quale aveva pagato una bella cifra per Fey e il suo pedigree. A quanto pareva, avrebbe dovuto aspettare la nuova generazione, il cui avvento doveva verificarsi di là a tre mesi, se voleva avere un cane tutto per sé. Jean aveva altri piani in mente. Voleva bene a Fey, ma riteneva che un solo cane in famiglia fosse più che sufficiente.

Solo Jennifer Anne non sapeva ancora se amava o no la Colonia. Cosa che non aveva in sé nulla di sorprendente, dato che fino a quel momento la bimba non aveva visto nulla del mondo che si stendeva oltre i pannelli di plastica del suo lettino e aveva ancora una certezza molto relativa che un simile luogo esistesse.

George Greggson non pensava spesso al passato: era troppo assorto nei suoi piani per l’avvenire, troppo intento al suo lavoro e ai suoi bambini. Era difficile infatti che la sua mente tornasse indietro di molti anni a quella certa sera in Africa, e non ne parlava mai con Jean.

L’argomento veniva evitato di comune accordo, e da quel famoso giorno non erano più andati a trovare i Boyce nonostante i ripetuti inviti. Parecchie volte all’anno chiamavano Rupert per fare le loro scuse, e alla fine lui aveva smesso di invitarli. E a proposito di Rupert, con sorpresa di tutti, il suo matrimonio con Maia reggeva ancora e molto bene. Altro effetto di quella serata: Jean non sentiva più nessun desiderio di frugare nei misteri ai limiti della scienza. La curiosità ingenua che l’aveva attirata un tempo verso Rupert e i suoi esperimenti era totalmente scomparsa. Forse era rimasta convinta e non voleva altre prove, ma George preferiva non chiederglielo. Era anche probabile che le preoccupazioni della maternità avessero bandito dalla sua mente quegli interessi quasi morbosi. Era del tutto inutile, pensava George, lambiccarsi il cervello su di un mistero che non si sarebbe mai potuto risolvere, ma a volte, nel gran silenzio della notte, si svegliava e si metteva a pensare. Ricordava il suo incontro con Jan Rodricks sulla terrazza della villa di Rupert, le poche parole che aveva scambiato col solo essere umano che fosse riuscito a sfidare la proibizione dei Superni. Non c’era cosa soprannaturale più fantastica del semplice fatto scientifico che, sebbene fossero passati quasi dieci anni dalla sera in cui George aveva parlato a Jan, quell’astronauta, ora spaventosamente lontano nello spazio, era invecchiato solo di qualche giorno. L’universo era vasto, ma quel fatto lo atterriva meno del suo mistero. George non era uomo da approfondire, ma a volte gli sembrava che gli uomini fossero come bambini ruzzanti entro la cinta di un giardino d’infanzia, protetti contro le paurose realtà del mondo esterno. Jan Rodricks si era risentito di quella protezione e si era sottratto, era fuggito, nessuno sapeva dove. Ma in questo George si schierava dalla parte dei Superni. Non desiderava affrontare ciò che si annidava nelle tenebre ignote oltre il piccolo cerchio di luce gettato dalla lampada della scienza.


«Si può sapere perché» si lamentò George «Jeff è sempre fuori quando mi capita di stare in casa? Dov’è andato oggi?»

Jean alzò gli occhi dal suo lavoro a maglia, un’occupazione arcaica che da qualche tempo era tornata in gran voga. Mode del genere si affermavano e scomparivano nell’isola in cicli particolarmente intensi. Conseguenza di questa moda del lavoro a maglia era che adesso tutti gli uomini della Colonia si vedevano regalare maglioni multicolori, che forse tenevano un caldo infernale durante il giorno, ma erano adattissimi dopo il tramonto.

«È andato a Sparta con alcuni amici» rispose Jean. «Ma ha promesso di essere di ritorno per l’ora di pranzo.»

«A dir la verità, ero venuto a casa per lavorare un po’» disse George, con aria pensierosa. «Ma è una così bella giornata che voglio uscire anche io e andare a fare un bagno. Che genere di pesce vorresti che ti portassi a casa?»

George non era mai riuscito a prendere niente: i pesci della laguna erano troppo astuti per lasciarsi intrappolare. Jean stava appunto per rispondere in questo senso, quando la pace del pomeriggio fu lacerata da un suono che ebbe il potere, perfino in quell’epoca di grande tranquillità, di far gelare il sangue nelle vene.

Era l’ululo della sirena, che saliva e scemava, diffondendo il suo avvertimento di pericolo in larghe onde concentriche.


Da quasi un secolo, nelle buie profondità in ebollizione sotto il letto dell’oceano, le forze in azione erano lentamente aumentate. Il canyon sottomarino si era formato da molte ere geologiche, ma le rocce torturate dalla pressione non si erano mai completamente assestate. Innumerevoli volte i vari strati si erano spaccati provocando spostamenti, e l’inimmaginabile peso dell’acqua comprometteva il loro equilibrio. Adesso stavano per muoversi ancora. Jeff era intento a esplorare le rocciose grotte subacquee lungo la stretta spiaggia di Sparta, attività che egli trovava infinitamente interessante. Non sapevi mai quali esotiche creature potevi trovare, al riparo là dentro dalle onde che attraversavano di continuo le immense estensioni del Pacifico per venire a spegnersi contro le scogliere Era una specie di regno fatato per qualunque ragazzo, e in quell’istante Jeff aveva quel regno tutto per sé, dato che i suoi amici erano andati, quel giorno, a fare una gita sulle alture. Era una giornata tranquilla e serena. Non soffiava un alito di vento e perfino l’eterno mormorio gorgogliante dei marosi oltre la scogliera era sceso a un sommesso e monotono sciacquio. Un sole rutilante sfolgorava sulla metà del cielo occidentale, ma il corpo brunito di Jeff era ormai del tutto immune dai suoi attacchi.

In quel punto la spiaggia era una stretta striscia di sabbia che s’inoltrava nella laguna scendendo a picco. Guardando giù nell’acqua trasparente, Jeff poteva vedere le formazioni rocciose che lui conosceva bene quanto i rilievi della terraferma. Circa dieci metri più giù, la chiglia panciuta di un antico veliero si alzava verso il mondo abbandonato circa due secoli prima. Jeff e i suoi amici avevano spesso esplorato il relitto, ma le loro speranze erano state deluse. Tutto quello che avevano riportato dalle loro esplorazioni era una bussola tutta incrostata di molluschi. Con estrema fermezza, qualcosa si impadronì della spiaggia e le dette un solo, brusco strattone. Il tremito fu così rapido e breve che Jeff ebbe il dubbio d’esserselo immaginato. Forse era stato uno stordimento momentaneo, perché tutto, intorno a lui, era rimasto immutato. Le acque della laguna erano placide, il cielo sgombero d’ogni nube, d’ogni minaccia. E ad un tratto cominciò a succedere qualcosa di molto strano.

Più velocemente d’ogni moto riflesso, l’acqua retrocedeva dalla spiaggia. Jeff osservava, sbalordito ma tutt’altro che spaventato, la sabbia che appariva nuda e scintillante al sole. Si mise a seguire l’oceano che si ritraeva, risoluto a scoprire tutto quello che poteva su quel fenomeno del mondo subacqueo. Fu allora che avvertì il rumore che veniva dalla scogliera. Non aveva mai udito niente di simile prima, e si fermò per riflettere, coi piedi nudi che affondavano lentamente nella poltiglia sabbiosa. Un gran pesce guizzava nelle convulsioni dell’agonia a qualche metro di distanza, ma Jeff quasi non gli badò. Stava là ritto, teso, in ascolto, mentre il rumore della scogliera cresceva e si spandeva intorno a lui.

Era un suono gorgogliante, di risucchio, come di un fiume che scorresse precipitoso in un letto stretto e profondo. Era la voce del mare che si ritirava riluttante, rabbioso di perdere, anche per un solo istante, quella terra che gli spettava di diritto. Attraverso le belle ramificazioni coralline, attraverso le segrete caverne subacquee, milioni di tonnellate d’acqua si rovesciavano dalla laguna nella vastità del Pacifico. Molto presto, rapidissime, sarebbero tornate.


Una delle squadre di soccorso, alcune ore dopo, trovò Jeff su di un gran blocco di corallo che era stato scagliato una ventina di metri al disopra del normale livello d’acqua. Il ragazzo non sembrava molto spaventato, anche se lo amareggiava la perdita della bicicletta. Era soprattutto affamato, dato che la parziale distruzione della lingua di terra lo aveva imprigionato su Sparta. Quando la squadra di soccorso era arrivata, lui stava decidendosi a tornare ad Atene a nuoto e, a meno che le correnti non avessero cambiato il loro corso completamente, sarebbe senza dubbio riuscito a fare la traversata senza troppi inconvenienti. Jean e George avevano assistito a tutte le fasi del maremoto. Nelle zone più basse di Atene i danni erano stati notevoli, ma senza perdita di vite umane. I sismografi avevano potuto annunciare il fenomeno con soli quindici minuti di anticipo, ma era stato sufficiente perché tutti riparassero oltre la linea di pericolo. Ora la Colonia stava leccandosi le ferite e raccogliendo un cumulo di dicerie che col tempo sarebbero diventate leggende. Jean scoppiò in lacrime quando le fu restituito suo figlio, perché si era già convinta che fosse stato inghiottito dall’oceano. Sembrava incredibile che Jeff avesse potuto mettersi in salvo in tempo data la rapidità con cui lo

«tsunami» si era abbattuto sull’isola.

Ma non c’era da sorprendersi che Jeff non fosse in grado di fare un’esposizione molto razionale dell’accaduto. Dopo che ebbe mangiato e fu posto bene al sicuro sotto le coperte, Jean e George si sedettero accanto al suo letto.

«Dormi ora, caro» disse Jean «e cerca di non pensarci più. Stai benissimo ora.»

«Ma il buffo è, mamma» protestò Jeff «che io non mi sono spaventato per niente, in fondo.»

«Molto bene» intervenne George, «Sei un bravo ragazzo ed è stata una fortuna che tu abbia avuto il buon senso di metterti in salvo tempestivamente. Avevo già sentito parlare di queste improvvise ondate di marea. Un mucchio di gente muore perché corre fuori, inoltrandosi sulla spiaggia, per vedere che cosa succede.»

«E proprio quello che ho fatto io» confessò il ragazzo. «Mi domando chi è stato a salvarmi…»

«Che cosa stai dicendo? Non c’era nessuno con te. Tutti gli altri ragazzi erano andati in montagna.»

Jeff parve perplesso.

«Eppure qualcuno mi ha detto di mettermi a correre.»

Jean e George si guardarono, lievemente preoccupati.

«Vuoi dire che ti è parso di sentire qualcosa?»

«Oh, non stiamo a frastornarlo ora» disse Jean, un po’ troppo in fretta. Ma George era testardo.

«Voglio andare in fondo alla faccenda. Dimmi tutto quello che è successo, Jeff.»

«Ecco, mi trovavo proprio sulla spiaggia, presso il vecchio relitto, quando la voce ha parlato.»

«Che cosa ha detto?»

«Non ricordo bene, ma era qualcosa come «Jeffrey, corri su in montagna il più presto possibile. Morirai affogato, se resti qui». Sono certo che mi ha chiamato Jeffrey e non Jeff. Così che non può essere stato uno qualunque di mia conoscenza.»

«Era una voce d’uomo? E da dove veniva?»

«Era vicinissima a me. E si sarebbe detta quella d’un uomo…»

Esitò per un attimo e George lo sollecitò: «Va’ avanti… cerca d’immaginarti d’essere ancora sulla spiaggia e dicci esattamente com’è andata.»

«Ecco, non era come la voce di un uomo che io avessi già inteso prima. Doveva essere comunque un uomo molto grande.»

«E non ha detto altro?»

«No, fino a quando ho cominciato ad arrampicarmi sulla montagna. Allora è successa un’altra strana cosa. Conosci il sentiero che sale dalla scogliera?»

«Sì.»

«Salivo di corsa su per quel sentiero, perché è la strada più corta. Sapevo ora quello che stava per succedere perché avevo visto la grande ondata venire avanti, e poi faceva un fracasso enorme. A un tratto ho visto che una gran roccia mi sbarrava la strada. Non c’era mai stata… e mi sono accorto che non avevo modo di girarle intorno.»

«La scossa di terremoto deve averla fatta rotolare fin là» disse George.

«Ssst! continua, Jeff.»

«Per un attimo non ho saputo cosa fare, e sentivo l’ondata avvicinarsi sempre di più. Poi la voce ha detto: «Chiudi gli occhi, Jeffrey, e metti le mani davanti alla faccia». Sembrava una cosa buffa da fare proprio in quel momento, però ho ubbidito. E allora c’è stato come un grande lampo… mi pareva quasi di sentirlo tutto intorno e quando ho riaperto gli occhi, la roccia non c’era più.»

«Non c’era più?»

«No! Scomparsa, non c’era più. Così mi sono messo a correre di nuovo ed è stato allora che mi sono quasi bruciato i piedi, tanto il terreno scottava. L’acqua si è messa a friggere quando c’è passata sopra, ma non mi ha potuto raggiungere: ormai ero salito troppo in alto. E questo è tutto. Sono tornato giù quando non c’erano più onde. Allora ho scoperto che la mia bicicletta era sparita e che la strada per tornare a casa era sprofondata.»

«Non prendertela per la bicicletta, caro» disse Jean, abbracciando suo figlio col cuore pieno di gioia. «Te ne regaleremo un’altra. La sola cosa che conti è che sei salvo. Non staremo a preoccuparci su come ti sei salvato.»

Non era vero, naturalmente, perché marito e moglie si consultarono appena usciti dalla stanza del ragazzo. Non giunsero a nessuna conclusione, ma la discussione ebbe due risultati. Il giorno dopo, senza dire niente a George, Jean condusse il figliolo dal neurologo della Colonia. Il medico ascoltò con grande attenzione il racconto che Jeff gli fece, per niente impressionato dal nuovo ambiente; poi, mentre nella stanza accanto il bambino osservava i giocattoli, il medico tranquillizzò Jean.

«Nella scheda di vostro figlio non c’è niente che faccia sospettare una qualche anormalità psichica. Non dovete dimenticare che il ragazzo ha avuto un’esperienza spaventosa, e anzi, devo dire che ne è uscito benissimo. Jeff possiede molta immaginazione e con tutta probabilità è convinto lui stesso della sua storia. Quindi accettatela anche voi per quello che è e non preoccupatevi, a meno che in seguito non notiate altri sintomi.»

Quella sera, lei raccontò al marito la diagnosi del medico, ma George non parve sollevato come lei aveva sperato. «Meglio così» brontolò a mezza voce, e subito si mise a sfogliare l’ultimo numero di «Schermo e Ribalta», come se improvvisamente la cosa non avesse interesse per lui. Jean ne fu vagamente offesa.

Ma tre settimane dopo, il primo giorno in cui la strada sulla striscia di terra fu riaperta, George saltò in bicicletta e si allontanò verso Sparta. La spiaggia era ancora cosparsa di frantumi corallini, e in un punto la stessa scogliera sembrava sfondata.

C’era soltanto un sentiero che si arrampicava sul fianco verticale della montagna e dopo aver ripreso fiato George cominciò a salire. Qualche frammento essiccato di alghe, impigliate tra le rocce, segnava il limite massimo raggiunto dalle acque.

George Greggson rimase per molto tempo su quel sentiero deserto, a fissare la chiarezza di roccia fusa sotto i suoi piedi. Cercò di convincersi che si trattava di qualche anomalia del vulcano estinto, ma in breve abbandonò quegli inutili tentativi d’ingannare se stesso. La sua mente tornò alla notte di dieci anni prima, quando con Jean aveva partecipato alla sciocco esperimento di Rupert. Nessuno aveva mai compreso bene che cosa fosse acca-duto in quell’occasione, ma ora George capì che in qualche modo, e per motivi insondabili, quei due bizzarri eventi erano connessi. La prima volta, era stata sua moglie, ora suo figlio. George non sapeva se esserne lieto o angosciato e in cuor suo elevò una muta preghiera: «Grazie, Karellen, per quanto la tua gente ha fatto per Jeff. Ma vorrei sapere perché l’ha fatto». Ridiscese lentamente verso la spiaggia, e i grandi gabbiani candidi gli volteggiarono intorno, visibilmente seccati perché non aveva portato cibo da gettare per loro.

16

Sebbene avessero dovuto aspettarsela in qualunque momento a partire dal giorno in cui la Colonia era stata fondata, la richiesta di Karellen scoppiò come una bomba. Rappresentò una crisi nella storia di Nuova Atene, e nessuno poté capire se i risultati sarebbero stati buoni o cattivi. Fino a quel momento la Colonia aveva proseguito per la sua strada senza interferenze da parte dei Superni. Essi l’avevano lasciata del tutto tranquilla, come facevano con molte attività umane che non turbavano l’ordine e non offendevano i loro codici. Che gli scopi di Nuova Atene potessero definirsi sovversivi non era del tutto dimostrato. Non erano scopi politici, ma certo sollecitavano lo spirito di indipendenza per artisti e intellettuali. E da questo, chi sapeva cosa poteva derivare? I Superni forse erano in grado di prevedere il futuro di Nuova Atene meglio dei suoi fondatori, e poteva darsi che quel futuro non gli piacesse per nulla.

Naturalmente, se Karellen desiderava inviare un osservatore, ispettore, o comunque lo si volesse chiamare, nessuno poteva farci niente. Venti anni prima i Superni avevano annunciato di avere sospeso ogni uso dei loro congegni di sorveglianza, così che l’umanità non doveva più considerarsi spiata continuamente. Tuttavia il fatto che quei congegni continuassero a esistere voleva dire che niente poteva avvenire all’insaputa dei Superni qualora essi avessero voluto veramente sapere.

Ma c’era qualcuno nell’isola che era lieto di quella visita, perché offriva qualche probabilità di risolvere uno dei problemi minori della psicologia Superna: l’atteggiamento di quelle strane creature verso l’arte. La consideravano forse un’aberrazione infantile della razza umana? O avevano essi pure qualche forma d’arte? In questo caso, lo scopo della visita era semplicemente estetico? Oppure Karellen aveva scopi meno candidi?

Tutti argomenti di cui si discusse all’infinito mentre fervevano intensi i preparativi per quella visita.

Del Superno che avrebbe visitato la Colonia non si sapeva niente, ma si dava per scontato che potesse imparare qualsiasi cosa in quantità illimitate. Avrebbero perciò tentato l’esperimento, e un gruppo di uomini fra i più qualificati avrebbe osservato con interesse le reazioni della loro cavia. L’attuale presidente del consiglio era il filosofo Charles Yan Sen, uomo ironico, bonario, non ancora sessantenne e pertanto nel pieno vigore d’una giovanile maturità. Platone lo avrebbe approvato come l’esempio del filosofo-statista, anche se Yan Sen non approvava del tutto Platone, che lui accusava di aver grossolanamente falsato il pensiero di Socrate. Yan Sen era uno degli isolani che contavano di trarre il massimo profitto da quella visita se non altro per mostrare ai Superni che gli uomini avevano ancora spirito d’iniziativa, e non erano, per usare la sua espressione, «del tutto addomesticati». Nella Colonia ogni iniziativa faceva capo a un comitato, ultimo sopravvissuto baluardo del sistema democratico. Una volta qualcuno aveva definito Nuova Atene una catena di comitati, comunque, il sistema funzionava grazie al paziente lavoro degli psicologi che erano stati i veri fondatori della Colonia. Trattandosi di una comunità ristretta, ogni suo membro poteva partecipare alla sua amministrazione ed essere così un cittadino nel vero senso della parola.

Era quasi inevitabile che George, come elemento in vista della gerarchia artistica, facesse parte del comitato di ricevimento. Se i Superni volevano studiare la Colonia, George si era reso conto di voler studiare i Superni. Cosa che non allietava troppo Jean. Fin dalla famosa sera a casa di Rupert, lei aveva nutrito una vaga ostilità verso i Superni, pur senza saperne il perché. Il Superno arrivò senza cerimonie particolari in un comune aereo di fabbricazione umana, con grande delusione di coloro che si erano aspettati qualcosa di eccezionale. Sarebbe potuto essere lo stesso Karellen, dato che nessuno era mai riuscito a distinguere un Superno dall’altro con un minimo di certezza. Parevano tutti copie di un unico modello. Forse lo erano, in virtù di qualche sconosciuto processo biologico.

Dopo il primo giorno, gli isolani cessarono di prestare molta attenzione quando un’auto del consiglio passava con un lievissimo mormorio per una delle visite turistiche in programma. Il nome preciso del visitatore, Thanthalteresco, si era rivelato superiore alle possibilità di pronuncia dei più, per cui il Superno fu in breve chiamato per antonomasia «l’Ispettore». No-me abbastanza descrittivo, perché la curiosità e la fame di dati statistici dell’individuo erano inesauribili.

Charles Yan Sen era del tutto sfinito, quando molto dopo la mezzanotte ebbe accompagnato l’Ispettore all’aereo, che gli serviva d’alloggio e dove, senza dubbio, avrebbe continuato a lavorare tutta la notte, mentre i suoi ospiti terrestri indulgevano a una così tipica debolezza umana come il sonno. La signora Sen accolse ansiosamente il marito al suo ritorno a casa. Erano una coppia bene affiatata, nonostante l’abitudine scherzosa di lui di chiamare la moglie Santippe quando c’erano ospiti. Lei aveva minacciato adeguate rappresaglie mediante la preparazione di una tazza di cicuta, ma per fortuna quest’erba letale era meno comune nella Nuova che nell’antica Atene.

«È andato tutto bene?» domandò lei al marito, che si sedeva a tavola per consumare una cena che lo aspettava da cinque o sei ore.

«Direi di sì, per quanto non si possa mai dire che cosa passa in quelle loro menti straordinarie. Ha trovato certamente tutto interessante, mi ha rivolto perfino dei complimenti. Mi sono scusato, a proposito, per non averlo invitato qui, a casa nostra. Ha risposto che comprendeva benissimo e che non aveva nessuna voglia di battere la testa contro il nostro soffitto.»

«Che cosa gli hai mostrato, oggi?»

«La parte amministrativa. Pare che non l’abbia trovata noiosa come capita invece a me. Ha fatto tutte le domande possibili e immaginabili sulla produzione, sul nostro bilancio, sulle risorse minerali, sul numero delle nascite, sul come provvediamo al cibo, eccetera. Per fortuna con noi c’era il segretario Harrison che si era preparato sui rapporti annuali sin dall’inizio della Colonia. Avresti dovuto sentirlo sparare dati statistici! L’Ispettore si è fatto prestare tutti gli annuari, e son pronto a scommettere che domani sarà in grado di citare a noi cifra su cifra per ogni anno. A me questo genere di spettacolo di abilità mentale fa un effetto deprimente!»

Sbadigliò, prima di cominciare a mangiare.

«Domani sarà una giornata più interessante. Si visitano le scuole e l’Accademia. Quando sarà la mia volta di fare qualche domanda, vorrei sapere come i Superni crescono i loro piccoli… sempre che ne abbiano, naturalmente.»

Ma questa era proprio una delle domande a cui Charles Yan Sen non avrebbe mai avuto risposta, anche se su altri argomenti l’Ispettore si rivelò addirittura loquace. Sapeva evadere alle domande imbarazzanti con un garbo inimitabile, per poi, del tutto inaspettatamente, divenire addirittura confidenziale.

La prima volta che ciò avvenne fu mentre si allontanavano in macchina dalla scuola, una delle grandi ragioni di orgoglio della Colonia. «È una grande responsabilità» aveva osservato il dottor Yan Sen «istruire queste giovani menti per l’avvenire. Per fortuna, gli esseri umani sono straordinariamente duttili: occorre un’educazione davvero sbagliata per arrecare guasti permanenti. Anche se i nostri fini sono errati, le nostre piccole vittime sapranno cavarsela. E, come avete visto, hanno l’aria del tutto contenta.»

Fece una breve pausa, poi lanciò un’occhiata maliziosa dal sotto in su alla figura torreggiante dell’ospite. L’Ispettore era avvolto in una specie di tessuto argenteo, tutto riflessi, così che non un centimetro del suo corpo era esposto alla radiazione solare. Il dottor Sen ebbe coscienza di due grandi occhi che dietro le lenti scure lo fissavano senza emozione, o con emozioni che lui non avrebbe mai potuto capire. E riprese: «I nostri problemi nell’allevare questi ragazzi devono essere, immagino, molto simili ai vostri, quando vi trovate davanti alla razza umana.»

«Sotto certi aspetti» ammise il Superno gravemente. «In altri, si potrebbe trovare una analogia forse più pertinente nella storia delle vostre potenze coloniali. Gli imperi romano e britannico, in questo campo, hanno sempre rappresentato un esempio interessante. Il caso dell’India è di particolare insegnamento. La differenza principale fra noi e gli inglesi in India sta nel fatto che essi non avevano nessun vero motivo per andare in India, nessuno scopo dettato dalla coscienza, intendo, eccettuati motivi contingenti trascurabili come interessi commerciali o rivalità con altre potenze europee. Si trovarono in possesso di un impero ancora prima di sapere che cosa farsene, e non ne hanno mai tratto felicità alcuna, se non il giorno in cui se ne sono liberati.»

«E voi pure» chiese Yan Sen «vi libererete del vostro impero, quando sarà venuto il momento?»

«Senza la più lieve esitazione» rispose l’Ispettore.

Il dottor Sen non insistette. La pronta franchezza della risposta non era stata delle più lusinghiere; e del resto erano arrivati all’Accademia, dove i pedagoghi si erano riuniti e aspettavano di aguzzare gli ingegni su un vero Superno in carne e ossa.


«Come il nostro illustre collega vi avrà riferito» disse il professor Chance, Rettore dell’Università di Nuova Atene «nostro scopo principale è mantenere la mente della popolazione sempre attiva, così che gli individui possano rendersi conto di tutte le loro possibilità. Oltre quest’isola — e il gesto di Chance parve indicare, e respingere, il resto del globo — temo che la razza umana abbia perso il suo spirito d’iniziativa. Ha pace e abbondanza… ma non ha orizzonti.»

«Mentre qui, naturalmente?…» interloquì blando il Superno. Chance, che mancava di ogni senso umoristico e ne era vagamente conscio, lanciò un’occhiata sospettosa al visitatore.

«Qui» riprese «non siamo affetti dall’antica ossessione che la vita comoda sia un male. Ma non ci sembra che basti il solo fatto di ricevere passivamente dall’alto lo svago e le comodità. Ognuno su questa isola ha un’ambizione, che si può riassumere in modo molto semplice: fare qualche cosa, per piccola che sia, meglio di chiunque altro. Naturalmente, è un ideale che non tutti conseguiamo. Ma nel mondo odierno la cosa importante è proprio avere un ideale. Che lo si attui o no, è molto meno importante.»

L’Ispettore non parve disposto a fare commenti. Si era spogliato del suo indumento di protezione, ma aveva ancora gli occhiali neri, che sembravano essergli necessari anche nella luce attenuata della Sala Riunioni. Il Rettore pensò che forse rappresentavano una necessità fisiologica, o forse erano un semplice mascheramento mimetico. Certo rendevano ancora più difficile il compito già arduo di intuire i pensieri del Superno. Costui comunque non parve avere niente da obiettare alle dichiarazioni polemiche che gli erano state lanciate come un guanto di sfida. Il Rettore stava per rinnovare i suoi attacchi, quando il professor Sperling, capo della Sezione Scienze, pensò bene di trasformare il duello in una guerra su tre fronti.

«Come senza dubbio saprete, signore, uno dei grandi problemi della nostra cultura è stato il dissidio fra arte e scienza. Mi piacerebbe conoscere il vostro pensiero sull’argomento. Approvate anche voi l’opinione che tutti gli artisti sono degli anormali? Che la loro opera, o comunque l’impulso che la genera, è conseguenza di una insoddisfazione psicologica profondamente radicata?»

Chance si schiarì la voce in modo eloquente, ma l’Ispettore lo precedette.

«Mi è stato detto che tutti gli uomini sono artisti fino a un certo grado, così che ognuno è capace di creare qualche cosa, sia pure a un livello rudimentale. Ieri, per esempio, visitando la vostra scuola ho osservato la insistenza sulla individualità che traspare nei disegni, nella pittura, nella scultura. Impulso che m’è parso comune a tutti, anche tra coloro chiara-mente destinati a specializzarsi nelle scienze. Così che, se tutti gli artisti sono anormali e tutti gli uomini sono artisti, il sillogismo che ci troviamo a considerare diviene di particolare interesse…»

Tutti aspettarono che l’Ispettore terminasse la frase. Ma quando conveniva loro, i Superni sapevano essere pieni di tatto. L’Ispettore sopportò il concerto sinfonico con buona grazia, vale a dire meglio di molti umani presenti. L’unica concessione al gusto della maggioranza fu una sinfonia di Stravinsky, il resto del programma era composto da pezzi aggressivamente moderni. A parte i gusti personali, però, l’esibizione fu di primissimo ordine perché la dichiarazione che la Colonia possedeva un buon numero dei migliori concertisti della Terra non era una vanteria infondata. Tra i vari compositori c’era stata lotta per l’onore di comparire nel programma, anche se alcuni cinici mettevano in dubbio che fosse un onore. Per quello che se ne sapeva, i Superni potevano anche essere del tutto sordi alla musica. Si osservò, comunque, che dopo il concerto l’Ispettore volle conoscere i tre compositori presentati e si complimentò con loro per «la grande inventiva dimostrata». La frase provocò risposte compiaciute ma un po’ perplesse. Fu solo al terzo giorno che George Greggson ebbe modo di conoscere l’Ispettore. Il teatro aveva preparato una specie di fritto misto più che una sola portata di gran classe: due lavori di un atto, uno sketch rappresentato da un attore di fama mondiale e una sequenza di balletto. Ancora una volta, ogni elemento del programma fu rappresentato in modo superbo, e la previsione di un critico: «Ora almeno scopriremo se i Superni sanno sbadigliare» ebbe una clamorosa smentita. L’Ispettore infatti rise parecchie volte e sempre al punto giusto.

Tuttavia… no, nessuno avrebbe potuto esserne certo, ma sembrava a volte che anche lui recitasse magnificamente una parte, seguendo la rappresentazione in virtù della sola logica, e con le sue incomprensibili emozioni completamente intatte, come un antropologo che partecipi a qualche rito primitivo.

Il fatto che egli emettesse i suoni giusti e formulasse le risposte che ci si aspettava, non dimostrava niente.

Sebbene fosse deciso ad avere un colloquio con l’Ispettore, George fece miseramente fiasco. Dopo lo spettacolo, i due scambiarono poche parole, subito dopo la presentazione, quindi il Superno fu portato via come da una piena. Fu del tutto impossibile isolarlo dalla sua corte, e George se ne tor-nò a casa in preda a una vera crisi di frustrazione. Aveva sperato di poter parlare con l’Ispettore a proposito di Jeff e della sua strana esperienza, e ora l’occasione era sfumata per sempre.

Il suo cattivo umore durò due giorni. L’aereo dell’Ispettore si era levato in volo, fra molte dichiarazioni di reciproca stima, prima che il seguito comparisse. Nessuno aveva pensato di fare domande a Jeff, e lui ci pensò parecchio prima di risolversi a parlarne al padre.

«Papà» disse una sera, poco prima di andare a letto «conosci il Superno che è venuto a visitare la Colonia?»

«Sì» rispose George in tono acre.

«Bene, è venuto a visitare anche la nostra scuola e io l’ho sentito parlare a qualche professore. Non ho capito bene quello che diceva… ma credo proprio di avere riconosciuto la voce: era la stessa voce che mi aveva detto di correre via presto, quando arrivò l’ondata.»

«Ne sei sicuro?»

Jeff esitò per un istante.

«Non del tutto, ma se non è stato lui è stato di certo un altro Superno. Mi sono chiesto se non dovessi per caso ringraziarlo. Ma adesso se n’è andato, vero?»

«Sì» rispose George «temo proprio che se ne sia andato. Ma può darsi che ci si offra un’altra occasione. Ora, ti prego, fa’ il bravo ragazzo, vattene a letto e non pensare più a tutte queste cose.»

Quando Jeff fu al sicuro in camera sua, e a Jenny fu debitamente provveduto, Jean tornò e andò a sedersi sul tappeto accanto alla poltrona di George, appoggiandosi alle gambe di lui. Era un vezzo che lo colpì come tediosamente sentimentale, ma che non valeva la pena di una discussione. Si limitò a scostare le ginocchia quanto più possibile. «Che ne pensi, ora?» domandò a un tratto Jean con voce stanca. «Credi che la cosa sia realmente avvenuta?»

«Sì, il fatto è realmente avvenuto» rispose George «ma forse è sciocco da parte nostra prendercela tanto. Dopo tutto, qualunque altra coppia di genitori sarebbe grata per quell’intervento, e naturalmente io sono gratissimo ai Superni. La spiegazione può essere straordinariamente semplice. La colonia interessa i Superni, e può darsi che la stessero spiando coi loro strumenti segreti, nonostante la loro dichiarazione, quando l’ondata si stava avvicinando.»

«Ma chi ha parlato conosceva il nome di Jeff, non dimenticarlo. No, è proprio noi che i Superni sorvegliano. C’è qualcosa di particolare in noi che attira la loro attenzione. L’ho sentito fin da quella sera in casa di Rupert. È strano come quella serata abbia cambiato le nostre vite.»

Dall’alto della sua poltrona George diede alla moglie un’occhiata di comprensione, ma niente di più. Incredibile, quanto una persona possa cambiare in così breve tempo. Lui le voleva molto bene, lei gli aveva dato due figli ed era una parte inalienabile della sua vita. Ma dell’amore che un uomo di nome George Greggson aveva un tempo nutrito per un sogno ormai vago chiamato Jean Morrei, quanto rimaneva? Il suo amore si divideva ora fra Jeff e Jennifer da una parte e Carolle dall’altra. Non credeva che Jean sapesse di Carolle, e intendeva dirglielo prima che lo facesse qualcun altro. Ma non era mai riuscito a entrare in argomento.

«Va bene, Jeff è dunque sorvegliato, protetto: non è forse una constatazione che dovrebbe renderci fieri? Può darsi che i Superni abbiano deciso grandi cose per lui, un brillante avvenire, chi sa?»

Parlava per tranquillizzare Jean, lui non era molto turbato, ma solo perplesso, sbigottito. Tutto a un tratto, però, un altro pensiero lo colpì, una supposizione che avrebbe già dovuto fare. I suoi occhi si volsero automaticamente in direzione della camera dei due bambini.

«Mi domando se è soltanto di Jeff che si occupano» disse.


A suo tempo l’Ispettore presentò il suo rapporto. Gli isolani avrebbero dato chi sa che cosa per poterlo vedere. Tutte le cifre statistiche e i dati andarono nelle memorie insaziabili delle grandi calcolatrici che costituivano alcuni, ma non tutti, degli invisibili poteri alle spalle di Karellen. Ancora prima, tuttavia, che questi impersonali cervelli elettronici fossero arrivati alle loro conclusioni, l’Ispettore aveva allegato il suo parere personale. Espresso in pensieri e parole umani, questo parere si sarebbe potuto riassumere così: «Non occorre prendere misure di sorta nei riguardi della Colonia. Rappresenta un esperimento interessante ma non può minimamente incidere sul futuro. I suoi tentativi artistici non ci interessano minimamente e non risulta che le ricerche scientifiche si svolgano lungo canali pericolosi. Come stabilito, ho potuto vedere i registri scolastici del Suddito Zero senza destare curiosità. Sono in proposito allegati interessanti dati statistici, e si vedrà che non si hanno ancora indizi di sviluppi insoliti. Tuttavia, come sappiamo, ben di rado fenomeni di sfondamento sono preceduti da segni molto appariscenti. Ho anche conosciuto il padre di Zero, e ho avuto l’impressione che desiderasse parlarmi. Fortunatamente, ho potuto evitarlo. Non c’è dubbio che l’uomo sospetti qualche cosa, anche se, naturalmente, non potrà mai indovinare la verità o influire, comunque, sull’esito definitivo.

«Ogni giorno di più nutro sentimenti di pietà per costoro.»


George Greggson si sarebbe dichiarato d’accordo sul verdetto dell’Ispettore: non c’era niente d’insolito in Jeff. C’era stato soltanto quello straordinario incidente, più impressionante di un gran colpo di tuono in una lunga e placida giornata estiva. E poi… più niente. Jeff aveva tutta l’energia e la curiosità di ogni altro bimbo di sette anni. Era intelligente, quando si dava la pena di esserlo, ma ben lontano dal pericolo di diventare un genio. A volte, pensava Jean con una certa stanchezza, impersonava perfettamente la definizione classica di un ragazzetto della sua età: «un gran fracasso entro una nube di sporcizia». Non che fosse facile assicurarsi del grado di sporcizia, dato che doveva accumularsi per più strati prima di tradirsi sull’abbronzatura di Jeff. Aveva sbalzi d’umore, questo sì, ed era di volta in volta espansivo o scontroso, riservato o esuberante. Ma anche questo rientrava nella normalità. Non dimostrava preferenza per uno o l’altro dei genitori, e l’arrivo della sorellina non aveva suscitato in lui nessuna gelosia. La sua cartella clinica era un foglio bianco: non era mai stato malato nemmeno un giorno. Ma questo non era insolito in quei giorni, e con quel clima. A differenza di altri ragazzi, Jeff non si annoiava della compagnia di suo padre e raramente lo lasciava per aggregarsi a compagni della sua età. Era evidente che aveva ereditato da George il talento e la passione artistica, e si può dire che appena imparato a camminare era diventato un assiduo frequentatore del palcoscenico del teatro di Nuova Atene. Il teatro, dal canto suo, lo aveva adottato come mascotte, e ormai Jeff era bravissimo nel presentare omaggi floreali alle celebrità teatrali e cinematografiche che visitavano la Colonia. Sì, Jeff era un ragazzo normalissimo. Così George si rinfrancò a misura che andavano a fare insieme passeggiate a piedi o in bicicletta sulla superficie angusta dell’isola. Parlavano tra loro come padre e figli hanno sempre fatto, solo che nella loro epoca non c’erano tante cose da dirsi. Sebbene Jeff non lasciasse mai l’isola, poteva vedere tutto quello che voleva del mondo circostante attraverso l’occhio onnipresente del televisore. Sentiva, come tutti gli altri abitanti della Colonia, un lieve disprezzo per il resto del genere umano. Erano loro la «élite», l’avanguardia del progresso. Sarebbero stati loro a elevare il genere umano fin sulle vette raggiunte dai Superni, e forse ancora più in alto. Non domani, certo, ma un giorno… Non avrebbero mai immaginato che quel giorno doveva venire anche troppo presto.

17

I sogni cominciarono sei settimane più tardi.

Nell’ombra della notte subtropicale, George Greggson nuotava lentamente risalendo dal sonno alla coscienza. Non sapeva che cosa lo avesse destato e per qualche istante rimase coricato in un torpore di perplessità. Quindi si accorse di essere solo. Jean si era alzata e si era diretta senza fare rumore nella camera dei bambini. Ora stava parlando sommessamente con Jeff, così sommessamente, infatti, che George non riuscì a capire una parola di quello che diceva. George sgusciò a fatica dal letto e raggiunse la moglie nella stanza accanto. La sola luce era quella che emanava dai quadri fluorescenti appesi alle pareti della camera. Al loro chiarore opaco, George scorse Jean seduta ai capezzale di Jeff. Lei si volse sentendolo entrare e sussurrò: «Non svegliare la bambina.»

«Che cosa è successo?»

«Sapevo che Jeff aveva bisogno di me e mi sono svegliata.»

La semplicità della dichiarazione con cui Jean dimostrava di accettare il fatto come normale, dette a George una stretta al cuore. «Sapevo che Jeff aveva bisogno di me». E come facevi a saperlo? avrebbe voluto chiedere a Jean. Ma si limitò a dire: «Aveva gli incubi?»

«Non mi sembra» rispose Jean. «Ora ha l’aria di stare benissimo. Ma era atterrito, quando sono entrata.»

«Non ero atterrito per niente, mamma» rispose la vocetta indignata del bambino. «Ma era un posto così strano!»

«Che posto era?» chiese George. «Raccontami tutto.»

«C’erano delle montagne» disse Jeff in tono trasognato. «Erano alte, altissime, ma non avevano neve sulla cima, come tutte le montagne alte che ho visto. E alcune di queste montagne erano in fiamme.»

«Vuoi dire… che erano vulcani?»

«No, non proprio vulcani. Erano completamente ricoperte di fuoco, con delle buffe fiamme azzurre. E mentre stavo guardando, si è levato il sole.»

«Avanti, continua…»

Jeff volse gli occhi sbigottiti verso il padre.

«Ecco un’altra cosa che non capisco, papà. Il sole è sorto con una rapidità incredibile, e poi era troppo grande, era immenso! E poi… non aveva il suo vero colore: era d’un bellissimo azzurro.»

Ci fu un lungo silenzio, un silenzio di ghiaccio che stringeva il cuore. Quindi George disse, in tono pacato: «È tutto qui?»

«Sì. Ho cominciato a sentirmi solo e sperduto, e allora la mamma è venuta a svegliarmi.»

George diede una tiratina affettuosa ai capelli scarmigliati del figlio, mentre si stringeva la cintura della veste da camera con l’altra mano. Si sentì a un tratto infreddolito, debole e inetto. Ma non c’era nessuna traccia di questo nella sua voce, quando disse a Jeff: «Non è che un sogno senza senso. Hai mangiato troppo a cena. Ora non ci pensare più e cerca di dormire, sii bravo.»

«Sì, papà» rispose Jeff. Rimase in silenzio per un istante e poi aggiunse, in tono pensoso: «Forse cercherò di tornarci, in quello strano posto.»


«Un sole azzurro?» disse Karellen qualche ora più tardi. «Questo deve avere facilitato inoltre l’identificazione.»

«Sì» rispose Rashaverak. «Si tratta senza possibilità di dubbio di Alphanidon Due. Le Montagne Sulfuree confermano il fatto. Ed è interessante notare la distorsione della scala temporale. Il pianeta ruota sul proprio asse con notevole lentezza, per cui egli deve avere osservato un tratto di parecchie ore in qualche minuto.»

«È tutto quanto siete in grado di scoprire?»

«Sì, senza interrogare direttamente il bambino.»

«Non possiamo osare tanto. Gli eventi devono seguire il loro corso naturale senza interferenze da parte nostra. Quando i suoi genitori verranno in contatto con noi… allora forse potremo interrogarlo.»

«Possono anche non venire mai in contatto con noi. O farlo quando sarà troppo tardi.»

«Temo che a questo non si possa rimediare. Non dobbiamo mai dimenticarlo: in queste cose la nostra curiosità non ha nessuna importanza. Non è più importante nemmeno della felicità del genere umano.»

Alzò la mano per togliere la comunicazione.

«Continuate la vostra sorveglianza, naturalmente, e riferitemi ogni risultato degno di nota. Ma ricordatevi di non interferire in nessun modo!»


Eppure, da sveglio Jeff sembrava lo stesso identico ragazzetto di sempre: cosa di cui almeno, pensò George, c’era da essere grati. Ma la paura ingigantiva sempre più nel suo cuore. Per Jeff non era che un gioco: non aveva ancora nemmeno cominciato a spaventarlo. Un sogno era semplicemente un sogno, per strano che fosse. E non si sentiva più troppo solo e sperduto nei mondi che il sonno gli dischiudeva. Era stato soltanto quella prima volta, quando la sua mente aveva invocato l’aiuto di Jean varcando chi sa quali abissi misteriosi, insondabili. Ora aveva imparato ad andare solo e senza timore nell’universo che gli spalancava le porte.

La mattina poi gli facevano un sacco di domande, e lui raccontava tutto quello che poteva ricordare. Talvolta le parole si accavallavano o gli mancavano, quando tentava di descrivere scene che non solo erano al di là di ogni sua esperienza, ma al di là della stessa immaginazione umana. Padre e madre gli venivano in aiuto suggerendogli parole nuove, mostrandogli fotografie a colori per stimolare la sua memoria e poi cercando loro di descrivere la scena, disegnandola in base alle sue risposte. Spesso non riuscivano però a capire niente dal risultato dei loro sforzi, per quanto sembrasse che nella mente di Jeff i mondi del suo sogno fossero ben chiari e definiti. Lui infatti sapeva benissimo com’erano, ma non riusciva a descriverli ai genitori. Eppure alcuni di quei mondi sarebbero dovuti essere comprensibili…


Lo spazio soltanto, nessun pianeta, nessun paesaggio circostante, nessun mondo sotto i piedi; ma le stelle soltanto, nella notte di velluto, e sospeso sullo sfondo delle stelle un enorme sole rosso, pulsante come un cuore. Immenso e rarefatto un istante, si raggrinziva lentamente, già più fulgido, come se nuovo combustibile fosse stato gettato nelle fornaci del suo interno. Risaliva la scala dello spettro fino a sfiorare i margini del giallo, e poi il ciclo ricominciava nel senso opposto, la stella si dilatava e si raffreddava, divenendo ancora una volta una nebulosità dai contorni frastagliati, rosso fiamma.

(«Tipica pulsante variabile» disse Rashaverak con interesse. «Vista inoltre sotto un’enorme accelerazione temporale. Non posso identificarla con certezza, ma la stella più vicina che corrisponda alla descrizione è Rhamsanidon Nove. A meno che non sia Pharanidon Dodici.»

«Qualunque sia la stella» rispose Karellen «il ragazzo si allontana sempre più dal suo mondo.»

«Sempre di più» disse Rashaverak…).


Sarebbe potuta essere la Terra. Un sole bianco spiccava nel cielo azzurro chiazzato di nubi che fuggivano spinte da un temporale. Un’altura digradava dolcemente verso un oceano reso schiumeggiante dal vento rabbioso. Ma tutto era immobile: la scena era come pietrificata, quasi che fosse colta dall’occhio nell’attimo di luce abbagliante di un fulmine. E lontano, molto lontano sull’orizzonte, c’era qualcosa che non apparteneva alla Terra, una fila di colonne di fumo che si assottigliavano a mano a mano che, uscite dall’acqua, salivano incontro alle nubi. Quelle colonne erano perfettamente equidistanti tra loro lungo tutto il perimetro di quel pianeta che era troppo grande per essere un mondo artificiale, eppure troppo regolare per essere naturale.

(«Sidenens Quattro e i Pilastri dell’Alba» disse Rashaverak, e c’era un tono di timore riverenziale nella sua voce. «Ha raggiunto il centro dell’universo.»

«E ha appena cominciato il suo viaggio» rispose Karellen).


Il pianeta era assolutamente piatto. La sua enorme forza di attrazione gravitazionale aveva già da gran tempo schiacciato a un livello uniforme le montagne della sua gioventù aggressiva. Era un mondo a due dimensioni, popolato da esseri che non potevano avere uno spessore maggiore d’una frazione di centimetro. Eppure c’era vita su di esso perché la sua superficie era percorsa da una miriade di disegni geometrici che si muovevano e mutavano colore. E nel cielo splendeva un sole quale soltanto un fumatore di oppio avrebbe potuto immaginare in una delle sue allucinazioni più sfrenate. Troppo caldo per essere bianco, era un fantasma lancinante, che ai confini dell’ultravioletto bruciava i suoi pianeti con radiazioni letali per ogni forma di vita. Era una stella a paragone della quale il pallido sole della Terra sarebbe stato così fioco come una lucciola nella gran luce del mezzogiorno. («Hexanerax Due, la sola stella di quel tipo in tutto l’universo conosciuto» disse Rashaverak. «Soltanto una piccola squadra delle nostre navi è potuta giungervi: e non si sono tentati atterraggi perché nessuno avrebbe potuto immaginare che la vita potesse esistere su pianeti simili.»

«A quanto pare» osservò Karellen «voi scienziati non siete poi stati così scrupolosi come avevate creduto. Se quelle figure… quei disegni, potremmo dire, sono intelligenti, il problema di come entrare in comunicazione sarà molto interessante. Mi domando se abbiano il più lieve sentore della terza dimensione…»).


Era un mondo che non avrebbe mai potuto avere il concetto della notte e del giorno, degli anni e delle stagioni. Sei soli variopinti si dividevano il suo cielo, così che c’era soltanto un mutamento di luce. Le tenebre non calavano mai. Tra i sussulti e gli strattoni dei campi gravitazionali contrastanti, il pianeta percorreva le curve e gli anelli annodati dalla sua orbita incredibilmente complessa, senza mai passare per lo stesso punto. Ogni momento era unico: la configurazione che in quell’istante i sei soli tracciavano nel cielo non si sarebbe più ripetuta per tutta l’eternità. E anche lì c’era vita: che importava se ai cristalli sfaccettati e raggruppati in complicate forme geometriche occorreva un millennio per completare un pensiero?

L’universo era giovane, e il tempo senza fine.

(«Ho ripassato tutti i dati in nostro possesso» disse Rashaverak. «Non abbiamo notizia né di un mondo simile né di un simile combinazione di soli. Se esistesse in seno al nostro universo, gli astronomi lo avrebbero scoperto, anche se si trovasse al di là del raggio di azione delle nostre astronavi.»

«Allora significa che il ragazzo è uscito dalla Via Lattea.»

«Appunto. L’evento non può tardare più, ormai.»

«Chi lo sa? Il ragazzo si limita a sognare. Quando si sveglia è sempre lo stesso. Siamo ancora nella prima fase. Sapremo presto quando il cambiamento avrà inizio»).


«Noi ci siamo già conosciuti, signor Greggson» disse gravemente il Superno. «Mi chiamo Rashaverak. Credo che vi ricordiate di me.»

«Certo» disse George «ci siamo conosciuti a una festa in casa di Rupert Boyce. Non dimentico facilmente. E poi ero sicuro che ci saremmo incontrati di nuovo.»

«Ditemi, perché avete voluto questo colloquio?»

«Credo che lo sappiate già.»

«Può darsi. Ma gioverà a entrambi, se vorrete esprimervi con le vostre parole. Può darsi che vi sorprenda, ma anch’io cerco di capire, e sotto molti riguardi la mia ignoranza è profonda quanto la vostra.»

George guardò il Superno con espressione sbalordita. Ecco un’idea che non gli era mai passata per la testa. Aveva sempre inconsciamente presunto che i Superni avessero ogni sapere e ogni potere e che comprendessero le cose che erano accadute a Jeff e ne fossero, probabilmente, causa.

«Immagino» disse George «che abbiate visto i rapporti che ho fatto allo psichiatra dell’isola e siate perciò al corrente dei sogni. Non ho mai creduto che fossero dovuti alla immaginazione di un bambino. Sono talmente incredibili che, per quanto possa sembrare ridicolo, dovevano basarsi su qualche realtà.»

Guardò ansiosamente Rashaverak, non sapendo se sperare una conferma o una smentita.

Il Superno non disse niente, ma si limitò a guardarlo coi suoi grandi occhi placidi.

«Ci siamo stupiti in un primo momento» riprese George «ma non proprio allarmati. Jeff sembrava perfettamente normale quando si svegliava, e i suoi sogni parevano preoccuparlo. Poi, una notte» esitò, e guardò con espressione cauta il Superno «una notte… non ho mai creduto nel soprannaturale, devo dire, non sono scienziato, ma penso che debba esserci una spiegazione razionale per ogni specie di fenomeno…»

«C’è» disse Rashaverak. «So quello che avete visto: stavo osservando.»

«L’ho sempre sospettato. Ma Karellen aveva promesso che non ci avreste spiati coi vostri strumenti speciali. Perché non è stata mantenuta la promessa?»

«Non sono stato io a romperla. Il Supercontrollore disse che la razza umana non sarebbe più stata sotto sorveglianza. La promessa è stata mantenuta. Io sorvegliavo i vostri figli, non voi.»

Occorsero alcuni secondi prima che George intendesse il sottinteso della risposta di Rashaverak. E si fece mortalmente pallido.

«Volete dire…?» ansimò. La voce gli si spense e dovette ricominciare da capo. «Ma dunque che cosa sono, in nome di Dio, i miei figli?»

«È proprio quello che stiamo cercando di scoprire» rispose Rashaverak solennemente.


Jennifer Anne Greggson, più nota in famiglia col nome di Bambola, giaceva supina con gli occhi strettamente chiusi. Da tanto tempo li teneva chiusi e non li avrebbe mai più riaperti, perché adesso la vista le era superflua come alle multisensoriali creature delle profondità oceaniche, dove non c’era luce. Lei si rendeva conto di ciò che la circondava e sapeva e si rendeva conto di infinite altre cose.

Un solo riflesso le rimaneva della sua breve infanzia, per qualche inesplicabile anomalia di sviluppo. Il suono tamburellante del sonaglio, che un tempo la divertiva tanto, batteva ora un ritmo complesso e mutevole nel suo lettino. Era quella strana serie di suoni sincopati che aveva destato Jean, spingendola a correre d’urgenza nella camera accanto. Ma non era stato soltanto quel suono che l’aveva indotta a chiamare, urlando, George. Era stata la vista di quel comunissimo sonaglio variopinto che bubbolava alto e solitario nel vuoto, a mezzo metro almeno da qualunque sostegno, mentre Jennifer Anne, le dita grassocce strettamente incrociate, se ne stava distesa con un sorriso di placida contentezza.

Aveva ricominciato più tardi, ma progrediva con grande rapidità. In breve avrebbe superato il fratello, dato che aveva molto meno di lui da imparare.


«Avete fatto bene» disse Rashaverak «a non toccare il suo giocattolo. Non credo, comunque, che avreste potuto muoverlo. Ma se vi foste riuscito, la bimba avrebbe potuto soffrirne. E in questo caso non so che cosa sarebbe potuto accadere.»

«Intendete dire» osservò George in tono lugubre «che non potete far niente?»

«Non voglio illudervi. Possiamo osservare e studiare, come già stiamo facendo. Ma non possiamo interferire, perché non possiamo capire.»

«Allora che cosa dobbiamo fare? E perché questo genere di fenomeni doveva capitare proprio a noi?»

«A qualcuno doveva pur capitare. Non c’è niente di eccezionale in voi, come non c’è niente di eccezionale nel primo neutrone che inizia la catena a reazione di una bomba atomica. È il fenomeno che noi chiamiamo Sfondamento Totale. Attendevamo che il fenomeno si verificasse fin da quando siamo venuti su questo pianeta. Non c’era modo di prevedere quando e dove avrebbe avuto inizio… fino al giorno in cui, per pura combinazione, ci siamo incontrati alla festa di Rupert Boyce. Fu allora che seppi, con certezza quasi assoluta, che i bambini di vostra moglie sarebbero stati i primi.»

«Ma noi non eravamo ancora… sposati allora. Non avevamo nemmeno…»

«Sì, lo so. Ma la mente della signorina Morrei fu il canale per cui, sia pure per un solo istante, furono comunicate cose che nessuna creatura al mondo, in quel tempo, era in grado di sapere. La comunicazione non poteva che venire da un’altra mente, connessa in modo inseparabile dalla sua. Il fatto che fosse una mente ancora a venire non aveva nessuna importanza, dato che il Tempo è molto più strano di quanto possiate immaginare.»

«Comincio a capire. Jeff conosce queste cose… può vedere altri mondi e dire da dove venite. E in qualche modo Jean ha captato i suoi pensieri ancora prima che il bambino nascesse.»

«Si tratta di ben altro che questo, ma non credo che voi potrete mai avvicinarvi molto di più alla verità. Sempre, in ogni epoca della storia, sono nate persone dotate di poteri inesplicabili che sembrano trascendere lo spazio e il tempo. Non sono mai stati capiti: quasi senza eccezione, le spiegazioni che si è tentato di darne non erano che sciocchezze. Io lo so. Ne ho lette una infinità. Ma c’è un’analogia, che è… sì, istruttiva ed efficace. Non fa che ricorrere in tutta la vostra letteratura. Immaginate che la mente di ogni uomo sia un’isola, circondata dall’oceano. Ognuna sembra appartata, del tutto avulsa dal resto, ma in realtà sono tutte collegate fra loro dal fondo roccioso da cui sono sorte. Se l’oceano dovesse svanire, ciò segnerebbe la fine delle isole in quanto isole. Farebbero tutte parte di un solo continente, ma la loro individualità sarebbe scomparsa. La telepatia, come voi uomini l’avete chiamata, è qualche cosa di simile. In circostanze favorevoli, le menti possono fondersi l’una nell’altra e scambiarsi il reciproco contenuto, per poi riportare il ricordo del fenomeno, quando siano di nuovo isolate. Nella sua forma più elevata, questo potere non è soggetto alle solite limitazioni dello spazio e del tempo. Ecco perché Jean poté attingere alle cognizioni del figlio non ancora nato.»

Seguì un lungo silenzio mentre George lottava con questi concetti sconcertanti. Il quadro cominciava a delinearsi. Era un quadro incredibile, inconcepibile, ma che possedeva una sua logica e che spiegava, se si può usare questo vocabolo per qualcosa di incomprensibile, spiegava tutto quello che era accaduto da quella serata in casa di Rupert. E George si rese conto che dava un senso anche all’interesse di Jean per la metapsichica.

«Che cosa ha messo in moto questo meccanismo?» chiese George. «E dove porta?»

«È una domanda a cui non sappiamo dare risposta. Ma ci sono molte razze nell’universo, e alcune di esse hanno scoperto questi poteri gran tempo avanti che la vostra specie, o la mia, comparissero sulla scena. Hanno atteso che la raggiungeste e ora sembra venuto il momento.»

«E voi, come entrate nel quadro?»

«Probabilmente, come la stragrande maggioranza degli uomini, anche voi ci avete sempre considerato i vostri padroni. Non è vero. Non siamo stati che dei tutori che adempivano a un dovere impostoci… dall’alto. Do-vere alquanto difficile da definire. Forse, vi converrebbe pensare a noi come a levatrici intente a un parto difficile. Noi contribuiamo a far venire alla luce qualcosa di nuovo e meraviglioso.»

Rashaverak esitò. Per un attimo parve incapace di trovare le parole adatte.

«Sì, noi siamo le ostetriche. Ma siamo, anche, sterili.»

In quell’attimo George comprese di trovarsi alla presenza di una tragedia che trascendeva perfino la sua. Era incredibile e tuttavia giusto, in un certo senso. Nonostante tutti i loro poteri e la loro intelligenza, i Superni erano rimasti imbottigliati in un ramo senza lo sbocco dell’evoluzione. Una grande e nobile razza, superiore in ogni cosa al genere umano, e che tuttavia non aveva avvenire e lo sapeva. Di fronte a tutto ciò, gli stessi problemi di George divenivano insignificanti.

«Ora capisco» disse «perché tenevate tanto d’occhio mio figlio: era la cavia di questo particolare esperimento.»

«Precisamente. Sebbene l’esperimento sia al di là del nostro controllo. Non siamo stati noi ad avviarlo… noi abbiamo soltanto cercato di osservarlo. Non siamo mai intervenuti se non quando dovevamo farlo.»

«Già» pensò George «la grande ondata d’alta marea. Non avreste mai permesso che scomparisse un esemplare di tanto valore.» Poi si vergognò di sé: la sua amarezza era ingiusta e non risolveva niente.

«Permettetemi di farvi un’altra sola domanda» disse. «Che cosa dovremo fare dei nostri figli?»

«Godeteveli finché potrete» rispose Rashaverak dolcemente. «Non resteranno vostri molto a lungo.»

Consiglio che si sarebbe potuto dare a qualunque padre in qualunque epoca della storia: ma che ora sembrava contenere una minaccia e un terrore mai avuti prima.

18

E venne per Jeffrey il tempo in cui il mondo dei suoi sogni non fu più nettamente distinto dall’esistenza quotidiana. Non andava più a scuola e anche per Jean e George il sereno corso della loro vita fu sconvolto, così come lo sarebbe stato tra breve per tutto il pianeta. Avevano cominciato a evitare i loro amici, come se fossero consci che presto nessuno avrebbe più avuto comprensione e compassione da dare agli altri. A volte, nella quiete della notte, quando c’era poca gente in giro, facevano lunghe passeggiate insieme. Erano più uniti adesso di quanto lo fossero mai più stati dopo i primi giorni di matrimonio. La tragedia di cui non erano ancora consapevoli e che fra poco li avrebbe travolti, li aveva riuniti.

All’inizio avevano provato quasi un senso di colpa a lasciare soli in casa i bambini addormentati, ma avevano finito per accorgersi che Jeff e Jenny erano in grado di badare a se stessi in un modo che sfuggiva alla loro comprensione. E poi, naturalmente, c’erano i Superni a sorvegliarli. Pensiero rassicurante, perché così George e Jean sentivano di non essere soli col loro problema assillante. Occhi vigili e amichevoli condividevano la loro attesa. Jennifer dormiva: non c’era altra parola per descrivere lo stato in cui era entrata. Dal punto di vista dell’aspetto esteriore, era ancora in tutto e per tutto una bimba, ma aveva intorno come un alone di poteri latenti così terrificante che Jean non sapeva più risolversi a metter piede nella camera dei bambini.

Né ce n’era bisogno. L’entità che era stata Jennifer Anne Greggson non era ancora pienamente sviluppata, ma anche nel suo dormiente stato di crisalide aveva già un tale dominio del suo ambiente da essere autosufficiente. Jean aveva tentato una volta di darle da mangiare, ma senza successo. Jennifer sceglieva lei il momento in cui nutrirsi, e il modo di farlo. Infatti le vivande si dissolvevano nella ghiacciaia secondo un flusso lento e costante: ma Jennifer Anne non si muoveva mai dal suo lettino. Il suono monocorde del sonaglio era cessato, e il giocattolo giaceva sul pavimento: nessuno osava toccarlo nel timore che Jennifer Anne potesse averne ancora bisogno. Qualche volta lei disponeva mobili e soprammobili secondo una bizzarra logica, e a George sembrava che i quadri fluorescenti fossero diventati più luminosi.

Non dava nessuna noia: era al di là d’ogni loro possibilità di accudire a lei, al di là del loro amore. Non poteva durare ancora a lungo, era chiaro, e nel poco tempo che restava ancora, Jean e George si aggrapparono disperatamente a Jeff. Ma anche Jeff stava cambiando. Però li conosceva ancora. Il ragazzetto, la cui crescita loro avevano ansiosamente seguito fin dalle prime informi nebbie dell’infanzia, stava perdendo la sua personalità, dissolvendosi d’ora in ora sotto i loro occhi. Ma parlava ancora con loro, come aveva sempre fatto, parlava dei suoi giocattoli e dei suoi compagni, quasi ignorasse ciò che l’avvenire gli riserbava. Tuttavia la maggior parte del tempo non li ve-deva nemmeno, non mostrava di essere nemmeno consapevole della loro presenza. Non dormiva più, come invece erano costretti a fare i suoi genitori, nonostante la loro prepotente necessità di perdere il minor numero possibile di quelle ultime ore.

Diversamente da Jenny, Jeff non sembrava possedere poteri paranormali sugli oggetti fisici, forse perché, essendo già parzialmente cresciuto, ne aveva meno bisogno. La sua stranezza consisteva interamente nella vita mentale, di cui i suoi sogni erano soltanto una piccola parte. Rimaneva immobile per ore e ore, gli occhi chiusi strettamente, come in ascolto di qualcosa che nessun altro poteva udire. Entro la sua mente fluiva ininterrotta la conoscenza, da chi sa quale luogo e tempo, una conoscenza che in breve avrebbe sopraffatto e distrutto la creatura semiformata che era stata Jeffrey Angus Greggson. E Fey se ne stava seduta a guardare, levando su di lui gli occhi tristi, sbigottiti, chiedendosi dove fosse andato il suo padroncino e quando sarebbe tornato a lei.


Jeff e Jenny erano stati i primi di tutto il pianeta, ma non passò molto tempo che non furono più soli. Come un’epidemia che si diffonda fulminea da un continente all’altro, la metamorfosi contagiò l’intera razza umana. Non toccò praticamente nessuno al disopra dei dieci anni, mentre nessuno, praticamente, al disotto di quell’età sfuggì.

Fu la fine della civiltà, la fine di tutto quello che gli uomini avevano realizzato dall’inizio del tempo. In pochi giorni l’umanità si vide negato il futuro, perché quando a tutto un popolo vengono portati via i bambini, si distrugge il cuore della razza e si annienta la volontà di sopravvivere. Ma non ci fu panico come sarebbe successo invece un secolo prima. Il mondo rimase tramortito, le grandi città piombarono nell’immobilità e nel silenzio. Solo le industrie di importanza vitale continuarono a funzionare. Fu come se tutto il pianeta fosse in lutto, e piangesse ciò che, adesso, non avrebbe più potuto avere.

Allora, come aveva già fatto una volta in un’epoca ormai dimenticata, Karellen parlò per l’ultima volta al genere umano.

19

«La mia opera qui volge al suo termine» disse la voce di Karellen da milioni di apparecchi radio. «Finalmente, dopo un secolo, posso dirvi qual era.

«Sono molte le cose che abbiamo dovuto nascondervi, così come abbiamo dovuto tenerci nascosti per metà della nostra permanenza sulla Terra. So che alcuni di voi hanno ritenuto inutile questa precauzione. Ora siete abituati alla nostra presenza: non potete nemmeno più immaginare quale sarebbe stata la reazione dei vostri antenati nei nostri riguardi. Ma almeno potete comprendere lo scopo per cui siamo rimasti nascosti e sapete che avevamo una ragione per quello che abbiamo fatto.

«Il segreto supremo che abbiamo dovuto mantenere nei vostri riguardi era lo scopo per cui siamo venuti sulla Terra, quello scopo su cui avete fatto tante disperate supposizioni. Non abbiamo potuto dirvelo prima d’ora, perché si trattava di un segreto che non ci apparteneva.

«Un secolo fa siamo venuti sul vostro mondo a salvarvi dall’autodistruzione. Non penso che qualcuno neghi il fatto, ma nessuno ha mai immaginato di quale autodistruzione si trattasse.

«Noi abbiamo messo al bando le armi nucleari e tutti gli altri congegni mortali che stavate accumulando nei vostri depositi di armi, e con questo fu annullato il pericolo della distruzione fisica. Voi pensavate che fosse l’unico pericolo, e noi volevamo che lo credeste. Ma non era vero. Il pericolo peggiore che vi minacciava era di tutt’altro genere, e non riguardava soltanto la vostra razza.

«Numerosi mondi sono arrivati al punto critico provocato dalla potenza nucleare, hanno evitato il disastro, sono riusciti a edificare civiltà basate sulla pace, eppure sono stati ugualmente distrutti da forze che essi ignoravano. Nel ventesimo secolo voi avevate cominciato a immischiarvi seriamente con queste forze. Ecco perché è stato necessario intervenire.

«In tutto il secolo la razza umana si è lentamente avvicinata sempre più all’abisso di cui non sospettava l’esistenza. Sopra quell’abisso c’è un unico ponte. Poche razze l’hanno trovato senza aiuto. Alcune hanno fatto marcia indietro quando erano ancora in tempo, evitando così e il pericolo e il successo. I loro mondi sono diventati isole placide che non hanno più parte nella storia dell’universo. Ma voi non avreste avuto questo destino né questa fortuna. La vostra razza era troppo vivace per arrivare a una simile soluzione, sarebbe quindi piombata nella rovina trascinando altri con sé, perché voi non avreste mai trovato quel ponte.

«Temo che dovrò ricorrere a molte analogie per dire quello che devo comunicarvi. Voi non avete parole né concetti per esprimere ciò che vi dirò, e del resto anche la nostra conoscenza di certe cose è imperfetta.

«Per comprendere, dovrete tornare nel lontano passato e ritrovare gran parte di ciò che i vostri antenati avrebbero riconosciuto come familiare, ma che voi avete dimenticato, anche perché noi abbiamo largamente contribuito a farvelo dimenticare. Infatti tutta la nostra permanenza qui sul vostro pianeta si è basata su di un vasto inganno, l’occultamento di verità che non eravate preparati ad affrontare. Nei secoli che precedettero il nostro arrivo, i vostri scienziati avevano scoperto i segreti del mondo fisico conducendovi dall’energia del vapore all’energia dell’atomo. Voi dimenticaste le antiche superstizioni: la scienza era diventata l’unica vera religione della razza umana. Era stato il regalo del mondo occidentale al resto della Terra e aveva distrutto ogni altra fede. Quelle che ancora sopravvivevano quando arrivammo noi stavano però agonizzando. Gli uomini sentivano che la scienza poteva spiegare tutto, che nessuna forza esulava dal suo campo d’azione e che ogni avvenimento poteva essere razionalizzato scientificamente. Forse nessuno avrebbe mai scoperto le origini dell’universo, ma tutto quello che era successo dopo ricadeva sotto le leggi della fisica.

«Eppure i vostri mistici, per quanto smarriti nelle proprie delusioni, avevano intravisto la verità. Ci sono poteri al di là della mente che la vostra scienza non avrebbe mai potuto portare entro il suo dominio senza distruggerli del tutto. Attraverso i secoli ci sono stati innumerevoli rapporti di fenomeni bizzarri, quali la telepatia, la preveggenza, lo spiritismo, ai quali avevate dato un nome ma non una spiegazione. All’inizio la scienza li ignorò, negò perfino la loro esistenza nonostante i millenni di testimonianze. Ma quei fenomeni esistono, e dirò di più: ogni teoria sull’universo deve tenerne conto.

«Durante la prima metà del ventesimo secolo alcuni scienziati hanno cominciato ricerche in questo campo. Non lo sapevano, ma stavano gingillandosi con la serratura del vaso di Pandora. Le forze che avrebbero potuto scatenare superavano tutti i pericoli dell’atomo, perché se i fisici avrebbero potuto distruggere la Terra, i parafisici potevano portare il caos tra le stelle.

«Non si poteva permetterlo. Non so spiegare a fondo la natura della minaccia che voi rappresentavate. Forse non era una minaccia per noi e perciò noi non la comprendiamo. Diremo che minacciavate di diventare una specie di cancro telepatico, una mente malata che nel suo inevitabile disfacimento poteva avvelenare altre più grandi menti.

«Ecco perché siamo venuti… perché siamo stati mandati sulla Terra. Abbiamo interrotto il vostro sviluppo su ogni livello culturale, ma in parti-colare abbiamo messo sotto controllo ogni seria ricerca nel campo dei fenomeni paranormali. Mi rendo perfettamente conto del fatto che abbiamo anche inibito, attraverso il contrasto fra le nostre civiltà, ogni altra forma di attività creatrice. Ma questo era un effetto secondario e non ha una vera importanza.

«Ora dovrò dirvi una cosa che potrà sembrarvi sorprendente, quasi incredibile. Tutte queste potenzialità, questi poteri latenti, noi non li abbiamo e non li comprendiamo. I nostri cervelli sono più potenti dei vostri, ma nella vostra mente c’è qualcosa che è sempre sfuggito all’analisi. Fin da quando siamo venuti sulla Terra vi abbiamo sempre studiati, abbiamo imparato molto e impareremo ancora di più, ma non credo che riusciremo mai ad afferrare tutta la verità. Le nostre razze hanno molto in comune, ecco perché siamo stati scelti per questo compito. Ma sotto altri aspetti rappresentiamo il punto di arrivo di due evoluzioni diverse. Le nostre menti hanno raggiunto la fine del loro sviluppo. Come hanno fatto, nella loro forma presente, le vostre. Tuttavia, voi potete fare il balzo verso il prossimo stadio, e qui sta la differenza tra noi. Il nostro potenziale è esaurito, mentre il vostro è ancora intatto. È connesso, in modo che ci sfugge, ai poteri di cui vi ho parlato, gli stessi che si stanno destando ora sul vostro pianeta.

«Noi abbiamo per così dire tenuto indietro l’orologio, vi abbiamo fatto segnare il passo mentre questi poteri si sviluppavano, in attesa che fossero pronti ad affluire lungo i canali che erano stati preparati per loro. Ciò che abbiamo fatto per migliorare il vostro pianeta, per elevare il vostro tenore di vita, per portare pace e giustizia, l’avremmo fatto comunque una volta costretti a intervenire nei vostri confronti. Ma tutta questa immensa trasformazione vi ha distratti dalla verità, e ci ha aiutato a servire il nostro scopo.

«Non siamo più i vostri tutori. Spesso vi sarete chiesti quale posto la mia razza occupi nella gerarchia dell’universo. Come noi siamo su un gradino al di sopra del vostro, così c’è qualcosa al disopra di noi, qualcosa che si serve di noi per i suoi fini. Non siamo mai riusciti a scoprire che cosa sia, anche se siamo suoi strumenti da epoche immemorabili e se non osiamo disobbedire. Innumerevoli volte abbiamo ricevuto ordini precisi e siamo andati su mondi ancora ai primordi del loro fiorire per guidarli sulla via che noi non potremo mai seguire: la strada sulla quale vi siete ora incamminati voi.

«Abbiamo studiato e ristudiato il processo che siamo stati mandati a controllare e proteggere, con la speranza di imparare come liberarci dalle limitazioni che ci imbrigliano. Ma abbiamo colto solo i contorni vaghi della verità.

«Voi ci avete chiamati i Superni, senza sapere quanta ironia c’è in questo titolo. Al di sopra di noi c’è la Supermente, che ci usa come il vasaio utilizza la sua ruota. E la vostra specie è l’argilla che viene foggiata su quella ruota.

«Noi crediamo, ma è solo una supposizione, che la Supermente stia tentando di accrescersi, di estendere i suoi poteri e la sua coscienza dell’universo. Ora deve essere già la somma di molte razze e già da gran tempo si è lasciata alle spalle la tirannide della materia. È conscia dell’intelligenza, ovunque si trovi. Quando seppe che eravate quasi pronti, ci ha mandato qui a fare il suo volere, a prepararvi per la trasformazione che è in atto.

«I mutamenti per i quali è passata la vostra razza hanno richiesto ere innumerevoli. Ma questa è una trasformazione della mente, non del corpo. Dal punto di vista delle leggi evolutive, sarà cataclismica, istantanea. È già cominciata. Voi dovete affrontare questa realtà; la vostra è l’ultima generazione dell’Homo Sapiens.

«In quanto alla natura di questo cambiamento, possiamo dirvi poco. Non sappiamo come si produce, quale molla la Supermente faccia scattare quando ritiene che sia venuto il momento. Abbiamo scoperto soltanto che il mutamento comincia in un individuo singolo, sempre un bambino, e poi dilaga come l’onda d’urto di un’esplosione, come una formazione cristallina attorno al primo nucleo immerso in una soluzione apposita. Gli adulti non vengono contagiati perché le loro menti sono già foggiate in maniera inalterabile.

«Fra pochi anni sarà tutto finito, e la razza umana si sarà divisa in due. Il mondo che voi conoscete non potrà tornare indietro e non avrà un futuro. Tutte le speranze e tutti i sogni della vostra razza sono ormai consumati. Voi avete dato la vita ai vostri successori, e che non possiate mai capirli, mai comunicare con le loro menti, è la vostra tragedia. Infatti, non avranno menti quali voi conoscete. Saranno come una singola entità, così come voi siete le somme delle vostre miriadi di cellule. Non li riterrete umani e avrete ragione.

«Vi ho detto queste cose perché sappiate ciò che vi attende. Tra poche ore la crisi sarà su di noi. Mio compito e mio dovere è di proteggere coloro che sono stato mandato qui a tutelare. Nonostante i loro poteri che si risvegliano, potrebbero essere distrutti dalle moltitudini che li circondano… sì, dai loro stessi genitori, quando si renderanno conto della verità. Devo condurli via, isolarli, a loro e vostra protezione. Domani le mie navi cominceranno l’evacuazione. Non vi biasimerò, se tenterete di intervenire, ma vi avverto che sarà inutile. Poteri di gran lunga superiori ai miei si stanno svegliando; io non sono che uno dei loro strumenti.

«Dopo di che… che dovrò fare di voi, i superstiti, quando il vostro fine sia stato raggiunto? Sarebbe più semplice, forse, e più misericordioso, distruggervi, come voi distruggereste un vostro cagnolino ferito mortalmente. Ma non è cosa che io possa fare. Il vostro avvenire, starà a voi deciderlo. Io spero che l’umanità passi il resto della sua vita in pace, con la coscienza di non aver vissuto invano.

«Ciò che avete generato potrà essere sconcertante ed estraneo a voi, potrà non condividere i vostri desideri e le vostre speranze, potrà anche considerare le vostre maggiori conquiste come giochi infantili, ma sarà qualcosa di meraviglioso. E sarete stati voi a crearlo.

«Quando la nostra razza sarà dimenticata, parte della vostra sarà ancora in vita. Non vogliate pertanto condannarci per quello che siamo stati costretti a fare. E ricordate: noi vi invidieremo sempre.»

20

Jean aveva pianto in quegli ultimi giorni, ma adesso non piangeva. L’isola si stendeva tutta di oro nella spietata luce insensibile, mentre l’astronave giungeva lentamente in vista al di sopra dei picchi gemelli di Sparta. Su quell’isola rocciosa, non molto tempo prima suo figlio era sfuggito alla morte grazie a un miracolo che ora Jean comprendeva anche troppo. Alle volte, si era perfino chiesta se non sarebbe stato meglio che i Superni se ne fossero rimasti in disparte, abbandonando Jeff al suo destino. Non un suono, non il minimo gesto da parte dei fanciulli. Se ne stavano in gruppi sparsi lungo tutta la spiaggia, non rivelando un maggior interesse l’uno per l’altro di quello che mostravano per le cose che stavano abbandonando per sempre. Molti avevano in collo bimbi troppo piccoli ancora per camminare, o che non volevano esercitare quei poteri che rendevano inutile la necessità di camminare. Perché, pensò George, se potevano muovere la materia inanimata, potevano ben muovere i propri corpi. Perché infatti i Superni si prendevano addirittura la briga di raccoglierli sulle loro astronavi?

Ma tutto ciò non aveva importanza. I loro figli se ne andavano ed era co-sì che avevano deciso di andarsene. E in quel momento George ricordò, di colpo, quello che gli aveva tormentato la memoria. Molto tempo prima, non ricordava più dove, aveva visto un documentario vecchio di un secolo. Il documentario di un esodo simile. Doveva essere all’inizio della prima guerra mondiale, o forse della seconda. Vi erano lunghe file di treni, tutti affollati di bambini, che uscivano lentamente dalle stazioni delle grandi città minacciate dalla guerra, lasciando là i genitori che molti di quei bambini non avrebbero più rivisto. Alcuni piangevano, altri erano disorientati e trafficavano, confusi, con i loro bagagli. Ma i più sembravano guardare al domani come a una grande avventura da vivere.

Però l’analogia aveva qualcosa di stonato. La storia non si ripete mai. Quelli che stavano partendo adesso non erano più bambini. E questa volta non ci sarebbe stato ritorno. L’astronave era atterrata là dove le onde morivano, affondando profondamente nella sabbia inzuppata di acqua. In perfetto sincronismo, i grandi pannelli ricurvi si sollevarono e le passerelle scattarono verso la spiaggia come lingue metalliche. Le sparse figurette, Dio quanto tristi e solitarie! cominciarono a convergere per raccogliersi in una turba che si pose ad avanzare, esattamente come farebbe una turba umana.

Tristi e solitarie? Perché un simile pensiero? si domandò George. Questa era la sola cosa che essi non sarebbero stati mai più. Soltanto degli individui possono essere tristi, soltanto degli esseri umani. Senti la mano di Jean accrescere la stretta sulla sua in un brusco spasimo di commozione.

«Guarda» sussurrò Jean. «Io riesco a vedere Jeff. Vicino a quel secondo portello.»

La distanza era molta, e non si poteva essere sicuri, e poi George aveva un velo davanti agli occhi che gli impediva di vedere bene. Ma sì… era Jeff, adesso ne era certo. George adesso poteva riconoscere suo figlio che aveva già posato un piede sul piano metallico.

E Jeff si volse a guardare indietro. La sua faccia era solo una chiazza bianca: a quella distanza era impossibile dire se esprimeva qualche sentimento, se li riconosceva, se ricordava tutto ciò che stava abbandonando. Né George avrebbe mai saputo se Jeff si era voltato verso di loro per puro caso, e se, in quegli ultimi istanti in cui era ancora il loro figlio, sapeva che lo stavano guardando passare in un mondo dove loro non sarebbero mai entrati.

I grandi portelli cominciarono a chiudersi. E in quell’istante Fey levò in alto il muso e lanciò un lungo lamento, desolato, sommesso. Volse poi i begli occhi limpidi verso George, e lui capì che in quel momento Fey aveva perduto il suo padroncino. George non aveva più rivali ora. Per quelli che erano rimasti c’erano molte strade ma una sola destinazione. Qualcuno disse: «Il mondo è ancora bello! Un giorno dovremo lasciarlo, ma perché anticipare la partenza?»

Ma altri, che avevano puntato più sul futuro che sul presente e che avevano perso tutto quello che rendeva la loro vita meritevole di essere vissuta, non desideravano più vivere. Questi decisero di andarsene dal mondo e lo fecero, o soli o coi loro amici, a seconda del carattere. Fu così anche per Nuova Atene. L’isola era nata dal fuoco e scelse di morire nel fuoco. Coloro che preferirono andarsene se ne andarono, ma molti rimasero e finirono in mezzo ai resti dei loro sogni spezzati.


Nessuno poteva sapere quando sarebbe venuto il momento, eppure Jean si svegliò nel silenzio della notte e rimase un momento immobile a guardare la chiara macchia spettrale del soffitto. Poi allungò un braccio per afferrare la mano di George. Lui di solito aveva il sonno pesante, ma questa volta si svegliò subito. Non parlarono perché non esistevano parole per esprimere ciò che avrebbero voluto dire.


Jean non aveva più paura, non era nemmeno triste. Era giunta finalmente, attraverso la tempesta, ad acque calme, e l’emozione non aveva ormai più presa alcuna su di lei. Ma restava una cosa da fare e lei sapeva che c’era appena tempo. Sempre in silenzio, George la seguì per la casa in cui regnava una pace solenne. Attraversarono il fascio di luce lunare che pioveva dal lucernario dello studio, movendosi lentamente insieme con le loro ombre, ed entrarono nella camera che era appartenuta ai loro cari bambini. Non era cambiato niente. Alle pareti luccicavano ancora i quadri fluorescenti che George aveva dipinto con tanta cura. E il sonaglio, che era appartenuto a Jennifer, stava ancora sul pavimento dove lei lo aveva lasciato cadere quando la sua mente si era rivolta alle inconoscibili lontananze dove viveva adesso. Lei, s’è lasciata dietro i suoi balocchi, pensò George, ma i nostri camminano con noi. Pensò ai bambini dei Faraoni, che cinquemila anni prima venivano sepolti con le loro bambole e i loro monili. Sarebbe stato ancora così. Nessun altro dovrà amare i nostri tesori, si disse, noi ce li porteremo via e non ci separeremo mai da loro.

Lentamente Jean si voltò verso di lui e gli posò la testa su una spalla. Lui la strinse fra le braccia, forte, e l’amore di un tempo tornò a colmarlo, attutito dalla distanza ma limpido, come un’eco rimandata da una lontana catena di montagne. Era troppo tardi, adesso, per dirle tutto quello che sarebbe stato giusto dirle, e George provò più rimorso per la sua passata indifferenza che per i suoi tradimenti. E Jean disse con voce tranquilla: «Addio, caro» e accentuò la stretta delle sue braccia. Non ci fu tempo per la risposta di George, ma anche in quell’istante supremo lui ebbe una sensazione fuggevole di stupore nell’accorgersi che Jean sapeva che il grande momento era giunto. E l’isola salì incontro all’aurora.

21

L’astronave dei Superni arrivò scivolando lungo la sua strada, luminosa come il percorso di una meteora, attraverso la costellazione di Carena. Tra i pianeti esterni del sistema era cominciata la tremenda decelerazione, ciononostante, all’altezza di Marte la sua velocità era ancora vicina a quella della luce. Lentamente gli immensi campi di forza del Sole assorbirono il suo «momentum» mentre ancora le energie della superpropulsione segnavano il cielo con una scia infuocata lunga milioni di chilometri. Jan Rodricks tornava, di sei mesi più vecchio, al mondo che aveva lasciato ottanta anni prima. Questa volta non era più un passeggero clandestino in un nascondiglio segreto, ma se ne stava dietro i tre piloti (perché poi, si chiedeva, ne occorrevano tanti?), a guardare le configurazioni che si formavano e disfacevano sul grande schermo che dominava la sala comando.

I colori e le forme che comparivano sullo schermo non significavano niente per lui, ma Jan immaginò che indicassero i dati che su una nave costruita dagli uomini sarebbero comparsi sotto forma di numeri. Ogni tanto però sullo schermo si vedevano grappoli di stelle, e Jan sperò di vedere presto inquadrata la Terra.

Era contento di tornare nel suo mondo, nonostante tutti gli sforzi che aveva fatto per fuggirne. In quei pochi mesi, era maturato. Aveva visto tanto, viaggiato in regioni così lontane dell’universo che ora si consumava dal desiderio del suo mondo. Capiva perché i Superni avessero escluso la Ter-ra dalle stelle. L’umanità aveva ancora molta strada da percorrere prima di avere la minima parte nella civiltà che lui aveva ora appena intravisto. Che proprio si dovesse pensare, e l’idea gli ripugnava profondamente, che il genere umano non sarebbe mai potuto essere niente di più d’una specie inferiore, tenuta in uno zoo appartato coi Superni come guardiani? Era questo, forse, che Vindarten aveva voluto dire quando, proprio al momento della sua partenza, aveva dato a Jan questo ambiguo avvertimento: «Molte cose possono essere successe sul vostro pianeta durante il tempo trascorso. Potreste non riconoscere il vostro mondo, quando lo rivedrete.»

Può darsi, pensò Jan. Ottant’anni erano molti, e per quanto lui fosse ancora giovane, con la mente agile, e possedesse una grande capacità di adattamento, poteva trovare difficoltà a comprendere tutti i cambiamenti che dovevano essersi verificati. Ma di una cosa era sicuro: gli uomini avrebbero voluto sentire la sua storia e sapere che cosa aveva visto della civiltà dei Superni.

Lo avevano trattato bene, come del resto si era aspettato. Del viaggio verso Carena non aveva saputo niente: quando l’effetto dell’iniezione si era dissipato gradualmente e lui era tornato alla realtà, l’astronave era già entrata nel sistema dei Superni. Lui era strisciato fuori dal suo nascondiglio e si era accorto che la maschera dell’ossigeno non gli serviva. L’aria era densa e pesante, ma Jan poteva respirare senza difficoltà. Si era ritrovato entro la stiva enorme dell’astronave illuminata in rosso, fra innumerevoli casse e tutte le comuni parti di un carico che è logico aspettarsi di trovare a bordo di qualsiasi grossa nave mercantile degli spazi cosmici o del mare. Gli ci era voluta quasi un’ora per trovare la strada della sala di comando e rendere nota la sua presenza all’equipaggio. La loro mancanza di sorpresa lo aveva lasciato perplesso. Sapeva che i Superni dimostravano pochissimo i loro sentimenti, ma una reazione qualunque se l’era aspettata. Invece avevano continuato a fare quello che stavano facendo, osservando il grande schermo, costantemente solleciti alle innumerevoli manopole dei pannelli di comando. Ed era stato allora che aveva capito che si preparavano ad atterrare, perché, ogni tanto, l’immagine di un pianeta appariva in un lampo sullo schermo, più grande a ogni comparsa. Eppure non si avvertiva nessuna sensazione di movimento o cambiamento di velocità, e la gravità rimaneva assolutamente costante: un quinto circa di quella terrestre, aveva calcolato Jan. Le immense forze che muovevano l’astronave erano compensate con precisione ammirevole. E infine, all’unisono, i tre Superni si erano alzati dai loro sedili, e lui a-veva capito che il viaggio spaziale era concluso. Essi non avevano parlato né al passeggero né tra loro, e quando uno dei Superni gli aveva fatto cenno di seguirlo, Jan aveva capito che a quel capo della lunghissima linea che riforniva Karellen, non c’era nessuno che parlasse inglese. Essi lo avevano guardato con gravità mentre le porte enormi si aprivano davanti ai suoi occhi avidi. Quello era il momento supremo della sua vita: era il primo essere umano che vedeva un mondo illuminato da un altro sole. La luce vermiglia di NGS 549672 invase l’astronave, e davanti a lui apparve il mondo dei Superni. Che cosa si era aspettato? In realtà Jan non lo sapeva. Edifici immensi, metropoli con torri che si perdevano nelle nubi, macchine che superavano ogni immaginazione… tutto questo non l’avrebbe stupito. Invece vide una pianura anonima che si stendeva fino all’orizzonte incredibilmente e innaturalmente vicino, interrotta soltanto da altre tre astronavi immobili a qualche chilometro di distanza. Per un attimo Jan si sentì deluso, poi scosse le spalle rendendosi conto che in fondo avrebbe dovuto immaginare che uno spazioporto si trovasse in una zona deserta proprio come quella.

Faceva freddo, per quanto in modo sopportabile. La luce dell’enorme sole rosso basso sull’orizzonte non era un pericolo per gli occhi umani, ed era sufficiente a vedere, ma Jan si chiese fra quanto tempo avrebbe cominciato a desiderare i toni verdi e azzurri. Poi vide il gigantesco calice che saliva nel cielo simile a un immenso catino messo vicino al sole. Lo guardò a lungo prima di capire che il suo viaggio non era ancora finito. Era quello il mondo dei Superni. Questo dove si trovava doveva essere il suo satellite, la base dalla quale partivano le loro astronavi.

Lo avevano poi fatto salire su un’altra nave, non più grande di un comune aereo di linea terrestre. Con l’impressione di essere un nano, Jan si era arrampicato su uno dei grandi sedili, e aveva cercato di vedere dai finestrini qualcosa del pianeta al quale si stavano avvicinando. Il viaggio fu così breve che lui non ebbe il tempo di vedere molto del mondo che ingrandiva sotto i suoi occhi. Gli parve che i Superni ricorressero a un tipo di superpropulsione anche per navigare nelle vicinanze di casa, perché dopo pochi minuti già penetravano in una densa atmosfera fitta di nubi. Quando i portelli si spalancarono, uscirono tutti in una grande sala col soffitto a volta che scivolò a richiudersi in un attimo alle loro spalle cancellando ogni segno di porta. Passarono due giorni prima che Jan potesse lasciare quell’edificio. Era una merce inattesa, e loro non avevano un posto dove metterlo. Per peggiorare la situazione nessuno dei Superni capiva l’inglese, così era praticamente impossibile comunicare con loro. Jan si rese conto che mettersi in contatto con una razza extraterrestre non era semplice come spesso sembra nei romanzi di fantascienza. Farsi capire a segni risultò un fallimento, perché questo sistema è troppo legato a un tipo di gesti, di espressioni e di atteggiamenti, che non erano comuni alla razza umana e a quella dei Superni.

Jan pensò che sarebbe stato assai deprimente che gli unici Superni capaci di parlare la sua lingua fossero tutti sulla Terra. Purtroppo poteva soltanto aspettare e sperare. Certamente qualche loro scienziato, qualche esperto di razze straniere, si sarebbe fatto vivo per occuparsi di lui. Oppure lui era così poco importante che nessuno se ne sarebbe preoccupato?

Possibilità di uscire dalla costruzione non ce n’erano, dato che le grandi porte non possedevano congegno d’apertura visibile. Quando un Superno arrivava davanti alla porta, questa si apriva. Tutto qui. Jan aveva cercato di fare altrettanto agitando le braccia in alto con la speranza di interrompere un eventuale raggio che comandasse l’apertura, aveva tentato tutti i sistemi immaginabili, ma senza risultato. Un uomo dell’Età della pietra, sperduto in una città o in una casa moderna, si sarebbe sentito altrettanto impotente. Una volta aveva cercato di uscire seguendo un Superno, ma era stato cortesemente respinto indietro, e siccome non voleva assolutamente irritare i suoi ospiti, Jan non aveva insistito.

Vindarten arrivò prima che Jan cominciasse a disperarsi. Il Superno parlava l’inglese malissimo e troppo in fretta, ma migliorò con rapidità. In pochi giorni, furono in grado di conversare a loro agio di qualunque argomento che non richiedesse un vocabolario specializzato. Non appena Vindarten si assunse la sua tutela, Jan smise di preoccuparsi. Non ebbe nemmeno l’opportunità di fare ciò che desiderava, perché doveva passare quasi tutto il suo tempo in sedute con scienziati Superni desiderosi di fare oscuri esperimenti con strumenti complicatissimi. Jan odiava quelle macchine, e dopo un esperimento con una specie di congegno ipnotico ebbe un mal di capo lancinante, che durò parecchie ore. Lui aveva tutta la buona volontà di collaborare, ma non era sicuro che gli studiosi Superni conoscessero le sue limitazioni mentali e fisiche. Passò parecchio tempo prima che riuscisse a convincerli che gli era indispensabile dormire a intervalli regolari. Fra un esperimento e l’altro, aveva fuggevoli visioni della città, cosa che gli permise di capire quanto sarebbe stato difficile per lui aggirarvisi all’interno. Strade nel senso terrestre erano praticamente inesistenti, e non sembrava nemmeno che esistessero veicoli di superficie. Era il pianeta, quello, di creature che potevano volare e che non temevano la forza di gravità. Capitava di trovarsi senza preavviso sull’orlo di un precipizio di centinaia di metri, o di scoprire che l’unica via d’ingresso a una stanza era un’apertura sistemata in alto in una parete. Da mille particolari Jan cominciò a rendersi conto che la psicologia di una razza fornita di ali era fondamentalmente diversa da quella di creature legate al suolo. Era uno spettacolo bizzarro vedere i Superni librarsi come immensi uccelli fra le torri della loro città, le possenti ali remiganti a lenti battiti ondosi. Un problema scientifico si nascondeva sotto quello spettacolo. Perché quello era un pianeta di notevoli dimensioni, molto più grande della Terra, eppure la forza di gravità era inferiore a quella terrestre, e Jan non riusciva a capire perché l’atmosfera fosse così densa. Interrogò Vindarten in merito e venne a sapere, come aveva vagamente immaginato, che quello non era il pianeta d’origine dei Superni. Costoro si erano evoluti su un pianeta molto più piccolo, per poi giungere alla conquista di questo, dopo averne modificato non soltanto l’atmosfera ma la stessa forza di gravità. L’architettura dei Superni era funzionale fino allo squallore. Mancavano decorazioni, ornamenti, non c’era niente che non avesse uno scopo, anche se quello scopo esulava spesso dalla comprensione di Jan. Se un uomo del medioevo avesse potuto vedere quella città illuminata di rosso e gli esseri che l’abitavano, indubbiamente avrebbe creduto di essere finito all’inferno. Perfino Jan, nonostante tutta la sua curiosità e l’obiettivo distacco dello scienziato, spesso si trovava sulle soglie di un terrore irragionevole. La mancanza di un solo punto di riferimento familiare può essere causa di estremo sconvolgimento anche per la mente più lucida e razionale. E poi c’erano troppe cose che Jan non riusciva a capire e che Vindarten non poteva, o non voleva nemmeno tentare di spiegargli. Ad esempio, cos’erano quelle luci saettanti di forma mutevole che percorrevano l’aria con moto talmente rapido da far dubitare della loro esistenza? Potevano essere tanto creature terribili e sacre, quanto semplici e unicamente spettacolari, ma banali, effetti luminosi come le insegne al neon della antica Broadway. Jan intuiva, inoltre, che il mondo dei Superni era pieno di suoni che lui non poteva sentire. Qualche volta riusciva a captare complessi temi ritmici che si stendevano lungo lo spettro percettibile alle sue orecchie, per svanire oltre i limiti dell’udibile. Vindarten aveva l’aria di non capire che cosa intendesse Jan per «musica», quindi lui non riuscì mai a soddisfare la propria curiosità su questo problema. La città tuttavia non era così sterminata come si poteva dedurre in rapporto a una civiltà tanto spettacolare; era certo più piccola di quello che non fossero New York o Londra al culmine della loro prosperità. Secondo quanto diceva Vindarten, esistevano parecchie migliaia di città come quella, sparse sulla superficie del pianeta, ognuna destinata a una funzione specifica. Sulla Terra, il parallelo più pertinente era una città universitaria, se non che il grado di specializzazione, lì, era infinitamente più accentuato. Tutta quella città, scoprì Jan, era dedita allo studio delle culture d’altri mondi.

Durante una delle loro prime escursioni fuori della nuda cella in cui Jan viveva, Vindarten lo aveva condotto al museo. Ciò aveva dato a Jan il conforto psicologico di trovarsi finalmente in un luogo fatto per uno scopo che lui comprendeva. A parte le dimensioni, poteva benissimo essere un museo terrestre. C’era voluto molto tempo per arrivarci ritti su una grande piattaforma che calava verticalmente, come un pistone in un cilindro di lunghezza sconosciuta. Non c’erano leve o comandi visibili, e il senso di accelerazione al principio e alla fine della discesa era sensibilissimo. Evidentemente i Superni non sprecavano i loro preziosi campi di compensazione per semplici usi domestici. Jan si domandava se tutto il pianeta fosse percorso da tunnel come quello, e perché mai i Superni avessero limitato le dimensioni della città preferendo espandersi nel sottosuolo anziché all’aperto. Ma non riuscì mai a sciogliere nemmeno questo enigma.

Si poteva passare tutta un’esistenza a esplorare quelle sale immense. Là dentro c’era il bottino d’innumerevoli pianeti, le conquiste di un maggior numero di civiltà che Jan avesse mai potuto immaginare. Ma non ci fu il tempo di vedere molto. Vindarten lo fece salire attentamente su un tratto di pavimento che a prima vista appariva come un disegno ornamentale; ma poi Jan si ricordò che non c’era niente di decorativo su quel pianeta, e in quell’istante, qualcosa che non era visibile lo afferrò gentilmente e lo spinse avanti. Lui passava ora di fronte alle grandi bacheche, davanti a panorami di mondi inimmaginabili, a una velocità di venti o trenta chilometri orari.

I Superni avevano superato il problema della stanchezza che assale i visitatori dei musei. Lì non c’era bisogno di camminare. Dovevano aver percorso già parecchi chilometri, quando la guida di Jan lo afferrò di nuovo e con uno sforzo delle sue grandi ali lo strappò alla for-za misteriosa che li spingeva. Davanti a loro si stendeva una sala sterminata, seminuda, illuminata da una luce familiare che Jan non aveva più veduto dal momento in cui aveva abbandonato la Terra. Era fioca, così da non ferire la vista troppo sensibile dei Superni, ma era, inequivocabilmente, luce solare. Jan non avrebbe mai pensato che una cosa così semplice e comune e normale per un terrestre potesse mettergli in cuore tanta nostalgia.

Quella era dunque la cripta che riguardava la Terra e la sua civiltà. Camminarono per qualche metro davanti a tesori artistici di vari secoli (una dozzina almeno), tutti raggruppati incongruamente insieme, macchine calcolatrici e asce paleolitiche, ricevitori televisivi e turbine a reazione di Erone di Alessandria. Poi una grande porta si aprì davanti a loro, ed essi entrarono nell’ufficio del Curatore della Terra.

Era la prima volta che vedeva un essere umano? Era stato sulla Terra, oppure il mondo di Jan era soltanto uno dei tanti pianeti che dipendevano dalla sua tutela, e lui non sapeva nemmeno dove si trovasse esattamente?

Certo il Curatore non parlava e non capiva l’inglese, perché Vindarten dovette fare da interprete. Jan aveva finito per passare parecchie ore là dentro, parlando in una macchina di registrazione fonica, mentre i Superni gli mostravano vari oggetti terrestri che, Jan se ne accorse con sua grande vergogna, lui non riuscì nemmeno a indovinare a cosa servissero. L’ignoranza di Jan sulla sua stessa razza e su quanto aveva fatto risultò enorme, e il giovane si chiese se perfino i Superni, nonostante le loro stupende qualità mentali, fossero riusciti a impadronirsi completamente della cultura umana. Vindarten lo guidò fuori del museo per una strada diversa. Volteggiavano senza sforzo a mezz’aria lungo grandi gallerie a volta, ma ora davanti alle creazioni della natura, non dell’intelletto. Jan pensò che il professor Sullivan avrebbe dato la vista per essere lì a vedere quale incredibile evoluzione si era svolta su centinaia di mondi. Poi si ricordò che probabilmente Sullivan era già morto. E poi, a un tratto, senza la minima avvisaglia, si trovarono su di una specie di loggia, altissima su di una vasta sala circolare del diametro di un centinaio di metri. Come al solito non esisteva parapetto, e Jan esitò un istante prima di accostarsi all’orlo. Ma Vindarten stava proprio sul limite estremo e guardava giù, del tutto a suo agio, e allora Jan avanzò cauto per raggiungerlo.

Il pavimento della sala era una ventina di metri più basso. In seguito, Jan ebbe la certezza che la sua guida non aveva affatto voluto coglierlo di sorpresa e che il Superno era rimasto sbalordito davanti alla sua reazione. Jan aveva lanciato un urlo terribile, facendo un balzo indietro dall’orlo della loggia, nello sforzo involontario di nascondere alla vista ciò che si trovava là sotto. Fu solo quando l’eco soffocata dell’urlo che lui aveva lanciato si spense nell’aria densa che Jan si fece forza e tornò sull’orlo. Era senza vita, naturalmente, e non, come Jan aveva creduto in quel primo momento di panico, intento a fissarlo consapevolmente. Riempiva quasi tutto il grande spazio circolare, e la luce color rubino scintillava nelle sue profondità di cristallo.

Era un occhio, uno solo, gigantesco.

«Perché avete fatto tanto rumore?» chiese Vindarten.

«Mi ero spaventato» rispose Jan, confuso.

«Ma perché? Credevate di correre un pericolo, qui?»

Jan disperò di poter spiegare che cosa fosse un riflesso condizionato e decise di non tentare nemmeno.

«Qualunque cosa del tutto inaspettata è causa di paura» disse. «Fino al momento di analizzare una nuova situazione, è più prudente attendersi il peggio.»

Il cuore gli batteva ancora con violenza, mentre lui riabbassava gli occhi sull’occhio mostruoso. Naturalmente, poteva anche essere enormemente ingrandito, come si faceva nei musei terrestri con microbi e insetti. Ma anche nell’istante in cui lo domandava, Jan sapeva, con una certezza sconvolgente, che quell’occhio era a grandezza naturale. Vindarten seppe dirgli ben poco: quello non era un campo del sapere in cui eccellesse, e del resto non ne era nemmeno curioso. Dalle descrizioni di Vindarten, Jan si fece la vaga idea di una bestia ciclopica che viveva tra le macerie planetarie di alcuni asteroidi gravitanti intorno a un sole molto lontano, lo sviluppo corporeo non impedito dall’attrazione gravitazionale, mentre per nutrirsi e sopravvivere dipendeva dall’acutezza e dal potere risolvente di quell’unico occhio. Sembravano non esserci limiti a quello che la natura poteva fare ove la necessità lo esigeva, e Jan provò una gioia del tutto irrazionale nello scoprire che c’era qualcosa che anche i Superni non intendevano superare. Avevano portato dalla Terra un capodoglio di massime dimensioni, ma quello era stato il limite. Lì, avevano preso soltanto l’occhio.


E c’era stata la volta in cui Jan era salito, salito sempre più, fino a quan-do le pareti della piattaforma mobile s’erano dissolte in una opalescenza divenuta trasparenza cristallina. Se ne stava ritto, sembrava, senza sostegno, tra le più alte vette della città, senza la minima protezione dall’abisso. Ma non aveva provato maggior vertigine di quella che si provi da un aereo, perché non c’era alcun senso di contatto con il terreno troppo lontano. Era al di sopra delle nubi a occupare il cielo con una serie di pinnacoli di metallo o di pietra. Sotto di lui si muoveva il mare in ondate pigre, colorate di rosa dal riflesso delle nuvole. Su nel cielo c’erano due piccole lune sbiadite, non molto lontane dal sole. Quasi al centro del disco rosso era visibile una piccola ombra nera, perfettamente circolare. Poteva essere una macchina solare o un’altra luna. Jan mosse lentamente lo sguardo lungo l’orizzonte. La coltre di nubi si stendeva fino ai margini di quell’enorme pianeta, ma a una distanza incalcolabile si intravedeva una chiazza variegata, che sarebbe potuta essere l’insieme delle torri di un’altra città. Dopo avere osservato a lungo la chiazza, Jan riprese il suo giro d’orizzonte. Fu dopo aver percorso con lo sguardo un arco di 180 gradi che vide a un tratto la montagna. Non sorgeva all’orizzonte, ma oltre: un solo picco, che sembrava arrampicarsi sull’altro versante fin sopra gli orli del mondo, con le pendici inferiori nascoste, come il grosso di un iceberg è nascosto sotto il pelo dell’acqua. Jan tentò di valutarne le dimensioni, ma non gli fu possibile. Era difficile credere che potesse esistere una montagna così, anche su un mondo a bassa gravità come quello. Chissà se i Superni si divertivano a scalarne i fianchi e a volteggiare come aquile attorno ai suoi immensi picchi!

Poi, nel modo più inatteso, la montagna cominciò a cambiare, lentamente. Quando l’aveva vista la prima volta, era d’un rosso cupo, quasi sinistro, con alcune frastagliature quasi invisibili presso la vetta. Stava cercando di mettere bene a fuoco la vista per distinguere le loro particolarità, quando si accorse che si stavano muovendo…

Dapprima non voleva credere ai suoi occhi. Poi si costrinse a ricordare che tutti i suoi preconcetti non avevano senso, lì, e che non doveva permettere alla sua mente di respingere i messaggi che i sensi inviavano al cervello. E non doveva tentare di capire, ma solo guardare. Avrebbe, forse, capito più tardi, o forse mai. La montagna, Jan continuava a pensarla come tale, perché non c’era altra parola per descriverla, sembrava viva. Ripensò all’occhio mostruoso sepolto nella cripta sotterranea… ma no, era un’idea pazzesca. Non era vita or-ganica quella che stava osservando, non era nemmeno, sospettò, materia nel senso che lui dava al termine.

Il fosco colore rosso si stava ravvivando, si faceva di una sfumatura più carica. Strisce d’un giallo brillante apparivano, tanto che per un attimo Jan ebbe l’impressione di avere sotto gli occhi un vulcano che rovesciasse fiumane di lava sulla piana sottostante. Ma quelle fiumane come si poteva vedere da occasionali sfavillamenti, da striature, avevano un moto ascensionale. Ora qualcos’altro sorgeva dai vapori di rubino intorno alla base della montagna: un anello enorme, perfettamente orizzontale, perfettamente circolare… e aveva il colore di tutto quello che Jan si era lasciato dietro, a una lontananza infinita. Il cielo della Terra non aveva mai avuto azzurro più celestiale. In nessun altro momento, sul mondo dei Superni, Jan aveva visto simili sfumature, e gli si strinse la gola alla nostalgia, alla malinconia che ispiravano.

L’anello si dilatava a misura che saliva. Era più alto della montagna, ora, e la curva più vicina a Jan si espandeva verso di lui. È evidente, si disse Jan, che si trattava di un vortice di qualche genere… un anello di fumo che ha già parecchi chilometri di diametro. Ma l’anello non mostrò minimamente la rotazione che l’uomo si aspettava, e ora sembrava farsi sempre più solido a misura che la sua superficie aumentava.

L’ombra passò rapida, molto prima che l’anello stesso, maestosamente, trascorresse altissimo, continuando a salire nello spazio, Jan lo osservò fino a quando non si fu ridotto in un esile filo azzurrognolo, difficile a distinguersi nel circostante rossore del cielo. Quando scomparve, alla fine, doveva già avere un diametro di parecchie migliaia di chilometri. E continuava a dilatarsi e a rafforzarsi. Jan tornò a guardare la montagna: adesso era d’oro, e perfettamente liscia. Forse era solo la sua immagine… adesso Jan era disposto a credere qualsiasi cosa… ma sembrava più alta e più stretta, e pareva che girasse su se stessa come una tromba d’aria.

Poi Jan si ricordò della macchina fotografica. La sollevò all’altezza dell’occhio e cercò di puntarne l’obiettivo verso quell’enigma troppo assurdo e sconvolgente.

Vindarten apparve improvvisamente davanti al suo obiettivo. Con fermezza implacabile, le grandi mani si levarono contro la lente, costringendolo ad abbassare la macchina fotografica. Jan non cercò di resistere; sarebbe stato inutile, naturalmente, ma a un tratto ebbe una paura mortale di quella cosa laggiù, ai confini del pianeta, e non volle più guardare. Non c’era stato mai altro nelle sue gite che gli avessero proibito di fotografare, ma Vindarten non gli fornì nessuna spiegazione. Il Superno dedicò invece molto tempo a farsi descrivere da Jan fin nelle più minute particolarità tutto quello che aveva visto. Fu allora che Jan si accorse che gli occhi di Vindarten avevano visto qualcosa di totalmente diverso; e fu allora che intuì, per la prima volta, che i Superni avevano a loro volta dei padroni.


Adesso stava tornando al suo pianeta d’origine, e tutto lo stupore, la paura, il mistero erano lontanissimi. Gli sembrava che fosse la stessa astronave dell’andata, sebbene non di certo lo stesso equipaggio. Per lunghe che fossero le loro vite, era difficile credere che i Superni rimanessero lontani dalle loro case per tutti i decenni richiesti da una spedizione interstellare. L’effetto di dilatazione temporale della legge sulla relatività si verificava, naturalmente, nei due sensi. I Superni, quindi invecchiavano di soli quattro mesi durante il viaggio di andata e ritorno, ma nel frattempo i loro amici invecchiavano di ottant’anni.

Se lo avesse desiderato, Jan avrebbe potuto probabilmente rimanere su quel pianeta per tutto il resto della sua vita. Ma Vindarten lo aveva avvertito che non ci sarebbero state altre astronavi in partenza per la Terra per parecchi anni, e lo aveva ammonito a cogliere quell’occasione. Forse i Superni si erano accorti che anche in quel breve lasso di tempo la sua mente era quasi giunta allo stremo delle sue risorse. Oppure poteva darsi che fosse diventato una seccatura, e loro non volessero perdere altro tempo per lui.

Ma la cosa non aveva importanza, ora, perché la Terra era là, davanti a lui. L’aveva vista così centinaia di volte prima d’ora, ma sempre attraverso l’occhio staccato, freddo, della televisione. Ora finalmente era proprio lui, in persona, nello spazio cosmico mentre l’ultimo atto del suo sogno si stava compiendo e la Terra girava, ai suoi piedi, su se stessa, lungo la sua eterna orbita.

La Luna era al suo primo quarto crescente, e quindi oltre metà della faccia visibile era ancora immersa nell’ombra. C’erano poche nuvole in cielo, solo alcune striature sparse lungo il corso dei venti. Lo scintillio della calotta polare artica perdeva la gara con l’accecante riflesso del sole sul Pacifico. Sì poteva credere che il pianeta avesse soltanto acqua: in quell’emisfero non si vedeva terra. Unico continente di cui si intuiva appena l’esistenza della nebulosa chiazza più scura sulla curva della Terra, era l’Australia. La nave si muoveva entro il gran cono d’ombra della Terra: la falce scintillante rimpicciolì, si ridusse a un arco sottile di fuoco, scomparve. Sotto non c’erano che le tenebre della notte. Il mondo dormiva. Fu allora che Jan si rese conto della differenza. Si vedeva la Terra laggiù, ma dov’erano… le scintillanti collane di lumi, dov’erano le chiazze formicolanti di luce che erano state le metropoli dell’uomo? In tutto l’emisfero in ombra non c’era una luce a respingere la notte. Scomparsi senza lasciare traccia i milioni di kilowatts che un tempo erano stati profusi senza risparmio verso le stelle. Era come guardare la superficie della Terra prima della comparsa dell’uomo.

Questo non era il ritorno che Jan si aspettava; ma non poteva fare altro che guardare, mentre la paura dell’ignoto aumentava nel suo cuore. Qualcosa doveva essere successo… qualcosa d’inimmaginabile. E tuttavia l’astronave stava calando con un intento preciso lungo un’ampia curva che la riportava nell’emisfero illuminato dal sole.

Non poté vedere niente dell’atterraggio vero e proprio, perché l’immagine della Terra a un tratto svanì, per essere sostituita sullo schermo da quell’incomprensibile trama di linee e di luci. Quando la visione fu di nuovo possibile, erano già sul terreno. S’intravedevano grandi edifici in distanza, tra macchine in moto con un gruppo di Superni intenti a guardare qualche cosa. S’udì il rombo soffocato dell’aria mentre la nave eguagliava la pressione, poi il rumore dei grandi portelli che si aprivano. Jan non attese: i silenziosi giganti lo guardarono con tolleranza, o indifferenza, uscire di corsa dalla sala comando.

Era a casa, rivedeva la luce smagliante del suo sole, respirava l’aria che gli aveva gonfiato i polmoni quando era nato. La passerella era già stata abbassata, ma Jan dovette aspettare un momento per non venire accecato dalla luminosità esterna.

Karellen stava ritto, un po’ discosto dai suoi compagni, presso un grande autocarro carico di casse. Jan non si soffermò a chiedersi come avesse fatto a riconoscere il Supercontrollore, e non si stupì di trovarlo del tutto immutato. Si può dire che fosse la sola cosa che gli apparve come se l’era immaginata.

«Vi stavo aspettando» disse Karellen.

22

«I primi tempi» disse Karellen «potevamo andare fra loro senza pericolo. Ma non avevano più bisogno di noi: la nostra opera fu compiuta dopo che, radunatili tutti insieme, avevamo dato loro un continente. Guardate.»

La parete davanti a Jan scomparve, e ora lui guardava da un’altezza di qualche centinaio di metri su una regione amenamente boscosa. L’illusione era così perfetta che per qualche istante Jan dovette lottare contro il capogiro.

«Qui, è cinque anni dopo, quando ha avuto inizio la seconda fase.»

Delle figure si muovevano in basso, e l’obiettivo calò rapido su loro come un uccello da preda.

«Ciò che vedrete vi impressionerà» disse Karellen. «Ma non dimenticate che il vostro punto di vista non è più valido. Voi non state osservando dei ragazzi umani.»

Eppure questa fu l’impressione che si offrì alla mente di Jan, e non bastò tutta la logica di questo mondo a dissolverla. Sarebbero potuti essere dei selvaggi intenti a una complessa danza sacra. Erano nudi e sporchi, con ciocche di capelli ingrommati che scendevano a coprire gli occhi. Ce n’erano di tutte le età, dai cinque ai quindici anni, calcolò Jan, ma tutti si muovevano con la stessa velocità, la stessa precisione, la stessa indifferenza per il mondo circostante. Poi Jan vide le loro facce. Dovette inghiottire un grumo di saliva più pesante del piombo e fare uno sforzo per non volgere altrove la testa. Erano facce più vuote di quelle dei morti, perché anche un cadavere ha qualche ricordo, inciso dallo scalpello del Tempo sui lineamenti, che parla quando le labbra sono diventate mute. Non c’era più emozione o sentimento su quelle facce, di quanti possano esserci sul muso di un serpente o di un insetto. Gli stessi Superni erano infinitamente più umani.

«Voi state cercando qualcosa che non c’è più» disse Karellen. «Ricordatevelo, non hanno più personalità individuale delle cellule del vostro corpo. Ma collegati tra loro rappresentano qualcosa d’infinitamente più grande di voi.»

«Ma perché continuano a muoversi così?»

«Noi l’abbiamo chiamata la Lunga Danza» rispose Karellen. «Non dormono mai, capite, e questa è durata quasi un anno. Sono trecento milioni, che si muovono secondo un piano controllato su tutto un continente. Abbiamo analizzato questo piano senza posa, ma non significa niente, forse perché noi possiamo vederne soltanto la parte fisica… la piccola parte che è qui sulla Terra. Forse, quella che noi abbiamo chiamato la Supermente li sta ancora addestrando, li foggia in una sola unità prima di assorbirli nel suo essere.»

«Ma come hanno fatto a nutrirsi? E che accadeva se urtavano contro qualche ostacolo, come alberi, massi, o se c’era una distesa d’acqua?»

«L’acqua non rappresentava nessun pericolo: non potevano affogare. Se incontravano degli ostacoli e si facevano male, non se ne accorgevano. Quanto a nutrirsi… be’, c’erano tutti i frutti e la selvaggina che volevano. Ma ora si sono liberati di quella necessaria fonte di energia e hanno imparato ad attingere ad altre fonti.»

La scena tremolò improvvisamente, come se un’onda di calore vi fosse passata sopra. Quando il tremolio cessò, il movimento della Lunga Danza era cessato anch’esso.

«Guardate ancora» disse Karellen. «Sono passati altri tre anni.»

Le piccole figure, così abbandonate e patetiche per chi non avesse conosciuto la verità, stavano immobili nella foresta, nel sottobosco, nelle pianure. L’obiettivo della macchina da presa andava instancabilmente dall’una all’altra: già le loro facce si fondevano in un solo stampo, un’unica forma. Aveva visto una volta alcune fotografie ottenute con la sovrapposizione di dozzine di riproduzioni, un esperimento per ottenere una faccia «media». Il risultato era stato così vuoto, così privo d’ogni carattere come questo. Sembravano tutti addormentati o in stato catalettico. Avevano gli occhi serrati, e sembrava che non si rendessero conto di ciò che li circondava più di quanto ne fossero consci gli alberi sotto cui erano radunati. Jan si chiese quali pensieri passassero nell’intricato reticolo di cui le loro menti erano, ora, solo… ma era meglio dire «già»… una massa di fili pronti a essere tessuti nella trama di un immenso arazzo. Un arazzo che ricopriva innumerevoli mondi e razze e continuava a espandersi. L’evento si verificò con una rapidità che abbagliò la vista e stordì il cervello. Jan stava guardando una bellissima regione fertile, assolutamente normale: unica stranezza le innumerevoli figure immobili sparse, ma non a caso, in lungo e in largo. E l’istante dopo, tutti gli alberi e l’erba, tutte le creature viventi che avevano abitato quella terra, erano scomparsi, in un guizzo. Non restavano che i laghi placidi, i fiumi serpeggianti, le alture ondulate, spoglie ora del loro verde mantello… e le figure mute, indifferenti, che avevano operato la distruzione.

«Perché l’hanno fatto?» ansimò Jan.

«Forse la presenza di altre menti li ha disturbati… anche le menti embrionali di piante e animali. Secondo noi, un giorno potrebbero scoprire che anche il mondo materiale è altrettanto molesto. E allora nessuno può dire quello che potrebbe accadere. Ora voi capite perché ci siamo ritirati dopo aver compiuto il nostro dovere. Noi stiamo ancora cercando di studiarli, ma non entriamo più nelle loro terre e non vi mandiamo nemmeno i nostri strumenti. Tutto quello che osiamo fare è osservarli dallo spazio.»

«Tutto ciò è avvenuto molti anni fa» disse Jan. «Che cosa è successo in seguito?»

«Ben poco. Non si sono mai mossi in tutto questo tempo, e non si danno pensiero né del giorno né della notte, né dell’estate né dell’inverno. Sono ancora intenti a saggiare i loro poteri; dei fiumi hanno cambiato corso, per esempio, e ce n’è uno che risale verso la fonte. Ma non hanno fatto niente che sembri avere uno scopo.»

«E non si sono mai curati di voi?»

«Mai, sebbene ciò non sia affatto strano. L’entità di cui sono parte sa tutto di noi. Sembra che non le importi che noi si cerchi di studiarla. Quand’essa vorrà che noi si parta o avrà un nuovo compito per noi, altrove, renderà manifesto nel modo più chiaro il suo volere. Fino a quel momento, resteremo qui, affinché i nostri scienziati possano raccogliere il maggior numero possibile di elementi.»

Questa dunque, pensò Jan con una rassegnazione che superava ogni tristezza, era la fine dell’uomo. Una fine che nessun profeta aveva mai previsto… una fine che respingeva ogni ottimismo e insieme ogni pessimismo. E capì finalmente quanto fosse stato vano, in ultima analisi, il sogno che lo aveva attirato verso le stelle.

Perché la strada verso le stelle si biforcava, e né l’una né l’altra delle due direzioni portava a una mèta che tenesse conto delle speranze o dei timori dell’uomo.

Alla fine d’una delle due strade c’erano i Superni. Essi avevano conservato la loro individualità, i loro «io» indipendenti; possedevano coscienza di sé e il pronome «io» aveva un significato preciso nella loro lingua. Avevano emozioni e sentimenti, alcuni dei quali, almeno, erano comuni con i mortali. Ma erano in trappola, sopraffatti dall’inimmaginabile complessità di una galassia di centomila milioni di soli, e di un cosmo composto di centomila milioni di galassie.

E alla fine dell’altra strada? C’era la Supermente, che stava all’uomo come probabilmente l’uomo stava all’ameba. Potenzialmente infinita, im-mortale, da quanto tempo andava assorbendo una specie dopo l’altra, a misura che si espandeva tra le stelle? Aveva essa pure desideri, aspirazioni e mète che intravedeva appena e avrebbe anche potuto non raggiungere mai?

Ora aveva attratto nella sua essenza tutto ciò che la razze umana aveva dato. Questa non era tragedia, ma compimento. I miliardi di effimere scintille di consapevolezza che erano state l’umanità non sarebbero più passate sciamando come lucciole sullo sfondo della notte. Ma non erano vissute del tutto invano. L’ultimo atto, sapeva Jan, doveva ancora venire. Poteva essere il giorno dopo, o secoli nel futuro. Nemmeno i Superni lo sapevano. Adesso lui comprendeva il loro scopo, ciò che essi avevano fatto in favore dell’umanità e perché essi indugiassero ancora sulla Terra. Verso di loro provava un sentimento di grande umiltà, oltre che una profonda ammirazione per la pazienza inesauribile che aveva permesso loro di attendere tutti quegli anni lontano dal loro pianeta. Jan non aveva mai capito bene la strana simbiosi che legava la Supermente e i suoi tributari… Secondo Rashaverak, non c’era mai stata una volta nella storia della sua razza che la Supermente non fosse stata presente, sebbene non si fosse servita di loro che quando essi avevano raggiunto una civiltà scientifica, potendo così muoversi per gli spazi cosmici a ogni suo volere.

«Ma perché ha bisogno di voi?» domandò Jan. «Con tutti i suoi fantastici poteri, potrebbe fare tutto ciò che vuole!»

«No» disse Rashaverak «essa pure ha i suoi limiti. In passato, sappiamo, ha tentato di agire direttamente sul cervello di altre razze, influenzando così il loro sviluppo culturale. Ma non c’è mai riuscita, perché l’abisso che la divide dagli altri è troppo grande. Noi siamo gli interpreti, i tutori. La vostra è la quinta razza alla cui apoteosi abbiamo assistito. E ogni volta impariamo qualche cosa di più.»

«È strano» disse Jan «che la Supermente abbia scelto voi per i suoi scopi, se è vero che non avete traccia di quei poteri paranormali che sono latenti nel genere umano. Come riesce a comunicare con voi e a rendervi noti i suoi desideri?»

«È una domanda alla quale non posso rispondere, così come non posso dirvi la ragione per cui devo tenervi nascosti i fatti. Un giorno, forse, conoscerete una parte della verità.»

Jan rifletté su questa risposta per qualche istante, ma sapeva che sarebbe stato inutile insistere nell’indagine.

«Ditemi un’altra cosa, allora, che non mi è stata mai spiegata» riprese.

«Quando la vostra razza venne per la prima volta sulla Terra, nella lontana preistoria della nostra civiltà, che cosa andò male? Perché eravate diventati per noi simbolo di male e di paura?»

Rashaverak sorrise. Non che vi riuscisse bene come Karellen, ma questa volta la sua fu un’imitazione ben riuscita.

«Nessuno mai l’ha indovinato, ma ora vedete bene perché non abbiamo mai potuto dirvelo. Soltanto un evento avrebbe potuto avere un simile effetto sull’umanità: e quell’evento non era all’alba della storia, ma alla sua fine ultima.»

«Che cosa volete dire?»

«Quando le nostre astronavi penetrarono nel vostro cielo, un secolo e mezzo fa, quello fu il primo incontro delle nostre due razze, sebbene vi avessimo studiato da lontano per secoli e millenni, naturalmente. Eppure voi ci avete temuti e riconosciuti, come sapevamo che avreste fatto. Non era precisamente un ricordo, il vostro; avevate già avuto la prova che il tempo è molto più complesso di quanto la vostra scienza abbia mai potuto prevedere. Vedete, quel ricordo non era del passato, ma del futuro: di quegli anni in cui la vostra razza avrebbe saputo che tutto era finito. Noi abbiamo fatto quello che abbiamo potuto, ma non era una conclusione facile da raggiungere. E poiché eravamo presenti, siamo stati identificati con la fine della vostra specie. Sì, anche se questa fine era lontana diecimila anni!

È stato come se un’eco invertita fosse rimbalzata lungo il circolo chiuso del tempo, dal futuro al passato. Chiamatela quindi, più che una reminiscenza, una premonizione.»

Era un concetto difficile da afferrare, e per un istante Jan lottò in silenzio contro la sua astrusità. Doveva esserci qualcosa di simile a una memoria della specie, memoria che in certo qual modo era indipendente dal tempo. Per essa, passato e avvenire erano una cosa sola; ecco perché migliaia di anni prima gli uomini avevano già avuto un’immagine deformata dei Superni, attraverso una nebbia di paura e di terrore.

«Ora capisco» disse l’ultimo uomo.


L’Ultimo Uomo! A Jan parve difficile pensare a se stesso in termine di ultimo individuo della sua specie. Quando si era lanciato nello spazio, aveva accettato la possibilità di un esilio eterno dalla razza umana, e la tristezza e lo sgomento non erano ancora scesi su di lui; a misura che gli anni fossero passati, il desiderio di vedere un altro essere umano avrebbe anche potuto sopraffarlo, ma per il momento la compagnia dei Superni gli impe-diva di sentire in pieno la sua solitudine. Esistevano ancora degli esseri umani sulla Terra, una decina di anni prima, ma non erano che superstiti degeneri, e Jan non aveva perduto niente non incontrandoli. Per motivi che i Superni non potevano spiegare, ma che Jan sospettava fossero soprattutto psicologici, non c’erano stati nuovi nati a sostituire quelli che erano scomparsi dalla scena. L’Homo Sapiens era estinto.

Quelli che non si erano uccisi avevano cercato l’oblio in attività ancora più febbrili, in sport violenti, micidiali, spesso indistinguibili da vere e proprie guerre su piccola scala. E a misura che la popolazione si riduceva, i superstiti già vecchi si erano congregati, esercito disfatto che stringeva le file per la sua ultima ritirata.

L’atto finale, prima che il sipario calasse per sempre, doveva essere stato illuminato da lampi di eroismo e di devozione, e oscurato da barbarie ed egoismi. Se si fosse concluso nella disperazione o nella rassegnazione, Jan non l’avrebbe saputo mai.

C’erano tante cose a cui pensare. La base dei Superni si trovava a un chilometro circa da una villa deserta, e Jan passò dei mesi ad arredarla con accessori presi dalla città più vicina, situata a una trentina di chilometri di distanza. C’era andato in volo con Rashaverak, la cui amicizia, Jan sospettava, non era del tutto disinteressata. Lo psicologo dei Superni teneva ancora a studiare gli ultimi esemplari di Homo Sapiens. La città doveva essere stata evacuata prima della fine, perché le case, e anche quasi tutti i servizi pubblici erano ancora in buono stato di funzionamento. Non ci sarebbe voluto molto a riattivare i generatori, e le strade sarebbero state ancora una volta sfolgoranti d’una illusione di vita. Jan si baloccò con l’idea, poi l’abbandonò, perché gli parve morbosa. Spesso se ne andava a fare lunghe passeggiate sulle colline, pensando a tutte le cose che erano successe nei pochi mesi in cui era rimasto assente dalla Terra. Non aveva mai pensato, nel salutare Sullivan, ottant’anni prima, che l’ultima generazione della specie umana stava già nascendo. Che giovane idiota era stato! Eppure non era affatto sicuro di essere pentito di ciò che aveva fatto: se fosse rimasto sulla Terra, sarebbe stato testimone di quegli anni conclusivi, su cui il tempo aveva già steso il suo velo. Invece, era saltato al disopra di loro, nel futuro, e aveva avuto le risposte a quesiti che nessun altro uomo era mai riuscito a risolvere. La sua curiosità era quasi soddisfatta, ma a volte si domandava che cosa aspettassero i Superni e che cosa sarebbe accaduto quando la loro pazienza sarebbe stata fi-nalmente ricompensata. Ma la maggior parte del suo tempo lo passava con la rassegnazione soddisfatta dell’uomo che è alla fine di una lunga vita attiva. Seduto alla tastiera, colmava l’aria con le melodie del suo amatissimo Bach. Forse ingannava se stesso, forse non era che un trucco misericordioso della mente, ma sembrava ora a Jan che questo fosse quanto aveva sempre sognato di fare. La sua segreta ambizione aveva finalmente ardito emergere nella luce piena della coscienza. Jan era sempre stato un buon pianista… e adesso era il migliore.

23

Fu Rashaverak che portò a Jan la notizia, ma Jan l’aveva già indovinato. Nel cuore della notte un incubo l’aveva svegliato, e dopo, non era più riuscito a dormire. Non ricordava il sogno, cosa molto strana, perché riteneva che sempre si possa ricordare un sogno, se si cerca di farlo con molta tenacia appena svegli. Ma di quel sogno, tutto quello che riusciva a ricordare era di essere stato ancora bambino, su di una grande piana desolata, mentre una voce potente lo chiamava in una lingua sconosciuta. Il sogno l’aveva infastidito, e Jan si domandava se non fosse per caso un primo avvertimento che la solitudine cominciava a pesargli. Inquieto, uscì all’aperto e si mise a camminare sul prato incolto.

La luna piena inondava la scena d’una luce argentea così brillante che Jan poteva vederci come di giorno. L’immenso cilindro rilucente della nave di Karellen si levava oltre gli edifici della base Superna, torreggiando su di essi e riducendoli a proporzioni di strutture umane, Jan guardò l’astronave, cercando di ricordare le emozioni che un tempo essa aveva destato nel suo cuore. C’era stato un giorno in cui quell’astronave era stata una meta irraggiungibile, il simbolo di tutto quello che lui non sarebbe mai stato in grado di conseguire. E ora non gli diceva più niente. Adesso tutto era quieto e silenzioso. Certo i Superni dovevano svolgere le loro attività in quel momento come sempre, ma non se ne vedevano attorno. Era come se lui fosse solo sulla Terra, e in un certo senso era così. Levò gli occhi alla Luna, in cerca di qualche caratteristica ben nota, su cui riposare la mente.

Ecco gli antichi mari non obliati. Lui era stato per quarant’anni negli spazi cosmici, eppure non aveva mai posto piede su quelle piane silenti, pulvirulente, a meno di due secondi luce di distanza. Per un istante si di-vertì a cercare di scoprire il cratere di Tycho. Quando lo scoprì notò con stupore che quella chiazza luminosa era spostata dalla linea centrale del disco più di quanto avesse pensato. E fu allora che si accorse che l’oscuro del Mar delle Crisi mancava del tutto.

La faccia che il satellite volgeva ora alla Terra non era quella che aveva guardato sul mondo dall’alba della vita. La Luna aveva cominciato a girare su se stessa.

Ciò poteva significare soltanto una cosa. Sull’altro lato della Terra, in quel continente che avevano privato d’ogni vita a un tratto, essi venivano destandosi dal loro sonno estatico…

E come un bambino svegliandosi stira le braccia per salutare il giorno, anch’essi stavano sciogliendosi i muscoli e si preparavano a giocare con i loro ritrovati poteri…


«Avete indovinato esattamente» disse Rashaverak. «Non è più prudente restare, per noi. Può darsi che essi continuino a non accorgersi della nostra presenza, ma non possiamo correre rischi. Partiamo appena il nostro carico sarà ultimato… probabilmente fra due o tre ore.»

Jan alzò gli occhi al cielo, come timoroso che qualche nuovo prodigio stesse per esplodere incandescente. Ma tutto era sereno: la Luna era tramontata, e solo qualche nuvola viaggiava altissima sulle ali del vento di ponente.

«Non avrebbe poi una grande importanza, se si limitassero a gingillarsi con la Luna» aggiunse Rashaverak «ma se cominciassero a stuzzicare il Sole? Ci lasceremo dietro degli strumenti, naturalmente, per continuare a sapere che cosa accadrà.»

«Io rimango» disse Jan a un tratto. «Ho visto abbastanza dell’universo. Non c’è che una cosa di cui sia curioso adesso: la sorte del mio pianeta.»

Molto dolcemente, la Terra fu scossa da un lungo tremito, sotto i suoi piedi.

«Me lo aspettavo» osservò Jan. «Se alterano la rotazione lunare, la somma del moto angolare deve pur andare a finire in qualche punto: così che la Terra rallenta. Non so che cosa mi renda più perplesso: se il come riescano a farlo, o il perché lo facciano.»

«Stanno ancora giocando» disse Rashaverak. «Che logica può esserci nelle azioni di un bimbo? E sotto molti riguardi, l’entità che la vostra specie è diventata, è ancora bambina. Non è ancora pronta a unirsi con la Supermente. Ma lo sarà in breve, e allora avrete la Terra tutta per voi…»

Non completò la frase, ma Jan lo fece per lui.

«Se la Terra ancora esisterà, naturalmente.»

«Vi rendete conto del pericolo… e tuttavia restate?»

«Sì. Sono ormai tornato sul mio pianeta da cinque anni, o sono sei? Qualunque cosa accada, non avrò rimpianti.»

«Noi speravamo» cominciò Rashaverak lentamente «che desideraste rimanere. Ce qualcosa che potreste fare per noi…»


La scia luminescente della Superpropulsione rimpicciolì e scomparve in un punto indeterminato oltre l’orbita di Marte. Lungo quella rotta, pensò

Jan, lui solo aveva viaggiato di tutti i miliardi di esseri umani che erano vissuti e morti sulla Terra. E nessuno l’avrebbe percorsa mai più. Il mondo era suo. Tutto quello che gli occorreva, tutti i possessi materiali che uno avesse mai potuto sognare erano là, a portata di mano. Ma che cosa poteva importargliene? Non temeva né la desolazione del pianeta abbandonato, né le presenze che ancora indugiavano là, in quegli ultimi istanti, prima di muovere alla ricerca della loro occulta eredità. Nell’inconcepibile rigurgito di quella partenza, Jan non si aspettava che lui e i suoi problemi sarebbero sopravvissuti a lungo.

Bene, aveva fatto tutto quello che aveva desiderato fare, ora trascinare un’esistenza senza scopi su quel mondo deserto sarebbe stato un finale insopportabile. Avrebbe potuto partire coi Superni, ma a che scopo?

Perché lui sapeva, ed era l’unico ad averlo saputo, che Karellen non aveva mentito dicendo: «Le stelle non sono per l’uomo». Volse le spalle alla notte e si avviò verso l’ampia entrata della base dei Superni. Le dimensioni di quella base non gli facevano più nessun effetto: la grandezza in se stessa ormai non lo toccava più. Le luci ardevano, rosse, alimentate da energie che avrebbero potuto alimentarle ancora per intere epoche geologiche. Sull’uno o sull’altro lato si allineavano macchine i cui segreti lui non avrebbe mai saputo, abbandonate dai Superni nella loro fuga preordinata. Passando davanti alle macchine, Jan arrivò ai piedi dei vasti gradini, si pose a salirli a grandi passi e infine giunse nella sala comando. Lo spirito dei Superni vi aleggiava ancora, le loro macchine erano ancora vive, obbedivano alla volontà dei loro signori, ora tanto lontani. Che cosa avrebbe potuto aggiungere lui, si chiese Jan, ai dati che essi già stavano lanciando nello spazio?

Si issò sull’enorme sedile sistemandovisi il più comodamente possibile. Il microfono già funzionante aspettava lui, e doveva esserci l’equivalente di una telecamera già puntata, ma Jan non riuscì a individuarla. Oltre il ripiano zeppo di strumenti che per lui non avevano nessun significato, le grandi vetrate guardavano sulla notte piena di stelle che incorniciava una valle addormentata sotto un quarto di Luna e fiancheggiata dalle montagne. Un corso d’acqua attraversava la valle e scintillava qua e là dove la luce della Luna illuminava qualche mulinello attorno ai sassi. Uno scenario sereno e tranquillo. Forse era stato così alla nascita dell’uomo, ed era così adesso, alla sua morte.

Lontano, oltre chissà quanti milioni di chilometri di spazio, Karellen aspettava. Faceva uno strano effetto pensare che l’astronave dei Superni stava allontanandosi dalla Terra quasi alla stessa velocità con cui il suo segnale l’avrebbe inseguita. Quasi la stessa velocità… Sarebbe stato un lungo inseguimento, ma alla fine le sue parole avrebbero raggiunto il Supercontrollore, e in quel modo Jan avrebbe saldato il suo debito. Si domandò quanta parte della sua avventura era dovuta a un preciso piano di Karellen e quanto all’improvvisazione del Supercontrollore. Quasi un secolo prima, Karellen gli aveva permesso deliberatamente di fuggire sull’astronave perché potesse poi tornare a compiere la missione che adesso gli era stata affidata? L’ipotesi sembrava troppo fantastica. Ma ora Jan era contento che Karellen fosse implicato in un complotto grandioso e complesso. Pur servendo la Supermente, il Superno la studiava con tutti gli strumenti a sua disposizione. E Jan sospettava che il Supercontrollore non fosse animato soltanto da curiosità scientifica. Forse, i Superni sognavano di potere un giorno liberarsi da quel loro asservimento. Un giorno, quando avessero imparato dalla potenza che ora servivano tutto quello che c’era da imparare.

Che Jan potesse ora arricchire le cognizioni in loro possesso con ciò che stava facendo, sembrava incredibile. «Diteci quello che vedete» gli aveva detto Rashaverak. «Il quadro che raggiungerà i vostri occhi sarà duplicato dalle nostre telecamere. Ma il messaggio che raggiunge la vostra mente può essere diverso e rivelarci molte cose». Ebbene, Jan avrebbe fatto del suo meglio.

«Per il momento, niente da riferire» cominciò. «Pochi minuti fa ho visto la scia della vostra astronave sparire nel cielo. La Luna è ancora piena, e quasi metà della sua faccia conosciuta è ora scomparsa alla vista della Terra… ma suppongo che questo lo sappiate già.»

Jan fece una pausa, sentendosi un tantino ridicolo. C’era qualche cosa d’incongruo, perfino di lievemente assurdo, in quello che stava facendo. Stava vivendo il punto culminante di tutta la storia dell’umanità, e lui sembrava un radiocronista che stesse commentando una corsa di cavalli o un incontro di pugilato. Ma con una alzata di spalle, Jan scacciò questi pensieri. Probabilmente in tutti i momenti di grandezza non erano mancati attimi di sgomento o di sentimentalismo, l’unica differenza era che lui, adesso, non aveva nessuno con cui condividerli.

«Da un’ora a questa parte» riprese «ci sono state tre lievi scosse di terremoto. Il loro dominio della rotazione terrestre sul suo asse deve essere straordinario, ma non è perfetto… Vedete, Karellen, trovo molto difficile dirvi qualche cosa che i vostri strumenti non vi abbiano già rivelato. Sarebbe potuto essere di qualche aiuto, se mi aveste fatto sapere qualche cosa di ciò che può accadere e quanto avrei dovuto aspettare. Se non succede niente riprenderò a trasmettere fra sei ore, secondo i nostri accordi…

«Un momento! Devono essere rimasti ad aspettare la vostra partenza. Comincia ad accadere qualcosa. Le stelle si fanno più fioche. Sembra che un’immensa nuvola si stia dilatando, con estrema rapidità, per tutto il cielo. Ma non è realmente una nube: mi pare che abbia una specie di struttura… riesco a scorgere una vaga rete di righe e di fasce che continuano a cambiare posizione. È come se le stelle fossero impigliate in una ragnatela fantastica…

«Ora tutta la rete comincia a risplendere, a pulsare di luce come se fosse viva. E credo che lo sia. O è forse qualcosa addirittura al di sopra della vita, quanto lo è la vita rispetto al mondo inorganico?

«Il bagliore sembra spostarsi ora verso una parte del cielo… aspettate, mi sposto anch’io… all’altra vetrata. Sì, avrei dovuto immaginarlo; vedo un’immensa colonna di fuoco, a ponente. È lontanissima, dall’altra parte del mondo. So da dove sorge: essi si sono mossi, hanno cominciato il loro viaggio che li condurrà a essere parte della Supermente. Il loro tirocinio è finito: si lasciano alle spalle gli ultimi residui di materia. A mano a mano che il fuoco si leva sopra la Terra, la rete, vedo, si consolida, si precisa: in certi punti pare compatta come se di marmo, ma le stelle vi rifulgono sbiadite attraverso.

«Ora me ne rendo conto! Non è esattamente lo stesso, ma la… non so come chiamarla… la cosa che ho visto saettare nel cielo del vostro mondo, Karellen, era simile, molto simile a ciò che vedo adesso. Era una parte della Supermente? Sono convinto che mi abbiate nascosto la verità perché, non avendo preconcetti, fossi un osservatore più obiettivo. Mi piacerebbe sapere che cosa vi trasmettono adesso le vostre telecamere, per fare un confronto con quello che la mia mente immagina che io veda!

«Karellen, è in questo modo che la Supermente vi parla? Per mezzo di colori e di forme come queste? Ricordo lo schermo nella cabina di comando delle vostre astronavi, e i segni che lo percorrevano, comunicando con voi in un linguaggio visivo che solo i vostri occhi sapevano leggere.

«Ecco, ora forme e colori assomigliano in tutto e per tutto alle cortine fantastiche, agli arabeschi di un’aurora boreale, e tutto danza e guizza fra le stelle. Tutto il paesaggio è illuminato, è più fulgido della luce del giorno. Colori dalle sfumature rosse, oro, verdi, si susseguono per il cielo, come un’immensa ruota che sfumi nell’infinito… È uno spettacolo per il quale non ci sono parole, e non par bello che io sia il solo a goderlo, di tutti i miei simili… non avrei mai creduto che colori come questi…

«La tempesta si sta placando adesso, ma la grande rete c’è ancora. Credo che questa aurora sia stata soltanto un sottoprodotto delle sconosciute energie scaturite dai confini dello spazio… Un momento: osservo qualche altra cosa. Il mio peso diminuisce. Che cosa significa? Ho lasciato cadere una matita: cala lentamente al suolo. È successo qualcosa alla forza di gravità… c’è come un gran vento che si avvicina… Vedo gli alberi giù nella valle agitare pazzamente i rami. Naturalmente! L’atmosfera sfugge nello spazio. Pietre e pezzi di legno salgono lentamente verso il cielo, quasi che la Terra stessa volesse seguirli nella vastità dell’infinito. Vedo una gran nube di polvere, sollevata dalla sferza del vento. Diventa difficile vedere… forse tutto sarà più chiaro fra un istante, e io riuscirò a capire cosa sta succedendo.

«Sì, ora va meglio. Ogni cosa mobile è stata spazzata via… le nuvole di polvere sono scomparse. Mi domando quanto ancora resisterà questo edificio. E diventa sempre più difficile respirare… devo parlare più lentamente… Ricomincio a vedere con chiarezza. La grande colonna di fuoco è ancora là che arde, ma si va restringendo, si assottiglia, sembra una tromba d’aria che stia risalendo tra le nubi. E… ma questo è difficile a dirsi, ma un istante fa ho sentito un’immensa onda di commozione rovesciarsi su di me. Non era gioia, non dolore, ma un senso di compimento, di pienezza, di consumazione. È stato frutto dell’immaginazione? O giungeva veramente dall’esterno?

«Ora… e non può essere tutta immaginazione… ora il mondo sembra vuoto. Completamente, spaventosamente vuoto. L’impressione è quella di una radio che taccia di colpo mentre la si sta ascoltando. E il cielo è ancora limpido… la gran parete luminescente è scomparsa. Su quale mondo andrà, ora, Karellen? E voi sarete là a servirla ancora?

«Strano: intorno a me è tutto come prima, non so perché, ma avevo pensato che…»

Jan tacque. Per un istante cercò le parole adeguate, quindi chiuse gli occhi nello sforzo di dominarsi. Non c’era posto né per la paura né per altre cose del genere ora. Aveva un dovere da compiere, un dovere verso l’uomo e verso Karellen.

Lentamente, come chi si desta da un sogno, cominciò a parlare:

«Gli edifici intorno a me, il terreno, le montagne… tutto è come vetro… posso vedere attraverso di essi. La Terra si sta dissolvendo… il mio peso è quasi scomparso del tutto. Avevate ragione: hanno finito di baloccarsi coi loro giocattoli.

«È questione ormai di pochi secondi. Ecco, le montagne si dissolvono come boccoli di fumo. Addio, Karellen, Rashaverak… mi dispiace per voi. Sebbene io non possa comprenderlo, ho visto che cosa è diventata la mia specie. Tutto quello che abbiamo saputo creare è andato lassù fra le stelle. Forse era questo che le antiche religioni volevano dire, ma hanno fatto una gran confusione: hanno creduto che il genere umano fosse importante, mentre eravamo solo una razza fra… voi forse sapete quante? Eppure noi siamo diventati qualcosa che voi non potrete mai essere.

«Il fiume muore, laggiù. Nessun mutamento in cielo, però. Respiro a fatica. Che strano vedere la Luna che splende ancora là in alto. Sono contento che abbiamo lasciato la Luna, ma adesso sarà sola…

«La luce! Da sotto di me… nell’interno della Terra… c’è tanta luce che sale, che sfolgora attraverso le rocce e il terreno, tutto… si fa più lucente… più lucente… accecante…»

In un silenzioso scontro di luce, il cuore della Terra liberò le energie accumulate. Le onde gravitazionali attraversarono e riattraversarono il Sistema Solare, turbando appena, impercettibilmente, le orbite degli altri pianeti. Poi gli ultimi figli del Sole continuarono la corsa lungo i loro antichissimi sentieri, come i sugheri che galleggiano sulla superficie di un placido lago superano le lievi onde provocate dalla caduta di un sasso nell’acqua. Della Terra non restava più niente: essi ne avevano succhiato fino all’ultimo atomo di sostanza. La Terra li aveva nutriti per tutti i duri istanti della loro inconcepibile metamorfosi, così come il nutrimento racchiuso in un granellino di frumento alimenta la giovane pianta che si arrampica dal suolo verso il Sole.

A seimila milioni di chilometri oltre l’orbita di Plutone, Karellen sedeva davanti a uno schermo che si era spento di colpo. Il rapporto dalla Terra era finito. E la sua missione era compiuta. Lui era in viaggio verso il mondo da dove era partito tanto tempo prima. Il peso dei secoli gravava su di lui, insieme con una tristezza che nessuna logica poteva dissolvere. Karellen non piangeva sull’uomo: la sua tristezza era per la sua propria specie, bandita per sempre dalla grandezza di forze che essa non poteva superare. Perché, nonostante tutte le loro conquiste, tutto il loro dominio dell’universo fisico, i fratelli di Karellen non erano niente di più d’una tribù che avesse trascorso la sua intera esistenza su una landa deserta, polverosa. Le montagne erano lontanissime, quelle montagne che avevano potenza e bellezza, dove il tuono volava sopra i ghiacciai e l’aria era limpida e pura. Quando in basso il suolo era già avvolto nel buio, il Sole camminava ancora su quei picchi avvolgendoli di gloria. Ma essi potevano soltanto guardare, perché i Superni non avrebbero mai potuto scalare quelle vette. Eppure Karellen sapeva che la sua razza sarebbe rimasta fedele sino alla fine, che avrebbe atteso senza disperare che si compisse il suo destino. Avrebbero servito la Supermente perché non avevano scelta, ma anche nell’asservimento non avrebbero perso le loro anime. Il grande schermo di comando lampeggiò a un tratto d’una luce rosacupo: meccanicamente, Karellen lesse il messaggio contenuto nelle sue linee cangianti. L’astronave stava abbandonando le frontiere del Sistema Solare; le energie che alimentavano la Superpropulsione scemavano rapidamente, ma avevano fatto il loro dovere. Karellen alzò la mano, e il quadro cambiò ancora una volta. Una sola stella molto fulgida apparve nel centro dello schermo. Nessuno avrebbe potuto dire, a quella distanza, se quel Sole avesse mai avuto pianeti o che uno di essi era andato or ora perduto.

A lungo Karellen fissò l’immagine della stella lontanissima, e una infinità di ricordi percorse i meandri della sua grande mente. Poi salutò in silenzio gli uomini che aveva conosciuto, sia che lo avessero ostacolato sia che lo avessero aiutato nel suo compito.

Nessuno osò disturbarlo o interrompere i suoi pensieri, e alla fine Karellen voltò le spalle al Sole che rimpiccioliva in distanza.


FINE

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