Ursula K. Le Guin IL MONDO DI ROCANNON

PROLOGO LA COLLANA

Come si può distinguere tra leggenda e realtà, su mondi che giacciono a molti anni di distanza dal nostro? Pianeti senza nome, che i nativi chiamano semplicemente «il Mondo»; pianeti senza storia, dove il passato è materia di mito e dove l'esploratore che vi fa ritorno scopre che le sue azioni di pochi anni prima sono diventate le gesta di un dio. Un velo buio di irrazionalità si stende sull'intervallo di tempo che le nostre astronavi attraversano alla velocità della luce, e nell'oscurità proliferano l'incertezza e le esagerazioni, come erbacce.

Accingendosi a riferire la storia di un uomo, di un normale scienziato della Lega, recatosi non troppi anni fa su un simile mondo semisconosciuto e senza nome, ci si sente come un archeologo che esplori rovine millenarie: ora, dopo essere avanzato a fatica fra un compatto groviglio di foglie, fiori, rami e rampicanti, scorge all'improvviso la chiara geometria di un arco o di una pietra angolare levigata; ora, varcando una comunissima soglia illuminata dal sole, nota nel buio l'impossibile guizzo di una fiamma, lo scintillio di una gemma, il movimento, intravisto solo a metà, di un braccio di donna.

Come si può distinguere fra realtà e leggenda, fra verità e verità?

Nella storia di Rocannon incontriamo varie volte, come elemento ricorrente, la gemma, l'azzurro luccichio che si lascia intravedere per un istante. Cominciamo perciò da quella, così come segue:

Area Galattica 8, N. 62. FOMALHAUT II.

Forme di vita a intelligenza elevata, specie contattate:

Specie I.

A) Gdemiar (singolare Gdem): a intelligenza elevata, trogloditi, con abitudini notturne, pienamente ominoidi, altezza 120–135 cm, pelle chiara, capelli scuri. Al momento del contatto, questi cavernicoli possedevano una società urbana oligarchica, rigidamente stratificata, modificata dalla presenza di una parziale telepatia coloniale, e una cultura a indirizzo tecnologico, inizio dell'Età dell'Acciaio. Tecnologia portata a Industriale, livello C, dalle Missioni della Lega, anni 252–54. Nel 254, una nave con pilota automatico (per/da Nuova Georgia del Sud) è stata fornita agli oligarchi della comunità del Mare di Kirien, livello C, grado primo.

B) Fiia (singolare Fian): a intelligenza elevata, diurni, pienamente ominoidi, altezza media ca. 130 cm; gli individui osservati avevano in genere pelle e capelli chiari. Gli sporadici contatti indicano comunità nomadiche, o con villaggi (stanziali), parziale telepatia coloniale; qualche testimonianza di capacità telecinetiche a corto raggio. La razza sembra antitecnologica e sfuggente, con modelli culturali minimi e fluidi. Attualmente non tassabile. Livello E, grado imprecisato.

Specie II.

Liuar (singolare Liu): a intelligenza elevata, diurni, pienamente ominoidi, statura media superiore a 170 cm. Questa specie possiede una società strutturata in clan, con villaggi fortificati, tecnologia giunta a un punto d'arresto (Età del Bronzo), cultura cavalleresco-feudale. Notata una spaccatura orizzontale della società in due pseudo-razze: a) Olgyior («plebei»), con pelle chiara e capelli scuri; e b) Angyar («signori»), assai più alti, con pelle scura e capelli biondi…


— È lei — disse Rocannon, alzando gli occhi dalla Guida delle forme di vita intelligenti (edizione ridotta tascabile) per osservare la donna alta, scura di pelle e dai capelli biondi, ferma più avanti, nella grande sala del museo. Eretta in tutta la sua statura, incoronata dalla chioma lucente, la nuova venuta fissava con attenzione il contenuto di una vetrina. Intorno a lei, chiaramente a disagio là dentro, si agitavano quattro nanerottoli sgraziati.

— Non sapevo che su Fomalhaut II ci fossero tante razze, oltre ai trogloditi — commentò Ketho, il curatore del musco.

— Neanch'io. E il manuale elenca altre razze «non confermate», con cui non siamo mai entrati in contatto. Sembrerebbe giunta l'ora di mandare una nuova missione esplorativa, che svolgesse un lavoro più approfondito. Comunque, almeno sappiamo cos'è quella donna.

— Certo, e mi auguro che possiamo anche sapere chi è…

Apparteneva a una famiglia antichissima, risalente ai primi re degli Angyar, e nonostante la povertà, nei suoi capelli splendeva l'oro purissimo degli antenati.

Il piccolo popolo, i Fiia, s'era sempre inchinato al suo passaggio, fin da quando era una bambina che correva a piedi nudi nei campi, animando con il fuoco e la luce della sua chioma i venti irrequieti di Kirien.

Era ancora giovanissima allorché Durhal di Hallan l'aveva scorta, le aveva dichiarato il suo amore e l'aveva tolta alle torri diroccate e agli atri ventosi dell'infanzia per condurla nel suo grande castello. Anche a Hallan, sui monti, gli agi e le comodità erano assenti, ma lassù rimaneva ancora lo splendore. Alle finestre non c'erano vetri, i pavimenti di pietra erano nudi; la mattina, nell'annofreddo, capitava di vedere sotto il davanzale un mucchietto lungo e basso di neve penetrata durante la notte. La sposa di Durhal scendeva a piedi scalzi sul pavimento coperto di neve: in piedi si pettinava i capelli di fuoco, raccogliendoli in trecce che poi annodava sul capo, e intanto sorrideva all'immagine del giovane marito, riflessa nello specchio d'argento appeso alla parete della loro camera. Quello specchio, insieme con la veste nuziale della madre, ricamata di mille cristalli minuscoli, costituiva l'intera ricchezza della giovane.

Al castello di Hallan, molti suoi consanguinei di grado inferiore possedevano ancora guardaroba di broccato, mobili di legno intarsiati d'oro, finimenti d'argento per i grifoni, corazze, spade con l'impugnatura d'argento, gemme e gioielli… che la sposa di Durhal guardava con invidia, al punto di voltarsi per dare un'occhiata furtiva a qualche diadema incastonato o a qualche monile d'oro, anche quando chi lo portava si scostava per cederle il passo, in deferente omaggio alla sua nascita e al rango elevato conseguito con il matrimonio.

Quarti a partire dall'Alto Seggio dei Banchetti di Hallan, sedevano infatti Durhal e la sua sposa Semley: così vicini al Signore di Hallan che spesso il vecchio versava di propria mano il vino a Semley e parlava di caccia con Durhal, suo nipote ed erede, rimirando la giovane coppia con affetto, ma senza gioia e senza speranza.

La speranza era dura a nascere tra gli Angyar, sia al castello di Hallan, sia nelle Terre Occidentali, da quando erano giunti i Signori delle Stelle, con le loro case che si muovevano su colonne di fuoco e con le loro armi spaventose, capaci di spianare le montagne. Avevano messo fine alle vecchie abitudini e alle vecchie lotte; e sebbene si trattasse di somme modeste, per gli Angyar era motivo di grande vergogna dover pagare loro una tassa, un tributo destinato alla guerra che i Signori delle Stelle si preparavano a combattere contro un nemico ignoto, chissà dove, nella cavità tra le stelle, alla fine degli anni.

«È una guerra che riguarda anche voi», affermavano, ma ormai da una generazione gli Angyar erano costretti a rimanere oziosi, nella vergogna, seduti nelle Sale dei Banchetti, mentre le doppie spade si coprivano di ruggine, i figli diventavano adulti senza sferrare un solo colpo in battaglia, le figlie erano costrette a sposare uomini poveri, o addirittura plebei, poiché mancava loro la dote di eroico bottino che avrebbe fatto accorrere mariti nobili. La faccia del Signore di Hallan s'incupiva, quando guardava la coppia di giovani dai biondi capelli e ascoltava le loro risate, mentre bevevano vino amaro e si scambiavano frasi scherzose nella gelida, diroccata, splendida fortezza della loro razza.

E si incupiva anche il viso di Semley, quando posava lo sguardo sulla sala e scorgeva, su scanni molto più bassi del suo, o addirittura fra i mezzosangue e i plebei, fra le pelli bianche e i capelli neri, il colore e lo sfavillio delle pietre preziose. Di suo, non aveva portato nulla al marito in dote nuziale, neppure una forcina d'argento. E quanto alla veste dai mille cristalli, l'aveva riposta nella cassapanca, serbandola per le nozze della figlia, se fosse stata una figlia.

Fu una figlia, e la chiamarono Haldre. Quando la lanugine sulla sua testolina bruna divenne più lunga, essa assunse il colore e il luccichio dell'oro incorruttibile: l'eredità dei suoi regali antenati, l'unico oro che avrebbe mai posseduto…

Semley non rivelò mai al marito la sua insoddisfazione. Nonostante la sua gentilezza con lei, Durhal, nel suo severo orgoglio di grande signore, nutriva soltanto disprezzo per i sentimenti di invidia e per i desideri vani, e lei non voleva incorrere in quel disprezzo. Ma ne parlò con Durossa, sorella di Durhal.

— Un tempo la mia famiglia possedeva un grande tesoro — le disse. — Era una collana d'oro massiccio, con una grande gemma azzurra incastonata al centro… uno zaffiro?

Durossa scosse il capo, sorridendo: anche lei era incerta sull'esattezza del nome. Si era quasi alla fine dell'annocaldo, nome dato all'estate dell'anno di ottocento giorni dagli Angyar del Nord, i quali facevano ricominciare dall'inizio, ad ogni equinozio, il ciclo dei mesi: Semley l'aveva sempre giudicato un modo poco nobile di contare i giorni, un calcolo da plebei. Era l'ultima della sua famiglia, ma apparteneva a una razza più antica e più pura di quella degli Angyar delle frontiere nordoccidentali, adusi a unirsi un po' troppo facilmente agli Olgyior.

Semley e la cognata sedevano insieme in un riquadro di sole, su una panca di pietra accanto a una finestra della Grande Torre, dove si trovavano le stanze di Durossa.

Rimasta vedova ancora giovane, e senza figli, la sorella di Durhal era poi andata in sposa al Signore di Hallan, che era anche suo zio paterno. Poiché era un matrimonio tra consanguinei, e poiché per entrambi si trattava di seconde nozze, lei non aveva preso il titolo di Signora di Hallan che in futuro sarebbe spettato a Semley; sedeva però a fianco del vecchio Signore sull'Alto Seggio, e lo aiutava a governare i suoi domìni. Era più anziana del fratello, voleva molto bene alla giovane cognata e soprattutto adorava la piccola, bionda Haldre.

— Fu comprata — continuò Semley — con tutto il bottino conquistato dal mio antenato Leynen, allorché s'impadronì dei Feudi del Sud… pensa: tutto il denaro di un intero regno, per una singola gemma! Oh, offuscherebbe qualsiasi gioiello che si sia visto qui a Hallan, certo. Perfino quei cristalli grossi come uova di koob che porta tua cugina Issar. Era talmente bella che le venne dato anche un nome: la chiamarono Occhio del Mare. La portava la nonna di mia nonna.

— E tu, non l'hai mai vista? — domandò pigramente la donna più anziana, facendo scorrere lo sguardo sulle verdi pendici della valle, dove la lunghissima estate mandava venti caldi e inquieti a perdersi momentaneamente tra le foreste per poi precipitarsi di nuovo, fischiando, lungo le strade bianche, fino a raggiungere il mare lontano.

— Andò perduta prima che nascessi.

— L'hanno presa i Signori delle Stelle, come parte del tributo?

— No. Mio padre diceva che fu rubata, prima ancora che i Signori delle Stelle giungessero nel nostro regno. Non ha mai voluto parlarne, ma c'era una vecchia donna plebea che conosceva molte storie: mi diceva sempre che certamente i Fiia sapevano dove fosse finita.

— Ah, i Fiia, come mi piacerebbe vederli! — disse Durossa. — Ne parlano tutte le ballate e le fiabe; perché non vendono mai nelle Terre Occidentali?

— Perché sono troppo alte e troppo fredde d'inverno, credo. I Fiia amano il sole delle valli meridionali.

— Assomigliano al Popolo d'Argilla?

— Non saprei; non ho mai visto Uomini d'Argilla: vivono lontano da noi, al sud. Si dice che siano bianchi come i plebei, e goffi e tozzi. I Fiia sono biondi e aggraziati, sembrano bambini, ma più sottili, e molto saggi. Oh, se mi dicessero dove si trova la collana, chi l'ha rubata e dove l'ha nascosta! Pensa, Durossa: se potessi entrare nella Sala dei Banchetti di Hallan e sedermi accanto a mio marito, con al collo le ricchezze di un intero regno, e far sfigurare tutte le altre donne davanti a me, come lui fa sfigurare gli altri uomini!

Durossa si chinò sulla piccola Haldre, che sedeva su un tappeto di pelliccia, tra la madre e la zia, e che era profondamente impegnata a studiarsi le dita dei bruni piedini. — Semley è sciocca — mormorò alla bimba. — Semley che splende come una stella cadente, Semley il cui marito ama un unico oro: quello dei suoi capelli…

E Semley, che aveva distolto gli occhi dalle verdi pendici dell'estate per perdersi con lo sguardo nel lontano mare, non disse più nulla.

Ma quando fu trascorso un altro annofreddo e i Signori delle Stelle si furono nuovamente presentati a raccogliere la tassa destinata alla guerra contro la fine del mondo (questa volta servendosi come interpreti di due grotteschi Uomini d'Argilla: un'umiliazione che fece nascere in tutti gli Angyar pensieri di ribellione), e quando fu trascorso un altro annocaldo, e Haldre, crescendo, si fu trasformata in un'adorabile chiacchierina, una mattina Semley la condusse nella soleggiata stanza di Durossa, in alto nella Torre. Semley indossava un vecchio mantello blu, con un cappuccio che le copriva i capelli.

— Tieni tu Haldre per qualche giorno, Durossa — le disse, senza preamboli, con voce tranquilla. — Io vado nel Sud, a Kirien.

— A visitare tuo padre?

— A cercare la mia eredità. I tuoi cugini del Feudo di Harget continuano a deridere Durhal. Perfino quel mezzosangue di Parna può divertirsi a tormentarlo, perché sua moglie ha sul letto una coperta di raso, ha un orecchino con brillante, e ha tre abiti di gala, quella sciattona dalla faccia color farina, dai capelli neri! Mentre la moglie di Durhal va in giro con la veste rammendata…

— Di che cosa deve andare fiero Durhal? — intervenne con un sorriso la donna più anziana. — Di sua moglie, o di ciò che indossa?

Ma Semley non era disposta a cedere. — I Signori di Hallan stanno diventando poveri nel loro castello — disse. — Intendo portare al mio signore la mia dote nuziale, come è dovere delle donne del mio rango.

— Semley! Hai avvertito Durhal della tua partenza?

— Il mio ritorno sarà trionfale… fagli sapere solo questo — disse la giovane Semley, scoppiando per un attimo in una delle sue allegre risate; poi si chinò a baciare la figlia, si voltò, e prima che Durossa riuscisse a dire una sola parola, sparì come un soffio di vento sull'assolato pavimento di pietra.

Le donne sposate degli Angyar non cavalcano per divertimento, e Semley non si era mai allontanata da Hallan dopo il matrimonio; perciò, quando montò sull'alta sella di un destriero del vento, si sentì di nuovo bambina, ritornò a essere la ragazza selvaggia che montava grifoni non del tutto domati, lanciandoli contro il vento del nord, nei cieli di Kirien. L'animale che adesso lasciava i monti di Hallan era di razza più pura, con il mantello striato che aderiva liscio alle ossa cave e leggere, gli occhi verdi socchiusi per ripararli dal vento, e le ali sottili e possenti che lentamente si alzavano e si abbassavano ai due lati di Semley, coprendo e scoprendo, coprendo e scoprendo le nubi sopra di lei e i monti sottostanti.

La mattina del terzo giorno giunse a Kirien e si ritrovò ancora una volta nelle sue corti diroccate. Suo padre aveva bevuto tutta la notte, e, proprio come ai vecchi tempi, la luce del mattino che filtrava attraverso il tetto sfondato gli dava fastidio; il fastidio aumentò ulteriormente quando si accorse della presenza della figlia. — Perché sei tornata? — brontolò, fissandola per un attimo con occhi assonnati e distogliendo subito lo sguardo. I suoi capelli, che in giovinezza avevano avuto il colore della fiamma, ormai erano spente ciocche grige spettinate, ammassate sul cranio. — Quel giovane Hallan non ti ha poi sposato, e adesso ritorni a casa alla chetichella?

— Sono la moglie di Durhal. Vengo a prendere la mia dote, Padre.

L'ubriaco brontolò, disgustato; ma lei rise così dolcemente che lo costrinse a guardarla di nuovo, con un brivido.

— È vero, Padre, che furono i Fiia a rubare la collana chiamata Occhio del Mare?

— E lo chiedi a me? Vecchie storie. Quella collana è scomparsa prima che io nascessi, mi pare. Anzi, meglio che non fossi nato. Se proprio ti interessa saperlo, devi chiederlo ai Fiia. Va' da loro, torna da tuo marito, ma lasciami in pace, A Kirien non c'è posto per le ragazze, per l'oro e per il resto di quella storia. Qui le storie sono finite: il castello è caduto, la sala è vuota. Tutti i figli di Leynen sono morti, tutti i loro tesori si sono persi. Vattene per la tua strada, ragazza.

Grigio e gonfio come il ragno di una casa in rovina, le voltò le spalle e si avviò barcollando verso la cantina dove si nascondeva alla luce del sole.

Conducendo per la briglia il destriero dal manto a strisce, Semley lasciò la sua vecchia casa e discese la ripida collina, oltrepassando il villaggio dei plebei, che l'accolsero con rispetto, ma con poca simpatia, e proseguendo per i campi e per i pascoli dove brucavano i grandi herilor parzialmente selvaggi, dalle ali tarpate, fino a una valle che era verde come una tazza dipinta colma di sole fino all'orlo. In fondo alla valle c'era il villaggio dei Fiia: vedendola scendere con il grifone alla briglia, le piccole e snelle creaturine lasciarono le capanne e gli orticelli e corsero verso di lei, ridendo e chiamandola con le voci acute e sottili.

— Salve, Sposa di Hallan, Signora di Kirien, Padrona del Vento, Semley la Bella!

La chiamavano sempre con nomi bellissimi, e a lei piaceva ascoltarli, senza fare caso alle loro risate, perché i Fiia ridevano di tutto ciò che dicevano. Era il loro modo di vivere: ridere e parlare. Si fermò in mezzo a loro, alta nel suo lungo mantello azzurro, mentre quelli le davano il benvenuto turbinandole intorno.

— Salve, Popolo della Luce, Abitatori del Sole, Fiia Amici degli Uomini!

La condussero al villaggio e la invitarono in una delle loro case ariose, seguiti per tutto il tragitto da un codazzo di bambini piccolissimi. Era impossibile determinare l'età di un Fian adulto; era molto difficile distinguerli l'uno dall'altro, e addirittura essere certi, mentre si muovevano svelti all'intorno, veloci come falene che roteano intorno a una fiamma, di parlare sempre allo stesso individuo. Ma a Semley parve di essersi sempre rivolta a uno solo dei Fiia, almeno all'inizio, mentre gli altri davano da mangiare al suo grifone e lo accarezzavano, portavano acqua da bere anche a lei e cestini di frutta, coltivata nei loro frutteti di piccoli alberi. — Non sono stati i Fiia a rubare la collana dei Signori di Kirien! — esclamava l'ometto. — Signora, cosa se ne farebbero dell'oro, i Fiia? Abbiamo la luce del sole nell'annocaldo, e nell'annofreddo il ricordo di quella luce; i frutti gialli e le foglie gialle quando la stagione finisce, i biondi capelli della nostra signora di Kirien. Non abbiamo altro oro.

— Allora fu rubata da un plebeo?

Un coro di fioche risate si alzò intorno a lei, echeggiando a lungo. — Come potrebbe osare, un plebeo? O Padrona di Kirien, come sia stato rubato il grande gioiello, ormai non lo sa più nessun mortale: signore o plebeo, Fian o un altro qualsiasi dei Sette Popoli. Soltanto le menti dei morti conoscono come sia andato perduto, tanto tempo fa, allorché Kireley l'Orgogliosa, che fu la nonna della nonna di Semley, andò a passeggiare da sola nei pressi delle grotte marine. Ma forse lo si potrà trovare fra i Nemici del Sole.

— Il Popolo d'Argilla?

Uno scoppio di risate, più forti, ma nervose.

— Siedi con noi, Semley, Capelli di Sole, ritornata finalmente dal Nord. — Si sedette a mangiare con loro, e i Fiia si rallegrarono della sua cortesia, così come Semley si rallegrò della loro. Ma quando udirono nuovamente la sua decisione di recarsi dal Popolo d'Argilla per riavere la sua eredità (se davvero era laggiù la Collana), cominciarono a non ridere più; e a poco a poco il numero di quanti sedevano intorno a lei prese a ridursi. Infine rimase un unico Fian, che forse era lo stesso che l'aveva ascoltata prima del pranzo.

— Non andare dal Popolo d'Argilla, Semley — disse il Fian, e per un istante lei sentì un tuffo al cuore. L'ometto, passandosi lentamente una mano sugli occhi dall'alto al basso, aveva fatto oscurare l'aria intorno a loro: i frutti contenuti nei cestini erano divenuti bianchi come cenere, le ciotole colme d'acqua pulita parevano vuote.

— Fra le montagne della Terra Lontana i Fiia e gli Gdemiar si separarono. La separazione avvenne molto tempo fa — disse il piccolo, immoto Fian. — E in un tempo ancora più lontano noi eravamo una cosa sola. Ciò che noi non siamo, essi sono. Ciò che noi siamo, essi non sono. Pensa al sole e all'erba e agli alberi da frutto, Semley; e pensa anche a questo: non tutte le strade che portano in basso sono poi capaci di riportarti in alto.

— La mia strada non va né in alto né in basso, caro ospite mio. Va soltanto verso la mia eredità. Sono decisa a raggiungerla dovunque si trovi, e a riportarmela a casa.

Il Fian le rivolse un inchino, ridendo piano.

Uscita dal villaggio, Semley rimontò sul destriero striato, e gridando addii in risposta agli auguri dei Fiia, s'innalzò nel vento del pomeriggio e volò in direzione sudovest, diretta alle grotte che costellavano le rive del Mare di Kirien, ai piedi delle pendici rocciose.

Pensava di doversi addentrare per una lunga distanza in quelle gallerie fra la roccia, prima di incontrare la razza da lei cercata, poiché correva voce che il Popolo d'Argilla non uscisse mai alla luce del sole, e che temesse anche Grandestella e le lune. Il volo fu lungo: prese terra una volta soltanto, per permettere al suo destriero di andare a caccia di ratti arboricoli, mentre ella consumava un po' del pane che si era portata con sé, nella tasca della sella. Il pane era ormai duro e secco, e sapeva di cuoio, ma conservava ancora una traccia del suo profumo di forno; per un momento, mentre lo mangiava da sola, in una radura delle foreste meridionali, Semley udì il suono di una voce tranquilla e scorse la faccia di Durhal girata verso di lei, alla luce delle candele di Hallan… Per qualche tempo rimase immobile, sognando a occhi aperti quel volto giovane e austero, fantasticando di ciò che gli avrebbe detto, quando fosse tornata a casa portando al collo un tesoro talmente prezioso che, con esso, si sarebbe potuto riscattare un intero regno: «Desideravo un dono che fosse degno del mio consorte, Signore…».

Poi proseguì il viaggio: quando raggiunse la costa, il sole era già tramontato, e dietro di esso stava declinando anche Grandestella. Da occidente s'era levato un vento cattivo, che spirava a raffiche e che cambiava direzione, e il grifone procedeva a fatica. Semley lo fece scendere planando sulla sabbia. Subito l'animale chiuse le ali e raccolse le zampe grosse e leggere, soddisfatto. Con una mano, Semley si strinse il mantello alla gola e con l'altra accarezzò il collo del grifone, che prese a fare le fusa. Il calore della pelliccia le riscaldava la mano, ma al suo sguardo si offrivano solo il cielo livido e pieno di nembi, il mare grigio e la rena scura. E poi scorse una creatura bassa e bruna, che si spostava rapidamente sulla sabbia… un'altra… un intero gruppo di esseri, che correvano, si fermavano ad accovacciarsi dietro qualche masso, riprendevano a correre.

Semley li chiamò a gran voce. E se quelli, prima, non avevano dato segno di vederla, adesso, in un attimo, le furono tutti intorno. Si tennero a una certa distanza dal suo destriero del vento, che aveva smesso di fare le fusa e aveva rizzato un po' il pelo sotto la mano di Semley. Lei afferrò ben strette le redini, lieta della protezione che la bestia poteva offrirle, ma timorosa di qualche suo scatto feroce, frutto del nervosismo. Gli esseri sconosciuti rimasero immobili a guardarla, senza parlare, con i piedi massicci e scalzi ben piantati nella sabbia. Era impossibile sbagliare: erano alti come i Fiia, e in ogni altra cosa erano l'ombra, l'immagine in nero di quegli esseri ridenti. Nudi, tozzi, impassibili, con i capelli neri e lisci, con la pelle grigiastra e umidiccia come quella delle larve; occhi come pietre.

— Siete voi, il Popolo d'Argilla?

— Siamo Gdemiar, il popolo dei Signori dei Regni della Notte. — Era una voce inaspettatamente sonora e profonda, che echeggiò pomposa nel crepuscolo salmastro e battuto dal vento; ma anche ora, come in precedenza le era avvenuto con i Fiia, Semley non poté capire quale dei presenti avesse parlato.

— Vi saluto, Signori della Notte. Sono Semley di Kirien, moglie di Durhal di Hallan. Vengo tra voi per cercare ciò che è mio per diritto d'eredità, la collana chiamata Occhio del Mare, che fu persa molto tempo fa.

— Perche la cerchi qui, Angya? Qui ci sono solo la sabbia, l'acqua salata e la notte.

— Perché nei luoghi profondi si conoscono le cose smarrite — ribatte Semley, pronta a cimentarsi in quella che si mostrava fin dall'inizio come una lotta d'astuzia, — e perché l'oro che viene dalla terra tende a ritornare alla terra. Inoltre, come dice il proverbio, talvolta il manufatto ritorna a chi l'ha fabbricato. — Pronunciando quest'ultima frase, Semley aveva tirato a indovinare; l'allusione colpì nel segno.

— È vero, la collana Occhio del Mare ci è nota di fama. Venne fatta nelle nostre caverne molto tempo fa, e da noi venduta agli Angyar. La sua pietra azzurra proveniva dai Campi d'Argilla dei nostri cugini dell'Est. Ma si tratta di storie molto antiche, Angya.

— Vorrei ascoltarle nei luoghi dove sono narrate.

Le tozze creature rimasero in silenzio per qualche tempo, come se fossero in dubbio. Il vento che soffiava sulla sabbia era carico di foschia grigia ed era sempre più scuro con il tramontare di Grandestella; il rombo del mare cresceva e diminuiva. La voce profonda riprese a parlare: — Sì, Signora degli Angyar. Puoi entrare nelle Sale Sotterranee. Adesso accompagnaci. — La sua voce aveva un timbro diverso, più dolce. Semley non vi fece caso. Seguì gli Uomini d'Argilla lungo la sabbia, conducendo a briglia corta il destriero dagli artigli aguzzi.

All'imboccatura della grotta (una grande bocca aperta in uno sbadiglio, sdentata, da cui usciva con un sospiro un fetido calore), uno degli Uomini d'Argilla disse: — La bestia volante non può entrare.

— Entrerà — disse Semley.

— No — ribatterono i tozzi esseri.

— Entrerà: non intendo lasciarla qui fuori. Non è mia, e non posso abbandonarla. Non vi farà alcun male, finché la terrò per la briglia.

— No — ripeterono le voci profonde; ma altre intervennero: — Come tu vuoi — e dopo qualche istante d'esitazione l'intero gruppo si rimise in cammino. La bocca della caverna parve chiudersi di scatto alle loro spalle, tanto era buio all'interno della montagna. Procedevano in fila indiana, e Semley veniva per ultima.

L'oscurità della galleria si diradò: erano giunti sotto una boccia di pallido fuoco bianco, appesa al soffitto. Più avanti se ne scorgeva una seconda, e più avanti ancora una terza: tra l'una e l'altra, lunghi vermi nen pendevano a festoni dalla roccia. Via via che procedevano, la distanza tra una boccia e l'altra si accorciava, e infine l'intero tunnel fu rischiarato da una luce fredda e intensa.

Le guide di Semley si fermarono davanti a tre grandi porte che sembravano di ferro e che chiudevano l'imboccatura di tre nuove gallerie. — Qui dobbiamo aspettare, Angya — dissero, e otto rimasero con lei, mentre altri tre aprivano una delle porte ed entravano. La porta si richiuse dietro di loro con un tonfo sordo.

Immobile ed eretta attese la figlia degli Angyar nella bianca e cruda luce delle lampade; il destriero del vento, accovacciato al suo fianco, agitava la punta della coda striata, mentre le grandi ali ripiegate fremevano di tanto in tanto per il desiderio di volare, ormai trattenuto da troppo tempo. Nella galleria, dietro Semley, c'erano gli otto Uomini d'Argilla: sedevano a terra accosciati, e si scambiavano qualche parola con le loro voci profonde, nella loro lingua.

Con un rumore di ferraglia, infine la porta centrale si spalancò. — Fate entrare l'Angya nel Regno della Notte! — esclamò una nuova voce, tonante e orgogliosa. Sulla soglia comparve un Uomo d'Argilla che portava un indumento sul tozzo corpo grigio: le rivolse un cenno, invitandola a entrare. — Vieni ad ammirare i prodigi della nostra terra, le meraviglie create dalle nostre mani, l'opera dei Signori della Notte!

In silenzio, tirando la briglia dell'animale, Semley chinò la testa e lo seguì sotto la bassa arcata, costruita per il popolo nano. Davanti a lei si stendeva un altro tunnel illuminato, le cui pareti umide scintillavano nella luce bianca; sul pavimento, invece di un marciapiede, c'erano due sbarre di ferro lucido, poste a fianco a fianco, che si stendevano a perdita d'occhio. Sulle sbarre era ferma una specie di carro dalle ruote metalliche. Obbedendo ai gesti della sua nuova guida. Semley salì sul carro e fece accovacciare il grifone accanto a sé, senza esitazioni e senza ombra di meraviglia sul viso. L'Uomo d'Argilla salì a sua volta e, sedutosi davanti a lei, prese ad armeggiare con leve e rotelle. Si alzò un forte rumore di macina, si udì il gemito del metallo che striscia sul metallo, e le pareti del tunnel cominciarono a scorrere attorno a loro, sussultando. Le pareti corsero sempre più veloci; i globi di fiamma appesi al soffitto parvero diventare una sola fila confusa; l'aria calda e viziata divenne un fetido vento che le sfilò dai capelli il cappuccio.

Il carro si arrestò. Semley, seguendo la guida, salì alcuni scalini di basalto ed entrò in una vasta anticamera, e poi in una sala ancora più vasta, scavata nella viva roccia da antichi corsi d'acqua o dal lavoro da talpe degli Uomini d'Argilla: le sue tenebre, che non avevano mai conosciuto la luce del sole, erano rischiarate dal misterioso splendore freddo dei globi. Dietro certe grate fissate alle pareti, pale enormi giravano in continuazione, per cambiare l'aria. Nel grande spazio chiuso ronzavano e rimbombavano le voci sonore degli Uomini d'Argilla, il cigolio, il ronzio acuto e le vibrazioni delle pale e delle ruote in movimento, e gli echi e i riverberi di tutti questi suoni sulla roccia. Nell'enorme sala, i tozzi Uomini d'Argilla indossavano vestiti che imitavano quelli dei Signori delle Stelle: calzoni, stivali flosci e tuniche con cappuccio; solo le poche donne visibili, frettolose e servili nanerottole, erano nude. Molti degli uomini dovevano essere soldati, poiché portavano al fianco anni simili ai tenibili lanciafiamme dei Signori delle Stelle, ma la stessa Semley poté accorgersi senza fatica che erano soltanto bastoni di ferro modellato. Semley notò tutti questi particolari con la coda dell'occhio, senza mai posare lo sguardo su uno qualsiasi di essi: si limitò a seguire la guida, senza voltare la testa. Quando giunsero davanti a un gruppo di Uomini d'Argilla che portavano coroncine di ferro sui neri capelli, la sua guida si fermò, s'inchinò profondamente e disse con voce tonante: — I Supremi Signori degli Gdemiar!

Erano in sette, e tutti alzavano gli occhi verso di lei con tanta arroganza sulle facce pallide e sgraziate che Semley dovette fare un notevole sforzo per non scoppiare a ridere.

— Vengo tra voi alla ricerca del tesoro perduto della mia famiglia, o Signori del Regno delle Tenebre — disse loro, in tono grave. — Cerco il bottino di Leynen, l'Occhio del Mare. — Nel frastuono dell'immane cripta, la sua voce pareva perdersi.

— Così ci hanno riferito i nostri messaggeri, nobile Semley. — Questa volta riuscì a individuare l'individuo che parlava: uno che, anche se la cosa pareva impossibile, era ancora più basso di statura degli altri, poiché le arrivava a malapena all'altezza del petto; una faccia bianca, orgogliosa e feroce. — Non abbiamo ciò che tu cerchi.

— Ma l'avevate un tempo, a quanto si dice.

— Si dicono tante cose, lassù dove brilla il sole.

— E le parole le porta via il vento, là dove il vento spira. Non chiedo come la collana sia stata sottratta a noi, né come sia ritornata a voi, suoi antichi creatori. Sono storie vecchie, vecchi rancori. Desidero solamente riaverla, e riaverla adesso. Voi non l'avete; ma forse sapete dove si trova.

— Non è qui.

— Dunque è in un altro luogo.

— Laggiù dove è, tu non potresti raggiungerla. Mai, a meno che tu non abbia il nostro aiuto.

— Allora aiutatemi. Ve lo chiedo come vostra ospite.

— Si dice: Gli Angyar prendono; i Fiia danno; gli Gdemiar danno e prendono. Se faremo questo per te, che cosa ci darai?

— La mia gratitudine, Signore della Notte. Tacque, sorridendo, alta e fulgida in mezzo a loro.

Tutti la fissavano con un rancore, un'ostinazione che erano assai prossimi alla meraviglia, a un oscuro desiderio.

— Ascolta, Angya; ciò che ci chiedi è un favore grandissimo. Tu non puoi sapere quanto sia grande. Appartieni a una razza che non è disposta ad ascoltare, che pensa soltanto a cavalcare sul vento, a coltivare la terra, a combattere a filo di spada, a fare baldoria cantando in compagnia. Ma chi fabbrica le vostre spade di acciaio lucente? Noi, gli Gdemiar! I vostri signori vengono da noi, qui e nei Campi d'Argilla, acquistano le spade e se ne vanno senza guardare, senza capire. Ma tu, ora che sei qui, guarderai, e vedrai una parte delle nostre infinite meraviglie: le luci che rimangono sempre accese, il carro che si traina da solo, le macchine che fabbricano i nostri vestiti, cuociono il nostro cibo, addolciscono la nostra aria e ci servono in ogni nostra necessità.

«Sappi che ciascuna di queste cose è al di là della vostra comprensione. E sappi ancora una cosa: noi, gli Gdemiar, siamo amici di coloro che voi chiamate Signori delle Stelle! Li abbiamo accompagnati a Hallan, a Reohan, a Hul-Orren, in tutti i vostri castelli, per aiutarli a parlare con voi. I signori a cui voi, orgogliosi Angyar, pagate un tributo, sono nostri amici. Ci fanno dei favori, e noi facciamo dei favori a loro! Ora, che significato può avere, per noi, la tua gratitudine?

— Tocca a te rispondere a questa domanda — disse Semley, — non a me. Io ho fatto la mia domanda. Rispondi ad essa, Signore.

Per qualche tempo, i sette confabularono tra loro, a voce e in silenzio. La guardavano e poi distoglievano lo sguardo, mormoravano qualche parola e poi tacevano. Pian piano, intorno a loro, cominciò a raccogliersi una folla, lentamente e silenziosamente richiamata laggiù, un individuo alla volta, e infine Semley si trovò circondata da centinaia di teste nere e scarmigliate, e tutto il pavimento della grande caverna echeggiante si riempì di gente, tranne un breve spazio intorno a lei. Il grifone fremeva di timore e di irritazione repressa, i suoi occhi erano pallidi e spalancati, come quelli di un animale costretto a volare di notte. Semley gli accarezzò il caldo pelo dietro le orecchie, mormorando: — Calmo, calmo, coraggioso, bello, padrone dei venti…

— Angya, ti porteremo nel luogo dove si trova il tesoro. — L'Uomo d'Argilla dalla faccia bianca e dalla coroncina di ferro aveva ripreso a parlare. — Di più non possiamo fare. Devi venire con noi a richiedere la collana, laggiù dove si trova, a coloro che la conservano. La bestia dell'aria non può venire con te. Devi venire da sola.

— Quanto è lungo il viaggio, Signore?

L'Uomo d'Argilla sorrise; il sorriso si allargò ulteriormente. — Un viaggio molto lungo, Signora. Eppure, durerà soltanto una notte.

— Vi ringrazio della vostra cortesia. Avrete cura del mio destriero per questa notte? Non deve succedergli niente di male.

— Dormirà fino al tuo ritorno. E quando rivedrai la tua bestia avrai cavalcato un destriero del vento ben più possente! Non ci chiedi dove ti condurremo?

— Possiamo iniziare presto il viaggio? Non vorrei restare assente da casa troppo tempo.

— Sì. Presto. — Le labbra grige sorrisero nuovamente, mentre l'Uomo d'Argilla sollevava la testa per guardarla.

Quel che accadde nelle ore successive, Semley non fu mai in grado di narrarlo: ricordava soltanto la fretta, il movimento caotico, il rumore, la stranezza delle esperienze. Lei che teneva ferma la testa del grifone, mentre uno degli Uomini d'Argilla gli cacciava nel fianco striato d'oro un lunghissimo ago. Per poco, a quella vista, Semley non si lasciò scappare un grido, ma la bestia si limitò a fremere un momento, e poi, facendo le fusa, cadde nel sonno. Venne portata via da un gruppo di Uomini d'Argilla che dovettero chiamare a raccolta tutto il loro coraggio per toccare il suo caldo pelame.

Più tardi dovette farsi piantare anche lei un ago nel braccio: forse, pensò, intendevano soltanto mettere alla prova il suo coraggio, perché l'ago non la fece addormentare (anche se, a questo proposito, qualche dubbio le rimase sempre). Talvolta dovette viaggiare sui carri, superando centinaia e centinaia di porte di ferro e di caverne; una volta il carro attraversò una caverna che si stendeva per una distanza incommensurabile, nel buio, da entrambi i lati, e tutta quella tenebra era piena di immensi branchi di helidor. Udì i loro richiami gutturali e scorse la forma dei branchi quando le luci di testa del carro li illuminarono; infine ne poté vedere alcuni più da vicino, e si accorse che erano privi di ali, e ciechi. Di fronte a quella vista, chiuse gli occhi. Ma c'erano sempre nuove gallerie da percorrere, e nuove caverne, nuove figure grige e tozze, facce feroci e voci echeggianti; infine, all'improvviso, la condussero all'aria aperta. Si era nel pieno della notte; Semley alzò gli occhi, gioiosamente, verso le stelle e l'unica luna che ancora brillava, la piccola Heliki che rischiarava l'occidente. Ma gli Uomini d'Argilla ripresero subito a occuparsi di lei, facendole salire alcuni scalini per entrare in un nuovo tipo di carro (o di grotta? Semley non avrebbe saputo dirlo). Era piccolo, pieno di luci che si accendevano e si spegnevano, simili alle bocce luminose che aveva visto al suo ingresso nel regno sotterraneo, ma assai più piccole; l'intero ambiente era molto stretto ed era tutto lucido, assai diverso sia dalle grandi caverne umide, sia dalla notte stellata. Un altro ago la punse, e le fu detto che l'avrebbero legata su una specie di sedia piatta: mani, piedi e testa.

— No — protestò.

Ma quando vide che i quattro Uomini d'Argilla che dovevano farle da guida si facevano legare prima di lei, si arrese. Gli altri li lasciarono soli. Ci fu un grande ruggito, e poi un lungo silenzio; Semley si sentì schiacciare da un grande peso invisibile. Poi non ci furono più né pesi né suoni. Nulla.

— Sono morta? — domandò Semley.

— Oh no, Signora — disse una voce che non le piacque affatto.

Aperti gli occhi, vide la faccia pallida china su di lei, le grosse labbra arricciate in un sorriso, gli occhi simili a piccoli sassi. I legami che l'avevano tenuta ferma non c'erano più, e Semley si rizzò a sedere. Scoprì di essere priva di peso e priva di corpo; le parve di essere soltanto un soffio di terrore nel vento.

— Non ti faremo del male — disse la voce cupa (o erano più voci?). — Permettici soltanto di toccarti, Signora. Ci piacerebbe toccarti i capelli. Lasciati toccare i capelli…

Il carro a forma di boccia che li trasportava ebbe un leggero fremito. Al di là dell'unica finestra si stendeva una notte senza stelle, o la nebbia, o il nulla. Una sola, lunga notte, avevano detto. Fu molto lunga. Semley continuò a sedere immobile e sopportò il tocco delle mani grige e pesanti che le sfioravano i capelli. Più tardi le chiesero di toccarle le mani e i piedi, e le braccia; quando uno le toccò la gola, lei strinse i denti e si alzò in piedi. Quelli indietreggiarono.

— Non ti abbiamo fatto male, Signora — protestarono. Lei scosse il capo.

Quando la invitarono a farlo, Semley si sdraiò di nuovo sulla sedia che le impediva di muoversi; e quando giunse dalla finestra un lampo di luce dorata, lei avrebbe voluto piangere di gioia, ma svenne prima.

— Bene — disse Rocannon, — adesso almeno sappiamo cos'è.

— Certo, e mi auguro che possiamo anche sapere chi è — mormorò Ketho. — Vuole qualcosa che abbiamo qui al museo; è questo, ciò che hanno detto i trog?

— Su, non chiamarli «trog» — disse Rocannon, coscienziosamente (nella sua qualità di etnologo specializzato in forme di vita a intelligenza elevata, era tenuto a scoraggiare certi nomignoli). — Non sono belli, ma sono alleati di grado C… Mi domando perché la Commissione abbia scelto proprio loro per farli progredire, prima ancora di entrare in contatto con le altre specie intelligenti. Scommetto che la missione esplorativa veniva dal Centauro: i centauriani danno sempre la preferenza alle specie notturne e cavernicole. Fosse dipeso da me, avrei scelto la specie numero 2, laggiù.

— Sembra che i trogloditi abbiano una profonda soggezione di quella donna.

— Perché, tu no?

Ketho guardò nuovamente la donna alta, poi arrossì e rise.

— Be', in un certo senso, sì. Non ho mai visto un tipo alieno così affascinante, nei diciotto anni che ho passato qui sulla Nuova Georgia del Sud. Anzi, confesso di non avere mai visto una donna così incantevole, su nessun pianeta. Sembra una dea. — Il rossore era dilagato fino alla sommità della sua testa calva: Ketho era timido, poco portato alle esagerazioni. Rocannon gli rivolse un breve cenno d'assenso, con la testa.

— Vorrei parlarle senza trog… senza Gdemiar come interpreti. Ma è impossibile. — Rocannon si diresse verso la visitatrice, e quando lei girò nella sua direzione lo splendido viso, egli si inchinò profondamente, fino ad appoggiare al pavimento un ginocchio, con la testa piegata e gli occhi bassi. Era il suo «Inchino Inter-culturale Tuttofare», ed egli lo eseguiva con una certa eleganza. Quando si raddrizzò, la bellissima donna sorrise e parlò.

— Lei dice: «Salve, Signore delle Stelle» — borbottò in un Galattico approssimativo uno degli Gdemiar che la scortavano.

— Salve, Signora degli Angyar — rispose Rocannon. — In che cosa possiamo servire la Signora, noi del museo?

In mezzo ai borbottii dei trogloditi, la voce della donna fu come una breve ventata argentina.

— Lei dice: «Prego ridare collana che tesoro di antenati di suo clan tanto tanto tempo fa.»

— Quale collana? — domandò Rocannon, e la donna, che aveva compreso il senso delle sue parole, indicò il pezzo principale esposto nella vetrina accanto a loro: un oggetto magnifico, una catena d'oro giallo, massiccia, ma lavorata con grande delicatezza, in cui era incastonato un grande zaffiro di un caldo colore azzurro. Rocannon inarcò le sopracciglia per la sorpresa, e Ketho, dietro di lui, mormorò: — Ha buon gusto, la nostra amica. È la Collana di Fomalhaut, un famoso capolavoro.

Lei sorrise ai due uomini, e di nuovo parlò loro direttamente, senza rivolgersi ai trogloditi.

— Lei dice: «Signori delle Stelle, Vecchio e Giovane Abitanti della Casa dei Tesori, questo tesoro è suo. Tanto tanto tempo. Grazie.»

— Come ci è pervenuta la collana, Ketho?

— Aspetta un momento, guardo sul catalogo. Ce l'ho qui. Ecco. Ce l'hanno data questi trog… questi nani… questi quel-che-sono: Gdemiar. Hanno il culto degli scambi, dice qui: hanno voluto, a tutti i costi, pagare l'astronave usata per venire qui, una PA-4. La collana faceva parte del pagamento. È opera loro.

— E scommetto che non sono più in grado di fare lavori analoghi, da quando li abbiamo portati al livello industriale.

— Comunque, sembrano convinti che la collana sia della donna, e non nostra, o loro. Deve trattarsi di qualcosa d'importante, Rocannon, altrimenti non avrebbero sacrificato tanto tempo-oggettivo per accontentarla. Il divario tra qui e Fomalhaut deve essere piuttosto notevole!

— Vari anni, senza dubbio — disse l'etnologo, che era abituato ai viaggi tra le stelle. — Ma, tutto sommato, non molto distante. Comunque, né il Manuale né la Guida mi forniscono dati sufficienti per formulare un'ipotesi attendibile. È chiara una cosa: che queste specie non sono state studiate a sufficienza. Forse i piccoletti si limitano a farle un favore. O quel maledetto zaffiro potrebbe far scoppiare una guerra tra le due specie. Forse i desideri della donna sono legge per loro, perche si considerano totalmente inferiori a lei. Oppure, nonostante le apparenze, lei è loro prigioniera, una sorta di specchio per le allodole. Come saperlo?… Tu potresti cedere la collana, Ketho?

— Oh, certo. Tutti gli «oggetti esotici» sono formalmente in prestito, e non ci appartengono, poiché di tanto in tanto riceviamo qualche richiesta di restituzione. Di solito non abbiamo obiezioni. La pace va mantenuta a tutti i costi, finché non verrà la Guerra…

— Allora, direi di dargliela.

Ketho sorrise. — È un onore — disse. Aprì con la chiave la vetrinetta e prese in mano la pesante catena d'oro; poi, timidamente, la porse a Rocannon, dicendo: — Dagliela tu.

E fu così che la gemma azzurra, all'inizio di tutto, rimase per qualche istante in mano a Rocannon.

Ma egli non pensava al gioiello. Si rivolse alla bellissima donna di un altro pianeta, stringendo nella mano quella manciata di fuoco azzurro e d'oro. Lei non tese la mano per prenderla, ma piegò la testa, e Rocannon gliela fece scivolare sopra i capelli. Il monile le cinse la gola bruna e dorata, come una miccia accesa. La donna alzò lo sguardo con tanto orgoglio, con tanta gioia e gratitudine, che Rocannon rimase senza parole, e il piccolo curatore mormorò nella propria lingua: — Prego, prego… — Lei chinò la testa clorata verso Ketho e verso Rocannon. Poi, voltandosi, rivolse un cenno alle tozze guardie (o erano carcerieri?) e stringendosi nel mantello azzurro e liso, si avviò per la lunga sala e subito scomparve. Ketho e Rocannon la seguirono con lo sguardo.

— Ho l'impressione… — cominciò Rocannon.

— Sì? — fece Ketho, con la voce spessa, dopo una lunga pausa.

— Ho l'impressione, talvolta, che io… incontrando persone di pianeti che conosciamo così male… ho l'impressione di entrare, per così dire, in qualche leggenda, o in qualche tragedia, forse, che non capisco.

— Già — disse il curatore, schiarendosi la gola. — Mi piacerebbe sapere il suo nome.

Semley la Bella, Semley la Dorata, Semley dalla Collana. Il Popolo d'Argilla si era piegato al suo volere, e così si erano piegati gli stessi Signori delle Stelle, nel luogo terribile dove l'avevano condotta gli Uomini d'Argilla, nella città al confine della notte. Si erano inchinati davanti a lei, le avevano dato lietamente il suo tesoro, che già era loro.

Ma non riusciva ancora a liberarsi dalle sensazioni che aveva provato nelle caverne dove la roccia pendeva sulla sua testa, dove non si capiva chi parlasse, o cosa facessero tutti quanti, dove le voci rimbombavano e le grige mani si tendevano… Basta. Aveva pagato, per avere la collana; benissimo. Adesso la collana era sua. Il prezzo era stato corrisposto, il passato era morto.

Il suo destriero del vento era uscito faticosamente da una sorta di cassa, con gli occhi velati e il pelo bordato di ghiaccio, e dapprima, dopo che ebbero lasciato le grotte degli Gdemiar, si rifiutò di volare. Ormai però sembrava che si fosse ripreso del tutto, e volava trasportato da un dolce vento che spirava dal sud, nel ciclo luminoso, in direzione di Hallan. — Presto, presto! — lo incitava, riprendendo a ridere, ora che il vento le aveva spazzato via dalla mente il ricordo dell'oscurità. — Voglio rivedere Durhal presto, presto…

E volarono veloci, giungendo a Hallan la sera del secondo giorno. Ormai le grotte del Popolo d'Argilla sembravano soltanto un brutto sogno, mentre il destriero veleggiava sui mille gradini di Hallan e sul Ponte sull'Abisso, dove la foresta scendeva a precipizio per trecento braccia. Nella luce dorata della sera, nella corte del volo, Semley smontò di sella e salì a piedi gli ultimi gradini, passando in mezzo alle rigide figure scolpite degli eroi del passato. I due guardiani della porta si inchinarono davanti a lei, fissando a occhi aperti la bellissima gemma lucente che portava al collo.

Nella Prima Sala fermò una ragazza che passava: una giovane molto graziosa, che dall'aspetto sembrava una parente di Durhal, anche se Semley non l'aveva mai vista. — Mi riconosci, ragazza? Sono Semley, moglie di Durhal. Puoi andare dalla nobile Durossa, avvertendola del mio ritorno?

Per il momento, Semley preferiva non entrare, per non correre il rischio di trovarsi di fronte a Durhal da sola; voleva l'appoggio di Durossa.

La ragazza continuava a fissarla con un'espressione imbambolata sulla faccia. Infine mormorò un: — Sì, Signora — e sfrecciò via, in direzione della Torre.

Semley rimase ad attendere nella sala cadente, carica di antichi stucchi dorati. Non giungeva nessuno; che fossero tutti a tavola, nella Sala dei Banchetti? Il silenzio cominciava a preoccuparla. Dopo qualche minuto, si avviò verso la scala della Torre. Ma una vecchia stava già dirigendosi verso di lei, sul pavimento di pietra. La nuova venuta piangeva e tendeva le braccia.

— Oh Semley, Semley!

Lei non aveva mai visto quella donna dai capelli grigi, e si ritrasse.

— Mia Signora, chi sei?

— Semley! Sono Durossa.

Lei rimase immobile, senza parlare, mentre Durossa l'abbracciava e piangeva, chiedendole se era vero che gli Uomini d'Argilla l'avevano catturata, imprigionandola sotto un incantesimo per tutti quegli anni. O erano stati i Fiia, con le loro strane arti? Poi, indietreggiando di un passo, Durossa smise di piangere.

— Sei ancora giovane, Semley. Giovane come il giorno che ci lasciasti. E porti al collo la collana che…

— Ho portato la mia dote a mio marito Durhal. Dov'è?

— Durhal è morto.

Semley rimase immobile.

— Tuo marito, mio fratello, Durhal Signore di Hallan, fu ucciso sette anni fa in battaglia. Da nove anni eri partita. I Signori delle Stelle non erano più venuti a raccogliere il tributo, e noi avevamo ripreso a combattere con i Castelli Orientali, con gli Angyar di Log e di Hul-Orren. In battaglia, Durhal fu ucciso dalla lancia di un plebeo, poiché il suo corpo aveva un'armatura insufficiente, e il suo spirito non ne aveva nessuna. Ora è sepolto nei campi sopra la Palude di Orren.

Semley si voltò. — Allora andrò a raggiungerlo — disse, posando la mano sulla catena d'oro che le pesava al collo. — Gli porterò il mio dono.

— Aspetta, Semley! La figlia di Durhal, tua figlia, guardala ora: Haldre la Bella!

Era la ragazza con cui aveva parlato al suo arrivo, quella che era andata a cercare Durossa. Una ragazza sui diciannove anni, con occhi simili a quelli di Durhal, di un intenso colore azzurro. Stava a fianco di Durossa e guardava con temiezza la nuova venuta che era sua madre, Semley, e che aveva la sua stessa età. L'età era uguale, e uguali erano anche le chiome d'oro, e la bellezza. L'unica differenza era che Semley era un poco più alta, e che portava al collo la pietra azzurra.

— Prendila, prendila. È per Durhal e Haldre che la sono andata a prendere, all'altro capo della lunga notte! — Semley gridò queste parole, piegando la testa per sfilare la pesante catena. Lasciò scivolare a terra il gioiello, che cadde sulle lastre di pietra del pavimento con un rumore leggero, freddo e liquido. — Prendila, Haldre! — gridò ancora, e poi, piangendo a gran voce, si voltò e fuggì da Hallan, oltre il ponte e ancora più avanti, per la lunga e ampia scalinata, e correndo verso oriente nella foresta che copriva il fianco della montagna, come un animale selvatico in fuga, infine scomparve.

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