Le bambole
Una bambola nella casa del fabbricante di bambole
guarda la culla e strilla:
«Questo è un insulto per noi».
Ma la più vecchia delle bambole,
che ha visto, tenuta in disparte per lo spettacolo,
intere generazioni della sua specie,
grida a tutto lo scaffale: «Benché
nessuno possa dir male
di questo posto,
uomini e donne portano
qui, a nostro danno,
qualcosa di sporco e chiassoso».
Vedendolo gemere e agitarsi,
la moglie del fabbricante di bambole sa bene
che il marito ha avvertito la propria sciagura,
e accoccolata al bracciolo della poltrona
gli sussurra all’orecchio,
la testa china sulla spalla:
«Mio caro, mio caro, oh, mio caro,
è stato un incidente».
Due notti dopo, tornai a New Orleans. Mi ero aggirato nelle Florida Keys e in pittoresche cittadine meridionali, e avevo camminato per ore sulle spiagge del sud, agitando le dita dei piedi nella sabbia bianca.
Alla fine ero tornato e il tempo freddo era stato spazzato via dall’inevitabile vento. L’aria era di nuovo quasi balsamica e il ciclo appariva alto e brillante sopra le nuvole in corsa. Era la mia New Orleans.
Andai immediatamente dalla mia cara vecchia affittuaria, e chiamai Mojo, che stava dormendo nel cortile posteriore perché trovava l’appartamentino troppo caldo. Non ringhiò quando feci il mio ingresso nel cortile. Tuttavia mi riconobbe dal suono della voce. Non appena pronunciai il suo nome fu di nuovo mio.
Venne subito da me, saltando per buttarmi sulle spalle le soffici zampe pesanti e per leccarmi la faccia con la sua grande lingua rosa. Gli strofinai il muso, lo baciai e affondai il volto nel suo dolce pelo grigio brillante. Lo vidi di nuovo come mi era apparso quella prima notte a Georgetown, in tutto il suo fiero vigore e nella sua grande gentilezza.
Era mai esistito un animale così spaventoso eppure così colmo di affetto placido e dolce? Sembrava una combinazione meravigliosa. M’inginocchiai sul vecchio lastricato a lottare con lui, a rovesciarlo sulla schiena e a immergere la mia testa nel grosso collare di pelliccia sul suo petto. Emise tutta quella serie di piccoli ringhi, uggiolii e suoni acuti che i cani fanno quando ti amano. E io ricambiavo il suo amore!
Per quanto riguardava la mia padrona di casa, la cara vecchia signora che osservava tutto ciò dalla porta della cucina, era in lacrime all’idea che se ne andasse. Trovammo subito un accordo. Lei lo avrebbe tenuto e io sarei andato a trovarlo attraverso il cancello del giardino ogni volta che avessi voluto. Una soluzione invero eccellente, poiché di certo non era giusto aspettarsi che lui dormisse in una cripta con me e io non avevo bisogno di un simile guardiano, sebbene talvolta l’idea mi sembrasse graziosa.
Baciai teneramente la vecchia signora, anche se in modo rapido, affinché non si accorgesse di essere nelle immediate vicinanze di un demone. Poi me ne andai con Mojo, a camminare nelle strade strette e graziose del Quartiere Francese, ridendo tra me per come i mortali fissavano il cane e gli facevano strada, davvero terrorizzati da lui, mentre indovinate un po’ chi era quello da temere sul serio?
La mia tappa successiva fu l’edificio in rue Royale in cui Claudia, Louis e io avevamo passato insieme quegli splendidi, luminosi cinquant’anni di esistenza terrena nella prima metà del secolo scorso, un luogo parzialmente in rovina, come ho già descritto.
Era stato detto a un giovane, un individuo brillante che si diceva riuscisse a trasformare case in rovina in dimore regali, d’incontrarsi con me alla casa. Lo condussi lungo le scale nell’appartamento in disuso.
«Voglio tutto com’era più di cento anni fa», gli dissi. «Ma mi raccomando: niente di americano, niente d’inglese, niente di vittoriano. Dev’essere interamente francese.» Poi lo accompagnai in una specie di allegra marcia stanza dopo stanza, mentre lui prendeva appunti nel suo taccuino, riuscendo a vedere poco nell’oscurità, e io gli dicevo quale carta da parati avrei voluto lì, quale sfumatura di smalto su quella porta laggiù, che genere di bergère avrebbe potuto procurarsi per quell’angolo, che tipo di tappeto indiano o persiano doveva acquistare per quel pavimento…
Com’era precisa la mia memoria!
Più e più volte mi raccomandai che prendesse nota di ogni mia parola. «Deve trovare un vaso greco, no, una riproduzione non va bene, e dev’essere alto così e avere figure di danzatori.» Ah, non era stata quell’ode di Keats a ispirare quell’acquisto di tanto tempo fa? Dov’era finita quell’urna? «E il caminetto… Quella non è la struttura originale. Deve trovarne una di marmo bianco, con volute fatte così, e che si curvi sopra la grata. Oh, e quegli altri caminetti devono essere riparati. Devono essere in grado di bruciare carbone. Tornerò a vivere qui appena lei avrà finito», conclusi. «Perciò deve fare in fretta. E un’altra raccomandazione. Qualunque cosa troviate in questi locali, nascosta nel vecchio intonaco, dovete darla a me.»
Che piacere era trovarsi sotto quei soffitti alti e che gioia sarebbe stata vederli non appena i fragili stucchi, che si stavano sbriciolando, fossero stati restaurati. Come mi sentivo libero e tranquillo. Il passato era lì, eppure non lo era. Niente più sussurri di fantasmi, se mai c’erano stati.
Descrissi i candelieri che volevo. Quando non riuscivo a trovare i termini giusti, gli raccontavo per immagini quello che c’era stato lì un tempo. Volevo avere anche lampade a olio, sebbene ci dovesse essere anche l’elettricità, e avremmo nascosto i vari schermi televisivi in graziosi armadietti, per non guastare l’effetto. E là, un mobiletto per le mie videocassette e i miei CD e, anche in quel caso, avremmo dovuto trovare qualcosa di adatto: un armadio orientale dipinto avrebbe fatto al caso nostro. Nascondere i telefoni.
«E un fax ! Devo avere una di quelle piccole meraviglie! Trovi un posto per nasconderlo. Per esempio, può usare quella stanza per farne uno studio, soltanto lo renda comodo e lussuoso. Non ci dev’essere di visibile nulla che non sia di ottone lucido, lana pregiata, legno lustro, seta o pizzo di cotone. Voglio un murale in quella camera da letto. Ecco, le faccio vedere. Guardi, vede la carta da parati? È proprio quello il murale. Faccia venire un fotografo e documenti ogni centimetro e poi cominci il suo restauro. Lavori con cura ma molto velocemente.»
Terminammo con l’interno umido e buio. Era il momento di discutere del cortile sul retro con la sua fontana rotta, e di come si dovesse ristrutturare la cucina. Volevo le buganvillee, la Petrea volubilis (come l’adoravo!) e l’ibiscus gigante, sì, avevo appena visto quel fiore delizioso ai Caraibi, e il convolvolo notturno, anche. Banani, mi doveva procurare pure quelli. Ah, i vecchi muri stavano cadendo a pezzi. Li doveva riparare, puntellandoli. E sulla veranda sul retro volevo delle felci, delicate felci di tutti i tipi. Il clima si stava riscaldando di nuovo, no? Sarebbero state bene.
E poi ancora una volta al piano di sopra, attraverso la lunga struttura vuota della casa fino alla veranda anteriore.
Aprii, forzandole, le porte finestre e uscii sulle assi marce. Le vecchie e ricercate ringhiere di ferro non erano poi così arrugginite. Il tetto era da rifare. Ma ben presto sarei di nuovo stato seduto lì fuori come facevo ogni tanto ai vecchi tempi, a guardare i passanti sull’altro lato della strada.
I fedeli e zelanti lettori dei miei libri mi avrebbero trovato lì, di tanto in tanto. I lettori delle memorie di Louis, se fossero venuti a cercare l’appartamento in cui era vissuto, avrebbero riconosciuto di certo la casa.
Non importa. Ci credevano, ma ciò è diverso dal crederlo davvero. E cosa ci sarà mai di strano in un altro giovane biondo, che sorride da un alto balcone, con le braccia appoggiate alla ringhiera? Non mi nutrirei mai di quegli esseri teneri e innocenti: persino quando mi mostrano le loro gole e dicono: «Lestat, qua!» (Questo è successo, lettore, in Jackson Square, e più di una volta.)
«Deve affrettarsi», dissi al giovane che stava ancora scribacchiando, prendendo misure, mormorando tra sé a proposito di colori e tessuti, e sobbalzando quando si ritrovava Mojo accanto, di fronte, o tra i piedi. «La voglio finita prima dell’estate.» Era piuttosto agitato quando lo congedai. Io rimasi nel vecchio edificio con Mojo, solo.
La soffitta. Non vi ero mai salito, ai bei tempi andati. Ma c’era una vecchia rampa di scale nascosta dalla veranda sul retro, appena oltre il salotto in fondo, proprio la stanza in cui Claudia aveva trafitto la mia bianca pelle sottile col suo grande pugnale lampeggiante. Ci andai, salendo nelle stanze basse sotto il tetto spiovente. Ah, era alto abbastanza perché potesse camminarci un uomo di un metro e ottanta, e gli abbaini sul lato anteriore facevano entrare la luce dalla strada.
Dovrei farla diventare la mia tana, pensai: un semplice sarcofago con un coperchio che nessun mortale potrebbe sperare di rimuovere. Dovrebbe essere abbastanza facile costruire una piccola camera sotto il frontone, dotata di spesse porte di bronzo che progetterei io stesso. E, quando mi alzerò, scenderò nella casa e la troverò proprio com’era in quell’epoca fantastica, con la differenza che avrò intorno a me le meraviglie tecnologiche di cui ho bisogno. Il passato non sarà riportato in vita. Il passato sarà del tutto sparito.
«Non è così, Claudia?» mormorai, nel salotto sul retro. Non ebbi risposta. Nessun suono di clavicembalo né di un canarino che cantasse nella sua gabbia. Ma avrei avuto di nuovo uccelli canori, sì, molti, e la casa sarebbe stata piena della ricca ed esuberante musica di Haydn o Mozart.
Oh, mia cara, vorrei che tu fossi qui!
E la mia anima tenebrosa era di nuovo felice, perché il dolore è un oscuro mare profondo nel quale affogherei, se non guidassi con sicurezza la mia piccola imbarcazione, diretto verso un sole che non sorgerà mai.
Era ormai passata la mezzanotte. La cittadina canticchiava sommessamente intorno a me con un coro di voci intrecciate, l’attutito clic, clac di un treno distante, il basso vibrare di un fischio sul fiume e il rombo del traffico.
Entrai nel vecchio salotto e fissai le pallide chiazze luminose della luce attraverso i pannelli delle porte. Mi distesi sul nudo legno, Mojo venne a stendersi accanto a me e lì dormimmo.
Non sognai di lei. Allora perché stavo piangendo sommessamente quando venne infine il momento di cercare la sicurezza della mia cripta? E dov’era il mio Louis, il mio Louis traditore e ostinato? Dolore… Ah, e sarebbe peggiorato, vero, quando lo avessi rivisto, e cioè ben presto?
Con un sobbalzo, mi resi conto che Mojo stava leccando le lacrime di sangue dalle mie guance. «No. Non devi farlo mai!» dissi, serrando la mia mano sulla sua bocca. «Mai, mai quel sangue. Quel sangue è malvagio.» Ero davvero sconvolto. Lui mi obbedì subito, allontanandosi un poco da me con quel suo fare dignitoso e tranquillo.
Come sembravano demoniaci i suoi occhi mentre mi fissava. Che inganno! Lo baciai ancora, sul punto più morbido del lungo muso peloso, appena sotto gli occhi.
Pensai ancora a Louis e il dolore mi travolse, come se uno degli anziani mi avesse sferrato un colpo dritto al petto. In effetti le mie emozioni erano così forti, così al di fuori del mio controllo, che mi spaventai e per un momento non pensai che a quel dolore e non sentii altro.
Con l’occhio della mente, vedevo tutti gli altri. Richiamai i loro volti come se fossi la strega di Endor protesa sul calderone a evocare le immagini dei morti.
Maharet e Mekare, le gemelle dai capelli rossi, le vidi insieme: essendo le più anziane di noi, potrebbero non aver neppure afferrato il mio dramma, tanto erano remote nella loro grande anzianità e saggezza, e avvolte nei loro inevitabili pensieri senza tempo. Mi raffigurai Eric e Mael e Khayman, i quali certo non erano molto interessati a me, e difatti si erano rifiutati di venirmi in aiuto. Non erano mai stati miei compagni. Che m’importava di loro? Poi vidi Gabrielle, la mia amata madre: non poteva aver saputo del terribile pericolo che avevo corso, e stava di sicuro vagando per qualche lontano continente, dea cenciosa che, da sempre, aveva rapporti soltanto con ciò che era inanimato. Si nutriva ancora di umani? Non lo sapevo. Avevo confusi ricordi di lei abbracciata a qualche oscura bestia dei boschi. Era pazza, mia madre, ovunque fosse finita? Pensavo di no. Che esistesse ancora, ne ero certo. Che non avrei mai potuto trovarla, non nutrivo dubbi.
Poi mi raffigurai Pandora, l’amante di Marius: forse era morta molto tempo addietro. Creata da Marius all’epoca degli antichi romani, l’ultima volta che l’avevo vista era sull’orlo della disperazione. Anni prima, se n’era andata senza preavviso dalla nostra ultima vera riunione su Night Island, era stata tra le prime a farlo.
Quanto a Santino, l’italiano, non sapevo quasi nulla di lui. Non mi ero mai aspettato nulla. Era giovane. Forse le mie grida non lo avevano mai raggiunto. E, se anche lo avessero fatto, perché avrebbe dovuto ascoltarle?
Poi immaginai Armand. Il mio vecchio nemico e amico Armand. Il mio vecchio avversario e compagno Armand. Armand, il fanciullo angelico che aveva dato vita a Night Island, la nostra ultima casa.
Dov’era Armand? Mi aveva forse deliberatamente abbandonato? E perché no?
Quindi pensai a Marius, il grande, antico maestro che tanti secoli prima aveva creato Armand nell’amore e nella tenerezza. Marius, di cui ero andato in cerca per tanti anni. Marius, il vero figlio di due millenni, che mi aveva condotto nelle profondità della nostra storia insensata, e che mi aveva ordinato di venerare il santuario di Coloro-che-devono-essere-conservati.
Coloro-che-devono-essere-conservati. I morti e andati come Claudia. Perché i re e le regine tra noi possono perire con la stessa certezza di teneri uccellini.
Ma io vado avanti. Io sono qui. Io sono forte.
Marius, come Louis, aveva saputo della mia sofferenza! Aveva saputo e si era rifiutato di aiutarmi.
Il furore in me divenne più forte, sempre più pericoloso. E se Louis si trovava lì vicino, in quelle strade? Strinsi i pugni, lottando contro quel furore e la sua inutile e inevitabile manifestazione.
Marius, mi hai voltato le spalle. Non che sia stata una sorpresa, in realtà. Sei sempre stato l’insegnante, il genitore, l’alto sacerdote. Non ti disprezzo per questo. Ma Louis! Louis mio, non ti ho mai saputo negare nulla e tu mi hai abbandonato!
Sapevo di non poter rimanere lì. Non ero sicuro di riuscire a controllarmi se avessi posato lo sguardo su di lui. Non ancora.
Un’ora prima dell’alba, riportai Mojo al suo piccolo giardino, lo salutai con un bacio, e m’incamminai velocemente verso le estreme propaggini della città vecchia e attraverso il faubourg Marigny, e infine raggiunsi le paludi. Alzai allora le braccia verso le stelle, che nuotavano così brillanti al di là delle nuvole, e salii in alto, sempre più in alto finché non mi persi nella canzone del vento e rotolai con le correnti più lievi, mentre la gioia che provavo per i miei poteri mi riempiva l’anima.
Devo aver viaggiato per il mondo per un’intera settimana. Prima andai nella nevosa Georgetown a trovare quella giovane donna fragile e afflitta che il mio io mortale aveva violentato in modo così imperdonabile. Come un uccello esotico, lei si sforzava di mettermi bene a fuoco nell’odorosa oscurità del pittoresco ristorantino per mortali, incapace di ammettere che quell’incontro con «il mio amico francese» aveva avuto luogo. Poi, quando le consegnai un rosario d’epoca di smeraldi e diamanti, ne fu sbalordita. «Vendilo, se vuoi, chérie», dissi. «Lui voleva che tu lo avessi per farne quello che desideri. Ma dimmi una cosa: hai concepito un bambino?»
Scosse la testa e mormorò la parola: «no». Volevo baciarla: era tornata a essere bella ai miei occhi. Ma non osai correre il rischio. Non era solo perché l’avrei spaventata, ma perché il desiderio di ucciderla era quasi irresistibile. Un qualche feroce istinto puramente maschile in me la reclamava, giacché io l’avevo avuta in precedenza.
Dopo qualche ora avevo già lasciato il Nuovo Mondo e, notte dopo notte, vagai, cacciando nei ribollenti bassifondi dell’Asia, da Bangkok a Hong Kong e Singapore, poi nella triste e gelida città di Mosca, quindi nelle affascinanti città di Vienna e Praga. Per breve tempo andai a Parigi. Evitai Londra. Mi spinsi alla velocità massima. M’innalzai e mi tuffai nell’oscurità, atterrando a volte in città di cui non conoscevo il nome. Mi nutrii incessantemente di disperati e malvagi e, ogni tanto, di vagabondi e pazzi, ma anche di quegli sventurati innocenti sui quali ricadeva il mio sguardo.
Tentai di non uccidere. Cercai di non farlo. Tranne quando il soggetto era quasi irresistibile, un malvagio di prima categoria. E allora la morte era lenta e selvaggia e, quando finivo, avevo fame come prima. E allora… via a cercarne un altro, prima che sorgesse il sole.
Non mi ero mai trovato così a mio agio coi miei poteri. Non mi ero mai innalzato così in alto tra le nuvole, né mai avevo viaggiato così veloce.
Camminai per ore tra i mortali nelle vecchie strade strette di Heidelberg, di Lisbona e di Madrid. Passai per Atene, il Cairo e Marrakesh. Passeggiai sulle rive del golfo Persico, del Mediterraneo e dell’Adriatico.
Cosa stavo facendo? Cosa pensavo? Pensavo che il vecchio adagio — «il mondo mi appartiene» — fosse vero.
E ovunque andassi, feci sentire la mia presenza. Lasciai che i miei pensieri emanassero da me come note che scaturivano da una lira.
Il vampiro Lestat è qui. Sta passando il vampiro Lestat. Meglio farsi da parte.
Non volevo vedere gli altri. Non li cercai, né aprii loro la mia mente o le mie orecchie. Non avevo nulla da dire loro. Volevo soltanto che sapessero che ero stato lì.
In effetti colsi in vari luoghi il suono di alcuni senzanome, vagabondi a noi ignoti, occasionali creature della notte sfuggite all’ultimo massacro della nostra razza. A volte si trattò soltanto di una fuggevole immagine mentale di un essere potente che, subito, schermava i suoi pensieri. Altre volte fu il suono distinto di un mostro che arrancava attraverso l’eternità senza scaltrezza, né storia, né scopo. Forse esisteranno sempre esseri del genere!
Ormai avevo a disposizione l’eternità per incontrare simili creature, se mai ne avessi avvertito la necessità. L’unico nome sulle mie labbra era quello di Louis.
Louis.
Non potevo dimenticare Louis neppure per un istante. Era come se qualcun altro mi ripetesse il suo nome nell’orecchio. Cosa avrei fatto, se fossi mai tornato a posare lo sguardo su di lui? Come potevo mitigare i miei impulsi? Avrei tentato di farlo?
Alla fine ero stanco. I miei abiti erano ridotti in stracci. Non potevo più stare lontano. Volevo tornare a casa.
Ero seduto nella cattedrale buia. Era stata chiusa ore prima e io ero entrato furtivamente attraverso uno dei portoni anteriori, disattivando gli allarmi di protezione. E l’avevo lasciato aperto per lui.
Erano trascorse cinque notti dal mio ritorno. I lavori procedevano davvero bene, nell’appartamento di me Royale, e lui, com’era ovvio, non aveva mancato di notarlo. Lo avevo visto sostare sotto il portico dall’altra parte della strada, con lo sguardo verso le finestre, e io ero apparso sul balcone per un solo istante, insufficiente perché un occhio mortale mi potesse notare.
Da allora avevo giocato con lui al gatto e al topo.
Quella notte, avevo lasciato che mi scorgesse nei pressi del vecchio Mercato Francese. E come sobbalzò nel vedermi davvero, e quando scoprì Mojo insieme con me. Gli strizzai l’occhio e soltanto allora lui ebbe la certezza che era proprio Lestat, quello che stava guardando.
Cosa aveva pensato? Che nel mio corpo ci fosse Raglan James, venuto lì per distruggerlo? Che James si stesse costruendo una casa in rue Royale? No, aveva sempre saputo che si trattava di Lestat.
Poi mi ero incamminato verso la chiesa, con Mojo che procedeva, elegante, al mio fianco. Mojo, la creatura che mi teneva attaccato alla cara, vecchia terra.
Volevo che mi seguisse. Ma non mi sarei voltato neanche una volta per capire se mi stava davvero seguendo oppure no.
Faceva caldo, quella notte. Aveva piovuto abbastanza da scurire i muri color rosa vivo del vecchio Quartiere Francese, da intensificare il marrone dei mattoni e da lasciare sul lastricato e sull’acciottolato un bel velo lucente. Una notte perfetta per camminare a New Orleans. Umidi e fragranti, i fiori sbocciavano sui muri dei giardini.
Tuttavia, per incontrarlo di nuovo, avevo bisogno della quiete e del silenzio della chiesa buia.
Le mani mi tremavano un po’, una cosa che mi succedeva di tanto in tanto da quand’ero tornato nella mia vecchia forma. Non c’era una causa fisica: si trattava soltanto della mia rabbia che andava e veniva. Lunghi intervalli di appagamento si alternavano a un vuoto terrificante; poi tornava la felicità, davvero piena, anche se fragile, come se non fosse altro che un’eterea apparenza. Era giusto dire che non sapevo in che condizioni fosse la mia anima? Pensai all’ira incontenibile che mi aveva portato ad accanirmi sul corpo di Talbot, e rabbrividii. Ero ancora spaventato?
Mmm… Guarda che dita scure bruciate dal sole, con le unghie traslucide. Percepii il tremore quando mi premetti sulle labbra le dita della mano destra.
Sedevo in un banco, al buio, molte file più indietro rispetto all’altare. Osservavo le statue scure, i dipinti e tutti gli ornamenti dorati di quel luogo freddo e vuoto.
Era passata mezzanotte. Il rumore della rue Bourbon sembrava più forte che mai. C’era tanta carne mortale che ribolliva, laggiù. Mi ero nutrito prima. E mi sarei nutrito ancora.
Ma i rumori della notte erano tranquillizzanti. Nelle strette strade del Quartiere Francese, nei suoi appartamentini, nelle piccole taverne ricche d’atmosfera, nelle eleganti sale da cocktail e nei suoi ristoranti, mortali felici ridevano e parlavano, si baciavano e si abbracciavano.
Mi abbandonai nel banco, allungando le braccia sullo schienale come se fosse la panchina di un giardino. Nello spazio tra le due file di banchi accanto al mio, Mojo dormiva già, col lungo muso appoggiato alle zampe.
Magari io fossi te, amico mio. Con l’aspetto del Diavolo in persona eppure pieno di goffa bontà. Ah, sì, di bontà. Era bontà quella che percepivo se lo cingevo con le braccia, affondando il volto nel suo pelo.
Lui era entrato in chiesa.
Avvertii la sua presenza, sebbene non potessi cogliere nemmeno un barlume di pensiero o di emozione, e neppure udire i suoi passi. Non avevo sentito aprire o chiudere il portone esterno. In qualche modo sapevo che era lì. Poi, con la coda dell’occhio sinistro, vidi l’ombra che si muoveva. Si mosse tra i banchi e si sedette di fianco a me, un po’ discosto.
Rimanemmo seduti in silenzio per lungo tempo. Infine lui parlò.
«Hai bruciato tu la mia casetta, non è vero?» chiese con una voce flebile e vibrante.
«Puoi rimproverarmi?» ribattei con un sorriso e gli occhi sempre fissi sull’altare. «Inoltre, ero un umano quando l’ho fatto. È stata una debolezza umana. Vuoi venire a vivere con me?»
«Ciò significa che mi hai perdonato?»
«No, significa che sto giocando con te. Potrei persino distruggerti per quello che mi hai fatto. Non ho ancora deciso. Non hai paura?»
«No. Se tu avessi voluto eliminarmi, lo avresti già fatto.»
«Non esserne così sicuro. Non sono in me, eppure lo sono, e poi non lo sono più di nuovo.»
Seguì un lungo silenzio, punteggiato soltanto dal respiro rauco e profondo di Mojo che dormiva.
«Sono felice di vederti», disse. «Sapevo che avresti vinto. Ma non sapevo come.»
Non risposi. Ma d’un tratto mi sentii fremere. Perché venivano usati contro di me sia le mie virtù sia i miei difetti? E tuttavia a che sarebbe servito formulare accuse, afferrarlo, scuoterlo e pretendere risposte da lui? Forse era meglio non sapere.
«Raccontami cos’è successo», continuò.
«No», replicai. «Perché vuoi saperlo?»
Le nostre voci soffocate rimbombavano debolmente nella navata della chiesa. La luce tremolante delle candele giocava sulla doratura alla sommità delle colonne e sui volti delle statue lontane. Oh, mi piacevano il silenzio e il fresco di quel luogo. E in fondo al cuore dovevo ammettere di essere davvero felice perché lui era venuto. A volte l’odio e l’amore servono lo stesso fine.
Mi voltai a guardarlo. Era rivolto verso di me, con un ginocchio alzato sulla panca e il braccio appoggiato sullo schienale. Era pallido come sempre, un barlume artificiale nel buio.
«Avevi ragione sull’intero esperimento», mormorai. Finalmente la mia voce era ferma, pensai subito dopo.
«Perché dici così?» Il suo tono non era perfido né rivelava un’intenzione di sfida: trasmetteva soltanto il desiderio di sapere. E come mi confortavano il suo volto, il vago odore polveroso dei suoi abiti logori, e l’alito della pioggia recente che era ancora attaccato ai capelli scuri.
«Perché era proprio come avevi detto tu, mio caro, vecchio amico e amante», dissi. «Io in realtà non volevo diventare un essere umano. Si trattava di un sogno, di un sogno costruito su falsità, orgoglio e pie illusioni.»
«Non posso dire di averlo capito», dichiarò. «Infatti non lo capisco neppure adesso.»
«Oh, sì, che lo capisci. Lo capisci molto bene. Lo hai sempre fatto. Forse hai vissuto abbastanza. Forse sei sempre stato tu, il più forte. Però sapevi. Sapevi che non volevo la debolezza. Che non volevo le limitazioni. Che non volevo i bisogni rivoltanti e l’infinita vulnerabilità. Che non volevo il sudore che infradicia, né il freddo che brucia. Che non volevo il buio accecante, né i rumori che mi riempivano le orecchie, e neppure il rapido, frenetico culmine della passione erotica. Non volevo le banalità. Non volevo la bruttezza. Non volevo l’isolamento. Non volevo la fatica costante.»
«Mi hai già spiegato tutto questo. Eppure ci dev’essere stato qualcosa di buono, per quanto piccolo…»
«Tu che ne pensi?»
«Penso alla luce del sole.»
«Già. La luce del sole sulla neve. La luce del sole sull’acqua. La luce del sole… sulle proprie mani e sul proprio viso, mentre schiude le pieghe segrete del mondo intero come se fosse un fiore, come se facessimo tutti parte di un grande organismo che sospira. La luce del sole… sulla neve.» Mi fermai. In realtà non volevo dirglielo. Sentivo di essermi tradito. «C’erano altre cose», proseguii allora. «Oh, c’erano molte cose. Soltanto uno sciocco non le avrebbe viste. Una notte, forse, quando saremo al caldo, belli comodi e di nuovo insieme, come se tutto ciò non fosse mai accaduto, te le racconterò.»
«Ma non erano sufficienti.»
«Non lo erano per me. Non lo sono adesso.»
Silenzio.
«Forse è stata quella la parte migliore», ripresi. «La scoperta, intendo. Scoprire che non sto più vivendo un inganno. Scoprire che amo davvero il piccolo demone che sono.» Mi voltai e gli rivolsi il più grazioso e maligno dei miei sorrisi.
Era troppo saggio per cascarci. Trasse un lungo sospiro quasi senza far rumore. Le sue palpebre per un momento si abbassarono, poi mi guardò di nuovo. «Soltanto tu saresti potuto andarci», disse. «E soltanto tu saresti potuto tornare.»
Volevo dirgli che non era vero. Ma chi altri sarebbe stato così sciocco da fidarsi del Ladro di Corpi? Chi altri si sarebbe buttato nell’avventura con pura e semplice incoscienza come avevo fatto io? Inoltre, mentre ci riflettevo, mi resi conto di qualcosa che, in realtà, avrei dovuto capire già da un pezzo. Avevo sempre saputo quale rischio correvo. Lo avevo interpretato come il prezzo da pagare. Quel demone mi aveva detto di essere un bugiardo, un truffatore. E io lo avevo fatto comunque, perché non c’era un altro modo.
Forse tutto ciò non corrispondeva esattamente alle parole di Louis, ma, in un certo senso, così stavano le cose. Era l’assoluta verità.
«Hai sofferto, in mia assenza?» chiesi, tornando a guardare l’altare.
«È stato un vero inferno», rispose con semplicità.
Non replicai.
«Ogni rischio che corri mi fa male», disse. «Ma questo è un problema mio.»
«Perché mi ami?» chiesi.
«Lo sai, lo hai sempre saputo. Desideravo essere te, conoscere la gioia che tu provi in continuazione.»
«E il dolore? Vorresti anche quello?»
«II tuo dolore?» Sorrise. «Certo. Farei cambio col tuo dolore in qualunque momento, come si dice.»
«Tu, cinico, bastardo bugiardo e compiaciuto», mormorai, mentre la rabbia improvvisamente montava in me e il sangue mi affluiva al volto. «Io avevo bisogno di te e tu mi hai cacciato via! Mi hai chiuso fuori, nella notte dei mortali. Mi hai respinto. Mi hai voltato le spalle!»
II fuoco nella mia voce lo fece trasalire, e fece trasalire anche me. Ma c’era, quel fuoco, non potevo negarlo. Di nuovo, le mani mi tremavano, quelle mani che si erano avventate contro il falso David, anche se il resto del mio potere era tenuto a freno.
Non proferì parola. Il suo volto manifestava quei cambiamenti indotti da un’emozione improvvisa: il leggero tremolio di una palpebra, la bocca che si allungava per poi rilassarsi, un’espressione inacidita, che svaniva con la stessa velocità con cui era apparsa. Sostenne il mio sguardo accusatorio per un po’, ma poi abbassò gli occhi.
«È stato David Talbot, il tuo amico mortale, ad aiutarli, vero?» chiese.
Annuii.
Ma fu sufficiente sentir pronunciare il suo nome perché i miei nervi saltassero, come se fossero stati toccati con la punta di un ferro arroventato. Avevo già abbastanza sofferenza, dentro di me. Non potevo più parlare di David, né avrei parlato di Gretchen. D’un tratto mi resi conto che, sopra ogni altra cosa, volevo cingerlo con le mie braccia e piangere sulla sua spalla, come non avevo mai fatto.
Che vergogna. Così prevedibile! Così insulso. E così dolce.
Non lo feci.
Rimanemmo seduti in silenzio. La dolce cacofonia della città crebbe e calò al di là delle vetrate istoriate che catturavano la debole luminosità dei lampioni all’esterno. La pioggia era ricominciata, la dolce pioggia calda di New Orleans, nella quale si può camminare con facilità come se fosse soltanto una nebbiolina.
«Voglio che tu mi perdoni», dichiarò. «Voglio che tu capisca che non si è trattato di viltà, né di debolezza. Quello che ti ho detto allora era la verità. Non potevo farlo. Nemmeno a quell’uomo mortale dentro cui c’eri tu. No, non potevo.»
«Questo lo so», dissi.
Tentai di chiudere quel discorso. Ma non potevo. Il mio carattere m’impediva di calmarmi, il mio incredibile carattere, lo stesso che mi aveva fatto spingere la testa di David Talbot contro un muro.
Lui riprese a parlare. «Qualunque cosa tu intenda dirmi, me la merito.»
«Ah, ti meriti anche di più!» ribattei. «Ma c’è una cosa che voglio sapere.» Mi voltai, e, guardandolo, chiesi: «Me lo avresti rifiutato per sempre? Se Marius, o chiunque degli altri, avesse distrutto il mio corpo, se io fossi rimasto intrappolato in quella forma mortale, se fossi venuto da te più e più volte a pregarti e supplicarti, mi avresti tenuto fuori per sempre? Non avresti cambiato idea?»
«Non lo so.»
«Non rispondere così in fretta. Cerca la verità dentro di te. Tu lo sai. Usa la tua immaginazione. Tu lo sai. Mi avresti mandato via?»
«Non conosco la risposta!»
«Io ti disprezzo!» dissi in un sibilo amaro, duro. «Dovrei distruggerti, finire quello che ho cominciato quando ti ho creato. Dovrei ridurti in cenere e poi farla scorrere tra le mie mani. Sai che potrei farlo! Così! Con la stessa facilità di un mortale che schiocca le dita. Dovrei bruciarti come ho bruciato il tuo tugurio. E nulla potrebbe salvarti, proprio nulla.»
Lo fissai, torvo, osservando i lineamenti aggraziati e taglienti del suo volto imperturbabile, quasi fosforescente contro le ombre della chiesa. Com’erano belli i suoi occhi distanziati, con le loro delicate e folte ciglia nere. Com’era perfetta la tenera insenatura del suo labbro superiore.
La rabbia era come un acido dentro di me, distruggeva le stesse vene in cui scorreva, e spazzava via, bruciandolo, il sangue soprannaturale.
Eppure non potevo fargli del male. Non potevo nemmeno concepire di mettere in atto quelle orribili, vili minacce. Non avrei mai potuto nuocere a Claudia. Ah, creare qualcosa dal nulla, sì. Lanciare in aria i pezzi per vedere come sarebbero caduti, sì. Ma la vendetta… Che me ne facevo dell’arida, orribile, disgustosa vendetta?
«Pensaci su», mormorò. «Potresti creare un altro, dopo tutto quello che è successo? Potresti esercitare di nuovo la Magia Tenebrosa? E prenditi tu del tempo prima di rispondere. Cerca la verità dentro di te, come mi hai appena detto di fare. E, quando la conoscerai, non ci sarà bisogno di riferirmela.»
Poi si protese, annullando la distanza tra noi, e posò le sue labbra di velluto sulla mia guancia. Volevo sottrarrai, ma lui usò tutta la sua forza per tenermi fermo, e gli permisi di darmi quel bacio freddo, privo di passione. Alla fine, fu lui a ritrarsi, simile a una serie di ombre che crollano l’una sull’altra. Solo la sua mano rimase allora sulla mia spalla, mentre io sedevo immobile, con gli occhi fissi all’altare.
Infine mi alzai, lo superai e feci segno a Mojo di svegliarsi e di seguirmi.
Percorsi la navata per tutta la sua lunghezza fino ai portoni della cattedrale. Trovai l’angolo in ombra dove le candele della vigilia ardevano sotto la statua della Vergine, un’alcova piena di luce gradevole e tremolante.
Rammentai gli odori e i suoni della foresta pluviale, il grande abbraccio oscuro di quegli alberi possenti. E poi vidi la piccola cappella imbiancata, nella radura, con le porte spalancate. Udii il suono sordo e irreale della campana nella brezza incostante. E percepii l’odore del sangue che scaturiva dalle ferite sulle mani di Gretchen.
Sollevai il lungo stoppino che era appoggiato lì per accendere le candele, e lo immersi in una fiamma vecchia, creando così una nuova fiamma dentro quella esistente, calda e gialla. Il fuoco attecchì e il profumo acre della cera bruciata si alzò, «Per Gretchen», stavo per dire, ma poi mi accorsi che non era affatto per lei che avevo acceso la candela. Alzai lo sguardo sul viso della Vergine. Vidi il crocifisso sopra l’altare di Gretchen. Ancora una volta, sentii intorno a me la pace della foresta pluviale, e scorsi la piccola corsia coi lettini. Per Claudia, la mia preziosa, splendida Claudia? No, nemmeno per lei, benché la amassi…
Sapevo che la candela era per me.
Era per l’uomo dai capelli castani che aveva amato Gretchen a Georgetown. Era per quel triste, disorientato demone dagli occhi azzurri che ero stato prima di diventare quell’uomo. Era per il ragazzo mortale di due secoli prima che se n’era andato alla volta di Parigi coi gioielli della madre in tasca e con nient’altro appresso, a parte i vestiti che indossava. Era per la perfida creatura impulsiva che aveva tenuto tra le braccia Claudia morente.
Era per tutti quegli esseri, e per il demone che in quel momento se ne stava lì perché amava le candele, e amava creare la luce dalla luce. Perché non c’era nessun Dio in cui lui credeva, e nessun santo, e nessuna Regina dei Cicli.
Perché aveva tenuto a freno il suo carattere aspro e non aveva distrutto il suo amico.
Perché lui era solo, sebbene ci fosse quell’amico vicino a lui. E perché la felicità era tornata da lui, come una malattia che non avrebbe mai sconfitto, mentre le sue labbra già si allargavano in un sorriso diabolico, e già scattava in lui la sete, e dentro gli cresceva il desiderio di aggirarsi nelle strade luminose della città.
Sì. Era per il vampiro Lestat, quella piccola candela, quella minuscola candela miracolosa, che accresceva, seppur di poco, tutta la luce dell’universo! Quella candela che bruciava in una chiesa deserta, durante la notte, accanto ad altre fiammelle. E che lo avrebbe fatto anche il mattino seguente, quando fossero giunti i fedeli, quando il sole avesse brillato attraverso quelle porte.
Fai la tua vigilia, piccola candela, nell’oscurità e alla luce del sole.
Sì, quella candela era per me.
Pensavate che la storia fosse finita? Che la quarta puntata delle Cronache dei Vampiri fosse giunta al termine?
Be’, il libro dovrebbe essere concluso. Sarebbe dovuto finire una volta accesa quella piccola candela, ma non è stato così. Me ne resi conto la notte seguente, non appena aprii gli occhi.
Vi prego di proseguire col capitolo 33 per scoprire cos’è successo in seguito. Oppure potete smettere adesso, se preferite. Potreste desiderare di averlo fatto.
Barbados.
Si trovava ancora là quando lo raggiunsi. Era in un albergo sul mare.
Erano passate alcune settimane, sebbene mi risulti impossibile spiegare perché avevo lasciato trascorrere tanto tempo. Non era stato per gentilezza, né per vigliaccheria. Tuttavia avevo aspettato. Avevo tenuto d’occhio la ristrutturazione dello splendido appartamentino in rue Royale, passo dopo passo, finché almeno alcune stanze, squisitamente arredate, non furono pronte. Lì potevo pensare a tutto ciò che era successo e a ciò che sarebbe potuto succedere. Louis era tornato a vivere con me ed era occupato a cercare una scrivania del tutto simile a quella che si trovava nel salotto più di cento anni prima.
David aveva lasciato molti messaggi al mio agente di Parigi. Sarebbe partito per il carnevale di Rio. Gli mancavo. Sperava che lo raggiungessi là.
Riguardo alla sistemazione del suo patrimonio era andato tutto bene. Lui era David Talbot, giovane cugino dell’uomo più anziano, morto a Miami, e nuovo proprietario della dimora avita. Era stato il Talamasca a realizzare tutto ciò per lui, restituendogli la fortuna che lui aveva lasciato all’ordine e attribuendogli una generosa pensione. Non era più il loro Generale Superiore, anche se conservava i suoi appartamenti nella Casa Madre. Sarebbe rimasto per sempre sotto la loro ala protettrice.
Aveva un piccolo dono per me, sempre che io lo volessi. Era il medaglione con la miniatura di Claudia. Lo aveva trovato. Un ritratto delizioso. Una raffinata catena d’oro. Lo teneva con sé e me lo avrebbe spedito, se avessi voluto. Ma perché non andavo a trovarlo, per riceverlo io stesso dalle sue mani?
Barbados. Si era sentito obbligato a tornare sulla scena del delitto, per così dire. Il tempo era bello. Stava di nuovo leggendo il Faust, mi scrisse. Aveva tante domande da farmi. Quando prevedevo di arrivare?
Non aveva più visto né Dio né il Diavolo, sebbene, prima di lasciare l’Europa, avesse passato molto tempo in vari caffè di Parigi. E non aveva intenzione di trascorrere la sua vita alla ricerca di Dio o del Diavolo. «Tu sei l’unico a conoscere l’uomo che sono adesso», mi scrisse. «Mi manchi, voglio parlare con te. Non puoi ricordare che ti ho aiutato e perdonarmi tutto il resto?»
Si trovava in quella località sul mare che mi aveva descritto, con begli edifici intonacati di rosa, grandi distese di bungalow, dolci giardini profumati, spiagge pulite e uno scintillante mare traslucido.
Lo raggiunsi solo dopo essermi recato nei giardini sulla montagna, rimanendo su quelle stesse rupi che lui aveva visitato, guardando le montagne coperte di boschi e ascoltando il vento tra le palme da cocco.
Mi aveva parlato delle montagne? Mi aveva detto che, da lassù, si potevano osservare le valli dolci e profonde, e che i pendii lì accanto sembravano così vicini da dare l’impressione di poterli toccare, anche se erano tanto, tanto lontani?
Non credo, però aveva descritto bene i fiori: le orchidee e i gigli, sì, quei focosi gigli rossi dai delicati petali frementi, le felci annidate nel profondo delle radure, il cereo uccello del paradiso, gli alti e rigidi salici americani, e i piccoli boccioli dall’interno giallo della vite a campanula.
Avremmo dovuto passeggiare lì insieme, aveva detto.
Be’, lo avremmo fatto. Era dolce lo scricchiolio della ghiaia. E le grandi palme da cocco ondeggianti non erano mai state così belle come su quei promontori.
Aspettai fino a dopo la mezzanotte prima di scendere verso la riva del mare. Il cortile era come me l’aveva descritto lui, pieno di azalee rosa, di grandi begonie, e di arbusti lucidi e scuri.
Dopo avere attraversato la sala da pranzo vuota e buia e la lunga veranda aperta, scesi sulla spiaggia. Mi allontanai nell’acqua bassa, così da poter guardare verso i bungalow con le loro verande coperte. Lo trovai subito.
Le porte affacciate sul piccolo patio erano aperte e la luce gialla si riversava sulla piccola porzione di terreno recintato e lastricato, con tavolo e sedie verniciati. Dentro, come su un palcoscenico illuminato, lui era seduto a una piccola scrivania, rivolto verso la notte e l’acqua, a battere i tasti di un piccolo computer portatile, col ticchettare della tastiera che si propagava nel silenzio, coprendo anche il mormorio delle onde che spumeggiavano, dolci e pigre.
Era nudo, fatta eccezione per un paio di pantaloncini bianchi da spiaggia. La sua pelle aveva un tono molto scuro, come se passasse le giornate a dormire al sole. Tra i capelli bruni brillavano alcune strisce più chiare. Dalle spalle nude e dal torace glabro traspariva una certa luminosità, e i muscoli risultavano molto tonici. Un leggero riflesso dorato saliva dal basso sulle cosce, sulle gambe e sui ciuffetti di pelo sul dorso delle mani.
Non avevo nemmeno notato quei peli quand’ero vivo. O forse non mi erano piaciuti. Non lo sapevo, in realtà. In quel momento, non mi dispiacevano. Come non mi dispiaceva il fatto che lui sembrasse un po’ più snello di quanto non fossi stato io in quella struttura. Sì, tutte le ossa del corpo erano più visibili, suppongo in accordo con qualche moderno stile di vita secondo il quale, per essere alla moda, bisogna essere denutriti. Gli donava. Donava a quel corpo. Suppongo che donasse a entrambi.
La stanza alle sue spalle appariva molto ordinata e rustica nello stile delle isole, col suo soffitto a travi e il pavimento di piastrelle rosa. Il letto era coperto da un tessuto in un allegro tono pastello, stampato a motivi geometrici indiani. L’armadio e i cassettoni erano bianchi e decorati di fiori dipinti a colori vivaci. Le numerose e semplici lampade diffondevano luce a profusione.
Tuttavia non potei fare a meno di sorridere, all’idea che, in mezzo a tutto quel lusso, lui se ne stesse seduto a digitare sulla tastiera: David lo studioso, con gli occhi scuri che danzavano, mentre le idee turbinavano nella sua testa.
Avvicinandomi, notai che era molto ben rasato. Le sue unghie erano state tagliate e curate, forse da una manicure. I capelli, folti e ondulati, erano acconciati nello stesso modo che io avevo disinvoltamente adottato quando mi ero trovato in quel corpo, ma erano stati anche tagliati e, complessivamente, la pettinatura risultava più gradevole. Vicino a lui giaceva, aperta, la copia del Faust, con una penna appoggiata sopra; molte pagine erano piegate o segnate da piccole mollette d’argento, che fungevano da segnalibro.
Me la stavo prendendo comoda con quell’ispezione, notando la bottiglia di scotch, il bicchiere di cristallo dal fondo spesso e il pacchetto di sigarilli, quando lui alzò lo sguardo e mi vide.
Mi trovò sulla spiaggia, al di qua della piccola veranda col basso parapetto di cemento, eppure ben visibile alla luce.
«Lestat», mormorò. Il suo volto s’illuminò in modo magnifico. Si alzò e venne verso di me con la sua familiare andatura a lunghi passi aggraziati. «Grazie a Dio sei venuto.»
«Credi?» dissi. Tornai con la memoria a quel momento, a New Orleans, in cui avevo visto il Ladro di Corpi sgattaiolare fuori del Café du Monde. Pensai che quel corpo poteva muoversi come quello di una pantera… con un altro essere all’interno.
Voleva abbracciarmi, ma io m’irrigidii, allontanandomi un poco. Allora rimase immobile, e incrociò le braccia sul petto: un gesto che sembrava appartenere interamente a quel corpo, dal momento che non ricordavo di averglielo visto fare prima che c’incontrassimo a Miami. Quelle braccia erano più pesanti delle sue vecchie, e anche il petto appariva più ampio.
Che bel colore rosa intenso avevano i capezzoli. E com’erano fieri e limpidi i suoi occhi.
«Mi sei mancato», disse.
«Davvero? Non avrai certo vissuto come un recluso, qui, no?»
«No, ho frequentato fin troppa gente, credo. Troppe cene a Bridgetown. E il mio amico Aaron è andato e venuto diverse volte. Sono venuti qui anche altri membri.» Fece una pausa, poi riprese: «Non sopporto di averli intorno, Lestat. Non riesco a tollerare di rimanere a Villa Talbot in mezzo ai servitori, a fingere di essere un cugino del vecchio me stesso. Ciò che è successo ha qualcosa di spaventoso. A volte non riesco a guardare lo specchio. Ma non voglio parlare di questo».
«Perché no?»
«Sono in un periodo di assestamento. I turbamenti che avverto col tempo passeranno. Ho tanto da fare. Oh, sono così felice che tu sia venuto. Me lo sentivo. Stavo per partire per Rio stamattina, ma avevo la netta sensazione che ti avrei visto stanotte.»
«Ah, sì?»
«Cosa c’è? Perché hai la faccia scura? Perché sei arrabbiato?»
«Non lo so. Di questi tempi non ho bisogno di un vero motivo per essere arrabbiato. Dovrei essere felice. Lo sarò presto. Succede sempre e, dopotutto, questa è una notte importante.»
Mi fissò, cercando di capire cosa intendessi con quelle parole, o forse come ribattere. «Vieni dentro», disse infine.
«Perché non ci sediamo qui sulla veranda, nell’oscurità? Mi piace la brezza.»
«Certo, come vuoi.»
Entrò nella stanza per prendere la bottiglia di scotch e versarsene un bicchiere, poi mi raggiunse al tavolo di legno. Io mi ero appena seduto in una delle sedie e stavo guardando verso il mare.
«Allora, che cosa stai combinando?» chiesi.
«Mah, da cosa comincio? Non ho fatto che scrivere, cercando di spiegare tutte le piccole sensazioni, le nuove scoperte.»
«Non ci sono dubbi che tu sei saldamente ancorato a questo corpo, vero?»
«Nessuno.» Bevve una lunga sorsata del suo scotch. «E non noto deterioramenti di nessun tipo. Sai, lo temevo. Lo temevo anche quando, in questo corpo, c’eri tu, ma non volevo dirlo. Avevamo abbastanza di cui preoccuparci, no?» Si voltò a guardarmi e sorrise. Con voce bassa e confusa continuò: «Stai guardando un uomo che conosci dentro e fuori».
«No, in realtà no», replicai. «Dimmi, come te la cavi con gli estranei… con quelli che non immaginano neppure chi sei? Le donne t’invitano nella loro camera da letto? E i giovani?»
Guardò il mare e sul suo volto comparve una certa amarezza. «Conosci già la risposta. Non mi possono interessare simili incontri. Non significano nulla per me. Non dico di non essermi goduto alcuni… safari in camera da letto. Ho cose più importanti da fare, Lestat, ben più importanti. Ci sono posti in cui voglio andare: Paesi e città che ho sempre sognato di visitare. Rio è solo l’inizio. Ci sono misteri che devo risolvere, cose che devo scoprire.»
«Sì, posso immaginarlo.»
«Mi hai detto qualcosa di molto importante, l’ultima volta che ci siamo visti. ‘Non vorrai dare al Talamasca anche questa vita, no?’ Ebbene, non gliela darò. Ciò che ritengo essenziale è non sprecarla, è fare qualcosa di decisivo. Che cosa? La risposta non giungerà all’improvviso, certo. Ci sarà un periodo di viaggi, di apprendimento, di valutazione, prima che io decida quale direzione scegliere. E, mentre sono impegnato nei miei studi, scrivo. Scrivo ogni cosa. A volte lo scopo di tutto sembra la registrazione stessa.»
«Lo so.»
«Ci sono molte cose che voglio chiederti. Sono stato tormentato dalle domande.»
«Perché? Quale genere di domande?»
«Ho bisogno di sapere quello che hai provato durante quei pochi giorni. Hai qualche rimpianto per il fatto di essere giunto così presto alla fine dell’avventura?»
«Quale avventura? Intendi la mia vita da uomo mortale?»
«Sì.»
«Nessun rimpianto.»
Riprese a parlare, poi s’interruppe. Quindi parlò di nuovo. «Che cosa ti sei portato dietro?» chiese a voce bassa e fremente.
Mi voltai e lo guardai ancora. Sì, il volto era più angoloso. Era stato il carattere ad affilarlo e a conferirgli una maggiore definizione? È perfetto, pensai. «Scusami, David, mi sono perso. Ripetimi la domanda.»
«Che cosa ti sei portato dietro?» mi chiese di nuovo, in un tono che rispecchiava quella pazienza che conoscevo così bene. «Quale lezione?»
«Non sapevo ci fosse una lezione», replicai. «E mi ci potrebbe volere del tempo per comprendere ciò che ho imparato.»
«Sì, certo, capisco.»
«Sono consapevole di un rinnovato desiderio di avventura. Voglio andare in giro, proprio come dici tu. Voglio tornare nelle foreste pluviali. Le ho viste così poco quando sono andato a trovare Gretchen. C’era un tempio, laggiù. Voglio rivederlo.»
«Non mi hai mai detto cos’è accaduto.»
«Ah, in realtà te l’ho detto, ma tu eri Raglan, allora. È stato il Ladro di Corpi che ha assistito a quella piccola confessione. Perché mai avrà voluto rubare una cosa simile? Ma sto divagando. Sono tanti i posti in cui anch’io voglio andare…»
«Sì.»
«È di nuovo un desiderio di tempo e di futuro, di misteri naturali. Il desiderio di essere l’osservatore che ero diventato a Parigi quella notte di tanto tempo fa, quando ero stato costretto a diventarlo. Avevo perduto le mie illusioni e le mie menzogne preferite. Si potrebbe dire che io abbia rivisitato quel momento e che sia risorto nelle tenebre di mia spontanea volontà. E che volontà!»
«Ah, sì, capisco.»
«Davvero? È un bene, se è così.»
«Perché parli in questo modo?» chiese. Poi abbassò la voce e continuò: «Hai bisogno della mia comprensione quanto io ho bisogno della tua?»
«Tu non mi hai mai capito», dissi. «Oh, non è un’accusa. Tu coltivi una serie d’illusioni su di me, illusioni che ti rendono possibile frequentarmi, parlarmi, persino darmi rifugio e aiutarmi. Non lo potresti fare se sapessi davvero cosa sono. Io ho cercato di dirtelo. Quando raccontavo dei miei sogni…»
«Ti sbagli. È la tua vanità che parla», ribatté. «Ti piace immaginare di essere peggio di quello che sei. Quali sogni? Non ricordo che tu mi abbia mai parlato di sogni.»
Sorrisi. «No? Ripensaci, David. Il mio sogno della tigre. Ero preoccupato per te. E ora la minaccia del sogno si realizzerà.»
«Cosa vuoi dire?»
«Sto per farlo, David. Sto per portarti con me.»
«Cosa?» La sua voce si ridusse a un mormorio. «Cosa stai dicendo?» Si sporse in avanti, cercando di vedere con chiarezza l’espressione del mio volto. Ma la luce si trovava dietro di noi e la sua vista mortale non era sufficientemente acuta.
«Te l’ho appena detto. Sto per farlo, David.»
«Perché? Perché mi dici questo?»
«Perché è vero», risposi. Mi alzai e scostai la sedia con la gamba.
Alzò lo sguardo su di me. Soltanto in quel momento il suo corpo avvertì il pericolo. Vidi tendersi i bei muscoli delle sue braccia. I suoi occhi erano fissi nei miei.
«Perché parli così? Non potresti mai farlo», replicò.
«Certo che potrei. E lo farò. Adesso. Ti ho sempre detto che ero malvagio. Ti ho detto che sono il Diavolo in persona. Il Diavolo del tuo Faust, il Diavolo delle tue visioni, la tigre nel mio sogno!»
«No, non è vero.» Si alzò, facendo cadere la sedia e quasi perdendo l’equilibrio. Arretrò verso la stanza. «Tu non sei il Diavolo e sai di non esserlo. Non farmi questo! Te lo proibisco!» Serrò i denti sulle ultime parole. «Nel profondo del cuore, tu sei umano quanto lo sono io. E non lo farai.»
«Col cavolo che non lo farò», dissi. Risi. Non riuscii a trattenermi. «David, il Generale Superiore», sussurrai. «David, il sacerdote del Candomblé.»
Arretrò sul pavimento di piastrelle, mentre la luce gli illuminava in pieno il volto e i potenti muscoli tesi delle braccia.
«Vuoi opporti? È inutile. Non c’è forza al mondo che possa impedirmi di farlo.»
«Morirò piuttosto», disse con voce bassa e soffocata. Il suo volto stava diventando più scuro per l’afflusso di sangue. Ah, il sangue di David.
«Non ti lascerò morire. Perché non ti rivolgi ai tuoi spiriti brasiliani? Non ti ricordi come si fa, vero? Non sei concentrato. Be’, non ti servirebbe proprio a niente farlo.»
«Non puoi farmi questo», sussurrò. Stava lottando per rimanere calmo. «Non puoi ripagarmi in questo modo.»
«Oh, ma è così che il Diavolo ripaga chi lo aiuta!»
«Lestat, ti ho aiutato contro Raglan! Ti ho aiutato a recuperare quel corpo e tu mi hai promesso lealtà! Ricordi le tue parole?»
«Ti ho mentito, David. Ho mentito a me e agli altri. Ecco che cosa mi ha insegnato la mia piccola escursione nella carne: io mento. Mi sorprendi, David. Sei arrabbiato, tanto arrabbiato, però non hai paura. Tu sei come me, David. Tu e Claudia siete gli unici ad avere davvero la mia forza.»
«Claudia…» ripeté, annuendo. «Ah, già, Claudia. Ho qualcosa per te, amico mio.» Si allontanò, voltandomi le spalle, ostentando con quel gesto la sua mancanza di timore, e si mosse con calma verso il cassettone, accanto al letto. Quando tornò a voltarsi aveva in mano un medaglione. «Viene dalla Casa Madre. È il medaglione che mi hai descritto.»
«Ah, già, il medaglione. Dammelo.»
Soltanto allora, mentre lui lottava col piccolo scrigno d’oro ovale, vidi come gli tremavano le mani. Alla fine riuscì ad aprirlo e lo protese verso di me. Io guardai la miniatura dipinta: il volto, gli occhi, i riccioli d’oro… Una bambina che mi fissava, l’effigie dell’innocenza. Oppure non era un’effigie?
Lentamente, dal vortice incerto della memoria, emerse il momento in cui per la prima volta avevo posato lo sguardo su quel ciondolo e sulla sua catena d’oro… Quando, nella strada buia e fangosa, ero capitato nel tugurio infestato dalla peste in cui sua madre giaceva, morta, e la bambina era diventata cibo per il vampiro, un corpicino bianco che tremava impotente tra le braccia di Louis.
Come avevo riso di lui, strappando dal letto puzzolente il corpo della donna morta, la madre di Claudia. Poi avevo preso a danzare col cadavere. E sulla sua gola brillavano la catena d’oro e il medaglione, poiché nemmeno il più ardito dei ladri sarebbe entrato in quel tugurio per rubare quel gingillo dalle fauci stesse della peste.
L’avevo afferrato con la sinistra, proprio mentre lasciavo cadere quel povero corpo. La chiusura si era rotta e io feci roteare la catena sopra la testa come se agitassi un piccolo trofeo, quindi mi feci scivolare il ciondolo in tasca, scavalcai il corpo di Claudia morente e corsi dietro a Louis, in strada.
Mesi dopo, mi ero ritrovato il ciondolo in tasca e lo avevo guardato alla luce. Quando il ritratto era stato dipinto, lei era una bambina viva, ma il Sangue Tenebroso le aveva conferito quella sdolcinata perfezione artistica. Era quella, la mia Claudia, e io avevo lasciato il medaglione in un baule. Come fosse finito presso il Talamasca, non lo sapevo proprio.
Lo tenni fra le mani. Alzai lo sguardo. Era come se fossi appena stato là, in quella catapecchia, e adesso invece mi trovavo lì, a fissare David. Mi aveva parlato, ma io non lo avevo sentito. D’un tratto però la sua voce mi giunse, chiara.
«Faresti questo a me?» m’interrogò, col timbro della voce che però lo tradiva, come lo tradivano le mani tremanti. «Guardala. Lo faresti a me?»
Guardai il minuscolo volto di Claudia, poi di nuovo lui.
«Sì, David», risposi. «Le ho detto che lo avrei fatto ancora. E lo farò a te.»
Lanciai fuori il medaglione, che volò sulla veranda, sulla spiaggia e infine cadde nel mare. Per un istante, la catenella sembrò uno strappo dorato nel tessuto del ciclo, poi sparì come se fosse stata inghiottita da una luce splendente.
Lui si ritrasse con una velocità che mi stupì, appiattendosi lungo il muro. «Non farlo, Lestat.»
«Non mi opporre resistenza, vecchio mio. È fatica sprecata. Ti aspetta una lunga notte di scoperte.»
«Non lo farai!» gridò, con una voce così bassa da parere un ruggito. Mi balzò addosso, come se pensasse di potermi sbilanciare, ed entrambi i suoi pugni mi colpirono il petto: io non mi mossi. Allora ricadde all’indietro, stremato dallo sforzo; mi fissava con gli occhi pieni di lacrime e colmi di puro sdegno. Ancora una volta il sangue gli era affluito alle guance, scurendo la carnagione. E soltanto allora, comprendendo la totale inutilità della sua difesa, cercò di fuggire.
Lo afferrai per il collo prima che raggiungesse la veranda. Lasciai che le mie dita massaggiassero la carne mentre si dibatteva come un animale, nel tentativo di svincolarsi dalla mia presa e liberarsi. Lentamente lo sollevai e, circondando senza sforzo la sua nuca con la sinistra, feci penetrare i denti nella bella, giovane pelle profumata del suo collo, e accolsi il primo getto ribollente di sangue.
Ah, David, il mio adorato David. Non mi ero mai calato in un’anima che conoscessi così bene. Quanta consistenza, quale meraviglia c’era nelle immagini che mi avvolsero: la dolce e splendida luce del sole che tagliava la foresta di mangrovie, lo scricchiolio dell’erba alta nel veldt, il colpo del grande fucile e il tremore della terra calpestata dall’elefante. Era tutto lì: tutte le piogge estive che scrosciavano senza fine nella giungla, l’acqua che risaliva fin sulle assi della veranda e il ciclo lampeggiante di fulmini. E sotto tutto ciò il suo cuore batteva, ribellandosi, recriminando… Mi tradisci, mi tradisci, mi prendi contro la mia volontà… E poi c’era il ricco, profondo, salato calore del sangue stesso.
Lo gettai all’indietro. Era abbastanza, come prima bevuta. Lo osservai lottare per mettersi in ginocchio. Che cosa aveva visto durante quei secondi? Sapeva com’era nera e caparbia la mia anima?
«Mi ami?» domandai. «Sono l’unico amico che hai al mondo?»
Lui strisciava sulle piastrelle. Si aggrappò al fondo del letto e si alzò, poi ricadde, stordito, sul pavimento. Lottò di nuovo.
«Ah, lascia che ti aiuti!» esclamai. Lo feci voltare e lo sollevai e affondai i denti esattamente nel punto di prima, nelle stesse, minuscole ferite.
«Per l’amor di Dio, fermati, non farlo. Lestat, ti supplico, non farlo.»
Supplichi invano, David. Oh, com’era delizioso quel corpo giovane, quelle mani che mi spingevano, perfino nella trance… Di quanta volontà disponi, mio bell’amico. E ora siamo nel vecchio Brasile, non è vero? Siamo in quella stanzetta, e lui sta invocando i nomi degli spiriti del Candomblé. Li sta invocando… Ma gli spiriti verranno?
Lo lasciai andare. Cadde di nuovo in ginocchio, poi rotolò su un lato, con gli occhi sbarrati. Come secondo assalto, poteva bastare.
Nella stanza si udì un vago suono ritmico. Un debole bussare.
«Oh, abbiamo compagnia? Abbiamo qualche piccolo amico invisibile? Sì, guarda, lo specchio traballa. Sta per cadere!» Ed ecco che lo specchio andò a urtare le piastrelle, esplodendo in frammenti di luce che sfuggivano dalla cornice.
David stava di nuovo cercando di alzarsi.
«Sai cosa sembrano, David? Puoi sentirmi? Sono come stendardi di seta che si dispiegano intorno a me. E sono così deboli…»
Rimasi a guardare mentre lui si rimetteva in ginocchio. Ancora una volta prese a strisciare lungo il pavimento. Improvvisamente si alzò, lanciandosi in avanti. Afferrò il libro accanto al computer e, voltandosi, me lo scagliò contro. Cadde ai miei piedi. Stava annaspando. Con lo sguardo annebbiato, riusciva a malapena a stare in piedi.
Poi si voltò e quasi cadde in avanti nella piccola veranda, incespicando sul parapetto in direzione della spiaggia.
Gli andai dietro, seguendolo mentre barcollava sul pendio di sabbia bianca. La sete crebbe: soltanto pochi secondi prima aveva assaggiato il sangue, e ne doveva avere ancora. Quando raggiunse l’acqua, David rimase lì, malfermo sulle gambe. Solo una volontà di ferro lo tratteneva dal crollare al suolo.
Lo presi per una spalla, teneramente, cingendolo col braccio destro.
«No, dannazione, va’ all’inferno. No…» sibilò. Sebbene le forze stessero scemando, mi aggredì, spingendo contro il mio volto entrambi i pugni, e lacerandosi le nocche nel colpire la pelle invulnerabile.
Lo rigirai, guardandolo mentre scalciava contro le mie gambe e continuava a colpirmi con quelle morbide mani impotenti. E di nuovo strofinai il naso contro il suo collo, leccandolo, annusandolo e poi affondando i denti per la terza volta. Mmm… questa è pura estasi. Quell’altro corpo, logorato dall’età, avrebbe mai consentito un tale banchetto? Sentii il palmo della sua mano contro il mio volto. Oh, era così forte. Sì, combatti, combatti contro di me come io ho combattuto contro Magnus. È così dolce che tu lo faccia. Lo adoro. Davvero.
E come fu, quella volta, il deliquio? Giungevano da lui le preghiere più pure, rivolte però non agli dei nei quali non credevamo, non a un Cristo crocifisso o a una vecchia Regina Vergine. Ma preghiere rivolte a me. «Lestat, amico mio. Non prenderti la mia vita. Non farlo. Lasciami andare.»
Mmm… Feci scivolare il braccio ancora più strettamente intorno al suo torace. Poi mi tirai indietro, facendo passare la lingua sulle ferite.
«Scegli male i tuoi amici, David», mormorai, leccandomi il sangue sulle labbra e guardando in basso verso il suo volto. Era quasi morto. Com’erano belli quei suoi denti bianchi, forti e uniformi, e la morbida carne del labbro. Sotto le palpebre si vedeva solo il bianco. E come combatteva il suo cuore, quel cuore mortale giovane e perfetto. Il cuore che, pompando, aveva fatto scorrere il sangue nel mio cervello. Il cuore che aveva sobbalzato e si era fermato quando avevo avuto paura, quando avevo visto la morte avvicinarsi.
Appoggiai l’orecchio sul suo petto e ascoltai. Sentii l’ambulanza che urlava attraverso Georgetown. «Non lasciarmi morire.» Lo vidi in quella camera d’albergo del sogno di tanto tempo prima con Louis e Claudia. Siamo tutti soltanto creature casuali nei sogni del Diavolo?
Il cuore stava rallentando. Il momento era quasi giunto. Ancora una piccola bevuta, amico mio.
Lo sollevai e lo trasportai per la spiaggia fino alla camera. Baciai le minuscole ferite, leccandole e succhiandole con le labbra, e poi facendo di nuovo penetrare i miei denti. Uno spasmo lo attraversò, un piccolo grido gli sfuggì dalle labbra. «Ti amo», sussurrò.
«Sì, e io amo te», risposi, con le parole soffocate dalla carne, mentre il sangue tornava a sgorgare bollente e irresistibile.
Il battito del cuore giungeva sempre più lento. Lui stava barcollando tra i ricordi, fino alla culla, al di là delle sillabe distinte e aspre del linguaggio, mugolando con se stesso come se seguisse la melodia di un vecchia canzone.
Il suo corpo caldo e pesante era premuto contro di me, con le braccia abbandonate, la testa nella mia mano sinistra e gli occhi chiusi. Il debole mugolio si spense, e il cuore accelerò improvvisamente con piccoli battiti attutiti.
Mi morsi la lingua finché non riuscii più a sopportare il dolore. Più e più volte mi forai coi miei stessi canini, muovendo la Lingua a destra e a sinistra, poi incollai la mia bocca alla sua, forzando le labbra ad aprirsi, e feci scorrere il sangue sulla sua lingua. Sembrò che il tempo si fermasse. Ecco che giunse l’inconfondibile sapore del mio stesso sangue che mi colava in bocca, mentre finiva nella sua. Poi, d’un tratto, i suoi denti scattarono chiudendosi sulla mia lingua. Lo fecero minacciosamente e in modo brusco, con tutta la forza di mortale delle sue mascelle, e raschiarono la carne soprannaturale e il sangue dal taglio che mi ero inferto, mordendomi con tanta forza da sembrare che avrebbero proprio reciso la lingua se avessero potuto.
Il violento spasmo lo attraversò. La sua schiena s’inarcò contro il mio braccio. E quando mi tirai indietro, con la bocca tutta dolorante, la lingua che mi faceva male, lui si sollevò, famelico, con gli occhi ancora incapaci di vedere. Mi lacerai il polso. Ecco che arriva, mio adorato. Ecco che arriva, non in piccole goccioline, ma dal fiume stesso del mio essere. E questa volta, quando la sua bocca si serrò su di me, fu un dolore che arrivò sino in fondo alle radici del mio essere, intrappolando il mio cuore nella sua rete ardente.
Per te, David. Bevi. Sii forte.
Non poteva uccidermi ora, per quanto durasse quell’atto. Lo sapevo, e i ricordi di quei tempi andati in cui lo avevo fatto con timore sembravano goffi e sciocchi, e ben presto svanirono, lasciandomi lì da solo con lui.
M’inginocchiai sul pavimento, sostenendolo, lasciando che il dolore si diffondesse lungo ogni vena e ogni arteria come sapevo che sarebbe accaduto. E il calore e il dolore crebbero in me a tal punto che fui costretto a distendermi, tenendolo tra le braccia, col mio polso incollato alla sua bocca e con la mia mano ancora sotto la sua testa. Mi prese un senso di stordimento. Il battito del mio stesso cuore rallentò pericolosamente. Succhiò ancora e ancora e, sullo sfondo della brillante oscurità dei miei occhi chiusi, vidi le migliaia e migliaia di minuscoli vasi svuotarsi, contrarsi e afflosciarsi come i sottili filamenti neri di una tela di ragno battuta dal vento.
Eravamo di nuovo nella camera d’albergo nella vecchia New Orleans, e Claudia sedeva in silenzio sulla sedia. Fuori, la città era punteggiata di lampade fioche. Com’era scuro e pesante il ciclo sopra di noi, così diverso dalle sfolgoranti aurore che avrebbero caratterizzato le città del futuro.
«Te l’avevo detto che l’avrei fatto di nuovo», dissi a Claudia.
«Perché ti disturbi a darmi spiegazioni?» chiese lei. «Sai perfettamente che non ti ho mai fatto domande in proposito. Sono morta da anni e anni.»
Aprii gli occhi.
Ero disteso sul freddo pavimento di piastrelle della stanza, e lui era sopra di me. Mi guardava, mentre la luce elettrica brillava sul suo volto.
I suoi occhi non erano più marroni. Apparivano colmi di una dolce, abbagliante luce dorata. Uno splendore innaturale aveva già invaso la sua pelle liscia e scura, rendendola un po’ più pallida e ancor più straordinariamente dorata, e i suoi capelli avevano già assunto la tipica lucentezza cupa e sgargiante. Tutta la luce si raccoglieva su di lui, veniva riflessa da lui e giocava intorno a lui come se lo trovasse irresistibile: su quell’uomo alto e angelico dall’aria vacua e confusa.
Lui non parlò. E io non potevo interpretare la sua espressione. Ma conoscevo le meraviglie che contemplava. Guardava la lampada, i frammenti di specchio, il ciclo fuori… E io sapevo quello che vedeva.
Mi fissò di nuovo. «Ti sei fatto male», mormorò. Sentivo il sangue nella sua voce! «È così? Ti sei fatto male?»
«Per l’amor di Dio», risposi con voce roca e distorta. «Come può importarti se mi sono fatto male?»
Si ritrasse da me, spalancando gli occhi, come se la sua vista si espandesse di secondo in secondo, poi si voltò e fu come se si fosse dimenticato che mi trovavo lì. Continuò a guardarsi intorno con la stessa aria incantata. Quindi, piegandosi in due per il dolore, facendo una smorfia, si girò, avviandosi sulla piccola veranda e verso il mare.
Mi alzai a sedere. L’intera stanza scintillava. Gli avevo dato ogni goccia di sangue che avrebbe potuto prendere. La sete mi paralizzava, riuscivo a malapena a sostenermi. Strinsi un braccio intorno al ginocchio e cercai di stare seduto lì, senza ricadere a terra per la debolezza.
Sollevai la mano sinistra per studiarla alla luce: le vene sul dorso erano sollevate, anche se, mentre guardavo, si stavano distendendo.
Potevo sentire il mio cuore battere, famelico. E, per quanto acuta e terribile fosse la mia sete, sapevo che poteva attendere. Perché stessi guarendo da ciò che avevo fatto non lo sapevo, proprio come un mortale ammalato non può conoscere l’esatto percorso della sua guarigione. Eppure qualcosa di oscuro dentro di me stava lavorando, indaffarato e silenzioso, per il mio recupero, come se quell’abile macchina per uccidere, che poi ero io, dovesse essere sanata di ogni debolezza per poter cacciare ancora.
Quando infine mi alzai, ero me stesso. Gli avevo dato molto più sangue di quanto non ne avessi mai dato a coloro che avevo creato. Era finita. Lo avevo fatto bene. Sarebbe stato così forte! Signore Iddio, sarebbe stato più forte degli anziani.
Ma dovevo trovarlo. In quel preciso istante, stava morendo. Dovevo aiutarlo, anche se avesse cercato di cacciarmi via.
Lo trovai immerso nell’acqua fino alla cintola. Stava tremando e soffriva al punto che il dolore gli strappava rantoli sommessi, sebbene lui cercasse di rimanere in silenzio. Aveva il medaglione e la catena d’oro era avvolta intorno alla sua mano serrata.
Lo circondai col braccio per sostenerlo. Gli dissi che non sarebbe durata a lungo, quella condizione. E, una volta passata, sarebbe svanita per sempre.
Lui annuì.
Dopo un po’ sentii che i suoi muscoli si rilassavano. Lo sollecitai a seguirmi tra le onde dell’acqua bassa, dove avremmo potuto camminare con maggiore facilità, quale che fosse la nostra forza. Passeggiammo insieme lungo la spiaggia.
«Avrai bisogno di nutrirti», dissi. «Credi di poterlo fare da solo?»
Scosse la testa.
«Va bene, ti prenderò con me e ti mostrerò tutto ciò che devi sapere. Ma prima la cascata, laggiù. Io la posso udire. Tu riesci a sentirla? Ti potrai lavare.»
Annuì e mi seguì a capo chino. Gli tenevo il braccio ancora serrato intorno alla vita, e il suo corpo si tendeva ogni tanto, per gli ultimi violenti crampi, tipici della morte.
Quando raggiungemmo la cascata, salì senza difficoltà sulle rocce infide, si tolse i pantaloncini e rimase nudo sotto il grande getto scrosciante, facendoselo passare sul volto, sul corpo e sugli occhi spalancati. Ci fu un momento in cui venne scosso da capo a piedi e sputò l’acqua che gli era entrata accidentalmente in bocca.
Rimasi a fissarlo, sentendomi sempre più forte a mano a mano che i secondi passavano. Poi balzai in alto, sopra la cascata, e atterrai sulla scogliera. Lo potevo vedere laggiù, una minuscola figura, in piedi, coperta dal getto, che mi guardava.
«Puoi raggiungermi?» mormorai.
Annuì. Era davvero un’ottima cosa che mi avesse udito. Si rizzò e fece un grande balzo, saltando fuori dell’acqua e atterrando sul fianco inclinato della scogliera solo alcuni metri più in basso rispetto a me, con le mani che afferravano con facilità le scivolose rocce bagnate. Vi si arrampicò senza guardare in basso neppure una volta, finché non si trovò al mio fianco.
In tutta franchezza ero sbalordito dalla sua forza. Ma non si trattava solo di quello. Era anche la sua assoluta mancanza di timore a stupirmi. E lui stesso sembrava essersi dimenticato della paura. Stava guardando di nuovo lontano, verso le nuvole che correvano e il vago luccichio del ciclo. Stava contemplando le stelle, e poi l’interno, la vegetazione che scendeva lungo la scogliera.
«Riesci a sentire la sete?» chiesi. Lui annuì, guardandomi solo di sfuggita, e poi rivolgendo gli occhi verso il mare.
«Va bene, ora torniamo ai tuoi vecchi alloggi. Ti vestirai adeguatamente per andare in cerca di prede nel mondo mortale. Poi andremo in città.»
«Così lontano?» chiese. Indicò l’orizzonte. «C’è una piccola imbarcazione da quella parte.»
La individuai, e la vidi attraverso lo sguardo dell’uomo a bordo. Una creatura crudele e disgustosa. Era impegnato in una missione di contrabbando. E lui era risentito perché i compagni ubriachi lo avevano lasciato da solo a compierla. «D’accordo», dissi. «Andremo insieme.» «No», replicò lui. «Credo che dovrei andare… da solo.» Si voltò senza attendere la mia risposta e discese con rapidità e grazia sulla spiaggia. S’inoltrò come un lampo di luce attraverso l’acqua bassa, si tuffò tra le onde e cominciò a nuotare con bracciate rapide e potenti.
Camminando, scesi verso il bordo della scogliera, trovai un piccolo sentiero accidentato, e lo seguii finché non raggiunsi la stanza. Fissai la devastazione: lo specchio rotto, il tavolo rovesciato e il computer lì accanto, il libro caduto sul pavimento, la sedia ribaltata sulla piccola veranda. Mi girai e uscii.
Salii fino ai giardini. Era sorta la luna, molto in alto, e io camminai lungo il sentiero di ghiaia fino all’estremità del punto più elevato, rimanendo là a guardare, in basso, il sottile nastro di spiaggia bianca e il dolce mare silenzioso.
Alla fine mi sedetti contro il tronco di un grande albero scuro i cui rami si aprivano sopra di me a formare un etereo baldacchino, e feci riposare il braccio sul ginocchio, appoggiandovi poi la testa. Trascorse un’ora.
Lo udii arrivare, camminando sul sentiero di ghiaia veloce e leggero, con un passo che nessun mortale ha mai avuto. Quando alzai lo sguardo, capii che aveva fatto il bagno e si era vestito, e che persino i suoi capelli erano pettinati. L’aroma del sangue che aveva bevuto aleggiava: forse era quello sulle sue labbra. Non era una creatura debole, di carne, come Louis. Oh, no, era assai più forte. E il processo non era ancora terminato. I dolori della morte erano cessati, ma lui si stava indurendo anche mentre lo guardavo, e la tenera lucentezza dorata della sua pelle era incantevole a vedersi.
«Perché lo hai fatto?» domandò. Il suo volto sembrava una maschera. E poi si accese d’ira quando riprese a parlare. «Perché lo hai fatto?»
«Non lo so.»
«Oh, non prendermi in giro. E non piangere! Perché l’hai fatto?»
«Ti sto dicendo la verità: non lo so. Potrei darti una lunga serie di motivi, ma la verità è che non lo so. L’ho fatto perché volevo farlo. Volevo vedere cosa sarebbe successo se lo avessi fatto, volevo… e non potevo non farlo. L’ho capito al mio ritorno a New Orleans. Io… ho aspettato e aspettato, ma non potevo non farlo. E ora è fatto.»
«Miserabile, bastardo bugiardo. L’hai fatto per crudeltà e bassezza! L’hai fatto perché il tuo piccolo esperimento col Ladro di Corpi è andato male! E perché, da quell’esperimento, io sono stato miracolato, ho avuto la giovinezza, una rinascita! Ti faceva infuriare che una cosa simile potesse accadere, che io potessi guadagnarci mentre tu avevi tanto sofferto!»
«Forse è vero!»
«È vero. Ammettilo. Ammetti la tua meschinità. Ammetti la tua bassezza, il fatto che non potevi soffrire che io scivolassi nel futuro con questo corpo che tu non avevi il coraggio di sopportare!»
«Forse è così.»
Mi si avvicinò e, afferrandomi con una presa salda il braccio, cercò di trascinarmi in piedi. Non accadde nulla, ovvio. Non riuscì a muovermi di un centimetro.
«Non sei ancora abbastanza forte per questi giochi», dissi. «Se non la smetti, ti colpirò, facendoti finire a terra. Non ti piacerebbe. Hai troppa dignità perché una cosa del genere ti piaccia. Perciò piantala con le scazzottate mortali da quattro soldi.»
Mi voltò le spalle, incrociando le braccia sul petto e chinando il capo. Riuscivo a sentire i vaghi suoni di disperazione che provenivano da lui, e quasi riuscivo a percepire la sua angoscia. Si allontanò, e io seppellii di nuovo il volto nel braccio.
Ma poi lo udii tornare.
«Perché? Voglio qualcosa da te. Voglio un’ammissione di qualche genere.»
«No.»
Allungò una mano e mi prese per i capelli, intrecciandovi le dita. Quindi mi tirò di scatto la testa verso l’alto, mentre il dolore si diffondeva per il cuoio capelluto.
«Stai davvero raggiungendo il limite, David», ringhiai, liberandomi. «Ancora uno scherzo come questo e ti butto giù dalla scogliera.»
Tuttavia quando vidi il suo volto, quando vidi la sofferenza che c’era in lui, tacqui.
S’inginocchiò davanti a me, così che eravamo quasi alla stessa altezza.
«Perché, Lestat?» chiese. La sua voce suonava triste e distorta, e mi spezzò il cuore.
Travolto dalla vergogna e dalla disperazione, premetti gli occhi chiusi contro il braccio destro, e alzai il sinistro a coprirmi la testa. E nulla, né le sue preghiere, le maledizioni, le imprecazioni contro di me, né, alla fine, la sua silenziosa partenza, riuscì a farmi alzare di nuovo lo sguardo.
Andai a cercarlo molto prima che sorgesse il mattino. La piccola stanza sembrava di nuovo in ordine e la valigia era appoggiata sul letto. Il computer era stato richiuso e la copia del Faust giaceva nella sua custodia di plastica.
Ma lui non c’era. Lo cercai in tutto l’albergo, ma non riuscii a trovarlo. Cercai nei giardini, e poi nei boschi, ma senza fortuna.
Infine trovai una piccola caverna, in alto, sulla montagna, vi scavai una buca profonda e dormii.
A che scopo descrivere la mia disperazione? Descrivere il dolore sordo e oscuro che provavo? A che scopo dire che compresi di aver colmato la misura della mia ingiustizia, del mio disonore e della mia crudeltà? Conoscevo l’entità di quello che gli avevo fatto.
Conoscevo me stesso e tutta la mia malvagità nel modo più completo e non mi aspettavo nulla in cambio dal mondo, eccetto quella stessa malvagità.
Mi svegliai non appena il sole calò nel mare. Osservai il crepuscolo su un alto dirupo e poi scesi nelle strade della città per cacciare. Non ci volle molto prima che il solito ladro cercasse di mettermi le mani addosso per derubarmi: io lo trasportai in un vicoletto, prosciugandolo poi, lentamente e con molto gusto, a pochi passi dai turisti che passeggiavano. Nascosi il suo corpo in fondo al vicolo e me ne andai per la mia strada.
E qual era la mia strada?
Tornai all’albergo. Le sue cose erano ancora lì, ma lui non c’era. Ancora una volta lo cercai, lottando contro l’orribile timore che l’avesse fatta finita, per poi rendermi conto che era troppo forte perché quella risultasse una cosa facile. Persino se si fosse esposto alla furia del sole, cosa di cui dubitavo alquanto, non ne sarebbe stato distrutto.
Tuttavia ero tormentato da ogni immaginabile paura: forse era stato bruciato e reso così invalido da non farcela da solo. Era stato scoperto dai mortali. O forse gli altri erano arrivati e lo avevano portato via. Oppure sarebbe ricomparso per maledirmi ancora. Avevo paura anche di quello.
Alla fine feci ritorno a Bridgetown, incapace di lasciare l’isola finché non avessi saputo che cosa ne era stato di lui.
Un’ora prima dell’alba ero ancora lì.
La notte dopo non lo trovai. Né lo trovai durante la successiva.
Ferito nella mente e nell’anima, e dicendo a me stesso che non meritavo altro se non l’infelicità, andai a casa.
Il tepore della primavera era infine giunto a New Orleans e io la trovai brulicante dei soliti turisti, sotto un limpido e violaceo ciclo serale. Andai dapprima alla mia vecchia casa per prelevare Mojo dall’anziana signora che si era presa cura di lui e che non si dimostrò per niente felice di lasciarmelo, sebbene, evidentemente, al cane fossi mancato molto.
Poi, insieme, procedemmo verso rue Royale.
Capii che l’appartamento non era vuoto ancor prima di arrivare in cima alle scale sul retro. Mi fermai per un momento, guardando verso il cortile ristrutturato, col lastricato ripulito e con la piccola fontana romantica, completa di putti e di grandi conchiglie, simili a cornucopie, che riversavano un fiotto di acqua chiara nella vasca sottostante.
Un’aiuola di fiori scuri era stata piantata contro il vecchio muro di mattoni e un gruppetto di banani cresceva già nell’angolo, con le lunghe e graziose foglie a lama di coltello che annuivano nella brezza.
Quello spettacolo allietò oltre ogni dire il mio piccolo cuore egoista e depravato.
Entrai. I lavori nel salotto sul retro si erano conclusi: la stanza era stata arredata con le eleganti poltrone di antiquariato che avevo scelto all’uopo, e con lo spesso e pallido tappeto persiano color rosso spento.
Guardai lungo il corridoio in entrambe le direzioni, oltre la carta da parati a strisce oro e bianche, sopra i metri di tappeto scuro, e vidi Louis sulla porta davanti del salotto.
«Non chiedermi dove sono stato o cos’ho fatto», dissi. Camminai verso di lui, lo spinsi di lato ed entrai nella stanza. Ah, sorpassò tutte le mie aspettative: c’era una copia perfetta del suo scrittoio in mezzo alle finestre, il divano di damasco argentato, il tavolo ovale con intarsi in mogano e la spinetta contro la parete più lontana.
«So dove sei stato», ribatté. «E so che cos’hai fatto.»
«Oh? E adesso cosa viene? Qualche sciocco sermone senza fine? Su, avanti, parla. Così posso andare a dormire.»
Mi girai per affrontarlo, per vedere che effetto avesse prodotto su di lui quella dura replica. E fu così che, al suo fianco, vidi David, vestito con un abito di velluto nero di splendida fattura, con le braccia incrociate sul petto e appoggiato alla cornice della porta.
Entrambi mi stavano guardando coi pallidi volti privi di espressione. La figura di David era più scura e più alta, eppure i due apparivano simili in modo sorprendente. Soltanto gradualmente mi resi conto che Louis si era vestito per l’occasione e, una volta tanto, con abiti che non sembravano provenire dal baule di una soffitta.
Fu David a parlare per primo.
«Il carnevale di Rio inizia domani», disse, con voce ancora più seducente di quella che aveva da mortale. «Ho pensato che potremmo andarci.»
Lo fissai con sospetto. Sembrava che il suo volto fosse illuminato da una luce oscura. Dai suoi occhi traspariva un duro splendore. Ma la bocca era così gentile, senza neppure un cenno di malignità o di amarezza. Nessuna minaccia emanava da lui.
Poi Louis si riscosse dal suo fantasticare e se ne andò lungo il corridoio, verso la sua camera di un tempo. Come conoscevo bene quel ritmo di passi, di tavole che scricchiolavano debolmente! Mi sentivo molto confuso e quasi senza parole. Mi sedetti sul divano, e feci segno a Mojo di avvicinarsi. Lui si accomodò proprio di fronte a me, appoggiando il suo notevole peso contro le mie gambe.
«È davvero questo che intendi? Vuoi che ci andiamo insieme?» chiesi.
«Sì», rispose. «E poi, le foreste pluviali. Che ne diresti di andarci? Là, nel profondo di quelle foreste…» Sciolse le braccia e, a capo chino, cominciò a misurare la stanza a grandi passi lenti. «Mi hai detto qualcosa, non ricordo quando… forse è stata un’immagine che ho colto da te prima che tutto accadesse, qualcosa a proposito di un tempio nella giungla di cui i mortali non sono a conoscenza. Ah, pensa a quante scoperte del genere devono esserci…»
Com’era genuino quello slancio, com’era sonora la sua voce.
«Perché mi hai perdonato?» chiesi.
Smise di camminare, e mi guardò. Io venni distratto dall’evidenza del sangue che era in lui, nonché dal cambiamento avvenuto nella pelle, nei capelli e negli occhi. Per un momento non fui in grado di pensare. Alzai una mano, pregandolo di tacere. Perché non mi abituerò mai a quella magia? Lasciai ricadere la mano, permettendogli di proseguire, anzi invitandolo a farlo.
«Sapevi che lo avrei fatto», disse, assumendo il suo tipico tono misurato e controllato. «Quando hai agito, sapevi che avrei continuato ad amarti. Che avrei avuto bisogno di te. Che ti avrei cercato e mi sarei aggrappato a te, soltanto a te, fra tutti gli esseri del mondo.»
«Oh, no, giuro che non lo sapevo», sussurrai.
«Me ne sono andato via per un po’ per punirti. Esauriresti la pazienza di chiunque, davvero. Sei la più dannata di tutte le creature, come sei stato chiamato da individui più saggi di me. Ma sapevi che sarei tornato. Sapevi che sarei stato qui.»
«No, non me lo sono mai neanche sognato.»
«Non ricominciare a piangere.»
«Mi piace piangere. Devo. Altrimenti perché lo farei tanto?»
«Be’, smettila!»
«Oh, sarà divertente, vero? Pensi di essere il capo di questa piccola congrega, eh? E ti appresti a tiranneggiarmi.»
«Come sarebbe?»
«Non sei mai stato il più anziano di noi due, e ora non ne hai più nemmeno l’aspetto. Ti fai ingannare dal mio bel viso irresistibile nel modo più semplice e sciocco. Sono io il capo. Questa è casa mia. Sarò io a dire se andremo a Rio.»
Cominciò a ridere. Dapprima piano, poi in maniera più libera e profonda. Se in lui c’era un qualche segno di minaccia, era soltanto nelle improvvise modifiche nell’espressione, nell’oscuro riflesso dei suoi occhi. Ma non ero affatto certo che ci fosse davvero una minaccia.
«Tu sei il capo?» chiese, sprezzante. L’antica autorità. «Sì, lo sono. Così sei scappato via… Volevi dimostrarmi che potevi farcela senza di me. Che riuscivi a cacciare da solo. Che eri in grado di trovare un nascondiglio durante il giorno. Che non avevi bisogno di me. Eppure eccoti qui!» «Vieni a Rio con noi oppure no?» «Vieni con noi ! Hai detto ‘noi’ ?» «L’ho detto.»
Raggiunse la poltrona più vicina all’estremità del divano e si sedette. Mi resi conto che lui possedeva già il pieno controllo dei suoi nuovi poteri. E io, naturalmente, non riuscivo a valutare quanto fosse forte soltanto guardandolo. Il tono scuro della sua pelle nascondeva troppo. Accavallò le gambe e si sistemò in una posizione comoda, pur mantenendo intatta la sua abituale dignità. Forse quella dignità era in relazione al modo in cui la sua schiena aderiva allo schienale, o alla posa elegante con cui la sua mano stava appoggiata sulla caviglia, mentre l’altro braccio si sistemava sul bracciolo della poltrona… Comunque solo i folti e ondulati capelli castani erano un po’ in contrasto con quell’atteggiamento composto: gli ricadevano sulla fronte in modo tale da indurlo a scuotere il capo.
D’un tratto, però, la sua compostezza si dissolse. Sul suo volto comparvero i segni di un profondo stato di confusione, e poi di puro dolore.
Non potevo sopportarlo. Ma mi sforzai di rimanere in silenzio.
«Ho tentato di odiarti», confessò, con gli occhi spalancati e con la voce che si smorzava in un sussurro. «Non ho potuto farlo. Tutto qui.» E per un momento trasparì in lui la minaccia, la grande collera soprannaturale. Il volto diventò una maschera di sofferenza, poi assunse un’aria triste.
«Perché no?»
«Non giocare con me.»
«Io non ho mai giocato con te! Io intendo davvero ciò che dico. Come puoi non odiarmi?»
«Farei lo stesso tuo errore se ti odiassi», rispose, inarcando le sopracciglia. «Non capisci che cos’hai fatto? Tu mi hai dato il dono, ma mi hai risparmiato la capitolazione. Mi hai trascinato con tutta la tua abilità e la tua forza, ma non hai preteso da me la sconfitta morale. Tu mi hai estorto la decisione, e mi hai dato quello che non potevo fare a meno di volere.»
Ero senza parole. Era tutto vero, eppure era la più infame menzogna che avessi mai sentito. «Dunque la violenza e l’omicidio rappresenterebbero la nostra strada verso la gloria! Non la bevo. Sono cose ripugnanti. Noi siamo tutti dannati e ora lo sei anche tu. Ed è questo ciò che ti ho fatto.»
L’unica sua reazione a quelle parole fu un leggero ritrarsi. Poi fissò di nuovo i suoi occhi su di me. «Ti ci sono voluti duecento anni per imparare quello che volevi», disse. «Quando mi sono ridestato dallo stordimento, ti ho visto là a terra. Sembravi un guscio vuoto. Sapevo che ti eri spinto troppo lontano. Ho temuto molto per te. E ti stavo guardando con questi nuovi occhi.»
«Sì.»
«Lo sai che cosa mi è passato per la mente? Ho pensato che tu avessi trovato un modo per morire. Mi avevi dato ogni goccia del tuo sangue. E allora, in quel momento, tu stavi morendo proprio davanti ai miei occhi. Sapevo che ti amavo. Sapevo che ti avrei perdonato. E a ogni respiro che traevo e a ogni nuovo colore o forma che vedevo davanti a me, sapevo di volere ciò che tu mi avevi dato, la nuova visione e la vita che nessuno di noi può davvero descrivere! Oh, non riuscivo ad ammetterlo. Dovevo maledirti, lottare con te per un poco. Ma alla fine non è stato altro che questo: una breve lotta.»
«Tu sei molto più forte di me», mormorai.
«Be’, è naturale, che ti aspettavi?»
Sorrisi. Mi sistemai meglio sul divano. «Ah, questa è la Magia Tenebrosa», bisbigliai. «Come hanno avuto ragione gli anziani, a darle quel nome. Mi chiedo se la magia abbia agito su di me. L’essere che se ne sta seduto qui con me è un vampiro, un bevitore di sangue di enorme potere, mio figlio… Che significano ora per lui le vecchie emozioni?»
Lo guardai, e ancora una volta sentii sopraggiungere le lacrime. Non mi abbandonavano mai.
Lui aveva un’aria accigliata e le sue labbra erano dischiuse. Sembrava che gli avessi inferto un colpo terribile. Ma non ribatté. Appariva confuso, e poi scosse il capo come se non potesse replicare.
Compresi che quel suo atteggiamento non era dettato dalla vulnerabilità, bensì dalla compassione e da un’evidente ansia nei miei confronti.
Abbandonò la poltrona, cadendo in ginocchio davanti a me. Mi appoggiò le mani sulle spalle, ignorando il fedele Mojo che lo fissava con occhi indifferenti. Era consapevole del fatto che quello era il modo in cui io avevo affrontato Claudia nei miei sogni febbricitanti?
«Tu sei lo stesso», disse. Scosse il capo. «Proprio lo stesso.»
«Lo stesso come?»
«Oh, ogni volta che sei venuto da me, mi hai toccato il cuore. Hai suscitato in me un profondo istinto di protezione. Mi facevi provare amore. E adesso è la stessa cosa. Solo che sembri molto più smarrito e bisognoso di me. Io ti devo condurre avanti, lo vedo chiaramente. Io sono il tuo legame col futuro. È attraverso di me che tu vedrai gli anni a venire.»
«Anche tu sei lo stesso. Un puro ingenuo. Un maledetto sciocco.» Tentai di scostare la sua mano dalla mia spalla, ma non vi riuscii. «Tu sei in cerca di grossi guai. Aspetta e vedrai.»
«Oh, com’è eccitante. Ora, vieni, dobbiamo andare a Rio. Non dobbiamo perdere nulla del carnevale. Lo so che potremo tornarci ancora… e ancora… e ancora… Ma vieni.»
Io rimasi seduto con aria calmissima, guardandolo a lungo. Alla fine, sul suo viso, comparve di nuovo un’aria ansiosa. La pressione delle sue dita sulle mie spalle era davvero forte. Sì, con lui avevo operato bene in ogni passaggio.
«Che cosa c’è?» mormorò. «Sei addolorato per me?» «Forse, un poco. Come hai detto, non sono bravo come te nel sapere quello che voglio. Tuttavia, probabilmente, sto cercando di fissare questo momento nella mia mente. Voglio ricordarlo per sempre. Voglio ricordare il modo in cui sei ora, qui con me… prima che le cose comincino ad andare storte.»
Si rimise in piedi, tirandosi dietro senza sforzo anche me. C’era un lieve sorriso di trionfo sul suo viso mentre notava il mio stupore.
«Oh, sarà ricordata a lungo, questa piccola schermaglia», disse.
«Be’, puoi azzuffarti con me a Rio, mentre balliamo per la strada.»
Mi fece cenno di seguirlo. Non ero sicuro di quello che ci aspettava o di come avremmo fatto quel viaggio, però ero eccitato e, in tutta sincerità, non m’interessavano i dettagli della faccenda.
Naturalmente bisognava persuadere Louis a venire, ma ci saremmo coalizzati per convincerlo, e in qualche modo lo avremmo indotto, sebbene restio, a seguirci.
Stavo per uscire dalla stanza, allorché qualcosa catturò il mio sguardo. Qualcosa che si trovava sul vecchio scrittoio di Louis.
Si trattava del medaglione di Claudia. C’era anche la catena avvolta, che rifletteva la luce con le sue minuscole maglie d’oro. La cassa ovale era aperta e appoggiata al calamaio, e il visino sembrava scrutare proprio me.
Allungai la mano e raccolsi il medaglione, guardando molto attentamente il piccolo ritratto. E fu allora che compresi una cosa molto triste.
Lei non era più un ricordo reale. Lei era diventata quei sogni febbricitanti. Era l’immagine nell’ospedale della giungla, una figura che si stagliava contro il sole a Georgetown, un fantasma che sfrecciava attraverso l’oscurità di Notre-Dame. In vita, lei non era mai stata la mia coscienza! Non Claudia, la spietata Claudia. Che sogno! Un sogno puro e semplice.
Un sorriso oscuro e misterioso comparve sulle mie labbra mentre la guardavo, ancora una volta sull’orlo delle lacrime. Poiché nulla era cambiato nella consapevolezza che le avevo rivolto parole d’accusa. Quella cosa era comunque vera. C’era stata un’opportunità di salvezza, e io l’avevo rifiutata.
Volevo dirle qualcosa mentre tenevo in mano il medaglione. Volevo dire qualcosa a ciò che lei era stata e dire qualcosa alla mia stessa debolezza, all’essere avido e malvagio che c’era in me e che ancora una volta aveva trionfato. Perché era così. Avevo vinto.
Sì, volevo dire qualcosa di grande! E che fosse pieno di poesia e di profondo significato, che riscattasse la mia cupidigia e il mio peccato, e il mio vigoroso piccolo cuore. Perché io stavo per andare a Rio con David, e con Louis, no? E una nuova era stava per cominciare…
Sì, per amor del ciclo e di Claudia, di’ qualcosa per oscurare tutto ciò e per mostrarlo per quello che è! Di’ qualcosa per trafiggerlo con la lancia e mostrare l’orrore nella sua essenza.
Ma non potevo.
Che cos’altro c’è da aggiungere, davvero?
La storia è finita.
Lestat de Lioncouet
New Orleans, 1991