10.

Un basso, inconsueto silenzio, quasi di cattivo augurio, dominava i corridoi semideserti dell’Istituto fondato da Mondrick. Invece della ragazza che si aspettava di vedere al banco delle informazioni, Barbee trovò un uomo mol­to robusto e un po’ troppo maturo per il maglione da studente che portava.

«Spiacente, signore», disse facendo il cipiglio al giornalista, «biblioteca e museo sono chiusi oggi.»

«D’accordo», rispose cortesemente Barbee, «ma io vorrei solo parlare al dottor Quain.»

«Il dottor Quain è occupatissimo.»

«Allora il dottor Spivak o il dottor Chittum.»

«Occupatissimi anche loro.» Il cipiglio dell’omone si accentuò. «Niente visi­te, oggi.»

Barbee stava ripassando mentalmente le sue strategie per la violazione di domicili particolarmente inviolabili, quando vide due uomini oziare nell’a­scensore automatico. Anche loro sembravano un po’ troppo maturi per i ma­glioni con l’emblema giallo e nero dell’università che avevano addosso, e si misero a guardarlo a loro volta un po’ troppo duramente. Il giornalista notò anche il gonfiore che avevano sotto la giacca, e ricordò che Quain aveva assunto alcune guardie per l’Istituto.

Scribacchiò allora su un biglietto di visita: «Sam, risparmierai guai a te e a me, se mi riceverai subito». Spinse il biglietto con un dollaro sul tavolo e sorrise allegramente al guardiano, che lo fissava con occhio gelido.

«Le dispiacerebbe far avere questo al dottor Quain?»

In silenzio, l’uomo respinse il dollaro e portò il biglietto da visita verso l’ascensore. Zoppicava come un poliziotto stanco, e Barbee notò l’enorme rigonfiamento della sua rivoltella sotto la giacca. Sam Quain evidentemente era deciso a proteggere la cassa.

Attese dieci infelici minuti sotto lo sguardo di pietra dell’omaccione, quan­do a un tratto Sam uscì a passo rapido dall’ascensore. Si sentì stringere il cuore all’aspetto sconvolto del giovane scienziato. Era senza giacca, con le maniche della camicia rimboccate e le sue grandi mani esalavano un odore di sostanze chimiche, come se fosse stato interrotto durante qualche esperi­mento di laboratorio. La faccia non rasata era pallida e tesa dalla stanchezza.

«Di qua, Will.»

Posò gli occhi su Barbee senza amicizia e invitò con un gesto il giornalista a seguirlo fino in fondo al corridoio in una sala, che per qualche istante lasciò Barbee perplesso. Le pareti erano ricoperte di grandi carte geografiche che riproducevano i cinque continenti e di altre che Barbee capì essere ricostru­zioni delle varie linee costiere e delle masse continentali scomparse nel pas­sato geologico. Una serie di computer occupava un’estremità della sala, da­vanti a grandi schedari d’acciaio.

Barbee si chiese fuggevolmente quali generi di dati e riferimenti Mondrick e i suoi collaboratori avessero raccolto e analizzassero in quella sala. Fiumi e montagne di quei continenti scomparsi, più antichi ancora delle leggendarie Lemuria e Atlantide, apparivano con particolareggiata evidenza: li attraver­savano linee di frontiera colorate.

Sam Quain si chiuse l’uscio alle spalle e andò a porsi accanto a un tavolo, volgendosi poi a guardare Barbee. C’erano alcune sedie, ma non ne offrì una a Barbee. Strinse un pugno, convulsamente, in un gesto inconscio di emozio­ne controllata.

«Meglio che la pianti, Will», disse con voce piena d’una contenuta veemen­za. «Nel tuo stesso interesse.»

«Dimmi perché», lo sfidò Barbee.

Uno spasimo d’angoscia contorse il volto emaciato di Quain. I suoi occhi dolenti si levarono per un attimo verso le carte geografiche di un remotissi­mo passato. Tossì, e la sua voce parve non potergli più uscire dalla gola.

«Will, ti prego di non chiedermi questo!»

Barbee sedette sull’angolo del tavolo.

«Siamo amici, Sam... o per lo meno lo eravamo un tempo. Per questo sono venuto qui. Tu puoi dirmi cose che devo sapere... per motivi straordinaria­mente urgenti.»

Il volto di Sam si chiuse.

«Io non posso dirti nulla.»

«Dammi retta, Sam!» Nella voce di Barbee vibrò una nota imperativa. «Che cosa cercava di dire il povero Mondrick quando morì? Che cosa avete trova­to nell’Ala-shan, e che cosa contiene la cassa verde?» Scrutò il viso torvo di Quain. «E chi è il Figlio della Notte?»

Tacque, in attesa, ma Quain deliberatamente non rispose.

«Potresti anche rispondermi, Sam», insistette Barbee con asprezza. «Lavoro per un giornale, ricordatelo, e so come si fa a scoprire quello che si vuol tenere nascosto. Io scoprirò quello che nascondi, con o senza il tuo aiuto!»

Sam Quain socchiuse gli occhi e il pomo d’Adamo gli salì e scese come a fatica sulla gola.

«Non sai in che pasticcio vuoi andare a cacciarti», disse a un tratto con voce bassa e dolente. «Possibile che tu non possa lasciarci tranquilli in questa fac­cenda... finché resta ancora un po’ della nostra amicizia? Cerca, per una vol­ta tanto, di scordarti il mestiere che fai!»

«Ma io non sono qui per lo Star»,spiegò Barbee. «Il giornale non s’interes­sa alla cosa. Ma accadono fatti che io non riesco a capire. Debbo risolvere alcuni enigmi, Sam, che rischiano di farmi perdere la ragione!»

Per un istante la voce gli venne a mancare.

«So che tu e gli altri avete paura di qualche cosa, Sam. Se no, non avreste preso tutte quelle precauzioni per proteggere Mondrick all’aeroporto. E non avresti trasformato questo edificio in una fortezza... Qual è il pericolo, Sam?»

Cocciuto, Quain scosse il capo.

«È meglio che non ci pensi più, Will. La risposta non ti farebbe più felice...»

Barbee si alzò tremando dal tavolo.

«Qualcosa la so già», disse roco. «Abbastanza per farmi diventare pazzo. Sento che stai scatenando una guerra terribile contro... qualcosa, e che ci sono dentro anch’io, Dio sa come. Ma io voglio stare dalla tua parte, Sam.»

Sam sedette pesantemente nella poltrona dietro il tavolo, e si mise a giocherellare distratto con un fermacarte: la piccola lampada romana di Mon­drick, vide Barbee, con i due gemelli figli di Marte e di una vergine protesi verso le mammelle di una lupa.

«Qualunque cosa tu sappia può essere fonte di sciagura... per entrambi, Will.» Respinse bruscamente la lampada di terracotta lontano, e rimase per un lungo tratto in silenzio, guardando Barbee con occhi tormentati. «Temo che tu soffra di allucinazioni», riprese poi, con dolcezza. «Nora mi ha detto che in questi ultimi mesi hai lavorato molto e bevuto troppo, Will, e credo che abbia ragione. Hai bisogno d’un periodo di riposo. Perché non te ne vai da Clarendon per qualche giorno, prima che ti colga un esaurimento nervoso di prima grandezza? Posso aiutarti in modo che tu non abbia da spendere un soldo... se mi prometti di prendere oggi nel pomeriggio l’aereo per Albuquerque.»

Barbee lo fissava muto e accigliato.

«Vedi», riprese Quain, «l’Istituto in questi giorni ha una piccola spedizione nel Nuovo Messico, dove si fanno scavi in antiche caverne d’abitazione alla ricerca di resti che possano illuminarci sul perché l’homo sapiens era già estinto nell’emisfero occidentale quando vi giunsero gli amerindi. Ma tu non avrai bisogno d’annoiarti coi loro lavori.» Sorrise, incoraggiante. «Perché non ti prendi una settimana? Telefono io a Troy, per il permesso. Potresti anzi tirar fuori qualche corrispondenza per il giornale da questa gita nel Nuovo Messico. Ti prendi del bel sole, aria buona, fai del moto e ti dimenti­chi di Mondrick e tutto il resto. Eh?»

E allungò il braccio verso l’apparecchio telefonico che si trovava sul tavolo. Ma Barbee scosse il capo.

«Non mi lascio comperare, Sam.» Vide il rossore di rabbia di Quain. «Non so quello che vuoi nascondere, ma non mi farai tagliar la corda così facilmen­te. No, intendo restare e vedere come si mettono le cose.»

Quain si alzò, rigido e freddo.

«Mondrick non si fidava di te, Will... già molto tempo fa. Non ha mai voluto dirci perché. Può darsi che sbagliasse e può darsi che avesse ragione. Ma noi non possiamo correre rischi.» La sua faccia ora rivelava una decisa ostilità. «Mi dispiace che tu abbia deciso di essere irragionevole. Io non tentavo di corromperti, ma ora debbo veramente metterti sull’avviso: piantala, Will. Se non la smetti con le tue indagini in faccende che non ti riguardano... saremo costretti a fartele smettere noi. Abbi pazienza, Will, ma le cose stanno così, e la colpa non è mia.» Scosse la testa ossuta e abbronzata con sincero ramma­rico. «Pensaci, Will. Ora devo andare.»

Si diresse rapidamente verso la porta.

«Un momento, Sam!», gridò il giornalista. «Se almeno potessi darmi una sola ragione convincente...»

Ma Sam Quain chiuse l’uscio di quell’enigmatica sala alle loro spalle e si avviò per il corridoio come se non lo avesse udito. Barbee cercò di seguirlo, ma la porta dell’ascensore gli sbatté in faccia. Sentendosi addosso lo sguardo di granito dell’uomo dietro il banco delle informazioni, si ritirò da quella severa torre divenuta la cittadella dell’inesplicabile.

Profondamente turbato, salì in macchina e ritornò in città. Guardò l’orolo­gio, ma era ancora presto per andare a trovare April Bell. E, tutto sommato, il suo dovere sarebbe stato di lavorare per lo Star,dove la pratica Walraven lo attendeva in un cassetto del suo tavolo di redazione. Ma l’idea di fare di Walraven un uomo nuovo a beneficio dei suoi lettori lo nauseava, e improv­visamente capì che era Rowena Mondrick che doveva vedere al più presto.

Glennhaven occupava un centinaio di acri sulle colline sopra il fiume, a sei o sette chilometri da Clarendon. Alberi folti riparavano gli edifici della clinica con la ricca chioma che l’autunno aveva tinto d’un caldo color di rame.

Barbee entrò nella penombra discreta di un ampio vestibolo. Austero e opulento come il salone di una banca, sembrava un tempio dedicato al dio Freud, e la signorina snella seduta davanti a un centralino telefonico, al ripa­ro d’una enorme scrivania di mogano, ne era la vergine sacerdotessa.

«Vorrei vedere la signora Rowena Mondrick», disse Barbee, dandole un biglietto da visita.

La ragazza si mise a sfogliare rapidamente un grosso registro di pelle nera, e gli rivolse un sorriso sognante.

«Mi dispiace, signore, ma non vedo ancora segnato il suo nome. Tutte le visite devono essere richieste in anticipo, attraverso il medico curante della clinica. Se desidera fare la domanda...»

«Ho bisogno di vedere la signora Mondrick immediatamente.»

«Temo che sia impossibile, signore.» Il sorriso della bella figliola era addi­rittura un paradiso artificiale e la sua voce una carezza nel dormiveglia. «Per oggi almeno. Se vorrà tornare...»

«Chi è il medico curante della signora?»

«Un istante, prego.» Le lunghissime dita d’avorio ripresero a scartabellare con grazia il nero registro. «La signora Rowena Mondrick è stata ricoverata stamane alle otto ed è in cura presso...» La voce della ragazza assunse una modulata intonazione di rispetto nel nominare non invano il dio del tempio: «Presso il dottor Glenn».

«Allora mi faccia parlare con lui.»

«Impossibile, signore», gorgheggiò la ragazza. «Il dottor Glenn riceve solo dietro appuntamento.»

Barbee fu lieto di ritrovarsi fuori, nella pura aria autunnale. Un altro tenta­tivo era fallito, ma c’era ancora April da vedere, e al pensiero il cuore gli diede un balzo nel petto. Le avrebbe reso la spilla e in qualche modo sarebbe riuscito a scoprire se anche April Bell aveva sognato...

La vista della signorina Ulford, seduta su una panchina presso la fermata dell’autobus, interruppe il corso dei suoi pensieri. Fermò la macchina presso il marciapiede e le offrì il ritorno in città. La vivace donnetta accettò di buon grado.

«Avrei dovuto farmi chiamare un tassì», disse scivolandogli accanto nella macchina, «ma sono così sconvolta per la povera Rowena che non so più quello che faccio.»

«Come sta?»

«Gravemente agitata, questo è quanto il dottor Glenn ha scritto sulla sua cartella clinica. È ancora in preda a una crisi di nervi e non voleva assoluta­mente che me ne andassi, ma Glenn ha detto che era necessario e che le avrebbe dato dei sedativi.»

«Ma in che cosa consiste il suo disturbo?»

«Paura ossessiva, l’ha chiamata Glenn.»

«Di che cosa?»

«Ricorda che aveva la mania di coprirsi d’argento? Bene, stamane le abbia­mo tolto i monili d’argento che porta sempre con sé, quando l’abbiamo me­dicata delle sbucciature che si era fatta cadendo. Non vi dico che cosa è successo, quando si è accorta di non averli più addosso. È stata colta da una tale crisi di terrore, che Glenn mi ha mandato a casa a prenderglieli. E come mi ringraziava, poverina, quando glieli ho portati! E poi», continuò la voce nasale della buona donnetta, «c’è l’ossessione per Sam Quain. Rowena dice che deve assolutamente vederlo, che deve dirgli qualcosa di molto importan­te, ma non vuole telefonargli, non vuole scrivergli, non si fida nemmeno di me per fargli sapere quello che le preme tanto. Mi ha pregato di andare da lui e convincerlo ad andarla a trovare al più presto, perché, dice, deve avvi­sarlo di qualche cosa. Ma naturalmente non può ricevere visite, finché si trova in quello stato.»

Era quasi mezzogiorno quando Barbee depositò la signorina Ulford davanti alla vecchia casa di University Avenue, e si affrettò a correre in redazione, dove si gingillò coi ritagli su Walraven fino al momento di telefonare al Trojan Arms.

Ma quando aveva già il microfono in mano, si accorse che tutto il suo entu­siasmo per rivedere la ragazza dai capelli rossi era scomparso, sostituito da un inspiegabile senso di panico. Bruscamente, riattaccò il ricevitore.

Era l’ora di colazione, ma non aveva fame. Si fermò in farmacia, per farsi dare una dose di bicarbonato, e poi al Mint Bar per un bicchierino di whisky del Kentucky. Questo lo rianimò, e allora pensò di andare a trovare Walra­ven nel suo studio d’avvocato, nella speranza di dimenticare un’incertezza e un’angoscia che stavano diventando per lui un’ossessione come quella della povera Rowena.

L’uomo politico gli offrì con grande cordialità un altro whisky e cominciò a raccontare storielle sporche sui suoi avversari politici. Ma il buon umore del colonnello Walraven si dissipò quando Barbee alluse discretamente alle obbligazioni delle fognature cittadine; ricordò improvvisamente un impegno urgentissimo, e Barbee se ne tornò al suo tavolo di redazione.

Non riuscì a lavorare. Aveva un bisogno tormentoso di sapere che cosa Ro­wena Mondrick dovesse dire a Sam Quain. E una lupa dagli occhi verdi se­guitava a fissarlo beffarda, nel mezzo del foglio bianco inserito nella sua macchina per scrivere. Era inutile continuare a temporeggiare così, si disse a un tratto. Si scosse di dosso quella irragionevole paura di April Bell, mentre riponeva ancora una volta nel cassetto la cartella di Walraven; e una nuova paura lo colse: d’avere atteso troppo a lungo.

Erano quasi le due: April doveva essere uscita da un pezzo, se lavorava veramente al Call. Salì in gran fretta sulla sua macchina, tornò a casa a pren­dervi la spilla e si lanciò a velocità pazzesca sulla North Main Street verso il Trojan Arms.

Non lo stupì la vista della grossa macchina di Preston Troy nel parcheggio dietro il residence. Una delle ex segretarie più lussureggianti di Troy, sapeva, occupava un appartamento all’ultimo piano. Barbee non si fermò al banco: non voleva avvertire April e darle così modo d’inventare altre storielle sulla zia Agatha. Non attese nemmeno l’ascensore e prese a salire le scale fino al secondo piano.

Neanche allora si stupì nel vedere la figura massiccia di Preston Troy prece­derlo nel corridoio: probabilmente, l’ex segretaria si era trasferita in un altro appartamento. Cominciò a guardare i numeri sulle porte degli appartamenti. Questo era il 2-A, e quello il 2-B; il prossimo doveva essere il 2-C...

E restò col fiato sospeso.

Perché Troy s’era fermato, davanti a lui, sulla soglia del 2-C. Barbee guar­dava a bocca aperta, immobile nel corridoio. L’uomo basso e tarchiato in doppio petto ben stirato e cravatta d’un rosso clamoroso non stette a perde­re tempo a suonare il campanello o a battere con le nocche delle dita. Aprì la porta con una chiave che aveva in tasca. Barbee sentì l’ossessionante asprez­za vellutata della voce intima, bassa di April Bell, e poi la porta si richiuse.

Tornò incespicando verso l’ascensore e premette il bottone della discesa con furia selvaggia. Si sentiva pieno di nausea, come se avesse ricevuto un gran pugno nello stomaco. Era vero, si disse, che non aveva diritti di sorta su April Bell. Lei gli aveva parlato di altri amici, oltre alla zia Agatha. Era chia­ro che non poteva vivere in un residence del genere con quello che guada­gnava al giornale.

Ma Barbee era nauseato lo stesso.

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