15

Nel primo giorno di veglia, piovve per quasi tutto il pomeriggio. Le nuvole si erano ammassate ad est per tutta la mattina, facendosi sempre più spesse e minacciose, oscurando Grasso Satana ed i suoi figli, sicché il giorno fu anche più cupo del solito. Il temporale scoppiò verso mezzogiorno. Ululava. I venti all’esterno soffiavano così forte che le torri di guardia parevano tremare e ruscelli di acqua marrone correvano gonfi per le strade e lungo le cunette di pietraluce. Quando finalmente i soli riuscirono a sbucare fuori di nuovo — ormai erano prossimi al tramonto — Larteyn scintillava, con le mura e gli edifici che brillavano di umidità ed apparivano più chiari di come Dirk li avesse mai visti. La Fortezza di Luce appariva quasi desiderabile. Ma quello era il primo giorno di veglia.

Al secondo giorno le cose erano più o meno ritornate normali. Occhiodaverno percorreva un rosso sentiero attraverso il cielo, Larteyn brillava debolmente, un po’ nera al di sotto ed il vento trasportava la polvere del Comune che la pioggia di ieri aveva portato via. Al tramonto, Dirk osservò un’aerauto. Si materializzò in alto, sulle montagne, un puntino nero, e girò in direzione del Comune, prima di cominciare a discendere verso di loro. Dirk osservò attentamente la macchina con il binocolo. Aveva i gomiti appoggiati al davanzale della finestra lunga e stretta. Non si trattava di una macchina che conosceva: una cosa nera, un piccolo pipistrello stilizzato con larghe ali ed enormi occhi per fanali. Vikary era con lui in quella guardia. Dirk io chiamò presso la finestra e Jaan osservò con disinteresse. «Sì, conosco quel velivolo», disse Jaan. «Non ci interessa t’Larien, sono i cacciatori della Fortezza di Scianagate. Gwen ha riferito di averli visti allontanarsi questa mattina». A quel punto l’aerauto era scomparsa in mezzo alle case di Larteyn e Vikary si era di nuovo seduto, lasciando Dirk solo a riflettere.

Nei giorni che seguirono, vide gli Scianagate parecchie volte e tutte le volte gli sembravano irreali. Gli sembrava stranissimo che potessero andare e venire senza essere toccati da ciò che era capitato, che potessero vivere la loro vita come se Larteyn fosse ancora una pacifica città moribonda, come sembrava, come se non fosse morto nessuno. Erano vicinissimi a tutto ciò eppure distanti, non coinvolti; se l’immaginava quando ritornavano alla loro granlega, su Alto Kavalaan e riferivano che la vita su Worlorn era grìgia e poco interessante. Per loro non era cambiato niente; Kryne Lamiya continuava a cantare il suo lamento funebre e Sfida era ancora piena di luce, di vita e di promesse. Li invidiava.

Al terzo giorno Dirk si svegliò nel mezzo di un incubo particolarmente pernicioso in cui combatteva da solo con Bretan e non fu più capace di rimettersi a dormire. Gwen, che non era di guardia, camminava avanti e indietro nella cucina. Dirk si versò un bicchiere della birra di Vikary e rimase ad ascoltarla per un po’. «Dovrebbero essere qui», si lamentò lei. «Non posso credere che stiano ancora cercando Jaan. Al momento avranno certamente capito che cosa è capitato! Perché non sono qui?». Dirk si strinse semplicemente nelle spalle ed espresse la speranza che non apparisse mai nessuno; il Teric neDahlir sarebbe arrivato presto. Quando lo disse, lei si rivoltò arrabbiata. «Non me ne importa!», sbottò lei; e poi, vergognandosene, diventò rossa e venne a sedersi presso il tavolo. I suoi occhi erano stravolti, incorniciati da una larga fascia verde che le tratteneva i capelli. Lei gli prese la mano e gli disse esitando che Vikary non l’aveva più toccata fin dalla morte di Janacek. Dirk le disse che le cose sarebbero andate meglio quando fosse arrivata la nave, quando si fossero trovati al sicuro lontani di Worlorn e Gwen sorrise e gli disse che era d’accordo, ma dopo un po’ si mise a piangere. Quando alla fine lo lasciò, Dirk ritornò a dormire, prese la gemma mormorante, la tenne nel pugno e ricordò.

Al quarto giorno, mentre Vikary era fuori per una delle sue pericolose passeggiate all’alba, Gwen e Arkin Ruark bisticciarono durante una guardia e lei lo colpi con il calcio del suo fucile laser, duramente sulla faccia già ferita, nel punto in cui il gonfiore aveva appena cominciato a reagire agli impacchi ghiacciati ed alle pomate. Ruark scese dalla scaletta della torre, borbottando che lei era di nuovo diventata matta ed aveva cercato di ucciderlo. Dirk, svegliato da un sonno profondo, si alzò in piedi nella stanza comune ed il Kimdissi si immobilizzò quando lo vide. Nessuno di loro disse niente, ma dopo di ciò Ruark perse rapidamente peso e Dirk fu sicuro che Arkin sapesse mentre prima si era limitato a sospettare.

Al mattino del sesto giorno, Ruark e Dirk stavano facendo la guardia assieme, silenziosamente, quando l’ometto, in un impeto di rabbia, gettò il laser dall’altra parte della stanza. «Che cosa lurida!», esclamò. «Braith Ferrogiada, tutti uguali, sono degli animali Kavalari ecco cosa sono, sì. E tu, il grand’uomo di Avalon, eh? Ah! Tu non sei meglio di loro, per niente meglio, guardati. Avrei dovuto farti duellare, uccidere od essere ucciso, come volevi tu. Questo ti avrebbe fatto felice, sì? Indubbiamente, indubbiamente. Amavi la dolce Gwen e ti sono stato amico e che gratitudine ho trovato, quale, quale?». Le sue grasse guance stavano diventando smunte ed incavate; i suoi occhi pallidi si muovevano senza posa.

Dirk lo ignorò e Ruark piombò improvvisamente nel silenzio. Ma in seguito, quella stessa mattina, dopo aver raccolto il suo laser e dopo assersi seduto alcune ore ad osservare il muro, il Kimdissi si rivolse di nuovo a Dirk. «Anch’io sono stato il suo amante, sai», disse lui. «Lei non te lo ha detto, lo so, lo so, ma è la verità, assolutamente la verità. Su Avalon, parecchio prima che lei incontrasse Jaantony e prendesse quella maledetta giada-e-argento, la notte in cui tu le mandasti quella pietra mormorante. Lei era talmente ubriaca, sai. Abbiamo parlato e parlato, e lei era sbronza e dopo mi ha portato a letto ed il giorno dopo non se ne ricordava nemmeno, lo sai, non se ne ricordava nemmeno. Ma questo non è importante, però è la verità, anch’io sono stato il suo amante». Lui tremò. «Non l’ho mai detto a lei, t’Larien, e non ho cercato di far ritornare quei momenti. Io non sono scemo come sei tu e so benissimo cosa sono e so che fu solo una cosa di quel momento. Però è esistito, quel momento, e le ho insegnato un mucchio di cose, sono stato suo amico e so fare molto, molto bene il mio lavoro. Proprio così». Si fermò per prendere il fiato, poi si allontanò silenziosamente dalla torre, anche se c’era ancora un’ora da fare prima che Gwen venisse a sostituirlo.

Quando lei alla fine venne, la prima cosa che fece fu di chiedere a Dirk che cosa avesse detto ad Arkin. «Niente», rispose lui onestamente. Poi le chiese perché e lei gli disse che Ruark l’aveva svegliata, piangendo e dicendole un mucchio di volte che qualsiasi cosa fosse capitata, lei doveva fare in modo che il loro lavoro fosse pubblicato e che comparisse anche il suo nome, qualsiasi cosa fosse capitata, anche il suo nome aveva il diritto di comparire. Dirk annuì e diede il binocolo ed il posto alla finestra a Gwen e cominciarono a parlare di altre cose.

Al settimo giorno, la guardia di notte toccò a Dirk e Jaan Vikary. La città Kavalar rifletteva la sua fioca luce notturna, i viali di pietraluce parevano lastre di cristallo nero là sotto, con fuochi rossi che bruciavano debolmente, debolmente. Verso mezzanotte apparve una luce sulle montagne. Dirk la osservò mentre si avvicinava alla città. «Non lo so», disse, passando il binocolo. «È buio, difficile da distinguere. Comunque mi pare di vedere vagamente la forma di una cupola». Abbassò le lenti. «Lorimaar?».

Vikary era in piedi vicino a lui. L’aerauto si faceva più vicina. Scivolava silenziosamente sulla città ed il profilo era distinto. «È una macchina», disse Jaan.

La videro voltare verso il Comune e ritornare indietro, diretta verso il fronte del dirupo, all’entrata del garage sotterraneo. Vikary la osservò. «Non ci avrei creduto», disse. Andarono a svegliare gli altri.


L’uomo emerse dall’oscurità della sotterranea e si trovò di fronte a due laser. Gwen gli puntava contro la pistola, in maniera quasi casuale. Dirk, armato con uno dei fucili da caccia, lo puntava verso le porte degli ascensori ed era immobile col mirino che gli premeva sulla guancia, pronto a sparare. Solo Jaan Vikary non aveva un’arma; teneva il fucile mollemente tra le mani e la pistola era nel fodero.

Le porte dell’ascensore si chiusero dietro di lui e l’uomo rimase immobile, comprensibilmente spaventato. Non era Lorimaar. Non era nessuno che Dirk conoscesse. Abbassò il fucile.

Gli occhi dell’uomo passarono su ognuno di loro a turno ed alla fine si posarono su Vikary. «Alto-Ferrogiada», disse a voce bassa. «Perché te la prendi con me?». Era un uomo di media altezza, con la faccia da cavallo e la barba, con lunghi capelli biondi ed una struttura magrolina. Era vestito con un tessuto camaleontino che al momento era di un pallido grigio-rosso, illuminato e vibrante come i mattoni di pietraluce del pavimento.

Vikary allungò una mano ed allontanò gentilmente la canna della pistola di Gwen. L’atto parve risvegliarla. Lei aggrottò la fronte e rinfoderò la pistola. «Aspettavamo Lorimaar alto-Brarth», disse lei.

«È la verità», affermò Vikary. «Non era inteso nessun insulto, Scianagate. Onore alla tua granlega, onore al tuo teyn».

L’uomo dalla faccia di cavallo annuì e apparve risollevato. «E ai tuoi, Alto-Ferrogiada», disse. «Non è stato acquisito nessun insulto». Si grattò il naso nervosamente.

«Tu voli con una proprietà di Braith, non è vero?».

Lui annuì. «Vero ed è nostra per diritto di recupero. Il mio teyn ed io l’abbiamo trovata per caso nella foresta mentre inseguivamo in volo un ferrocorno. La creatura si era fermata a bere e lì c’era una macchina, abbandonata vicino ad un lago».

«Abbandonata? Sei certo di questo?».

L’uomo rise. «Conosco troppo bene Lorimaar Alto-Braith ed il grosso Saanel e non vorrei certo provocare gran dolore a qualcuno dei due. No, abbiamo anche trovato i loro corpi. Ci deve essere stato un nemico che li ha attesi all’accampamento, crediamo che fosse nascosto all’interno della macchina. Poi quando sono tornati dalla caccia…». Fece un gesto. «Non prenderanno altre teste, di falsuomini o di altre cose».

«Morti?», la bocca di Gwen era tirata.

«Assolutamente morti, ormai da parecchi giorni», rispose il Kavalar. «I mangiacarogna erano scesi su di loro, si capisce, però ne era rimasto a sufficienza per capire chi erano. Abbiamo trovato anche un’altra macchina lì vicino. Per la verità era dentro il lago, distrutta e inutilizzabile. C’erano anche delle tracce nella sabbia che indicavano che ci dovevano essere state delle altre macchine che erano venute e poi si erano allontanate. Il veicolo di Lorimaar funzionava ancora, anche se era pieno di cani Braith morti. Noi lo abbiamo ripulito e ce lo siamo preso. Il mio teyn mi segue sulla nostra macchina».

Vikary annui.

«Queste sono cose davvero insolite», diceva l’uomo. Li fissò tutti e tre furbescamente, senza nascondere il proprio interesse. Il suo sguardo si soffermò per un momento disagevolmente lungo, su Dirk e poi sul braccialetto di ferro puro di Gwen, ma non fece nessun commento. «Pare che siano rimasti pochi Braith in questi ultimi tempi, meno del normale. E adesso ne troviamo due morti».

«Se cerchi con cura ne troverai anche degli altri», disse Gwen.

«Stanno mettendo su una nuova granlega», aggiunse Dirk, «all’inferno».


Quando l’uomo se ne ritornò ai suoi affari, loro ripresero lentamente la strada per ritornare alla torre di guardia. Nessuno di loro parlò. Ombre lunghe si proiettavano partendo dai loro piedi e li inseguivano nelle cupe strade scarlatte. Gwen camminava e pareva esausta. Vikary era quasi nevrastenico; portava il fucile con attenzione sempre pronto ad afferrarlo per sparare se si fosse improvvisamente materializzato sul loro cammino Bretan Braith. Scrutava attentamente le strade ed i posti bui che incrociavano la loro strada.

Tornati nella stanza illuminata, Gwen e Dirk si lasciarono cadere per terra, mentre Jaan rimase un istante sulla porta col volto pensieroso. Poi posò le sue armi ed aprì una bottiglia di vino, lo stesso vino aspro che aveva bevuto con Garse e Dirk la notte precedente al duello che non venne mai fatto. Riempì tre bicchieri e li passò agli altri. «Bevete», disse, sollevando il suo bicchiere in un brindisi. «Stiamo arrivando ad una conclusione. Ormai rimane solo Bretan Braith. Presto raggiungerà il suo Chell, oppure io sarò con Garse ed in entrambi i casi avremo la pace». Scolò il bicchiere in fretta. Gli altri sorseggiarono.

«Ruark dovrebbe bere con noi», annunciò Vikary improvvisamente e riempì di nuovo il suo bicchiere. Il Kimdissi non li aveva accompagnati al loro incontro di mezzanotte. Comunque, la sua riluttanza non pareva essere stata dettata dalla paura; per lo meno, Dirk non l’aveva pensata così in quel momento. Jaan aveva convocato anche lui e Ruark si era vestito assieme agli altri, si era infilato il suo più bel vestito di seta ed un berrettino scarlatto, ma quando Vikary gli aveva dato un fucile, prima di uscire, lui si era limitato a fissarlo con un sorriso curioso, poi glielo aveva restituito. Quindi aveva detto: «Ho anch’io il mio codice, Jaantony, e tu devi rispettarlo. Grazie, ma penso che resterò qui». Disse la frase con tranquilla dignità; sotto i capelli biondi e bianchi, i suoi occhi parevano quasi allegri. Jaan gli disse di continuare la guardia dalla torre e Ruark acconsentì.

«Arkin odia il vino Kavalar», disse stancamente Gwen, rispondendo al suggerimento di Jaan.

«La cosa non ha importanza», rispose Jaan. «Questa non è una festa, ma un rito tra kethi. Dovrebbe bere con noi». Mise giù il bicchiere di vino e salì la scala che portava alla torre con movimenti eleganti.

Quando ritornò un istante dopo, era molto meno elegante. Piombò giù per l’ultimo metro e rimase immobile a fissarli. «Ruark non berrà con noi», dichiarò. «Ruark si è impiccato».

Al sorgere di quella particolare alba, l’ottava della loro veglia, fu Dirk che uscì a passeggiare.

Non entrò nella vera e propria Larteyn. Invece fece il giro delle mura della città. Erano larghe tre metri, di pietra nera coperta in alto da spesse lastre di pietraluce, sicché non c’era pericolo di cadere. Dirk era da solo di guardia (Gwen aveva tagliato la corda che sosteneva il corpo di Ruark e poi aveva portato Jaan a letto), osservava da quelle mura tenendo il laser in mano, inutilizzato ed il binocolo attorno al collo, quando il primo dei soli gialli salì nel cielo facendo svanire i fuochi della notte. Improvvisamente aveva sentito che doveva fare in fretta. Sapeva che Bretan Braith non sarebbe ritornato in città; ormai fare la guardia era diventata una formalità inutile. Appoggiò il fucile al muro, vicino alla finestra, indossò un abito pesante ed uscì fuori.

Fece un lungo tratto di strada. C’erano alte torri di guardia, per lo più come quella dove stavano loro, poste ad intervalli regolari. Ne superò sei e stimò che la distanza fra una torre e l’altra doveva grosso modo essere di un terzo di chilometro. Ogni torre aveva una cariatide e nessuna cariatide era uguale all’altra, notò. Poi, improvvisamente, le riconobbe. Quelle figure non erano tradizionali, non erano affatto prodotti di Vecchia Terra; erano i demoni del mito Kavalar, grottesche versioni mitizzate dei Dattiloidi, degli Hruun e dei succhiatori d’anima Githyanki. In un certo senso erano tutte reali. Da qualche parte tra le stelle, tutte quelle razze erano ancora vive.

Le stelle. Dirk si fermò ed alzò gli occhi. Occhiodaverno aveva cominciato a spuntare sull’orizzonte; quasi tutte le stelle erano già scomparse. Ne vide solo una; debolissima, una capocchia di spillo rossa striata da riccioli di nubi grigie. Scomparve mentre la guardava. La stella di Alto Kavalaan, pensò lui. Garse Janacek gliela aveva mostrata, un punto di riferimento per la sua fuga.

Comunque c’erano poche stelle lassù. Questi non erano posti in cui potessero vivere gli uomini, questi mondi come Worlorn, Alto Kavalaan e Cupalba, questi mondi esterni. Il Grande Mare Nero era troppo vicino ed il Velo Tentatore nascondeva la maggior parte della galassia, sicché i cieli erano cupi e vuoti. Un cielo doveva avere delle stelle.

Del resto un uomo doveva avere un suo codice. Un amico, un teyn, una giusta causa… qualcosa che andava al di là di se stesso.

Dirk camminò fino al bordo esterno delle mura e guardò giù. Era uno strapiombo lungo, lunghissimo. La prima volta che aveva superato le mura con un aeroscooter, aveva perso l’equilibrio, proprio perché aveva guardato giù. Le mura scendevano per un bel tratto e più in basso c’era il dirupo che non finiva più ed in fondo c’era un fiume che scorreva tra prati verdi e nebbie mattutine.

Rimase in piedi con le mani in tasca mentre il vento gli scompigliava i capelli e rabbrividì un po’. Era immobile e guardava. Poi tirò fuori la sua gemma mormorante. La soffregò tra pollice e indice, come se fosse un portafortuna. Jenny, pensò. Dove era andata? Nemmeno il gioiello era riuscito a riportargliela indietro.

Risuonarono dei passi vicini a lui, poi una voce. «Onore alla tua granlega, onore al tuo teyn».

Dirk si voltò, con la gemma mormorante ancora in mano. C’era un vecchio vicino a lui. Alto come Jaan e vecchio come il povero Chell morto. Era massiccio e leonino, con una testa di capelli bianchi come la neve, spettinati, che si univano ad una barba ugualmente tempestosa a formare una magnifica criniera. Eppure il suo viso era stanco e sbiadito come se si fosse consumato in un periodo di secoli. Solo gli occhi risaltavano; erano intensi, occhi follemente azzurri, occhi come quelli che aveva avuto Garse Janacek, che bruciavano di febbre gelida sotto le sopracciglia cespugliose.

«Non ho granlega», disse Dirk, «e non ho nemmeno teyn».

«Mi dispiace», disse l’uomo. «Vieni da un altro mondo, eh?».

Dirk fece un inchino.

Il vecchio ridacchiò. «Be’, allora vaghi per la città sbagliata, spettro».

«Spettro?».

«Uno spettro del festival», disse il vecchio. «Cos’altro potresti essere? Questo è Worlorn ed i vivi se ne sono andati tutti». Indossava un mantello nero di lana con enormi tasche, gli altri abiti erano di un pallido blu. Un pesante disco di acciaio inossidabile era appeso sotto la sua barba, sospeso ad una cinghia di cuoio. Quando tolse le mani dalle tasche del mantello, Dirk vide che gli mancava un dito. Non portava braccialetti.

«Tu non hai teyn», disse Dirk.

Il vecchio borbottò: «Naturalmente avevo un teyn, spettro. Io ero un poeta, non un prete. Che razza di domanda è mai questa? Attento. Potrei accusare insulto».

«Non porti il ferro-e-fuoco», sottolineò Dirk.

«Abbastanza vero, però che importa? Gli spettri non hanno bisogno di gioielli. Il mio teyn è morto da trent’anni e vaga per qualche granlega laggiù in Rossacciaio, immagino, ed io sono qui che vago per Worlorn. Be’, se devo dire la verità, solo per Larteyn. Vagare per un intero pianeta deve essere proprio stancante».

«Ah», disse Dirk sorridendo. «Allora anche tu sei uno spettro?».

«Be’, sì», rispose il vecchio. «Eccomi qui, a parlare con te perché mi mancano delle robuste catene da strascicare. Tu chi pensi che io sia?».

«Io penso», disse Dirk, «penso che tu potresti soltanto essere Kirak Rossacciaio Cavis».

«Kirak Rossacciaio Cavis», ripeté il vecchio con una strana burbera cantilena. «Lo conosco. Uno spettro come pochi altri. Il suo particolare destino è quello di occupare il cadavere della poesia Kavalar. Va in giro di notte ad ululare recitando versi tratti dai lamenti di Jamis-Leone Taal ed alcuni dei migliori sonetti di Erik Alto-Ferrogiada Devlin. Durante la luna piena canta gli inni di battaglia di Braith e qualche volta i canti funebri degli antichi cannibali dei Siti del Carbone Profondo. Uno spettro, infatti ed anche molto patetico. Quando vuole tormentare in modo particolare una delle sue vittime, lui le recita qualcuno dei suoi versi, ti assicuro che quando hai sentito una volta Kirak Rossacciaio, le catene strascicate sono molto meglio».

«Sì?», disse Dirk. «Non capisco perché essere un poeta debba essere, di per se stessa, una cosa tanto spettrale».

«Kirak Rossacciaio scrive poesie in Antico Kavalar», disse l’uomo con un cipiglio. «E questo è già abbastanza. È una lingua che muore. Quindi chi mai leggerà ciò che scrive? Nella sua granlega, gli uomini nascono e imparano a parlare soltanto il classico linguaggio stellare. Può darsi che traducano la sua poesia, ma è uno sforzo che non ne vale la pena, sai. Nella traduzione non si possono mantenere le rime e la metrica è molle come un falsuomo dalla schiena rotta. Non c’è niente di buono nelle sue traduzioni, nemmeno un po’. Le cadenze tintinnanti di Galeno Pietraluce, i dolci inni di Laaris-Cieco alto-Kenn, tutti quei piccoli Scianagate monotoni che esaltano il ferro-e-fuoco, perfino le canzoni delle eyn-kethi, queste son cose che non possono quasi più dirsi poesia. È tutto morto, il minimo pezzettino è morto e sopravvivono soltanto in Kirak Rossacciaio. Sì, quest’uomo è uno spettro. Altrimenti perché sarebbe venuto su Worlorn? Questo è un mondo per spettri». Il vecchio si tirò la barba ed osservò Dirk. «Tu sei lo spettro di un qualche turista, oserei immaginare. Indubbiamente ti sei perduto mentre cercavi una toeletta e da quel momento hai cominciato a vagare».

«No», disse Dirk, «no. Stavo cercando qualcos’altro». Sorrise e sollevò la gemma mormorante.

Il vecchio la osservò, strizzando gli occhi azzurri, mentre il vento fresco gli faceva svolazzare il mantello. «Qualsiasi cosa sia, probabilmente è morta», disse. Lontano da loro, giù, presso il fiume che scintillava attraverso il Comune, un suono veleggiò fino a loro: il gemito debole e distante di una banscea. Dirk voltò il capo di scatto e guardò per vedere da dove era arrivato il rumore. Non c’era niente, niente… solo loro due, in piedi sulle mura, il vento che li spingeva ed Occhiodaverno alto nel cielo crepuscolare. Non c’erano banscee. Il tempo delle banscee era passato quaggiù. Erano tutte estinte.

«Morta?», disse Dirk.

«Worlorn è piena di cose morte», disse il vecchio, «e di gente che cerca cose morte e spettri». Mormorò qualcosa in Antico Kavalar, qualcosa che Dirk non riuscì a comprendere pienamente e cominciò ad allontanarsi lentamente.

«Dirk lo osservò mentre si allontanava. Fissò il distante orizzonte, oscurato da un banco di nubi grigie e azzurre. Da qualche parte, in quella direzione, c’era lo spazioporto e — lui ne era certo — Bretan Braith. «Ah, Jenny», disse, parlando alla gemma mormorante. La gettò lontano da lui, come un ragazzo che lanci una pietra e la gemma andò lontano, lontanissimo, prima di cominciare a cadere. Pensò per un momento a Gwen, a Jaan e per parecchi istanti a Garse.

Poi si rivolse ancora al vecchio e gridò verso la figura che si allontanava. «Spettro!», gli chiese. «Aspetta. Mi faresti un favore, da uno spettro ad un altro!».

Il vecchio si fermò.

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