Samuel R. Delany Il tempo considerato come una spirale di pietre semipreziose

Tracciate ordinate e ascisse sul secolo. Ora tracciatemi un quadrante. Il terzo quadrante, per favore. Sono nato nel ’50. E adesso è il ’75.

A sedici anni mi consentirono di lasciare l’orfanotrofio. Trascinandomi dietro il nome che mi avevano affibbiato (Harold Clancy Everet, e io ero solo un ragazzo… quanti altri nomi ho avuto, da allora; ma non preoccupatevi, mi riconoscerete dal fumo) tra le colline del Vermont orientale, giunsi a una decisione: Io e Pa Michaels, che mi aveva dato bellicosamente un lavoro dietro richiesta del Documento dall’aria Ufficiale con cui ti spedisce via l’orfanotrofio, mandavamo avanti l’allevamento di mucche da latte di Pa Michaels, cioè tredicimilatrecentosessantadue pezzate di razza Guernsey, tutte addormentate nelle bare di acciaio inossidabile, nutrite e drogate dal liquido roseo che scorreva nelle vene di plastica trasparente (è roba appiccicaticcia e impiastriccia le mani), tenute in forma da pulsatori elettrici che fanno fremere i loro muscoli, neppure sveglie per metà, con il latte che si riversa nelle cisterne d’acciaio inossidabile. Beh, insomma. La Decisione (mentre stavo lì nei campi, un pomeriggio, come l’Uomo con la Zappa, esausto da tre dure ore di fatica fisica, e contemplavo il macchinario dell’universo attraverso la nebbia della stanchezza): Con tutta la Terra, e Marte, e i Satelliti Esterni pieni di gente e di tutto il resto, doveva esserci qualcosa di più. Decisi di procurarmene un po’, di quel qualcosa di più. Perciò rubai un paio di carte di credito di Pa, uno dei suoi elicotteri e una bottiglia di “fulmine bianco” che lui si preparava da solo, e me ne andai. Avete mai provato ad atterrare, ubriachi, con un elicottero rubato sul tetto del palazzo della Pan Am? Dopo la galera e le botte, in seguito raggiunsi la saggezza. Ma ricordate questo, carissimi: io ho fatto tre ore di lavoro onesto in un allevamento di vacche da latte, meno di dieci anni fa. E nessuno mi ha mai più chiamato Harold Clancy Everet.


Hank Culafroy Eckles (capelli rossi, un po’ vago, un metro e ottantotto) uscì dalla sala bagagli dello spazioporto, portando in una valigetta molte cose che non erano sue.

Accanto a lui l’Uomo d’Affari stava dicendo: — Voi giovani d’oggi mi sgomentate. Torni a Bellona, dico io. Solo perché si è messo nei pasticci con quella biondina di cui mi diceva, non c’è ragione di fuggire da un mondo all’altro, suvvia. Ha persino abbandonato il suo lavoro!

Hank si ferma e sogghigna fiaccamente: — Beh…

— Ora, ammetto, lei ha le sue esigenze, che magari noi anziani non comprendiamo, ma deve mostrare un po’ di senso di responsabilità nei confronti di… — Nota che Hank si è fermato davanti a una porta con la scritta UOMINI. — Oh. Bene. Eh. — Sfoggia un gran sorriso. — È stato un piacere conoscerla, Hank. È sempre un piacere quando s’incontra qualcuno con cui valga la pena di parlare, in queste maledette traversate. Arrivederci.

Dalla stessa porta, dopo dieci minuti, esce Harmony C. Eventide, un metro e ottantatré (uno dei tacchi falsi s’era incrinato, perciò li avevo cacciati tutti e due sotto un mucchio d’asciugamani di carta), capelli bruni (la verità non la conosce neppure il mio barbiere), oh. così azzimato e alla moda, vestito con il cattivo gusto che oh è così di buon gusto, un tipo con cui nessun Uomo d’Affari farebbe conversazione. Presi l’elicottero in servizio regolare dal porto al palazzo della Pan Am (Già. Proprio così. Sbronzo), scesi alla Grand Central Station, e mi avviai lungo la Quarantaduesima in direzione dell’Ottava strada, portando nella valigetta parecchie cose che non erano mie.

La sera è intagliata nella luce.

Attraversai l’asfalto di plastiplex della Great White Way — credo che dia un’aria strana alla gente, tutta quella luce bianca sotto il mento — ed evitai la folla che saliva con gli ascensori dalla sotterranea, dalla sottosotterranea e dalla subsottosotterranea (a diciotto anni, e alla prima settimana dopo essere uscito di prigione, ronzavo lì intorno a fregar roba alla gente, ma elegantemente, elegantemente, così quelli non si accorgevano di essere stati borseggiati), e mi feci largo attraverso una folla di studentesse che ridacchiavano e masticavano goo, con luci lampeggianti nei capelli, tutte molto imbarazzate perché portavano le camicette di plastica trasparente che erano state appena permesse di nuovo (ho sentito dire che le tette sono state scene [in contrapposizione a oscene] un po’ sì e un po’ no fin dal secolo decimosettimo), e perciò le guardai con aria di apprezzamento; e quelle ridacchiarono ancora di più. Io pensai, Cristo, quando avevo quell’età, ero in un maledetto allevamento di vacche da latte, e non spinsi oltre quel pensiero.

Il nastro della luminosa del notiziario che cingeva la struttura triangolare della Communication, Inc., spiegava in inglese basico come la senatrice Regina Abolafia si preparava a iniziare la sua inchiesta sulla Delinquenza Organizzata della Città. Certi giorni sono così contento di essere disorganizzato che non saprei neanche dirvi quanto.

Presso la Nona Strada portai la mia valigetta in un lungo bar affollato. Erano due anni che mancavo da New York, ma durante la mia ultima visita, lì c’era spesso un uomo che aveva un vero talento per sbarazzarmi delle cose che non erano mie, in fretta, in modo sicuro e redditizio. Non sapevo che probabilità avevo di trovarlo. Mi feci largo tra molti tizi che bevevano birra. Qua e là c’era un buon numero di vecchie megere ben scortate, vestite all’ultimissima moda. Sciarpe di fumo turbinavano nel frastuono. Non mi piacciono i posti così. Quelli più giovani di me erano tutti imbottiti di morphadine o erano scemi. Quelli più vecchi si auguravano solo che i più giovani arrivassero più numerosi. Mi aprii la strada fino al banco e cercai di attirare l’attenzione di uno degli omarini in giacca bianca.

L’assenza improvvisa del rumore mi indusse a darmi un’occhiata alle spalle…

Lei indossava una guaina di velo chiusa al collo e ai polsi da spilli enormi (oh così elegantemente al limite del buon gusto), il braccio sinistro era nudo, il destro coperto di chiffon che sembrava vino. Aveva bevuto molto più di me. Ma una dimostrazione così ostentata della comprensione di simili sottigliezze era assolutamente fuori luogo in un posto simile. La gente ostentava di non accorgersene.

Lei si indicò il polso: l’unghia color sangue segnò un frammento gialloarancio nel fermaglio d’ottone del braccialetto. — Sa che cos’è questo, Mr. Eldrich? — domandò; e nello stesso tempo il velo che le copriva la faccia si schiarì, e i suoi occhi erano di ghiaccio; le sopracciglia, nere.

Tre pensieri; (Uno) È una dama alla moda, poiché arrivando da Bellona avevo letto il servizio di Delta sulle «stoffe che sbiadiscono», in cui il colore e l’opacità erano controllati da ingegnose gemme portate al polso. (Due) Durante il mio ultimo transito dalla città, quando ero più giovane ed Herry Calamine Eldrich, non avevo fatto niente di troppo illegale (anche se uno poi si dimentica di queste cose); non credevo ancora di poter finire al fresco per più di trenta giorni per quello che avevo fatto sotto quel nome. (Tre) La pietra che lei indicava…

— …Diaspro? — chiesi.

Lei attendeva che io dicessi di più; io attendevo che lei mi desse motivo di lasciar capire che sapevo cosa stava aspettando (quand’ero al fresco, Henry James era stato il mio autore preferito. Davvero.)

— Diaspro — confermò lei.

— …Diaspro… — Io riaprii l’ambiguità che lei si era prodigata per dissipare.

— Diaspro… — Ma lei stava già esitando, sospettando che io sospettassi che la sua certezza era infondata.

— Okay. Diaspro. — Ma dall’espressione del suo volto io compresi che lei aveva visto sul mio viso un’espressione che aveva finalmente rivelato che io sapevo che lei sapeva che io sapevo.

— Ma con chi mi ha confuso, signora?

Diaspro, quel mese, era la Parola.

Diaspro, la parola d’ordine/codice/avvertimento che i Cantori delle Città (i quali, il mese scorso cantavano “Opale” dalle loro divine ferite, e su Marte avevo udito la Parola e l’avevo usata tre volte, insieme ad astute imitazioni, per assicurarmi il possesso di quello che non era legittimamente mio, e anche là avevo molto meditato sui Cantori e le loro ferite) comunicano oralmente a beneficio di quella confraternita varia e vagante con la quale ho rapporti (in varie guisa) da nove anni. La Parola viene rinnovata ogni trenta giorni; e in poche ore ogni confratello viene a conoscerla, su sei mondi e mondicelli. Di solito te la grugnisce un bastardo sporco di sangue che ti piomba barcollando tra le braccia uscendo da un androne buio; te la sibilano mentre passi per un vicolo tenebroso; te la ritrovi in mano, scarabocchiata su un pezzo di carta messo lì da qualche faccia patibolare che sparisce troppo in fretta tra la folla. E questo mese, era Diaspro.

Ecco alcune traduzioni alternative:

Aiuto!

oppure

Ho bisogno d’aiuto!

oppure

Io posso aiutarti!

oppure

Ti tengono d’occhio!

oppure

Adesso non ti tengono d’occhio, quindi muoviti!

Precisazione sintattica: Se la Parola viene usata nel modo appropriato, non dovresti aver mai bisogno di chiederti cosa significa, in una data situazione. Istruzioni per l’uso: Mai fidarsi di qualcuno che l’usa in modo improprio.

Io attendevo che lei finisse di attendere.

Lei aprì un portatessere e me lo mise sotto gli occhi. — Capo del Dipartimento Servizi Speciali Maudline Hinkle — lesse senza guardare quel che diceva sotto il distintivo d’argento.

— L’hai detto benissimo — dissi io — Maud. — Poi aggrottai la fronte. — Hinkle?

— Me.

— So che non lo crederai, Maud. Mi sembri una donna che non ha pazienza per i propri errori. Ma io mi chiamo Eventide. Non Eldrich. Harmony C. Eventide. E non è una fortuna per tutti che la Parola cambi stanotte? — Trasmessa nel modo in cui viene trasmessa, la Parola non è un gran segreto per gli sbirri. Ma ho conosciuto certi poliziotti che non la sapevano ancora, una settimana dopo il cambiamento.

— Bene, allora, Harmony. Voglio parlare con te.

Inarcai un sopracciglio.

Ne inarcò uno anche lei e disse: — Senti, se ci tieni a farti chiamare anche Henrietta, per me va benissimo. Ma ascolta.

— Di cosa vuoi parlare?

— Della criminalità, Mr…?

— Eventide. Ma io ti chiamo Maud, quindi tanto vale che tu mi chiami Harmony. È il mio vero nome.

Maud sorrise. Non era una donna giovane. Credo che avesse addirittura qualche anno più dell’Uomo d’Affari. Ma si truccava meglio. — Probabilmente, sulla delinquenza ne so più di te — disse lei. — Anzi, non mi stupirei se tu non avessi neppure sentito parlare della mia specializzazione. Cosa significa per te Servizio Speciale?

— È vero, non ne ho mai sentito parlare.

— Negli ultimi sette anni, hai continuato più o meno a evitare alacremente il Servizio Regolare.

— Oh, Maud, suvvia…

— Il Servizio Speciale si occupa degli individui il cui valore come grattacapo è salito bruscamente… così bruscamente da far palpitare le nostre spie luminose.

— Ma io non ho fatto niente di tanto orribile da…

— Noi non badiamo a quello che fai. Ci pensa un computer. Noi ci limitiamo a controllare la prima derivata della curva grafica che porta il tuo nome. Il tuo tracciato è nettamente in rialzo.

— Neppure la dignità di un nome…

— Il nostro è il dipartimento più efficiente dell’Organizzazione di Polizia. Giudicala una vanteria, se preferisci. O semplicemente un’informazione.

— Bene, bene, bene — dissi io. — Bevi qualcosa? — L’omarino in giacca bianca ci lasciò, guardò perplesso l’abbigliamento di Maud, e poi passò a servire qualcun altro.

— Grazie. — Buttò giù metà del contenuto del bicchiere come se fosse molto più robusta di quanto indicasse il suo polso. — Non serve dare la caccia alla maggior parte dei criminali. Prendi i grandi capi del racket, Farnesworth, Hawk, il Falco, Blavatskia. Prendi i piccoli borsaioli, gli spacciatori da quattro soldi, i topi d’appartamento e i vice-esattori. Al vertice come al fondo della scala, i loro redditi sono costanti. Non rovesciano la barca della società. Il Servizio Regolare si occupa degli uni e degli altri, ed è convinto di fare un buon lavoro. Noi non stiamo a discutere. Ma diciamo che un piccolo spacciatore cominci a diventare uno spacciatore in grande stile, che un vice-esattore miri a diventare il capo di un racket; e allora saltano fuori i problemi, con spiacevoli ripercussioni sociali. Allora entra in scena il Servizio Speciale. Abbiamo un paio di tecniche che funzionano in modo straordinario.

— E hai intenzione di parlarmene, non è vero?

— Così funzionano meglio — disse lei. — Uno è l’archivio delle informazioni a ologrammi. Sai cosa succede quando tagli in due una lastra d’ologramma?

— L’immagine tridimensionale risulta… tagliata a metà?

Maud scosse il capo. — Ti ritrovi con l’immagine intera, solo un po’ confusa, leggermente sfocata.

— Questo non lo sapevo.

— E se la tagli ancora a metà, l’immagine diventa solo un po’ più sfocata. Ma anche se avessi un centimetro quadrato soltanto dell’ologramma originale, avresti l’intera immagine… irriconoscibile, ma completa.

Emisi qualche borbottio d’ammirazione.

— Ogni punto dell’emulsione fotografica sulla lastra di un ologramma, a differenza di una fotografia, fornisce informazioni sull’intera scena ologrammata. Per analogia, l’archivio delle informazioni ologrammate significa semplicemente che ogni informazione di cui disponiamo, sul tuo conto, poniamo, si ricollega a tutta la tua carriera, alla tua situazione generale, alla serie completa delle tensioni fra te e il tuo ambiente. Noi lasciamo al Servizio Regolare i fatti specifici riguardanti i reati specifici, grandi e piccoli. Non appena abbiamo a disposizione abbastanza dati del nostro tipo, il nostro metodo è immensamente più efficiente per seguire, o addirittura prevedere dove sei e che cosa puoi avere intenzione di combinare.

— Interessante — dissi io. — Una delle sindromi paranoidi più sbalorditive in cui mi sia mai imbattuto. Io voglio solo intavolare una conversazione con qualcuno in un bar. Spesso, all’ospedale, ho incontrato tipi più stra…

— Nel tuo passato — disse lei, recisamente — vedo vacche ed elicotteri. Nel tuo futuro non lontano ci sono elicotteri e falchi.

— E dimmi, o Buona Fattucchiera dell’Occidente, in che modo… — Poi mi sentii rimescolare tutto. Perché nessuno avrebbe dovuto sapere di quella faccenda con Pa Michaels, tranne voi e me. Neppure il Servizio Regolare, che mi aveva tirato fuori sbronzo fradicio dall’elicottero balzellante sul tetto della Pan Am, neppure il Servizio Regolare, dico, era riuscito a farmelo sputare. Avevo inghiottito le carte di credito, quando avevo visto gli sbirri che mi aspettavano, e i numeri di serie di tutto quello che aveva un numero di serie erano stati limati da qualcuno più esperto di me: il buon Mister Michaels si era vantato con me, durante la mia prima notte di solitudine e di sbronza all’allevamento, che aveva acquistato l’elicottero da un ricettatore del New Hampshire.

— Ma perché… — Mi spaventano sempre le frasi fatte che ci vengono imposte dall’ansia. — Ma perché mi dici questo?

Lei sorrise, e il sorriso svanì dietro il velo. — Le informazioni sono significative solo quando vengono comunicate — disse una voce che era la sua e che usciva dal punto in cui doveva esserci il suo volto.

— Ehi, senti, io…

— Può darsi che presto presto tu debba ricevere un mucchio di danaro. Se il mio calcolo è esatto, farò arrivare un elicottero carico dei migliori poliziotti della città per portarti via nel momento in cui riceverai quel danaro. Questa è un’informazione… — Lei indietreggiò. Qualcuno passò in mezzo a noi.

— Ehi, Maud!

— Puoi fartene ciò che vuoi, di quel che ti ho detto.

Il bar era tanto affollato che muoversi in fretta voleva dire farsi dei nemici. Non so… io persi di vista Maud e mi feci dei nemici. C’erano diversi tipi strani, lì: con i capelli bisunti e divisi in ciocche appuntite, e tre di loro avevano dei draghi tatuati sulle spalle magre, un altro ancora aveva una pezza su un occhio, e un altro mi puntava contro la guancia le unghie nere di pece (ci furono due minuti di rissa generale, caso mai vi fosse sfuggita la transizione. A me sfuggì) e alcune donne strillavano. Io picchiai e schivai, e poi il tenore della chiassata cambiò. Qualcuno cantò: — Diaspro! — nel modo in cui va cantato. E significava che la pula (il comune, confusionario Servizio Regolare che io avevo eluso per quei sette anni) era in arrivo. La rissa si riversò sulla strada. Io passai in mezzo a due bravacci che facevano quel che dovevano fare, ma ce la feci a uscire dalla calca senza ferite più gravi di quelle che si rimediano quando ci si fa la barba. La zuffa si era divisa in settori. Io ne lasciai uno e incappai in un altro che, come scoprii dopo un attimo, era semplicemente un capannello di gente raccolta intorno a un tizio conciato piuttosto male.

Qualcuno teneva indietro la gente.

Qualcun altro stava rigirando il ferito.

Raggomitolato in una pozza di sangue c’era l’ometto che non vedevo da due anni e che era così bravo ad aiutarmi a sbarazzarmi delle cose non mie.

Cercando di non colpire nessuno con la mia valigetta, mi infilai tra la calca. Quando vidi spuntare il primo poliziotto regolare, mi sforzai di darmi l’aria di qualcuno che si era avvicinato per scoprire cos’era quel tafferuglio.

Funzionò.

Svoltai per la Nona Strada, e feci tre passi ad andatura svelta e tuttavia non tale da attirare l’attenzione…

— Ehi, aspetta! Aspetta, tu…

Riconobbi la voce (anche dopo due anni, la riconobbi sul momento) ma continuai a camminare.

— Aspettami! Sono io, Hawk!

Mi fermai.

Non avete sentito il suo nome, prima d’ora, in questa storia; Maud aveva nominato Hawk, il Falco, che è il capo multimilionario di un racket, ed esercita la sua attività in una zona di Marte dove non sono mai stato (sebbene affondasse gli artigli, fino agli speroni, nelle attività illegali di tutto il sistema). Quello era tutto un’altra cosa.

Tornai indietro di tre passi, verso l’androne.

Una risata fanciullesca: — Oh, cribbio. Hai l’aria di avere appena fatto qualcosa che non dovevi.

— Hawk? — chiesi all’ombra.

Aveva ancora l’età in cui due anni di assenza significano due o tre centimetri di statura in più.

— Gironzoli ancora da queste parti? — chiesi io.

— Qualche volta.

Era un ragazzo sorprendente.

— Senti, Hawk, devo tirarmi fuori di qui. — Lanciai un’occhiata nella direzione della rissa.

— Capito. — Scese. — Posso venire anch’io?

Strano. — Già. — Mi fece una strana impressione, sentire lui che me lo chiedeva. — Vieni.


Alla luce del lampione, mezzo isolato più avanti, vidi che i suoi capelli erano ancora sbiaditi come il legno del pino. Sembrava un teppistello: un giubbino nero molto sporco, senza camicia; un paio di jeans neri molto consumati… voglio dire, questo si vedeva anche al buio. Era scalzo; e l’unico modo per capire, in una strada buia, che qualcuno va in giro scalzo da giorni e giorni per New York, consiste nel saperlo già. Quando arrivammo all’angolo, lui mi rivolse un ghigno dal basso in alto, sotto il lampione, e si richiuse il giubbotto sulle cicatrici che gli deturpavano il petto e il ventre. Aveva gli occhi molto verdi. Lo riconoscete? Se in seguito a una dispersione d’informazioni tra mondi e mondicelli non l’avete riconosciuto, sappiate che accanto a me, in riva all’Hudson, camminava Hawk il Cantore.

— Ehi, da quanto sei tornato?

— Da poche ore — gli dissi.

— Cos’hai portato?

— Ci tieni proprio a saperlo?

Si cacciò le mani in tasca e inclinò la testa. — Sicuro.

Io borbottai, come un adulto esasperato dal comportamento di un bambino: — Sta bene. — Ormai avevamo percorso un isolato lungo il molo; non c’era nessuno, in giro. — Siediti. — Lui si mise a cavalcioni sul parapetto, con un piede penzoloni sul nero, lampeggiante Hudson. Io sedetti di fronte a lui e feci scorrere il pollice lungo il bordo della valigetta.

Hawk aggobbì le spalle e si sporse verso di me. — Ehi… — Mi lanciò una verde occhiata interrogativa. — Posso toccare?

Scrollai le spalle. — Fai pure.

Frugò con le dita che erano tutte nocche e unghie rosicchiate. Ne sollevò due, li rimise giù; ne prese altri tre. — Ehi! — sussurrò. — Quanto valgono?

— Circa dieci volte di più di quello che spero di ricavarne. Debbo sbarazzarmene in fretta.

Lui si guardò il piede penzolante. — Potresti sempre buttarli nel fiume.

— Non fare l’idiota. Cercavo un tale che frequentava quel bar. Lui era molto efficiente. — In mezzo all’Hudson, un battello scivolava sulla spuma. Sul ponte c’era parcheggiata una dozzina di elicotteri: li traghettavano al Campo del Servizio di Pattugliamento presso il ponte di Verrazzano, senza dubbio. Ma per qualche istante, il mio sguardo passò dal ragazzo al trasporto: mi sentivo diventare paranoide per via di quel che aveva detto Maud. Ma la nave passò oltre, muggendo nell’oscurità. — Il mio uomo è stato tagliuzzato un po’, questa sera.

Hawk si infilò i polpastrelli nelle tasche e cambiò posizione.

— E così sono rimasto fregato. Non pensavo che li avrebbe presi tutti lui, ma almeno avrebbe potuto indirizzarmi ad altri che li avrebbero comprati.

— Io vado a una festa, questa sera, più tardi. — Hawk s’interruppe per rosicchiare il relitto dell’unghia del mignolo. — Là, forse, potresti venderli. Alexis Spinnel dà una festa in onore di Regina Abolafia al Tower Top.

— Al Tower Top…? — Era un pezzo che non andavo in giro con Hawk. Hell’s Kitchen alle dieci: Tower Top a mezzanotte…

— Io ci vado perche ci sarà Edna Silem.

Edna Silem è la più anziana dei Cantori di New York.

Il nome della senatrice Abolafia era lampeggiato luminoso sopra la mia testa, quella sera. E dalla lettura delle innumerevoli riviste che avevo letto durante il viaggio di ritorno da Marte, ricordavo il nome di Alexis Spinnel, che divideva un capoverso con una spaventosa montagna di quattrini.

— Mi farebbe piacere rivedere Edna — dissi, disinvolto. — Ma lei non si ricorderà di me. — I tipi come Spinnel e compagni amano fare un giochino tra di loro. L’avevo scoperto subito dopo aver fatto conoscenza con Hawk. Quelto che riesce a radunare sotto lo stesso tetto il maggior numero di Cantori della Città, vince. Ci sono cinque Cantori a New York (seconda a pari merito con Lux su Giapeto). Tokyo è in testa con sette. — È una festa con due Cantori?

— Più probabilmente quattro… se ci vado anch’io.

Ce ne sono quattro al gran ballo per l’insediamento del sindaco.

Inarcai doverosamente un sopracciglio.

— Debbo ricevere la Parola da Edna. Stanotte cambia.

— Bene — dissi io. — Non so che cosa hai in mente tu, ma ci sto. — Chiusi la valigetta.


Tornammo indietro verso Times Square. Quando arrivammo all’Ottava Strada e al primo plastiplex, Hawk si fermò. — Aspetta un momento — disse. Poi si abbottonò il giubbotto fino al collo. — Okay.

Passeggiare per le strade di New York in compagnia di un Cantore (due anni prima avevo passato molto tempo a chiedermi se era consigliabile per un uomo della mia professione) è probabilmente il miglior camuffamento possibile per un uomo della mia professione. Pensate all’ultima volta che avete intravisto il vostro divo preferito della Tri-D mentre svoltava l’angolo della Cinquantasettesima. Adesso siate sinceri. Riconoscereste davvero l’ometto dalla giacca di tweed, che camminava mezzo passo più indietro?

Metà di quelli che incontrammo in Times Square lo riconobbero. Così giovane, con l’abbigliamento funereo, i piedi neri e i capelli chiarissimi, era senza dubbio il più colorito dei Cantori. Sorrisi; occhi socchiusi; pochissimi, per la verità, l’indicavano a dito o lo fissavano a occhi sbarrati.

— Di preciso, chi ci sarà alla festa di questa sera, che possa levarmi questa roba dalle mani?

— Beh, Alexis si vanta di essere un po’ un avventuriero. Potrebbero colpirgli la fantasia. E lui può pagarteli più di quello che ci ricaveresti vendendoli per strada.

— Gli dirai che scottano?

— Probabilmente servirà a fargli apparire l’idea ancora più allettante. È un tipo che ama il brivido.

— Se lo dici tu, amico.

Scendemmo nella sottosotterranea. L’uomo del botteghino fece per prendere la moneta portagli da Hawk, poi alzò gli occhi. Cominciò a pronunciare due o tre parole rese incomprensibili dall’ampio sorriso, poi ci fece cenno di passare.

— Oh, grazie — disse Hawk, con tono d’ingenua sorpresa, come se fosse la prima volta che gli capitava una cosa tanto deliziosa. (Due anni prima mi aveva detto, in tono saggio: — Appena comincio ad avere l’aria di aspettarmelo, non succede più. — Ero ancora impressionato dal modo in cui portava la sua notorietà. La volta che avevo conosciuto Edna Silem, e vi avevo accennato, lei aveva detto, con la stessa aria ingenua: — Ma è per questo che siamo stati prescelti.)

Salimmo in carrozza, sedemmo sul lungo sedile; Hawk teneva le mani posate ai fianchi, un piede appoggiato sull’altro. Più in là, alcune masticatrici di goo, dalle vivaci camicette, ridacchiarono e additarono cercando di non far notare che lo facevano. Hawk non le guardò neppure, e io cercai di non far notare che le guardavo.

Chiazze scure passarono oltre il finestrino.

Qualcosa ronzò sotto il pavimento grigio.

Un sussulto.

Venimmo spinti in avanti; ci staccammo dal suolo.

Fuori, la città si stava provando i suoi mille lustrini, e poi li gettava via, dietro gli alberi di Fort Tryon. All’improvviso, i finestrini di fronte a noi divennero scaglie luminose, dietro le quali passavano le travature di una stazione. Scendemmo sul marciapiedi, sotto una pioggerella finissima. Il cartello diceva TWELVE TOWERS STATION.

Quando arrivammo sulla strada, però, la pioggia era cessata. Il fogliame, al di sopra del muro, spargeva acqua sui mattoni. — Se avessi saputo che avrei portato con me qualcuno avrei detto ad Alex di mandarci a prendere con una macchina. Gli avevo detto che ci sarei andato con cinquanta probabilità su cento.

— Sei sicuro che vada bene se mi accodo a te?

— Non sei già venuto qui con me un’altra volta?

— C’ero stato addirittura prima — dissi io. — Comunque credi che…

Mi lanciò un’occhiataccia. Beh, Spinnel sarebbe stato felice di avere Hawk alla festa, anche se si fosse trascinato dietro un’intera banda di teppisti… i Cantori sono speciali, per questo. Spinnel se la cavava a buon mercato, con un solo ladro più o meno presentabile. Intorno a noi, le rocce si dispersero verso la città. Dietro il cancello alla nostra sinistra, i giardini salivano verso la prima delle torri. I dodici immensi grattacieli di appartamenti di lusso minacciavano le nubi più basse.

— Hawk il Cantore — disse Hawk nel microfono a lato del cancello. Clang e tic-tic-tic e Clang. Percorremmo il sentiero, verso le porte di vetro.

Un gruppo d’uomini e donne in abito da sera stava uscendo in quel momento. Ci videro a tre porte di distanza. Li vedemmo aggrottare la fronte nello scorgere il teppista che si era infilato chissà come nell’atrio (per un momento pensai che una delle donne fosse Maud, perché portava una guaina di stoffa-che-sbiadisce, ma poi si voltò: sotto il velo, il suo volto era scuro come caffé tostato); poi uno degli uomini lo riconobbe, disse qualcosa agli altri. Quando c’incrociarono, sorridevano tutti. Hawk badò loro quanto aveva badato alle ragazze nella sotterranea. Ma quando furono passati, disse: — Uno di quei tipi ti guardava.

— Già. Ho visto.

— Sai perché?

— Cercava di ricordare se c’eravamo già incontrati.

— Ed è vero?

Annuii. — Proprio dove ho incontrato te, ma è stato quando ero uscito di galera. Te l’avevo detto che ero già stato qui una volta.

— Oh.

Un tappeto azzurro copriva tre quarti del pavimento dell’atrio. Una grande vasca riempiva il resto, e c’era una fila di tralicci alti quattro metri, coronati da bracieri fiammeggianti. L’atrio era alto tre piani, a cupola e rivestito di piastrelle a specchio.

Il fumo saliva in spire verso la griglia ornatissima. Sulle pareti, le immagini riflesse si spezzavano e si ricomponevano.

La porta dell’ascensore richiuse i petali intorno a noi. Ebbi la netta sensazione di non muovermi, mentre settantacinque piani sfilavano precipitosamente sotto di noi.

Uscimmo sul giardino pensile. Un uomo molto abbronzato, molto biondo, con un vestito color albicocca, dal cui colletto emergeva un maglione nero, scese dalle rocce (artificiali) tra le felci (vere) che crescevano lungo il ruscello (acqua vera; corrente fasulla).

— Salve! Salve! — Pausa. — Sono terribilmente felice che tu abbia deciso di venire, dopotutto. — Pausa. — Per un po’, ho temuto che non ce l’avresti fatta. — Le Pause avevano lo scopo di permettere a Hawk di presentarmi. Ero vestito in modo tale che Spinnel non poteva capire se ero un premio Nobel con cui Hawk era andato per caso a pranzo insieme, o un furfante dalle maniere e dalla morale ancora peggiori delle mie.

— Debbo toglierti il giubbotto? — si offrì Alexis.

Il che dimostrava che non conosceva bene Hawk come avrebbe voluto far credere alla gente. Ma penso che fosse abbastanza sensibile da capire, grazie alle espressioni fredde passate sul volto del ragazzo, che era meglio lasciar perdere l’offerta.

Mi rivolse un cenno, sorridendo — era più o meno tutto quel che poteva fare — e ci avviammo verso la folla degli invitati.

Edna Silem era seduta su un puff trasparente. Stava protesa in avanti, tenendo il bicchiere con tutte e due le mani, e discuteva di politica con la gente seduta sull’erba davanti a lei. Fu la prima persona che riconobbi (capelli d’argento brunito, voce di bronzo). Le mani grinzose che sporgevano dai polsini dell’abito di taglio maschile, e stringevano il bicchiere, tremando per l’intensità delle sue perorazioni, erano cariche di pietre e d’argento. Mentre volgevo di nuovo lo sguardo verso Hawk, vidi mezza dozzina di individui le cui facce e i cui nomi facevano vendere riviste e musica, facevano accorrere la gente a teatro (il critico del Delta, caso mai non lo sapeste), e c’era persino quel matematico di Princeton che, come avevo letto qualche mese prima, aveva trovato la spiegazione dei quasar-quark.

C’era una donna su cui il mio sguardo tornava continuamente a posarsi. Alla terza occhiata la riconobbi: era la candidata più promettente dei neofascisti alla Presidenza, Regina Abolafia. Teneva le braccia conserte e ascoltava intenta la discussione, ormai circoscritta a Edna e a un uomo più giovane, straordinariamente gregario, con gli occhi gonfi forse a causa del recente acquisto di un paio di lenti a contatto.

— Ma lei non pensa, Mrs. Silem, che…

— Deve ricordare, quando fa previsioni come questa…

— Mrs. Silem, secondo i miei dati statistici…

— Lei deve ricordare — la voce di Edna Silem si tese, si abbassò, finché il silenzio tra le parole risuonò espressivo e fondo quanto la voce era secca e metallica — che se si sapesse tutto, tutto, le stime statistiche sarebbero superflue. La scienza della probabilità dà un’espressione matematica alla nostra ignoranza, non alla nostra sapienza. — E io stavo pensando che quella era un’interessante, seconda puntata della conferenza di Maud, quando Edna alzò la testa ed esclamò: — Toh, Hawk!

Tutti si voltarono.

— Sono veramente felice di vederti. Lewis, Ann — chiamò lei; lì c’erano già altri due Cantori (lui scuro, lei pallida, entrambi snelli come alberi; i loro volti facevano pensare a laghetti senza affluenti né emissari incontrati nella foresta, limpidi e tranquilli; marito e moglie, erano stati nominati Cantori insieme, il giorno prima del matrimonio, sette anni prima). — Non ci ha abbandonati, dopotutto! — Edna si alzò, tese il braccio sopra le teste degli ascoltatori seduti, e abbaiò tra le nocche delle dita, come se la sua voce fosse una stecca da biliardo: — Hawk, qui c’è gente che discute con me e non ne sa neppure quanto te, sull’argomento. Tu saresti dalla mia parte, no…

— Mrs. Silem, non intendevo… — dal pubblico.

Poi le braccia di Edna si spostarono di sei gradi, le dita, gli occhi e la bocca si aprirono. — Tu! — Me. — Mio caro, sei proprio l’ultima persona al mondo che mi aspettavo di vedere qui! Ma sono quasi due anni, no? — Benedetta Edna: il posto dove io, lei e Hawk avevamo trascorso insieme una lunga serata piena di birra somigliava più a quel bar che al Tower Top. — Dove ti eri cacciato?

— Su Marte, soprattutto — ammisi. — Anzi, sono tornato proprio oggi. È così divertente poter dire cose simili in un posto come quello.

— Hawk… tutti e due… — (il che significava che lei aveva dimenticato il mio nome, o che mi ricordava troppo bene per abusarne). — Venite qui e aiutatemi a prosciugare gli ottimi liquori di Alexis. — Mi sforzai di non sogghignare mentre andavamo verso di lei. Se ricordava qualcosa, certamente rammentava la mia attività, e doveva essere divertita quanto me.

Un’espressione di sollievo si diffuse sul volto di Alexis: adesso sapeva che io ero qualcuno, anche se non sapeva che cos’ero.

Mentre passavamo davanti a Lewis e Ann, Hawk rivolse ai due cantori uno dei suoi sorrisi luminosi. Loro ricambiarono con sorrisi ombrati. Lewis fece un cenno del capo. Ann mosse una mano come per toccargli il braccio, ma non completò il gesto; e l’intera compagnia notò tutto quanto.

Poiché aveva scoperto quel che volevamo, Alex stava preparando grandi bicchieri con ghiaccio tritato, quando il gentiluomo dagli occhi gonfi si avvicinò per fare il bis. — Ma, Mrs. Silem, allora secondo lei che cosa si può opporre validamente a questi abusi politici?

Regina Abolafia portava un abito di seta bianca. Unghie, labbra e capelli erano tutti dello stesso colore; e sul seno aveva una spilla di rame lavorato. Mi ha sempre affascinato vedere spinti in disparte gli individui abituati a stare al centro dell’attenzione. Faceva roteare il liquido nel bicchiere e ascoltava.

— Io mi oppongo — disse Edna. — Hawk si oppone. Lewis e Ann si oppongono. In ultima analisi, noi siamo tutto ciò su cui potete contare. — E la sua voce aveva assunto quella risonanza autorevole che solo i Cantori sanno darsi.

Poi la risata di Hawk s’insinuò serpeggiando nel tessuto della conversazione.

Ci voltammo.

Si era seduto a gambe incrociate accanto alla siepe. — Guardate… — sussurrò.

Gli sguardi di tutti seguirono il suo. Stava fissando Lewis e Ann. Lei, alta e bionda, lui, bruno e più alto ancora, stavano ritti, in silenzio, un po’ nervosamente, a occhi chiusi. (Le labbra di Lewis erano socchiuse.)

— Oh — bisbigliò qualcuno che avrebbe fatto meglio a star zitto — stanno per…

Guardai Hawk, perché non avevo mai avuto occasione di osservare un Cantore mentre assisteva all’esibizione di un altro. Unì le piante dei piedi, si strinse le dita tra le mani e si sporse in avanti, mentre le vene formavano fiumi azzurri sul suo collo. Il primo bottone del giubbotto si era slacciato. Sulla clavicola si vedevano le estremità di due cicatrici. Forse fui il solo ad accorgermene.

Vide Edna posare il bicchiere con un’aria raggiante d’orgoglio e d’anticipazione. Alex, che aveva premuto il pulsante dell’autobar (strano come l’automazione sia diventata il mezzo con cui le classi più elevate ostentano il surplus di manodopera) per farsi fornire altro ghiaccio tritato, si accorse di quel che stava per avvenire, e spinse un altro pulsante per spegnerlo. L’autobar ronzò e tacque. Una brezza (artificiale o reale, non saprei) prese a spirare, e gli alberi ci intimarono un ultimo “sttt!”.

Uno alla volta, poi in duetto, poi di nuovo uno alla volta, Lewis e Ann cantarono.


I Cantori sono individui che guardano le cose, poi vanno a dire alla gente che cos’hanno visto. A farli Cantori è la loro capacità di indurre la gente ad ascoltare. Questa è la miglior spiegazione semplificata che io sia in grado di darvi. L’ottantaseienne El Posado, a Rio de Janeiro, vide crollare un intero isolato di caseggiati, corse all’Avenida del Sol e cominciò a improvvisare, in metro e in rima (non molto difficile, dato che il portoghese è ricco di rime), con le lacrime che gli scorrevano sulle guance impolverate, con la voce che echeggiava tra le palme nella strada assolata. Centinaia di persone si fermarono ad ascoltare; e poi altre cento; e altre cento. E poi dissero ad altre centinaia di persone quello che avevano udito. Tre ore dopo, centinaia di loro erano arrivate sulla scena del disastro portando coperte, viveri, danaro, badili, e cosa anche più incredibile, la disponibilità e la capacità di organizzarsi e di lavorare nell’ambito dell’organizzazione. Nessun servizio tridivisivo di un disastro aveva mai prodotto una reazione simile. Storicamente, El Posado è considerato il primo Cantore. La seconda fu Miriamne, nella città di Lux, racchiusa nella cupola: per trent’anni si aggirò per le strade di metallo cantando gli splendori degli anelli di Saturno: i coloni non possono guardarli, senza ricorrere a mezzi artificiali, perché irradiano troppa luce ultravioletta. Ma Miriamne, con le sue cataratte anomale, a ogni alba andava al limitare della città, guardava, vedeva e tornava per cantare quello che aveva veduto. E tutto questo non avrebbe significato nulla: ma i giorni in cui non cantava — perché era malata o perché si era recata a visitare un’altra città dove era giunta la sua fama — la Borsa di Lux scendeva, e saliva il numero dei reati di violenza. Nessuno sapeva spiegarlo. Tutto quel che potevano fare era proclamarla Cantatrice. Perché era nata l’istituzione dei Cantori, scaturita spontaneamente in quasi tutti i centri urbani del sistema? Alcuni hanno avanzato l’ipotesi che fosse una reazione spontanea ai mass-media che soffocano le nostre esistenze. Sebbene la Tri-D e la radio e i newstape spargano le informazioni in tutti i mondi, diffondono anche un senso di alienazione dall’esperienza diretta. (Quanti vanno ancora alle manifestazioni sportive o ai comizi politici con le loro piccole riceventi infilate nell’orecchio, per capire che quel che vedono sta accadendo davvero?) I primi Cantori furono proclamati tali dalla gente che stava loro attorno. Poi vi fu un periodo in cui chiunque poteva proclamare di essere quel che preferiva, e la gente rispondeva, oppure rideva e si dimenticava di lui. Ma al tempo in cui io ero stato abbandonato davanti alla porta di qualcuno che non mi voleva, quasi tutte le città, ormai, avevano più o meno stabilito una quota ufficiosa. Oggi, quando un posto rimane vacante, gli altri Cantori scelgono chi deve occuparlo. Le doti richieste sono poetiche e teatrali, e occorre anche un certo carisma, generato dalle tensioni tra la personalità e la rete di pubblicità in cui un Cantore si trova immediatamente impigliato. Prima di diventare Cantore, Hawk aveva acquisito una reputazione prodigiosa con un libro di poesie pubblicate a quindici anni. Faceva il giro delle università e teneva letture, ma la sua fama era ancora abbastanza modesta perché si stupisse nell’apprendere che avevo sentito parlare di lui, la sera in cui ci incontrammo in Central Park (avevo appena terminato di trascorrere trenta giorni piacevoli come ospite della città, e c’è da stupirsi di quel che si trova nella Biblioteca del carcere). Aveva compiuto i sedici anni da poche settimane. Solo tra quattro giorni sarebbe stata annunciata la sua elezione a Cantore, sebbene lui ne fosse stato già informato. Restammo seduti in riva al lago fino all’alba, mentre lui soppesava e ponderava l’imminente responsabilità, e se ne tormentava. Due anni dopo, era ancora il Cantore più giovane di sei mondi: gli altri avevano almeno sei anni più di lui. Per diventare un Cantore, non è necessario essere stato un poeta: ma quasi tutti sono stati poeti o attori. Comunque l’elenco generale, in tutto il sistema, include uno scaricatore di porto, due professori universitari, l’ereditiera dei milioni della Silitax (produttrice delle famose puntine da disegno) e almeno due persone dai precedenti così dubbi che persino la Macchina Pubblicitaria, sempre avida di notizie sensazionali, aveva riconosciuto che non era il caso di renderli pubblici. Ma qualunque fossero le loro origini, questi variegati e fiammeggianti miti viventi cantavano l’amore, la morte, il mutare delle stagioni, le classi sociali, i governi e la guardia di palazzo. Cantavano davanti a folle immense, a piccoli gruppi, a un manovale che tornava a casa dal porto, agli angoli delle strade dei quartieri più miserabili, sui treni dei pendolari, negli eleganti giardini pensili delle Twelve Towers, alla serata esclusiva di Alex Spinnel. Tuttavia, è vietato riprodurre i «Canti» dei Cantori con mezzi meccanici (è proibito persino stampare le liriche) fin da quando l’istituzione è sorta, e io rispetto la legge, sicuro, per quanto può farlo un uomo della mia professione. Perciò offro questa spiegazione al posto del canto di Lewis e Ann.


Loro finirono, aprirono gli occhi, si guardarono intorno con espressioni che potevano essere d’imbarazzo come potevano essere di disprezzo.

Hawk stava proteso verso di loro, con un’aria d’approvazione estatica. Edna sorrideva educatamente. Io avevo sulla faccia il tipo di sogghigno che si schiude quando sei immensamente commosso e immensamente soddisfatto. Lewis e Ann avevano cantato in modo superbo.

Alex riprese a respirare, si guardò in giro per constatare in che stato erano tutti gli altri, vide, e premette il pulsante dell’autobar, che cominciò a ronzare e a tritare ghiaccio. Niente applausi, ma incominciarono le manifestazioni sonore dell’apprezzamento: la gente annuiva, commentava,.bisbigliava. Regina Abolafia si avvicinò a Lewis per dire qualcosa. Io cercai di ascoltare, fino a quando Alex mi spinse un bicchiere contro il gomito.

— Oh, chiedo scusa…

Trasferii la mia valigetta nell’altra mano e accettai il bicchiere con un sorriso. Quando la Regina Abolafia lasciò i due Cantori, quelli si tenevano per mano e si guardavano con aria un po’ intimidita. Poi tornarono a sedersi.

Gli invitati si sparsero in piccoli gruppi nel giardino, tra i boschetti. In cielo, nubi color camoscio si spiegavano e si ripiegavano davanti alla luna.

Per un po’ rimasi solo entro una cerchia d’alberi, ascoltando la musica: un canone in due parti di Orlando da Lasso, programmato per audiogeneratori. Ricordai: un articolo comparso su una delle riviste letterarie a più alta tiratura, la settimana prima, affermava che quello era l’unico modo per eliminare la sensazione delle battute imposte da cinque secoli di metrica ai musicisti moderni. Per due settimane ancora, sarebbe stato uno svago accettabile. Gli alberi cingevano un laghetto tra le rocce: ma non c’era acqua. Sotto la superficie di plastica, luci astratte intessevano una mutevole luminaria.

— Mi scusi…?

Mi voltai e vidi Alexis, che adesso non aveva un bicchiere e non sapeva come tenere le mani. Era veramente nervoso.

— …ma il nostro giovane amico mi ha detto che lei ha qualcosa che potrebbe interessarmi.

Feci per sollevare la mia valigetta, ma la mano di Alex scese dall’orecchio (era già passata dalla cintura ai capelli al colletto) per trattenermi. Nouveau riche.

— Sta bene. Non occorre che li veda adesso. Anzi, preferirei di no. Ho una proposta da farle. Mi interesseranno senz’altro, se sono come Hawk li ha descritti. Ma ho qui un ospite che sarebbe ancora più curioso.

Mi sembrava strano.

— Lo so che sembra strano — dichiarò Alexis — ma pensavo che le potesse interessare dal punto di vista finanziario. Io sono un collezionista eccentrico che le offrirebbe un prezzo in armonia con quel che potrei farmene: usarli come eccentrici argomenti di conversazione… e data la natura dell’acquisto sarei costretto a limitare decisamente il numero delle persone con cui potrei parlarne.

Annuii.

— Il mio ospite, invece, potrebbe usarli in ben altro modo.

— Può dirmi chi è questo ospite?

— Mi sono deciso a chiedere a Hawk chi era lei, e mi ha fatto capire che stavo per commettere una grave mancanza di galateo. Sarebbe altrettanto scorretto rivelarle il nome del mio ospite. — Sorrise. — Ma l’indiscrezione è il principale carburante che fa funzionare la macchina sociale, Mr. Harvey Cadwaliter-Erickson… — E sorrise con aria saputa.

Io non sono mai stato Harvey Cadwaliter-Erickson, ma già, Hawk è un ragazzo pieno di fantasia. Poi mi passò per la testa un secondo pensiero, e cioè, i Cadwaliter-Erickson, i magnati del tungsteno di Tythis, su Tritone. Hawk non era soltanto fantasioso, era geniale proprio come lo presentavano tutte le riviste e tutti i giornali.

— Immagino che la sua seconda indiscrezione sarà dirmi chi è questo ospite misterioso.

— Ecco — disse Alex, con il sorriso di un gatto ingrassato a canarini — Hawk è d’accordo con me nel ritenere che The Hawk sarebbe curioso di vedere quello che lei tiene lì dentro — indicando. — E infatti lo è.

Aggrottai la fronte. Poi pensai una quantità di piccoli, rapidi pensieri che esprimerò a tempo debito. — The Hawk?

Alex annuì.

Non credo di aver fatto smorfie troppo vistose. — Le spiacerebbe mandare qui per un momento il nostro giovane amico?

— Se vuole. — Alex s’inchinò, se ne andò. Dopo circa un minuto, Hawk arrivò scavalcando le rocce e passando tra gli alberi, sogghignante. Quando vide che non ricambiavo il sogghigno, si fermò.

— Uhmmm… — cominciai io.

Lui inclinò la testa.

Mi grattai il mento con le nocche delle dita. — … Hawk — dissi — sai niente di un dipartimento della polizia chiamato Servizio Speciale?

— Ne ho sentito parlare.

— Di colpo, quelli si stanno interessando parecchio a me.

— Cribbio — fece lui, con sincero stupore. — Dicono che siano efficienti.

— Uhmmm — ripetei.

— Senti — annunciò Hawk. — Ti piace l’idea? Stasera c’è qui il mio omonimo. Chi l’avrebbe mai detto.

— Alex non manca mai un colpo. Hai idea del perché è qui?

— Probabilmente cerca di mettersi d’accordo con l’Abolafia. La sua inchiesta comincia domani.

— Oh. — Ripensai ad alcune delle cose che avevo pensato prima. — Conosci una certa Maud Hinkle?

Il suo sguardo perplesso disse un “no” molto convincente.

— Si presenta come uno degli alti papaveri dell’arcana organizzazione di cui ti ho parlato.

— Davvero?

— Questa sera ha concluso il nostro colloquio con una piccola omelia sui falchi e sugli elicotteri. Ho considerato il nostro successivo incontro come una pura e semplice coincidenza. Ma adesso scopro che la serata ha confermato il significato del plurale. Due Hawk: due falchi. — Scossi il capo. — Hawk, mi trovo catapultato all’improvviso in un mondo paranoide in cui i muri non solo hanno orecchie, ma hanno probabilmente anche occhi, e lunghe dita unghiute. Chiunque mi sta attorno, sì, anche tu, anche tu, potrebbe rivelarsi una spia. Sospetto che ogni tombino e ogni finestra del primo piano nascondano un binocolo, un mitra o peggio. Perché proprio non riesco a capire in che modo queste forze insidiose, sebbene onnipresenti, ti abbiano spinto ad attirarmi in questo complicato e diabolico…

— Oh, piantala! — Lui si ributtò i capelli all’indietro. — Io non ti ho attirato…

— Consciamente no, forse, ma il Servizio Speciale ha l’Archivio Informazioni a Ologrammi, e metodi insidiosi e crudeli…

— Ti ho detto di piantarla. — E sul suo volto passarono di nuovo piccole espressioni dure d’ogni genere. — Credi che… — Poi, credo, si rese conto che ero spaventatissimo. — Senti, The Hawk non è un tagliaborse da quattro soldi. Vive in un mondo paranoide quanto lo è adesso il tuo, ma lui ci vive sempre. Se è qui, puoi star certo che i suoi uomini, occhi e orecchie e dita, sono numerosi quanto quelli di Maud Hickenlooper.

— Hinkle.

— Comunque, funziona in entrambe le direzioni. Nessun Cantore… Ehi, senti, davvero credi che io…

E sebbene sapessi che tutte quelle piccole espressioni dure erano crosticine sulla sofferenza, dissi: — Sì.

— Una volta tu hai fatto qualcosa per me, e io…

— Ti ho lasciato qualche cicatrice in più. Ecco tutto.

— Tutte le crosticine si staccarono.

— Hawk — dissi. — Fammi vedere.

Lui trasse un profondo respiro. Poi cominciò a slacciare i bottoni d’ottone. Le falde del giubbotto si aprirono. La luminaria gli colorò il petto di riflessi pastello.

Mi sentii raggrinzire la faccia. Non volevo distogliere lo sguardo. Trassi un respiro sibilante, invece, e forse era anche peggio.

Lui alzò la testa. — Ce ne sono molte di più di quando sei stato qui l’ultima volta, vero?

— Tu ti ucciderai, Hawk.

Scrollò le spalle.

— Non riesco neppure a capire quali sono quelle che ho fatto io.

Lui cominciò a indicarle.

— Oh, andiamo — dissi io, troppo bruscamente. E per la durata di tre respiri, lui divenne sempre più impacciato, fino a quando vidi che allungava le mani verso l’ultimo bottone. — Ragazzo — dissi, cercando di escludere la disperazione dalla voce — perché lo fai? — E finii per tenere fuori proprio tutto, e non c’è niente di più disperato d’una voce vuota.

Lui scrollò le spalle, capì che non era questo che volevo, e per un attimo la collera gli guizzò negli occhi verdi. Non volevo neppure quello. Perciò disse: — Senti… tu tocchi una persona, dolcemente, delicatamente, magari addirittura con amore. E beh, credo che un’informazione pervenga al cervello, dove qualcosa l’interpreta come piacere. Forse qualcosa, dentro la mia testa, interpreta male l’informazione.

Scossi il capo. — Tu sei un Cantore. Si sa che i Cantori sono eccentrici, sicuro; ma…

Adesso fu lui a scuotere il capo. Poi la rabbia si rivelò. E io vidi un’espressione salire da tutti quei punti che avevano comunicato la sofferenza al resto dei suoi lineamenti, e svanire senza neppure trasformarsi in una parola. Ancora una volta, abbassò lo sguardo sulle ferite che avvolgevano il suo corpo esile in una sorta di rete.

— Abbottonati, ragazzo. Mi dispiace di aver parlato.

Le sue mani si fermarono a metà strada dal bavero. — Pensi davvero che potrei tradirti?

— Abbottonati.

Obbedì. Poi disse: — Oh. — E poi: — Sai, è mezzanotte.

— Edna mi ha appena comunicato la Parola.

— Ed è?

— Agata.

Annuii.

Finì di abbottonarsi il colletto. — A cosa stai pensando?

— Alle vacche.

— Alle vacche? — chiese Hawk. — Perché?

— Sei mai stato in un allevamento di vacche da latte?

Lui scosse il capo.

— Per ottenere più latte, tengono praticamente le vacche in animazione sospesa. Le nutrono per fleboclisi con un grande serbatoio che fa scorrere le sostanze nutrienti in tubi sempre più piccoli, fino a che arriva a quei semicadaveri ad alta resa lattifera.

— Ho visto le fotografie.

— La gente.

— …e le vacche?

— Tu mi hai dato la Parola. E adesso comincia a scendere nell’imbuto, a diramarsi, mentre io la dico ad altri, e quelli la dicono ad altri ancora, fino a che, alla mezzanotte di domani…

— Vado a prendere il…

— Hawk?

Si voltò. — Cosa?

— Tu dici di non credere che io sarò la vittima di uno scontro con le forze misteriose che ne sanno più di noi. Okay. Ma appena mi sarò sbarazzato di questa roba, farò l’uscita più straziante che tu abbia mai visto.

Due minuscole rughe s’incisero sulla fronte di Hawk. — Sei sicuro che questo io non l’abbia già visto?

— Per la verità, credo che l’abbia già visto. — Sogghignavo, adesso.

— Oh — disse Hawk, poi emise un suono che aveva la struttura di una risata, ma era tutto respiro. — Vado a prendere The Hawk.

Sparì fra gli alberi.

Alzai gli occhi verso le losanghe di chiaro di luna tra le foglie.

Abbassai gli occhi sulla mia valigetta.

Tra le rocce, girando intorno all’erba alta, venne The Hawk. Portava un abito da sera grigio, un maglione di seta grigia, con il collo a tartaruga. La faccia era dura, la testa completamente rasata.

— Mr. Cadwaliter-Erickson? — Mi tese la mano.

Gliela strinsi: ossa minute e aguzze nella pelle floscia. — Debbo chiamarla Mr…?

— Arty.

— Arty The Hawk. — Cercai di non far capire che stavo scrutando il suo abbigliamento grigio.

Lui sorrise. — Arty il Falco. Già. Scelsi il nome quando ero più giovane del nostro amico laggiù. Alex ha detto che lei ha… ecco, alcune cose che non sono esattamente sue. Che non le appartengono.

Annuii.

— Me le mostri.

— Le hanno detto cosa…

Non mi lasciò finire la frase. — Su, mi faccia vedere.

Allungò la mano, sorridendo affabilmente come un impiegato di banca. Passai i pollici intorno alla chiusura a pressione. Il coperchio fece tsk. — Mi dica — dissi, guardandogli la testa che aveva chinato per vedere il contenuto della valigetta — cosa si può fare con il Servizio Speciale? Sembra che mi stiano dietro, quelli.

La testa si rialzò di scatto. Lo stupore si trasformò lentamente in un’espressione maliziosa. — Oh, Mr. Cadwaliter-Erickson! — Mi squadrò apertamente. — Mantenga regolare il suo reddito. Lo mantenga regolare, è l’unica cosa che può fare.

— Sarà un po’ difficile, se lei compra questa roba per un prezzo abbastanza vicino al valore effettivo.

— Lo immagino. Potrei sempre pagarla meno…

Il coperchio fece di nuovo tsk.

— …oppure, escludendo questo, potrebbe cercare di usare il cervello e di dimostrarsi più furbo di loro.

— Lei deve essersi dimostrato più furbo di loro, una volta o l’altra. Adesso può trovarsi in una situazione invariabile, ma avrà dovuto arrivarci da un gradino più basso.

Il cenno del capo di Arty The Hawk fu apertamente furbesco. — Credo che lei abbia avuto un piacevole incontro con Maud. Beh, ritengo sia il caso di farle le mie congratulazioni. E le mie condoglianze. Mi piace fare ciò che è doveroso.

— Sembra che lei sappia badare a se stesso. Voglio dire, ho notato che non si è mescolato agli altri ospiti.

— Questa sera, qui, si svolgono due feste — disse Arty. — Dove crede che vada Alex, quando sparisce ogni cinque minuti?

Aggrottai la fronte.

— Quella luminaria, lì tra le rocce — disse lui, indicando i miei piedi — è un mandala di sfumature mutevoli sul nostro soffitto. Alex — aggiunse ridacchiando — scappa sotto le rocce, dove c’è un padiglione di splendore orientale…

— E un elenco distinto degli ospiti sulla porta?

— Regina figura su entrambi gli elenchi. E anch’io. E il ragazzo, Edna, Lewis, Ann…

— E io sono autorizzato a sapere tutto questo?

— Beh, lei è venuto con una persona iscritta a entrambi gli elenchi. Pensavo… — S’interruppe.

Mi stavo comportando in modo sbagliato. Beh. Un artista del trasformismo impara presto che il fattore di verosimiglianza nell’imitare qualcuno più in su è la certezza del suo inalienabile diritto di sbagliare. — Le dirò — feci. — Le andrebbe di scambiare questi — e alzai la valigetta — con qualche informazione?

— Lei vuol sapere come dovrà fare per tenersi fuori dalle grinfie di Maud? — Dopo un istante scrollò il capo. — Sarei molto stupido se glielo dicessi, anche ammesso che potessi farlo. Inoltre, può sempre ripiegare sul patrimonio di famiglia. — Si batté il pollice sullo sparato della camicia. — Mi creda, ragazzo mio. Arty The Hawk non lo ha. Non ho niente del genere. Si infilò le mani in tasca. — Vediamo la roba.

Riaprii la valigetta.

The Hawk guardò per un po’. Dopo qualche istante, prese un paio di oggetti, li rigirò, li rimise giù, infilò di nuovo le mani in tasca. — Le offro sessantamila, in tavolette di credito approvate.

— E l’informazione che volevo?

— Non le direi niente. — Sorrise. — Non le direi neppure che ora è.

Vi sono pochissimi ladri di successo, su questo mondo. Ve ne sono meno ancora sugli altri cinque. La volontà di rubare è un impulso verso l’assurdo e l’insipido. (I talenti sono poetici, teatrali, hanno una specie di carisma inverso…) Ma è una volontà, come la volontà d’ordine, di potenza, d’amore.

— Sta bene — dissi.

Da qualche parte, lassù, udii un ronzio sommesso.

Arty mi guardò affettuosamente. Si frugò sotto il bavero della giacca e tirò fuori una manciata di tavolette di credito… quelle con la fascia scarlatta erano da diecimila. Ne tirò fuori una. Due. Tre. Quattro.

— Può depositarle senza pericolo…

— Perché pensa che Maud mi stia dietro?

Cinque. Sei.

— Benissimo — dissi io.

— Mi lascia anche la valigetta? — chiese Arty.

— Chieda un sacchetto di carta ad Alex. Se vuole, posso mandarglieli…

— Dia qui.

Il ronzio si stava facendo più vicino.

Alzai la valigetta aperta. Arty vi pescò con tutt’e due le mani. Si cacciò la roba nelle tasche della giacca, nelle tasche dei calzoni: la stoffa grigia sporgeva ad angoli rigonfi. Si guardò a sinistra e a destra. — Grazie — disse. — Grazie. — Poi si voltò, e si affrettò a scendere dal pendio, con le tasche piene di una quantità di cose che adesso non erano sue.

Guardai su, tra il fogliame, per vedere la sorgente di quel rumore, ma non scorsi niente.

Mi chinai e aprii la valigetta. Aprii il compartimento dove tenevo le cose che appartenevano a me, e frugai in fretta.


Alex stava offrendo un altro scotch a Occhi Gonfi, e questi diceva: — Qualcuno ha visto Mrs. Silem? Cos’è quel ronzio…? — quando un donnone avviluppato in un velo di stoffa-che-sbiadisce arrivò vacillante e urlante tra le rocce.

Si copriva con le mani il volto velato.

Alex si spruzzò un po’ di soda sulla manica e l’uomo disse: — O mio Dio! Chi è quella?

— No! — strillò la donna. — Oh, no! Aiutatemi! — E agitava le dita grinzose, scintillanti di anelli.

— Non la riconosce? — Era Hawk che bisbigliava confidenzialmente a qualcun altro: — È Henrietta, la contessa di Effingham.

E Alex, che l’aveva sentito, si precipitò ad aiutarla. La contessa, però, si infilò fra due cactus, e sparì tra l’erba alta. Ma tutti gli invitati la seguirono. Stavano frugando invano tra i cespugli quando un gentiluomo quasi calvo, in smoking nero, cravatta a farfalla e fascia, tossì e disse, in tono molto preoccupato: — Mi scusi, Mr. Spinnel.

Alex si voltò di scatto.

— Mr. Spinnel, mia madre…

— Chi è lei? — Quell’interruzione aveva sconvolto terribilmente Alex.

Il gentiluomo s’impettì e annunciò: — L’onorevole Clement Effingham. — E i suoi pantaloni vibrarono, come se lui si accingesse a sbattere i tacchi. Ma non riusciva a parlare. L’espressione si dileguava dal suo volto. — Oh, io… mia madre, Mr. Spinnel. Eravamo giù, all’altra sua festa, quando mia madre è apparsa all’improvviso molto turbata. È corsa qui… oh, le ho detto di non farlo! Sapevo che a lei sarebbe dispiaciuto. Ma deve aiutarmi! — E poi guardò in su.

Guardarono in su anche gli altri.

L’elicottero oscurava la luna, sotto gli indistinti parasoli gemelli.

— Oh, per favore… — disse il gentiluomo. — Andate a vedere! Forse mia madre è tornata giù. Devo — guardando rapidamente di qua e di là — ritrovarla. — Si precipitò in una direzione, mentre tutti gli altri si precipitarono altrove.

Il ronzio venne improvvisamente sincopato da uno schianto. Un ruggito, mentre i frammenti della plastica del tetto trasparente piovevano tra i rami, tintinnavano sulle rocce…


Riuscii a infilarmi in un ascensore: avevo già premuto il pollice sul bordo della mia valigetta, quando Hawk si lanciò in tuffo tra gli sportelli. La cellula fotoelettrica cominciò a riaprirli. Battei il pugno sul pulsante CHIUSURA PORTA.

Il ragazzo barcollò, sbatté con le spalle contro due pareti, poi recuperò il fiato e l’equilibrio. — Ehi, dall’elicottero scendono i poliziotti!

— Scelti personalmente da Maud Hinkle, senza dubbio. — Mi strappai dalla tempia l’altro ciuffetto di capelli bianchi. Lo misi nella valigia, sopra i guanti di plastiderma (grosse vene azzurre grinzose, lunghe unghie color corniola) che erano state le mani di Henrietta, e che stavano ripiegati sul sari di chiffon.

Poi ci fu il sussulto della fermata. L’onorevole Clement era ancora per metà sulla mia faccia quando la porta si aprì.

Grigio e grigio, con un’espressione assolutamente avvilita sul volto, The Hawk s’infilò tra gli sportelli. Dietro di lui, gli invitati ballavano in un padiglione ornato con magnificenza orientale (e sul soffitto c’era un mandala dalle sfumature mutevoli). Arty mi batté e premette CHIUSURA PORTA. Poi mi diede un’occhiata strana.

Mi limitai a sospirare e finii di togliermi Clem dalla faccia.

— Su ci sono i poliziotti? — chiese The Hawk.

— Arty — dissi io, affibbiandomi i calzoni — sembra proprio di sì. — La cabina acquistò velocità. — Mi sembra sconvolto quanto Alex. — Mi sfilai la giacca dello smoking, rivoltando le maniche, liberai un polso e strappai via lo sparato bianco inamidato con la cravatta nera a farfalla e lo cacciai nella valigetta insieme al resto; rivoltai la giacca, e mi infilai nello spinato grigio di Howard Calvin Evingston. Howard (come Hank) ha i capelli rossi (ma meno ricciuti).

The Hawk inarcò le sopracciglia pelate, quando mi tolsi la calvizie di Clement e scossi i capelli.

— Ho notato che non porta più nelle tasche quella roba ingombrante.

— Oh, è già stata sistemata — disse lui, burberamente. — È tutto a posto.

— Arty — dissi io, adattando la voce al tono baritonale, ingenuo di Howard, fatto apposta per destare fiducia — deve essere la mia inveterata presunzione a farmi credere che quei poliziotti del Servizio Regolare sono venuti qui apposta per me…

The Hawk ringhiò. — Non avrebbero pianto se avessero pescato anche me.

E dal suo angolo, Hawk domandò: — Hai il Servizio di Sicurezza qui con te, vero, Arty?

— E con questo?

— C’è un solo modo perché tu possa venirne fuori — mi sibilò Hawk.

Il giubbotto si era aperto per metà, sul suo petto devastato. — Se Arty ti porta fuori insieme a lui.

— Idea geniale — conclusi io. — Vuole che le renda un paio di tavolette da mille in cambio del servigio?

L’idea non lo divertiva. — Non voglio niente da lei. — Si rivolse a Hawk. — Voglio qualcosa da te, figliolo. Non da lui. Vedi, non ero preparato ad affrontare Maud. Se vuoi che tiri fuori il tuo amico, devi fare qualcosa per me.

Il ragazzo lo guardò confuso.

Mi parve di vedere soddisfazione sul volto di Arty, ma l’espressione divenne preoccupata. — Devi trovare un modo per riempire l’atrio di gente, e in fretta.

Stavo per chiedere perché, ma non conoscevo l’entità del Servizio di Sicurezza di Arty. Stavo per chiedere come, ma il pavimento mi premette contro i piedi e le porte si aprirono. — Se non ci riesci — ringhiò The Hawk a Hawk — nessuno di noi uscirà di qui. Nessuno di noi!

Non avevo idea di quello che avrebbe fatto il ragazzo, ma quando accennai a seguirlo nell’atrio, The Hawk mi abbrancò il braccio e sibilò: — Resti qui, idiota!

Tornai indietro. Arty teneva premuto il pulsante APERTURA PORTA.

Hawk corse verso la vasca. Si buttò dentro, diguazzando.

Raggiunse i bracieri sui tripodi alti quattro metri e cominciò ad arrampicarsi.

— Si farà del male! — bisbigliò The Hawk.

— Già — dissi io, ma non credo che lui afferrasse il mio cinismo. Sotto la grande conca di fuoco, Hawk stava armeggiando. Poi qualcosa si staccò. Qualcosa d’altro fece Clang! E qualcosa d’altro ancora fiottò attraverso l’acqua. Il fuoco corse e arrivò alla vasca, turbinando e ruggendo come l’inferno.

Una freccia nera con la testa d’oro: Hawk si tuffò.

Mi morsi l’interno delle guance, mentre suonava l’allarme. Quattro individui accorsero attraverso il tappeto azzurro. Un altro gruppo arrivava dall’altra direzione, vide le fiamme, e una delle donne urlò. Esalai il fiato, pensando che il tappeto e le pareti e il soffitto dovevano essere incombustibili. Ma continuavo a dimenticare quell’idea, davanti a quei venti metri infernali.

Hawk emerse al bordo della vasca nell’unico posto rimasto sgombro, si rotolò sul tappeto, stringendosi la faccia. E rotolò. E rotolò. Poi si alzò in piedi.

Un altro ascensore vomitò un carico di passeggeri che spalancarono la bocca e lanciarono grida soffocate. Dalla porta entrò un gruppo d’uomini con l’equipaggiamento antincendio. L’allarme continuava a suonare.

Hawk si voltò a guardare la dozzina di persone raccolte nell’atrio. L’acqua che gli sgocciolava dai calzoni fradici e lucidi formava una pozza sul tappeto. Le fiamme trasformavano in rame e sangue le gocce sulle sue guance.

Batté i pugni sulle cosce bagnate, trasse un profondo respiro, e tra i ruggiti e gli squilli e i mormorii, Cantò.

Due persone rientrarono in due ascensori. Da una porta uscirono cinque o sei persone. Gli ascensori ritornarono dopo mezzo minuto con una dozzina di persone ciascuno. Compresi che in tutto il grattacielo si andava spargendo l’annuncio che un Cantore Cantava nell’atrio.

L’atrio si riempì. Le fiamme ringhiavano, i vigili del fuoco si davano da fare, e Hawk, piantato a gambe larghe sul tappeto azzurro, accanto alla vasca in fiamme, Cantava, e Cantava di un bar dalle parti di Times Square, pieno di ladri, di morphadinomani, di attaccabrighe, di ubriaconi, di donne troppo vecchie per vendere quello che ancora offrivano, dove, quella sera, era scoppiata una rissa, e un vecchio era stato ridotto in fin di vita.

Arty mi tirò per la manica.

— Cosa…?

— Andiamo — sibilò lui.

La porta dell’ascensore si chiuse dietro di noi.

Passammo tra gli ascoltatori attenti, soffermandoci per osservare, soffermandoci per udire. Non saprei rendere giustizia a Hawk, veramente. Per quasi tutto quel lento transito, continuai a chiedermi che specie di servizio di sicurezza aveva Arty.

Mentre mi fermavo dietro due coniugi in accappatoio che socchiudevano gli occhi in quel gran caldo, decisi che era tutto molto semplice. Arty voleva semplicemente passare inosservato in mezzo alla folla, perciò aveva indotto Hawk a radunargliela.

Per arrivare alla porta dovevamo passare praticamente in mezzo a un cordone di poliziotti del Servizio Regolare, che non credo avessero nulla a che vedere con quanto stava succedendo nel giardino pensile: erano solo accorsi per vedere l’incendio, ed erano rimasti ad ascoltare il Canto. Quando Arty batté la mano sulla spalla di uno di loro — Mi scusi — per passare, il poliziotto lo guardò, distolse lo sguardo, poi si rigirò come un personaggio di una comica di Mack Sennet. Ma un altro poliziotto notò la scena, e toccò il braccio del primo, scuotendo freneticamente la testa. Poi entrambi si voltarono di nuovo a guardare il Cantore: Mentre il terremoto che avevo in petto si acquietava, decisi che la rete di sicurezza di The Hawk, con agenti e controagenti, manovranti nell’atrio fiammeggiante, doveva essere così fine e intricata che cercare di capirla avrebbe significato condannarsi alla paranoia totale.

Arty aprì l’ultima porta.

Uscii dall’aria condizionata, nella notte.

Scendemmo in fretta la rampa.

— Ehi, Arty…?

— Lei vada da quella parte. — Indicò la strada. — Io vado da questa.

— Eh… e di lì dove si va? — Indicai nella mia direzione.

— La stazione della subsottosotterranea delle Twelve Towers. Senta. Io l’ho tirata fuori. Mi creda, per il momento è al sicuro. Adesso prenda un treno e vada in qualche posto interessante. Addio. Vada. — Poi Arty The Hawk si infilò i pugni in tasca e si allontanò in fretta.

Cominciai a scendere, tenendomi rasente il muro, aspettandomi che qualcuno mi tirasse un dardo con la cerbottana da un’auto in corsa, o mi sparasse un raggio della morte dagli arbusti.

Raggiunsi la stazione.

E non era ancora accaduto nulla.

Agata lasciò il posto a Malachite:

Tormalina:

Berillo (e quel mese compii i ventisei anni):

Porfido:

Zaffiro (quel mese presi i diecimila che non avevo sperperato e li investii in The Glacier, una supergelateria perfettamente legale su Tritone — la prima e unica supergelateria di Tritone — che decollò come un razzo: tutti gli investitori ci guadagnarono l’ottocento per cento, senza scherzi. Due settimane dopo avevo perso metà del guadagno in un’altra serie di assurde attività illegali, e mi sentivo molto depresso, ma The Glacier continuava a rendere bene. Arrivò la nuova Parola):

Cinabro:

Turchese:

Occhio di tigre:

Hector Calhoun Eisenhower si mise finalmente tranquillo e impiegò quei tre mesi imparando a diventare un membro rispettabile della malavita della classe medioalta. Questo è un lungo romanzo. Alta finanza: diritto industriale; ingaggio aiutanti: Fiuuu! Ma le complessità della vita mi hanno sempre affascinato. Me la cavai. La regola fondamentale è sempre la stessa: osservare attentamente, imitare efficacemente.

Granato:

Topazio (bisbigliai quella parola sul tetto della Centrale Elettrica Trans-Satellite, e i miei salariati commisero due omicidi. E sapete? Non mi fece nessun effetto):

Taafite:

Ci stavamo avvicinando alla fine di Taafite. Ero tornato a Tritone per affari esclusivamente gelatieri. Era una bella mattina luminosa: gli affari andavano benone. Decisi di concedermi un pomeriggio di libertà e di andare a fare il turista, per vedere i Torrenti.

— …duecentotrenta metri — annunciò la guida, e tutti, intorno a me, si sporsero dalla ringhiera e guardarono in su, attraverso il corridoio di plastica, verso gli strapiombi di metano ghiacciato sotto il freddo sguardo verde di Nettuno.

— Pochi metri più avanti, signore e signori, potete incominciare a vedere il Pozzo di Questo Mondo dove, oltre un milione di anni or sono, una forza misteriosa che la scienza ancora non sa spiegare fece diventare liquide venticinque miglia quadrate di metano ghiacciato, per non più di alcune ore, durante le quali un gorgo profondo il doppio del Grand Canyon terrestre restò solidificato per i secoli futuri, quando la temperatura ridiscese a…

I turisti stavano avanzando lungo il corridoio quando la vidi sorridere. Quel giorno avevo i capelli neri e la carnagione color castagna.

Mi sentivo troppo sicuro, credo, perciò continuai a restarle nei pressi. Pensai addirittura di abbordarla. Poi lei risolse tutto voltandosi improvvisamente verso di me e dicendo, assolutamente impassibile: — Oh, ecco qua Hamlet Caliban Enobarbus!

Un antico riflesso regolò i miei lineamenti, abbinando il cipiglio confuso a un sorriso indulgente. Mi scusi, ma credo che lei mi abbia scambiato per… No, non lo dissi. — Maud — dissi — sei venuta qui per annunciarmi che è venuto il mio momento?

Lei indossava un abito di molte sfumature d’azzurro, con una grande spilla azzurra sulla spalla, ovviamente di vetro. Eppure, notai mentre guardavo gli altri turisti, in mezzo a loro era anche meno vistosa di me. — No — disse lei. — Sono in vacanza. Proprio come te.

— Non scherzi? — Ci eravamo attardati, e la folla ci aveva lasciato indietro. — Stai scherzando.

— Il Servizio Speciale della Terra, sebbene collabori con i Servizi Speciali di altri mondi, non ha giurisdizione ufficiale su Tritone. E poiché tu sei venuto qui con parecchio danaro, e gran parte dell’aumento del tuo reddito è derivata da The Glacier, anche se il Servizio Regolare di Tritone potrebbe essere felice di pescarti, il Servizio Speciale non ti sta ancora dietro. — Sorrise. — Non sono stata al Glacier. Sarebbe simpatico poter dire che ci sono andata in compagnia di uno dei proprietari. Potremmo andare a bere una soda, cosa ne dici?

Il gorgo turbinante del Pozzo di Questo Mondo scendeva in una opalescente maestà. I turisti guardavano e la guida snocciolava indici di rifrazione e angoli d’inclinazione.

— Credo che non ti fidi di me — disse Maud.

Il mio sguardo le confermò che aveva ragione.

— Hai mai avuto a che fare con gli stupefacenti? — mi chiese all’improvviso.

Aggrottai la fronte.

— No. Parlo sul serio. Voglio cercare di spiegarti qualcosa… Un’informazione che potrebbe rendere la vita più facile a tutti e due.

— Marginalmente — dissi io. — Sono sicuro che hai già tutte le informazioni nel tuo archivio.

— Io ci ho avuto a che fare assai più che marginalmente, e per parecchi anni — disse Maud. — Prima di entrare nel Servizio Speciale, ero nella Divisione Stupefacenti del Servizio Regolare. E quelli con cui avevamo a che fare per ventiquattro ore al giorno erano drogati, spacciatori di droga. Per prendere i grossi dovevamo fare amicizia con i piccoli. Per prendere quelli più grossi ancora, dovevamo fare amicizia con quelli grossi. Dovevamo seguire gli stessi orari, parlare lo stesso linguaggio, vivere per mesi nelle stesse strade, nello stesso caseggiato. — Si scostò dalla ringhiera per lasciar passare un giovane. — Per due volte, mentre ero nella squadra stupefacenti, dovetti andare a farmi disintossicare: ero diventata morphadinomane. E io me la cavavo meglio di tanti altri.

— Cosa vorresti dire?

— Solo questo. Adesso tu e io ci muoviamo negli stessi ambienti se non altro per le nòstre rispettive professioni. Resteresti sorpreso, se sapessi quante conoscenze abbiamo già in comune. Non restarci male, quando c’incontreremo in Sovereign Plaza a Bellona, un giorno o l’altro, e poi, due settimane dopo, ci troveremo a pranzo nello stesso ristorante a Lux, su Giapeto. Sebbene gli ambienti in cui ci muoviamo si estendano sui vari mondi, sono gli stessi, e non sono molto grandi.

— Andiamo. — Non credo che la mia voce avesse un tono di letizia. — Permettimi di offrirti il gelato. — Tornammo indietro lungo la passerella.

— Sai — disse Maud — se resti fuori dalle grinfie dei Servizi Speciali qui e sulla Terra per un tempo sufficiente, finirai per ritrovarti con un grosso reddito in continuo aumento. Magari ci vorrà qualche anno, ma è possibile. Non abbiamo motivo d’essere nemici personali. Può darsi che un giorno tu raggiunga il punto in cui i Servizi Speciali non ti giudicheranno più una preda interessante. Oh, continueremo a vederci, a incontrarci per caso. Noi riceviamo una quantità d’informazioni. E siamo anche in grado di aiutarti, capisci.

— Hai consultato di nuovo gli ologrammi.

Maud scrollò le spalle. Il suo volto era decisamente spettrale, sotto la luce pallida del pianeta. Quando raggiungemmo le luci artificiali della città disse: — Recentemente ho incontrato due amici tuoi, Lewis e Ann.

— I Cantori?

Lei annuì.

— Oh, in verità non li conosco molto bene.

— Sembra che loro conoscano bene te. Forse tramite l’altro Cantore, Hawk.

— Oh — feci di nuovo io. — Ti hanno detto come sta?

— Ho letto che stava guarendo, circa due mesi fa. Ma da allora non ho saputo più niente.

— Anch’io non ne so di più — dissi.

— L’unica volta che l’ho visto — disse Maud — è stato dopo che l’ho tirato fuori.

Arty e io eravamo usciti dall’atrio prima che Hawk avesse finito. Il giorno dopo, dai newstape, avevo appreso che, quando il suo Canto era finito, si era tolto il giubbotto, si era sfilato i calzoni, ed era rientrato nella vasca.

I vigili del fuoco si erano risvegliati di colpo; la gente aveva cominciato a correre e a urlare; lui era stato ripescato, con il corpo ricoperto al settanta per cento di ustioni di secondo e terzo grado. Io avevo sempre cercato di non pensarci.

— Lo hai tirato fuori tu?

— Sì. Ero a bordo dell’elicottero atterrato sul tetto — disse Maud. — Pensavo che saresti rimasto molto colpito nel vedermi.

— Oh — dissi. — E come l’hai tirato fuori?

— Dopo che ve ne siete andati, il Servizio di Sicurezza di Arty è riuscito a bloccare gli ascensori al di sopra del settantunesimo piano, perciò siamo arrivati nell’atrio quando voi eravate già fuori. È stato allora che Hawk ha tentato di…

— Ma sei stata proprio tu a salvarlo?

— I vigili del fuoco della zona non avevano più visto un incendio da dodici anni! Non credo che sapessero neppure usare l’attrezzatura. Ho dato ordine ai miei ragazzi di buttare gli schiumogeni nella vasca, poi mi sono tuffata e l’ho trascinato fuori…

— Oh — dissi ancora. Ce l’avevo messa tutta, in quegli undici mesi, e c’ero quasi riuscito. Non ero stato presente, quando era accaduto. Non era affar mio. Maud stava dicendo: — Credevamo che lui potesse darci qualche indicazione su di te. Ma quando l’ho tirato fuori, era completamente andato, una massa di piaghe aperte…

— Avrei dovuto saperlo che anche il Servizio Speciale si serve dei Cantori — dissi. — Lo fanno tutti. Oggi la Parola cambia, no? Lewis e Ann non ti hanno detto qual è la nuova?

— Li ho visti ieri, e la Parola cambierà solo fra otto ore. E poi, a me non l’avrebbero detta comunque. — Mi diede un’occhiata e si rannuvolò. — Davvero.

— Prendiamo qualcosa — dissi. — Parleremo del più e del meno, e ci ascolteremo attentamente l’un l’altro, ostentando un’aria di noncuranza: tu cercherai di captare qualcosa che ti renda più facile pescarmi, io cercherò di scoprire se ti lasci sfuggire qualcosa che mi renda più facile sfuggirti.

— Uh-uh. — Maud annuì.

— Perché mi avevi abbordato in quel bar, comunque?

Occhi di ghiaccio: — Te l’ho detto, ci muoviamo negli stessi ambienti. È logico che ci capiti di trovarci nello stesso bar, la stessa sera.

— Immagino sia una di quelle cose che io non debbo sapere, eh?

Il suo sorriso era adeguatamente ambiguo. Non insistetti.

Fu un pomeriggio molto noioso. Non saprei ripetere una sola frase delle tante sciocchezze che ci scambiammo davanti alle montagne di panna montata coronate da ciliegine. Impegnammo tanta energia nel fingere di divertirci che, credo, nessuno dei due riuscì a trovare il modo di captare qualcosa di significativo, ammesso che ci fosse.

Lei se ne andò. Io restai lì ancora un poco, a pensare alla fenice carbonizzata.

L’amministratore del Glacier mi chiamò in cucina per chiedermi di una spedizione di latte di contrabbando (The Glacier produce direttamente i suoi gelati) che ero riuscito a organizzare durante il mio ultimo viaggio alla Terra (è sorprendente notare che vi sono stati pochissimi progressi nell’allevamento delle vacche da latte, negli ultimi dieci anni; era stato vergognosamente facile fregare quel vecchio allevatore rimbecillito del Vermont) e sotto le luci bianche e le grandi gelatiere ruotanti di plastica, mentre io cercavo di assestare le cose, lui fece qualche commento sull’Heist Cream Emperor: e questo non servì a niente.

Quando arrivò la solita folla degli avventori della sera, e il moog faceva musica e le pareti di cristallo sfolgoravano; e gli artisti — un’aggiunta nuova nuova di quella settimana — si erano convinti a esibirsi comunque (un baule di costumi era andato perso durante la spedizione, o rubato, ma questo non glielo avrei certo detto), io personalmente, mentre mi aggiravo fra i tavoli, sorpresi una ragazzetta, chiaramente stordita dalla morphadina, che cercava di sfilare il portafoglio di un cliente — mi limitai ad afferrarle il polso, costringendola a mollare la presa, e l’accompagnai alla porta, gentilmente, mentre lei sbatteva le palpebre e mi guardava con gli occhi dilatati, e il cliente non s’era accorto di nulla — e gli artisti decisero, che diavolo, di fare il loro numero au naturel, e tutti si divertivano come matti, ma io mi sentivo veramente giù.

Uscii, sedetti sui gradini, e ringhiai quando dovevo spostarmi per lasciare entrare o uscire la gente. Verso il settantacinquesimo ringhio, la persona contro cui ringhiai si fermò e disse con voce tonante: — Sapevo che l’avrei trovato, se avessi cercato abbastanza a lungo! Voglio dire, se l’avessi cercato davvero.

Guardai la mano che si agitava sulla mia spalla, seguii il braccio, su, su, fino a un maglione nero, dove c’era una testa carnosa, calva, sogghignante. — Arty — dissi. — Cosa…? — Ma lui continuava ad agitare la mano e a ridere con inespugnabile Gemü tlichkeit.

Sapesse la fatica che ho fatto a procurarmi una sua foto, ragazzo mio. Ho dovuto corrompere uno del Servizio Speciale di Tritone per averla. Il suo trasformismo. Grande. Grande davvero! — The Hawk mi sedette accanto e mi batté la mano sul ginocchio. — Ha un posticino meraviglioso, qui. Mi piace, mi piace un pozzo. — Ossa minuscole in una pasta molliccia e venata. — Ma non abbastanza per farle un’offerta. Comunque, lei sta imparando abbastanza in fretta. L’ho capito. Sarò fiero di poter dire che sono stato io a offrirle la sua prima occasione in grande stile. — La mano si allontanò e cominciò a stropicciare l’altra. — Se ha intenzione di mettersi in grande, deve avere almeno un piede saldamente infilato nella staffa giusta della legge. Tutto sta nel rendersi indispensabile alla brava gente: quando c’è riuscito, un buon delinquente ha le chiavi di tutte le casseforti del sistema. Comunque, non le sto dicendo niente che lei non sappia già.

— Arty — dissi io — crede che possiamo farci vedere insieme qui, noi due…?

The Hawk alzò la mano dalle ginocchia e l’agitò in un gesto di deprecazione. — Nessuno ci può fotografare. Ho appostato i miei uomini qui in giro. Non mi presento mai in pubblico senza il mio Servizio di Sicurezza. Ho sentito che anche lei se ne è creato uno. — Il che era vero. — Ottima idea. Ottima veramente. Mi piace il modo in cui si comporta.

— Grazie. Arty, non sono molto in vena, questa sera. Ero uscito per prendere un po’ d’aria…

La mano di Arty svolazzò di nuovo. — Non si preoccupi. Non resterò qui molto. Ha ragione lei. Meglio non farci vedere insieme. Ero di passaggio e volevo solo farle un saluto. Un salutino. — Si alzò. — Ecco tutto. — Cominciò a scendere i gradini.

— Arty?

Lui si voltò.

— Presto lei tornerà; e allora vorrà rilevare la mia parte del Glacier, perché io sarò diventato troppo importante: e io non vorrò cedergliela perché penserò di essere diventato abbastanza importante per battermi con lei. Quindi saremo nemici per un po’. Lei cercherà di ammazzarmi. Io cercherò di ammazzare lei.

Sul suo viso, prima un cipiglio confuso; poi, il sorriso indulgente. — Vedo che ha afferrato l’idea dell’informazione a ologrammi. Molto bene. Bene. È l’unico modo per spuntarla con Maud. Si assicuri che tutte le sue informazioni presentino un quadro completo della situazione. È l’unico modo per spuntarla anche con me. — Sorrise, fece per voltarsi, poi gli venne in mente qualcosa d’altro. — Se riuscirà a tenermi a bada abbastanza a lungo, e continuerà a crescere, e terrà sempre in perfetta efficienza il suo Servizio di Sicurezza, alla fine arriveremo al punto in cui varrà la pena di lavorare di nuovo insieme. Se resisterà, saremo di nuovo amici. Un giorno o l’altro. Aspetti.

— Grazie per avermelo detto.

The Hawk diede un’occhiata all’orologio. — Bene. Addio. — Pensai che se ne andasse, finalmente. Ma lui alzò di nuovo la testa. — Ha avuto la nuova parola?

— Giusto — dissi io. — È uscita stanotte. Qual è?

The Hawk attese che la gente uscita dal locale si fosse allontanata. Si guardò intorno, in fretta, poi si sporse verso di me, facendosi portavoce con le mani, gracchiò — Pirite — e ammiccò. — L’ho appena avuta da una ragazza che l’aveva ricevuta direttamente da Colette — (una dei tre Cantori di Tritone). Poi si girò, scese saltellando i gradini, e si fece largo a spallate tra la folla che passava sul marciapiedi.


Restai lì a rimuginare, fino a quando dovetti alzarmi a fare quattro passi. Passeggiare non rimedia alla mia depressione: vi aggiunge solo il ritmo rinforzante della paranoia. Quando tornai indietro, mi ero già fabbricato tutto un sistema maniacale: The Hawk aveva già cominciato a tramarmi intorno una congiura segreta, che finiva quando ci trovavamo tutti intrappolati in un vicolo cieco, e io, cercando di invocare aiuto, gridavo — Pirite! che però non era la Parola, ma serviva anzi a identificarmi a tutto beneficio dell’uomo con i guanti scuri, armato di pistola-bombe-a-mano-gas.

All’angolo c’era una cafeteria. Nella luce che usciva dalla vetrina, raccolti intorno al relitto accanto al marciapiedi c’era un branco di teppisti (à la Tritone: catene ai polsi, calabrone tatuato sulla guancia, stivali con i tacchi alti per quelli che potevano permetterseli). A cavalcioni di un faro sfasciato c’era la piccola morphadinomane che avevo buttato fuori poco prima dal Glacier.

D’impulso, mi avvicinai. — Ehi?

Lei mi guardò, sotto i capelli che sembravano fieno calpestato, con gli occhi che erano tutti pupille.

— Hai ancora avuto la nuova Parola?

Lei si soffregò il naso, già tutto graffiato. — Pirite — disse. — È arrivata appena un’ora fa.

— Chi te l’ha detto?

Lei rifletté sulla mia domanda. — L’ho avuta da un tale che dice di averla avuta da un altro che è arrivato stasera da New York e che l’ha ricevuta là da un Cantore che si chiama Hawk.

— Oh — dissi io. — Oh. Grazie.

Il rasoio di Occam, unitamente alle vere informazioni sul funzionamento del Servizio di Sicurezza, serve a eliminare questo genere di paranoia. Pirite. A un certo livello, nel mio tipo di attività, la paranoia è solo una malattia professionale. Almeno ero certo che Arty (e Maud) probabilmente ne soffrivano quanto me.

L’insegna luminosa del Glacier si spense. Allora ricordai cosa avevo lasciato là dentro e salii correndo la scalinata.

La porta era chiusa a chiave. Bussai un paio di volte sui vetri, ma erano andati tutti a casa. E il peggio era che potevo vederla, lì sul banco del guardaroba, sotto la lampada arancione. L’aveva probabilmente messa lì l’amministratore, pensando che io arrivassi prima che se ne andassero tutti gli altri. Domani a mezzogiorno Ho Chi Eng doveva prendere posto nell’Appartamento Calendula che aveva prenotato a bordo dell’Interplanetario Platinimi Swan, in partenza all’una e trenta per Bellona. E là, dietro le porte di vetro del Glacier, la valigetta attendeva con la parrucca adatta, e con le pieghe epicantiche che avrebbero dimezzato gli occhi di giaietto di Mr. Eng.

Pensai di sfondare il vetro e di entrare. Ma la soluzione più pratica era lasciar detto in albergo di svegliarmi alle nove, ed entrare insieme all’uomo delle pulizie. Mi voltai e cominciai a scendere i gradini; e mi colpì un pensiero, che mi rattristò terribilmente, tanto che sbattei le palpebre e sorrisi solo per un riflesso istintivo: probabilmente era meglio lasciar lì la valigetta fino al mattino, perché tanto non c’era dentro niente che non fosse mio.

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