PARTE SECONDA L'errante

CAPITOLO SESTO

Mogien balzò dalla sella prima che il destriero posasse le zampe a terra, corse verso Rocannon e lo abbracciò come un fratello. La sua voce risuonava di piacere e di sollievo.

— Per la lancia di Hendin, Signore delle Stelle! Perché cammini completamente nudo in questo deserto? E come hai fatto a percorrere tanta strada verso sud, camminando verso nord? Stai…

S'interruppe bruscamente perché il suo occhio aveva incontrato la figura di Yahan.

Rocannon disse: — Yahan è mio servitore.

Mogien non fece alcun commento. Dopo un istante di contesa con se stesso, cominciò a sorridere, quindi scoppiò in una risata. — Hai imparalo le nostre usanze per potermi meglio rubare i servi, Rokanan? Chi ti ha rubato i vestiti?

— Olhor non indossa una sola pelle — disse Kyo, attraversando l'erba con passo leggero. — Salve, Signore del Fuoco, la scorsa notte ti ho sentito nella mia mente!

— Kyo ci ha condotti a te — confermò Mogien. — Da quando abbiamo messo piede in Fiera dieci giorni fa, non ha più detto una parola, ma ieri sera, sulla riva dello Stretto, quando è sorta Lioka, si è messo ad ascoltare la luce lunare e ha detto: «Laggiù!» Questa mattina all'alba siamo volati nel punto da lui indicato e vi abbiamo trovati.

— Dov'è Iot? — domandò Rocannon, vedendo che soltanto Raho teneva le redini dei grifoni.

Mogien, con la faccia impassibile, disse: — Morto. Gli Olgyior ci hanno assalito sulla spiaggia, approfittando della nebbia. Erano armati soltanto di pietre, ma erano in molti. Iot è stato ucciso, e tu eri disperso. Ci siamo nascosti in una caverna sul mare, in attesa che i destrieri riprendessero a volare. Raho è uscito in esplorazione e ha sentito la storia di uno straniero che era rimasto nel fuoco senza bruciare, e che portava un grande gioiello azzurro. Perciò, non appena i destrieri hanno ripreso il volo, ci siamo recati al forte di Zgama. Non avendoti trovato, abbiamo gettato qualche torcia sul suo miserabile tetto e gli abbiamo fatto scappare le bestie nella foresta, poi ci siamo messi alla tua ricerca lungo la costa dello Stretto.

— Il gioiello, Mogien — Rocannon lo interruppe; — l'Occhio del Mare… Ho dovuto cederlo per riscattare la nostra vita. L'ho dato via.

— Il gioiello? — fece Mogien sgranando gli occhi. — Il gioiello di Semley? Tu l'hai dato via? Non certo per salvarti la vita… chi potrebbe recarti danno? Per salvare quella vita inutile, quel servitore disobbediente! Bel valore attribuisci alla mia eredità! Su, riprendila; non è così facile a perdersi!

Con una risata, fece roteare nell'aria un oggetto lucente, poi lo gettò a Rocannon, che rimase immobile a fissare la grande gemma azzurra che stringeva nella mano, la catena d'oro.

— Ieri abbiamo incontrato due Olgyior vivi e uno morto, sull'altra sponda dello Stretto, e ci siamo fermati a chiedere se avessero per caso visto un viaggiatore nudo, accompagnato da un servitore senza valore, diretti a sud. Uno dei due si è fatto piccolo piccolo e ci ha raccontato tutto, e così ho preso il gioiello all'altro. Insieme con la sua vita, perché faceva resistenza. Perciò abbiamo saputo che avevi attraversato lo Stretto; e Kyo ci ha portati a te. Ma perché eri diretto a nord, Rokanan?

— Per… cercare acqua.

— Qui a ponente c'è un fiume — interruppe Raho. — L'ho visto poco prima che incontrassimo voi.

— Allora, andiamo. Io e Yahan non beviamo da ieri.

Salirono sui destrieri, Yahan con Raho, Kyo al suo vecchio posto, dietro Rocannon. L'erba curvata dal vento si allontanò sotto di loro; veleggiarono in direzione sudovest, tra l'immenso altipiano e il sole.

Si accamparono accanto al fiume che serpeggiava lentamente fra l'erba priva di fiori. Rocannon poté finalmente sfilarsi la tuta, e indossò uno degli abiti di ricambio di Mogien. Mangiarono pane secco portato da Tolen, tuberi di peya e quattro conigli dalle corte ali, colpiti da Raho e Yahan, che era pieno di gioia nel riprendere fra le mani un arco.

In quella zona dell'altipiano, gli animali andavano quasi a infilarsi da soli nelle frecce, e si facevano afferrare in volo dai grifoni, poiché non avevano mai imparato ad avere paura dei predatori. Anche le minuscole creature verdi, gialle e viola chiamate kilar, simili a insetti e dotate di ali trasparenti, che riempivano l'aria del loro ronzio, e che in realtà non erano insetti, ma piccoli marsupiali, qui non avevano paura ed erano curiose: si libravano intorno alla testa delle persone, osservando con occhi rotondi e dorati, atterravano per un istante sulla mano e sul ginocchio, e poi, richiamate da qualcosa d'altro, volavano via.

Sembrava che quell'immensa distesa d'erba fosse priva di vita intelligente. Mogien confermò che non avevano visto tracce di uomini o di altri esseri, volando sopra l'altipiano.

— Ci è parso di scorgere qualche creatura la notte scorsa, nei pressi del nostro fuoco — disse Rocannon, titubante. Infatti, che cosa avevano realmente visto? Kyo, che era vicino al fuoco, intento a cucinare, alzò lo sguardo su di lui: Mogien. che si stava slacciando per la notte il cinturone con le due spade, non disse niente.

Lasciarono il campo alle prime luci dell'alba, e per l'intera giornata cavalcarono nel vento tra la pianura e il sole. Volare sull'altipiano era tanto piacevole quanto era stato penoso percorrerlo a piedi. Allo stesso modo trascorse il giorno successivo, e poco prima della sera, mentre erano intenti a scrutare l'orizzonte alla ricerca dei piccoli corsi d'acqua che interrompevano sempre più raramente la distesa erbosa. Yahan si girò sulla sella e gridò nel vento: — Olhor! Guarda davanti a noi! — Molto lontano, davanti a loro, esattamente a sud, un'increspatura quasi impercettibile di colore grigiazzurro interrompeva il piatto orizzonte.

— Le montagne! — esclamò Rocannon, e mentre così diceva, udì che Kyo, alle sue spalle, tratteneva il respiro, come se avesse timore di qualcosa.

Durante il volo del giorno seguente, la piatta savana cominciò a sollevarsi gradualmente a formare basse collinette, che erano come le grandi onde di un mare tranquillo. Di tanto in tanto vagavano sopra di loro alti cumuli diretti verso il nord, e nella lontananza potevano vedere che la terra si alzava, diventava scura e accidentata. Quella sera le montagne si poterono distinguere chiaramente; dove la pianura era già buia in lontananza, minuscoli picchi verso sud continuarono ancora per molto tempo a brillare d'oro lucente.

Quando anche quei picchi lontani svanirono nell'oscurità, sorse la luna Lioka, che salì nel cielo come una grande stella gialla dal corso veloce. Feni e Feli splendevano già, e si muovevano più lentamente da est a ovest. Ultima delle quattro lune sorse Heliki, e seguì le altre, illuminandosi e oscurandosi, illuminandosi e oscurandosi a cicli di mezz'ora. Rocannon giaceva supino sull'erba e osservava, al di là dei lunghi steli, la lenta, luminosa e complessa danza lunare.

L'indomani mattina, quando egli e Kyo si accingevano a montare in sella al grifone dal manto grigio tigrato, Yahan, che teneva la bestia per le briglie, lo avvertì: — Olhor, guidalo con molta attenzione, oggi. — L'animale parve dargli ragione: emise un colpo di tosse e un brontolio, cui fece eco quello del grifone di Mogien.

— Che cos'hanno?

— Fame! — disse Raho, tirando energicamente la briglia del suo grifone bianco. — Si sono riempiti a sazietà con gli herilor di Zgama, ma da quando abbiamo cominciato a volare su questo altipiano non hanno più trovato selvaggina di grossa taglia, e quelle bestie saltellanti sono soltanto un bocconcino di antipasto per loro. Lega il mantello con la cintura, Signore Olhor… se il vento lo portasse sotto i denti del tuo grifone, saresti tu la sua cena.

Raho, che con i suoi capelli chiari e la sua pelle color cioccolato era la prova vivente dell'interesse che qualche sua bisnonna doveva avere destato in un nobile Angyar, era più sfacciato e ironico della media, per un plebeo. Mogien non lo rimproverava mai, e dietro la sua sfacciataggine traspariva la massima dedizione al suo Signore. Già vicino all'età di mezzo, chiaramente pensava che il loro viaggio fosse una completa assurdità, ma altrettanto chiaramente non era mai stato sfiorato dall'idea di fare qualcosa d'altro che seguire il suo giovane Signore in qualsiasi pericolo.

Yahan passò le redini a Rocannon e si affrettò a scostarsi dal grifone, che balzò nell'aria come se fosse scagliato da una molla. Per tutta la giornata i grifoni volarono senza risparmiarsi, senza accusare stanchezza, verso i territori di caccia di cui percepivano o fiutavano l'esistenza a sud, e un vento proveniente dal nord accelerò il loro volo. Sotto la barriera delle montagne si potevano scorgere, sempre più scure e sempre più nette, basse colline coperte di foreste. Anche sulla pianura, di tanto in tanto, si scorgeva qualche macchia di alberi, simile a un'isola nel dilagante mare d'erba. Le macchie si fecero sempre più fitte, fino a diventare foreste interrotte da verdi radure. Prima del tramonto presero terra accanto a un piccolo lago coperto di giunchi, tra collinette alberate. In fretta, con molta cautela, i due plebei levarono dalla groppa dei grifoni ogni finimento ed ogni borsa e pacco, fecero un passo indietro e lasciarono libere le bestie. Gli animali si lanciarono verso l'alto ringhiando e battendo le ampie ali, presero tre direzioni diverse, e svanirono.

— Ritorneranno quando saranno sazi — Yahan spiegò a Rocannon, — o quando il Signore Mogien soffierà il suo fischietto muto.

— A volte ritornano con qualche innamorata… bestie non domate, pericolose — aggiunse Raho, per far paura a Rocannon, che era all'oscuro di molti particolari.

Mogien e i due plebei si allontanarono, per dare la caccia ai conigli saltatori o a qualsiasi altro animale che incontrassero; Rocannon estrasse da terra alcuni grossi tuberi di peya e li mise ad arrostire fra le ceneri, dopo averli avvolti nelle loro foglie. Era un esperto nell'arte di arrangiarsi con ciò che si poteva trovare sul posto, e gli piaceva la vita dell'esploratore; quei giorni di grandi voli che duravano dall'alba al tramonto, di perenne fame saziata a metà, di notti passate dormendo sulla nuda terra al freddo del vento di primavera, l'avevano portato in una strana condizione di affinamento dei sensi, rendendolo pronto e aperto ad ogni sensazione e ad ogni impressione.

Alzandosi dal fuoco, vide che Kyo era sceso al laghetto e che adesso era fermo sulla riva: una figura sottile, non più alta delle canne che spuntavano dall'acqua. Il Fian stava fissando le montagne che s'innalzavano come grige torri, a sud, e che raccoglievano intorno alle loro alte cime tutte le nubi e il silenzio del cielo.

Rocannon, avvicinandosi a lui, vide che aveva sulla faccia un'espressione insieme desolata ed esitante: — Olhor, hai di nuovo il gioiello.

— Continuo a cercare di darlo ad altri — disse Rocannon, sorridendo.

— Lassù — proseguì il Fian, — dovrai dare più che oro e pietre… Che cosa darai, Olhor, lassù nel luogo freddo, nel luogo alto, nel luogo grigio? Dal fuoco al ghiaccio…

Rocannon udiva le parole e guardava il Fian, ma non vedeva muoversi le sue labbra. Sentì un brivido che gli correva lungo la schiena; chiuse la propria mente, sfuggendo al contatto di quella strana sensazione che entrava nella sua umanità, nella sua intimità.

Dopo un minuto, Kyo si voltò, calmo e sorridente come sempre, e parlò con il suo solito tono di voce: — Oltre queste basse colline ci sono dei Fiia. Sono al di là della foresta, in vallate verdeggianti. Il mio popolo ama le valli, anche qui ama il sole e le terre basse. Troveremo i loro villaggi tra pochi giorni di volo.

Era una buona notizia, e gli altri la accolsero con gioia, quando Rocannon la riferì.

— Pensavo che non avremmo trovato alcun essere capace di parlare. Una terra così bella, così ricca e così vuota — disse Raho.

Fissando un paio di kilar simili a libellule, che volavano sul lago come ametiste alate, Mogien disse: — Non è stata sempre vuota. La mia gente l'ha attraversata molto tempo fa, negli anni che precedettero la nascita degli eroi, prima che Hendin scagliasse la grande lancia e che Kirfiel morisse sulla Collina di Orren.

«Giungemmo dal sud, a bordo di navi con la testa di drago e nell'Angien trovammo una popolazione selvaggia che si nascondeva nei boschi e nelle grotte marine, una razza dalla faccia bianca. Tu conosci la canzone, Yahan, il Lamento di Orhogien:

Cavalcando il vento.

Camminando sull'erba.

Solcando il mare,

Verso la stella Brehen

Sul sentiero di Lioka…

«Il sentiero di Lioka va da sud a nord. E le battaglie di cui si parla nel canto raccontano di come noi Angyar abbiamo sconfitto i cacciatori selvaggi, gli Olgyior, gli unici della nostra razza che abitassero nell'Angien; infatti apparteniamo a una sola razza, i Liuar.

«Ma il canto non parla di quelle montagne. È un canto molto antico; forse il suo inizio s'è perduto. O forse la mia gente veniva da queste colline. È un ottimo paese: ci sono boschi in cui si può cacciare, colline adatte al pascolo e cime per costruirvi castelli. Eppure, adesso, sembra che non ci viva alcuna razza umana…

Quella sera, Yahan non suonò la sua cetra dalle corde d'argento; nessuno di loro riuscì a dormire tranquillamente, forse perché i grifoni erano lontani e perche sulle colline aleggiava un silenzio di morte, come se nessuna creatura osasse muoversi di notte.

Poiché tutti si lamentavano che l'accampamento vicino al lago era troppo paludoso, l'indomani ripresero il cammino a piedi, procedendo senza fretta e fermandosi sovente per cacciare e raccogliere qualche vegetale. Al tramonto giunsero su una collinetta la cui cima era gibbosa e accidentata, come se l'erba crescesse sulle fondamenta di un edificio crollato. Non rimaneva niente della costruzione, ma riuscirono a individuare la corte di volo di un piccolo castello, sorto in tempi talmente remoti che perfino la leggenda se l'era dimenticato. Si accamparono laggiù, perché era un punto dove i grifoni li avrebbero scorti con facilità, al loro ritorno.

A tarda ora, durante la lunga notte, Rocannon si destò e si rizzò a sedere. Splendeva soltanto la piccola Lioka, e il fuoco era spento. Non avevano predisposto turni di guardia. Mogien era in piedi, a cinque o sei metri di distanza da lui, e non faceva alcuna mossa: alla luce delle stelle era soltanto una forma indistinta, alta.

Rocannon, ancora semiaddormentato, lo osservò, chiedendosi perche il mantello lo facesse sembrare così alto e così stretto di spalle. C'era qualcosa di strano nella sua figura. Le altre volte, il mantello dell'Angya si allargava alle spalle come il tetto di una pagoda, e anche senza mantello Mogien aveva un torace notevolmente ampio. Perché adesso sembrava tanto alto, tanto chino e magro?

La faccia si voltò lentamente verso di lui, e non era la faccia di Mogien.

— Chi è là? — chiese Rocannon, e la sua voce echeggiò nel minaccioso silenzio. Al suo fianco, anche Raho si rizzò a sedere, si guardò attorno, afferrò l'arco e si alzò in piedi. Dietro l'alta figura, qualcosa si mosse leggermente… un'altra sagoma identica alla precedente. Tutt'intorno a loro, in mezzo alle rovine coperte d'erba e illuminate dalle stelle, stavano le alte forme magre e silenziose, pesantemente ammantellate, con la testa china. Accanto al fuoco erano rimasti soltanto Rocannon e Raho.

— Signore Mogien! — gridò Raho.

Non ci fu risposta.

— Dov'è Mogien? A che popolo appartenete? Parlate…

Non ci fu risposta neanche adesso, e le figure cominciarono ad avvicinarsi lentamente. Raho incoccò una freccia. Sempre tacendo, tutte insieme, all'improvviso le figure parvero gonfiarsi in modo strano, i mantelli si spalancarono da entrambe le parti: attaccarono subito da tutte le direzioni, con lenti, agili balzi.

Combattendo contro quegli esseri, Rocannon combatteva anche per liberarsi dal sogno… doveva essere un sogno; la loro lentezza, il loro silenzio, tutto di loro sembrava irreale, ed egli non sentiva i loro colpi. Ma questo perché indossava la tuta. Udì Raho gridare disperatamente: — Mogien! — Gli assalitori avevano buttato a terra Rocannon grazie, semplicemente, al peso e al numero; poi, prima che potesse liberarsi, egli si sentì sollevare per i piedi, con un movimento largo, da capogiro. Mentre si contorceva, cercando di liberarsi dalle numerose mani che lo stringevano, scorse colline e boschi illuminati dalla luce delle stelle roteare sotto di lui., molto al di sotto di lui. Si sentì girare la testa, e istintivamente si aggrappò con entrambe le mani alle membra sottili delle creature che lo sollevavano. Gli stavano tutt'intorno, lo stringevano con le loro mani, e l'aria era piena di ali nere che battevano.

Continuò così per lungo tempo, e a tratti dovette lottare per svegliarsi da quella monotonia di paura, di voci sottili che sibilavano intorno a lui, di molteplici battiti d'ali che faticosamente lo trasportavano sempre in avanti, sobbalzando.

Poi, all'improvviso, il volo si trasformò in una lunga discesa. L'oriente che andava illuminandosi scivolò orribilmente al suo fianco, la terra si alzò davanti a lui. le numerose mani, forti e morbide, che lo stringevano si aprirono, ed egli cadde. Illeso, ma troppo sofferente e stordito per rizzarsi a sedere, giacque al suolo e si guardò intorno. Sotto di lui c'era un pavimento di lastre lisce come se fossero state tagliate nell'acciaio. Dietro di lui sorgeva la vasta cupola di un edificio, e davanti, al di là di una porta senza architrave, vide una strada fiancheggiata da case argentee senza finestre, perfettamente allineate, tutte identiche: una pura prospettiva geometrica illuminata dal chiarore dell'alba senza nubi. Era una vera città, non un villaggio dell'Età del Bronzo, ma una grande città, severa e grandiosa, possente e precisa, prodotta da una grande tecnologia. Rocannon si rizzò a sedere, con la testa che gli girava.

Quando la luce aumentò, Rocannon riuscì a distinguere alcune forme nella semioscurità del cortile, fagotti o qualcosa di simile; l'estremità di uno di essi era gialla lucente. Con una scossa che ruppe il suo stato di sogno ad occhi aperti vide la faccia bruna sotto la macchia di capelli gialli. Era Mogien, con gli occhi spalancati che fissavano il ciclo, senza battere le palpebre.

Tutt'e quattro i suoi compagni giacevano a terra come Mogien: rigidi e con gli occhi aperti. La faccia di Raho era orrendamente distorta. Perfino Kyo, che nella sua fragilità era parso inattaccabile, giaceva immobile e i suoi grandi occhi riflettevano il chiarore del ciclo.

Eppure respiravano, con respiri lunghi e tranquilli, molto distanziati tra loro; Rocannon accostò l'orecchio al petto di Mogien e udì il battito fioco e lento del cuore, come se lo udisse da una grande distanza.

Un sibilo improvviso proveniente dall'alto lo fece istintivamente acquattare al suolo, dove cercò di rimanere immobile come i corpi paralizzati che lo circondavano. Si sentì afferrare alle braccia e alle gambe. Lo fecero girare su se stesso, vide una faccia china su di lui: una faccia grande, allungata, bruna e bellissima. Sulla pelle scura della testa non spuntava un solo capello, mancavano anche le sopracciglia. Occhi color d'oro chiaro fissavano da palpebre prive di ciglia. La bocca, piccola e delicatamente modellata, era chiusa. Le mani morbide e robuste gli strinsero le mascelle, costringendolo ad aprire la bocca. Un'altra di quelle alte forme si chinò su di lui, ed egli tossì, semisoffocato dal liquido che gli venne versato in bocca: acqua tiepida, puzzolente e stantia.

I due grandi esseri lo lasciarono. Egli balzò in piedi, sputando l'acqua, e disse: — Sto benissimo, lasciatemi stare! — Ma le creature gli avevano già voltato le spalle. Erano chini su Yahan: uno gli apriva a forza le labbra, l'altro gli versava nella bocca una piccola quantità d'acqua, servendosi di un vaso lungo e argenteo.

Erano molto alti, molto snelli. Semi-umanoidi; robusti e delicati, si muovevano con una certa goffaggine e con una certa lentezza sul terreno, che non era il loro elemento naturale. Il petto relativamente stretto si sporgeva in avanti, tra i muscoli delle spalle che muovevano le ali lunghe e morbide. Le ali, con una dolce curva, scendevano dalle spalle come cappe grige. Le gambe erano sottili e corte, e la nobile testa scura sembrava china in avanti perché le ali sporgevano al di sopra di essa.

Il Manuale di Rocannon giaceva sotto le acque nebbiose del canale, ma ora gli tornò alla memoria: «Forme di vita a intelligenza elevata; specie non confermata N. 4; grandi umanoidi, abitanti in città estese.» E proprio a lui toccava la fortuna di confermarne l'esistenza, di vedere per primo una nuova specie, una nuova grande cultura, un possibile membro della Lega. La pura, precisa bellezza degli edifici, la carità impersonale delle due grandi figure angeliche che portavano acqua, il loro regale silenzio, tutto questo lo metteva in profonda soggezione. Non aveva mai visto una razza come quella, in nessun mondo.

Si avvicinò alla coppia di creature, che in quel momento dava l'acqua a Kyo, e domandò in tono cortese, con un po' di diffidenza: — Parlate la Lingua Comune, alati Signori?

Le due figure non gli diedero retta. Si accostarono tranquillamente a Raho, con il loro passo leggero e un poco claudicante, e versarono a forza un po' d'acqua fra le sue labbra contorte. L'acqua colò fuori, scivolando sulle sue guance.

Passarono a occuparsi di Mogien, e Rocannon le seguì. — Ascoltatemi! — disse, ponendosi davanti a loro, ma subito si fermò, colpito da un pensiero sconvolgente. Forse i grandi occhi dorati di quelle creature non vedevano: forse erano cieche e sorde. Infatti non gli risposero, non lo degnarono di uno sguardo, non fecero altro che allontanarsi, alte, aeree, avvolte da capo a piedi nelle ali simili a soffici mantelli. E la porta si chiuse lentamente alle loro spalle.

Riprendendosi da tutte quelle emozioni, Rocannon si recò da ciascuno dei suoi compagni, sperando che le creature alate avessero somministrato qualche antidoto contro la paralisi. Ma non riscontrò alcun cambiamento. Come prima, respiravano lentamente e avevano un battito lentissimo: tutti i suoi compagni meno uno. Il petto di Raho era immobile, e la sua faccia penosamente contorta era fredda. L'acqua che gli avevano dato gli umidiva ancora le guance.

Lo stupore reverenziale di Rocannon lasciò il posto a una fredda collera. Perché gli Uomini Angelo trattavano lui e i suoi compagni come animali selvaggi catturati?

Si allontanò dai compagni e attraversò il cortile, dirigendosi verso la porta senza architrave e poi nelle strade di quella città incredibile.

Niente si muoveva. Tutte le porte erano chiuse. Alte e prive di finestre, una dopo l'altra, le facciate argentee si ergevano silenziose, illuminate dalla prima luce del mattino.

Rocannon contò sei incroci prima di giungere alla fine della strada, costituita da un muro. Era alto cinque metri e si stendeva da entrambi i lati senza interruzioni. Rocannon pensò per un momento di seguire la strada di circonvallazione, ai piedi di quell'altra parete, per cercare una porta d'ingresso alla città, ma poi scartò quella ipotesi, perché era poco probabile che ci fosse una porta. Le creature alate non hanno bisogno di porte d'accesso alle loro città.

Ripercorrendo la strada radiale da cui era giunto, ritornò verso l'edificio centrale: l'unica costruzione della città che differisse, sia come forma, sia come altezza, dalle alte case argentee disposte in file geometriche. Rientrò nel cortile. Ogni casa era chiusa, le strade erano pulite e deserte, il cielo era vuoto, non c'era altro rumore che quello dei suoi passi.

Bussò alla porta che si trovava in fondo al cortile. Non ebbe risposta. Provò a spingere, e la porta si spalancò.

L'interno era caldo e buio, si udivano sibili e brusii, si aveva l'impressione di una grande altezza, di una notevole ampiezza. Un'alta figura si mosse verso di lui, poi si fermò e rimase immobile. Colpito dal raggio di sole che penetrava dalla porta che Rocannon aveva lasciato leggermente aperta, l'essere alato chiuse gli occhi e li riaprì lentamente. La luce solare lo accecava. Volavano nel ciclo e camminavano lungo le loro strade, fra le case argentee soltanto dopo il tramonto.

Fissando gli occhi insondabili della creatura alata, Rocannon non assunse l'atteggiamento che gli etnologi chiamavano «I.C.T.», ossia Inizio di Comunicazioni Tuttofare: una posa incoraggiante e sicura di sé, e domandò in Galattico: — Chi è il vostro capo?

Pronunciata con solennità, di solito questa domanda otteneva una risposta. Ma questa volta non ebbe alcun risultato. La creatura alata fissò Rocannon, batte ancora le palpebre con imperturbabilità e distacco, chiuse definitivamente gli occhi e rimase immobile, in quello che non poteva essere altro che un sonno profondo.

Gli occhi di Rocannon si erano abituati alla semioscurità, cosicché poté adesso scorgere, nel caldo buio, sotto il soffitto, file, capannelli e gruppetti di figure alate. Centinaia di figure, immobili con gli occhi chiusi.

Passò in mezzo a loro, ed esse non si mossero.

Molto tempo prima, sul suo pianeta natale Davenant, Rocannon era stato in un musco pieno di statue: un bambino che col naso in aria osservava le facce immobili degli antichi dèi degli Hainiti.

Facendo appello a tutto il suo coraggio, si avvicinò a uno di quegli esseri e lo toccò (o la toccò? Chissà, magari erano femmine) sul braccio. Gli occhi dorati si spalancarono, la faccia bellissima si voltò verso di lui, ancora più scura in quella luce crepuscolare. — Hassa! — disse l'Uomo Alato, e, chinandosi rapidamente verso di lui, gli baciò la spalla. Poi fece tre passi indietro, si riavvolse nella cappa delle ali e ritornò immobile, con gli occhi chiusi.

Rocannon proseguì il suo cammino, avanzando a tastoni nell'oscurità tranquilla e dolce della grande stanza, finché non incontrò una seconda porta, alta dal pavimento al soffitto. La zona al di là della porta era leggermente più chiara, poiché minuscoli fori praticati nel soffitto permettevano a una spolverata di luce color dell'oro di filtrare l'ino al pavimento.

Ai due lati di Rocannon, le pareti si curvavano; in alto formavano una volta arcuata. Sembrava un corridoio circolare costruito intorno alla cupola centrale, cuore della città. La parete interna era mirabilmente decorata con un motivo di triangoli ed esagoni che s'intersecavano, e questa decorazione saliva fino al soffitto. In Rocannon si ridestarono l'entusiasmo e le perplessità dell'etnologo. Quella gente era maestra nell'arte di costruire. In tutto il vasto edificio, ogni superficie era perfettamente levigata, e ogni incastro era eseguito con precisione; la concezione era grandiosa, l'esecuzione non aveva difetti.

Solo una cultura superiore poteva arrivare a risultati simili. Ma egli non aveva mai incontrato una razza dotata di elevata cultura che mostrasse una simile mancanza di interesse. In fin dei conti, perché avevano portato laggiù lui e i suoi compagni? Forse, nella loro muta e angelica arroganza, avevano voluto salvare i viaggiatori da qualche pericolo della notte? O riducevano in schiavitù le altre razze? Se così era, perché non avevano preso alcun provvedimento, accorgendosi che lui era immune al loro veleno paralizzante?

Forse comunicavano senza parole, ma, in quell'incredibile palazzo, egli era portato a credere che la spiegazione fosse data da un'intelligenza che, semplicemente, era al di fuori degli interessi umani. Proseguì, e infine trovò sulla parete interna del corridoio una terza porta, molto bassa, che lo costrinse a chinare la testa per passare: un Uomo Alato avrebbe dovuto strisciare al suolo, per entrare.

All'interno c'erano la solita semioscurità calda e giallastra, e un odore dolce leggermente fastidioso, ma si udivano innumerevoli brusii, mormorii, sussurri di voci attutite, movimenti di corpi, strascico d'ali. L'occhio della cupola, molto, molto in alto, era dorato. Una lunga rampa, costruita sulla parete interna dell'edificio, saliva a spirale, con una dolce inclinazione, fino al tamburo della cupola. Qua e là, sulla rampa, si scorgeva qualche movimento; un paio di volte una figura, che dal basso sembrava minuscola, allargò le ali per volare silenziosamente da un lato all'altro del grande cilindro d'aria dorata e polverosa.

Rocannon si avviò verso l'inizio della rampa, e mentre attraversava l'enorme spazio, qualcosa cadde da un punto indeterminato sopra di lui, a circa metà altezza, e toccò terra con uno schianto. Rocannon passò accanto all'oggetto: era il corpo di uno degli Alati. Sebbene l'urto gli avesse frantumato il cranio, non si vedeva sangue. Il corpo era più piccolo di quelli che Rocannon aveva visto fino a quel momento: le ali, a quanto gli parve, non erano del tutto formate.

Proseguì ostinatamente e cominciò a salire la rampa.

A una decina di metri dal suolo giunse a una nicchia triangolare scavata nel muro, in cui erano accovacciati numerosi Alati. Anche questi avevano una taglia inferiore al normale, e le loro ali non erano ben tese. Li contò: erano in nove, disposti a gruppetti uguali di tre, tre, tre, a regolare distanza tra loro, e stavano intorno a una grande massa pallida. Rocannon dovette osservarla a lungo, prima di riconoscere un muso e due occhi spalancati e vacui. Era un destriero del vento, vivo, paralizzato. Le piccole bocche delicatamente modellate dei nove Alati si piegavano ripetutamente su di esso, baciandolo, baciandolo…

Un altro tonfo sul pavimento della sala, di fronte a lui: Rocannon gli rivolse soltanto un'occhiata, mentre scappava via di corsa. Era il corpo rinsecchito e dissanguato di un barilo.

Oltrepassò il passaggio anulare, alto e decorato, e si fece strada, con tutta la rapidità e con tutto il silenzio possibili, in mezzo alle figure che dormivano in piedi nella sala. Uscì nel cortile. Era vuoto. Il pavimento era illuminato dal sole già alto. I suoi compagni erano scomparsi. Li avevano portati via per darli alle larve che laggiù, nella grande sala a cupola, li avrebbero succhiati vivi.

CAPITOLO SETTIMO

Rocannon sentì piegarsi le ginocchia. Si sedette sul lucido pavimento e cercò di frenare la sua cieca paura quel tanto che bastava per pensare al da farsi. Doveva ritornare nella cupola per portare via Mogien, Yahan e Kyo. Al pensiero di ritornare laggiù, fra le alte e angeliche figure le cui nobili teste ospitavano cervelli degenerati o specializzati al livello degli insetti, si sentì attraversare la schiena da un brivido; ma doveva farlo. I suoi amici erano là dentro, ed egli doveva portarli via. Le larve e le loro balie, nella cupola, erano abbastanza addormentate da permettergli di farlo? Smise di farsi domande. Per prima cosa doveva fare il giro completo del muro perimetrale, perché se non ci fosse stata una porta, il suo lavoro sarebbe stato inutile. Non avrebbe potuto trasportare i suoi amici al di là di un muro alto cinque metri.

C'erano probabilmente tre caste, pensò, mentre percorreva la strada perfetta e silenziosa. Balie per le larve della cupola, costruttori e cacciatori nelle stanze intorno alla cupola stessa, e, nelle case lungo le vie, gli individui fertili, che deponevano e covavano le uova. I due esseri che avevano portato l'acqua appartenevano probabilmente alla casta delle balie, e dovevano mantenere in vita le prede paralizzate in attesa che le larve le succhiassero. Avevano dato acqua anche a Raho, che era morto. Come aveva fatto, a non accorgersi che erano prive di intelligenza? Si era convinto che fossero intelligenti perché avevano un'aria così umana e angelica. Cancella pure la specie N. 4, pensò, indispettito, all'indirizzo del suo Manuale naufragato. E proprio in quel momento, una creatura attraversò rapidamente la strada, all'altezza dell'incrocio successivo: una forma bassa e bruna, impossibile capire se grossa o piccola, in quella irreale geometria di case tutte uguali. Chiaramente non faceva parte della città. Almeno, gli insetti-angelo avevano dei parassiti che infestavano il loro bell'alveare. Avanzò rapidamente nel profondo silenzio, raggiunse il muro di cinta e voltò a sinistra, lungo di esso.

Poco davanti a lui, vicino alla base argentea e senza commessure del muro, era rannicchiato uno degli animali bruni. Sulle quattro zampe giungeva a malapena al ginocchio di Rocannon. A differenza della maggior parte degli animali non intelligenti del pianeta, non aveva ali. Cercava di nascondersi contro la base del muro, sembrava decisamente spaventato, e Rocannon si limitò a girargli attorno, per non allarmarlo, con il rischio che lo assalisse, e proseguì per la sua strada. Nel tratto che poteva scorgere dal punto in cui si trovava, sull'alto muro curvo, non c'erano porte.

— Signore! — chiamò una vocina da un punto indeterminato. — Signore!

— Kyo! — esclamò Rocannon, voltandosi. La sua voce rimbalzò sulle pareti. Nulla si mosse. Pareti bianche, ombre nere, linee rette, silenzio.

Il piccolo animale bruno veniva verso di lui, saltellando. — Signore — gridò con voce esile, — Signore, vieni, vieni. Oh, vieni, Signore!

Rocannon si fermò stupefatto. La piccola creatura si accovacciò sulle robuste gambe posteriori, ponendosi davanti a lui. Ansimava, e i battiti del cuore gli facevano sobbalzare il petto coperto di pelo. Minuscole mani nere, incrociate sul torace. Occhi scuri, atterriti, che lo guardavano. Ripeté con voce tremula, in Lingua Comune: — Signore…

Rocannon si inginocchiò davanti a lui. Pensò rapidamente a come comportarsi con quella creatura, e infine disse, molto gentilmente: — Non so come chiamarti.

— Oh, vieni — disse la piccola creatura, tremando. — Signori… Signori. Vieni!

— Gli altri signori, i miei amici?

— Amici — disse la creatura bruna. — Amici. Castello. Signori, castello, fuoco, destriero, giorno, notte, fuoco. Oh, vieni!

— Vengo — disse Rocannon.

La creatura si allontanò immediatamente, saltellando, e Rocannon la seguì. Si diresse lungo la strada radiale, poi voltò in una via laterale, a nord, e infine entrò in una delle dodici porte che davano accesso alla cupola. E al di là di quella porta, sul pavimento di piastrelle levigate, Rocannon scorse i suoi quattro compagni, esattamente come li aveva lasciati. Più tardi, quando ebbe tempo di pensare all'intera vicenda, capì che quando era uscito dalla cupola era entrato in un cortile diverso, e per questo motivo non aveva più trovato i compagni.

Nel cortile c'erano altre cinque creature uguali a quella che aveva accompagnato Rocannon, tutte raggruppate in atteggiamento reverenziale intorno a Yahan. Rocannon si inginocchiò, per ridurre la differenza d'altezza tra lui e le creature, e rivolse loro un inchino. — Salve, Piccoli Signori — disse.

— Salve, salve — dissero tutte insieme le sei creaturine pelose. Poi uno, che aveva il pelo del muso più nero delle altre, disse: — Kiemhrir.

— Voi siete i Kiemhrir? — Si inchinarono, imitando il suo inchino. — Io sono Rokanan Olhor. Veniamo dal nord. Dall'Angien, dal Castello di Hallan.

— Castello — disse Muso Nero. La sua vocina tremava per l'emozione. Meditò, si grattò la testa. — Giorni, notti, anni, anni — disse. — Signori andati. Anni, anni, anni… Kiemhrir non andati. — Fissò Rocannon con aria speranzosa.

— I Kiemhrir sono rimasti qui? — domandò questi.

— Rimasti! — esclamò Muso Nero, con voce sorprendentemente alta. — Rimasti! Rimasti! — E gli altri mormorarono deliziati: — Rimasti…

— Giorno — riprese Muso Nero, in tono deciso, indicando il sole già alto. — Signori venuti. Andare?

— Sì, vorremmo andare via. Potete darci aiuto?

— Aiuto — disse il Kiemhrir, gustandosi la parola avidamente, con aria deliziata. — Aiuto andare. Signore, rimanere!

E Rocannon rimase nel cortile: si sedette a terra e osservò i Kiemhrir che si mettevano al lavoro. Muso Nero fischiò, e presto arrivò un'altra decina di Kiemhrir, che avanzarono circospetti. Rocannon si domandava dove potessero nascondersi nella matematica precisione della città alveare; ma era evidente che avevano qualche nascondiglio, e anche qualche loro magazzino, perché ne arrivò uno che reggeva tra le piccole mani nere un oggetto bianco sferico che sembrava un uovo.

Era un guscio d'uovo usato come recipiente: Muso Nero lo prese e tolse il tappo, con molta attenzione. Conteneva un liquido denso e trasparente. Ne sparse una piccola quantità sulle spalle dei prigionieri paralizzati, dove erano stati punti dagli uomini alati; poi, mentre altri Kiemhrir sollevavano delicatamente, con molte attenzioni, la testa dei feriti, versò nella loro bocca un poco del liquido.

Non toccò Raho. I Kiemhrir non parlavano tra loro, comunicavano soltanto mediante fischi e gesti; erano molto tranquilli ed erano cortesi in un modo che commosse Rocannon.

Muso Nero gli si avvicinò e gli disse, in tono rassicurante: — Signore, rimanere.

— Vuoi dirmi che devo aspettare? Certo.

— Signore… — disse il Kiemhrir, indicando il corpo di Raho, e poi tacque.

— È morto — disse Rocannon.

— Morto, morto — ripete il Kiemhrir. Si toccò la base del collo, e Rocannon annuì.

Il cortile dalle pareti argentee era ormai totalmente illuminato dalla luce del mezzogiorno. Yahan, che giaceva vicino a Rocannon, trasse un lungo respiro.

I Kiemhrir sedevano sulle zampe posteriori, disposti in un semicerchio, dietro il loro capo. Rocannon si rivolse a lui per dirgli: — Piccolo Signore, posso sapere il tuo nome?

— Nome — bisbigliò la creatura dal muso nero. Tutte le altre erano immobili. — Liuar — disse infine; l'antica parola usata da Mogien per indicare nobili e plebei insieme, quella che la Guida aveva impiegato per definire la Specie II. — Liuar, Fiia, Gdemiar: nomi. Kiemhrir: non nome.

Rocannon annuì, chiedendosi il significato esatto di quella affermazione. La parola kiemher, plurale kiemhrir, era infatti, ricordò, soltanto un aggettivo, che significava «agile, svelto».

Dietro di lui, Kyo respirò a fondo, si scosse, si rizzò a sedere. Rocannon si avvicinò al Fian. Le piccole creature senza nome, attente e tranquille, osservavano con i loro occhi neri. Yahan si ridestò, e infine Mogien, che doveva avere assorbito una fortissima dose del veleno paralizzante, poiché all'inizio non riusciva neppure a sollevare le mani.

Timidamente, uno dei Kiemhrir mostrò a Rocannon che poteva aiutare Mogien massaggiandogli le braccia e le gambe; Rocannon si mise immediatamente all'opera, e intanto spiegò cosa fosse successo, dove si trovassero.

— L'arazzo — mormorò Mogien.

— Come? — gli domandò gentilmente Rocannon, pensando che il giovane fosse ancora intontito, e che delirasse.

— L'arazzo, al castello… i giganti alati.

Subito Rocannon si ricordò di avere sostato accanto all'arazzo, con Haldre, nella Sala del Castello di Hallan: l'arazzo che rappresentava guerrieri dai capelli biondi intenti a combattere contro i giganti alati.

Kyo, che da qualche istante osservava i Kiemhrir, tese la mano. Muso Nero saltellò fino a lui e pose la sua mano minuscola e nera, priva di pollice, sul palmo lungo e sottile di Kyo.

— Signori delle Parole — disse piano il Fian. — Amici delle Parole, Divoratori di Parole, i Senza Nome, il Popolo Svelto, Coloro che Ricordano a Lungo. Ricordate ancora le parole del Popolo Alto, voi Kiemhrir?

— Ancora — disse Muso Nero.

Aiutato da Rocannon, Mogien si alzò in piedi, ancora rigido e sofferente. Rimase a lungo presso Raho, la cui faccia era impressionante, in piena luce. Poi salutò i Kiemhrir e sedette accanto a Rocannon, assicurandolo che si sentiva di nuovo a posto.

— Se non c'è una porta d'accesso, possiamo scavare degli appigli nel muro e arrampicarci — disse Rocannon.

— Fischia per chiamare i destrieri, Signore — mormorò Yahan.

Il problema se il fischio potesse svegliare le creature della cupola era troppo complesso per sottoporlo ai Kiemhrir. Poiché gli Uomini Alati sembravano totalmente notturni, decisero di correre il rischio. Mogien prese da sotto il mantello un piccolo fischietto legato a una catena, e ne trasse un suono che Rocannon non poté udire, ma che fece sobbalzare i Kiemhrir. Dopo una ventina di minuti, una grande ombra si disegnò sulla cupola, descrisse un cerchio intorno ad essa, si lanciò verso nord, e dopo qualche minuto ritornò con un compagno.

I due grifoni atterrarono nel cortile con un possente sventolio d'ali: l'animale dal manto a strisce e quello grigio di Mogien. Mancava quello bianco, e non lo rividero mai più. Forse era l'animale che Rocannon aveva visto sulla rampa, nella luce dorata e crepuscolare della cupola, cibo per le larve degli Angeli.

I Kiemhrir avevano paura dei grifoni. Il minuscolo inchino di Muso Nero per poco non venne sommerso dal panico, quando Rocannon cercò di salutarlo e di ringraziarlo. — Oh, vola, Signore! — disse penosamente, tenendosi accuratamente lontano dalle unghiute zampe degli animali; così non persero tempo nel partire.

A un'ora di volo dalla città alveare, i sacchi e le selle, i mantelli di ricambio, le pelli che usavano per dormire, giacevano intatti accanto alle ceneri del fuoco della notte precedente. Poco più in là, sul fianco della collinetta, c'erano tre Uomini Alati, morti, e accanto ai cadaveri le due spade di Mogien, una delle quali spezzata nettamente all'altezza dell'elsa.

Mogien, destandosi nella notte, aveva visto gli Uomini Alati, curvi sulle figure di Yahan e di Kyo. Uno di essi lo aveva morso, e: — … Non sono riuscito più a parlare — spiegò. Ma aveva lottato e ne aveva uccisi tre, prima che la paralisi lo abbattesse.

— Ho udito Raho che gridava il mio nome. Mi ha chiamato tre volte, e io non ho potuto aiutarlo. — Sedette tra le rovine coperte d'erba che erano sopravvissute più a lungo dei nomi e delle leggende, si mise sulle ginocchia la spada spezzata e rimase in silenzio.

Alzarono una pira di rami e di fascine, e vi misero a giacere Raho, che avevano portato con sé dalla città alveare. Accanto a lui, posero l'arco e le frecce. Yahan accese il fuoco, e Mogien portò la fiamma alla legna. Montarono in sella, Kyo dietro a Mogien e Yahan dietro a Rocannon, e si alzarono in grandi cerchi intorno al fumo che si levava dalla pira ardente, sotto il sole del primo pomeriggio, sulla cima di una collina di quel paese straniero.

Per lungo tempo, volando, poterono vedere la sottile colonna di fumo alle loro spalle.

I Kiemhrir avevano fatto capire chiaramente che avrebbero dovuto allontanarsi in fretta, tenendosi al coperto durante la notte, perché gli Uomini Alati non li scorgessero dopo il calar del buio. Verso sera giunsero a un fiume che scorreva in una gola profonda, fra gli alberi, e si accamparono nei pressi di una cascata. Il luogo era umido, ma l'aria era fragrante e il piacevole rumore del fiume rilassò il loro spinto. Per cena trovarono un cibo prelibato: un animale acquatico lento e protetto da uno spesso guscio, di sapore assai delicato; ma Rocannon non riuscì a mangiarlo. Sotto le articolazioni e sulla coda c'era ancora un residuo di pelliccia: era un mammifero oviparo, come molti animali di quel pianeta, e come gli stessi Kiemhrir, probabilmente.

— Prendi anche la mia razione, Yahan. Non posso mangiare una bestia che forse, mentre la mastico, si mette a parlarmi — disse, irritato perché aveva fame, e andò a sedere accanto a Kyo.

Kyo sorrise, massaggiandosi la spalla ancora dolorante. — Se di ciascuna creatura si potessero udire le parole… — cominciò.

— Io sarei il primo a morire di fame.

— Comunque, le creature verdi sono silenziose — disse il Fian, toccando la scabra corteccia di un albero caduto attraverso il fiumiciattolo. Laggiù nel sud gli alberi, che erano tutti conifere, erano in fiore e l'aria della foresta era polverosa e dolce per il polline che trasportava. Laggiù tutte le piante affidavano al vento il loro polline, erbe e conifere, perché non c'erano insetti e non c'erano fiori con i petali. La primavera, sul mondo senza nome, era tutta verde: verde scuro e verde chiaro, con grandi quantità di polline dorato sparse nell'aria.

Mogien e Yahan si addormentarono non appena fece buio, stendendosi accanto alla cenere ancora calda; avevano spento il fuoco per non attirare gli Uomini Alati. Come Rocannon aveva intuito, Kyo era più resistente degli uomini per ciò che riguardava il veleno. Rimase a sedere con Rocannon, al buio, sulla riva del fiume.

— Hai salutato i Kiemhrir come se tu li conoscessi già — osservò Rocannon.

Il Fian rispose: — Se uno di noi ricordava una cosa, al villaggio, la ricordavamo tutti, Olhor. Per questo noi conosciamo molte storie, e molte dicerie, e menzogne e verità, e non si può mai sapere quanto siano antiche…

— Eppure non conoscevi gli Uomini Alati.

Sembrava che Kyo preferisse evitare l'argomento, ma infine rispose: — I Fiia non ricordano le cose di cui hanno avuto paura, Olhor. La notte e le caverne, e le spade di metallo, le abbiamo lasciate al Popolo dell'Argilla, quando il nostro cammino si e separato dal loro, e abbiamo dimenticato molto!

La sua voce leggera era più ferma, più ansiosa di prima, quella sera, e giungeva chiara attraverso il rumore dell'acqua che scorreva sotto di loro e di quella che precipitava dalla cascata, sopra di loro.

— Ogni giorno — riprese Kyo, — a mano a mano che procediamo verso sud, io penetro sempre più profondamente nelle favole che i miei compagni imparano da bambini, nelle valli dell'Angien. E vedo che quelle favole sono vere. Ma abbiamo dimenticato metà di quelle favole. I piccoli Divoratori di Nomi, i Kiemhrir, sono presenti nelle vecchie canzoni che ci cantiamo da una mente all'altra, ma non gli Uomini Alati.

«Ci sono gli amici, ma non i nemici. C'è la luce del sole, ma non il buio. E io sono il compagno di Olhor che viaggia verso sud, verso le leggende, senza portare spada. Io viaggio con Olhor, che cerca di ascoltare la voce del suo nemico, Olhor che ha attraversato il grande buio, che ha visto il Mondo sospeso nell'oscurità come una gemma azzurra. Io sono soltanto un mezzo uomo. Io non posso oltrepassare le montagne. Io non posso recarmi nei Luoghi Alti con te, Olhor.

Rocannon posò delicatamente la mano sulla spalla del Fian, e subito la piccola creatura tacque. Rimasero seduti ad ascoltare lo sciacquio del fiume, della cascata nella notte, a guardare la luce grigia delle stelle riflessa sull'acqua che scorreva, tra le macchie e le volute del polline trasportato dal vento, fredda come il ghiaccio, proveniente dalle montagne del sud.

Due volte, durante il volo del giorno successivo, videro lontano, a est, le cupole e le strade a raggiera delle città alveare. Quella notte fecero doppi turni di guardia. La sera del giorno dopo erano penetrati per un buon tratto nella zona delle montagne, e una pioggia gelida e sferzante li accompagnò per tutta la notte e per il giorno seguente, in volo. Quando le nubi gonfie di pioggia si aprirono un poco, videro che tutt'intorno a loro, nella distanza, si alzava una catena di montagne altissime.

Trascorse un'altra notte di pioggia e di turni di guardia: questa volta si accamparono sulla cima di una montagnola, sotto le rovine di un'antica torre, e l'indomani, poco dopo il mezzogiorno, si trovarono dall'altra parte del passo, dove vennero accolti dal sole e da un'ampia valle che si dirigeva a sud, verso una lontanissima catena di monti.

Ora, alla loro destra, mentre percorrevano in volo la valle come se fosse stata una grande autostrada verde, i picchi bianchi si ergevano serrati, lontani e immensi. Il vento era tagliente e dorato, e i destrieri si facevano trasportare come foglie cadenti illuminate dal sole. Sopra la dolce conca verde che si stendeva sotto di loro, e sulla quale parevano disegnate a smalto macchie più scure di alberi e cespugli, aleggiava una striscia sottile di grigio. Il grifone di Mogien scese a grandi cerchi, Kyo indicò a Rocannon un punto, e presto giunsero al villaggio che giaceva tra fiume e collina, illuminato dal sole e con i piccoli camini che fumavano. Un gregge di herilor brucava tranquillamente sul fianco della collina, al di sopra di esso. Al centro del cerchio irregolare di casette, tutte di travi sottili, con schermi scorrevoli e porticati grandi e soleggiati, si alzavano cinque grandi alberi. I viaggiatori presero terra accanto a questi alberi, e i Fiia vennero a salutarli, timidi e sorridenti.

I Fiia di quel villaggio parlavano male la Lingua Comune, e non erano abituati a usare la voce. Tuttavia ai viaggiatori sembrò di essere ritornati a casa, quando entrarono nelle ariose casette, quando mangiarono in piatti di legno levigato, lontano dalla solitudine e dall'inclemenza del tempo per una sera, accolti dall'allegria e dall'ospitalità. Era uno strano minuscolo popolo, sfuggente, mutevole, aggraziato: Kyo stesso l'aveva chiamato il Mezzo Popolo.

Eppure lo stesso Kyo era ormai diventato leggermente diverso da loro. Sebbene, nell'abito che gli avevano dato, sembrasse identico, e si muovesse e gesticolasse come loro, quando era insieme con gli altri lo si riconosceva subito. Forse perché, essendo un forestiero, non poteva parlare liberamente con il pensiero con gli abitanti del villaggio, forse perché l'amicizia di Rocannon l'aveva cambiato, l'aveva fatto diventare un altro tipo di essere, più solitario, più triste, più completo.

I Fiia conoscevano la configurazione del paese. La zona al di là della grande catena posta a occidente era deserta; per continuare il viaggio verso sud, i viaggiatori avrebbero dovuto seguire la valle, tenendosi a est delle montagne, finché la catena stessa non si fosse volta a est.

— Ci sono dei passi che permettono di oltrepassarla? — domandò Mogien, e i piccoli Fiia dissero: — Certo, certo.

— E sapete cosa giace al di là di quei passi?

— Quei passi sono molto alti, molto freddi — risposero i Fiia, educatamente.

I viaggiatori si trattennero per due notti nel villaggio a riposare, e ripartirono con i bagagli pieni di pane e di carne secca regalata loro dai Fiia, popolo che provava grande piacere nel donare.

Dopo due giorni di volo giunsero a un altro villaggio del piccolo popolo, dove furono nuovamente ricevuti in grande amicizia, tanto che il loro, più che l'arrivo di persone estranee, si sarebbe detto il ritorno di amici lungamente attesi. Quando i destrieri presero terra, un gruppo di Fiia, uomini e donne, venne ad accogliere i viaggiatori, salutando Rocannon, che era stato il primo a smontare di sella, con le parole: — Salve, Olhor!

Rocannon rimase assai sorpreso, e la sorpresa non cessò neppure dopo che si fu detto che quella parola, naturalmente, significava «viaggiatore, errante» e così via, tutti appellativi che corrispondevano al vero. Eppure, a dargli quel soprannome era stato proprio Kyo, il Fian.

In seguito, mentre erano accampati più a valle, dopo un'altra lunga, tranquilla giornata di volo, Rocannon disse a Kyo: — Tra la tua gente, Kyo, avevi un tuo nome proprio?

— Mi chiamavano «pastore», o «fratello giovane», o «corridore». Ero sempre il primo della corsa.

— Ma questi sono soprannomi, descrizioni; come Olhor o Kiemhrir. Siete dei grandi inventori di appellativi, voi Fiia. Salutate ogni visitatore con un soprannome diverso: Signore delle Stelle, Portatore di Spade, Capelli di Sole, Signore delle Parole. Credo che gli Angyar abbiano preso da voi l'amore dei soprannomi. Eppure voi non avete nomi propri.

— Signore delle Stelle, Venuto da Lontano, Capelli di Cenere, Portatore del Gioiello — disse Kyo, sorridendo. — Che cos'è, un nome proprio?

— Capelli di Cenere? Mi sono venuti i capelli grigi? Non sono certo di sapere che cosa sia un nome proprio. Il mio nome, quello che mi è stato dato alla nascita, è Gaveral Rocannon. Una volta detto questo, non ho descritto niente, ma mi sono dato un nome. E quando vedo un nuovo tipo di albero chiedo a te (o a Yahan o a Mogien, perché tu rispondi raramente) quale sia il suo nome. Mi sembra che mi manchi qualcosa, finché non so il suo nome.

— Be', un albero è un albero; come io sono un Fian, come tu sei… cosa?

— Ma ci sono delle differenze, Kyo! In ciascuno dei villaggi che abbiamo incontrato ho chiesto come si chiamano le montagne che sorgono a ponente, la catena che domina su di loro dal momento della nascita a quello della morte, e mi hanno detto: «Quelle sono montagne, Olhor.»

— E lo sono effettivamente — disse Kyo.

— Ma ci sono altre montagne: la catena più bassa che sorge a est, lungo questa stessa valle! Come puoi riconoscere una catena dall'altra, una creatura dall'altra, senza nomi propri?

Con i gomiti appoggiati sulle ginocchia, il Fian guardava le cime illuminate dal sole del tramonto. Dopo qualche tempo, Rocannon capì che la sua domanda non avrebbe ricevuto risposta.

I venti divennero più caldi e le giornate più lunghe con l'avanzare dell'annocaldo e con il loro procedere verso sud. Poiché i destrieri dovevano portare un carico doppio, le tappe non erano mai troppo lunghe, e spesso si fermavano per un giorno o due, per rifornirsi di selvaggina e per permettere ai destrieri di cacciare. Infine videro che la catena occidentale cominciava a curvarsi nella loro direzione, davanti a loro, per andarsi a congiungere con la catena costiera, a est. Le nuove montagne sbarravano loro la strada; il verde della valle giungeva fino ai piedi dei monti, e non saliva più in su. Molto più in alto si scorgeva qualche macchia di verde e di bruno, che testimoniava della presenza di vallate alpine; più in alto ancora, il grigio della roccia e delle pietraie, e infine, a mezza via tra la terra e il cielo, il bianco luminoso delle cime battute dalle tempeste.

A elevata altitudine, sulle prime montagne, giunsero a un villaggio dei Fiia. Il vento gelido proveniente dai picchi soffiava tra i fragili tetti, disperdendo il fumo azzurrino fra la lunga luce del tramonto e le ombre. Come sempre, vennero ricevuti con grazia e allegria, vennero loro offerte in ciotole di legno, nel tepore di una casa, acqua, carne fresca ed erbe, i loro abiti impolverati vennero ripuliti, e i loro destrieri vennero accuditi e nutriti da bambini vivaci come l'argento vivo.

Dopo il pasto, quattro ragazze del villaggio danzarono in loro onore, senza musica: con movimenti e con passi tanto rapidi e leggeri da sembrare prive di corpo, un gioco di luce e di ombre al chiarore del fuoco, elusive, sfuggenti. Rocannon rivolse a Kyo un sorriso compiaciuto, e il Fian, che sedeva accanto a lui, gli restituì con gravità lo sguardo e disse: — Io rimarrò qui, Olhor.

Rocannon, che stava già per rispondere qualcosa, preoccupato, invece tacque, e per qualche tempo si soffermò ancora a guardare le danzatrici, i giochi sempre cangianti di eteree figure in movimento, illuminate dalla tremula luce del fuoco. Intrecciavano una musica usando il silenzio come materia prima, e intrecciavano strane emozioni nella mente degli spettatori. Sulle pareti di legno, la luce del fuoco si curvava, guizzava e cambiava ad ogni istante.

— È stato predetto che l'Errante avrebbe scelto dei compagni. Per qualche tempo.

Rocannon non capì chi parlasse: se lui stesso, Kyo, oppure la voce dei suoi ricordi. Ma le parole si disegnarono nella sua mente e in quella di Kyo. Le danzatrici si separarono, le ombre guizzarono rapidamente sulle pareti, per un istante i capelli sciolti di una delle ragazze brillarono. La danza che non aveva musica era terminata, le danzatrici che avevano soltanto il nome della luce e dell'ombra adesso erano ferme. Allo stesso modo, tra lui e Kyo, un disegno era giunto al suo termine, lasciando al proprio posto la quiete.

CAPITOLO OTTAVO

Sotto le ali del grifone, che battevano pesantemente, Rocannon vide una salita di rocce spezzate, un ammasso incoerente di macigni che scendeva rapidamente alle loro spalle, e la cui inclinazione era talmente alta che la punta dell'ala sinistra dell'animale sfiorava quasi le rocce, mentre volava verso il passo. Rocannon aveva allacciato le cinghie da coscia, che normalmente venivano usate soltanto in battaglia, perché le correnti ascendenti e le raffiche improvvise rischiavano di far perdere l'equilibrio al grifone; inoltre, per riscaldarsi, indossava la tuta. Dietro a lui, avvolto in tutti i mantelli e le pellicce che possedevano, sedeva Yahan, talmente intirizzito che aveva preferito legarsi i polsi alla sella, poiché non si fidava della sensibilità delle sue mani. Mogien, che volava molto innanzi a loro sul suo destriere) meno carico, sopportava con una gioia selvaggia la loro battaglia contro le grandi cime.

Quindici giorni addietro avevano lasciato l'ultimo villaggio Fian, avevano detto addio a Kyo, e si erano levati in volo sulle colline e le prime montagne, dirigendosi verso quello che sembrava il passo più ampio. I Fiia non avevano saputo fornire loro alcuna indicazione: ad ogni accenno di voler valicare le montagne ammutolivano, con aria impaurita.

I primi giorni erano trascorsi senza problemi, ma quando raggiunsero altitudini più elevate, i destrieri cominciarono a stancarsi rapidamente, poiché l'aria sottile non forniva loro la ricca scorta d'ossigeno che bruciavano volando. Ad altitudini ancora superiori, incontrarono il freddo e il tempo infido dell'alta montagna. Negli ultimi tre giorni avevano percorso meno di quindici chilometri, buona parte dei quali alla cieca. Gli uomini erano affamati perché avevano voluto dare ai grifoni una doppia razione di carne secca; quella mattina Rocannon aveva lasciato che terminassero quanto era rimasto nel sacco, perché se non fossero riusciti a superare il passo quel giorno, avrebbero dovuto tornare indietro, nelle foreste, dove avrebbero potuto cacciare e riposarsi per poi ripetere il tentativo.

Sembrava che avessero trovato la strada giusta per giungere al passo, ma dalle cime a levante soffiava un vento forte e gelido, e il cielo stava diventando bianco e opprimente. Ma Mogien era la guida, e Rocannon costringeva il suo destriero a seguirlo: in quell'interminabile e crudele traversata delle grandi altezze, Mogien era la guida, e Rocannon si limitava a stargli dietro. Aveva scordato il motivo che lo spingeva ad attraversare quelle montagne: sapeva soltanto che doveva farlo, che doveva raggiungere il sud. Ma per trovare il coraggio necessario, egli dipendeva da Mogien.

— Credo che questo sia il tuo regno — aveva detto al giovane, la sera prima, quando avevano discusso la via da prendere; e, alzando lo sguardo sul grande, gelido panorama di cime e abissi, di rocce, di neve, di cielo, Mogien aveva risposto con la sua pronta certezza di grande Signore: — Questo è il mio regno.

Adesso Mogien stava chiamando, e Rocannon cercò di incoraggiare il suo grifone, mentre scrutava davanti a sé, attraverso la sfera del gelo, per trovare un varco in quell'interminabile caos di rocce. E infine lo vide: uno spigolo, una trave rotta nel tetto del pianeta: la salita di rocce terminò bruscamente, e sotto di loro si allargò una grande distesa di bianco: il passo. Al loro fianco, da entrambe le parti, cime sferzate dal vento si innalzavano fino a raggiungere le nubi cariche di neve.

Rocannon era abbastanza vicino a Mogien da poter scorgere la sua faccia impassibile e da poter udire il suo grido: il grido di battaglia, in falsetto, del guerriero vittorioso. Continuò a seguire Mogien sulla bianca vallata, sotto le nubi candide. La neve cominciò a danzare intorno a loro; non cadeva, bensì, danzava, laggiù nel suo habitat, nel suo luogo di nascita: una danza asciutta e ondeggiante. Mezzo esausto di fame, sovraccarico, il grifone ansimava ogni volta che sollevava le grandi ali. Mogien aveva ridotto la distanza tra i due grifoni, in modo che gli altri non lo perdessero di vista fra quelle nubi; proseguiva nel volo, ed essi lo seguivano.

Nella nebbia di fiocchi ondeggianti apparve un chiarore, e gradualmente si diffuse una debole, chiara luminosità dorata. Color oro pallido, i lisci campi di neve scendevano sempre di più. Poi all'improvviso il mondo parve sprofondare, e i destrieri si dibatterono in un vasto vortice d'aria. Sotto di loro, molto al di sotto, nitidi e minuscoli, si stendevano valli, laghi, la lingua luccicante di un ghiacciaio, verdi macchie di foreste. Il grifone di Rocannon annaspò e cadde con le ali sollevate: precipitò come una pietra, e Yahan emise un grido di terrore, Rocannon chiuse gli occhi e si afferrò istintivamente alla sella.

Le ali batterono una volta, poi una seconda; la caduta rallentò: ritornò a essere un volo controllato, e infine terminò. L'animale si era accucciato, tremante, in una vallata rocciosa. Accanto, anche l'animale grigio di Mogien cercava di accucciarsi, mentre Mogien, ridendo, balzava di sella e gridava: — Siamo dall'altra parte, ce l'abbiamo fatta! — Raggiunse Yahan e Rocannon: la sua faccia scura ed espressiva era illuminata dal trionfo. — Adesso tutt'e due i versanti di queste montagne sono il mio regno, Rokanan!… Questa valle andrà bene per accamparci questa notte. Domani le bestie potranno cacciare, sotto di noi dove crescono gli alberi, e noi scenderemo a piedi. Vieni, Yahan.

Yahan rimaneva seduto nella sella posteriore, incapace di muoversi. Mogien lo sollevò di peso e lo aiutò a sedere al riparo di un masso: sebbene splendesse il sole del pomeriggio inoltrato, esso dava ben poco calore: non molto di più di quanto ne desse Grandestella, minuscola briciola di cristallo nel ciclo a sudovest, e il vento che soffiava era freddo e tagliente. Mentre Rocannon dissellava i destrieri, il signore Angyar cercò di aiutare il servitore, facendo quanto poteva per scaldarlo. Non c'era niente che permettesse di accendere un fuoco, erano ancora molto al di sopra del limite più alto delle foreste. Rocannon si sfilò la tuta e la fece indossare a Yahan, non curandosi delle proteste e dei timori del giovane, e infine si avvolse nelle pellicce. I grifoni e gli uomini si raggomitolarono insieme per riscaldarsi l'un l'altro, e consumarono un po' d'acqua e di pane Fian. La notte salì fino a loro, dalle regioni indistinte sottostanti. Le stelle balzarono in cielo, come se l'oscurità avesse fatto scattare una sorta di molla, e le due lune più luminose brillarono a portata di mano.

Nel profondo della notte, Rocannon si destò da un sonno senza sogni. Tutto era mortalmente gelido, silenzioso sotto la luce delle stelle. Yahan afferrava il suo braccio e bisbigliava qualcosa, febbrilmente.

Rocannon guardò nel punto indicato dal giovane, e vide, ritta sul masso sopra di loro, un'ombra, un'interruzione del tessuto di stelle.

Era simile all'ombra che Rocannon e Yahan avevano visto nella savana, molto lontano, a nord: era grande, dai contorni vaghi.

E mentre guardava, le stelle ripresero a luccicare debolmente, attraverso la massa scura, e infine l'ombra scomparve, lasciando il posto all'aria buia e trasparente e a null'altro. Alla sinistra del punto dove c'era stata l'ombra, splendeva debolmente Heliki, in fase calante.

— È stato un gioco di luci, Yahan — mormorò. — Dormi, hai la febbre.

— No — disse calmo Mogien, accanto a loro. — Non è stato un gioco di luci, Rokanan. Era la mia morte.

Yahan si rizzò a sedere, scosso dalla febbre. — No, Signore! Non può essere la tua: non può esserlo! Io l'ho già vista tempo fa, nelle pianure, quando non eri con noi… e con me l'ha vista anche Olhor!

Chiamando in suo aiuto gli ultimi rimasugli di buon senso, di rigore scientifico, di abitudini del passato, Rocannon cercò di parlare autorevolmente: — Non siate assurdi — disse.

Mogien non gli prestò attenzione. — L'ho vista nelle pianure, dove mi stava cercando. E due volte l'ho vista sulle montagne, quando eravamo alla ricerca del passo. E quale morte potrebbe essere, se non la mia? La tua, Yahan? Sei forse un Signore, un Angya? Porti forse le due spade?

Febbricitante e disperato. Yahan cercò di far valere le sue ragioni, ma Mogien proseguì: — Non è la morte di Rokanan, perché egli è ancora occupato a seguire la sua via. Un uomo può morire in qualsiasi posto, ma la morte che è soltanto sua, la sua vera morte, un Signore la può incontrare soltanto nel proprio regno. Essa lo attende nel luogo che gli appartiene, un campo di battaglia, o un castello, o la fine di una strada. E qui è il mio posto. La mia gente è venuta da queste montagne, e io ci sono ritornato. La mia seconda spada si è spezzata combattendo. Ascoltami, morte mia: io sono Mogien crede di Hallan… adesso mi riconosci?

Il vento aelido soffiava sulle rocce. Intorno a loro si alzavano i grandi massi, dietro i quali scintillavano le stelle. Uno dei grifoni si agitò e ringhiò.

— Calmati — disse Rocannon. — Calmati e cerca di dormire. Sono tutte sciocchezzc…

Ma quella notte non riuscì a riprendere sonno, e tutte le volte che si girò vide Mogien seduto a fianco del suo destriero, calmo e pronto, intento a osservare le terre ammantate dall'oscurità della notte.

Quando fu giorno lasciarono liberi i grifoni, che volarono a cacciare nelle foreste sottostanti, e cominciarono a scendere a piedi. Erano ancora molto in alto, assai al di sopra del limite delle piante ad alto fusto, ed erano al sicuro soltanto finché il tempo si manteneva sereno. Ma fin dalla prima ora di cammino videro che Yahan non sarebbe stato in grado di farcela: non si trattava di una discesa particolarmente difficile, ma il freddo e la stanchezza avevano consumato le sue forze, ed egli non era in grado di camminare, tanto meno di arrampicarsi come occorreva fare di tanto in tanto. Un giorno di riposo nella tuta di Rocannon avrebbe potuto ridargli le forze di cui aveva bisogno, ma questo significava dover passare un'altra notte all'addiaccio, senza cibo sufficiente, senza riparo e senza fuoco.

Mogien soppesò i rischi senza avere l'aria di farlo, e suggerì che Rocannon si fermasse con Yahan su qualche cengia riparata e illuminata dal sole, mentre egli avrebbe cercato una via di discesa meno accidentata, lungo la quale avrebbero potuto trasportare Yahan a braccia; nel caso non ci fosse riuscito, avrebbe almeno cercato un riparo che li difendesse dalla neve.

Partito Mogien, Yahan, che giaceva in stato di semincoscienza, domandò acqua. La borraccia era vuota. Rocannon gli disse di non muoversi, e si arrampicò sulle rocce, fino a una sporgenza riparata dai massi, a una quindicina di metri di distanza, dove aveva visto alcuni mucchi di neve. L'ascesa risultò più difficile del previsto, ed egli si sdraiò sulla sporgenza per riprendere il fiato, in quell'aria sottile, con il cuore che gli pulsava forte.

Udiva un rumore che dapprima gli parve la pulsazione del suo stesso sangue; poi, accanto alla sua mano, vide scorrere un rigagnolo d'acqua. Si rizzò a sedere. Alla base di un mucchio di neve, in un punto ombreggiato, scorreva un filo d'acqua, avvolto in una scia di vapore.

Cercò l'origine di quel rigagnolo, e vide un'apertura tra i massi: una caverna. Una caverna era la loro migliore speranza di riparo, gli diceva la parte razionale della sua mente, ma questa parte era soltanto una particella minuscola, rispetto a un'oscura, irrazionale irruzione di sensazioni… di panico. Rimase a sedere immobile, in preda al peggior attacco di paura che avesse mai provato.

Tutt'intorno a lui, sulla roccia grigia, splendeva la luce del sole, senza riscaldarla. Le cime dei monti erano celate dietro i pendii più vicini, e le regioni sottostanti, a sud, erano nascoste dietro uno strato di nubi. Lassù, su quel nudo e grigio spartiacque del mondo, c'erano soltanto lui e un'apertura buia, fra i massi.

Dopo molto tempo, egli si alzò in piedi, avanzò al di là del rivoletto, e parlò alla presenza che, come egli sapeva, attendeva in quell'apertura piena d'ombra. — Sono venuto — disse.

L'oscurità si mosse leggermente, e l'abitante della caverna si fermò sulla soglia.

Era simile al Popolo dell'Argilla, pallido e basso di statura; come i Fiia era snello e aveva gli occhi chiari; era simile a entrambi, e non era simile a nessuno dei due. I suoi capelli erano bianchi. La sua voce non era una voce, perché parlava nella mente di Rocannon, il quale, con gli orecchi, udiva soltanto il debole soffio del vento; e non parlava con parole. Eppure gli domandò che cosa cercasse.

— Non lo so — disse forte l'uomo, Impaurito; ma la sua volontà ostinata rispose per lui: Voglio andare a sud e trovare i miei nemici per distruggerli.

Il vento soffiava fischiando; il rigagnolo caldo mormorava ai suoi piedi. Muovendosi lentamente e con passo leggero, l'abitante della caverna si fece da parte, e Rocannon, curvandosi, entrò nell'oscurità.

Che cosa intendi dare per ciò che ti ho dato?

Che cosa devo dare, Antico?

La cosa che hai più cara e che meno facilmente daresti di tua volontà.

Su questo mondo non ho niente di mio. Che cosa posso dare?

Una cosa, una vita, una possibilità; un occhio, una speranza, un ritorno: non è necessario che si sappia il nome. Ma tu griderai forte il suo nome quando l'avrai perduta. La dai liberamente?

Liberamente, Antico.

Silenzio interrotto soltanto dal soffio del vento. Rocannon curvò la testa e uscì dall'oscurità. Quando raddrizzò la schiena, una luce rossa gli colpì dolorosamente gli occhi: un'alba fredda e rossastra su un mare grigio e scarlatto di nubi.

Sulla sporgenza più bassa dormivano Mogien e Yahan, raggomitolati insieme: un mucchio di pellicce e di mantelli, che non si scosse quando Rocannon scese fino a loro. — Sveglia — disse, piano. Yahan si rizzò a sedere, con uno sguardo stordito, infantile sotto la luce rossa dell'alba.

— Olhor! Pensavamo… Non c'eri più… pensavamo che fossi caduto…

Mogien scosse la testa dai capelli biondi per liberarsi dal sonno, e per un lunghissimo istante fissò Rocannon. Poi disse gentilmente, con voce roca: — Benvenuto, Signore delle Stelle, compagno. Ti abbiamo atteso qui.

— Ho trovato… Ho parlato con…

Mogien alzò la mano. — Sei ritornato; io mi rallegro del tuo ritorno. Andiamo verso sud?

— Sì.

— Bene — disse Mogien. In quel momento non parve affatto strano a Rocannon che Mogien, che fin dalla partenza si era comportato come il capo del gruppo, si rivolgesse a lui come un Signore di grado inferiore si rivolge a uno di alto rango.

Mogien soffiò nel fischietto, ma anche se attesero a lungo, i destrieri non comparvero. Consumarono gli ultimi rimasugli del pane duro e nutriente dei Fiia, e ripartirono a piedi. Il calore della tuta aveva rinvigorito Yahan, e Rocannon insistette perché continuasse a indossarla. Il giovane avrebbe avuto bisogno di cibo e di un vero riposo per riprendere le forze, ma era in grado di procedere, e, soprattutto, non potevano fermarsi lassù: il rosso dell'alba preannunciava il cattivo tempo.

La discesa non era pericolosa, ma era lenta e faticosa. A metà mattino comparve uno dei grifoni: il grigio di Mogien proveniente dalle foreste della lontana pianura. Lo caricarono con le selle, i finimenti e le pellicce (non avevano portato altro con sé: avevano dovuto abbandonare il resto dell'equipaggiamento), e l'animale continuò a volare intorno a loro a suo piacere, di tanto in tanto miagolando per chiamare il compagno dal manto a strisce, che stava ancora cacciando o nutrendosi nelle foreste.

Verso mezzogiorno giunsero a un passaggio difficile: una parete verticale che si innalzava come uno scudo, e che avrebbero dovuto discendere in cordata. — Dall'aria potresti trovare un percorso più facile, Mogien — suggerì Rocannon. — Vorrei che tornasse anche l'altro grifone. — Sentiva che doveva fare presto; voleva lasciare quanto prima la montagna grigia e nuda, per nascondersi tra gli alberi.

— Quell'animale era esausto, quando l'abbiamo lasciato libero; può darsi che non sia ancora riuscito a catturare una preda. Quello che è tornato ha portato un carico più leggero, sul passo. Vado a controllare la larghezza di questa parete. Forse l'animale che abbiamo ci potrà portare tutti e tre, per un breve tratto.

Soffiò nel fischietto, e il grifone grigio, con quella fedele obbedienza che non mancava di stupire Rocannon in bestie così grandi e così carnivore, fece una curva nell'aria e venne a posarsi con grazia sulla sporgenza dove erano fermi i tre uomini. Mogien salì in sella e partì con un grido, e i suoi capelli biondi colsero l'ultimo raggio di sole che riusciva a superare i banchi di nuvole sempre più densi.

Il vento gelido continuava a soffiare. Yahan andò a raggomitolarsi al riparo di una roccia e chiuse gli occhi. Rocannon sedette sulla roccia, con lo sguardo perso nella distanza, ai cui estremi confini si poteva scorgere lo splendore del mare. Non osservò l'immenso, vago paesaggio che compariva a tratti fra le nubi mosse dal vento, ma fissava un unico punto a sudest, un solo luogo. Chiuse gli occhi, e ascoltò. E udì.

Era uno strano dono, quello che aveva ricevuto dall'abitante della caverna, il guardiano della sorgente calda, sulla montagna senza nome. Un dono che non avrebbe mai osato chiedere. Laggiù nell'oscurità, accanto alla profonda sorgente calda, gli era stata insegnata un'arte dei sensi che la sua razza, e gli uomini della Terra, avevano incontrato e studiato in altre razze, ma verso la quale erano ciechi e sordi, salvo qualche breve visione e qualche rara eccezione. Per restare fedele alla propria umanità, Rocannon non aveva voluto accettare la totalità del potere che il guardiano della fonte possedeva e offriva. Egli aveva imparato ad ascoltare la mente di una sola razza, di un solo tipo di creature; una sola voce fra tutte le voci dell'universo: quella dei suoi nemici.

Con Kyo aveva sperimentato una forma elementare di linguaggio mentale, ma non desiderava conoscere la mente dei compagni, se i compagni non potevano leggere la sua. La comprensione doveva essere reciproca, se la fiducia e l'amicizia lo erano.

Ma quando si trattava di coloro che avevano ucciso i suoi amici e che avevano spezzato il vincolo della pace, egli era disposto a spiare nelle loro menti, a origliare i loro pensieri. Seduto su una sporgenza di granito, su una montagna senza sentieri, adesso Rocannon ascoltava i pensieri di uomini che si trovavano in edifici circondati da basse colline, migliaia di metri al di sotto della sua altitudine, a cento chilometri di distanza. Chiacchiere confuse, ronzii, mormoni, un remoto agitarsi di sensazioni ed emozioni tempestose.

Non sapeva ancora come distinguere una voce dall'altra, ed era stordito da cento diversi luoghi, cento diverse posizioni: ascoltava come i bambini in fasce, senza capacità di discriminazione. Coloro che nascono con occhi e orecchi devono imparare a vedere e ad ascoltare, e distinguere una faccia in mezzo alle duplici immagini, una per occhio, che gli giungono da un mondo in cui il «sopra» e il «sotto» sono invertiti, a scegliere un significato in mezzo a una confusione di rumori. Il guardiano della fonte aveva un dono di cui Rocannon aveva sentito parlare una sola volta, su un pianeta lontano: quello di dischiudere il senso della telepatia. Aveva insegnato a Rocannon come limitarlo e come dirigerlo, ma Rocannon non aveva avuto il tempo di imparare a usarlo, di fare esercizio.

Rocannon si sentiva girare la testa sotto gli urti dei pensieri estranei, come se mille sconosciuti si fossero affollati nel suo cranio. Ma non gli giungevano parole. Il termine che gli Angyar (i quali però non ne disponevano) usavano per definire quel nuovo senso era «ascoltare con la mente». Ma ciò che Rocannon «ascoltava» non erano le parole, bensì le intenzioni, i desideri, le emozioni, le collocazioni nello spazio e le direzioni sensoriali-mentali di molti uomini diversi; tutto ciò si accalcava e si sovrapponeva nel suo sistema nervoso: terribili ventate di paura e di invidia, soffi di soddisfazione, abissi di sonno, una tormentosa e selvaggia vertigine di mezze comprensioni e mezze sensazioni.

E poi, all'improvviso, emerse dal caos qualcosa di assolutamente chiaro, un contatto più netto di quello di una mano posata sulla sua pelle nuda. Qualcuno stava venendo verso di lui, un uomo che con la mente aveva percepito la mente di Rocannon. Insieme a questa certezza, impressioni minori: velocità, un luogo chiuso, curiosità e paura.

Rocannon aprì gli occhi, fissando innanzi a sé, come se cercasse di scorgere la faccia dell'uomo di cui aveva percepito l'esistenza. Era vicino; Rocannon ne era sicuro: era vicino e si stava avvicinando. Ma si vedeva soltanto la massa di nubi che si addensava. Alcuni fiocchi di neve, piccoli e asciutti, volteggiavano nel vento. Alla sua sinistra giganteggiava la grande massa di roccia che bloccava il loro cammino. Yahan si era messo al suo fianco, e lo guardava con aria terrorizzata. Ma Rocannon non riusciva a parlargli, perché la presenza lontana lo tormentava, e non poteva interrompere il contatto.

— C'è… c'è una nave dell'aria — mormorò con voce roca, come parlando nel sonno. — Laggiù!

Indicò un punto dove non c'era nulla: cielo, nubi.

— Laggiù — ripeté.

Yahan, guardando nuovamente nel punto indicato da Rocannon, gridò. Mogien, sul grifone grigio, si lasciava trasportare dal vento, a una certa distanza dalle rocce; dietro di lui, da un cumulo di nuvole, era comparsa improvvisamente una forma nera che sembrava sospesa nell'aria. Mogien volava senza accorgersi della sua presenza, perché osservava il fianco della montagna, alla ricerca dei compagni: due piccole figure su una sporgenza di roccia, in mezzo a un deserto di rocce e di nubi.

La forma nera divenne più grande, si avvicinò ancora. Le eliche martellavano l'aria vagamente, ma percepì chiaramente le emozioni dell'uomo al suo interno, il contatto senza comprensione di una mente con l'altra, l'intensa paura che diventava sfida.

— Mettiti al riparo — mormorò a Yahan, ma non riuscì a muoversi. L'elicottero saliva ondeggiando, con le pale coperte da brandelli di nubi sfilacciate. Mentre lo vedeva avvicinarsi, Rocannon vedeva anche la scena che si apriva davanti agli occhi del pilota: gli sembrava di essere dentro l'elicottero, alla ricerca di qualcosa di cui ignorava l'identità, e di vedere due piccole figure sul fianco della montagna, di avere paura, paura…

Un lampo, una scossa di dolore bruciante, dolore nella propria carne, insopportabile. Il contatto mentale si spezzò, svanì completamente. Rocannon era di nuovo se stesso, fermo sulla sporgenza di roccia, con la mano destra premuta contro il petto, ansimante, che guardava inerme l'elicottero avvicinarsi sempre più, le pale che giravano con un secco rumore, l'estremità della carlinga, armata di laser, puntata contro di lui.

Dalla destra, dall'abisso di nuvole, giunse come una freccia una bestia grigia alata, montata da un uomo che gridava con una voce simile a un'alta, trionfale risata. Un battitto delle grandi ali grige spinse in avanti destriero e cavaliere, direttamente contro la macchina sospesa nell'aria, a piena velocità, testa in avanti. Ci fu un suono lacerante, come l'inizio di un grande urlo, e poi il cielo rimase vuoto.

I due uomini sulla sporgenza si affacciarono a guardare, attoniti. Dal basso non giunse nessun rumore. Le nubi coprivano l'abisso, vagavano sopra di esso.

— Mogien!

Rocannon gridò forte quel nome. Non ci fu risposta. Ci furono solo dolore, paura e silenzio.

CAPITOLO NONO

La pioggia batteva su un tetto di legno. L'interno della stanza era scuro e limpido.

Accanto al suo letto c'era un viso di donna che Rocannon conosceva: un viso orgoglioso, gentile, bruno, coronato d'una chioma d'oro.

Doveva dirle che Mogien era morto, ma non riusciva a trovare le parole. Poi si rilassò, dolorosamente perplesso, perché si era ricordato che Haldre di Hallan era una donna anziana, con i capelli bianchi; la donna dai capelli d'oro che egli aveva conosciuto era morta da lungo tempo; inoltre l'aveva vista una volta sola, su un pianeta a otto anni luce di distanza, molti anni prima, quando egli era un uomo chiamato Rocannon.

Cercò ancora di parlare. La donna lo lece tacere, dicendo in Lingua Comune, con qualche differenza di pronuncia: — Stai quieto, mio Signore.

Rimase accanto a lui, e infine gli disse con voce dolce: — Questo è il Castello di Breygna. Sei giunto qui con un altro uomo, sotto la neve, dalla cima delle montagne. Eri quasi in fin di vita, e sei ancora malato. Ci sarà tempo…

E ci fu davvero molto tempo, che scivolò via tranquillamente, in modo vago, scandito dal rumore della pioggia.

Il giorno seguente, o forse due giorni più tardi, Yahan si recò a trovarlo. Era molto magro, zoppicava, aveva la faccia segnata dal congelamento. Ma meno comprensibile era uno strano cambiamento nel suo modo di comportarsi, che era umile e sottomesso. Dopo avere parlato un poco con lui, Rocannon chiese, a disagio: — Hai paura di me, Yahan?

— Cercherò di non averla, Signore — balbettò il giovane.

Quando Rocannon fu in grado di scendere nella Sala dei Banchetti del castello, lo stesso timore reverenziale era dipinto su tutte le facce che si volgevano verso di luì, anche se si trattava di persone coraggiose e socievoli. Era una razza dai capelli d'oro, dalla pelle bruna, alta di statura: il vecchio ceppo di cui gli Angyar erano soltanto una tribù che molto tempo prima si era avventurata a nord per via di mare; erano i Liuar, i Signori del Mondo, che da tempi tanto remoti da essersi ormai persi nella memoria di ogni razza, abitavano laggiù, ai piedi delle montagne, e nelle pianure ondulate che si stendevano a sud.

Dapprima Rocannon pensò che avessero semplicemente soggezione del suo aspetto diverso dal loro: capelli scuri e la pelle chiara; ma Yahan era fisicamente simile a Rocannon, e nessuno aveva paura di lui. Trattavano Yahan da pari a pari, come un Signore, e il fatto rallegrava e sconcertava insieme l'ex servitore di Hallan. Ma Rocannon veniva trattato come un Signore superiore a tutti gli altri, come un essere particolare.

Tuttavia c'era uno che lo trattava come un uomo. Lady Ganye, nuora ed erede del vecchio Signore del castello, era vedova da alcuni mesi, e il suo figlioletto dai capelli biondi trascorreva con lei la maggior parte della giornata. Anche se era un po' intimidito, il bambino non aveva paura di Rocannon: era assai attratto da lui, e gli piaceva fargli domande sulle montagne, sul continente settentrionale e sul mare. Rocannon rispondeva a tutto. La madre ascoltava, serena e cortese come la luce del sole, ogni tanto volgeva sorridendo verso Rocannon quel viso che egli ricordava già, anche quando l'aveva visto la prima volta.

Infine le chiese cosa pensassero di lui al Castello di Breygna, ed ella gli rispose candidamente: — Pensano che tu sia un dio.

Era la parola che Rocannon aveva notato molto tempo prima, al villaggio di Tolen: «pedan».

— Non lo sono — disse lui, severo.

La donna rise.

— Perché pensano questo? — domandò ancora. — Gli dèi dei Liuar hanno i capelli grigi e le mani paralizzate?

Il raggio laser dell'elicottero l'aveva colpito sul polso destro, ed egli aveva perso quasi completamente l'uso della mano.

— Perché no? — domandò Ganye con il suo sorriso candido e orgoglioso. — Comunque, il motivo è un altro: è che tu sei sceso dalla montagna.

Rocannon rifletté su queste parole. — Dimmi, Lady Ganye — chiese infine, — voi conoscete l'esistenza del… guardiano della sorgente?

A queste parole, il viso della donna si fece grave. — Conosciamo soltanto leggende su quel popolo. È passato molto tempo, nove generazioni dei Signori di Breygna, da quando Iollt il Grande salì fino alle cime e ritornò a noi cambiato. Noi sappiamo che tu li hai incontrati, i Più Antichi.

— Come lo avete saputo?

— Nel sonno, quando eri febbricitante, hai sempre parlato del prezzo, del dono che ti è stato fatto e del suo prezzo. Anche Iollt ha dovuto pagare… Il costo è la tua mano destra, Signore Olhor? — domandò con improvvisa timidezza, fissandolo negli occhi.

— No. Avrei dato entrambe le mani per salvare ciò che ho perduto.

Si alzò in piedi e si avvicinò alla finestra della torre, posando gli occhi sull'ampia regione che si stendeva tra le montagne e il mare lontano. Dalla montagna dove sorgeva il Castello di Breygna scendeva un fiume che si allargava lucente tra le basse colline, per poi svanire nella distanza azzurrina, tra le forme indistinte di villaggi, campi, castelli, e infine per riapparire tra lividi scrosci di pioggia e raggi di sole.

— Questo è il più bel paese che ho visto — disse Rocannon. Pensava ancora a Mogien, che non aveva potuto vederlo.

— Per me non è più bello come lo era una volta.

— Perché, Lady Ganye?

— Per colpa degli Stranieri!

— Parlami di loro, Signora.

— Sono giunti lo scorso inverno, a stagione già inoltrata. Erano in molti e cavalcavano grandi navi del vento, munite di armi che bruciano. Nessuno sa da quale parte vengano; non c'è nessuna leggenda che palli di loro. Oggi tutta la terra fra il fiume Viarn e il mare appartiene a loro. Hanno ucciso o fatto fuggire tutta la gente di otto province. Noi, qui sulle montagne, siamo come prigionieri; non osiamo neppure scendere ai nostri antichi pascoli con le greggi.

«In un primo tempo abbiamo combattuto contro gli Stranieri. Mio marito Ganhing è stato ucciso dalle loro armi che bruciano. — Per un istante, il suo sguardo corse alla mano bruciata e paralizzata di Rocannon; per quell'istante, tacque. — Al… al tempo del primo disgelo è stato ucciso, e ancora la vendetta tarda ad arrivare. Noi chiniamo la testa ed evitiamo le loro regioni, noi, i Signori del Mondo! E non c'è nessun uomo che sia in grado di far pagare a questi Stranieri la morte di Ganhing.

O adorabile collera, pensò Rocannon, che negli accenti di Ganye sentiva echeggiare le lontane trombe di Hallan. — Pagheranno, Lady Ganye; pagheranno a caro prezzo. Anche se sapevi che non ero un dio, mi hai preso forse per un uomo qualunque?

— No, Signore — rispose lei. — Tutt'altro che qualunque.

I giorni trascorsero, i lunghi giorni di quell'estate che durava un anno. Le bianche pendici delle montagne sopra Breygna divennero azzurre, il grano dei campi intorno a Breygna maturò, fu mietuto e seminato una seconda volta, e stava di nuovo maturando allorché un pomeriggio Rocannon sedette accanto a Yahan nel cortile dove venivano addestrati al volo un paio di giovani grifoni. — Io parto per il sud, Yahan. Tu resta qui.

— No, Olhor, fammi venire con te…

Yahan s'interruppe, forse pensando alla spiaggia nebbiosa dove, per il suo desiderio di avventure, aveva disobbedito a Mogien. Rocannon sorrise e disse: — Farò più in fretta viaggiando da solo. Non ci vorrà molto tempo, qualunque sia l'esito del viaggio.

— Ma io sono il tuo servitore, legato a te da un giuramento, Olhor! Ti prego, fammi venire.

— I giuramenti si rompono quando i nomi si perdono. Tu hai giurato di servire Rokanan, sull'altro versante di queste montagne. In questa terra non ci sono servitori, e non c'è nessun uomo chiamato Rokanan.

«Come amico ti chiedo, Yahan, di non dire altro, né a me né ad altre persone qui, ma di sellarmi il destriero di Hallan domattina all'alba.

Fedelmente, l'indomani, prima del levar del sole, Yahan era ad attenderlo nella corte del volo, tenendo alla briglia l'unico destriero rimasto di quanti erano partiti da Hallan, quello dal manto grigio a strisce. Era giunto a Breygna un paio di giorni dopo di loro, affamato e semiassiderato. Adesso era di nuovo lustro e baldanzoso, ringhiava e agitava la lunga coda.

— Hai indossato la Seconda Pelle, Olhor? — domandò Yahan, in un sussurro, mentre affibbiava le cinghie da battaglia intorno alle cosce di Rocannon. — Si dice che gli Stranieri scaglino fuoco contro qualsiasi uomo che si avvicini alle loro terre.

— La indosso.

— E nessuna spada?

— No. Nessuna spada. Ascolta, Yahan, se non dovessi ritornare, guarda nella bisaccia che ho lasciato nella mia camera. Contiene del tessuto, con… segni e dipinti della regione; se qualcuno della mia gente dovesse venire qui, in futuro, ti prego di consegnarlo a lui. E c'è anche la collana. — Aggrottò la fronte e distolse lo sguardo per un attimo. — Donala a Lady Ganye. Se non ritornerò indietro per farlo io. Arrivederci, Yahan; augurami buona fortuna.

— Che il tuo nemico possa morire senza figli — disse Yahan, in tono feroce, con le lacrime agli occhi, e lasciò partire il grifone. L'animale s'innalzò nel cielo caldo e leggermente rosato dell'alba estiva, compì un giro con un ampio, rumoroso battito d'ali, e, facendosi trasportare dal vento del nord, svanì dietro le alture. Yahan rimase fermo a osservare. Da una finestra in cima alla Torre di Breygna, anche un viso dolce e bruno rimase a scrutare per lungo tempo l'orizzonte, dopo che Rocannon fu scomparso e che il sole si fu levato.

Fu uno strano viaggio, quello di Rocannon, diretto verso un luogo che non aveva mai visto, ma che conosceva internamente ed esternamente attraverso le mutevoli impressioni di centinaia di menti diverse. Perché, sebbene il suo nuovo senso mentale non fosse una vera vista, esso forniva sensazioni tattili, la percezione dello spazio e delle relazioni spaziali, del tempo, del moto e della posizione. Prendendo parte a queste sensazioni per ore e ore, in cento giorni di esercizio, mentre sedeva immobile nella sua stanza del Castello di Breygna, Rocannon aveva acquisito una conoscenza esatta, sebbene non visualizzata e non verbalizzata, di ciascun edificio e di ciascuno spazio della base nemica. A partire dalla sensazione diretta, estrapolando da essa, sapeva inoltre che cosa fosse quella base, come entrare al suo interno e dove trovare ciò che cercava.

Ma era molto difficile, dopo il lungo, intenso esercizio, non usare il senso mentale mentre si avvicinava ai nemici: spegnerlo, fermarlo, usando soltanto gli occhi, gli orecchi e l'intelletto. L'incidente sulla montagna gli aveva insegnato che a distanza ravvicinata qualche individuo particolarmente sensibile poteva accorgersi della sua presenza, in modo vago, sotto forma di un presagio o di una premonizione. Egli aveva attirato verso la montagna il pilota dell'elicottero, l'aveva tratto a sé come se l'avesse preso all'amo, anche se probabilmente il pilota non aveva mai compreso che cosa lo spingesse a muoversi in quella direzione, o perché si sentisse costretto ad aprire il fuoco sugli uomini incontrati laggiù. E ora, entrando da solo nella grande base, Rocannon non voleva richiamare su di sé la minima attenzione, assolutamente nessuna, perché si recava laggiù come un ladro nella notte.

Al tramonto aveva lasciato il destriero legato per le redini a un albero, in una radura delle colline, e adesso, dopo qualche ora di cammino, si stava avvicinando al gruppo di edifici che sorgevano davanti a lui, in fondo a un vasto nudo spiazzo di cemento: il campo d'atterraggio dei razzi. Ce n'era soltanto uno, e veniva usato raramente, adesso che tutto il materiale e tutti gli uomini erano arrivati. Non si poteva fare la guerra con astronavi a velocità-luce, quando il più vicino pianeta civile si trovava a otto anni luce di distanza.

La base era grande, spaventosamente grande, vista con i propri occhi, ma la maggior parte dell'area e degli edifici serviva ad alloggiare gli uomini. I ribelli avevano trasportato laggiù quasi tutto il loro esercito. Mentre la Lega perdeva tempo esplorando il loro pianeta natale e occupandolo militarmente, i ribelli avevano puntalo tutto sul pianeta senza nome, data la scarsissima probabilità che qualcuno scoprisse la base segreta, su quel pianeta sconosciuto, perduto fra innumerevoli altri pianeti della Galassia.

Rocannon sapeva che alcuni di quei grandi edifici erano di nuovo vuoti: un contingente di tecnici e di soldati era partito giorni addietro, per occupare, supponeva Rocannon, qualche pianeta che i ribelli avevano conquistato o avevano convinto a unirsi come alleato. I soldati non sarebbero giunti su quel mondo che tra dieci anni. I faradayani erano molto sicuri di sé: evidentemente, la loro guerra procedeva bene. Per minacciare la sicurezza della Lega bastavano una base ben nascosta, e le loro sei possenti armi.

Rocannon aveva scelto una notte in cui, delle quattro lune, soltanto il piccolo asteroide catturato dal pianeta, Heliki, si sarebbe levato prima di mezzanotte. Esso splendeva sulle colline mentre Rocannon si avvicinava a una fila di hangar, che si alzava come una scogliera nera in un mare grigio di cemento, ma nessuno lo vide, ed egli non percepì la presenza di nessuno, nelle immediate vicinanze. Non c'erano reticolati, e gli uomini di guardia erano pochi di numero. La vera sorveglianza veniva effettuata da macchine che scrutavano lo spazio per interi anni luce intorno al sistema di Fomalhaut. Che cosa avevano da temere, in fin dei conti, dagli aborigeni del piccolo pianeta senza nome, che culturalmente erano all'Età del Bronzo?

Heliki aveva raggiunto il massimo splendore quando Rocannon lasciò le ombre della fila di hangar. Ed era a metà della sua fase calante quando raggiunse il suo obbiettivo: le sei astronavi ultra-luce. Erano posate a fianco a fianco, come sei immense uova color dell'ebano, sotto una sorta di grande tenda dai contorni vaghi: una rete mimetica. Intorno alle navi, piccoli come giocattoli, sorgevano alberi sparsi: il bordo della foresta di Viarn.

Ma adesso era giunto il momento di servirsi del suo senso mentale, per rischioso che fosse. Immobile e circospetto, all'ombra di un gruppo di alberi, e cercando allo stesso tempo di mantenere vigili gli occhi e gli orecchi, Rocannon diresse la sua facoltà mentale verso le navi ovoidali, intorno ad esse, al loro interno. A bordo di ciascuna delle sei, aveva appreso quando le aveva esaminate dal castello di Breygna, c'era sempre un pilota, giorno e notte, pronto a portar via la nave in caso di emergenza, per trasferirla probabilmente su Faraday.

Per i sei piloti, «emergenza» significava una cosa soltanto: che la Sala di Controllo, sei chilometri più in là, al confine orientale della base, era stata sabotata o bombardata. In tale caso, il pilota doveva trasportare l'astronave in un luogo sicuro, servendosi dei comandi manuali. Infatti quelle astronavi ultra-luce avevano una cabina di comando come tutte le altre astronavi: serviva a renderle indipendenti da qualsiasi computer e da qualsiasi fonte di alimentazione esterni, che potessero venire colpiti da un eventuale nemico.

Ma far partire l'astronave equivaleva a commettere un suicidio: a un «viaggio» a velocità ultra-luce non sopravviveva alcuna forma di vita. Ogni pilota, quindi non soltanto era un matematico polinomiale altamente addestrato, ma anche un fanatico suicida. Un individuo scelto. Che però, a starsene seduto a fare niente, in attesa di un improbabile momento di gloria, si annoiava come qualsiasi comune mortale.

Quella notte, in una delle astronavi, Rocannon percepì la presenza di due uomini. Entrambi erano profondamente assorti. Tra di loro c'era una superficie piana, suddivisa in quadrati. Già altre volte, nelle notti precedenti, Rocannon aveva ricevuto le stesse impressioni, e la sua mente razionale annotò: «scacchiera», mentre il suo senso materiale si spostava alla nave successiva della fila. Era vuota.

Attraversò rapidamente il campo grigio e scuro, muovendosi da un albero all'altro, raggiunse la quinta nave della fila, salì sulla passerella ed entrò per il portello d'ingresso, che era aperto. All'interno, la nave era diversa da qualsiasi altra: era tutta piena di computer e di reattori. Una sorta di angusto e mortale labirinto, con corridoi sufficientemente grandi per lasciare passare missili capaci di distruggere un'intera città.

Poiché non viaggiava nello spaziotempo, non aveva un'estremità anteriore e una posteriore, non aveva una logica che potesse guidare Rocannon, ed egli non sapeva leggere le scritte. Non c'era una mente che potesse servirgli da guida. Rocannon perse venti minuti cercando la cabina di comando, metodicamente, sforzandosi di vincere il panico, costringendosi a non usare il senso materiale per paura di allarmare il pilota assente.

Solo per un istante, quando ebbe rintracciato la cabina, ebbe trovato anche l'ansible e si fu seduto davanti ad esso, concesse poi al suo senso mentale di raggiungere la nave vicina. Laggiù raccolse una vivida sensazione di dubbio, di una mano che ondeggiava sopra un alfiere bianco. Si ritrasse immediatamente.

Prese nota delle coordinate su cui era regolato il trasmettitore ansible, e le cambiò, inserendo quelle della Base Esplorativa delle Forme di Vita a Intelligenza Elevata della Lega, Area Galattica 8, nella città di Kerguelen, sul pianeta Nuova Georgia del Sud: le uniche che conoscesse a memoria, senza dover ricorrere a qualche manuale. Regolò la macchina per la trasmissione, e cominciò a battere sui tasti.

Quando il suo dito (solo quelle della mano sinistra, e in modo impacciato) batteva su un tasto, la lettera compariva simultaneamente su un piccolo schermo nero, in una città di un pianeta distante otto anni luce:

MESSAGGIO URGENTE

Per il presidium della Lega.

La base delle navi ultra-luce della rivolta faradayana è su Fomalhaut II, Continente Sudoccidentale, 28° 28' Nord, 121° 40' Ovest, circa 3 km NE di un grande fiume. Base oscurata ma visibile dall'alto come 28 gruppi di 4 edifici in quadrato più hangar a lato di campo d'atterraggio in direzione E-O. Le 6 navi ultra-luce non sono nella base, ma in gruppo isolato, all'aperto, a SO del campo, al bordo della foresta e sono mimetizzate con una rete e con vernice assorbi-luce. Non attaccate indiscriminatamente perché gli indigeni non sono coinvolti. Trasmette Gaveral Rocannon della Missione Etnologica su Fomalhaut. Uso un ansìble a bordo di nave ultra-luce nemica a terra. Qui mancano circa 5 ore all'alba.


Avrebbe voluto aggiungere: «Lasciatemi un paio di ore per allontanarmi», ma preferì non farlo. Se l'avessero catturato mentre si stava allontanando, i faradayani si sarebbero messi in allarme e avrebbero spostato le navi. Spense il trasmettitore, rimise le coordinate sulla posizione precedente.

Mentre si faceva strada lungo le passerelle, negli immensi corridoi, controllò nuovamente la situazione sulla nave accanto. I due giocatori si erano alzati e gironzolavano per la cabina. Si mise a correre, solo nelle stanze e nei corridoi incomprensibili e semibui. A un certo punto pensò di avere sbagliato strada, ma presto giunse allo sportello, scese lungo la passerella e si precipitò di corsa all'esterno, superando l'interminabile lunghezza della nave, poi quella della nave successiva, e tuffandosi infine nell'oscurità della foresta.

Raggiunti gli alberi non riuscì più a correre, perché il respiro gli bruciava nel petto, e i rami scuri non lasciavano penetrare i raggi delle lune. Procedette con tutta la velocità di cui fu capace, rifacendo il cammino intorno alla periferia della base, ai limiti del campo d'atterraggio, e poi ripercorrendo la strada per cui era giunto, aiutato prima dalla fase luminosa di Heliki, e dopo un'ora da Feni che sorgeva.

Gli pareva di non riuscire ad avanzare nel territorio immerso nell'oscurità, e sapeva di avere poco tempo. Se avessero bombardato la base mentre lui era ancora così vicino, l'onda d'urto o la tempesta di fuoco l'avrebbero ucciso: lottò per procedere nell'oscurità, con la paura irrefrenabile della luce che poteva irrompere alle sue spalle per distruggerlo. Ma perché non arrivavano, perché erano così lenti ad agire?

Non era ancora spuntato il giorno allorché giunse alla collinetta della doppia cima, dietro cui aveva lasciato il suo destriero. L'animale, offeso perché era rimasto legato per tutta la notte in un buon territorio di caccia, ringhiò contro di lui. Rocannon si appoggiò contro la sua calda spalla e gli grattò un po' gli orecchi, pensando a Kyo.

Una volta che ebbe ripreso fiato, montò in sella e incitò il grifone a marciare. Per molto tempo l'animale si rifiutò di obbedire, e rimase fermo a terra, accucciato come una sfinge. Infine si alzò, protestando con un brontolio, e si avviò al passo in direzione nord, con lentezza esasperante. Intorno a loro si cominciavano a distinguere chiaramente colline e campi, alberi secolari e villaggi, ma l'animale si rifiutò di volare finché non fu sorto il sole. Infine si levò in volo, trovò un buon vento che andava nella direzione voluta, e si lasciò trasportare da esso nell'alba chiara e luminosa.

Di tanto in tanto, Rocannon si dava un'occhiata alle spalle. Scorgeva soltanto il paesaggio tranquillo, la nebbia che si agitava sulla superficie del fiume, a occidente. Provò ad ascoltare con il senso mentale, e percepì pensieri, movimenti e sogni del nemico che si svegliava; le normali cose.

Aveva fatto quel che poteva. Era stato uno sciocco, a pensare di poter fare qualcosa. Che cosa era un singolo uomo, contro un intero popolo impegnato nella guerra? Esausto, rimuginando stancamente la propria sconfitta, continuò il suo volo verso Breygna, unico luogo dove potesse andare. Dopo un poco, smise perfino di chiedersi perché la Lega ritardasse tanto il suo attacco. La Lega non contava affatto di intervenire. Avevano pensato che il suo messaggio fosse un trucco, un tranello. O, per quanto ne poteva sapere lui, forse le coordinate che ricordava erano sbagliate: una sola cifra diversa, e il suo messaggio sarebbe finito nel vuoto, dove non esistevano né il tempo né lo spazio. E per questo risultato era morto Raho, era morto Iot, era morto Mogien: per un messaggio che non sarebbe mai arrivato. Ed egli era esiliato laggiù per il resto della sua vita: un uomo senza scopo, uno straniero in un mondo straniero.

Ma, in fin dei conti, la cosa non aveva importanza. Egli era un singolo uomo. E il destino di un singolo uomo non ha importanza.

«Se non ha importanza quello, che cosa ha importanza?»

Il ricordo di queste parole era insopportabile. Si guardò ancora una volta alle spalle, per distogliere la mente dal ricordo di Mogien… e con un grido sollevò la mano ferita, per respingere la luce insopportabile, l'alto e bianco albero di fuoco che era spuntato silenziosamente sulla pianura dietro di lui.

Nel rumore, nella tempesta di vento che fecero seguito alla luce, il grifone miagolò e fuggì, poi si gettò a terra, terrorizzato. Rocannon smontò di sella e si rannicchiò sul terreno, con la testa fra le braccia. Ma non riuscì a respingerla… non la luce, ma l'oscurità, l'oscurità che gli accecava la mente, la consapevolezza nella propria carne della morte di mille uomini in un solo istante. Morte, morte, morte e morte ancora e ancora, tutto insieme, in un solo momento, in un corpo solo e in un cervello solo, il suo. E dopo questo, il silenzio.

Sollevò la testa e provò ad ascoltare, ma udì soltanto il silenzio.

Загрузка...