Comunque, faceva una bella differenza: nessuno guardava due volte una ragazzina che portava una scopa.

Si comprò un dolce da mangiare mentre andava in giro. (Il negoziante sbadatamente le diede meno resto del dovuto e si accorse solo più tardi di averle inesplicabilmente consegnato due monete d’argento; inoltre, i topi entrati non si sa come durante la notte, gli mangiarono tutta la merce; e sua nonna fu colpita da un fulmine).

La città era più piccola di Ohulan e molto diversa perché si trovava all’intersezione di tre rotte commerciali, lontano dal fiume. Era costruita intorno a una piazza enorme, un incrocio tra un luogo esotico intasato in permanenza dal traffico e un villaggio di tende. Cammelli davano calci ai muli, muli davano calci ai cammelli, cavalli davano calci ai cammelli e tutti davano calci agli esseri umani. Era un turbinio di colori, di rumori assordanti, un’orchestrazione olfattiva di odori. Il tutto accompagnato dal suono continuo e inebriante di centinaia di persone che si sforzavano in ogni modo di fare soldi.

Una ragione di simile trambusto era il fatto che in moltissime regioni del continente altra gente preferiva far denaro senza lavorare affatto. E, dato che il Disco doveva ancora sviluppare un’industria discografica, era costretta a ripiegare su forme di banditismo più antiche e più tradizionali.

Strano a dirsi, esse richiedevano spesso uno sforzo notevole. Fare rotolare pesanti massi in cima ai dirupi per un’imboscata riuscita, abbattere alberi per bloccare la strada, scavare una fossa con infissi pali appuntiti, sempre tenendo un pugnale bene affilato, comportava probabilmente un maggior dispendio di pensiero e di muscoli di altre professioni socialmente più accettabili. Tuttavia, esistevano ancora persone abbastanza scriteriate da sopportare tutto questo, più lunghe notti in condizioni disagiate solo per mettere le mani su grosse e comunissime scatole di gioielli.

Così una città come Zemphis era il luogo dove le carovane si dividevano e si mescolavano per poi riformarsi. Infatti, un gran numero di mercanti e di viaggiatori si riunivano per proteggersi contro gli emarginati appostati sulle piste da percorrere. Vagando senza essere notata in quel trambusto, Esk apprese tutto questo grazie al semplice metodo di trovare qualcuno dall’aspetto importante e tirargli l’orlo del pastrano.

Questo qualcuno in particolare stava contando delle balle di tabacco e ci sarebbe riuscito se non fosse stato per l’interruzione.

— Cosa?

— Ho chiesto, che succede qui?

L’uomo aveva intenzione di rispondere: "Smamma e va a scocciare qualcun altro". Aveva intenzione di darle uno scappellotto. Perciò fu il primo a stupirsi quando si chinò e si mise a parlare seriamente a una bambina dal faccino sudicio, con in mano una grossa scopa (la quale, gli sembrò più tardi, in qualche modo indefinibile stava pure ascoltando).

Le spiegò dunque delle carovane.

La piccola annuì. — Per viaggiare la gente si mette insieme?

— Precisamente.

— Per andare dove?

— Posti di tutti i generi. Sto Lat, Pseudopolis… Ankh-Morpork, naturalmente.

— Ma il fiume va là — obiettò a ragione Esk. — Chiatte. Gli Zoon.

— Ah, sì. Ma fanno pagare un prezzo alto e non possono trasportare tutto e, comunque, nessuno si fida molto di loro.

— Ma sono molto onesti!

— Uhm, sì. Ma sai come si dice: non fidarsi mai di un uomo onesto. — Il suo sorriso la sapeva lunga.

— Chi lo dice?

— Lo dicono. Sai. La gente. — Nella voce dell’uomo vibrò una nota d’imbarazzo.

— Oh — esclamò Esk. Stette a pensarci su e aggiunse con sussiego: — Devono essere molto stupidi. Grazie, a ogni modo.

Il mercante rimase a osservarla allontanarsi e poi si rimise a contare. Un momento dopo sentì di nuovo una tiratina al cappotto.

— Cinquantasette cinquantasette cinquantasetteallora? — disse, cercando di non perdere il conto.

— Scusami di disturbarti ancora — cominciò Esk — ma quei cosi, quelle balle…

— Che hanno cinquantasettecinquantasettecinquantasette?

— Be’, s’intende che dentro abbiano dei vermetti bianchi?

— Cinquantaset… cosa? — Il mercante abbassò la lavagna e guardò la bambina. — Che vermetti?

— Quelli che si contorcono. Bianchi — aggiunse lei, piena di buona volontà. — Che si stanno scavando la tana in mezzo alle balle.

— Vuoi dire la filaria del tabacco? — Guardò con gli occhi fuori delle orbite alla pila di balle scaricate (adesso che ci pensava) da un venditore con l’aria nervosa di un folletto di mezzanotte che vuole scappare via prima che si scopra la mattina che cosa è diventato l’oro fatato… — Ma lui mi aveva assicurato che queste balle erano state immagazzinate bene e… come fai tu a saperlo, comunque?

La bambina si era dileguata tra la folla. Il mercante fissò il punto dove lei si trovava prima. Poi fissò il venditore che ridacchiava nervosamente. Poi fissò il cielo. Poi tirò fuori dalla tasca il coltello, lo guardò per un momento, sembrò giungere a una decisione e si accostò alla balla più vicina.

Nel frattempo Esk, ascoltando senza parere, aveva trovato la carovana che si radunava per dirigersi a Ankh-Morpork. Il capoccia sedeva a un tavolo fatto da un’asse appoggiata su due barili.

Era affaccendato.

Stava parlando con un mago.

Come sanno i viaggiatori esperti, un gruppo che si accinge ad attraversare un paese potenzialmente ostile, dovrebbe disporre di un buon numero di spade. Ma dovrebbe assolutamente avere con sé un mago, in caso siano necessarie le sue arti magiche e, se così non è, per accendere il fuoco. Un mago di terzo livello o di livello superiore non si aspetta di pagare per avere il privilegio di unirsi al gruppo. Si aspetta piuttosto di essere ricompensato. In quel momento si stavano concludendo le delicate trattative.

— Abbastanza equo, Maestro Treatle, ma che mi dici del giovanotto? — domandò il capoccia, un certo Adab Gander, una figura imponente, in giustacuore, cappello floscio portato con aria spavalda, e gonnellino di pelle. — Non è un mago, si vede.

— È apprendista — ribatté Treatle, un mago alto e sparuto, che dai paludamenti risultava appartenere agli Antichi e Originali Fratelli della Stella d’Argento, uno degli otto ordini della loro specie.

— Allora non è mago, lui — affermò Gander. — Conosco le regole, e uno non è un mago se non ha la verga. E lui non ce l’ha.

— Proprio ora è diretto all’Università Invisibile per sistemare questo piccolo dettaglio — replicò Treatle con aria di superiorità. I maghi rinuncialo al denaro ancor meno di quanto le tigri rinuncino alle loro zanne.

Gander guardò il giovanotto in questione. Ai suoi tempi aveva conosciuto parecchi maghi e si reputava buon giudice. Doveva ammettere che quel ragazzo sembrava avere la stoffa del mago. In altre parole, era un tipo sottile, anzi scarno, con il pallore di chi legge libri inquietanti in ambienti insalubri, con occhi acquosi simili a due uova in camicia. Al capoccia venne fatto di pensare che per accumulare (potere) bisogna meditare.

"Per arrivare in cima" pensò "gli serve soltanto un piccolo handicap. I maghi soffrono di malanni come asma e piedi piatti, sembra che in certo modo gli diano la carica."

— Come ti chiami, ragazzo? — gli chiese il più gentilmente possibile.

— Ssssssssss — disse quello. Il pomo d’Adamo gli andava su e giù come un pallone prigioniero. Rivolse un muto appello al suo compagno.

— Simon — disse Treatle.

— … imon — completò Simon, riconoscente.

— Sei capace di lanciare palle di fuoco o incantesimi vorticosi, del tipo di quelli da scagliare contro un nemico?

Simon guardò di sottecchi Treatle.

— Nnnnnnnnnn — si arrischiò a rispondere.

— Il mio giovane amico pratica una magia superiore allo scagliare semplicemente dei sortilegi — asserì il mago.

— … o — terminò Simon.

Gander annuì. — Be’ forse diventerai davvero un mago, ragazzo. Forse, quando avrai la tua bella verga, consentirai una volta a viaggiare con me, sì? Farò un investimento su di te, sì?

— S…

— Fai un semplice cenno di testa — gli consigliò Gander, che non era per natura un uomo crudele.

Riconoscente, Simon fece cenno di sì. Treatle e Gander si misero d’accordo e quindi il mago si allontanò, seguito dall’apprendista, piegato sotto il peso del bagaglio.

Gander esaminò la lista che aveva davanti e cancellò "mago".

Sulla pagina si disegnò una piccola ombra. L’uomo alzò gli occhi e senza volerlo sobbalzò.

— Allora? — disse freddamente.

— Voglio andare ad Ankh-Morpork — disse Esk — per piacere. Ho del denaro.

— Torna a casa da tua madre, bambina.

— No, davvero. Voglio cercare la mia fortuna.

Gander sospirò. — Perché tieni in mano quella scopa?

Esk la guardò come se non l’avesse mai vista prima.

— Ogni cosa deve stare da qualche parte — spiegò.

— Torna a casa tua, ragazzina. Non conduco fuggiaschi ad Ankh-Morporh. Alle fanciulline possono accadere cose strane nelle grandi città.

L’interesse di Esk si risvegliò. — Che genere di cose strane?

— Senti, ti ho detto di tornare a casa, giusto? Ora!

Riprese in mano il gessetto e continuò a spuntare i vari articoli sulla sua lavagna, sforzandosi d’ignorare lo sguardo fisso che sembrava perforargli la cima della testa.

— Posso rendermi utile — annunciò Esk con calma.

Gander lasciò andare il gessetto e si grattò il mento, irritato.

— Quanti anni hai?

— Nove.

— Bene, signorina Noveanni. ho duecento animali e un centinaio di persone che vogliono andare ad Ankh, delle quali la metà odia l’altra metà, e non ho abbastanza uomini capaci di combattere, e dicono che le strade sono piuttosto cattive e che, lassù nelle Pap, i banditi si stanno facendo davvero sfrontati e che quest’anno i troll esigono un pedaggio più salato per attraversare il ponte e nelle nostre provviste ci sono calandre, insetti che le divorano e io continuo ad avere tutti questi grattacapi e, in una simile situazione, avrei bisogno di te?

— Oh! — Esk si guardò intorno nella piazza affollata. — Quali di queste strade porta ad Ankh, allora?

— Quella laggiù, con la porta.

La bambina lo ringraziò gravemente. — Addio. Spero che non avrai altri guai e che la tua testa vada meglio.

— Giusto — disse incerto Gander. Tamburellò con le dita sul tavolo mentre osservava Esk allontanarsi in direzione della strada per Ankh. Una strada lunga e tortuosa. Una strada infestata da ladri e da gnoll. Una strada che si arrampicava su per gli alti passi montani e si snodava attraverso deserti aridi.

— Oh, maledizione! — esclamò sottovoce. — Ehi! Tu.


Nonnina Weatherwax si trovava nei pasticci.

Anzitutto, decise, non avrebbe dovuto permettere a Hilta di convincerla a prendere in prestito la sua scopa: era vecchia, non affidabile, volava solo di notte e anche allora non riusciva ad andare che al trotto.

Il potere magico che la faceva sollevarsi in aria era diventato con l’uso talmente debole da cominciare ad agire soltanto quando il maledetto arnese aveva già preso una certa velocità. In effetti, quella era l’unica scopa ad avere bisogno di un energica messa in moto.

Fu così che, mentre Nonnina Weatherwax, sudando e imprecando, correva lungo un sentiero della foresta reggendo il dannato aggeggio all’altezza della spalla per il decimo tentativo, s’imbatté nella trappola da orsi.

Il secondo problema fu che l’orso l’aveva trovata per primo. In realtà il problema non si era rivelato poi tanto grave. Infatti la Nonnina, già di cattivo umore, aveva colpito l’animale dritto in mezzo agli occhi con la sua scopa tanto che quello sedeva ora lontano da lei quanto è possibile esserlo in una fossa, e si sforzava di non lasciarsi andare al pessimismo.

Fu una notte piuttosto scomoda né la mattina andò meglio per il gruppo di cacciatori che, verso l’alba, si affacciarono sull’orlo della fossa.

— Era tempo — esclamò la Nonnina. — Tiratemi fuori da qui.

Quelli, sbalorditi, ritirarono la testa e lei li sentì bisbigliare in fretta. Avevano visto il cappello e la scopa.

Alla fine ricomparve, con una certa riluttanza, un viso barbuto, come se il corpo al quale era attaccato venisse spinto in avanti.

— Uhm — cominciò l’uomo — ascolta, madre…

— Non sono una madre — scattò la Nonnina. — E certamente non sono tua madre, se mai ne hai avuta una, ciò di cui dubito. Se fossi tua madre, sarei scappata prima che tu nascessi.

— È solo un modo di dire — ribatté il cacciatore in tono di rimprovero.

— È un maledetto insulto, ecco che cos’è!

Altro rapido bisbiglio.

— Se non esco di qui — minacciò la Nonnina con voce tonante — ci saranno dei Guai. Lo vedi il mio cappello, eh? Lo vedi?

La testa ricomparve.

— È proprio questo il punto, no? — disse la voce. — Cioè, che succede se ti tiriamo fuori? Sembra meno rischioso, tutto considerato, se ci limitiamo a riempire la fossa. Niente di personale, capisci.

La vecchia si rese conto del perché la testa di quell’uomo la disturbava.

— Stai in ginocchio? — lo accusò. — No, vero? Siete dei nani!

Ancora bisbigli.

— Be’, e allora? — ribatté l’altro in tono di sfida. — Niente di male in questo. Cos’hai contro i nani?

— Sapete riparare le scope?

— Scope magiche?

— Sì!

Altri bisbigli.

— E se ne siamo capaci?

— Be’, potremmo giungere a un accordo…


Le grotte dei nani echeggiavano dei colpi di martelli, anche se principalmente per fare impressione. Ai nani riesce difficile pensare senza il suono dei martelli, che loro trovano calmante. Così quelli di loro che guadagnano bene nel lavoro impiegatizio, pagano i folletti perché percuotano piccole incudini cerimoniali, tanto per mantenere intatta la reputazione nanesca.

La scopa era poggiata su due trespoli. Nonnina Weatherwax sedeva su un masso. Intanto un nano, alto la metà di lei, con indosso un grembiule zeppo di tasche, girava intorno alla scopa e di tanto in tanto le dava un colpetto.

Alla fine diede un calcio alle setole e trattenne il respiro, una specie di fischio all’inverso, che in tutto l’universo è il segno segreto degli artigiani e significa che sta per accadere qualcosa che risulterà costosa.

— Beeee’ — disse. — Potrei far venire qui degli apprendisti per dargli un’occhiata, potrei. Per loro sarebbe un insegnamento. E tu dici che veramente si alzava in aria?

— Volava come un uccello — rispose la Nonnina.

Il nano si accese la pipa. — Mi piacerebbe moltissimo vedere quell’uccello — disse in tono riflessivo. — Immagino che valga la pena di osservarlo, un simile uccello.

— Già, ma puoi ripararla? Ho fretta — insistette la strega.

Il nano si mise lentamente a sedere, con fare deciso.

— Quanto a una riparazione, be’, non so niente di riparazioni. Ricostruirla, forse. Naturalmente, oggigiorno è difficile avere le setole, anche se si trova chi è capace di legarle bene, e per gli incantesimi occorre…

— Io non la voglio ricostruita, voglio solo che funzioni come si deve — protestò la Nonnina.

— È un modello vecchio, vedi — continuò il nano senza scomporsi. — Assai difficili, questi vecchi modelli. Non si trova il legno…

Si sentì afferrare e sollevare finché i suoi occhi furono a livello con quelli della Nonnina. I nani, essendo essi stessi magici, oppongono resistenza alla magia. Ma, dalla sua espressione pareva che la vecchia fosse intenzionata a far sì che il bulbo degli occhi gli si incastrasse nel cranio dietro.

— Soltanto ripararla — sibilò. — Per piacere!

— Cosa, fare un lavoro alla carlona? — esclamò il nano e la pipa gli cadde a terra.

— Sì.

— Rappezzarla, vuoi dire? Tradire la mia esperienza, facendo un lavoro a metà?

— Sì. — Le pupille della vecchia erano due piccoli buchi neri.

— Oh! Va bene, allora — disse il nano.


Gander il capoccia era preoccupato.

Era la terza mattina da che avevano lasciato Zemphis, tenendo una buona andatura, e adesso stavano salendo al passo attraverso le montagne conosciute come le Pap di Scilla. (Ce n’erano otto, e Gander si domandava spesso chi fosse stata Scilla e se gli sarebbe piaciuta).

Una banda di gnoll si era avvicinata di nascosto a loro durante la notte. Le perfide creature, una varietà dei folletti delle rocce, avevano tagliato la gola a una guardia, certo con l’intenzione di massacrare l’intera carovana. Soltanto…

Soltanto, nessuno sapeva bene cosa fosse accaduto in seguito. Erano stati svegliati dalle urla e, dopo che i fuochi erano stati ravvivati e Treatle il mago aveva illuminato il campo di un azzurro fulgore, gli gnoll scampati erano distanti, ombre grottesche, che correvano come se fossero inseguiti dalle legioni infernali.

A giudicare da quanto era successo ai loro compagni, probabilmente avevano ragione. Brandelli di gnoll pendevano dalle rocce vicine, dando loro una sorta di aria allegra e festosa. La cosa non dispiaceva troppo a Gander. Gli gnoll prendevano gusto a catturare i viaggiatori e praticare l’ospitalità del tipo coltello arroventato e randello. Ma lo rendeva nervoso trovarsi nello stesso luogo di un Qualcosa che trapassava una dozzina di gnoll armati e robusti, come un cucchiaio che entra in un uovo poco cotto. Ma che non lasciava tracce.

Infatti il terreno era perfettamente pulito.

Era stata una notte molto lunga e la mattina non prometteva di essere migliore. L’unica persona ben sveglia era Esk, la quale aveva dormito sotto uno dei vagoni durante l’intera vicenda e si lamentava soltanto di avere fatto dei sogni curiosi.

Tuttavia, era un sollievo allontanarsi da quella vista macabra. Secondo Gander, l’aspetto degli gnoll non era migliore dentro che fuori. Lui li odiava con tutte le sue forze.

Esk viaggiava sul vagone di Treatle e parlava con Simon, che lo guidava con mani inesperte, mentre dietro a loro il mago recuperava un po’ di sonno.

Simon era inesperto in tutto. Ci riusciva veramente bene. Era uno di quei ragazzi alti, apparentemente fatti solo di ginocchi, pollici e gomiti. Guardarlo camminare era stressante, uno si aspettava sempre che i fili si spezzassero. E quando parlava, lo spasimo d’agonia de! suo volto se scorgeva certe consonanti più avanti nella frase, spingeva istintivamente le persone a pronunciarla per lui. Ma ne valeva la pena davanti alla espressione di gratitudine che gli si diffondeva sul viso butterato, come la luce del primo sole sulla luna.

In quel momento gli occhi gli lacrimavano per la febbre da fieno.

— Desideravi essere un mago quando eri piccolo?

Simon scosse la testa — Io vvv…

— …volevo…

— …scoprire come le cose fff…

— …funzionavano?

— Sì. Poi qualcuno del mio villaggio lo disse all’Università e mm-mandarono il Mm-maestro T-Treatle a prendermi. Diventerò un mmm…

— …mago…

— un giorno. Il mio Maestro Treatle dice che ho un’inclinazione eccezionale per la tt-teoria. — Gli occhi acquosi del ragazzo si inumidirono e sul suo viso devastato si dipinse un’espressione quasi rapita.

— Lui d-dice che hanno migliaia di l-libri nella biblioteca dell’Università Invisibile — disse, con la voce di un innamorato. — Più l-libri di quanto sia p-possibile leggere in tutta una vv-vita.

— Non sono sicura che i libri mi piacciano — disse la ragazzina. — Come può la carta conoscere le cose? La mia nonnina dice che i libri sono buoni solo se la carta è sottile.

— No, non è vero — protestò Simon. — I libri sonopieni di ppp… — Inghiottì e le lanciò un’occhiata supplichevole.

— …parole? — disse Esk, dopo averci pensato un momento.

— Sì, e possono cambiare le cc-cose. Qu-questo è… — Si sforzò di pronunciare una parola farfugliando.

— …ciò che… — lo aiutò Esk.

— devo ss-scoprire. So che è ll-lì, da qualche parte in tutti i vecchi libri. Loro ddd…

— …dicono…

— che non ci sono incantesimi nuovi, ma io so che da qualche parte ci ss-sono le ppp…

— …parole…

— sì, che nessun mmm…

— mago? — suggerì Esk, la fronte aggrottata nello sforzo di concentrarsi.

— Sì, ha mai trovato. — Chiuse gli occhi e sorrise, beato. Poi aggiunse: — Le Parole che Cambieranno il Mondo.

— Cosa?

— Eh? — Simon aprì gli occhi, giusto in tempo per impedire che i buoi uscissero dalla pista.

— Hai talmente farfugliato!

— Davvero?

— Ti ho sentito. Riprovaci.

Il ragazzo respirò a fondo e ci riprovò ripetutamente, ma senza risultato.

— Non serve, mi sfugge. Qualche volta mi riesce, se non ci penso. Il mio Maestro dice che sono allergico a qualche cosa.

— Allergico?

— C’è qualcosa nell’aria, pp-polline forse o l’odore dell’erba. Lui ha cercato di scoprirne la causa, ma sembra che la magia non sia di a-aiuto.

Stavano passando attraverso uno stretto sentiero tra pareti di rocce giallastre. L’espressione di Simon era sconsolata.

— La mia nonnina mi ha insegnato dei rimedi contro la febbre da fieno. Potremmo provarli — offrì Esk.

Lui scosse la testa, dando l’impressione che gli si potesse staccare dal collo.

— Provato di tutto — disse. — Che bel mmm-mago sarei, eh, incapace perfino di pronunciare la pppp… il nome.

— Potrei vedere dove sarebbe il problema — dichiarò lei. Rimase per un po’ a guardare il paesaggio e a seguire il filo dei suoi pensieri.

Alla fine chiese: — Ehm, è possibile per una donna essere… sai, un mago?

Simon la guardò sorpreso e lei gli ricambiò lo sguardo con aria di sfida.

La gola del ragazzo si serrò, nello sforzo di trovare una frase che iniziasse con una consonante facile da pronunciare. Alla fine fu costretto a scendere a un compromesso.

— Un’idea curiosa — disse. Ci pensò su per un po’ e poi scoppiò a ridere finché non vide l’espressione della bambina.

— Alquanto buffa, davvero — aggiunse. Ma il suo viso si fece serio. Era chiaramente perplesso. — Non ci avevo mm-mai pp-pensato prima.

— Allora? È possibile? — La voce di Esk era tagliente come un rasoio.

— Certo che non è possibile. È una cosa lampante, piccola. Simon, rimettiti a studiare.

Treatle scostò la tenda che separava la parte posteriore del vagone e si arrampicò sul sedile.

La solita espressione di lieve panico tornò sulla faccia di Simon. Treatle gli tolse le redini dalle mani e lui lanciò un’occhiata supplichevole a Esk. Ma la bambina lo ignorò.

— Perché no? Perché è così lampante?

Treatle si voltò a guardarla. Fino a quel momento non le aveva mai prestato molta attenzione; per lui la piccola era semplicemente un’altra figura intorno ai fuochi da campo.

Quale Vice-Cancelliere dell’Università Invisibile, era abituato a vedere delle vaghe figure darsi da fare per servirgli i pasti e tenergli in ordine le stanze. Certo, era uno stupido, in quel particolarissimo modo in cui possono esserlo persone molto intelligenti. E forse aveva il tatto di una valanga ed era egocentrico come un tornado. Ma non gli sarebbe mai passato per la testa che i bambini fossero abbastanza importanti per comportarsi sgarbatamente con loro.

Dai lunghi capelli bianchi alla punta rivolta all’insù degli stivali, Treatle era l’immagine stessa di un mago. Ne aveva, come d’uso, le sopracciglia cespugliose, la tunica scintillante e la barba patriarcale, appena rovinata dalle macchie gialle della nicotina (i maghi, sebbene celibatari, godono a fumarsi un buon sigaro).

— Ti sarà tutto chiaro quando sarai cresciuta — le rispose. — Certo, l’idea è divertente, un bel giochino di parole. Un mago femmina! Tanto varrebbe inventarti una strega maschio!

— Stregoni — disse Esk.

— Prego?

— La mia nonnina afferma che gli uomini non possono essere streghe. Dice che se gli uomini tentassero di essere delle streghe sarebbero dei maghi.

— Mi sembra una donna molto saggia — osservò Treatle.

— Lei dice che le donne dovrebbero attenersi a ciò che sanno fare bene — continuò la bambina.

— Molto ragionevole da parte sua.

— Dice che se le donne fossero brave come gli uomini, sarebbero assai meglio.

Treatle rise.

— Lei è una strega — dichiarò Esk e in mente sua aggiunse: "Prendi questa, che ne pensi, signor cosiddetto grandemago".

— Mia cara signorina, dovrei esserne scioccato? Provo un grande rispetto per le streghe.

Esk si accigliò. Non era quello che si aspettava di sentire da lui.

— Davvero?

— Sì, certo. A mio parere, le arti di una strega sono una bella carriera per una donna. Una vocazione nobilissima.

— Davvero? Cioè, è così?

— Oh, sì. Molto utile nelle zone rurali per… per le persone che… fanno figli e così via. Comunque, le streghe non sono maghi. La loro arte è il modo di cui si serve la Natura per permettere alle donne l’accesso ai flussi magici. Ma devi ricordare che non è la grande magia.

— Capisco. Non è grande magia — ripeté la bambina in tono tutt’altro che soddisfatto.

— Oh, no. Naturalmente, è un’arte assai valida per aiutare la gente nel cammino della vita, ma…

— Suppongo che le donne non siano abbastanza razionali per essere dei maghi — aggiunse Esk. — Suppongo che sia questo.

— Non ho che il massimo rispetto per le donne — affermò il mago, che non aveva notato il nuovo tono che vibrava nella voce della piccola. — Sono impareggiabili quando, quando…

— Si tratta di avere dei figli, eccetera?

— Sì, infatti — concesse generosamente il mago. — Ma a volte possono creare un certo disturbo. Un po’ troppo eccitabili. La grande magia richiede una grande lucidità di spirito, capisci, e i talenti femminili non si esercitano in quella direzione. Il loro cervello tende a surriscaldarsi. Mi rincresce dire che c’è una sola porta per accedere all’arte di un mago. Ed è la porta principale dell’Università Invisibile: nessuna donna l’ha mai passata.

— Spiegami esattamente a che cosa serve la grande magia.

Treatle le sorrise.

— Bambina mia, essa può darci tutto ciò che vogliamo.

— Oh!

— Quindi scaccia dalla tua mente tutta questa sciocchezza di un mago femmina, va bene? — Treatle le sorrise benevolo. — Come ti chiami, piccola?

— Eskarina.

— E perché vai ad Ankh, mia cara?

— Pensavo che avrei potuto cercare fortuna — borbottò lei. — Ma credo che forse per le fanciulle non ci sia una fortuna da cercare. Sei sicuro che i maghi danno alla gente ciò che vuole?

— Naturale. La grande magia è fatta per questo.

— Capisco.

La grande carovana avanzava poco più che a passo d’uomo. Esk saltò giù. tirò fuori la verga dal suo nascondiglio tra le bisacce e i secchi appesi sul fianco del vagone, e partì di corsa fino a trovarsi in coda alla fila di carri e di animali. Scorse attraverso le lacrime Simon che si sporgeva a guardarla dal vagone, un libro aperto in mano. Il ragazzo le rivolse un sorriso perplesso e fece per dirle qualcosa, ma lei continuò a correre e cambiò direzione lasciando la pista.

Si arrampicò su una scarpata di argilla, con le gambe graffiate dai cespugli spinosi delia ginestra, e poi sì ritrovò a correre libera su un nudo altopiano racchiuso tra dirupi giallastri. Non si fermò finché non le mancò il fiato, ma si sentiva ancora ardere dalla collera. Altre volte era stata arrabbiata, ma mai in quel modo. Di solito la collera era simile alla fiamma delia fucina appena accesa, splendente e sprizzante faville. Ma quella che provava in quel momento era diversa. Come attizzata dal mantice, si era ridotta alla fiammella di un azzurro così intenso da scolorare nel bianco, capace di tagliare il ferro.

Le faceva formicolare tutto il corpo. Doveva fare qualcosa o scoppiare.

Come mai, quando ascoltava la Nonnina dilungarsi sull’arte delle streghe, lei non desiderava altro che quella più possente dei maghi; ma, ogni volta che sentiva parlare Treatle con la sua voce acuta, avrebbe difeso la prima con tutte le sue forze? Lei avrebbe avuto entrambe o nessuna. E più gli altri volevano fermarla, più lei era decisa.

Sarebbe stata una strega e anche un mago. Gliela avrebbe fatta vedere a tutti.

Si sedette sotto un folto cespuglio di ginepro ai piedi di un ripido pendio, la mente ribollente di collera e di piani. Sentiva porte che si richiudevano ancor prima che lei provasse ad aprirle. Treatle aveva ragione: non l’avrebbero lasciata entrare nell’Università. Possedere una verga non bastava per diventare un mago, occorreva anche ricevere una formazione e a lei nessuno l’avrebbe data.

Il sole di mezzogiorno picchiava e intorno a Esk l’aria cominciò a sapere di ginepro e di api. Lei si sdraiò, fissando la volta rossastra del cielo tra le foglie, e alla fine scivolò nel sonno.

Un effetto collaterale di chi pratica la magia è che si tendono a fare sogni realistici inquietanti. Una ragione c’è, ma il solo pensarci è sufficiente per far venire gli incubi a un mago.

Il fatto è che la mente dei maghi è in grado di dare forma ai pensieri. Le streghe lavorano con ciò che esiste realmente nel mondo ma, se è bravo, un mago può dare corpo alla propria immaginazione. La cosa in sé non sarebbe grave se non fosse per il fatto che il piccolo cerchio di luce di candela, impropriamente chiamato "l’universo del tempo e dello spazio", scivola in cose molto più spiacevoli e imprevedibili. Strani Esseri si aggirano e grugniscono fuori delle fragili barriere della normalità. Dai profondi crepacci al confine del Tempo si levano sibili e ululi misteriosi. Ci sono esseri così orribili che perfino l’oscurità ne ha paura.

La maggior parte di noi non lo sa e ciò è un bene, perché il mondo non potrebbe funzionare come si deve se ognuno se ne stesse a letto con le lenzuola tirate sopra la testa. Ed è quello che accadrebbe se sapessimo quali orrori sono in agguato.

Il problema è che coloro che s’interessano di magia e di misticismo trascorrono, per così dire, molto tempo proprio al limite della luce. Il che fa sì che vengano notati dalle creature delle Dimensioni Sotterranee, le quali allora cercano di servirsene nei loro incessanti sforzi di penetrare in questa particolare Realtà.

La maggior parte di noi è capace di opporre resistenza, ma i continui tentativi di quegli Esseri si fanno più forti quando il soggetto è addormentato.

Bel-Shamharoth, Chulagen, Colui che è addentro… gli orridi e bui dei del Necrotelicomnicon (il libro conosciuto da certi folli adepti con il suo vero nome di Liber Paginarum Fulvarum) sono sempre pronti a introdursi in una mente addormentata. Gli incubi sono spesso vividi e sempre sgradevoli.

Esk ci aveva fatto l’abitudine fin da quel primo sogno dopo il suo primo Prestito e la familiarità era quasi subentrata al terrore. Quando si ritrovava seduta nel mezzo di una pianura di polvere scintillante sotto stelle ignote, sapeva che era arrivato il momento di un altro incubo.

— Al diavolo — esclamò. — Va bene, vieni avanti. Forza con i mostri. Spero soltanto che non sia quello con la chiocciola di mare sul viso.

Questa volta, però, l’incubo era diverso. Esk si guardò intorno e vide, erto dietro di lei, un alto castello nero. Le sue torri scomparivano tra le stelle. Dai merli venivano giù luci e fuochi d’artificio e una musica strana. La grande porta a doppio battente era spalancata con aria invitante. Sembrava che all’interno si svolgesse una festa molto animata.

Lei si alzò, si spazzolò via dall’abito la polvere argentea e si diresse alla porta.

L’aveva quasi raggiunta quando i battenti si richiusero. Ma senza muoversi. Semplicemente, un attimo prima erano spalancati e subito dopo erano serrati con un clangore che scosse gli orizzonti.

Esk tese la mano per toccarli. Erano neri e così freddi che sopra cominciava a formarsi il ghiaccio.

Qualcosa si mosse alle sue spalle. Si voltò e vide la verga, non più camuffata da scopa, piantata ritta nella sabbia. Sul legno polito guizzavano delle scintille come pure intorno alle incisioni che a nessuno era mai riuscito di decifrare.

Esk la prese e la batté con violenza contro la porta. L’urto produsse una pioggia di scintille di ottarino ma non intaccò minimamente il nero metallo.

La bambina socchiuse gli occhi. Tenendo la verga a braccio teso, si concentrò finché una piccola lingua di fuoco sprizzò dal legno ed esplose sul battente. Il ghiaccio si tramutò in vapore ma la tenebra (adesso lei era sicura che non si trattava di metallo) assorbì il potere senza rivelare nemmeno il più piccolo bagliore. Esk allora raddoppiò l’energia, così che tutta la magia racchiusa nella verga si riversò in un raggio talmente brillante da obbligarla a chiudere gli occhi (pur continuando a vederlo nella sua mente).

Poi si spense.

Lei lasciò passare qualche secondo, poi si avvicinò di più e toccò con cautela la porta. Il gelo quasi le fece cadere le dita.

Dall’alto dei merli sentì il suono di risa beffarde. Quel suono era peggio di una risata, specie una riecheggiante risata demoniaca. Invece era soltanto… una sghignazzata.

Che andò avanti a lungo. Uno dei suoni più sgradevoli che Esk avesse mai udito.


Si svegliò con un brivido. Mezzanotte era passata da un pezzo e le stelle spandevano una luce umida e fredda. L’aria era piena del silenzio notturno, un silenzio attivo, creato da centinaia di piccoli esseri pelosi che si spostano con grande cautela nella speranza di trovarsi una cena ed evitare al tempo stesso di fornire la portata principale.

Si era alzato uno spicchio di luna e una tenue luce grigia verso l’orlo del mondo indicava che, contro ogni probabilità, si preparava un altro giorno.

Qualcuno aveva avvolto la bambina in una coperta.

— So che sei sveglia — disse la voce di Nonnina Weatherwax. — Potresti renderti utile e accendere il fuoco. Da queste parti c’è fin troppa abbondanza di legna.

Esk si mise seduta e si afferrò al cespuglio di ginepro. Si sentiva così leggera da temere di volare via da un momento all’altro.

— Fuoco? — borbottò.

— Già. Sai. Puntare un dito ed ecco fatto. — La voce della vecchia aveva un tono acido. Seduta su una roccia, cercava di trovare una posizione che non desse fastidio alla sua artrite.

— Io… io non credo di esserne capace.

— Senti, senti! — fu il commento enigmatico della Nonnina.

La vecchia strega si chinò in avanti e posò una mano sulla fronte della bambina. Era come essere carezzata da una calzetta piena di dadini caldi.

— Hai anche un po’ di febbre. — E aggiunse: — Troppo sole e terreno freddo. Ti sta bene.

Esk si lasciò andare fino a poggiare la testa in grembo alla Nonnina, con il suo odore familiare misto di canfora, erbe varie e un sentore di capra. La Nonnina le diede dei colpetti sui capelli che, nella sua intenzione, dovevano avere un effetto calmante.

Dopo un po’ Esk disse a voce bassa: — Non mi permetteranno di entrare all’Università. Me l’ha detto un mago e io l’ho sognato, uno di quei sogni che dicono la verità. Sai, come mi hai detto tu, una mete-nonsoche.

— Mettarfora — disse calma la vecchia.

— Una di quelle.

— Credevi che sarebbe stato facile? Pensavi di passare la loro porta agitando la tua verga? Eccomi qua, voglio essere un mago, grazie mille?

— Mi ha detto che le donne non sono permesse nell’Università!

— Lui si sbaglia.

— No, capivo che diceva la verità. Sai, Nonnina, si capisce…

— Sciocchina. Tu capivi soltanto che lui era convinto di dire la verità. Non sempre il mondo è quale la gente lo vede.

— Non capisco — protestò la bambina.

— Imparerai. Adesso dimmi. Questo sogno. Non ti lasciavano entrare nella loro università, giusto?

— Sì, e ridevano.

— E allora hai cercato di abbattere la porta con il fuoco?

Esk girò la testa e la guardò sospettosa.

— Come facevi a saperlo?

La Nonnina sorrise, ma come sorriderebbe una lucertola.

— Ero lontana chilometri — rispose. — Stavo cercando di raggiungerti con la mente e a un tratto mi sembrava di vederti dovunque. Risplendevi con un piccolo segnale, così facevi. Quanto al fuoco… guardati intorno.

Nella semiluce dell’alba, il pianoro era un ammasso di argilla bruciata. Il pendio davanti a Esk era vetroso e doveva essere colato come pece liquida sotto l’impatto violento, attraversato qua e là da grandi spaccature dalle quali erano sgorgate roccia fusa e scorie. Ascoltando attentamente, Esk riusciva a udire il debole battito della roccia che si andava raffreddando.

— Oh, sono io che ho fatto questo? — esclamò.

— Così sembrerebbe — affermò la Nonnina.

— Ma dormivo! Stavo solo sognando!

— È la magia. Che cerca di trovare una via d’uscita. La magia di una strega e quella di un mago, non so, è come se si alimentassero a vicenda. Credo.

Esk si morse un labbro.

— Che cosa posso fare? — chiese. — Sogno ogni sorta di cose!

— Be’, tanto per cominciare, andiamo dritte all’Università — decise la Nonnina. — Devono essere abituati agli apprendisti incapaci di controllare la magia e che fanno sogni del genere. Altrimenti, quel posto sarebbe stato distrutto dalle fiamme già da anni.

Lanciò prima un’occhiata verso l’Orlo e poi alla scopa accanto a lei.


Tralasceremo il correre su e giù, gli sforzi per rendere più stretti i nodi che legavano la scopa, le imprecazioni borbottate contro i nani, i brevi attimi di speranza quando la magia brillava intermittente, la disperazione quando si spegneva, e ancora gli sforzi per stringere i nodi e ancora le corse, l’avvio improvviso dell’incantesimo, l’arrampicarsi a bordo, le grida, il decollo…

Con una mano Esk si teneva aggrappata alla Nonnina e con l’altra reggeva la verga mentre si spostavano a fatica a qualche metro dal suolo. Qualche uccello le affiancava, interessato a quel nuovo albero volante.

— Andatevene via, accidenti! — urlò la Nonnina che, toltasi il cappello, lo agitava minacciosa.

— Non andiamo molto veloci, Nonnina — osservò Esk.

— Per me è abbastanza!

Esk si guardò intorno. Dietro a loro l’Orlo era una vampa dorata, attraversata dalle nuvole.

— Credo che dovremmo abbassarci, Nonnina — disse ansiosa la piccola. — Hai detto che la scopa non può volare con i raggi del sole. — Guardò il paesaggio sottostante. Era ripido e inospitale. E sembrava in attesa.

— So quello che faccio, signorina — disse burbera la vecchia, che strinse più forte la scopa e cercò di farsi la più leggera possibile.

Abbiamo già rivelato che nel mondo-Disco la luce si spande, lentamente, per effetto del suo passaggio attraverso il vasto e antico campo magico del Disco.

Così l’alba non sorge rapida come negli altri mondi. Invece di erompere, il nuovo giorno avanza adagio attraverso il paesaggio addormentato come fa la marea che striscia sulla spiaggia e fa crollare i castelli di sabbia della notte. Quando incontra le montagne, ci gira intorno. E se gli alberi si levano fitti, emerge dai boschi in nastri di luce, tagliati dalle ombre.

Un osservatore piazzato in alto in un punto adatto (prendiamo, tanto per dire, un cirrostrato al limite dello spazio) noterebbe con quanto amore la luce si spande sulla terra, come balza in avanti sulle distese pianeggianti e rallenta quando incontra le alture, con quanta bellezza essa…

Ora, ci sono degli osservatori i quali, davanti a tanta bellezza, si lamenteranno che la luce dal lento fluire non può esistere e che, in caso contrario, non saremmo capaci di vederla. Al che si può soltanto rispondere: allora, com’è che state su una nuvola?

Ma basta con il cinismo. Giù sul Disco la scopa avanzava veloce verso l’alba piena, lasciandosi indietro l’ombra della notte.

— Nonnina!

Il giorno esplose su di loro. Davanti, le rocce, inondate di luce, parevano fiammeggiare.

La vecchia avvertì lo scarto del bastone e contemplò affascinata ma con terrore la piccola ombra barcollante sotto di loro.

— Che succederà quando ci abbatteremo al suolo?

— Dipende se riesco a trovare delle rocce morbide — rispose la Nonnina con voce preoccupata.

— La scopa sta per precipitare! Non possiamo fare qualche cosa?

— Be’, suppongo che potremmo scendere.

— Nonnina — disse Esk nel tono di voce esasperato e notevolmente adulto che i bambini adoperano per rimproverare i loro parenti ostinati — non mi sembra che tu capisca bene. Io non voglio sbattere sul terreno. Non mi ha mai fatto niente.

La Nonnina stava cercando di escogitare un incantesimo appropriato e rimpiangeva che la "menteologia" non funzionasse con le rocce. Se si fosse accorta della nota che vibrava nella voce della bambina, forse non avrebbe risposto: — Allora, dillo alla scopa.

E sarebbero precipitate di sicuro. Ma si ricordò a un tratto di afferrare il cappello e di farsi forza. La scopa diede uno scossone, s’inclinò.

…e il paesaggio divenne confuso.


In realtà si trattò di un tragitto molto breve, ma tale che la Nonnina avrebbe poi sempre ricordato, in genere intorno alle tre del mattino dopo un pasto succulento. Avrebbe ricordato i colori dell’arcobaleno vividi nell’aria turbinosa, quell’orribile sensazione di pesantezza, l’impressione che qualcosa molto grossa e pesante sedesse sull’universo.

Avrebbe ricordato la risata di Esk. Avrebbe ricordato, a dispetto di tutti i suoi sforzi, la velocità con cui il terreno scorreva sotto di loro e come intere catene montuose le superassero sfrecciando con un odioso rumore sibilante.

Più di tutto, avrebbe ricordato come avevano raggiunto la notte.

Essa apparì davanti ai suoi occhi, una linea buia e frastagliata che precedeva il mattino. Guardò, con affascinato terrore, la linea divenire una macchia, una chiazza, un intero continente di tenebra che correva a precipizio verso di loro.

Per un istante rimasero ferme sulla cresta dell’alba che si rovesciava sulla terra in un tuono silenzioso. Mai nessun surfista cavalcò una simile onda. Ma la scopa attraversò rapida la luce tumultuosa e penetrò senza sforzo nella frescura dietro di essa.

La Nonnina riprese a respirare.

L’oscurità si portò via un po’ del terrore del volo. Ma implicava pure che, se Esk se ne disinteressava, la scopa avrebbe dovuto essere in grado di volare solo grazie alla sua magia alquanto arrugginita.

— … — cercò di dire la Nonnina e si schiarì la gola secca per riprovarci: — Esk?

— È divertente, non è vero? Mi chiedo come riesco a farlo accadere.

— Già, divertente — asserì debolmente la vecchia. — Ma posso guidare io il bastone, per piacere? Non voglio che oltrepassiamo il Bordo. Per piacere?

— È vero che intorno al bordo del mondo c’è una gigantesca cascata e che uno può guardare giù e vedere le stelle?

— Sì. Possiamo rallentare adesso?

— Mi piacerebbe vederla.

— No! Cioè, no, non ora.

La scopa rallentò. La bolla color dell’arcobaleno che la circondava svanì con uno schiocco. Senza uno scossone, senza un fremito, la Nonnina si ritrovò a volare di nuovo a una velocità moderata.

Lei si era fatta una solida reputazione grazie al fatto di avere sempre una risposta a tutto. Portarla ad ammettere la propria ignoranza, perfino di fronte a se stessa, era un’impresa strabiliante. Ma era rosa dalla curiosità.

Alla fine si decise a chiedere: — Come hai fatto?

Dopo una pausa di riflessione, Esk rispose: — Non lo so. Semplicemente era necessario, e l’avevo in testa. Come quando ci ricordiamo una cosa che avevamo dimenticato.

— Sì, ma come?

— Io… io non lo so. Avevo il quadro di come volevo che andassero le cose e, e… è come se fossi entrata in quel quadro.

La Nonnina aveva lo sguardo fisso nella notte. Non aveva mai sentito parlare di una magia simile, ma doveva essere terribilmente possente e probabilmente letale. Era entrata nel quadro! Certo, la magia cambiava in qualche modo il mondo. Per i maghi era quello il suo solo uso. A loro non andava a genio l’idea di lasciare il mondo com’era e cambiare la gente. Ma questa era un’altra faccenda, era più concreta. Occorreva rifletterci. Seriamente.


Per la prima volta in vita sua la Nonnina si chiese se potesse esserci qualcosa d’importante in tutti quei libri che la gente oggigiorno teneva in gran conto. Lei, però, era contraria ai libri per ragioni strettamente morali: infatti aveva sentito che molti erano scritti da persone morte e quindi era logico supporre che leggerli equivaleva alla negromanzia. Tra le molte cose di un universo infinitamente vario che la Nonnina disapprovava era parlare con i morti. I quali, a quanto si dice, hanno già abbastanza guai per conto loro.

Ma, era incline a credere, non quanti ne aveva lei. Abbassò lo sguardo, confusa, e si chiese vagamente perché le stelle lucevano sotto di lei.

Per un attimo il suo cuore si arrestò al pensiero che davvero fossero volate oltre il Bordo. Ma poi si rese conto che i migliaia di puntolini sotto di lei erano troppo gialli e palpitavano. Inoltre, chi aveva mai sentito di stelle disposte in un disegno così uniforme?

— È molto carino. È una città? — domandò Esk.

La Nonnina scrutò il terreno. Se era una città, allora era troppo grande. Ma ora che ci pensava, l’odore era quello di un sacco di gente.

Intorno a loro l’aria sapeva d’incenso e cereali e spezie e birra. Ma soprattutto l’odore era quello di un grande canale di scolo, di migliaia di persone e di un sistema fognario assai approssimativo.

Si riscosse dai suoi pensieri. Il nuovo giorno stava per nascere. Cercò una zona dove la luce delle torce era meno vivida e più spaziata, ciò che stava a indicare un quartiere povero e i poveri non hanno nulla contro le streghe. Manovrò il manubrio puntandolo in basso.

Riuscì ad arrivare a poco più di un metro dal terreno prima che l’alba spuntasse per la seconda volta.


La porta era veramente grande e nera, quasi fosse fatta di solida tenebra.

Confuse nella folla che si accalcava nella piazza davanti all’Università, la Nonnina ed Esk erano rimaste a fissarla. Finalmente la bambina osservò: — Non vedo come si fa per entrare.

— È la magia, suppongo — ribatté acida la Nonnina. — Questi sono i maghi. Chiunque altro avrebbe comprato un battente.

Agitò la scopa in direzione dell’alta porta.

— Non mi meraviglierei se per entrare si dovesse pronunciare una qualche formula magica — aggiunse.

Si trovavano ad Ankh-Morpork già da tre giorni e, con sua grande sorpresa, lei cominciava a provarci gusto. Avevano trovato un alloggio in un quartiere, Le Ombre, nella parte vecchia della città. Lì gli abitanti conducevano in gran parte una vita notturna e non s’impicciavano mai degli affari altrui. Infatti, la curiosità non solo uccideva il gatto, ma lo buttava nel fiume con un peso ai piedi. L’alloggio si trovava all’ultimo piano, vicino a quello di un rispettabile commerciante in oggetti rubati perché, come aveva sentito dire la Nonnina, un solido steccato vuole dire buoni vicini.

Le Ombre, in breve, erano la dimora di dei screditati e ladri non autorizzati, signore della notte e venditori ambulanti di merci esotiche, alchimisti della mente e guitti girovaghi. Insomma, il grasso sull’asse della civiltà.

Eppure, sebbene gente del genere tenda ad apprezzare le pratiche magiche più innocue, c’era una notevole penuria di streghe. La notizia dell’arrivo della Nonnina si era sparsa in poche ore nel quartiere e un flusso continuo di persone si avvicinava di soppiatto o per vie traverse o con passo deciso alla sua porta, in cerca di pozioni o amuleti o per farsi predire il futuro. Oltre a vari servizi personali e specializzati che le streghe tradizionalmente forniscono a coloro la cui vita è poco serena o tempestosa.

Al principio, la cosa l’aveva irritata, poi imbarazzata e quindi lusingata. I suoi clienti avevano soldi, il che era utile, ma pagavano anche in rispetto, una moneta più che pregiata.

Per dirla in breve, la Nonnina stava perfino contemplando la possibilità di acquistare un alloggio un po’ più grande, con un pezzetto di giardino, e di farsi venire le sue capre. L’odore della città poteva costituire un problema, ma le capre avrebbero soltanto dovuto sopportarlo.

Lei e la bambina avevano visitato Ankh-Morpork, i suoi moli affollati, i suoi numerosi ponti, i suoi suk, le sue casbe, le sue strade affiancate solo da templi. La Nonnina li aveva contati con uno sguardo assorto. Gli dei domandano sempre ai seguaci di agire al contrario della loro vera natura e il "fallout" umano che ne consegue procura un bel po’ di lavoro alle streghe.

Fino a quel momento i terrori della civiltà non si erano materializzati, se si eccettua uno scippatore che aveva tentato di squagliarsela con la borsa della Nonnina. Con grande meraviglia dei passanti, la vecchia lo aveva richiamato e lui era tornato indietro, lottando con i piedi che avevano totalmente cessato di ubbidirgli. Nessuno vide bene come erano diventati gli occhi di lei mentre lo guardava in faccia o udì le parole che gli bisbigliava nell’orecchio tremebondo. Ma lui le restituì tutto il suo denaro, più un sacco di altri soldi appartenenti ad altre vittime. E prima che lei lo lasciasse andare, le aveva promesso di radersi, di tenersi diritto e di diventare una persona migliore per il resto della sua vita. Prima di notte, la descrizione della Nonnina era stata fatta circolare a tutte le sedi locali della Corporazione dei Ladri, Tagliaborse, Scassinatori e Mestieri Affini [Una organizzazione molto rispettabile che rappresentava in effetti il maggior ente della città per l’osservanza della legge. La ragione è la seguente: la Corporazione riceveva una quota annua corrispondente a un livello socialmente accettabile di furti, scippi e assassini. In cambio, provvedeva con metodi assai decisi e finali, a che il criminale non ufficiale fosse non soltanto eliminato ma accoltellato, strangolato, smembrato e lasciato in giro per la città in un assortimento di sacchetti di carta. Una combinazione ritenuta economica e illuminata, eccetto che da quei malcontenti che venivano scippati o assassinati, e si rifiutavano di considerarlo loro dovere sociale. Tale sistema, però, permetteva ai ladri della città di pianificare una decente struttura lavorativa, con esami di ammissione e codici di condotta simili a quelli adottati dalle altre professioni. Alle quali, dato che in ogni caso la differenza non era poi così grande, in breve tempo arrivarono ad assomigliare.], insieme a severe istruzioni di starle alla larga a tutti i costi. Essendo i ladri essi stessi creature notturne, sanno riconoscere i guai quando se li trovano faccia a faccia.

La Nonnina aveva anche scritto all’Università altre due lettere. Che non avevano ricevuto risposta.

— Preferivo la foresta — dichiarò Esk.

— Non saprei — le rispose la Nonnina. — Qui in realtà è un po’ come la foresta. E comunque, sicuramente la gente di questa città apprezza una strega.

— Sono molto cordiali — riconobbe la bambina. — Conosci la casa più giù per la strada dove vive quella signora grassa con tutte quelle signorine che hai detto erano sue parenti?

— La signora Palm — rispose cauta la vecchia. — Una signora molto rispettabile.

— La gente va a visitarle tutta la notte. Li ho osservati. Mi sorprende che riescano a dormire un po’.

— Uhm — borbottò la Nonnina.

— E poi deve essere una croce per quella povera donna con tutte quelle figlie da sfamare. Credo che le persone dovrebbero avere più riguardo.

— Be’, ora. Non sono sicura che…

Fu salvata dall’arrivo davanti alla porta dell’Università di un grande carro dipinto a colori vivaci. Il conducente tirò le redini dei buoi a pochi centimetri dalla Nonnina, dicendole: — Scusami, mia buona donna, saresti così gentile da spostarti, per piacere?

La Nonnina si fece da parte, offesa da quella esibizione di cortesia e particolarmente sconvolta dall’essere considerata la buona donna di qualcuno. E il conducente scorse Esk.

Era Treatle. Le sorrise come un serpente preoccupato.

— Dico. È la signorina che pensa che le donne dovrebbero essere dei maghi, vero?

— Sì — rispose Esk, senza badare al calcio che la Nonnina le aveva sferrato alla caviglia.

— Molto divertente. Sei venuta per unirti a noi, è così?

— Sì — ripeté Esk. E poi, siccome le pareva che Treatle se lo aspettasse, aggiunse: — Signore. Solo che non possiamo entrare.

— Noi? — chiese il mago e quindi diede un’occhiata alla Nonnina. — Oh, sì, certo. Questa sarebbe tua zia?

— La mia nonnina. Solo che in realtà non è la mia, ma una specie di nonnina di tutti.

La Nonnina fece un cenno di saluto assai freddo.

— Be’, non possiamo permetterlo. — La voce di Treatle era gioviale come un budino. — No, parola mia. La nostra first lady mago lasciata fuori della porta? Sarebbe una vergogna. Posso accompagnarvi?

La Nonnina afferrò saldamente Esk per la spalla.

— Se per te fa lo stesso… — cominciò. Ma Esk si svincolò dalla sua presa e corse verso il carro.

— Davvero puoi farmi entrare? — Gli occhi le brillavano.

— Naturale. Sono sicuro che i capi degli Ordini saranno felici di conoscerti. Anzi, sorpresi e sbalorditi — aggiunse con una risatina.

— Eskarina Smith… — disse la Nonnina e s’interruppe. Guardò Treatle. — Non so che cosa hai in mente, signor Mago, ma non mi piace. Esk, sai dove abitiamo. Fai la sciocca, se proprio devi, ma potresti almeno essere sciocca solo da te stessa.

Girò sui tacchi e si allontanò di buon passo.

— Che donna notevole — commentò Treatle in tono vago. — Vedo che hai ancora la tua scopa. Grandioso.

Lasciò per un attimo le redini e fece un gesto complicato nell’aria con entrambe le mani.

I grandi battenti si aprirono e rivelarono un vasto cortile circondato da prati. Dietro c’era un grande edificio irregolare, o edifici. Difficile dirlo. Non sembrava tanto che fosse stato disegnato, ma che una quantità di contrafforti, archi, torri, ponti, volte, cupole e così via si fossero stretti insieme per riscaldarsi.

— È questa? — si meravigliò Esk. — Pare come se… l’avessero fusa.

— Sì, è questa. Alma mater, corazze sfarzose, camminamenti, eccetera. Naturalmente, dentro è molto più grande che all’esterno. Come un iceberg, mi dicono, io non li ho mai visti. L’Università Invisibile, e infatti gran parte è invisibile. Vai dietro e cerca Simon, vuoi?

Tirate indietro le pesanti cortine, Esk sbirciò dentro. Steso su un mucchio di tappeti, Simon leggeva un libro enorme e prendeva appunti su dei foglietti.

Alzò gli occhi e le sorrise.

— Sei tu? — chiese.

— Sì — affermò lei.

— Pensavamo che ci avessi lasciato. Ognuno credeva che stessi viaggiando con un altro e poi qqq-quando ci siamo fermati…

— In qualche modo vi ho raggiunti. Il signor Treatle vuole che tu venga a vedere l’Università.

— Siamo qui? — E con un’occhiata strana alla bambina: — E tu sei qui?

— Sì.

— Come?

— Il signor Treatle mi ha invitata a entrare, ha detto che tutti saranno sbalorditi quando mi incontreranno. — Negli occhi le brillò un lampo. — Aveva ragione?

Simon abbassò gli occhi sul libro e poi se li asciugò con un fazzoletto rosso.

— Lui ha d-di qq-queste piccole esagerazioni — borbottò — mmma non è cattivo.

Esk guardò con stupore le pagine ingiallite del libro aperte davanti al ragazzo. Erano zeppe di complicati simboli rossi e neri che, in modo inesplicabile, avevano la forza e la sgradevolezza di un pacchetto ticchettante. E che, tuttavia, attiravano lo sguardo proprio come fa un incidente gravissimo.

Vedendo la sua espressione, Simon si affrettò a chiudere il libro.

— È solo della magia — borbottò. — Qualcosa su cui sto lllll… …lavorando… — completò automaticamente la piccola.

— Grazie.

— Leggere libri deve essere molto interessante — osservò lei.

— Pressappoco. Tu sai leggere, Esk?

Lei fu punta dal suo tono di sorpresa.

— Penso di sì — rispose, con accento di sfida. — Non ho mai provato.

Esk non avrebbe saputo cos’era un nome collettivo nemmeno se le avesse sputato in un occhio, ma sapeva che cosa erano un gregge di capre e una congrega di streghe. Non sapeva invece che voleva dire un gran numero di maghi. Un ordine di maghi? Una cospirazione? Un circolo?

Qualunque cosa fosse, l’Università ne era piena. Maghi passeggiavano nei chiostri e sedevano sulle panche sotto gli alberi. Giovani maghi si affrettavano lungo i sentieri al suono di campane, con le braccia cariche di libri o, nel caso di studenti avanzati, con i libri che gli svolazzavano dietro nell’aria. L’aria aveva lo spessore oleoso della magia e un gusto di stagno.

Camminando fra Treatle e Simon, Esk assorbiva tutto. Non soltanto la magia era nell’aria, ma era soggiogata e funzionava come il canale che dal fiume porta l’acqua al mulino. Era sempre potere, ma era imbrigliato.

Simon provava la sua stessa eccitazione, ma questa si manifestava solo negli occhi che gli lacrimavano ancora di più e nella balbuzie ancora più accentuata. Continuava a fermarsi per additare i vari collegi e gli edifici destinati alla ricerca.

Uno di questi era basso e severo, con finestre alte e strette.

— Oq-quella è la bb-biblioteca — annunciò il ragazzo, con la voce piena di meraviglia e rispetto. — Posso dd-darci un’occhiata?

— C’è tutto il tempo più tardi — disse Treatle.

Simon sussurrò, con un’occhiata di desiderio: — Tutti i libri di mmm-magia che mm-mai siano ss-stati scritti.

— Perché ci sono le sbarre alle finestre? — chiese Esk.

Simon deglutì. — Uhm, pp-perché i li-libri di mm-magia non sono come gli altri li-libri, essi cc-conducono…

— Basta così — lo interruppe seccamente Treatle. — Guardò Esk come se la vedesse per la prima volta e si accigliò.

— Perché sei qui?

— Mi hai invitato tu.

— Io? Ah, sì. Naturale. Scusa, pensavo ad altro. La fanciulla che vuole diventare un mago. Continuiamo il giro, va bene?

Li guidò su per una grande scalinata che conduceva a una porta imponente. Per renderla tale, il disegnatore aveva abbondato in pesanti chiavistelli, cardini ricurvi, borchie d’ottone e un architrave dalle sculture complicate. Con il preciso scopo di rendere le persone che entravano consapevoli della loro irrilevanza.

Essendo un mago, l’architetto aveva dimenticato il battente.

Treatle batté sulla porta con la sua verga. Dopo una breve esitazione, quella tirò lentamente indietro i chiavistelli e si aprì.

L’atrio era pieno di maghi e di ragazzi. E dei genitori dei ragazzi.

Ci sono due modi per entrare nell’Università Invisibile. (In effetti, ce ne sono tre ma all’epoca i maghi non se ne erano resi conto).

Il primo consisteva nel compiere una grande impresa magica, quale il recupero di un’antica e potente reliquia o l’invenzione di un incantesimo assolutamente nuovo. Ma ciò si faceva ormai raramente. In passato c’erano stati grandi maghi capaci di creare nuovi incantesimi dalla magia pura e caotica del mondo: maghi dai quali erano scaturiti tutti i sortilegi della loro arte. Ma quei giorni erano passati. Non c’erano più incantatori.

Pertanto il metodo più tipico era di farsi sponsorizzare da un mago più anziano e rispettato, dopo il debito periodo di apprendistato.

C’era una competizione accanita per ottenere un posto all’Università e gli onori e i privilegi che accompagnavano una laurea Invisibile. Molti dei ragazzi che si aggiravano nella sala, lanciandosi incantesimi minori, non ci sarebbero riusciti. E avrebbero dovuto trascorrere la vita come modesti stregoni, semplici tecnologi magici con la barba e le toppe di pelle ai gomiti, che ai ricevimenti si univano in gruppetti gelosi.

Non per loro l’ambito cappello a cono (dai simboli astrologici come optional) o le vesti sontuose. E nemmeno la verga e l’autorità. Ma almeno potevano guardare dall’alto in basso i prestigiatori: tipi gioviali, grassi, inclini a storpiare le parole, bere birra e frequentare donne sparute dall’aria triste in calzamaglia di lustrini. E facevano infuriare gli stregoni perché, senza rendersi conto della propria inferiorità, insistevano a raccontargli barzellette. Più in basso di tutti (eccetto, naturalmente, le streghe) c’erano i taumaturghi, che mancavano totalmente di istruzione. Ci si poteva a malapena fidare di un taumaturgo per lavare un alambicco. Molti incantesimi richiedevano ingredienti quali lo stampo di un cadavere di una persona morta schiacciata, o lo sperma di una tigre viva o ancora la radice di una pianta che, sradicata, mandava uno strido ultrasonico. Chi era mandato a procurarseli? Giusto.

È un errore comune riferirsi ai ranghi magici inferiori come maghi di bassa estrazione. In realtà, la loro arte è una forma di magia specialistica e assai onorata. Essa attrae gli uomini silenziosi e introversi, di fede druidica e grande amore per le piante. Se si invita a un ricevimento uno di questi tipi, lui trascorrerà metà della serata a parlare alle piante in vaso dell’appartamento. E l’altra metà ad ascoltarle.

Esk notò la presenza in sala anche di qualche donna, perché perfino i giovani maghi hanno madri e sorelle. C’erano intere famiglie venute a dire addio ai figli con fondate speranze di successo. Genitori che si soffiavano il naso e si asciugavano le lacrime. Tintinnio di monete che padri orgogliosi mettevano in mano ai loro rampolli, come gruzzoletto da spendere.

I maghi più anziani camminavano tra la folla per parlare agli sponsor loro colleghi ed esaminare i candidati.

Parecchi di loro si fecero strada tra la calca per salutare Treatle, simili a galeoni dagli ornamenti dorati che si muovessero a vele spiegate. Si inchinarono gravemente davanti a lui, con uno sguardo di approvazione per Simon.

— Questo è il giovane Simon, vero? — chiese il più grasso di loro, con un sorriso radioso rivolto al ragazzo. — Abbiamo sentito grandi cose di te, giovanotto. Eh? Che cosa?

— Simon, inchinati all’Arcicancelliere Tagliangolo, Presidente dei Maghi della Stella d’Argento — disse Treatle. Simon ubbidì, con aria apprensiva.

Tagliangolo gli diede un’occhiata benevola e ripeté: — Abbiamo sentito grandi cose di te, ragazzo mio. Tutta quest’aria di montagna deve essere eccellente per il cervello, eh?

Rise. I maghi intorno a lui risero. Treatle rise. Esk trovò la cosa piuttosto buffa, visto che non succedeva nulla di particolarmente divertente.

— Nnn-non so, sss…

— Da quanto ci risulta, deve essere l’unica cosa che non sai, ragazzo- aggiunse Tagliangolo, con il doppio mento tremolante. Altre risate seguirono con un tempismo perfetto.

Tagliangolo batté Simon sulla spalla.

— Questo ragazzo è uno studioso — osservò. — Risultati davvero stupefacenti, mai visti di migliori. Autodidatta, anche. Strabiliante, che? Non è così, Treatle?

— Superbo, Arcicancelliere. Tagliangolo guardò i maghi presenti.

— Forse potresti darci un esempio. Una piccola dimostrazione, forse?

Simon lo guardò come un animale in preda al panico.

— In rr-realtà, nn-non sono mmm…

— Via, via — disse il grande mago in un tono di voce che secondo lui avrebbe dovuto essere incoraggiante. — Non avere timore. Prendi tutto il tempo che vuoi. Quando sarai pronto.

Simon si leccò le labbra aride e lanciò a Treatle un muto appello.

— Uhm, vvv-edi… — S’interruppe e deglutì con forza. — La fff…

Dagli occhi gli colarono le lacrime e le spalle gli si sollevarono. Treatle gli diede dei colpetti rassicuranti sulla schiena.

— Febbre da fieno — spiegò. — Non sembra possibile curarlo. Provato di tutto.

Simon deglutì di nuovo e annuì. Fece cenno a Treatle di scostarsi con le sue lunghe mani bianche e chiuse gli occhi.

Per qualche secondo non accadde nulla. Il giovane muoveva le labbra senza che ne uscisse alcun suono. Poi il silenzio si diffuse da lui come la luce di una candela. Piccole increspature di senza suono si propagarono attraverso la folla nella sala, urtarono le pareti con tutta la forza di un bacio soffiato e ne rimbalzarono in ondate. Le persone presenti guardavano i compagni muovere silenziosamente le labbra e poi si fecero rosse dallo sforzo di trattenere il riso, che venne fuori simile al ronzio di una grossa zanzara.

Intorno alla testa di Simon si accesero dei puntolini luminosi, che turbinarono e girarono a spirale in una complicata danza tridimensionale, per poi dar vita a una forma.

In realtà, a Esk sembrò che quella forma fosse stata lì tutto il tempo ad attendere che i suoi occhi la vedessero, allo stesso modo che una nuvola perfettamente innocente può trasformarsi d’improvviso, senza per questo mutare, in una balena o una nave o un volto.

La forma intorno al capo di Simon era il mondo.

La visione era perfettamente chiara, sebbene il luccichio e il turbinio delle piccole luci rendessero confusi alcuni dettagli. Ma c’era la Grande A’Tuin, la tartaruga celeste, e sul suo dorso i quattro Elefanti e su questi il Disco stesso. C’era lo scintillio della grande cascata intorno all’orlo del mondo e proprio al centro un sottile ago di roccia che era la grande montagna Cori Celesti, la dimora degli dei.

L’immagine si ampliò fino a comprendere il Mare Circolare e la stessa Ankh, con le piccole luci che si allontanavano da Simon e poi si spegnevano a pochi centimetri dalla sua testa. Mostravano adesso dall’alto la città, che correva incontro agli astanti. Ecco la stessa Università, che si faceva via via più grande. Ecco la Grande Sala…

…ecco le persone, che guardavano silenziose e a bocca aperta, e lo stesso Simon, tratteggiato da fiammelle di luce argentea. E una minuscola immagine luminosa nell’aria intorno a lui, e quella immagine conteneva una immagine e un’altra e un’altra…

Sembrava che l’universo intero fosse stato rivoltato a un tempo in tutte le sue dimensioni. Dava la sensazione che si fosse espanso, gonfiato. Si udì un suono come se il mondo intero avesse detto "gloop".

Le pareti svanirono. Così pure il pavimento. I ritratti dei grandi maghi defunti, con i loro cartigli, le loro barbe e i loro cipigli vagamente costipati, scomparvero… Sotto i piedi le piastrelle, con il loro bel motivo bianco e nero, evaporarono… e furono sostituite da una sabbia fine, grigia come la luce lunare e fredda come il ghiaccio. In alto, brillarono inaspettate strane stelle. Le basse colline all’orizzonte erano erose, in quel luogo privo di tempo atmosferico, non dalla pioggia o dal vento, ma dalla morbida cartavetrata del Tempo stesso.

Nessun altro sembrava averlo notato. Nessun altro, in effetti, sembrava vivo. Esk era circondata da persone immobili e silenziose come statue.

E non erano soli. C’erano dietro a loro altre… Creature… e altre comparivano senza sosta. Non avevano forma. O piuttosto pareva che assumessero la loro forma a casaccio da una molteplicità di esseri. Davano l’impressione che avessero sentito parlare di braccia, gambe, mascelle, artigli, organi, ma che non sapessero in realtà come si adattassero tra loro. O che non gliene importasse. O erano talmente affamate che non si davano la pena di scoprirlo.

Emettevano un suono come uno sciame di zanzare.

Erano le creature nate dai suoi sogni, venute a nutrirsi della magia. Sapeva che in quel momento non si interessavano a lei, se non come digestivo dopo pranzo. Erano unicamente concentrate su Simon, il quale era del tutto ignaro della loro presenza.

Esk gli sferrò un calcio alla caviglia.

Il freddo deserto svanì. E il mondo reale ricomparve. Simon aprì gli occhi, sorrise debolmente, e cadde all’indietro nelle braccia di Esk.

Dai maghi si levò un mormorio e parecchi di loro si misero a battere le mani. Nessuno sembrava avere notato nulla di strano, eccetto le piccole luci d’argento.

Tagliangolo si riscosse e alzò una mano per zittire la folla.

— Davvero… stupefacente — disse a Treatle. — E tu dici che ha fatto tutto da sé?

— È così, mio signore.

— Nessuno lo ha aiutato?

— Non c’era nessuno per aiutarlo — rispose Treatle. — Lui si limitava ad andare da un villaggio all’altro a fare dei piccoli incantesimi. Ma soltanto se la gente lo pagava con libri o carta.

Tagliangolo annuì. — Non si trattava di una illusione, eppure non ha usato le mani. Che cosa diceva tra di sé? Lo sai?

— Lui sostiene che sono semplicemente delle parole per far lavorare la sua mente come si deve. — Treatle si strinse nelle spalle. — Io non riesco a capire la metà di ciò che dice, e questo è un fatto. Lui afferma che deve inventarsi le parole, perché non ce ne sono per le cose che fa.

Tagliangolo lanciò un’occhiata ai suoi colleghi. Questi annuirono.

— Sarà un onore ammetterlo all’Università — dichiarò. — Vuoi dirglielo quando si sveglia?

Si sentì tirare l’orlo della tunica e abbassò gli occhi.

— Scusami — disse Esk.

— Salve, signorina. Sei venuta a vedere tuo fratello entrare all’Università? — domandò con voce melata.

— Lui non è mio fratello. — A volte il mondo le era sembrato pieno di fratelli, ma non in quella occasione.

— Sei un personaggio importante? — gli chiese.

Tagliangolo guardò raggiante i suoi colleghi. Nel mondo dei maghi, come in qualsiasi altro, c’erano delle mode. In certe epoche i maghi erano magri e sparuti e parlavano agli animali (gli animali non ascoltavano, ma è il pensiero che conta). Mentre in altre avevano tendenza ad essere scuri e mesti, con barbette nere appuntite. In quel momento, era "in" il tipo Magistrato. Tagliangolo si gonfiò di modestia.

— Molto importante — rispose. — Si fa del proprio meglio al servizio dei nostri simili. Sì. Direi molto importante.

— Voglio diventare un mago — disse Esk.

Dietro a Tagliangolo i maghi minori la fissarono come se fosse una nuova e interessante specie di scarafaggio. La faccia di Tagliangolo si fece rossa e gli occhi quasi gli schizzarono fuori. Guardava la bambina e pareva che trattenesse il fiato. Poi cominciò a ridere. La risata iniziò da qualche parte, giù nelle regioni del suo ampio stomaco, e si fece strada su, echeggiando da una costola all’altra e causando piccoli magomoti ne! suo vasto petto, finché non scoppiò in rumori strangolati. Era affascinante osservarla, quella risata. Aveva una personalità tutta sua.

Ma il vecchio mago si fermò quando vide lo sguardo di Esk. Se la risata fosse stata un clown da music-hall, allora lo sguardo fisso e deciso di lei sarebbe stato un secchio di calce lanciato su una traiettoria rapida.

— Un mago? Tu vuoi essere un mago?

— Sì — affermò Esk e spinse l’intontito Simon nelle braccia riluttanti di Treatle. — Sono l’ottavo figlio di un ottavo figlio. Cioè figlia.

Intorno a lei, i maghi si guardavano bisbigliando. Esk si sforzò d’ignorarli.

— Che ha detto?

— Parla sul serio?

— Penso sempre che i bambini siano deliziosi a quell’età, non credi?

— Sei l’ottavo figlio di una ottava figlia? — la interrogò Tagliangolo. — Davvero?

Esk non si lasciò smontare. — In senso inverso, solo non esattamente.

Tagliangolo si asciugò gli occhi con un fazzoletto.

— Davvero affascinante — esclamò. — Non credo di avere mai sentito prima una cosa del genere. Eh?

Diede un’occhiata all’uditorio sempre più numeroso intorno a lui. Quelli che stavano dietro, non potendo scorgere Esk, allungavano il collo per vedere se era in atto una interessante manifestazione di magia.

Tagliangolo non sapeva più che pesci prendere. — Be’, adesso. Vuoi diventare un mago?

— Continuo a ripeterlo a tutti, ma nessuno sembra ascoltarmi — ribatté la bambina.

— Quanti anni hai, piccola?

— Quasi nove.

— E da grande vuoi essere un mago.

— Voglio essere un mago adesso - dichiarò lei. — Questo è il posto giusto, no?

Tagliangolo si voltò verso Treatle e gli fece l’occhiolino.

— Ti ho visto — disse Esk.

Il mago riprese: — Non credo che ci sia mai stata finora una donna mago. Credo piuttosto che sarebbe contrario alle tradizioni. Non preferiresti invece essere una strega? Mi dicono che è una bella carriera per le ragazze.

Dietro a lui, un mago di rango inferiore si mise a ridere. Esk gli scoccò un’occhiata.

— Essere una strega è un’ottima cosa — concesse. — Ma secondo me i maghi si divertono di più. Tu cosa ne pensi?

— Penso che sei una ragazzina davvero singolare.

— E questo che significa?

— Significa che ce n’è una sola come te — intervenne Treatle.

— Giusto, e voglio ancora diventare un mago — insistette Esk.

— Be’, non puoi — affermò Tagliangolo, in mancanza di meglio. — Che idea!

Si raddrizzò in tutta la sua larghezza e si girò per andarsene. Ma si sentì ancora tirare l’orlo della tunica.

— Perché no? — chiese una voce.

Il grande mago si voltò. — Perché — cominciò adagio e con voce decisa — perché… è un’idea assolutamente ridicola, ecco perché. E va assolutamente contro le tradizioni!

— Ma io posso fare una magia da mago! — protestò Esk, con un tremito appena percettibile nella voce.

Tagliangolo si chinò finché la sua faccia fu all’altezza di quella di lei.

— No che non puoi — sibilò. — Perché non sei un mago. Le donne non sono dei maghi, mi sono spiegato?

— Sta a vedere — disse Esk.

Tese la mano destra a dita allargate e le fissò fino a scorgere la statua di Malich il Saggio, il fondatore dell’Università. Istintivamente i maghi che si trovavano tra lei e la statua, indietreggiarono e poi si sentirono alquanto sciocchi.

— Parlo sul serio — aggiunse la bambina.

— Vattene, ragazzina — le intimò Tagliangolo.

— Va bene — replicò lei. Socchiuse gli occhi e fissò la statua, concentrandosi…


Il grande portale dell’Università Invisibile è fatto di octirone, un metallo così instabile che può esistere soltanto in un universo saturo di magia allo stato puro. Nessuna forza, se non la magia, è in grado di espugnarlo. Né il fuoco, né i colpi di maglio dell’ariete, né un’armata sono capaci d’infrangerlo.

Per tale ragione, la maggior parte dei comuni visitatori dell’Università si servono della porta posteriore, che è fatta di normalissimo legno e non se ne va in giro a terrorizzare le persone, oppure resta ferma e anche così terrorizza le persone. La porta era fornita del regolare battente e tutto.

La Nonnina esaminò con attenzione gli stipiti ed ebbe un grugnito di soddisfazione quando trovò ciò che stava cercando. Non aveva dubitato che sarebbe stato , astutamente celato dalla naturale venatura del legno.

Afferrò il battente a forma di testa di drago e diede tre colpi decisi. Dopo un po’, la porta fu aperta da una giovane donna, con la bocca piena di mollette da bucato.

— Che desideri? — farfugliò quasi incomprensibile.

La Nonnina s’inchinò per dare alla ragazza il modo di vedere bene il cappello nero a cono con gli spilloni a forma di ali di pipistrello. L’effetto fu notevole: la giovane arrossì e, dopo un’occhiata al vicolo tranquillo, fece entrare in fretta la vecchia.

Il muro nascondeva un vasto cortile chiazzato di muschio e attraversato in tutti i sensi dai fili del bucato. La Nonnina ebbe così l’occasione di essere una delle pochissime donne a sapere ciò che indossano i maghi sotto le loro tuniche. Ma distolse modestamente gli occhi e seguì la ragazza attraverso il cortile lastricato e giù per una larga rampa di scale…

Questa conduceva a una galleria lunga e alta, sulla quale si aprivano delle porte, piena di vapore. Nei grandi locali laterali si scorgevano lunghe file di mastelli e nell’aria aleggiava il caldo odore di panni stirati. Un gruppetto di ragazze con i cesti del bucato passarono accanto alla Nonnina e presero a salire rapide la scala… poi si fermarono a mezza strada e si voltarono lentamente a guardarla.

La vecchia raddrizzò le spalle e si sforzò di darsi un aspetto il più misterioso possibile.

La sua guida, che ancora non si era tolta le mollette dalla bocca, la condusse per un corridoio laterale in una stanza, un vero labirinto di scaffali con la biancheria impilata. Al centro del labirinto, sedeva a un tavolo una donna molto grassa, con una parrucca rossa. Aveva appena finito di scrivere su un grosso libro da lavanderia, ancora aperto davanti a lei. Ma in quel momento stava ispezionando una maglia di lana piena di macchie.

— Hai provato a candeggiarla? — domandò.

— Sì, signora — rispose la ragazza accanto a lei.

— E la tintura di mirrico?

— Sì, signora. È solo diventata blu, signora.

— Be’, questa mi giunge nuova — disse la donna. — E io ho visto lo zolfo e la fuliggine, il sangue di drago e quello di demone e non so che altro. — Rivoltò la maglia e lesse l’etichetta con il nome cucita all’interno. — Uhm. Granpone il Bianco. Diventerà Granpone il Grigio, se non avrà più cura della sua biancheria. Te lo dico io, ragazza, un mago bianco non è altro che un mago nero con una buona governante. Credimi…

Si accorse della Nonnina e s’interruppe.

Sempre farfugliando a bocca piena, la guida della vecchia strega spiegò, con una rapida riverenza: — Ha bussato alla porta.

— Sì, sì, grazie, Ksandra, puoi andare — disse la donna grassa. Si alzò in piedi, con un sorriso radioso alla Nonnina e la voce piena di rispetto.

— Scusaci, ti prego. Ci trovi tutte indaffarate, essendo giorno di bucato e tutto. Si tratta di una visita di cortesia o posso azzardarmi a chiederti — abbassò la voce — se c’è un messaggio dall’Altra Parte?

La Nonnina sembrò non capire, ma solo per un attimo. I segni stregati sullo stipite della porta stavano a indicare che la grassona gradiva le streghe ed era particolarmente ansiosa di avere notizie dei suoi quattro mariti. Anzi era anche alla caccia di un quinto: da qui la parrucca rossa e, se le orecchie della Nonnina non la ingannavano, lo scricchiolio di stecche di balena sufficienti a fare infunare un intero movimento ecologista. Credulona e sciocca, avevano rivelato i segni. La Nonnina si astenne dal giudicarla, perché ai suoi occhi le streghe di città non erano molto sveglie.

La governante dovette interpretare male la sua espressione.

— Non temere — le disse. — Il mio personale ha precise istruzioni di fare buona accoglienza alle streghe, anche se naturalmente quelli di sopra non approvano. Senza dubbio gradiresti una tazza di tè e qualcosa da mangiare?

La Nonnina s’inchinò con aria solenne.

— E vedrò se possiamo trovarti un bel pacco di vestiti vecchi — le sorrise la donna.

— Vestiti vecchi? Oh, sì. Grazie, signora.

La governante si avviò con il beccheggio di una vecchia goletta per il trasporto del tè durante una burrasca, e le fece cenno di seguirla.

— E ci farò portare del tè nel mio appartamento. Del tè con un sacco di foglie.

La Nonnina le andò dietro. Vestiti vecchi? Intendeva davvero questo la grassona? Che faccia tosta! Certo, se erano di buona qualità…

C’era un mondo intero sotto l’Università: un labirinto di cantine, locali frigoriferi, dispense, cucine e retrocucine e un gran numero di inservienti affaccendati a portare, pompare, spingere qualcosa. Oppure semplicemente ad aggirarsi lì intorno e gridare forte. La Nonnina ebbe una rapida visione di ambienti pieni di ghiaccio e altri dove il calore saliva da enormi stufe arroventate che prendevano un’intera parete. Dai locali adibiti a forno veniva l’odore del pane fresco e quello di birra stagionata dalle stanze dove erano allineate le grandi botti. Ma su tutto aleggiava l’odore di sudore e del fumo di legna.

La governante condusse la Nonnina su per una vecchia scala a chiocciola e aprì la porta con una delle grosse chiavi che le pendevano dalla cintura.

All’interno la stanza era tutta rosa e ornata di gale. Ce n’erano su oggetti sui quali nessuno sano di mente si sarebbe sognato di metterle. Era come trovarsi dentro lo zucchero filato.

— Molto carino qui — disse la vecchia. E aggiunse, sentendo che era ciò che l’altra si aspettava da lei: — Di buon gusto. — Cercò con gli occhi qualcosa senza tanti fronzoli su cui sedersi, e ci rinunciò.

— Che sventata sono! — trillò la grassona. — Io sono la signora Whitlow, ma immagino che tu lo sappia, naturalmente. E io ho l’onore di rivolgermi a…?

— Eh? Oh, Nonnina Weatherwax — si presentò la Nonnina. Tutte quelle gale le facevano uno strano effetto, unitamente al colore rosa.


Lei non aveva nulla contro la predizione del futuro, purché fosse fatta male da persone senza talento. La musica cambiava, però, quando a farlo erano persone capaci. Nella migliore delle ipotesi, secondo lei, il futuro era già una cosa molto fragile e, se scrutato troppo a fondo, veniva alterato. La Nonnina aveva delle teorie assai complesse sullo spazio e sul tempo e sul perché non bisognava impicciarsene. Ma per fortuna i buoni chiromanti erano rari e comunque la gente preferiva quelli cattivi, sui quali contare per riceverne la giusta dose di incoraggiamento e di ottimismo.

Lei sapeva tutto in proposito. Essere un cattivo chiromante era più difficile. Occorreva avere una buona immaginazione.

Si chiedeva se la signora Whitlow fosse una strega nata, che però non aveva avuto l’occasione di addestrarsi. Di certo era estremamente interessata al futuro. Aveva una sfera di cristallo riparata da una specie di copriteiera tutto volant rosa, diversi mazzi di tarocchi, un sacchetto di velluto rosa di pietre misteriose; un tavolinetto su rotelle che nessuna strega prudente avrebbe toccato nemmeno con un manico di scopa lungo tre metri. E (su questo punto la Nonnina non era sicura) degli speciali escrementi secchi di scimmia da un allevamento di lama oppure degli escrementi secchi di lama da un monastero, da gettare in modo da rivelare la somma totale delle conoscenze e della saggezza dell’universo. Tutto piuttosto squallido.

— O ci sono le foglie del tè, naturalmente — disse la signora Whitlow, indicando la grossa teiera marrone sul tavolo posto tra di loro. — So di certe streghe che spesso le preferiscono, ma a me sembrano sempre così… be’, ordinarie. Senza offesa.

La Nonnina le credette. La signora Whitlow la fissava con quello sguardo che hanno in genere i cuccioli quando non sono sicuri che cosa aspettarsi e cominciano a dubitare che possa trattarsi della solita palla di carta di giornale.

Prese in mano la tazza della sua ospite e si mise a scrutare il fondo. Scorse però l’espressione delusa che le passò sul viso come un’ombra su un campo innevato. Allora si riprese subito, la rigirò tre volte in senso antiorario, ci passò su ripetutamente la mano in gesto vago e borbottò un incantesimo (quello che di solito usava per curare la mastite nelle capre vecchie, ma non importa). Una simile esibizione di evidente talento magico servì a rallegrare visibilmente la signora Whitlow.

Anche se normalmente non era molto brava con le foglie del tè, la Nonnina scrutò la poltiglia zuccherata in fondo alla tazza e lasciò vagare la propria mente. In quel momento ciò di cui aveva veramente bisogno era un topo o anche uno scarafaggio, che si trovassero da qualche parte vicino a Esk, per poterne prendere in prestito la mente.

Invece scoprì che l’Università era dotata di una sua propria mente.


È risaputo che la pietra è in grado di pensare, perché tutta l’elettronica si basa su questo fatto. Ma gli uomini di altri universi non si stancano di cercare altre intelligenze nel cielo senza guardare nemmeno una volta sotto i loro piedi. Questo succede perché non hanno capito niente della misura del tempo. Dal punto di vista della pietra, l’universo è stato appena creato, le catene montuose vanno su e giù come i registri di un organo. Mentre i continenti si spostano allegramente avanti e indietro e collidono tra di loro per il semplice piacere della spinta acquistata. E la pietra si sgretola. Passa parecchio tempo prima che la pietra si accorga di essere affetta da una leggera dermatosi, e cominci a grattarsi. Il che va benissimo.

Tuttavia, le rocce con cui era stata costruita l’Università Invisibile avevano assorbito magia per migliaia di anni e tutto quel potere in libertà doveva pure andare da qualche parte.

Infatti, l’Università ha sviluppato una propria personalità.

La Nonnina l’avvertiva come un animale grosso e mansueto, che aspettasse soltanto di rivoltarsi sul dorso (cioè il tetto) e che qualcuno gli grattasse la pancia (e cioè il pavimento). Comunque, esso non le prestava alcuna attenzione. Ma osservava Esk.

La vecchia trovò la bambina seguendo la traccia dell’attenzione dell’Università e restò affascinata a contemplare la scena che si svolgeva nella Grande Sala…

— …lì dentro?

La voce le giungeva da una grande distanza.

— Uhm?

— Ho detto, che cosa vedi lì dentro? — ripeté la signora Whitlow.

— Eh?

Ho detto, che cosa…

— Oh! — La Nonnina, confusa, richiamò la sua mente. Il guaio del Prestito di una mente altrui è di ritrovarsi sempre fuori posto quando si torna al proprio corpo. E lei era la prima persona che avesse mai letto la mente di un edificio. Adesso provava la sensazione di essere diventata grande, granulosa e piena di corridoi.

— Ti senti bene?

La Nonnina annuì e aprì le sue finestre. Allungò le sue ali a est e a ovest e si sforzò di concentrarsi sulla minuscola tazza che reggeva nei suoi pilastri.

Per fortuna la signora Whitlow attribuì la sua carnagione gessosa e il suo silenzio pietroso agli occulti poteri al lavoro. Da parte sua, la Nonnina scopriva che una rapida esposizione alla vasta memoria silicea dell’Università aveva stimolato moltissimo la sua immaginazione.

In una voce simile a un corridoio pieno di spifferi, che fece grande impressione sulla governante, sciorinò un futuro affollato di giovanotti appassionati che si contendevano i formosi favori della signora Whitlow.

Parlava molto in fretta, perché ciò che aveva visto nella Grande Sala la spingeva a tornare subito al portone principale.

— C’è un’altra cosa — aggiunse.

— Sì? Sì?

— Ti vedo assumere un’altra inserviente. Voi qui le assumete, vero? Bene… e questa è una ragazza molto giovane, molto economica, grande lavoratrice, sa fare di tutto.

— E che mi dici di lei, allora? — La grassona già assaporava la descrizione sorprendentemente precisa del suo futuro che le aveva fatto la Nonnina, e non stava in sé dalla curiosità.

— Su questo punto gli spiriti non sono molto chiari — rispose la vecchia. — Ma è molto importante che tu l’assumi.

— Non c’è problema. Sai, è impossibile qui tenere le serve, non per lungo tempo. È tutta questa magia. Che trasuda quaggiù, sai. Specie dalla biblioteca, dove tengono tutti quei libri magici. Ieri due delle cameriere dell’ultimo piano si sono licenziate; hanno detto che erano stufe di andare a letto senza sapere sotto quale forma si sarebbero svegliate la mattina. I maghi più anziani le ritrasformano, sai. Ma non è la stessa cosa.

— Già, be’, gli spiriti dicono che a questo riguardo la ragazza non creerà dei problemi — affermò la Nonnina in tono cupo.

— Se sa spazzare e strofinare i pavimenti, ben venga. Sono sicura. — La grassona pareva un po’ sconcertata.

— Lei si porta perfino la sua scopa. Voglio dire, secondo gli spiriti.

— Molto conveniente. Quando arriverà questa ragazza?

— Oh, presto, presto… è quanto dicono gli spiriti.

Un lieve sospetto passò sul viso della governante. — Questo non è il genere di cose che di solito rivelano gli spiriti. Dov’è che lo dicono, di preciso?

— Qui — asserì la Nonnina. — Guarda, quel mucchietto di foglie tra lo zucchero e quella crepa lì. Ho ragione?

I loro sguardi s’incontrarono. La signora Whitlow poteva anche avere le sue debolezze, ma aveva abbastanza polso per governare il mondo degli scantinati dell’Università. Ma la Nonnina avrebbe sostenuto anche lo sguardo di un serpente. Dopo qualche secondo gli occhi della donna presero a lacrimare.

— Sì. Immagino che hai ragione — disse mansueta e pescò un fazzoletto dai recessi del suo petto.

— Bene, allora. — La Nonnina si appoggiò allo schienale e ripose la tazza sul piattino.

— Ci sono moltissime occasioni qui per una ragazza che vuole lavorare sodo — affermò la signora Whitlow. — Io stessa ho cominciato come serva, sai.

— Lo facciamo tutte — osservò vagamente la vecchia. — E adesso devo andare. Si alzò e prese il cappello.

— Ma…

— Devo sbrigarmi. Un appuntamento urgente — disse la Nonnina a! di sopra della spalla mentre si affrettava giù per la scala.

— C’è un pacco di vestiti vecchi…

La Nonnina si fermò. I suoi istinti si battevano per avere il sopravvento.

— C’è del velluto nero?

— Sì e della seta.

La vecchia strega non era sicura di approvare la seta, che aveva sentito dire venisse fuori da un bruco, ma il velluto nero aveva per lei un’attrazione potente. Vinse la lealtà.

— Mettili da parte. Può darsi che tornerò a farti visita — gridò e corse via per il corridoio.

Cuoche e sguattere si precipitavano a nascondersi al passaggio della vecchia sulle lastre scivolose; lei fece di volo la scala che portava al cortile e sfrecciò per il vialetto, con lo scialle svolazzante alle sue spalle e gli stivali che facevano sprizzare scintille sui ciottoli. Una volta fuori, si tirò su le gonne e partì al galoppo, svoltò l’angolo che dava sulla piazza prendendo una curva così stretta che i suoi stivali stridettero sul selciato e lasciarono un segno bianco.

Arrivò giusto in tempo per vedere Esk in lacrime che usciva correndo dalla grande porta.


— La magia non ha funzionato! Potevo sentirla, ma non ha voluto venire fuori!

— Forse ti sforzavi troppo — la consolò la Nonnina. — La magia è come andare a pesca. Saltellare e schizzare acqua non ha mai catturato un pesce, bisogna starsene quieti e lasciare che accada naturalmente.

— E poi tutti hanno riso di me! Uno mi ha perfino dato un dolce!

— Allora, hai tratto un vantaggio dalla giornata.

— Nonnina! — l’accusò la piccola.

— Be’, che cosa ti aspettavi? Almeno hanno soltanto riso di te. Le risate non fanno male. Sei andata a piantarti davanti al capo dei maghi e a metterti in mostra davanti a tutti e ne hai ricavato solo delle risate. Proprio brava, davvero. Hai mangiato il dolce?

Esk si accigliò. — Sì.

— Che cos’era?

— Caramella.

— Non posso soffrire le caramelle.

— Uh, suppongo che la prossima volta vorrai che mi diano una mentina?

— Non fare la spiritosa con me, cara signorina. Non c’è niente che non vada con le mentine. Passami quella coppa.

Un altro vantaggio della vita di città, aveva scoperto la Nonnina, erano gli articoli di vetro. Certe delle sue pozioni più complicate richiedevano oggetti che era necessario acquistare dai nani a prezzi esorbitanti oppure, se ordinati al più vicino vetraio, arrivavano avvolti nella paglia e. di solito, a pezzi. Aveva provato a fabbricarseli da sé, ma lo sforzo di soffiarli la faceva sempre tossire, con risultati molto buffi. Ma, grazie alla fiorente arte alchimistica della città, c’era una quantità di negozi dove comprare articoli di vetro e una strega poteva sempre spuntare prezzi vantaggiosi.

Osservò intenta il vapore giallo salire nell’intrico di tubi ritorti e condensarsi alla fine in una grossa goccia viscosa. La raccolse abilmente in un cucchiaio di vetro e la versò con cautela in una fialetta pure di vetro.

Esk la guardava attraverso le lacrime.

— Che cos’è? — domandò.

— È noncibadare. — La Nonnina sigillò il tappo della fiala con della cera.

— Una medicina?

— Per modo di dire. — La vecchia si tirò vicino l’occorrente per scrivere e scelse una penna. Con la punta della lingua che le spuntava da un angolo della bocca, prese a compilare un’etichetta, interrompendosi di frequente per cancellare e ponderare sull’ortografia.

— Per chi è?

— La signora Herapath, la moglie del vetraio.

Esk si soffiò il naso. — Quello che non soffia molto vetro, è lui?

La Nonnina la guardò da sopra il bordo del tavolino.

— Che vuoi dire?

— Ieri, quando lei parlava con te, lo chiamava Vecchio Signore Ogni Due Settimane.

La vecchia si limitò a borbottare un — Uhm — e finì la frase: "Sciolgliere in un quarto d’acqua e assicurarsi di portare un abito comodo e niente visitatori attesi."

"Un giorno" si disse "dovrò farle quel discorsetto."

Stranamente, su quel punto la bambina si dimostrava poco sveglia. Aveva già assistito a parecchie nascite e portato le capre dal becco della vecchia Nanny Annaple senza trarne le ovvie conclusioni. La strega non sapeva bene come rimediarci, ma non sembrava mai il momento giusto per abbordare il soggetto. Si chiedeva se, in fondo in fondo, non fosse troppo imbarazzata. Si sentiva come un veterinario, che era capace di ferrare cavalli, di curarli, di allevarli e darne un giudizio. Ma che aveva solo una vaga idea di come cavalcarli.

Incollò l’etichetta sulla fiala che avvolse con cura in un pezzo di carta.

Ora.

— C’è un altro modo di entrare nell’Università. — Rivolse di sottecchi un’occhiata a Esk, che stava svogliatamente pestando delle erbe in un mortaio. — Un modo da strega.

Esk alzò gli occhi. La Nonnina sorrise tra sé e si mise a compilare un’altra etichetta. Per lei, scrivere etichette era sempre la parte più difficile della magia.

— Ma non mi aspetto che ti interessi — continuò. — Non è molto sensazionale.

— Hanno riso di me — mormorò la bambina.

— Già. Lo hai detto. Così non desideri riprovarci. Lo capisco benissimo.

Seguì un silenzio rotto soltanto dallo scricchiolio della penna della Nonnina.

Alla fine Esk disse: — E questo modo…

— Uhm?

— Mi farà entrare all’Università?

— Naturale — affermò altera la vecchia. — Ho detto che avrei trovato un modo, no? Anzi, un modo eccellente. Non dovrai annoiarti con le lezioni, potrai girare dappertutto, nessuno ti noterà… in realtà sarai invisibile e… be’, sei veramente capace di fare le pulizie. Ma di certo, dopo tutte quelle risate, la cosa non ti interessa? Vero?


— Prego, un’altra tazza di tè, signora Weatherwax? — le offrì la signora Whitlow.

— Tre zollette di zucchero, per piacere — rispose la Nonnina.

L’altra spinse la tazza verso di lei. Sebbene aspettasse con impazienza le visite della Nonnina, le trovava un po’ dispendiose quanto a zucchero. Quando c’era in giro la vecchia, le zollette non duravano mai a lungo.

— Fa molto male alla figura — osservò. — E ai denti, così dicono.

— Non ho mai avuto una figura di cui preoccuparmi e i miei denti ci pensano da sé. — Era vero, purtroppo. La Nonnina era afflitta da una dentatura sanissima, uno svantaggio per una strega, a suo giudizio. Invidiava di cuore Nanny Annaple, la strega che viveva sulla montagna, la quale era riuscita a perdere tutti i denti quando aveva soltanto venti anni, e godeva così della credibilità dovuta a una vecchia. Se questo ti costringeva a mangiare un sacco di minestra, ti procurava pure un sacco di rispetto. E poi c’erano le verruche. Senza sforzarsi, Nanny aveva una faccia somigliante a una manciata di bitorzoli. Mentre la Nonnina aveva provato ogni mezzo buono per farsi venire le verruche e non era riuscita nemmeno a ottenere il porro obbligatorio sul naso. Certe streghe avevano tutte le fortune.

Si accorse che la governante stava parlando con voce flautata, e fece: — Uhm?

— Ho detto — riprese la signora Whitlow — che la giovane Eskarina è un vero tesoro. Proprio un tesoruccio. Tiene i pavimenti immacolati, immacolati. Nessun compito è troppo grande. Le ho detto ieri, le ho detto: "quella tua scopa potrebbe avere una vita propria" e sai che cosa ha risposto?

— Non posso nemmeno immaginarlo — disse debolmente la Nonnina.

— Ha detto che la polvere ne aveva paura! Ci crederesti?

— Sì.

La signora Whitlow spinse verso di lei la tazza di tè con un sorriso imbarazzato.

Dentro di sé, la Nonnina sospirò e si mise a scrutare nelle profondità non troppo pulite del futuro. Decisamente, cominciava a essere a corto di immaginazione.


La scopa si spostava rapida per il corridoio alzando una grande nuvola di polvere che, se osservata attentamente, pareva essere risucchiata nel manico. A guardare ancora meglio, si sarebbe notato che esso presentava degli strani segni, non delle vere e proprie incisioni, che stranamente cambiavano forma sotto gli occhi.

Ma nessuno guardava. Seduta nella strombatura di una delle alte finestre, Esk contemplava la città. Era più arrabbiata del solito, così la scopa attaccava la polvere con insolito vigore. I ragni facevano dei balzi disperati sulle loro otto zampe in cerca di un rifugio, via via che ragnatele ancestrali sparivano nel vuoto. Sui muri i topi si stringevano l’uno all’altro, puntando le zampe dentro le loro tane. I tarli cercavano d’infilarsi nelle travi del soffitto mentre erano tirati indietro, inesorabilmente, lungo le loro gallerie.

— Sei veramente capace di fare le pulizie — esclamò ad alta voce. — Uh!

Doveva riconoscere, però, che c’erano dei vantaggi. Il cibo era semplice ma abbondante, e disponeva di una stanza sua da qualche parte sottotetto. E per lei era un lusso, perché poteva restare a letto fino alle cinque del mattino, cioè praticamente mezzogiorno per il modo di pensare della Nonnina. Il lavoro poi non era pesante. Lei cominciava a spazzare fino a che la verga non capiva ciò che ci si aspettava da lei, e dopo lei poteva divertirsi finché non era terminato. Se entrava qualcuno, la verga immediatamente si appoggiava al muro con aria distratta.

Ma dell’arte della magia Esk non apprendeva nulla. Poteva entrare nelle classi vuote ed esaminare i diagrammi tracciati con il gesso sulla lavagna e, nelle classi più avanzate, sul pavimento. Ma le forme non avevano per lei alcun significato. Ed erano sgradevoli.

A Esk ricordavano le figure nel libro di Simon. Sembravano vive.

Guardando i tetti di Ankh-Morpork, andava ragionando tra sé e sé: La scrittura erano solo le parole pronunciate dalle persone, compresse tra fogli di carta finché erano fossilizzate. (Nel mondo-Disco i fossili erano ben noti, grandi conchiglie a spirale e creature malformate rimaste dai tempi in cui il Creatore non aveva ancora deciso ciò che voleva fare e, diciamo, si trastullava pigramente con il Pleistocene). E le parole pronunciate dalle persone erano soltanto ombre delle cose reali. Ma certe cose erano troppo grosse per essere davvero intrappolate nelle parole e anche le parole erano troppo potenti per essere completamente domate dalla scrittura.

Così, ne conseguiva che certi scritti cercavano di trasformarsi in cose. A questo punto, i pensieri di Esk si facevano confusi. Ma era certa che le parole realmente magiche erano quelle che battevano con forza nel tentativo di sfuggire e diventare reali.

Il loro aspetto non era precisamente gradevole.

Ma poi si ricordò del giorno precedente.

Era successo un fatto piuttosto strano. Le classi dell’Università erano state progettate a forma d’imbuto: le file dei sedili (resi lucidi dai deretani dei più grandi maghi del Disco) guardavano giù a una zona centrale dove c’erano un banco da lavoro, un paio di lavagne e sul pavimento uno spazio abbastanza grande da contenere un ottogramma educativo di buone proporzioni. Lo spazio, sotto le fila dei sedili, era vuoto ed Esk lo aveva trovato un eccellente posto di osservazione, dal quale poteva guardare l’insegnante sbirciando attraverso le calzature a punta degli apprendisti maghi. Stare lì era molto riposante, mentre su di lei aleggiava la voce monotona dei conferenzieri, simile al ronzio delle api leggermente ebbre nello speciale giardino delle erbe della Nonnina. Non si svolgeva mai un esercizio di magia pratica, ma sempre soltanto parole. Pareva che ai maghi le parole piacessero molto.

Ma il giorno prima era stato differente. Esk sedeva nella semioscurità polverosa e si sforzava di fare almeno una magia molto semplice. In quel momento aveva udito la porta aprirsi e un rumore di passi sul pavimento. Già questo era sorprendente. Esk conosceva gli orari e gli studenti del Secondo Anno, che normalmente occupavano quella stanza, si trovavano giù in palestra con Jeophal il Vivace per il corso di Smaterializzazione per Principianti. (Gli studenti di magia non praticavano gli esercizi fisici; la palestra era un vasto locale, dalle pareti foderate di piombo e il pavimento di legno di sorbo selvatico, dove i neofiti potevano applicarsi alla Grande magia senza sbilanciare gravemente l’equilibrio dell’universo, anche se talvolta sbilanciavano gravemente il loro. La magia non aveva pietà degli inetti. Certi studenti imbranati erano abbastanza fortunati da uscire con le proprie gambe, altri erano portati via in bottiglia).

Esk sbirciò tra le assicelle. Non erano studenti, erano maghi. Assai importanti, a giudicare dalle loro vesti. E non c’era da sbagliarsi sulla figura che salì sul palco del conferenziere: somigliante a una marionetta dai fili troppo lenti aveva urtato pesantemente contro il leggio e se ne era scusato con aria assente. Era Simon. Nessun altro aveva occhi come due uova alla coque e un naso rosso a forza di soffiarsi. Su Simon il polline aveva sempre un effetto devastante.

Alla bambina venne fatto di pensare che, senza la sua generale allergia all’intera Creazione, con un buon taglio di capelli e qualche lezione di portamento, lui sarebbe potuto essere un gran bel ragazzo. Un pensiero insolito, che mise da parte per rifletterci su in futuro.

Quando i maghi si furono sistemati, Simon cominciò a parlare. Leggeva degli appunti e, ogni volta che s’inceppava su una parola, come un sol uomo, incapaci di trattenersi, i maghi la pronunciavano in coro per lui.

Dopo un po’, dal leggio si alzò un gessetto che prese a scrivere sulla lavagna alle sue spalle. Esk ne sapeva abbastanza sull’arte dei maghi per rendersi conto che quella era un’impresa eccezionale. Simon si trovava all’Università soltanto da due settimane e la maggior parte degli studenti non padroneggiavano la tecnica della Levitazione Leggera nemmeno al termine del loro secondo anno.

Il gessetto bianco scivolava e scricchiolava sulla superficie nera con l’accompagnamento della voce di Simon. Anche tenuto conto della balbuzie, lui non era un buon parlatore. Lasciava cadere gli appunti. Si correggeva. Intercalava di continuo con "uhm" e "ah". E, almeno per Esk, non diceva un granché. Le frasi filtravano fino al suo nascondiglio. Una era "il tessuto basilare dell’universo" e lei non capiva che cosa significava. A meno che lui volesse dire "denim" o forse "flanella". Quanto alla "mutabilità della matrice della possibilità", non le riusciva nemmeno di fare una congettura qualsiasi.

Certe volte sembrava affermare che nulla esisteva se non nel pensiero delle persone. E che se il mondo era lì, ciò era dovuto al fatto che la gente continuava a immaginarlo. Poi, però, pareva dicesse che c’erano tanti altri mondi, tutti quasi uguali e occupanti lo stesso luogo. Ma tutti separati dallo spessore di un’ombra di modo che, qualsiasi cosa accadesse, avrebbe avuto un qualche luogo dove accadere.

(Questo era comprensibile per Esk. Ne aveva avuto un mezzo sospetto da quando puliva il gabinetto dei maghi anziani. O piuttosto quando lo faceva la verga, mentre lei esaminava gli orinatoi. E, con l’aiuto di certi dettagli vagamente ricordati dei fratelli nella tinozza di stagno davanti al caminetto a casa, formulava la sua Teoria Generale sull’anatomia comparata. Il bagno dei maghi anziani era un luogo magico, con vera acqua corrente, belle piastrelle e, soprattutto, due grandi specchi d’argento fissati sulle pareti opposte. Così, guardandosi dentro uno, era possibile vedersi ripetuti ancora e ancora finché l’immagine diventava troppo piccola per scorgerla. Per Esk era stato quello il suo primo approccio all’idea dell’infinito. Per la precisione, aveva il sospetto che una delle Esk riflesse nell’ultima delle immagini, le facesse dei cenni di saluto).

C’era qualcosa d’inquietante nelle frasi dette da Simon. Sembrava ripetere, per la metà del tempo, che il mondo era reale come una bolla di sapone. O un sogno.

Il gesso continuava a scricchiolare sulla lavagna alle sue spalle. A volte Simon doveva fermarsi per spiegare i simboli ai maghi i quali, secondo la bambina, si eccitavano per delle frasi molto stupide. Poi il gessetto si rimetteva in movimento e descriveva sulla superficie nera un arco come una cometa, lasciandosi dietro una scia di polvere.

Fuori, la luce si spegneva nel cielo. Mano a mano che la stanza si faceva più buia, le parole tracciate col gesso rilucevano ed Esk aveva l’impressione che la lavagna non fosse scura. Ma che semplicemente non ci fosse affatto. Che fosse soltanto un buco quadrato tagliato nel mondo.

Simon continuava a parlare. Diceva che il mondo era fatto di cose infinitesimali, la cui presenza era solo determinata dal fatto che non erano lì, piccole sfere rotanti di nulla, messe insieme dalla magia per creare stelle farfalle diamanti. Tutto era fatto di vuoto.

Il buffo era che per lui questo era affascinante.

Esk era conscia che le pareti della stanza si facevano sottili e inconsistenti come il fumo, come se il vuoto che era in loro si estendesse per inghiottire qualsiasi cosa fosse che le definiva come pareti. E al loro posto non ci fosse altro che la familiare distesa, fredda vuota scintillante, con le lontane colline. E le creature, immobili come statue, che guardavano giù.

Adesso erano molto più numerose. Come le falene che si accalcano intorno a una luce.

Con una importante differenza. Anche vista da vicino, la faccia di una falena era affabile come quella di un coniglietto, paragonata agli esseri che osservavano Simon.

Poi entrò un servo ad accendere le lampade e le creature si dileguarono per lasciare il posto alle ombre perfettamente innocue in agguato negli angoli della stanza.


In un’epoca del recente passato qualcuno aveva deciso di ravvivare gli antichi corridoi dell’Università dipingendoli, spinto dalla vaga nozione che l’Istruzione Dovrebbe Essere Divertente. Non aveva funzionato. Nell’intero universo è un fatto risaputo che, per quanto i colori siano scelti con cura, la tinteggiatura istituzionale finisce per essere o verde vomito, marrone innominabile, giallo nicotina oppure rosa acceso da strumento chirurgico. Per un processo di affinità poco conosciuto, i corridoi dipinti in quei colori odorano sempre leggermente di cavolo bollito… anche se il cavolo non viene mai cucinato nelle vicinanze.

Da qualche parte nei corridoi suonò un campanello. Esk saltò giù leggera, afferrò la scopa e si mise a spazzare con impegno mentre le porte si spalancavano e i corridoi si riempivano di studenti. Che la superavano sciamando da entrambi i lati, come l’acqua intorno a una roccia. Per pochi minuti regnò una confusione estrema. Poi le porte si richiusero, i passi dei più pigri risuonarono in lontananza, ed Esk si ritrovò sola.

Desiderò, e non per la prima volta, che la verga potesse parlare. Le altre domestiche erano abbastanza cordiali, ma era impossibile parlare con loro. Non di magia, comunque.

La bambina stava arrivando alla conclusione che avrebbe dovuto imparare a leggere. In questa faccenda del leggere stava la chiave dell’arte dei maghi, che era imperniata tutta sulle parole. Per i maghi, i nomi erano lo stesso delle cose: cambiando il nome, si cambiava la cosa. O almeno, così le pareva…

Leggere. Questo voleva dire la biblioteca. Simon aveva detto che conteneva migliaia di libri. E fra tutte quelle parole, ce ne dovevano essere una o due che lei fosse in grado di leggere. Esk si mise la verga in spalla e si diresse con aria risoluta all’ufficio della signora Whitlow.

Era quasi arrivata, quando una parete disse: — Pss! — Esk la fissò a occhi spalancati e quella si rivelò essere la Nonnina. Non che la Nonnina fosse capace di rendersi invisibile. Ma aveva il talento di confondersi alla vista così da non farsi notare.

— Come te la passi, allora? — le domandò la Nonnina. — Come va con la magia?

— Che ci fai qui. Nonnina? — chiese la bimba a sua volta.

— Sono stata dalla signora Whitlow a predirle il futuro. — La vecchia alzò con una certa soddisfazione un pacco di vecchi indumenti. Ma il sorriso le morì sulle labbra sotto lo sguardo severo di Esk.

— Be’, in città le cose sono diverse. La gente di città si preoccupa sempre dell’avvenire, dipende dal fatto che mangiano cibo non naturale. — Resasi a un tratto conto del suo tono querulo, aggiunse: — E comunque, perché non dovrei predire la fortuna?

Tu hai sempre affermato che Hilta profittava della sciocchezza delle donne. Tu dicevi che quelle che predicono l’avvenire dovrebbero vergognarsi di se stesse e, a ogni modo, non hai bisogno di vestiti vecchi.

— Chi non spreca, non si trova nel bisogno — sentenziò la Nonnina. Aveva trascorso tutta la vita basandosi sul principio dei vestiti vecchi e non intendeva permettere che la sua temporanea prosperità le facesse cambiare idea. — Ti danno abbastanza da mangiare?

— Sì. Nonnina, quanto all’arte dei maghi, non sono altro che parole…

— Sempre detto che era così — dichiarò la vecchia.

— No, voglio dire… — La Nonnina la interruppe con un gesto irritato della mano.

— In questo momento, non ho tempo per roba del genere — dichiarò. — Ho delle grosse ordinazioni da consegnare prima di notte. Se va avanti così, dovrò addestrare qualcuno. Non puoi venire a trovarmi quando hai un pomeriggio libero, o cos’è che ti danno?

— Addestrare qualcuno? — Esk era scandalizzata. — Vuoi dire come una strega?

— No. Cioè, forse.

— E io, allora?

— Be’, tu stai andando per la tua strada — asserì la Nonnina. — Qualunque sia.

— Uhm — si limitò a dire la bambina.

La vecchia la fissò. — Allora me ne vado — annunciò alla fine. Si girò e si allontanò verso l’entrata della cucina. Con il movimento, il suo mantello ondeggiò ed Esk vide che adesso era foderato di rosso. Un rosso scuro, un rosso vinoso, ma sempre rosso. Sulla Nonnina, nota per avere sempre portato, almeno visibilmente, soltanto indumenti neri, l’effetto era scioccante.


— La biblioteca? Io non credo che mai qualcuno pulisce la biblioteca. — La signora Whitlow era decisamente perplessa.

— Perché? Non si impolvera? — ribatté Esk.

— Be’… — La donna ci pensò un po’ su. — Suppongo che è così, adesso che ne parli. A dire la verità, non ci ho mai pensato.

— Vedi, ho pulito tutto il resto — spiegò con voce dolce Esk.

— Già. L’hai fatto, no?

— Bene, allora.

— È solo che… non l’abbiamo mai fatto prima — disse la signora Whitlow — ma, parola mia, non riesco a capire perché.

— Bene, allora — ripeté Esk.


— Ook? — disse il Bibliotecario Capo e si scostò indietreggiando da Esk. Ma la piccola aveva sentito parlare di lui. ed era venuta preparata. Gli offrì una banana.

L’orangutan allungò adagio una mano e poi l’afferrò con una smorfia di trionfo.

Può darsi che esistano universi dove fare il bibliotecario è considerata un’occupazione di tutto riposo e dove i rischi sono limitati a grossi volumi che ti cadono dagli scaffali sulla testa. Ma fare il responsabile di una biblioteca magica non è lavoro per gli incauti. Gli incantesimi sono dotati di potere. E semplicemente trascriverli e infilarli tra la copertina non serve a ridurlo. Quella roba trasuda. I libri tendono a reagire reciprocamente e a liberare così una magia con una volontà propria. Di solito i libri di magia sono incatenati agli scaffali, ma ciò non impedisce che vengano rubati.

Era proprio un incidente del genere che aveva trasformato il bibliotecario in una scimmia antropomorfa. Da allora si era opposto a ogni tentativo di riprendere le sembianze umane, spiegando nel linguaggio dei segni che la vita da orangutan era assai migliore di quella da essere umano. Infatti, tutti i grandi interrogativi filosofici si esaurivano nel domandarsi quando gli sarebbe arrivata la prossima banana. Inoltre, le braccia lunghe e i piedi prensili erano ideali per occuparsi degli scaffali in alto.

Esk gli diede un intero casco di banane e si allontanò rapida tra gli scaffali prima che lui potesse fare obiezioni.

Non avendo mai visto altro che un unico libro per volta, a quanto ne sapeva Esk, la biblioteca era identica a qualsiasi altra biblioteca. Vero, era un po’ strano vedere che in lontananza il pavimento si trasformasse nella parete. Come era strano il modo in cui gli scaffali ti giocavano degli scherzi e parevano acquistare più dimensioni delle solite tre. Ed era sorprendente alzare gli occhi e scorgere scaffali sul soffitto tra i quali, di tanto in tanto, si aggirava tranquillamente uno studente.

La verità era che la presenza di tanta magia distorceva lo spazio intorno. In quella enorme quantità di volumi il denim, o forse la flanella, dell’universo veniva contorto in forme molto particolari. I milioni di parole intrappolate, incapaci di liberarsi, piegavano la realtà intorno a loro.

Per Esk era logico che, fra tutti quei libri, ce ne dovesse essere uno che ti diceva come leggere gli altri. Non era sicura come fare per trovarlo, ma dentro di sé sentiva che probabilmente avrebbe avuto sulla copertina le riproduzioni di allegri coniglietti e micini spensierati.

Di certo, però, la biblioteca non era silenziosa. Si udiva di quando in quando il sibilo di una scarica di magia e allora una scintilla di ottarino guizzava da uno scaffale all’altro. Le catenelle tintinnavano piano. E, naturalmente, c’era il debole fruscio di migliaia di pagine nelle loro prigioni rilegate in pelle.

Dopo essersi assicurata che nessuno le prestava attenzione, Esk tirò giù il più vicino volume. Quello gli si aprì nelle mani e lei vide, costernata, che conteneva gli sgradevoli tipi di diagramma che aveva notati nel libro di Simon. La scrittura le era del tutto ignota. E lei ne fu contenta… sarebbe stato orribile conoscere il significato di tutte quelle lettere che le si presentavano come laide creature intente a farsi cose complicate. Richiuse il libro a fatica, con le pagine che tentavano disperatamente di opporsi. Il disegno di una creatura sulla copertina somigliava a uno degli esseri del freddo deserto. Certamente era tutt’altro che un micino spensierato.

— Salve! Esk, vero? C-come s-sei entrata q-qui?

Simon era in piedi davanti a lei, con un libro sotto ciascun braccio. Esk arrossì.

— Nonnina non vuole dirmelo — spiegò. — Credo abbia a che fare con gli uomini e le donne.

Lui la guardò senza capire. Poi sogghignò. Esk ripensò alla sua domanda.

— Io lavoro qui. Spazzo. — Per dimostrarlo, agitò la verga.

Qui dentro?

Esk lo guardava. Si sentiva sola, sperduta. Tradita. Tutti, meno lei, avevano la loro vita a cui pensare. Mentre lei avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni a fare le pulizie per i maghi. Non era giusto, e ne aveva avuto abbastanza.

— In realtà, non è così. In realtà, sto imparando a leggere per poter diventare un mago.

Il ragazzo rimase per un po’ a guardarla con i suoi occhi acquosi. Poi le tolse gentilmente il libro dalle mani e lesse il titolo.

Demonylogie Malyficorum di Henchanse l’Insoddisfacente. Come pensavi di poter imparare a l-leggere questo?

— Uhm. Be’, si continua a provare finché non si riesce, non ti pare? È come mungere, o lavorare a maglia o… — non terminò la frase.

— Di questo non ne so niente. Questi libri possono essere un po… be’, aggressivi. Se non stai attenta, loro cominciano a leggere te.

— Che intendi?

— S-ssi ddd…

— …dice — completò automaticamente lei.

— …che una volta c’era un mmmm…

— …mago…

— che si mise a l-legger il Necrotelemnicon e lasciò la sua mente vvv…

— …vagare…

— e la mattina seguente tt-trovarono tutti i suoi vestiti sulla sedia e il s-suo cappello sopra e il li-libro aveva…

Esk si turò le orecchie, ma non troppo forte perché non le sfuggisse niente.

— Se è orrido, non voglio saperlo.

— …aveva molte altre pagine.

Esk si tolse le mani dalle orecchie. — C’era qualcosa sulle pagine?

Simon annuì con aria solenne. — Sì. Su ogn-ognuna di esse c’erano delle ppp…

Esk protestò: — No, non voglio nemmeno immaginarlo. Credevo che leggere fosse una cosa più tranquilla. Voglio dire, Nonnina leggeva il suo Almanacco ogni giorno e non le è mai successo niente.

— D-direi che le normali pppp…

— …parole …

— …vanno bene — concesse magnanimo Simon.

— Ne sei assolutamente sicuro?

— È solo che le parole possono essere dotate di potere — rispose Simon e rinfilò il libro sullo scaffale, dove quello gli fece tintinnare contro le sue catene. — E dicono che la pp-penna sia più potente della sss…

— …spada — terminò per lui Esk. — Benissimo, ma con quale delle due preferiresti che ti colpissero?

— Uhm, cc-credo sia inutile cc-che ti dica che non dovresti essere qui, vero? — chiese il giovane mago.

Esk ci rifletté e quindi rispose: — Sì credo sia inutile.

— Potrei mandare a chiamare gli inss-servienti e farti pp-portare via.

— Sì, ma non lo farai.

— Solo che n-non vvv…

— …voglio…

— che ti fai male, capisci. D-davvero non voglio. Questo può esessere un pppericolo…

Esk percepì un leggero soffio d’aria sopra la sua testa. Per un momento le vide, le grandi forme grige dal luogo freddo. E nella calma della Biblioteca, quando il peso della magia assottigliava l’Universo, esse avevano deciso di Agire.

Intorno a lei il debole fruscio dei libri s’intensificò per lo sfogliarsi disperato delle pagine. Alcuni dei libri più potenti riuscirono a balzare giù dagli scaffali e ondeggiarono impazziti, penzolando dalle loro catene. Dallo scaffale più alto un tomo enorme precipitò, liberandosi così facendo dalla catena, e prese a muoversi, come una gallina spaventata, disseminando le pagine dietro di sé.

Un vento magico fece volare via dalla testa di Esk il fazzoletto e i capelli, non più trattenuti, le ondeggiarono sulle spalle. Vide Simon che cercava di tenersi a uno scaffale mentre i libri gli esplodevano intorno.

L’aria, spessa, con un sentore di stagno, ronzava.

— Stanno tentando di entrare! — gridò la bambina.

Il viso spaventato di Simon si volse verso di lei.

Un incunabolo, folle di paura, lo colpì pesantemente alla nuca e lo sbatté sul pavimento che si sollevava, prima di rimbalzare in alto al di sopra degli scaffali. Esk si buttò a terra per evitare un’intera fila di lessici che le sfrecciò accanto, trascinandosi dietro lo scaffale, e si diresse carponi verso Simon.

— È questo che spaventa così tanto i libri! — gli gridò nell’orecchio. — Tu non li vedi lassù?

Simon scosse la testa in silenzio. Sopra di loro un libro, esploso dalla sua rilegatura, li inondò con una pioggia di pagine.

L’orrore può insinuarsi nella mente attraverso tutti i sensi. Il suono di una risatina soffocata in una stanza buia chiusa a chiave, la vista di un mezzo lombrico nella forchettata d’insalata, il curioso odore proveniente dalla camera da letto del pensionante, un gusto di lumaca nel formaggio al cavolfiore. Normalmente il tatto ne resta fuori.

Ma qualcosa accadde al pavimento sotto le mani di Esk. Lei abbassò gli occhi, inorridita, perché d’improvviso le assi polverose si fecero granulose. E asciutte. E molto, molto fredde.

Tra le sue dita c’era una fine sabbia argentea.

Esk afferrò la verga e, riparandosi gli occhi dal vento, la agitò contro le figure che le torreggiavano sopra. Sarebbe bello riferire che un lampo di puro fuoco bianco ripulì l’aria oleosa. Ma non successe…

Nella sua mano la verga si torceva come un serpente e sferrò un colpo sulla tempia di Simon.

Gli Esseri grigi oscillarono e svanirono.

Tornò la realtà, che si sforzò di dare a intendere di non essersene mai andata. Ondata su ondata, il silenzio si ristabilì come uno spesso velluto. Un silenzio grave, riecheggiante. Qualche libro venne giù pesantemente, vergognandosi.

Sotto i piedi della bambina il pavimento era senza alcun dubbio di legno. Lei gli sferrò un calcio per accertarsene.

Per terra c’era una pozza di sangue e nel mezzo era steso immobile Simon. Esk prima abbassò gli occhi su di lui, poi li alzò verso l’aria immota, quindi li volse verso la verga. Che aveva un’aria compiaciuta.

La piccola sentì il suono di voci lontane e di passi rapidi che si avvicinavano.

Una mano simile a un guanto di morbida pelle s’insinuò piano nella sua e una voce disse con grande dolcezza: — Ook. — Lei si voltò e si trovò davanti la faccia gentile, a forma di cilindro, del bibliotecario. Che si portò un dito alle labbra in un gesto inconfondibile e la tirò piano per la mano.

— L’ho ucciso! — bisbigliò Esk.

Il bibliotecario scosse la testa e continuò a tirarla con insistenza.

— Ook — spiegò. — Ook.

La trascinò per una corsia laterale nel labirinto di antiche scaffalature, pochi secondi prima che un gruppo di maghi anziani, attirati dal rumore, girassero l’angolo.

— I libri hanno fatto di nuovo gazzarra…

— Oh, no! Ci vorrà un’eternità per ricatturare tutti gli incantesimi, sapete che se ne vanno a trovare dei posti dove nascondersi…

— Chi è quello sul pavimento?

Seguì una pausa.

— È privo di sensi. A giudicare dall’apparenza, deve essere stato colpito da uno scaffale.

— Chi è?

— Quel ragazzo nuovo. Sai, quello che dicono abbia un gran cervellone!

— Se lo scaffale fosse stato appena più vicino, saremmo in grado di vedere se avevano ragione.

— Voi due, portatelo all’infermeria. Voi altri rimettete a posto questi libri. Dov’è quel dannato bibliotecario? Dovrebbe sapere molto bene che non bisogna lasciare che si formi una Massa Critica.

Esk diede un’occhiata in tralice all’orangutan, che la ricambiò muovendo su e giù le sopracciglia. Tirò fuori dagli scaffali dietro di lui un polveroso volume di incantesimi sul giardinaggio, estrasse dallo spazio dietro una banana matura e se la mangiò con la tranquilla soddisfazione di uno il quale sa che, qualunque siano i problemi, essi riguardano essenzialmente gli esseri umani.

Esk rivolse lo sguardo alla verga che teneva in mano e serrò le labbra. Sapeva che la sua presa non aveva scivolato. La verga aveva tirato una stoccata a Simon, con l’intenzione omicida nel suo cuore di legno.


Il ragazzo era steso su un letto duro in una stanzetta, con un tovagliolo bagnato di acqua fredda sulla fronte. Treatle e Tagliangolo lo guardavano attenti.

— Da quanto tempo è così? — chiese Tagliangolo.

Treatle scrollò le spalle. — Tre giorni.

— E non si è svegliato nemmeno una volta?

— No.

Il grande mago si sedette pesantemente sul bordo del letto e si pizzicò l’attaccatura del naso. L’aspetto di Simon non era mai stato particolarmente florido, ma adesso il suo viso era incavato da far paura.

— Una mente brillante, la sua — osservò. — La sua spiegazione dei principi fondamentali della magia e della materia… stupefacente davvero.

Treatle annuì.

— Il modo in cui assorbe la conoscenza — seguitò l’altro. — Sono stato tutta la vita un mago attivo, ma posso dire di non avere mai veramente compreso la magia finché lui non l’ha spiegata. Così chiaro. Così, be’, ovvio.

— Dicono tutti lo stesso — osserva Treatle. — Dicono che è come togliersi una benda dagli occhi e vedere per la prima volta la luce del giorno.

— Esatto — convenne Tagliangolo. — Lui ha la stoffa dell’incantatore, questo è sicuro. Avevi ragione a portarlo qui.

Una pausa.

— Solo… — cominciò Treatle.

— Solo che? — lo incalzò Tagliangolo.

— Solo che cos’è che hai capito? E questo ciò che mi turba. Voglio dire, sei in grado di spiegarlo?

— Cosa intendi per spiegarlo? — domandò inquieto l’altro.

— Di che cosa lui continua a parlare. — C’era una nota di disperazione nella voce di Treatle. — Oh, è tutto vero, lo so. Ma che cosa è esattamente?

Tagliangolo lo guardò a bocca aperta. Alla fine rispose: — Oh, è facile. La magia riempie l’universo, capisci, e ogni volta l’universo cambia. No, cioè, ogni volta che si invoca la magia, l’universo cambia, solo che lo fa in tutte le direzioni contemporaneamente, capisci? e… — fece un gesto incerto con le mani, cercando di cogliere una scintilla di comprensione sul viso di Treatle. — Per metterla in un altro modo, ogni parte della materia, come un’arancia o il mondo o, o…

— …un coccodrillo? — suggerì Treatle.

— Sì, un coccodrillo o… che altro, ha essenzialmente la forma di una carota.

— Questo pezzo non me lo ricordo — dichiarò Treatle.

— Sono sicuro che è quello che ha detto — disse Tagliangolo. Stava cominciando a sudare.

— No, io ricordo il pezzo in cui suggeriva, mi pare, che se uno procede abbastanza lontano in una direzione, vede la propria testa di dietro — insistette Treatle.

— Sei certo che non intendesse la testa di un altro?

Treatle ci pensò per un po’.

— No, sono sicurissimo che ha detto la propria testa di dietro. Credo che abbia detto di poterlo provare.

Rimasero in silenzio a riflettere.

Alla fine Tagliangolo parlò, molto lentamente e con grande cautela.

— Io la vedo così. Prima di sentirlo parlare, ero come tutti. Capisci che voglio dire? Ero confuso e incerto a proposito di tutti i piccoli dettagli della vita. Ma adesso — si rianimò — mentre sono ancora confuso e incerto, lo sono su un piano molto più alto, capisci? E almeno ho la consapevolezza che sono i fatti veramente fondamentali e importanti dell’universo a rendermi perplesso.

Treatle annuì. — Non avevo considerato la cosa da questo punto di vista, ma hai perfettamente ragione. Quel ragazzo ha davvero allargato i confini dell’ignoranza. C’è tanto nell’universo che noi non conosciamo.

Entrambi assaporarono la curiosa soddisfazione di essere molto più ignoranti della gente comune, che ignorava soltanto le cose ordinarie.

Poi Treatle osservò: — Spero che Simon stia bene. Non ha più febbre ma non pare che abbia voglia di svegliarsi.

Entrarono due inservienti con un catino d’acqua e tovaglioli puliti. Una delle due portava una scopa alquanto consumata. Si misero a cambiare le lenzuola fradicie di sudore sotto il corpo del ragazzo. I due maghi lasciarono la stanza, ancora discutendo i vasti orizzonti d’ignoranza rivelati al mondo dal genio di Simon.

La Nonnina aspettò che l’eco dei loro passi fosse svanito, prima di togliersi il fazzoletto che portava in testa.

— Non posso sopportare questo dannato affare — esclamò. — Esk, va ad ascoltare alla porta. — Tolse il tovagliolo dalla fronte del ragazzo e gli sentì la temperatura.

— Sei stata molto gentile a venire — le disse Esk. — Tu così presa dal tuo lavoro, e tutto.

La Nonnina spinse in fuori le labbra. — Uhmm. — Sollevò le palpebre di Simon e gli tastò il polso. Posò l’orecchio sul suo petto dove si contavano tutte le costole e ascoltò il battito del cuore. Poi sedette immobile per un bel pezzo a scandagliargli la mente.

— Sta bene? — domandò ansiosa Esk.

La vecchia guardò i muri di pietra.

— Accidenti a questo posto — imprecò. — Non è posto per malati.

— Sì, ma sta bene?

— Cosa? — La domanda l’aveva distolta dai suoi pensieri. — Oh! Sì. Probabilmente. Dovunque si trovi.

La bambina prima guardò la vecchia e poi il corpo di Simon.

— A casa non c’è nessuno — disse semplicemente.

— Che vuoi dire?

— Senti un po’ questa bambina! Da credere che non le ho insegnato niente. Voglio dire che la sua mente sta Vagando. Lui è Uscito dalla sua Testa.

Guardò quasi con ammirazione il corpo del ragazzo.

— Davvero sorprendente. Non ho mai conosciuto un mago capace del Prestito — aggiunse.

Si girò verso Esk, che la guardava a bocca spalancata.

— Ricordo che quando ero ragazza, la vecchia Nanny Annaple se ne andò Vagando. E si immedesimò troppo nell’essere una volpe, ricorda. Ci vollero due giorni prima che la trovassimo. E poi, anche tu. Non ti avrei mai trovata se non fosse stato per quella tua verga e… che cosa ne hai fatto, ragazza?

— È lei che lo ha colpito — borbottò la piccola. — Ha cercato di ucciderlo. L’ho buttata nel fiume.

— Non è stato carino da parte tua, dopo che ti aveva salvato.

— Mi ha salvato, colpendo lui?

— Non capisci? Lui stava evocando… quegli Esseri.

— Non è vero — protestò Esk.

La Nonnina la guardò negli occhi pieni di sfida e pensò: "L’ho perduta. Tre anni di lavoro buttati al vento. Non potrebbe essere un mago, ma sarebbe potuto essere una strega".

— Perché non è vero, signorina Sotutto? — disse ad alta voce.

— Lui non farebbe una cosa del genere. — Esk era vicina alle lacrime.

— L’ho sentito parlare, lui è… be’, non è cattivo, è una persona brillante. Capisce quasi come tutto funziona, lui è…

La Nonnina ribatté, acida: — Immagino che sia un bravissimo ragazzo. Non ho mai detto che fosse uno stregone, no?

— Sono Esseri orribili! — singhiozzò la bambina. — Lui non li avrebbe evocati, lui vuole tutto ciò che loro non sono, e tu sei una vecchia maligna…

Le arrivò uno schiaffo così sonoro da farla barcollare all’indietro, bianca dallo shock. La Nonnina era rimasta con la mano alzata, tremante.

Aveva colpito Esk soltanto una volta prima di allora. Lo schiaffo che si dà a un bambino per introdurlo nel mondo e dargli un’idea generale di ciò che lo aspetta nella vita. Ma quella era anche stata l’ultima volta. Nei tre anni vissuti sotto lo stesso tetto, si erano presentate diverse occasioni: il latte traboccato sul fornello o le capre lasciate sbadatamente senz’acqua. Ma una sgridata o un freddo silenzio erano stati molto più efficaci della forza e non lasciavano traccia.

Afferrò saldamente Esk per le spalle e la fissò negli occhi.

— Ascoltami — la scongiurò — non ti ho sempre detto che, se usi la magia, dovresti attraversare la vita come un coltello attraversa l’acqua? Non ti ho detto così?

Ipnotizzata come un coniglio senza scampo, Esk annuì.

— E tu pensavi che fossero solo storie della vecchia Nonnina, vero? Ma il fatto è che, se usi la magia, tu attiri l’attenzione su di te. La loro attenzione. Loro stanno sempre lì a osservare il mondo. Per loro le menti comuni restano vaghe, non se ne occupano, ma una mente che contiene in sé la magia, emette una luce, capisci, è un faro per loro. Non è il buio che Li chiama. È la luce, la luce che crea le ombre!

— Ma… ma… perché Loro sono interessati? Che cosa v-vogliono Loro?

— La vita e una forma — rispose la vecchia.

Si chinò e la lasciò andare.

— In realtà, sono patetici — continuò. — Non hanno una vita o una forma propria, ma solo quella che possono rubare. Non potrebbero sopravvivere in questo mondo più di quanto possa farlo un pesce nel fuoco, ma questo non Gli impedisce di provarci. E sono abbastanza svegli da odiarci perché noi siamo vivi.

La bambina rabbrividì. Ricordava la sensazione granulosa della fredda sabbia.

— Ma che cosa sono? Ha sempre creduto che fossero… una specie di demoni.

— No. Nessuno lo sa veramente. Sono gli Esseri delle Dimensioni Sotterranee fuori dall’universo. Ecco tutto. Creature d’ombra.

Si voltò verso la figura immota di Simon.

— Tu non avresti idea di dov’è, vero? — chiese a Esk, guardandola attentamente. — Non è che se ne sia andato a volare con i gabbiani, eh?

La piccola scosse la testa.

— No, non lo credo — disse la Nonnina. — Lo hanno preso, è così.

Non era una domanda la sua. Esk, con espressione desolata, fece cenno di sì.

— Non è colpa tua — la rassicurò la vecchia. — La sua mente gli ha aperto un varco e quando lui è stato messo fuori combattimento. Loro se la sono portata via. Solo…

Tamburellò con le dita sul bordo del letto e parve giungere a una decisione.

— Chi è il mago più importante in questo posto? — domandò.

— Uhm, il Lord Tagliangolo. È l’Arcicancelliere. È uno dei due che stava qui.

— Quello grasso o quello magro come un’acciuga?

Esk distolse la mente dall’immagine di Simon sul freddo deserto e rispose: — È un mago dell’Ottavo Livello, anzi uno a 33°.

— Vuoi dire che è curvo? Tutti questi maghi che gironzolano qui intorno ti hanno spinto a prenderli sul serio, ragazza mia. Si chiamano tutti Sommo Lord questo e Imperiale quello, fa tutto parte del gioco. Perfino gli illusionisti lo fanno, uno penserebbe che almeno fossero più ragionevoli. Ma no, si presentano dicendo di essere gli Straordinari-Bonko-e-Doris. A ogni modo, dov’è questo Sommo Vattelapesca?

— Saranno a cena nella Grande Sala — la informò Esk. — Può riportare indietro Simon, allora?

— Questa è la parte difficile. Direi che saremmo tutti capaci di riportare indietro qualcosa, che cammina e parla come gli altri. Che questo qualcosa sia Simon, è un altro paio di maniche.

La Nonnina si alzò. — Andiamo a trovare questa Grande Sala, allora. Non c’è tempo da perdere.

— Uhm, alle donne non è permesso entrare — obiettò Esk.

La Nonnina si arrestò sulla porta. Raddrizzò le spalle e si volse molto lentamente.

Che hai detto? Queste vecchie orecchie mi hanno ingannato, e non dirmi di sì, perché non è vero.

— Scusami. È la forza dell’abitudine — disse la bambina.

— Vedo che ti sei messa in testa delle idee non all’altezza della tua condizione — dichiarò freddamente la Nonnina. — Va a trovare qualcuno che vegli il ragazzo e vediamo che c’è di tanto elevato in questa sala che io non debba metterci piede.

E fu così che mentre l’intera facoltà dell’Università Invisibile stava cenando nella venerabile sala, le porte furono spalancate con effetto drammatico. Che fu però rovinato in parte quando uno dei battenti urtò contro un cameriere e andò a colpire con violenza la tibia della Nonnina. Così, invece d’inoltrarsi sul pavimento dal disegno a scacchi con incedere baldanzoso, com’era nelle sue intenzioni, la povera donna fu costretta a procedere mezzo saltellando e mezzo zoppicando. Ma sperava di farlo con dignità.

Esk si affrettava dietro di lei, acutamente consapevole delle centinaia di occhi rivolti verso di loro.

Il rumore della conversazione e l’acciottolio delle posate cessò. Un paio di sedie vennero ribaltate. All’estremità della sala scorgeva i maghi più anziani seduti a un tavolo più elevato, che si alzò qualche centimetro da terra. Tutti le fissavano esterrefatti.

Un mago di rango mediano (che Esk riconobbe come il docente di Astrologia Applicata) si precipitò verso di loro, agitando le mani.

— Nononono — gridò. — È la porta sbagliata. Dovete andarvene.

— Non badare a me — gli disse calma la Nonnina e gli passò avanti.

— Nonono, è contro le tradizioni, dovete andarvene adesso. Alle signore non è permesso l’ingresso.

— Io non sono una signora, sono una strega — replicò la vecchia. E, rivolta a Esk, le chiese: — È molto importante?

— Non credo — rispose la piccola.

— Bene. — La Nonnina si voltò verso il docente: — Va a trovarmi un mago importante, per favore. Presto.

Esk le batté sulla schiena. Dimostrando una grande presenza di spirito, due maghi se l’erano svignata dalla porta alle loro spalle, e adesso diversi portieri del college avanzavano minacciosi nella sala, tra le acclamazioni e gli sghignazzi degli studenti. Alla bambina i portieri, che vivevano appartati nella loro casetta, non erano mai andati molto a genio. Ma in quel momento provò per loro un moto di simpatia.

Due di loro allungarono le mani pelose e afferrarono la Nonnina per le spalle. Il braccio della vecchia sparì dietro la sua schiena; seguì un rapido movimento confuso che finì con gli uomini che saltellavano via, tenendosi strette le mani su certe parti e imprecando.

— Gli spilloni — spiegò la Nonnina. Afferrò Esk con la mano libera e avanzò verso il tavolo dei grandi maghi, fulminando con gli occhi chiunque mostrasse appena l’intenzione di sbarrarle la strada. Gli studenti più giovani che riconoscevano che cos’era un divertente spettacolo gratuito quando ne vedevano uno, pestavano i piedi, applaudivano e battevano i piatti sui lunghi tavoli. Il tavolo principale ricadde sulle piastrelle del pavimento con un tonfo e i maghi anziani si affrettarono a mettersi in fila dietro Tagliangolo, mentre questi cercava di chiamare a raccolta le sue riserve di dignità. I suoi sforzi non raggiunsero lo scopo: è difficile avere un’aria dignitosa con un tovagliolo infilato nel colletto.

Alzò le mani per ottenere silenzio e la sala rimase in attesa mentre la Nonnina ed Esk si avvicinavano a lui. La vecchia guardava con interesse gli antichi ritratti e le statue dei maghi defunti.

— Chi sono quei buffoni? — domandò, muovendo appena le labbra.

— Erano i sommi maghi — bisbigliò Esk.

— Hanno l’aspetto di chi soffre di stitichezza — osservò la vecchia. — Non ho mai conosciuto un mago che fosse regolare.

— Sono noiosi da spolverare, è tutto quello che so — disse la bambina.

Tagliangolo stava piantato a gambe larghe, mani ai fianchi e gomiti in fuori, con lo stomaco che ricordava un pendio per sciatori principianti. Tutta la sua persona aveva assunto la posa che di solito viene associata a Enrico VIII, ma con una opzione su Enrico IX e pure X.

Allora? Che significa questo oltraggio? — le aggredì.

— Lui è importante? — domandò a Esk la Nonnina.

Io, signora, sono l’Arcicancelliere! E dirigo questa Università! E lei, signora, è entrata illegalmente su un territorio assai pericoloso! L’avverto che… smettila di fissarmi così!

Tagliangolo indietreggiò barcollante, con le mani alzate per ripararsi dallo sguardo della Nonnina. Intorno a lui i maghi si dispersero, rovesciando dei tavoli nella fretta di evitare quello sguardo.

Gli occhi della Nonnina erano cambiati.

Esk non glieli aveva mai visti così. Erano assolutamente d’argento, simili a specchietti rotondi, che riflettevano tutto ciò che vedevano. Nelle loro profondità, Tagliangolo era diventato un puntolino, la bocca spalancata, le braccine come stecchini che si agitavano disperate.

L’Arcicancelliere urtò contro un pilastro e lo shock lo fece tornare in sé. Scosse irritato la testa, mise una mano a coppa intorno alla bocca e mandò un fascio di fuoco bianco verso la strega.

Senza abbassare il suo sguardo iridescente, la Nonnina sollevò una mano e deviò le fiamme verso il soffitto. Ci fu una esplosione e una pioggia di frammenti di mattonelle.

Gli occhi le si ingrandirono.

Tagliangolo scomparve. E al suo posto era arrotolato un grosso serpente, pronto a colpire.

La Nonnina svanì. Al suo posto c’era adesso un grande canestro di vimini.

Il serpente divenne un rettile gigantesco uscito dalle nebbie del tempo.

Il canestro si tramutò nella folata di neve dei Giganti del Ghiaccio, che ricoprì di ghiaccio il mostro che si dimenava.

Il rettile diventò una tigre dalle zanne affilate, accovacciata per prepararsi al balzo.

La folata nevosa diventò una pozza di bitume ribollente.

La tigre divenne un’aquila china per spiccare il volo.

La pozza di bitume si tramutò allora in un cappuccio ornato di un ciuffo di piume.

Poi le immagini presero a tremolare via via che una forma rimpiazzava un’altra forma. Onde stroboscopiche danzavano nella sala. Si alzò un vento magico, spesso e oleoso, che faceva sprizzare dalle barbe e dalle dita scintille di ottarino. In mezzo a tutto questo Esk distingueva, attraverso gli occhi che le lacrimavano, le due figure della Nonnina e di Tagliangolo, statue lucenti nel mezzo del turbine di immagini.

Ma si rendeva conto di un’altra cosa, un suono così acuto che l’udito quasi non lo captava.

Lo aveva già udito, su quella fredda distesa… un pigolio, il ronzio di un alveare, il rumore dello scavo di un termitaio…

— Vengono! — urlò al di sopra del tumulto. — Stanno venendo ora!

Uscì carponi da dietro il tavolo dove aveva cercato rifugio dal magico duello e cercò di raggiungere la Nonnina. Una folata di magia allo stato puro le sollevò i piedi da terra e la scaraventò su una sedia.

Il ronzio si era fatto più forte, così che l’aria rombava come un cadavere di tre settimane in una giornata estiva. Esk fece un altro tentativo per raggiungere la Nonnina e arretrò quando una fiamma verde le salì su per il braccio e le strinò i capelli.

Si guardò intorno freneticamente in cerca degli altri maghi. Ma quelli che erano fuggiti dagli effetti della magia, si nascondevano tremanti dietro il mobilio rovesciato mentre la tempesta occulta impazzava sulle loro teste.

Esk attraversò di corsa tutta la sala e uscì nel corridoio buio. Si precipitò, singhiozzando, con le ombre che le volteggiavano intorno, su per la scala e per i corridoi echeggianti verso la stanzetta di Simon.

Qualcosa avrebbe cercato di entrare nel corpo di lui, aveva detto la Nonnina. Qualcosa che avrebbe parlato e camminato come Simon, ma non sarebbe stato lui.

Un gruppetto di studenti dall’aria ansiosa era radunato fuori della porta. Alla vista di Esk che si avvicinava di corsa, volsero verso di lei i volti pallidi, abbastanza scossi da ritirarsi nervosamente davanti alla sua avanzata decisa.

— C’è qualcosa lì dentro — disse uno di loro.

— Non possiamo aprire la porta!

La guardavano pieni di aspettativa. Poi un altro chiese: — Per caso, non avresti un passe-partout?

Esk afferrò la maniglia e la girò. Quella prima si mosse leggermente, ma poi tornò a posto con tanta forza da spellarle quasi le mani. All’interno, il pigolio salì in un crescendo e ad esso si unì un altro rumore, come il battito di ali di spessa pelle.

— Voi siete dei maghi! — urlò lei. — Dannatissimi maghi!

— Non abbiamo ancora fatto la telecinesi — disse uno.

— Io ero malato quando abbiamo imparato a scagliare il fuoco…

— A dire la verità, io non sono molto bravo con la Smaterializzazione…

Esk si avvicinò di nuovo alla porta e si fermò di colpo. Ricordò di avere sentito la Nonnina affermare che perfino gli edifici avevano una mente, se erano abbastanza antichi. E l’Università era molto antica. Si fece di lato e passò le mani sulle vecchie pietre. Bisognava agire con cautela, per non spaventarla, la mente… e adesso lei riusciva a sentirla nelle pietre, tarda e semplice, ma sempre una mente. Che pulsava intorno a lei; ne percepiva le scintille guizzanti nel profondo della roccia.

Dietro la porta, qualcosa fischiava.

I tre studenti guardavano stupefatti Esk restare immobile, con le mani e la fronte premuti contro il muro.

C’era quasi. Sentiva il proprio peso, la gravezza del proprio corpo, le lontane memorie dell’alba dei tempi quando la roccia era liquida e libera. Per la prima volta in vita sua sapeva cosa si provava ad avere dei balconi.

Si mosse con precauzione nella mente dell’edificio, affinando le proprie sensazioni, cercando il più velocemente possibile quel corridoio, quella porta.

Allungò un braccio, con grande circospezione. Gli studenti la videro aprire un dito della mano, molto lentamente.

I cardini della porta presero a scricchiolare.

Dopo un momento di tensione, i chiodi schizzarono fuori dai cardini e andarono a sbattere contro la parete alle sue spalle. Le assi cominciarono a piegarsi mentre la porta cercava di aprirsi contro la forza di… di qualunque cosa fosse che la teneva chiusa.

Il legno ondeggiò.

Raggi di luce azzurra si proiettarono nel corridoio, mobili e danzanti, mentre forme indistinte si trascinavano nello splendore accecante dentro la stanza. La luce era piena di vapori e attinica, la sorta di luce da indurre Steven Spielberg a contattare il suo legale incaricato del copyright.

I capelli di Esk le si rizzarono in testa dandole l’aspetto di un soffione ambulante. Oltrepassò la soglia, con la pelle che le scoppiettava per le fiammelle guizzanti di magia.

Gli studenti, rimasti fuori, la osservarono pieni di terrore scomparire nella luce.

Che svanì in una esplosione silenziosa.

Quando alla fine trovarono il coraggio di guardare nella stanza, non videro altro che il corpo di Simon addormentato. Ed Esk stesa silenziosa e fredda sul pavimento, che respirava adagio. E il pavimento era ricoperto da un fine strato di sabbia argentea.


Esk fluttuava attraverso le nebbie del mondo e notava, con una curiosa sensazione impersonale, il modo in cui passava attraverso la materia solida.

Altri erano con lei. Ne udiva il pigolio.

La furia salì in lei come un fiotto di bile. Si voltò e si mise a seguire il rumore, lottando contro le forze ammalianti che continuavano a ripeterle come sarebbe stato bello allentare la presa sulla sua mente e lasciarsi sprofondare nel caldo mare del nulla. Essere in collera, ecco cosa ci voleva. Sapeva che era essenziale nutrire la propria rabbia.

Il mondo-Disco si allontanò, dispiegato sotto di lei come quel giorno in cui era stata un’aquila. Ma questa volta, in basso c’era il Mare Circolare (era davvero circolare, come se il Creatore fosse rimasto a corto di idee) e al di là vedeva le braccia del continente e la lunga catena delle Ramtop che correva dritto fino al Centro. C’erano altri continenti, di cui lei non aveva mai sentito parlare, e minuscole catene di isole.

Con il trascorrere della scena, le apparve l’Orlo. Era notte e, poiché il sole orbitante del Disco era sotto il mondo, esso illuminava la lunga cascata che cingeva il Bordo.

Illuminava anche la Grande A’Tuin, la Tartaruga del Mondo. Esk si era spesso chiesta se in realtà la Tartaruga non fosse un mito. Sembrava non valesse la pena darsi tanto da fare semplicemente per spostare il mondo. Ma eccola là, grande quasi come il Disco che trasportava, il carapace ghiacciato per la polvere stellare e bucherellato dai crateri delle meteore.

La sua testa le passò davanti e lei guardò dritto dentro un occhio grande abbastanza da farci navigare tutte le flotte del mondo. Esk aveva sentito che, a guardare sufficientemente lontano nella direzione che fissava la Grande A’Tuin, uno avrebbe visto la fine dell’universo. Forse dipendeva soltanto dall’atteggiamento del Suo becco, ma la Grande A’Tuin aveva un’aria vagamente speranzosa, perfino ottimistica. Forse la fine di tutto non era poi tanto male.

Come in sogno, la bambina si sforzò di penetrare nella più grande mente dell’universo.

Si fermò giusto in tempo. Come un bimbo con uno slittino che si aspetta di trovare un breve e dolce pendio e a un tratto si trova a guardare giù da montagne imponenti, coperte di neve, che si stendono nei campi ghiacciati dell’infinito. Nessuno mai vorrebbe penetrare in quella mente, sarebbe come tentare di bere tutto il mare. I pensieri che si agitavano dentro di essa erano grandi e lenti come i ghiacciai.

Oltre il Disco si scorgevano le stelle e in esse c’era qualcosa che non andava. Turbinavano come fiocchi di neve. Di quando in quando si fermavano e restavano immobili come sempre, e poi all’improvviso si mettevano in testa di danzare.

Le stelle vere non dovrebbero farlo, decise Esk. Il che voleva dire che non stava guardando delle vere stelle. E che lei non si trovava esattamente in un luogo reale. Ma il pigolio vicino a lei le ricordò che poteva quasi sicuramente morire, se solo avesse perso la scia di quei rumori. Si voltò per seguire il suono attraverso la tempesta di neve stellare.

E le stelle danzavano e si fermavano, danzavano e si fermavano…

Esk saliva in alto e intanto si sforzava di concentrarsi sulle cose di tutti i giorni. Se avesse lasciato la sua mente fissarsi su che cosa stava seguendo, sapeva che avrebbe voluto tornare indietro. E non era sicura di conoscere la via. Cercò dunque di ricordarsi quali erano le diciotto erbe per la cura del mal d’orecchi e questo la tenne occupata per un po’, perché non riusciva mai a rammentare le ultime quattro.

Una stella precipitò accanto a lei e poi fu violentemente respinta. L’aveva incrociata a poco più di sei metri.

Finite le erbe, Esk si mise a pensare alle malattie delle capre. Ciò la occupò per un bel po’ di tempo, perché le capre possono prendersi un sacco dei malanni che si prendono le mucche più quelli delle pecore più una collezione completa di orribili affezioni loro peculiari. Quando ebbe finito di enumerare le mammelle indurite, le orecchie pendenti e l’infiammazione da ottarino, cercò di ricordarsi il complesso sistema di punti e di linee che venivano intagliati negli alberi intorno a Somaro Cattivo per permettere di ritrovare la strada di casa agli abitanti del villaggio che si erano persi nelle notti nevose.

Era arrivata a punto punto punto linea punto linea (che indicava una distanza a poco più di un chilometro dal villaggio), quando intorno a lei l’universo svanì con un debole schiocco. Cadde in avanti, colpì qualcosa di duro e gnanuloso e rotolò su se stessa fino a fermarsi.

La granulosità era sabbia. Sabbia fine, asciutta, fredda. Si indovinava che anche scavando di parecchi centimetri, sarebbe stata altrettanto fredda e altrettanto asciutta.

Esk rimase per un momento con la faccia affondata al suolo, chiamando a raccolta il coraggio per alzare gli occhi. Scorgeva, a pochi centimetri da lei, l’orlo della veste di qualcuno. Si corresse, di qualcosa. A meno che non fosse un’ala. Poteva essere un’ala, un’ala particolarmente logora e dura.

La seguì con gli occhi finché non trovò una faccia, più alta di una casa, stagliata contro il cielo stellato. Il suo proprietario cercava ovviamente di darsi un’aria da incubo, ma aveva esagerato. Essenzialmente il suo aspetto era quello di una gallina che fosse morta da circa due mesi. Ma lo sgradevole effetto era alquanto rovinato dalle zanne da facocero, le antenne da farfalla, le orecchie da lupo e il corno appuntito di un unicorno. Il tutto pareva essere stato messo insieme dal proprietario, che aveva sentito parlare dell’anatomia, ma non era mai riuscito ad afferrarne il concetto.

La creatura aveva lo sguardo fisso, ma non su di lei. Il suo interesse era concentrato su un punto alle sue spalle. Esk voltò molto lentamente la testa.

Simon sedeva a gambe incrociate al centro di un circolo di Esseri. Erano centinaia, immobili e silenziosi come statue, che lo contemplavano con la pazienza propria dei rettili.

Nelle mani a coppa Simon teneva un oggetto piccolo e angoloso; alla sua luce azzurrastra, il viso del ragazzo appariva strano.

A terra, accanto a lui, si scorgevano altre forme e ciascuna emanava un morbido chiarore. Erano le stesse forme regolari, tacciate con disinvoltura dalla Nonnina come giommetria: cubi, diamanti sfaccettati, coni, perfino un globo. Ognuna era trasparente e all’interno c’era…

Esk si avvicinò. Nessuno le prestava attenzione.

Dentro una sfera di cristallo che era stata gettata da parte sulla sabbia, galleggiava una palla blu-verde, intersecata da una rete di minuscole nubi bianche e da quelli che sarebbero potuti essere dei continenti. Posto che qualcuno fosse abbastanza stupido da cercare di vivere su una palla. Forse era una specie di modello. Ma qualcosa nel chiarore che emanava convinse Esk che fosse invece reale e probabilmente molto grande e non, in ogni senso, del tutto all’interno della sfera.

Lo rimise giù con precauzione e si avvicinò a un blocco di dieci lati nel quale galleggiava un mondo molto più accettabile. Era a forma di disco, ma al posto della Cascata c’era un muro di ghiaccio e invece del Centro s’innalzava un albero gigantesco, tanto grande che le sue radici affondavano nelle catene montuose.

Accanto a quello, un prisma conteneva un altro disco che ruotava adagio ed era circondato da stelline. Ma non era racchiuso da pareti di ghiaccio, ma da un filo rosso oro che si rivelò, a una ispezione più attenta, essere un serpente… un serpente abbastanza grande da circondare un mondo. Per ragioni note a lui solo, il serpente si mordeva la coda.

Esk, curiosa, girò e rigirò il prisma e notò che il piccolo disco al suo interno rimaneva invariabilmente dritto.

Simon ridacchiò. Esk depose il serpente-disco e sbirciò di sopra la sua spalla.

Il ragazzo reggeva una piccola piramide di vetro. Dentro c’erano delle stelle e lui di tanto in tanto la scuoteva così che le stelle turbinavano come fiocchi di neve nel vento e poi tornavano al loro posto. Questo lo divertiva.

E al di là delle stelle…

Era il mondo-Disco. Una Grande A’Tuin, non più grossa di un piattino, avanzava a fatica sotto un mondo che sembrava l’opera di un gioielliere in preda a una ossessione.

Risatina, turbinio. Risatina, turbinio, risatina. Nel vetro già si mostravano delle fessure sottili come un capello.

Esk guardò gli occhi vacui di Simon e poi alzò i suoi sulle facce fameliche delle Creature più vicine. Quindi allungò un braccio, gli tolse la piramide dalle mani, si volse e si mise a correre.

Gli Esseri non si mossero mentre lei si precipitava verso di loro, quasi piegata in due, stringendosi al petto la piramide. Ma all’improvviso i suoi piedi non correvano più sulla sabbia, lei era sollevata nell’aria frigida e una Creatura con la faccia di un coniglio affogato si girò lenta verso di lei e allungò un artiglio.

"Tu in realtà non sei qui" si disse Esk. "È solo una specie di sogno, ciò che la Nonnina chiama annallogia. Non possono farti male, è tutta immaginazione. Non ti può succedere niente, è tutto nella tua mente."

"Mi chiedo se quella lo sa?"

L’artiglio la colse a mezz’aria e la faccia da coniglio si spaccò come la buccia di una banana. Al posto della bocca, solo un buco nero, come se la Creatura stessa non fosse che un passaggio verso una dimensione ancora peggiore. Un luogo a paragone del quale la sabbia gelida e il chiaro di luna senza luna avrebbero rappresentato un divertente pomeriggio alla spiaggia.

Sempre tenendo stretta la piramide-Disco, con la mano libera Esk batteva sull’artiglio che l’abbrancava. Senza nessun effetto. Il buio l’avvolgeva, il varco verso l’oblio totale.

Scalciò con tutte le sue forze.

Date le circostanze, non le fu difficile. Ma lì dove il suo piede aveva colpito, ci fu un’esplosione di bianche scintille e uno schiocco… che sarebbe stato più forte e più soddisfacente se il suono non fosse stato risucchiato dall’aria.

La Creatura stridette come una motosega che incontrasse, annidato in un innocente alberello, un grosso chiodo lì dimenticato da tempo. Intorno a lei, le altre se ne uscirono in un ronzio compassionevole.

Esk scalciò ancora e la Creatura urlò e la lasciò cadere sulla sabbia. La bimba fu abbastanza sveglia da rotolarsi, sempre stringendo a sé per proteggerlo il piccolo mondo, perché anche in sogno una caviglia rotta può essere dolorosa.

La Creatura, incerta, la sovrastava. Esk socchiuse gli occhi. Mise giù il mondo con estrema precauzione, colpì con violenza la Creatura nel punto dove doveva esserci la tibia (posto che sotto il mantello la tibia ci fosse), e raccolse di nuovo il mondo in un unico rapido movimento.

La creatura ululò, si piegò in due e poi si accasciò piano, come un sacco di appendiabiti. Toccò terra e crollò in una massa di membra disgiunte; la testa rotolò via e si arrestò, dondolante.

"Tutto qui?" pensò Esk. "Quasi non riesco nemmeno a camminare! Se vengono colpiti, cadono e basta?"

Gli Esseri più vicini indietreggiarono con un pigolio, vedendola avanzare decisa. Ma, dato che i loro corpi erano tenuti insieme più o meno soltanto dalla volontà, il risultato non fu molto brillante. Lei ne colpì uno, dalla faccia come una famigliola di calamari, e quello si sgonfiò in un mucchio di ossa tremolanti, brandelli di pelo e pezzetti di tentacoli, molto simili a un piatto della cucina greca. Un altro, più fortunato, aveva cominciato a trascinarsi lontano con passo incerto; ma Esk gli sferrò un calcio a una delle sue cinque tibie.

Quello cadde, agitandosi disperatamente e trascinò giù con sé altri due.

Nel frattempo gli altri Esseri erano riusciti ad allontanarsi da lei e rimasero a guardare da una certa distanza.

Esk fece qualche passo verso il più vicino. Quello tentò di muoversi e cadde in avanti.

Potevano anche essere brutti. Potevano anche essere malvagi. Ma, in fatto di poesia in movimento, avevano la grazia e la coordinazione di una sedia a sdraio.

Dopo avergli rivolto un’occhiata minacciosa, Esk guardò il Disco nella sua piramide di vetro. Non pareva che tutta quella agitazione lo avesse disturbato nemmeno un po’.

Era stata capace di andare fuori, se quello era veramente fuori e se si poteva dire che il Disco fosse dentro. Ma come fare per tornare indietro?

Udì una risata. Era il genere di risata…

Fondamentalmente, era p’ch’zarni’chiwkov. Questa parola, che a pronunciarla si rischia di otturare l’epiglottide, viene usata raramente sul Disco. Fanno eccezione i linguisti acrobati profumatamente pagati, e naturalmente, la piccola tribù dei K’turni che l’ha inventata. Non ha un sinonimo diretto, sebbene nella lingua Cumhoolie la parola "squernt" (sensazione che si prova nello scoprire che il precedente occupante del gabinetto ha usato tutta la carta) ci si avvicini come profondità di sentimento.

La traduzione più fedele è la seguente:


il debole e sgradevole rumore di una spada sguainata proprio dietro di noi nel preciso momento in cui pensavamo di esserci liberati dei nostri nemici


Tuttavia coloro che parlano il K’turni sostengono che essa non renda il senso di sudore freddo, arresto cardiaco, budella contorte che c’è nell’originale.

Era quel genere di risata.

Esk si girò lentamente. Simon scivolò verso di lei sulla sabbia, con le mani a coppa intorno alla bocca e gli occhi chiusi. — Credevi davvero che sarebbe stato tanto facile? — disse. O qualcun’altro lo disse: non sembrava la voce di Simon, ma di dozzine di voci che parlassero tutte insieme.

— Simon? — lo chiamò, incerta.

— Lui non ci serve più — disse la Creatura con la forma di Simon. — Ci ha mostrato il cammino, ragazzina. Adesso rendici ciò che è nostro.

Esk indietreggiò.

— Io non credo che ti appartenga, chiunque tu sia — dichiarò.

La faccia davanti a lei aprì gli occhi. In essi non c’era altro che oscurità… non un colore, solo buchi in un altro spazio.

— Potremmo dire che se ce lo dai, saremmo misericordiosi. Potremmo dire che ti lasceremmo andare via di qui con la tua forma. Ma dirlo non significherebbe granché, vero?

— Non vi crederei — disse Esk.

— Be’, allora…

Lo pseudo-Simon sogghignò.

— Stai soltanto ritardando l’inevitabile — dichiarò.

— Mi sta bene.

— Potremmo riprendercelo comunque.

— Prendetelo, allora. Ma non credo che potete farlo. Non potete prendere niente, se non vi viene dato, non è così?

Giravano in tondo.

— Ce lo darai — affermò lo pseudo-Simon.

Ora alcune delle altre Creature si avvicinavano, avanzando nel deserto con un’orribile andatura a balzelloni.

— Ti stancherai — continuò quello. — Noi possiamo aspettare. Siamo molto bravi ad aspettare.

Fece una finta a sinistra, ma lei si girò rapida a fronteggiarlo.

— Tutto questo non ha importanza — disse. — È solo un sogno e nei sogni è impossibile farsi male.

L’Essere si fermò e la guardò con i suoi occhi vuoti.

— Nel vostro mondo avete una parola. Credo che si dica "psicosomatico"?

— Mai sentita — ribatté Esk sprezzante.

— Significa che ci si può fare male nei sogni. E la cosa più interessante è che, se muori in sogno, rimani qui. Sarebbe cariiiino.

Esk guardò di sottecchi le montagne lontane, che si stendevano all’orizzonte simili ad ammassi di fango sciolto. Non c’erano alberi, nemmeno rocce. Solo sabbia e fredde stelle e…

Percepì il movimento più che udirlo e si girò tenendo nelle mani la piramide a guisa di clava. Colpì lo pseudo-Simon a mezz’aria con un rumore sordo. Ma non appena quello toccò terra, fece una capriola in avanti e si rimise dritto con spiacevole facilità. Ma l’aveva sentita trattenere il respiro e aveva visto il dolore nei suoi occhi. Si fermò.

— Ah, questo ti fa male, vero? Non ti piace vedere un altro soffrire. Non mi sembra.

L’essere si voltò e, a un suo cenno, due delle alte Creature si avvicinarono e lo afferrarono saldamente per le braccia.

I suoi occhi cambiarono. I due fori neri si trasformarono di nuovo negli occhi di Simon. Li alzò sulle Creature ai suoi lati e cercò di lottare, ma una di esse gli avvolgeva un polso con diverse paia di tentacoli e l’altra gli abbrancava il braccio con due enormi pinze da aragosta.

Quindi scorse Esk e il suo sguardo cadde sulla piccola piramide di vetro.

— Scappa! — sibilò. — Portala lontano da qui! Non lasciare che la prendano! — Fece una smorfia di dolore mentre la pinza aumentava la stretta sul suo braccio.

— È un trucco? Chi sei in realtà? — domandò la bambina.

— Non mi riconosci? — La sua voce era disperata. — Cosa ci fai nei miei sogni?

— Se questo è un sogno, allora vorrei svegliarmi, ti prego — disse lei.

— Ascolta. Devi scappare adesso, mi capisci? Non startene lì a bocca aperta.

DALLA A NOI, disse una voce fredda nella testa di Esk.

Esk guardò prima la piramide di vetro, con il suo piccolo mondo indifferente, e quindi Simon. Era così piena di sconcerto che si era dimenticata di richiudere la bocca.

— Ma che cosa è?

— Guardala bene!

Esk scrutò nell’involucro di vetro. Se teneva gli occhi socchiusi, le pareva che il piccolo Disco fosse granuloso, come se fosse composto da milioni di macchioline minuscole. Se le fissava attentamente…

— Sono soltanto numeri! — esclamò. — Il mondo intero… è tutto fatto di numeri…

— Non è il mondo, è un’idea del mondo — ribatté Simon. — Sono io che l’ho creato per loro. Loro non possono raggiungerci, capisci, ma qui le idee hanno una forma. Le idee sono reali!

DALLA A NOI.

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