Anne Rice Il ladro di corpi

Ai miei genitori, Howard e Katherine O’Brien.

I vostri sogni e il vostro coraggio saranno sempre con me.


Navigando verso Bisanzio

Quello non è un paese per i vecchi. I giovani

abbracciati uno all’altro, gli uccelli sugli alberi

— ah queste generazioni morenti! — intenti a cantare,

cascate di salmoni e mari affollati di sgombri,

carne, pesce, o uccelli, lodano per tutta l’estate

ciò che è generato, che nasce, e che muore.

Rapiti in quella musica dei sensi, tutti trascurano

i monumenti del pensiero senza tempo.

Un vecchio non è che una misera cosa, un lacero

cappotto su un bastone, a meno che l’anima

non batta le mani e canti, e canti più forte

per ogni strappo nel suo abito mortale,

e non c’è scuola di canto che non sia lo studiare

i monumenti della nostra magnificenza;

per questo io varcai i mari e giunsi

alla sacra città di Bisanzio.

O saggi, voi che state fissi nel sacro fuoco di Dio

come incastonati in un mosaico d’oro su di una parete,

uscite dal fuoco sacro, roteando in fila a spirale,

e siate i maestri di canto della mia anima.

Consumate il mio cuore che malato di desiderio

e avvinto ad un animale morente

non conosce se stesso; e accoglietemi

nell’artificio dell’eternità.

Una volta fuori della natura, io non prenderò più

la mia forma corporea da alcuna cosa naturale,

ma come una di quelle forme che orafi greci

fanno d’oro battuto e foglia d’oro

per tenere sveglio un Imperatore assopito,

o in cima a un ramo d’oro; posato a cantare

ai signori e alle dame di Bisanzio

di ciò che è passato, che passa, o che verrà.

William Butler Yeats


È IL vampiro Lestat che parla. Ho una storia da raccontarvi. Una storia che riguarda qualcosa che mi è accaduto.

La storia comincia a Miami, nel 1990, ed è proprio da lì che voglio partire. È importante tuttavia che voi conosciate i sogni che ho fatto prima di allora, perché anch’essi rivestono un ruolo essenziale. Parlo dei sogni su una vampira bambina, dal cervello di donna e dal viso d’angelo, ma anche di quello su David Talbot, mio amico mortale. E poi ancora dei sogni sulla mia adolescenza mortale vissuta in Francia: delle nevi d’inverno, del castello cadente e desolato di mio padre in Alvernia e della volta in cui andai a caccia del branco di lupi che stava tormentando il nostro povero villaggio.

I sogni possono essere reali come gli eventi davvero accaduti. O almeno così mi è sembrato in seguito.

Quando ho cominciato a fare quei sogni mi trovavo in uno stato d’animo assai cupo: ero un vagabondo, un vampiro errante sulla terra, talvolta così coperto di polvere da passare completamente inosservato. E a nulla servivano i miei splendidi capelli, biondi e fluenti, i penetranti occhi azzurri, gli abiti alla moda, il sorriso irresistibile e soprattutto il corpo ben proporzionato, oltre il metro e ottanta d’altezza, che, a dispetto dei suoi duecento anni, poteva essere scambiato per quello di un mortale ventenne. Nondimeno, ero anche un uomo di buonsenso, un figlio del XVIII secolo, epoca in cui ho vissuto prima di nascere nelle Tenebre.

Sul finire degli anni ’80 del XX secolo, tuttavia, ero molto cambiato rispetto all’ardito, inesperto vampiro dei tempi passati, così fedele al classico mantello nero e ai pizzi di Bruxelles, a quel gentiluomo con tanto di bastone da passeggio e guanti bianchi che danzava sotto i lampioni a gas.

Ero stato trasformato in una sorta di dio tenebroso grazie al dolore, alle vittorie e al troppo sangue dei nostri vampiri più anziani. Disponevo di poteri che mi sconcertavano e che talvolta persino mi agghiacciavano. Erano poteri che mi rendevano infelice, sebbene non sempre ne comprendessi la ragione.

Potevo, per esempio, librarmi nell’aria, viaggiare attraverso i venti della notte e coprire con facilità grandi distanze, come se fossi uno spirito. Potevo creare o distruggere la materia con la forza del pensiero. Potevo attizzare un fuoco soltanto desiderandolo. Potevo chiamare, con la mia voce soprannaturale, altri immortali da un capo all’altro del mondo. Potevo leggere senza sforzo nella mente di vampiri e umani.

Niente male, potreste pensare. Io lo detestavo. Senza dubbio mi affliggevo per quello che ero stato: un ragazzo mortale, il rigenerato che tornava a nuova vita, una volta stabilito che scegliere il male era un bene, se quello doveva essere il suo credo.

Non sono un pragmatista, beninteso. Ho una coscienza acuta e spietata. Avrei potuto essere un bravo ragazzo. Forse a volte lo sono. Ma sono sempre stato un uomo d’azione. Il dolore è uno spreco, come lo è la paura. E proprio l’azione è ciò che troverete qui, non appena avrò finito questa introduzione.

Ricordate: gli inizi sono sempre difficili e spesso risultano artificiosi. «Era il periodo migliore e il periodo peggiore di sempre»… Davvero? Ma quando mai? E poi non tutte le famiglie felici si somigliano, anche Tolstoj deve averlo capito. Non posso cavarmela con un: «In principio…» oppure con un: «A mezzogiorno, mi buttarono giù dal carro di fieno». Oppure sì. Io me la cavo sempre, credetemi. Nabokov fa dire a Humbert Humbert:

«Per una prosa elaborata, si può sempre contare su un assassino». Quell’«elaborata» non può significare «sperimentale»? È ovvio che so di essere voluttuoso, elaborato, lussureggiante: fin troppi sono stati i critici che me lo hanno detto.

Ahimè, io devo fare le cose a modo mio. Ma all’inizio ci arriveremo, se questa non è una contraddizione in termini, ve lo prometto.»

Prima che quest’avventura cominci, devo spiegarvi quanto soffrivo anche per gli altri immortali che avevo conosciuto e amato, giacché essi, molto tempo prima, si erano dispersi, abbandonando il nostro ultimo luogo di riunione nel XX secolo. Voler ricreare una nuova congrega sarebbe stata una follia. Così, l’uno dopo l’altro, epoca dopo epoca, si erano sparsi per il mondo. Il che era inevitabile.

I vampiri in realtà non amano i propri simili, benché abbiano un bisogno disperato della compagnia degli immortali.

Proprio per questo bisogno io diedi vita alla mia creatura, Louis de Pointe du Lac, che divenne il mio paziente, e spesso amorevole, compagno nel XIX secolo; inoltre, col suo involontario aiuto, diedi vita anche a Claudia, la splendida vampira condannata a rimanere bambina. E, in quelle notti solitarie da vagabondo della fine del XX secolo, Louis era l’unico immortale che incontravo abbastanza spesso. Il più umano di tutti noi, il meno simile a un dio.

Non mi sono mai allontanato per lungo tempo dal suo tugurio nella zona più desolata di New Orleans. Ma lo vedrete. Ci arriverò. Perché Louis fa parte di questa storia.

In sostanza, troverete ben poco riguardo agli altri. In realtà, quasi nulla.

Fatta eccezione per Claudia. Sognavo sempre più spesso di lei. Ma lasciatemi spiegare: era stata uccisa più di un secolo prima, eppure io percepivo costantemente la sua presenza, come se fosse sempre pronta a uscire fuori.

Era il 1794 quando, da un’orfana morente, creai questa squisita, piccola vampira, e passarono sessant’anni prima che lei insorgesse contro di me: «Ti seppellirò nella tua bara per sempre, padre».

E io ci dormii, in una bara. E sarebbe stato degno di diventare una pièce teatrale quell’orrendo tentativo di omicidio, che vide coinvolte vittime mortali avvelenate all’uopo per offuscarmi la mente, coltelli che fecero scempio della mia carne bianca nonché il definitivo abbandono del mio corpo, in apparenza senza vita, nelle acque stagnanti della palude oltre le luci fioche di New Orleans.

Comunque non funzionò. Sono davvero pochi i modi sicuri per uccidere gli immortali: il sole, il fuoco… Si deve mirare al totale annullamento. E, dopotutto, è del vampiro Lestat che stiamo parlando.

Claudia pagò per quel crimine: venne giustiziata dalla malvagia congrega di bevitori di sangue che prosperava, nel cuore di Parigi, all’interno del turpe Teatro dei Vampiri. Trasformando una bambina così piccola in una bevitrice di sangue, io avevo infranto le regole e soltanto per quella ragione i mostri parigini si arrogarono il diritto di mettere fine alla sua vita. Ma anche lei aveva infranto le loro regole, tentando di distruggere il proprio creatore. Fu dunque la logica conseguenza di quest’ultimo atto se la lasciarono in balia dell’accecante luce del giorno, che la ridusse in cenere.

Trovo che sia un modo orribile di giustiziare qualcuno: chi mette in pratica la pena deve infatti ritirarsi poi con estrema rapidità nella propria bara, e quindi non è neppure in grado di assistere all’esecuzione, operata dai potenti raggi del sole, della propria spietata sentenza. Eppure quello è ciò che fecero a quella squisita e delicata creatura che io, in una misera colonia spagnola del Nuovo Mondo, avevo forgiato col mio sangue vampiresco, partendo da un esserino derelitto, sporco e cencioso… E lei era diventata amica e pupilla; il mio amore, la mia musa, la mia compagna di caccia. E, ovviamente, anche mia figlia.

Leggete Intervista col vampiro, e saprete tutto su quel fatto. Si tratta della versione di Louis del periodo trascorso insieme. Egli racconta del suo amore per la nostra bambina e della sua vendetta contro chi la uccise.

Leggete i miei libri autobiografici Scelti dalle tenebre e La Regina dei Dannati, e saprete tutto anche di me. Conoscerete la nostra storia, ammesso che ne valga la pena (e una storia non vale mai troppa pena); imparerete come cominciò la nostra esistenza migliaia di anni or sono e il modo in cui ci diffondiamo, dispensando con prudenza il sangue tenebroso ai mortali, se desideriamo condurli con noi lungo la Strada del Demonio.

Tuttavia non è necessario conoscere quelle storie per capire questa. Ne qui troverete le migliaia di personaggi che affollano La Regina dei Dannati. Neppure per un secondo la civiltà occidentale si troverà sull’orlo del baratro. E non ci saranno neppure quelle rivelazioni, di solito legate a tempi remoti, che, attraverso mezze verità, promettono risposte in realtà impossibili da dare.

No, tutto ciò l’ho già fatto.

Questa è una storia contemporanea. Fa parte delle Cronache dei Vampiri, statene certi, ma è la prima storia davvero moderna, perché accetta la raccapricciante assurdità dell’esistenza fin dal principio e ci conduce nella mente e nell’anima del suo eroe (indovinate un po’ chi è…) per descrivere le sue scoperte.

Leggetela, e io vi offrirò tutto ciò che avete bisogno di sapere su di noi, pagina dopo pagina. E accade davvero un sacco di cose! Sono un uomo d’azione, come ho detto, il James Bond dei vampiri, se volete, chiamato da svariati altri immortali Principe Furfante, Dannatissima Creatura, oltre che: «Ehi, tu, mostro!»

Gli altri immortali sono ancora in circolazione, naturalmente:

Maharet e Mekare, i più anziani di tutti noi, Khayman, della prima generazione, Eric, Santino, Pandora e altri che noi chiamiamo Figli dei Millenni. Anche Armand è qui, da qualche parte, l’amabile anziano di cinquecento anni con la faccia da ragazzo che un tempo dirigeva il Teatro dei Vampiri, e prima ancora una congrega di bevitori di sangue adoratori del Diavolo che vivevano a Parigi sotto il Cimitero degli Innocenti. Armand, mi auguro, sarà sempre nei paraggi.

E Gabrielle, per me madre mortale e figlia immortale, senza dubbio si farà vedere, una notte o l’altra, prima che trascorra un altro migliaio di anni, se sono fortunato.

Quanto a Marius, mio maestro e mentore, l’unico che ha custodito i segreti storici della nostra genia, è ancora con noi e sempre lo sarà. Prima dell’inizio di questa storia, lui era solito venire da me di tanto in tanto, rivolgendomi rimproveri ed esortazioni. Non riuscivo proprio a porre fine a quegli omicidi sconsiderati che finivano sempre sulle pagine dei giornali mortali? Non riuscivo a smettere di stuzzicare il mio amico mortale David Talbot, tentandolo col Dono Tenebroso del nostro sangue? Non sapevo forse che noi non saremmo mai diventati migliori?

Regole, regole, regole. Si finisce sempre col parlare di regole. E io amo infrangere le regole nello stesso modo in cui ai mortali piace mandare in frantumi i bicchieri di cristallo contro i mattoni del caminetto dopo un brindisi.

Ma ora basta parlare degli altri: questo è il mio libro, lo è per intero, dall’inizio alla fine.

Lasciatemi raccontare dei sogni che erano venuti a tormentarmi nei miei vagabondaggi.

Con Claudia era quasi ossessionante. Al sopraggiungere di ogni alba, ancora prima che i miei occhi si chiudessero, la vedevo accanto a me e ne udivo la voce, un sussurro basso e insistente. E qualche volta scivolavo a ritroso nei secoli fino al piccolo ospedale con le sue file di lettini, là dove l’orfana stava morendo.

Ecco l’anziano medico addolorato, pingue e tremolante, che solleva il corpo della piccola. E quel pianto. Chi sta piangendo? Non Claudia: quando il medico me l’aveva affidata, credendomi il suo padre mortale, lei dormiva. E com’è adorabile nei miei sogni. Lo era anche allora? Senza dubbio.

«Rapirmi da mani mortali come i due orribili mostri di una fiaba da incubo, voi, indolenti e ciechi genitori!»

Di David Talbot ho sognato una volta sola.

In quel sogno lui è giovane e sta camminando in una foresta di mangrovie. Non è l’uomo di settantaquattro anni divenuto poi mio amico, il paziente studioso mortale che rifiuta regolarmente la mia offerta del Sangue Tenebroso e che, con coraggio, posa la sua mano calda e fragile sulla mia carne gelida per dimostrare l’affetto e la fiducia che ci legano.

No, quello è il giovane David Talbot di molti anni prima: il suo cuore non gli batte così veloce nel petto. Eppure è in pericolo.

Tigre, tigre che bruci luminosa…

È la sua voce che sussurra queste parole o è la mia?

E lei esce dalla luce cangiante, con le strisce nere e arancio che sono come la luce e l’ombra, difficili da scorgere. Vedo la sua enorme testa… e com’è morbido il muso bianco, coi lunghi baffi delicati. E guardate invece gli occhi gialli — appena una fessura —, colmi di brutale, orribile crudeltà. David, le zanne! Non riesci a vedere le zanne?

Ma lui, curioso come un bambino, guarda la grande lingua rosa che gli lambisce la gola e la sottile catena d’oro che porta al collo. Vuole mangiare la catena? Buon Dio, David! Le zanne!

Perché mi viene meno la voce? Mi trovo forse anch’io nella foresta di mangrovie? Il mio corpo trema non appena cerco di muovermi, mentre sordi gemiti sfuggono dalle mie labbra serrate e ogni lamento mette a dura prova ogni fibra del mio essere. Attento, David!

Vedo allora che lui ha posato a terra un ginocchio, col lungo e rilucente fucile appoggiato sulla spalla, pronto a sparare. Il gigantesco felino, seppure ancora un po’ discosto, si lancia contro di lui. Si avventa, finché il primo colpo non lo raggiunge, e continua, mentre il fucile tuona una seconda volta. E i suoi occhi sono gialli e colmi di ferocia mentre le zampe s’incrociano, contraendosi sulla terra morbida in un ultimo rantolo.

Mi sveglio.

Che significa questo sogno? Che il mio amico mortale è in pericolo? O che il suo orologio biologico si è fermato? Per un uomo di settantaquattro anni la morte può giungere in qualsiasi momento.

Penso mai a David senza pensare alla morte?

«David, dove sei?»

Mmm… Sento odore di sangue inglese…

«Voglio che tu mi chieda il Dono Tenebroso», gli avevo detto la prima volta che ci siamo incontrati. «Io potrei anche non dartelo, ma voglio che tu me lo chieda.»

Non l’ha mai fatto. Non lo ha mai voluto. E io lo amavo. Lo vidi poco tempo dopo averlo sognato. Dovevo vederlo. Ma non potevo dimenticare quella visione e forse mi capitò di averla più di una volta, durante il sonno profondo, in quelle ore diurne in cui divento inerme e freddo come il marmo sotto una fitta coltre di tenebre.

Bene, ora sapete dei sogni.

Ma immaginate ancora una volta la neve d’inverno in Francia, tra le mura del castello, e un giovane mortale addormentato nel suo letto di fieno, alla luce del fuoco, coi cani da caccia lì accanto. Quella era diventata l’immagine della mia vita umana perduta, più vera di ogni ricordo dei teatri lungo il boulevard du Temple di Parigi, dove prima della Rivoluzione ero stato davvero felice come giovane attore.

Ora siamo davvero pronti per iniziare. Voltiamo pagina, che ne dite?

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