Libro Primo.

Capitolo primo.

Alle sue spalle poteva udire il rumore di piedi artigliati che raschiavano in mezzo alle foglie della foresta. Tika divenne tesa, ma cercò di comportarsi come se non avesse udito, inducendo la creatura ad avanzare ancora verso di lei. Con fermezza serrò la spada nel pugno. Il suo cuore batteva. Il rumore di passi si avvicinava sempre più, poteva udire l’aspro respiro. Una mano artigliata le cadde sulla spalla. A quel tocco minaccioso, Tika si girò di scatto, fece roteare la propria spada e... un vassoio pieno di boccali cadde sul pavimento con uno schianto.

Dezra strillò e balzò indietro allarmata. I clienti seduti al bancone esplosero in rauche risate. Tika sapeva che la sua faccia doveva essere rossa come i suoi capelli. Il cuore le batteva. Le mani le tremavano.

«Dezra,» disse Tika, con freddezza, «hai tutta la grazia e il cervello di un nano dei burroni. Tu e Raf dovreste scambiarvi i posti. Tu porterai fuori la spazzatura e lascerò che sia lui a servire ai tavoli!»

Dezra sollevò lo sguardo da dove si era inginocchiata, intenta a raccogliere i pezzi dei boccali frantumati, che galleggiavano in un mare di birra. «Forse dovrei!» gridò piangendo la cameriera, buttando di nuovo i pezzi sul pavimento. «Servi tu stessa ai tavoli... oppure è al di sotto di te, adesso, Tika Majere, Eroina delle Lance?»

Lanciando a Tika un’occhiata ferita, Dezra si alzò in piedi, scostò con un calcio il vasellame rotto, e uscì di corsa dalla locanda.

Quando la porta d’ingresso si spalancò con un colpo secco, urtò con forza il telaio, strappando una smorfia a Tika la quale immaginò i graffi sul legno. Parole taglienti le salirono alle labbra, ma si morse la lingua, sapendo che se lo avesse fatto più tardi se ne sarebbe rincresciuta.

La porta rimase aperta, lasciando che la vivida luce del pomeriggio morente inondasse la locanda.

Il bagliore rossastro del sole calante susci in riflessi dal legno lucidato di fresco del bancone, sfavillando sui bicchieri. Danzò perfino sulla superficie della pozzanghera sul pavimento.

Accarezzò stuzzicante i fiammeggianti riccioli rossi di Tika, come la mano di un amante, inducendo parecchi degli ilari clienti a soffocare le loro risate e a fissare quella donna aggraziata con desiderio.

Non che Tika non se ne accorgesse. Ma adesso, vergognandosi della propria collera, sbirciò fuori dalla finestra e vide Dezra che si stava asciugando gli occhi con il grembiule. Un cliente entrò dalla porta aperta, tirandosela dietro e chiudendola. La luce esterna scomparve, lasciando la locanda ancora una volta immersa nella fresca semioscurità.

Tika si sfregò la mano sugli occhi. «Che razza di mostro sto diventando?» si chiese, piena di rimorsi. «Dopotutto non è stata colpa di Dezra. È questa orribile sensazione che provo dentro di me. Vorrei quasi che ci fossero dei draconici contro cui combattere. Per lo meno, allora sapevo cosa temevo, per lo meno allora potevo combattere con le mie stesse mani! come posso combattere, qui, contro qualcosa che non riesco neppure a nominare?»

Delle voci irruppero nei suoi pensieri, reclamando birra, cibo. Le risate tornarono a innalzarsi.

E’ questo che sono tornata a cercare. Tika tirò su con il naso e se lo pulì con lo straccio del bancone. Questa è casa mia. Questa gente è bella, calda e al posto giusto, come quel sole calante.

Sono circondata dalle voci dell’amore: le risate, la buona compagnia, un cane adorante...

Un cane adorante! Tika cacciò un gemito e uscì di corsa da dietro il bancone.

«Raf!» esclamò orripilata, fissando disperata il nano dei burroni.

«Birra rovesciata. Me pulire,» disse Raf, guardandola e passandosi allegramente la mano sulla bocca per asciugarsela.

Parecchi dei clienti abituali scoppiarono a ridere, ma ce n’erano alcuni, giunti per la prima volta nella locanda, che stavano fissando con disgusto il nano dei burroni.

«Usa questo straccio per pulire!» sibilò Tika dall’angolo della bocca, rivolgendo un pallido sorriso ai clienti per scusarsi. Lanciò a Raf lo straccio del bancone e il nano dei burroni l’agguantò al volo.

Ma si limitò a tenerlo in mano, fissandola con un’espressione perplessa.

«Cosa fare me con questo?»

«Pulisci quello che è stato rovesciato!» lo rimproverò Tika cercando, senza riuscirci, di nasconderlo alla vista dei clienti con la sua lunga camicia svolazzante.

«Oh, me niente bisogno questo,» dichiarò Raf in tono solenne. «Me non sporcare bello straccio.»

Restituito lo straccio a Tika, il nano dei burroni tornò a mettersi a quattro zampe e riprese a leccare la birra rovesciata, adesso mescolata al fango portato dentro la locanda dalle scarpe dei clienti.

Con le guance che le bruciavano per il rossore, Tika allungò una mano con uno scatto, afferrò Raf e lo trascinò in piedi, scrollandolo energicamente. «Adopera lo straccio!» gli bisbigliò furibonda. «I clienti stanno perdendo l’appetito! E quando avrai finito voglio che tu pulisca quel grande tavolo vicino al camino. Sto aspettando degli amici e...» Tika s’interruppe.

Raf la stava fissando con gli occhi spalancati, cercando di assimilare quelle complicate istruzioni.

In verità, per essere un nano dei burroni era eccezionale. Si trovava lì da tre settimane soltanto, e Tika gli aveva già insegnato a contare fino a tre (pochi nani dei burroni riuscivano a superare il due) ed era finalmente riuscita ad eliminare la sua puzza. Quella nuova prodezza intellettuale avrebbe fatto di lui un re nel regno dei nani, ma Raf non aveva nessuna ambizione del genere. Sapeva che nessun re viveva come viveva lui, pulendo la birra rovesciata per terra (se era veloce) e portando fuori la spazzatura. Ma c’erano limiti al talento di Raf, e Tika li aveva appena scoperti.

«Sto aspettando alcuni amici e...» cominciò a dire un’altra volta, poi ci rinunciò. «Oh, non ha importanza. Basterà che tu pulisca qui, con lo straccio,» aggiunse in tono severo, «poi vieni da me e ti dirò che cosa devi fare ancora.»

«Me niente bere?» cominciò a dire Raf, poi colse l’occhiata furibonda di Tika. «Me fare.»

Sospirando deluso, il nano dei burroni riprese lo straccio e lo passò sul pavimento, borbottando «Spreco buona birra...» Poi raccolse uno per uno i pezzi dei boccali rotti, e dopo averli fissati per qualche istante, sogghignò e se li cacciò nelle tasche della camicia.

Per un breve istante Tika si chiese che cosa avesse intenzione di farci, ma sapeva che era più saggio non chiederlo. Tornata al bancone ghermì altri boccali e li riempì, cercando di non badare a Raf che si era tagliato con alcuni dei frammenti più affilati e adesso si era accovacciato sui calcagni, osservando con vivo interesse il sangue che gli gocciolava dalla mano.

«Hai... uhm... visto Caramon?» chiese Tika al nano dei burroni in tono disinvolto.

«No.» Raf si pulì la mano insanguinata sui capelli. «Ma me sapere dove guardare.» Balzò in piedi con foga. «Me andare a trovare?»

«No!» scattò Tika, corrugando la fronte. «Caramon è a casa.»

«Me pensa di no,» disse Raf scuotendo la testa. «Non dopo che sceso sole...»

«È a casa!» sbottò Tika con tanta rabbia che il nano dei burroni si ritrasse da lei impaurito.

«Vuoi fare scommessa?» borbottò Raf, ma a voce molto bassa. In quei giorni l’umore di Tika era infiammato come i suoi avvampanti capelli rossi.

Per sua fortuna Tika non lo sentì. Terminò di riempire i boccali di birra, poi portò il vassoio a un tavolo accanto alla porta dove sedeva un numeroso gruppo di elfi.

Sto aspettando degli amici, ripetè fra sé, fiaccamente. Cari amici. Un tempo sarebbe stata così eccitata, così desiderosa di rivedere Tanis e Riverwind. Adesso, invece... Sospirò, distribuendo i boccali di birra senza quasi accorgersi di ciò che stava facendo. In nome dei veri dei, pregò, che arrivino e se ne vadano in fretta! Se rimanessero... se scoprissero...

A questo pensiero Tika provò un tuffo al cuore. Il labbro inferiore le tremò. Se fossero rimasti, quella sarebbe stata la fine. Pura e semplice. La sua vita sarebbe finita. D’un tratto l’intensità del dolore fu più di quanto potesse sopportare. Affrettandosi a metter giù l’ultimo boccale di birra, Tika si allontanò dagli elfi sbattendo più volte le palpebre. Non notò lo sguardo perplesso che si scambiarono gli elfi mentre fissavano i boccali di birra, e non si ricordò affatto che tutti avevano ordinato del vino.

Semiaccecata dalle lacrime, l’unico pensiero di Tika era quello di fuggire in cucina dove poter piangere senza esser vista. Gli elfi si guardarono intorno cercando un’altra cameriera e Raf, con un sospiro di contentezza, tornò a mettersi carponi e leccò felice il resto della birra.

Tanis Mezzelfo si trovava ai piedi di una piccola altura con lo sguardo fisso sulla strada fangosa, lunga e dritta, che si stendeva davanti a lui. La donna che scortava e le loro cavalcature erano a una certa distanza dietro di lui. La donna aveva avuto bisogno di riposarsi, così come i loro cavalli.

Nonostante il suo orgoglio l’avesse trattenuta dal dire anche una sola parola in proposito, Tanis aveva visto che la sua faccia era grigia e tirata per la fatica. In effetti quel giorno, a un certo punto, si era addormentata in sella con la testa ciondoloni, e sarebbe caduta se non fosse stato per il robusto braccio di Tanis. Perciò, malgrado fosse ansiosa di raggiungere la sua destinazione, non aveva protestato quando Tanis aveva dichiarato di voler esplorare da solo la strada che si stendeva davanti a loro. L’aveva aiutata a scendere da cavallo e l’aveva sistemata in un boschetto nascosto.

Tanis aveva dei dubbi sul fatto di lasciarla incustodita, ma sentiva che le creature di tenebra che li inseguivano erano rimaste molto indietro. La sua insistenza nel voler procedere veloci si era rivelata pagante, malgrado ora sia lui sia la donna fossero doloranti ed esausti. Tanis sperava di mantenere il vantaggio su quelle creature fino a quando non avesse consegnato la sua compagna all’unica persona su Krynn che avrebbe potuto essere in grado di aiutarla.

Avevano cavalcato fin dagli albori del giorno, fuggendo davanti ad un essere che li aveva seguiti sin da quando avevano lasciato Palanthas. Cosa fosse esattamente, malgrado tutta l’esperienza fatta durante le guerre, Tanis non avrebbe saputo dirlo. È ciò rendeva la cosa ancora più spaventevole.

Non era mai là quando lo si affrontava, era possibile intravederlo soltanto con la coda dell’occhio quando questo era intento a guardare qualcos’altro. Anche la sua compagna l’aveva percepito, questo l’aveva capito, anche se, com’era sua caratteristica, era troppo orgogliosa per ammettere di avere paura.

Allontanandosi dal boschetto, Tanis si sentiva colpevole. Sapeva che non avrebbe dovuto lasciarla sola. Non avrebbe dovuto sprecare del tempo prezioso. Tutti i suoi sensi di guerriero protestavano.

Ma c’era una cosa che doveva fare, e doveva farla da solo. Fare altrimenti sarebbe parso un sacrilegio.

E così Tanis si trovava ai piedi della collina, facendo appello a tutto il suo coraggio per andare avanti. Chiunque l’avesse visto avrebbe potuto pensare che stesse avanzando per combattere contro un orco. Ma non era questo il caso. Tanis Mezzelfo stava tornando a casa. E allo stesso tempo bramava e temeva quel primo momento in cui l’avrebbe vista.

Il sole del pomeriggio stava cominciando il suo viaggio all’ingiù verso la notte. Sarebbe stato buio prima che avesse raggiunto la locanda, e temeva di viaggiare lungo le strade di notte. Ma una volta arrivato là, quel viaggio d’incubo sarebbe finito. Avrebbe affidato la donna a mani capaci e avrebbe proseguito per Qualinesti. Ma prima, c’era questo che doveva affrontare. Con un profondo sospiro, Tanis Mezzelfo si tirò il cappuccio verde sopra la testa e cominciò ad arrampicarsi.

Arrivato in cima all’altura, il suo sguardo cadde sopra un grande macigno coperto di muschio. Per un attimo i suoi ricordi lo sopraffecero. Chiuse gli occhi sentendo il pizzicore delle lacrime che gli sgorgavano veloci da sotto le palpebre.

«Stupida cerca,» sentì la voce del nano echeggiare nella sua memoria. «La cosa più sciocca che abbia mai fatto!»

Flint! Mio vecchio amico!

Non posso proseguire, pensò Tanis. Questo è troppo doloroso. Perché mai ho accettato di tornare?

Non rappresenta più niente per me adesso, salvo il dolore delle vecchie ferite. Finalmente la mia vita è buona, finalmente sono in pace, sono felice. Perché... perché gli ho detto che sarei venuto?

Emettendo un tremante sospiro, Tanis aprì gli occhi e fissò il macigno. Due anni prima - sarebbero stati tre questo autunno - era salito in cima a quell’altura e aveva incontrato Flint Fireforge il Nano, suo amico da tanto tempo, seduto su quel macigno intento a scolpire una scheggia di legno, e a lamentarsi, come al solito. Quell’incontro aveva messo in moto eventi che avevano scosso il mondo, culminando nella Guerra delle Lance, la battaglia che aveva riscagliato nell’Abisso la Regina delle Tenebre, infrangendo la potenza dei Signori dei Draghi.

Adesso sono un eroe, pensò Tanis, lanciando una mesta occhiata alla sgargiante panoplia che indossava: il pettorale di cavaliere di Solamnia; una fascia di seta verde, il segno dei Corridori Selvaggi di Silvanesti, la legione più onorata degli elfi; il medaglione di Kharas, la più alta onorificenza dei nani; e altri innumerevoli distintivi. Nessuno - umano, elfo o mezzelfo ora mai stato tanto onorato. Era ironico. Lui che odiava le armature, che odiava le cerimonie, adesso era costretto a indossare un abbigliamento consono alla sua posizione. Adesso il vecchio nano sarebbe scoppiato a ridere. «Tu, un eroe!» Poteva quasi udire la sbuffata del nano. Ma Flint era nell’oblio.

Era morto due anni prima, in primavera, fra le braccia di Tanis.

«Perché la barba?». Avrebbe potuto giurare ancora una volta di aver udito la voce di Flint, le prime parole che aveva detto quando aveva visto il mezzelfo per strada. «Eri già abbastanza brutto...»

Tanis sorrise e si grattò la barba che nessun elfo su Krynn poteva farsi crescere, la barba che era il segno visibile del suo retaggio semiumano. Flint conosceva benissimo il perché di quella barba, pensò Tanis, fissando con affetto quel macigno riscaldato dal sole.

Flint mi conosceva meglio di quanto io conoscessi me stesso. Conosceva il caos che infuriava dentro la mia anima. Sapeva che c’era una lezione che dovevo imparare.

«l’ho imparata,» bisbigliò Tanis all’amico che era con lui soltanto in spirito. «L’ho imparata, Flint. Ma, oh... quanto è stato amaro!»

L’odore d’un fuoco di legna arrivò fino a Tanis. Quello, e i raggi obliqui del sole, e il gelo nell’aria primaverile gli ricordarono che doveva percorrere ancora una certa distanza. Voltandosi, Tanis Mezzelfo guardò giù verso la valle dove aveva trascorso gli anni agrodolci della sua prima Virilità.

Voltandosi, Tanis Mezzelfo abbassò lo sguardo su Solace. Era autunno quando aveva visto per l’ultima volta la piccola città, e gli alberi della valle, i vallenwood, avevano brillato dei fiammeggianti colori della stagione, ma adesso i rossi e le sfumature dorate si erano dissolti nella muraglia purpurea dei Monti Kharolis; più oltre, l’azzurro profondo del cielo si specchiava nelle acque immobili del lago Crystalmir. Una leggera nebbia aleggiava sopra la valle, creata dal fumo dei fuochi delle case che ardevano nella pacifica città che un tempo era appollaiata sopra i vallenwood come uno stormo di uccelli soddisfatti, lui e Flint avevano visto accendersi le luci ad una ad una nelle case al riparo delle fronde di quegli alberi giganteschi. Solace, la città sugli alberi, una delle bellezze e delle meraviglie di Krynn.

Per un attimo Tanis vide l’immagine con l’occhio della sua mente... Era come lui l’aveva vista due anni prima. Poi la visione si dissolse. Allora era autunno. Adesso era primavera. Il fumo era ancora lì, il fumo dei fuochi delle case. Ma adesso proveniva per la maggior parte da case costruite sul terreno. C’era il verde delle creature vive che crescevano e rinascevano, ma ciò, nella mente di Tanis, pareva dare ancora più rilievo alle cicatrici nere sul terreno, cicatrici che non avrebbero mai potuto venir totalmente cancellate, anche se qua e là poteva vedere che erano solcate dai segni degli aratri.

Tanis scosse la testa. Tutti pensavano che con la distruzione dell’immondo tempio della Regina a Neraka la guerra fosse finita. Tutti erano desiderosi di arare quel suolo annerito e riarso, bruciato dal fuoco dei draghi, e scordare il proprio dolore.

I suoi occhi andarono all’immane cerchio nero che spiccava al centro della città. Lì non cresceva nulla. Nessun aratro poteva rivoltare il suolo devastato dal fuoco dei draghi e inzuppato dal sangue degli innocenti, assassinati dalle truppe dei Signori dei Draghi.

Tanis ebbe un cupo sorriso. Poteva ben immaginare quale pugno nell’occhio dovesse essere l’irritare coloro che lavoravano per dimenticare. Era lieto di trovarsi là. Sperava di poterci rimanere per sempre.

Con voce sommessa ripetè le parole che aveva sentito pronunciare a Elistan, quando il chierico aveva dedicato, con una solenne cerimonia, la Torre del Sommo Chierico al ricordo di quei cavalieri che vi erano morti:

«Dobbiamo ricordare, altrimenti cadremo nell’autocompiacimento, come abbiamo fatto in precedenza, e il male tornerà una volta ancora...»

Se non ci è già addosso, pensò Tanis, cupo in volto. E con questo in mente, si girò e si affrettò a ridiscendere la collina.

Quella sera la Locanda dell’Ultima Casa era affollata.

Malgrado la guerra avesse portato devastazione e distruzioni agli abitanti di Solace, la fine dei combattimenti aveva portato una tale prosperità che qualcuno stava già dicendo che non era poi andata «tanto male». Solace era stata per lungo tempo un crocevia per i viaggiatori che passavano attraverso le terre di Abanasinia. Ma nei giorni antecedenti la guerra il numero dei viaggiatori era sempre stato piuttosto scarso. I nani, salvo per pochi rinnegati come Flint Fireforge, si erano chiusi nel loro regno montagnoso di Thorbardin oppure si erano barricati tra le colline, rifiutandosi di aver qualcosa a che fare con il resto del mondo. Gli elfi avevano fatto lo stesso, abbarbicandosi nel fascinoso territorio di Qualinesti a sudovest, e di Silvanesti sul bordo orientale del continente di Ansalon.

La guerra aveva cambiato tutto questo. Adesso gli elfi, i nani e gli umani viaggiavano in lungo e in largo, le loro terre e i loro regni erano aperti a tutti. Ma c’era voluto un annientamento quasi totale per arrivare a questa fragile condizione di fratellanza.

La Locanda dell’Ultima Casa - a motivo delle sue raffinate bevande e delle famose patate speziate di Otik - era diventata ancora più popolare. Le bevande erano buone e le patate eccellenti come sempre - anche sé, Otik si era ritirato - ma la vera ragione dell’aumento della popolarità della locanda stava nel fatto che aveva acquistato una notevole notorietà poiché era risaputo che gli Eroi delle Lance, come adesso venivano chiamati, l’avevano un tempo frequentata.

In effetti, Otik prima di ritirarsi aveva preso in seria considerazione la possibilità di mettere una targa sopra il tavolo accanto al caminetto con scritto qualcosa come «Qui bevvero Tanis Mezzelfo e compagni». Ma Tika si era opposta al progetto con tanta veemenza (il solo pensiero di ciò che Tanis avrebbe detto se avesse visto una cosa del genere faceva bruciare le guance di Tika) che Otik aveva lasciato perdere. Ma il rotondo oste non si era mai stancato di raccontare ai propri clienti la storia della notte in cui la donna barbara aveva cantato la sua strana canzone e guarito Hederick il Teocrate col suo bastone di cristallo azzurro, fornendo la prima prova dell’esistenza degli antichi, veri dei.

Tika, che aveva preso la direzione della locanda quando Otik si era ritirato, e sperava di mettere da parte un gruzzoletto sufficiente per comperare l’azienda, si augurava con fervore che Otik si astenesse dal raccontare di nuovo quella storia stasera. Ma avrebbe potuto impiegare la sua speranza in cose migliori. C’erano parecchi gruppi di elfi che avevano fatto tutto il percorso da Silvanesti per prender parte al funerale di Solostaran - Portavoce del Sole e sovrano delle terre degli elfi di Qualinesti. Non soltanto sollecitavano Otik a raccontare la sua storia, ma, per di più, ne raccontavano alcune di proprie, sulla visita fatta dagli Eroi alla loro terra e su come l’avevano liberata dal drago malefico, Cyan Bloodbane. Tika vide che Otik, nell’udire ciò, lanciava occhiate nostalgiche nella sua direzione. dopotutto Tika era stata uno dei membri del gruppo che era stato a Silvanesti. Ma lei lo azzittì scuotendo furibonda i suoi riccioli fulvi. Quella era una parte del loro viaggio che si rifiutava sempre di raccontare , o anche soltanto di discutere. In effetti pregava ogni notte di più, di dimenticare gli orrendi incubi di quella terra torturata.

Tika chiuse gli occhi per un attimo, augurandosi che gli elfi lasciassero cadere il discorso. Adesso lei aveva i suoi propri incubi. Non aveva alcun bisogno che quelli del passato l’ossessionassero.

«Fai che vengano e se ne vadano in fretta,» disse con voce sommessa, rivolta a qualunque dio potesse ascoltarla.

Era appena passato il tramonto. I clienti entravano in numero sempre maggiore chiedendo cibo e bevande. Tika si era scusata con Dezra, le due amiche avevano versato qualche lacrima insieme, e adesso erano impegnate a correre dalla cucina al bancone e ai tavoli. Tika sussultava tutte le volte che la porta si apriva, e corrugava la fronte irritata tutte le volte che udiva la voce di Otik levarsi sopra il baccano dei boccali e delle lingue: «una bellissima notte d’autunno, a quanto ricordo, ed ero, naturalmente, più affaccendato di un sergente draconico durante le esercitazioni.» Ciò causava immancabilmente una risata. Tika serrò i denti. Otik aveva un pubblico adorante ed era lanciato in pieno. Adesso non ci sarebbe stato nessun modo per fermarlo. «Allora la locanda era appesa tra gli alberi di vallen, come il resto della nostra adorabile città prima che i draghi la distruggessero. Ah, com’era bella ai vecchi tempi.» Sospirò - a questo punto sospirava sempre - e si asciugò una lacrima. Un mormorio di solidarietà si levò dalla folla. «Dov’ero rimasto?» Si soffiò il naso, un’altra parte della recita. «Ah, sì. Ero là dietro il bancone quando la porta si aprì...»

La porta si aprì, avrebbe potuto esser concertato come una battuta ad effetto, talmente perfetta fu la sincronizzazione. Tika si scostò dalla fronte sudata una ciocca di capelli rossi e lanciò un’occhiata nervosa in quella direzione. Un improvviso silenzio calò nella sala. Tika s’irrigidì, le unghie affondarono nelle sue mani.

Un uomo alto, così alto che dovette chinarsi per varcare la porta, si stagliò sulla soglia. I suoi capelli erano scuri, il suo volto tetro e severo. Malgrado fosse avvolto in pellicce, era ovvio dalla sua camminata e dal suo portamento che il suo corpo era forte e muscoloso. Lanciò una rapida occhiata alla locanda affollata soppesando coloro che erano presenti, circospetto e attento ai pericoli.

Ma era stata soltanto un’azione istintiva, poiché quando il suo sguardo cupo e penetrante si fissò su Tika, il suo volto severo si rilassò in un sorriso, e l’uomo spalancò le braccia.

Tika esitò, ma la vista del suo amico la riempì d’una gioia improvvisa e di una strana ondata di nostalgia. Facendosi largo a gomitate tra la folla, venne avvolta nel suo abbraccio.

«Riverwind, amico mio,» mormorò con voce rotta.

Stringendo la giovane donna fra le braccia, Riverwind la sollevò da terra senza sforzo come se fosse una bambina. La folla cominciò ad acclamare, picchiando i boccali sui tavoli. La maggior parte degli avventori non riusciva a credere alla propria fortuna. Là c’era un Eroe delle Lance in persona, come se fosse stato evocato dalla storia di Otik. E perfino corrispondeva alla descrizione!

Erano tutti incantati.

Poiché nell’abbracciare Tika l’uomo si era buttato il mantello dietro le spalle, adesso tutti erano in grado di riconoscere il Manto del Capo che indossava, le sezioni di pelliccia alternate, in un disegno a V, a cuoio lavorato, ognuna delle quali rappresentava una delle tribù delle pianure sulle quali lui regnava. Il suo bel volto, anche se più vecchio e segnato da quando Tika l’aveva visto l’ultima volta, era bruciato dal sole e dalle intemperie che gli avevano dato un colore bronzeo, e c’era una gioia interiore negli occhi dell’uomo, che aveva trovato nella sua vita la pace che in precedenza aveva cercato per anni.

Tika avvertì una sensazione di soffocamento alla gola e subito si girò, ma non abbastanza in fretta.

«Tika,» disse Riverwind, il suo accento si era ispessito per essere vissuto nuovamente tra quelli del suo popolo, «fa piacere vederti ancora bella e in salute. Dov’è Caramon? Non vedo l’ora di... ebbene Tika, cosa c’è che non va?»

«Niente, niente,» rispose Tika con vivacità, scuotendo i riccioli rossi e sbattendo le palpebre.

«Vieni, ti ho riservato un posto accanto al fuoco. Devi essere esausto e affamato.»

Lo condusse attraverso la folla, parlando senza interruzione, senza mai dargli la possibilità di dire una parola. Inavvertitamente la folla l’aiutò, tenendo occupato Riverwind mentre gli si raccoglievano intorno meravigliandosi del suo mantello di pelliccia, oppure cercando di stringergli la mano (un’usanza che gli Uomini delle Pianure giudicavano barbarica) o di porgergli boccali pieni.

Riverwind accettò tutto stoicamente, mentre seguiva Tika attraverso la folla eccitata, stringendo la bellissima spada di fattura elfa che gli pendeva al fianco. La sua faccia severa divenne d’una sfumatura più cupa, e guardava spesso fuori delle finestre, come se già ardesse dal desiderio di uscire dai confini di quella stanza rumorosa e calda per tornare agli spazi liberi che amava. Ma Tika spinse via con destrezza i clienti più esuberanti e ben presto fece sedere il suo amico vicino al fuoco a un tavolo isolato accanto alla porta della cucina.

«Torno subito,» disse scoccandogli uno smagliante sorriso e scomparve dentro la cucina prima che lui potesse aprire bocca.

Il suono della voce di Otik si levò di nuovo, accompagnato da un forte picchiare. Poiché la sua storia era stata interrotta, Otik stava usando il suo bastone, una delle armi più temute a Solace, per ripristinare l’ordine. Adesso, l’oste era infermo a una gamba, e gli piaceva raccontare anche quella storia, su come era rimasto ferito durante la caduta di Solace quando, stando al suo resoconto, aveva respinto da solo le armate degli invasori draconici.

Afferrando un tegame pieno di patate speziate e affrettandosi a tornare da Riverwind, Tika lanciò un’occhiata furiosa a Otik. Lei conosceva la Vera storia, su come era rimasto ferito alla gamba quand’era stato trascinato fuori dal suo nascondiglio sotto il pavimento. Ma non l’aveva mai raccontata a nessuno. Nel profondo del suo animo amava il vecchio come un padre. Lui l’aveva accolta e l’aveva allevata quando suo padre era scomparso, offrendole un lavoro onesto quando a lei non restava che il ladrocinio. Inoltre, ricordargli ogni tanto che lei sapeva la verità serviva a impedire che le storie esagerate di Otik arrivassero a nuove vette.

La folla si era abbastanza calmata quando Tika tornò, dandole la possibilità di parlare con il suo vecchio amico.

«Come stanno Goldmoon e tuo figlio?» gli chiese con vivacità, vedendo che Riverwind la guardava, studiandola con attenzione.

«Goldmoon sta bene e ti manda tutto il suo affetto,» rispose Riverwind con voce bassa da baritono.

«Mio figlio,» i suoi occhi s’illuminarono d’orgoglio, «ha soltanto due anni ma è già alto così, e sta in groppa al cavallo meglio di tanti guerrieri.»

«Avevo sperato che Goldmoon venisse con te,» disse Tika con un timro che non aveva avuto intenzione di far sentire a Riverwind.

L’alto uomo delle pianure mangiò il proprio cibo in silenzio per qualche istante, prima di rispondere.

«Gli dei ci hanno benedetti con altri due bambini,» disse infine, fissando Tika con una strana espressione negli occhi scuri.

«Due?» Tika parve perplessa. «Oh, gemelli!» gridò con gioia. «Come Caramon e Rais...»

S’interruppe di colpo, mordendosi il labbro.

Riverwind corrugò la fronte e tracciò nell’aria il segno che allontanava il male. Tika arrossì e guardò altrove. C’era un rombo nelle sue orecchie. Il calore e il rumore la stordivano. Inghiottendo l’amaro che aveva in bocca, si costrinse a chiedere altre notizie di Goldmoon e, dopo un po’, riuscì perfino ad ascoltare la risposta di Riverwind.

«... ancora troppo pochi chierici nella nostra terra. Ci sono molti convertiti, ma i poteri degli dei arrivano con lentezza. Goldmoon lavora duramente, troppo duramente secondo me, ma diventa ogni giorno più bella. E le bambine, le nostre figlie, hanno entrambe i capelli argento-dorati.»

Bambini... Tika ebbe un triste sorriso. Vedendo il suo viso Riverwind si azzittì, finì di mangiare e spinse da parte il piatto. «Niente mi piacerebbe di più che prolungare questa visita, disse lentamente, ma non posso rimanere lontano per troppo tempo dal mio popolo. Tu conosci l’urgenza della mia missione. Dov’è Cara...?»

«Devo andare a controllare la tua stanza,» disse Tika, alzandosi così in fretta che urtò il tavolo, facendo traboccare il boccale di Riverwind. «Quel nano dei burroni dovrebbe preparare il letto. È probabile che lo trovi addormentato come un ghiro...»

Si affrettò ad allontanarsi. Ma non salì di sopra nelle stanze. In piedi, fuori della porta della cucina, mentre il vento della notte raffreddava le sue guance febbricitanti, fissò il buio. «Fate che se ne vada!» bisbigliò. «Per favore...»

Capitolo secondo.

Forse, ciò che Tanis temeva di più era la vista della Locanda dell’Ultima Casa. Qui tutto era cominciato tre anni prima, in autunno. Qui, lui, Flint e l’irrefrenabile kender, Tasslehoff Burrfoot, erano giunti quella notte per incontrare dei vecchi amici. Qui il suo mondo si era capovolto, per non raddrizzarsi mai più.

Ma mentre cavalcava verso la locanda, Tanis sentì alleviarsi le sue paure. Era cambiata talmente che era come arrivare in un luogo estraneo, un luogo che non ospitava ricordi. Si ergeva sul terreno invece che fra i rami di un grande vallenwood. C’erano state nuove aggiunte, altre stanze erano state costruite per far fronte all’afflusso dei viaggiatori, aveva un nuovo tetto, assai più moderno nel disegno. Era stata purgata da tutte le cicatrici della guerra, insieme ai ricordi.

Poi, proprio mentre Tanis cominciava a rilassarsi, la porta principale della locanda si aprì. La luce ne uscì a fiotti, formando un dorato sentiero di benvenuto, l’odore delle patate speziate e il rimbombare delle risate gli giunsero insieme alla brezza della sera. I ricordi tornarono impetuosi, e Tanis chinò la testa, sopraffatto.

Ma, forse per sua fortuna, non ebbe il tempo di rivangare il passato. Quando lui e la sua compagna si avvicinarono alla locanda, uno stalliere corse fuori e afferrò le redini dei cavalli.

«Cibo e acqua,» disse Tanis, scivolando stanco giù dalla sella e lanciando una moneta al ragazzo.

Si stiracchiò per alleviare i crampi muscolari. «Ho mandato un messo perché mi fosse preparato un cavallo riposato. Il mio nome è Tanis Mezzelfo.»

Il ragazzo sgranò gli occhi. Già era rimasto con lo sguardo puntato sulla sfavillante armatura e sul ricco mantello che Tanis indossava. Adesso alla sua curiosità si sostituirono l’ammirazione e la soggezione.

«S... sì, signore,» balbettò, imbarazzato nel sentirsi rivolgere la parola da un così grande eroe. «I... il cavallo è pronto, devo portartelo a... adesso, signore?»

«No.» Tanis sorrise. «Prima mangerò qualcosa. Portalo fra due ore.»

«D... due ore. Sì, signore. Grazie, signore.» Ciondolando la testa il ragazzo prese le redini che Tanis gli schiacciava dentro la mano intorpidita, poi rimase là, immobile, a bocca aperta, dimenticandosi del tutto del suo compito fino a quando il cavallo impaziente non lo spinse facendolo quasi cadere per terra.

Mentre il ragazzo si affrettava ad allontanarsi, conducendo via il cavallo di Tanis, il mezzelfo si girò per aiutare la sua compagna a scendere di sella.

«Devi essere fatto di ferro,» lei commentò, fissandolo, mentre lui l’aiutava a smontare. «Davvero intendi proseguire il tuo viaggio stanotte stessa?»

«A dire il vero non c’è osso del mio corpo che non mi faccia spasimare,» cominciò a dire Tanis, poi tacque, sentendosi a disagio. Semplicemente, era incapace di sentirsi a suo agio quand’era vicino a quella donna.

Tanis scorgeva il suo viso al riflesso della luce che s’irradiava dalla locanda. Vide fatica e dolore. I suoi occhi erano infossati nelle guance pallide e scavate. Barcollò, quando mise piede al suolo, e Tanis fu svelto a porgerle il braccio perché potesse appoggiarvisi. Lei si appoggiò, ma solo per un attimo. Poi, drizzandosi, lo spinse via, gentile ma ferma, e rimase lì, sola, lanciando un’occhiata intorno a sé senza mostrare alcun interesse.

Il minimo movimento provocava fitte di sofferenza a Tanis, il quale poteva ben immaginare come doveva sentirsi quella donna, per nulla abituata alle fatiche fisiche e alle privazioni, e sia pure riluttante si trovò ad ammirarla. Non si era lamentata una sola volta durante il loro lungo e spaventevole viaggio. Era rimasta al passo con lui senza mai restare indietro, e obbedendo alle sue istruzioni senza discutere.

Perché mai allora, si chiedeva, non riusciva a provare niente per lei? Che cosa c’era in lei che lo irritava e lo infastidiva? Guardando il suo volto Tanis trovò la risposta. L’unico calore in esso era quello riflesso dalla luce della locanda. Perfino adesso che appariva esausta, il suo volto era freddo, impassibile, privo di... che cosa? Così era stata per tutto quel lungo, pericoloso viaggio. Oh, era stata gelidamente cortese, gelidamente grata, gelidamente distante, remota. Con tutta probabilità mi avrebbe sepolto con altrettanta freddezza, pensò Tanis, cupo. Poi, come per rimproverarsi di aver avuto simili pensieri irriverenti, il suo sguardo venne attratto dal medaglione che la donna portava al collo, il Drago di Platino di Paladine. Ricordò le parole di commiato di Elistan, dette in privato poco prima dell’inizio del viaggio.

«È opportuno che tu la scorti, Tanis,» aveva detto il chierico ormai fragile nel corpo. «Sotto molti aspetti lei inizia un viaggio molto simile al tuo di tanti anni fa... alla ricerca dell’autocoscienza. No, hai ragione, lei non lo sa ancora.» Questo in risposta all’espressione dubbiosa di Tanis. «Lei cammina con lo sguardo fisso al cielo.» Elistan aveva avuto un triste sorriso. «Lei non ha ancora imparato che, così facendo, si finisce inevitabilmente per inciampare. A meno che non impari, la sua caduta potrebbe essere dolorosa.» Scuotendo la testa, aveva mormorato una sommessa preghiera. «Ma noi dobbiamo riporre la nostra fiducia in Paladine.»

Allora Tanis aveva corrugato la fronte, e la corrugò anche adesso, nel ricordare tutto questo. Anche se era arrivato ad avere una robusta fede nei veri dei - per l’amore e la fede che Laurana aveva in essi più che per qualsiasi altra cosa - si sentiva a disagio nel dover affidare la propria vita a loro, e diventava insofferente con quelli come Elistan che, a quanto pareva, addossavano agli dei un fardello troppo grande. Che l’uomo fosse responsabile di sé, tanto per cambiare, pensò Tanis, irritato. «Che cosa c’è, Tanis?» gli chiese Crysania con freddezza. Rendendosi conto di aver continuato a fissarla per tutto quel tempo, Tanis tossì imbarazzato, si schiarì la gola e guardò altrove. Per fortuna il giovane stalliere tornò in quel momento per prendere il cavallo di Crysania, risparmiando a Tanis la necessità di rispondere. Tanis indicò Con un gesto la locanda, e s’incamminò con Crysania verso di essa.

«A dire il vero,» disse Tanis quando il silenzio cominciò a farsi imbarazzante, «niente mi piacerebbe di più che rimanere qui e far visita ai miei amici. Ma devo essere a Qualinesti dopodomani, e soltanto cavalcando senza sosta riuscirò ad arrivare in tempo. I miei rapporti con mio cognato non sono tali da potermi permettere di offenderlo mancando al funerale di Solostaran.»

Poi aggiunse con un tetro sorriso: «Sia politicamente che personalmente, se capisci quello che voglio dire.» Crysania sorrise a sua volta ma, Tanis se ne avvide, non era un sorriso di comprensione. Era un sorriso di tolleranza, come se quel discorso non fosse al suo livello.

Avevano raggiunto la porta della locanda. «Inoltre,» aggiunse Tanis con voce sommessa, «sento la mancanza di Laurana. È strano, vero? quando mi è vicina e siamo impegnati a svolgere i nostri compiti, talvolta passano giorni in cui ci rivolgiamo soltanto un rapido sorriso od una carezza, e poi torniamo a scomparire nei nostri mondi. Ma quando sono stato lontano da lei, è come se mi svegliassi all’improvviso scoprendo che mi hanno reciso il braccio destro. Potrei anche non andare a letto pensando al mio braccio destro, ma una volta che non c’è più...» Tanis si azzittì di colpo sentendosi sciocco, timoroso di apparire come un adolescente ammalato d’amore. Ma si avvide che, con ogni apparenza, Crysania non gli prestava la minima attenzione. Il suo liscio volto di marmo era diventato, semmai, ancora più freddo, fino a far apparire calda, al suo confronto, la luce della luna.

Scuotendo la testa, Tanis aprì la porta, spingendola.

Non invidio Caramon o Riverwind, pensò, cupo.

I suoni e gli odori caldi e familiari della locanda investirono Tanis e, per lunghi istanti, ogni cosa fu una macchia confusa. Lì c’era Otik, ancora più vecchio e più grasso se mai era possibile, appoggiato a un bastone, e gli batteva una mano sulla schiena. Lì c’era gente che lui non vedeva da anni, che non aveva avuto molto a che fare con lui prima, che adesso gli stringeva la mano e riaffermava la più calda amicizia. Qui c’era il vecchio bancone ancora lucidato a specchio, e lui, in qualche modo, riuscì a inciampare su un nano dei burroni...

E poi c’era un uomo alto, avvolto in pellicce, e Tanis si trovò stretto all’interno del caldo abbraccio dell’amico.

«Riverwind,» bisbigliò con voce rauca, tenendosi saldamente stretto all’uomo delle pianure.

«Fratello mio,» disse Riverwind in queshu, la lingua del suo popolo. La folla della locanda applaudiva come impazzita, ma Tanis non la sentì perché una donna dai fiammeggianti capelli rossi e con una spruzzata di lentiggini gli aveva appoggiato la mano sul braccio. Allungando a sua volta una mano, sempre tenendo stretto Riverwind, Tanis accolse Tika nel loro abbraccio e per lunghi momenti i tre amici si tennero stretti l’uno all’altro - legati dal dolore, dalla sofferenza e dalla gloria.

Riverwind li riportò alla realtà. Per nulla abituato a simili, pubbliche esibizioni di emozioni, l’alto uomo delle pianure riprese la sua compostezza con un poderoso colpo di tosse e si tirò indietro, ammiccando più volte e guardando il soffitto, corrugando al tempo stesso la fronte fino a quando non fu di nuovo padrone di sé. Tanis, con la barba rossa inumidita dalle proprie lacrime, strinse in un ultimo, rapido abbraccio Tika, poi si guardò intorno.

«Dov’è quello zoticone di tuo marito?» chiese con allegria. «Dov’è Caramon?»

Era una semplice domanda e Tanis era del tutto impreparato alla reazione. La folla si azzittì del tutto; pareva che qualcuno avesse chiuso i presenti in un barile. Il volto di Tika avvampò d’un cupo rossore, poi borbottò qualcosa d’inintelligibile e, chinandosi, tirò su di peso dal pavimento il nano dei burroni e lo scosse tanto da fargli sbattere violentemente i denti.

Stupefatto, Tanis guardò Riverwind, ma l’uomo delle pianure si limitò a scrollare le spalle e a sollevare le scure sopracciglia. Il mezzelfo si voltò per chiedere a Tika cosa stesse succedendo, ma proprio allora sentì un tocco freddo sul suo braccio. Crysania! Si era completamente dimenticato di lei!

Arrossendo anche lui, fece le sue tardive presentazioni.

«Vi presento Crysania di Tarinius, Reverenda Figlia di Paladine,» disse in tono ufficiale. «Dama Crysania, Riverwind, capo degli Uomini delle Pianure, e Tika Waylan Majere.»

Crysania sciolse il suo mantello da viaggio e gettò indietro il cappuccio. Quando l’ebbe fatto, il medaglione di platino che portava appeso al collo balenò alla vivida luce delle candele della locanda. Le vesti di pura lana bianca d’agnello s’intravidero fra le pieghe del suo mantello. Un mormorio, allo stesso modo riverente e rispettoso, attraversò la folla.

«Un sacro chierico!»

«Hai afferrato il suo nome? Crysania! Prossima in linea di successione...»

«Il successore di Elistan...»

Crysania piegò leggermente la testa. Riverwind si esibì in un inchino profondo: il suo volto era solenne. Tika, il volto ancora tanto arrossato da apparire febbricitante, spinse frettolosamente Raf dietro il bancone, poi anche lei eseguì un inchino riverente.

Nell’udire il cognome da sposata di Tika, Majere, Crysania fissò Tanis con aria interrogativa e ne ricevette in risposta un cenno affermativo del capo.

«Sono onorata,» disse Crysania, con la sua voce ricca e fredda, «d’incontrare coloro le cui imprese e il cui coraggio hanno, brillato vividi come un esempio per tutti noi.»

Compiaciuta, Tika arrossì per l’imbarazzo. Il volto severo di Riverwind non cambiò espressione, ma Tanis vide quanto significato avevano le lodi per quell’uomo profondamente religioso. In quanto alla folla, gli applausi si levarono fragorosi per l’onore che tutti traevano dall’esser presenti, e continuarono a lungo. Otik, con le dovute cerimonie, condusse i suoi ospiti a un tavolo che li aspettava, contemplando raggiante gli eroi come se fosse stato lui a organizzare tutta quella guerra a loro esclusivo beneficio.

Sulle prime, nel sedersi, Tanis si sentì turbato da tutta quella confusione e da quel frastuono, ma ben presto decise che era una buona cosa. Per lo meno, avrebbe potuto parlare a Riverwind senza timore di venir ascoltato da orecchi indiscreti. Ma, prima, doveva scoprire dove si trovava Caramon.

Ancora una volta fece per chiederlo, ma Tika, dopo essersi assicurata che si fossero tutti accomodati e accudendo Crysania come una chioccia, lo vide sul punto di aprire bocca e, voltandosi di scatto, scomparve in cucina.

Tanis scosse la testa, perplesso, ma prima che potesse pensarci ulteriormente, Riverwind cominciò a fargli delle domande. I due furono ben presto immersi nella conversazione.

«Tutti sono convinti che la guerra sia finita,» disse Tanis con un sospiro. «Ma questo ci pone in un pericolo ancora peggiore del precedente. Le alleanze tra gli elfi e gli umani che erano solide quando i tempi erano bui hanno cominciato a sciogliersi al sole. Adesso Laurana è a Qualinesti per partecipare al funerale di suo padre e anche per cercare di raggiungere un accordo con quel testardo di suo fratello, Porthios, e i Cavalieri di Solamnia. L’unico raggio di speranza che ci resta sta nella moglie di Porthios, Alhana Starbreeze.» Tanis sorrise. «Non avrei mai creduto che sarei riuscito a vivere fino al giorno in cui avrei visto quella donna elfa non soltanto tollerare gli umani e le altre razze, ma perfino sostenerli con calore contro il suo intollerante marito.»

«Uno strano matrimonio,» commentò Riverwind, e Tanis annuì, d’accordo con lui. I pensieri di entrambi gli uomini andarono al loro amico, Sturm Brightblade, che adesso giaceva morto - eroe della Torre del Sommo Chierico. Entrambi sapevano che il cuore di Alhana era rimasto sepolto là nel buio insieme a Sturm.

«Sì, certo, non un matrimonio d’amore,» disse Tanis, scrollando le spalle. «Ma potrebbe essere un matrimonio che aiuterà a riportare ordine nel mondo. Ora, cosa mi dici di te, amico mio? Il tuo volto è buio e teso, a causa delle nuove preoccupazioni, oltre che irradiare una nuova gioia. Goldmoon ha mandato a Laurana la notizia delle gemelle.»

Riverwind ebbe un lieve sorriso. «Hai ragione, rimpiango ogni minuto che passo lontano da lei,» dichiarò l’uomo delle pianure con la sua voce profonda. «Anche se tornando a rivederti, fratello mio, sento alleggerirsi il fardello del mio cuore. Ma ho lasciato due tribù sull’orlo della guerra. Finora sono riuscito a fare in modo che continuassero a parlare, e non c’è stato ancora nessuno spargimento di sangue. Ma il malcontento opera contro di me, dietro la mia schiena. Ogni minuto che trascorro lontano concede loro la possibilità di ridestare antiche faide.»

Tanis gli strinse il braccio. «Mi spiace, amico mio, e sono contento che tu sia venuto.» Poi sospirò di nuovo e lanciò un’occhiata a Crysania, rendendosi conto di avere nuovi problemi. «Avevo sperato che tu fossi in grado di offrire a questa dama la tua guida e la tua protezione.» La sua voce divenne un mormorio. «Si sta recando alla Torre della Grande Stregoneria nella Foresta di Wayreth.»

Gli occhi di Riverwind si spalancarono per l’allarme e la disapprovazione. L’uomo delle pianure diffidava dei maghi.

Tanis annuì. «Vedo che ricordi le storie di Caramon, di quando lui e Raistlin viaggiarono fin là. E loro erano stati invitati. Questa dama si reca laggiù senza nessun invito per cercare il consiglio dei maghi su...»

Crysania gli scoccò un’occhiata tagliente e imperiosa. Corrugando la fronte, la donna scosse la testa. Tanis, mordendosi il labbro, aggiunse a bassa voce: «Avevo sperato che tu potessi scortarla...»

«È quello che ho temuto quando ho ricevuto il tuo messaggio,» replicò Riverwind, «ed è per questo che ho sentito di dover venire, per offrirti qualche spiegazione per il mio rifiuto. Se fosse stato qualunque altro momento, sai che sarei stato lieto di aiutarti e, in particolare, sarei stato onorato di offrire i miei servigi ad una persona così riverita.» Rivolse un lieve inchino a Crysania, la quale accettò il suo omaggio con un sorriso che subito svanì quando riportò lo sguardo su Tanis. Un piccolo, profondo solco di collera era comparso fra le sue sopracciglia.

Riverwind continuò: «Ma c’è troppo in gioco. La pace che ho stabilito fra le tribù, molte delle quali erano in guerra da anni, è fragile. La nostra sopravvivenza come nazione e come popolo dipende dalla nostra unione e dal comune lavoro per ricostruire le nostre terre e le nostre vite.»

«Capisco,» disse Tanis, commosso dall’evidente infelicità di Riverwind per dover rifiutare la sua richiesta di aiuto. Ma il mezzelfo colse anche l’occhiata dispiaciuta di Dama Crysania e si rivolse a lei con cupa cortesia. «Tutto andrà a posto, Reverenda Figlia,» disse, parlando con elaborata pazienza. «Caramon ti guiderà, e lui vale tre di noi comuni mortali, giusto, Riverwind?»

L’uomo delle pianure sorrise, i vecchi ricordi gli tornarono alla memoria. «Può mangiare quanto tre normali mortali, certo. Ed è forte come tre di loro o anche di più. Ricordi, Tanis, quando sollevava da terra quel gagliardo Faccia-di-Porco William, quando abbiamo messo su quello spettacolo a... dov’era... Flotsam?»

«E quella volta che ha ammazzato due draconici picchiando insieme le loro zucche?» Tanis rise, sentendo d’un tratto sollevarsi l’oscurità del mondo nello spartire quei tempi con il suo amico. «E ti ricordi di quella volta quando ci siamo trovati nel regno dei nani e Caramon è sgusciato alle spalle di Flint e...» sporgendosi in avanti, Tanis bisbigliò qualcosa all’orecchio di Riverwind. Il volto dell’uomo delle pianure s’imporporò per le risate. Lui raccontò un’altra storia e i due uomini continuarono, rievocando esempi della forza di Caramon, la sua abilità con la spada, il suo coraggio e il suo senso dell’onore.

«E la sua gentilezza,» aggiunse Tanis, dopo un momento di silenziosa riflessione. «Ancora riesco a vederlo che accudisce Raistlin con tanta pazienza, tenendo suo fratello tra le braccia quando quegli accessi di tosse facevano quasi a pezzi il mago...»

Venne interrotto da un urlo soffocato, uno schianto e un tonfo. Voltandosi di scatto in preda allo stupore, Tanis vide Tika che lo fissava, il suo volto era bianco, i suoi occhi verdi luccicavano per le lacrime.

«Andate via, adesso!» lei li implorò attraverso le pallide labbra. «Ti prego, Tanis! Non fare nessuna domanda! Vai via e basta!» Lo afferrò per un braccio. Le sue unghie gli si affondarono dolorosamente nella pelle. «Ascoltami, in nome dell’Abisso, cosa sta succedendo, Tika?» chiese Tanis in preda all’esasperazione, alzandosi in piedi e fronteggiandola.

In risposta, vi fu uno schianto di legno scheggiato. La porta della locanda si spalancò di colpo, colpita dall’esterno da una forza tremenda. Tika balzò indietro, il suo volto distorto da una tale paura e da un orrore così intenso, mentre fissava la porta, che Tanis si affrettò a girarsi, la mano sulla spada, e Riverwind balzò in piedi.

Una grande ombra riempì la porta dando l’impressione di diffondere una nuvola tempestosa nella sala. L’allegria e le risate della folla s’interruppero di colpo, trasformandosi in borbottii sordi e rabbiosi.

Ricordando le creature tenebrose e malefiche che li avevano inseguiti, Tanis sfoderò la spada interponendosi fra l’ombra e Dama Crysania. Avvertì, anche se non la vide, la vigorosa presenza di Riverwind alle sue spalle, pronto ad appoggiarlo.

Così ci hanno raggiunto, pensò Tanis, accogliendo quasi con sollievo la possibilità di combattere quel vago e sconosciuto terrore. Cupo in volto, squadrò la porta mentre una figura rigonfia e grottesca accedeva alla luce.

Tanis vide che era un uomo, un uomo gigantesco, ma nel guardarlo con maggiore attenzione vide che era un uomo la cui enorme circonferenza era ridotta a carne floscia. Un ventre enfiato penzolava sopra stretti gambali di cuoio, una camicia sudicia era aperta all’ombelico, essendoci troppo poca camicia per coprire così tanta carne. La faccia dell’uomo, in parte oscurata da una barba di tre giorni, era arrossata e chiazzata in modo innaturale, i suoi capelli unti e scarmigliati. Gli indumenti che portava, seppur ben fatti e in origine anche eleganti, erano sporchi e avevano un intenso odore di vomito e del liquore grezzo noto come «spirito dei nani».

Tanis abbassò la spada sentendosi sciocco. Era soltanto un povero disgraziato ubriaco, con ogni probabilità il bullo del paese, che sfruttava le sue grandi dimensioni per intimorire la cittadinanza.

Fissò l’uomo con pietà e disgusto pensando, mentre lo faceva, che in lui c’era qualcosa di stranamente familiare. Con ogni probabilità, era qualcuno che aveva conosciuto quand’era vissuto a Solace tanto tempo addietro, qualche poveraccio che era incappato in tempi duri.

Il mezzelfo fece per voltarsi quando notò, con suo vivo stupore, che tutti nella locanda lo stavano guardando come se si aspettassero qualcosa da lui.

Che cosa vogliono da me? si chiese Tanis con improvvisa, fulminea rabbia. Che lo attacchi?

Bell’eroe che sarei a picchiare l’ubriacone della città!

Poi udì un singhiozzo lì accanto. «Ti avevo detto di andartene,» gemette Tika, accasciandosi su una sedia. Nascondendosi il volto tra le mani cominciò a piangere come se il suo cuore stesse per spezzarsi.

Sempre più sconcertato, Tanis lanciò un’occhiata a Riverwind, ma era ovvio che l’uomo delle pianure brancolava nella stessa oscurità del suo amico. Nel frattempo l’ubriaco era venuto avanti barcollando e si stava guardando intorno incollerito.

«Cos-sc’è quesc-ta? Una fesc-ta?» ringhiò. «E nesc-sciuno ha in-in-invitato-tato il loro vecchio... in-invitato me?»

Nessuno rispose. Gli avventori tenevano, nel più completo silenzio, gli sguardi puntati su Tanis, e adesso perfino l’attenzione dell’ubriaco si concentrò sul mezzelfo. Sforzandosi di metterlo a fuoco, l’ubriaco fissò Tanis con una specie di rabbia perplessa, come per biasimarlo di essere la causa di tutti i suoi guai. Poi, d’un tratto l’ubriaco sgranò gli occhi, la sua faccia si spaccò in un sorriso sciocco, e prese ad avanzare brancolando con le braccia tese. «Tanisc... amico a...»

«In nome degli dei,» bisbigliò Tanis che finalmente l’aveva riconosciuto.

Il gigante venne avanti vacillando e inciampò in una sedia. Per un istante rimase in piedi, oscillando incerto, come un albero tagliato e ormai pronto a cadere. Arrovesciò gli occhi, la gente corse via per scansarsi. Poi, con un tonfo che fece tremare l’intera locanda, Caramon Majere, Eroe delle Lance, perse i sensi ai piedi di Tanis.

Capitolo terzo.

«In nome degli dei,» ripetè Tanis addolorato chinandosi sopra il guerriero in stato comatoso.

«Caramon...»

«Tanis...». La voce di Riverwind indusse il mezzelfo a sollevare rapidamente lo sguardo. L’uomo delle pianure stringeva Tika fra le braccia. Sia lui che Dezra stavano cercando di confortare la giovane donna sconvolta. Ma la gente si stava accalcando tutt’intorno cercando di far domande a Riverwind o chiedendo a Crysania una benedizione. Altri esigevano a gran voce dell’altra birra oppure ciondolavano lì intorno a bocca spalancata. Tanis si alzò in piedi. «Per stanotte la locanda è chiusa!» urlò. Grida di scherno si levarono dalla folla, salvo per qualche applauso sparso in fondo alla sala dove parecchi avventori avevano creduto che intendesse offrire da bere a tutti.

«No. Dico sul serio,» ribadì Tanis con fermezza, sovrastando il baccano con la propria voce. «Vi ringrazio tutti per questo benvenuto. Voi non sapete cosa significhi per me tornare nella mia patria. Ma adesso i miei amici ed io vorremmo essere lasciati soli. Per favore, è già tardi...» Si levarono mormorii di solidarietà e alcuni applausi benevoli. Soltanto pochi si accigliarono e bofonchiarono commenti sul fatto che più grande era il cavaliere più la sua armatura lo abbagliava (un vecchio detto risalente ai giorni in cui i Cavalieri di Solamnia venivano derisi). Riverwind, lasciando che Dezra si occupasse di Tika, si fece avanti per pungolare quei pochi sbandati i quali avevano supposto che Tanis intendesse tutti fuorché loro. Il mezzelfo vegliava su Caramon che russava beatamente disteso sul pavimento, impedendo che la gente calpestasse l’omone. Scambiò alcune occhiate con Riverwind quando l’uomo delle pianure gli passò accanto, ma nessuno dei due ebbe tempo di parlare fino a quando la locanda non fu vuota.

Otik Sandeth era in piedi accanto alla porta intento a ringraziare tutti per essere venuti e assicurandoli che la locanda sarebbe stata nuovamente aperta l’indomani sera. Quando tutti se ne furono andati, Tanis si avvicinò al proprietario in pensione, sentendosi impacciato e imbarazzato.

Ma Otik lo fermò prima che potesse parlare.

Stringendo la mano nella sua, l’anziano bisbigliò: «Sono lieto che tu sia tornato. Chiudi a chiave quando avrai finito.» Lanciò un’occhiata a Tika, poi con un’espressione da cospiratore fece cenno al mezzelfo di venire avanti. «Tanis,» proseguì in un sussurro, «se ti dovesse capitare di vedere Tika che sottrae qualcosa dalla cassetta dei soldi, non badarci. Un giorno li ripagherà. Io fingo di non accorgermene.» Il suo sguardo andò a Caramon, e scosse tristemente la testa. «So che sarai in grado di dare aiuto,» mormorò, poi annuì e si allontanò nella notte con andatura rigida e passo pesante, appoggiandosi al suo bastone.

Aiuto! pensò Tanis, furibondo. Lui era venuto a cercare il suo aiuto. Caramon, russando in maniera particolarmente rumorosa, emerse in parte dai fumi dell’alcool, ruttò pestilenziali zaffate dello spirito dei nani, poi si riadagiò per dormire. Tanis rivolse un’occhiata desolata a Riverwind, poi scosse la testa disperato.

Crysania fissava Caramon con pietà mista a disgusto. «Pover’uomo,» disse con voce sommessa. Il medaglione di Paladine risplendeva alla luce delle candele. «Forse io...»

«Non c’è niente che tu possa fare per lui!» gridò Tika con amarezza, piangendo. «Non ha bisogno di essere curato. È ubriaco, non riesci a vederlo? Ubriaco marcio!»

Stupita, Crysania volse lo sguardo su Tika, ma prima che il chierico potesse dire qualcosa, Tanis si affrettò a tornare da Caramon. «Aiutami, Riverwind,» disse. «Portiamolo a cas...»

«Oh, lasciatelo stare!» sbottò Tika, asciugandosi gli occhi con l’angolo del grembiule. «Ha passato abbastanza notti sul pavimento qua fuori. Un’altra non farà differenza.» Si rivolse a Tanis. «Volevo dirtelo, davvero, ma pensavo... ho continuato a sperare... era eccitato quand’è arrivata la tua lettera. Era...be’, più simile a se stesso di quanto l’avessi visto da lungo tempo a questa parte. Pensavo che forse questo potesse servire. Che potesse cambiare. Così vi ho lasciato venire.» Piegò la testa. «Mi spiace...»

Tanis si era fermato accanto al grande guerriero, indeciso sul da farsi. «Non capisco. Da quanto tempo...»

«È per questo che non abbiamo potuto venire al tuo matrimonio, Tanis» disse Tika, torcendo il grembiule e facendone tanti nodi. «Avrei tanto voluto venirci. Ma...» Ricominciò a piangere. Dezra le mise le braccia al collo.

«Siediti, Tika,» mormorò Dezra, aiutandola a sedersi in uno scomparto di legno con sgabelli dall’alto schienale.

Le gambe mancarono all’improvviso a Tika, che si accasciò, nascondendosi la testa fra le braccia.

«Sediamoci tutti quanti,» disse Tanis con fermezza, «e cerchiamo di capire quello che sta succedendo. Tu, là,» il mezzelfo fece segno al nano dei burroni, che li stava sbirciando da sotto il bancone di legno, «portaci una brocca di birra e dei boccali, del vino per Dama Crysania e delle patate speziate...»

Tanis ristette; il nano dei burroni lo stava fissando in preda alla confusione, gli occhi sgranati, la bocca spalancata e penzolante per lo sconcerto.

«Meglio che vada a prenderli io, Tanis,» si offrì Dezra, sorridendo. «È probabile che ti ritroveresti con una brocca di patate, se fosse Raf a occuparsene.»

«Me aiutare!» protestò Raf, indignato.

«Tu porta fuori la spazzatura!» gli intimò Dezra.

«Me grande aiuto...» borbottò Raf sconsolato mentre usciva strascicando i piedi, tirando un calcio alle gambe del tavolo per alleviare la sua sensibilità ferita.

«Le vostre stanze sono nella parte nuova della locanda,» mormorò Tika. «Ve le faccio vedere...»

«Le troveremo più tardi,» disse Riverwind con severità, ma quando guardò Tika i suoi occhi erano pieni di cortese comprensione. «Siediti e parla con Tanis, deve partire al più presto.»

«Maledizione, il mio cavallo!» esclamò Tanis, balzando in piedi all’improvviso. «Avevo chiesto al ragazzo di portarlo fuori...»

«Vado io,» si offrì Riverwind.

«No, faccio io. Mi ci vorrà soltanto un momento...»

«Amico mio,» disse Riverwind con voce sommessa passandogli accanto, «ho bisogno di stare all’aria aperta! Tornerò per aiutarti a...» Indicò con un cenno del capo Caramon che russava.

Tanis tornò a sedersi, sollevato. L’uomo delle pianure se ne andò. Crysania si sedette accanto a Tanis sul lato opposto della stanza, fissando perplessa Caramon. Tanis continuò a parlare con Tika di questioni di poco conto, fino a quando lei non fu in grado di risollevarsi a sedere e perfino di accennare a un sorriso. Quando Dezra ritornò con le bevande, Tika parve più rilassata, anche se il suo volto era ancora tirato e teso. Tanis notò che Crysania quasi non toccava il suo vino. Si limitava a starsene seduta, lanciando delle occasionali occhiate a Caramon. Il solco scuro era riapparso ancora una volta fra le sue sopracciglia. Tanis sapeva che avrebbe dovuto spiegarle quello che stava accadendo, ma voleva che prima qualcuno lo spiegasse a lui.

«Quand’è cominciata questa...» iniziò a dire con esitazione.

«Cominciata?» Tika sospirò. «Circa sei mesi dopo che eravamo ritornati qui.» Il suo sguardo andò a Caramon. «Era così felice, nei primi tempi. La città era un caos, Tanis. L’inverno era stato terribile per i sopravvissuti. La maggior parte di loro stava morendo di fame, i soldati draconici e i goblin avevano portato via tutto. Quelli le cui case erano state distrutte vivevano in qualunque rifugio fossero riusciti a trovare: caverne, catapecchie. Quando tornammo, i draconici avevano già abbandonato la città, e la gente aveva cominciato a ricostruire. Accolsero Caramon come un eroe: i bardi erano già passati di qua cantando le loro canzoni sulla sconfitta della Regina.»

Gli occhi di Tika si riempirono di lacrime luccicanti e del ricordo dell’orgoglio di allora.

«Per un po’ è stato così felice, Tanis. La gente aveva bisogno di lui. Lavorava giorno e notte tagliando alberi, trasportando il legname dalle montagne, erigendo case. Si era messo perfino a lavorare come fabbro, dal momento che Theros non c’era più. Oh, non era molto bravo!» Tika esibì un triste sorriso. «Ma era felice e nessuno ci badava. Fabbricava chiodi e ferri di cavallo e ruote per i carri. Quel primo anno fu buono per noi... davvero buono. Ci eravamo sposati e Caramon pareva essersi dimenticato di... di...» Tika deglutì. Tanis le batté sulla mano e, dopo aver mangiato un po’ e bevuto un po’ di vino in silenzio, Tika fu in grado di continuare:

«Ma un anno fa, in primavera, ogni cosa cominciò a cambiare. A Caramon successe qualcosa. Non sono sicura di cosa fosse. Aveva qualcosa a che fare con...» s’interruppe, scosse la testa. «La città era prospera. Un fabbro che era stato tenuto prigioniero a Pax Tharkas si trasferì qui e rilevò il suo lavoro. Oh, la gente aveva ancora bisogno che venissero costruite case, ma non c’era fretta. Io presi in mano la gestione della locanda.» Tika scrollò le spalle. «Immagino che Caramon si sia trovato con troppo tempo a sua disposizione.»

«Nessuno aveva bisogno di lui,» commentò Tanis, scuro in volto.

«Neppure io...» disse Tika, deglutendo e asciugandosi gli occhi. «Forse è colpa mia...»

«No,» replicò Tanis, i suoi pensieri e i suoi ricordi erano molto lontani. «Non colpa tua, Tika. Credo che sappiamo di chi è la colpa.»

«Comunque,» Tika tirò un profondo respiro, «ho cercato di aiutarlo, ma avevo talmente da fare qui... Ho suggerito ogni genere di cose in cui poteva impegnarsi, e lui ci ha provato, ci ha provato sul serio. Ha aiutato il poliziotto del posto a braccare i draconici rinnegati. Per un po’ ha fatto da guardia del corpo, facendosi assoldare dalla gente che viaggiava fino ad Haven. Ma nessuno lo ha mai assunto due volte.» Abbassò la voce. «Poi, un giorno, lo scorso inverno, il gruppo che lui avrebbe dovuto proteggere tornò indietro trascinandolo su una slitta. Era ubriaco fradicio. Avevano finito per essere loro a proteggere lui! Da allora ha passato tutto il suo tempo a dormire, o a mangiare, o a trovarsi con alcuni ex mercenari al Trough, quel sudicio locale all’altro capo della città.»

Desiderando ardentemente che Laurana si trovasse là a discutere di quella faccenda, Tanis suggerì a bassa voce: «Forse un... uhm... un bambino?»

«Ero incinta, l’estate scorsa,» replicò Tika con voce atona, appoggiando la testa sulla mano. «Ma non per molto. Ho abortito. Caramon non l’ha neppure mai saputo. Da allora...» abbassò lo sguardo sulla superficie di legno del tavolo, «... be’, non abbiamo più dormito nella stessa stanza.»

Arrossendo per l’imbarazzo, Tanis non potè fare altro che accarezzarle la mano e cambiare in fretta argomento. «Un momento fa hai detto che aveva qualcosa a che fare con... con che cosa?»

Tika rabbrividì. Poi trangugiò un altro sorso di vino. «Le voci cominciarono allora, Tanis,» riprese a voce bassa. «Voci tenebrose. Puoi indovinare a chi si riferivano!»

Tanis annuì.

«Caramon gli scrisse, Tanis. Ho visto la lettera. Era... mi ha lacerato il cuore. Non una sola parola di biasimo o di rimprovero. Era piena d’amore! Pregava il suo fratellino di tornare, di venire a vivere con noi. Lo implorava di voltare le spalle all’oscurità.»

«E cosa successe?» chiese Tanis, anche se aveva già indovinato la risposta.

«La lettera tornò indietro,» bisbigliò Tika. «Non era stata aperta. Il sigillo non era stato neppure strappato. E all’esterno era scritto: “Non ho nessun fratello. Non conosco nessuno che si chiami Caramon”. Ed era firmata Raistlin.»

«Raistlin!» Crysania guardò Tika, come se la vedesse per la prima volta, i suoi occhi grigi si erano spalancati per la sorpresa mentre passavano dalla giovane donna dai capelli rossi a Tanis, e poi al gigantesco guerriero sul pavimento, che ruttava, a proprio agio nel suo sonno di ubriaco.

«Caramon... Costui è Caramon Majere! Questo è suo fratello? Il gemello di cui mi parlavi? L’uomo che poteva condurmi...»

«Mi spiace, Reverenda Figlia,» disse Tanis, arrossendo. «Non avevo nessuna idea che lui...»

«Ma Raistlin è così... intelligente, potente. Pensavo che il suo gemello gli somigliasse. Raistlin è sensibile, esercita un controllo così forte su se stesso e su quelli che lo servono! È un perfezionista, mentre costui...» Crysania fece un gesto. «Questo patetico relitto, pur meritando la nostra pietà e le nostre preghiere, è...»

«Il tuo “sensibile e intelligente perfezionista” ha posto mano nel trasformare quest’uomo nel “patetico relitto” che tu vedi, Reverenda Figlia,» replicò Tanis, in tono acido, facendo attenzione a tenere la collera sotto controllo.

«Forse è stato il contrario,» disse Crysania, fissando Tanis con freddezza. «Forse è stato per mancanza di amore che Raistlin ha voltato le spalle alla luce per incamminarsi nel buio.»

Tika sollevò lo sguardo su Crysania. C’era una strana espressione nei suoi occhi. «Mancanza di amore?» ripetè con gentilezza. Caramon gemette nel sonno e cominciò a dimenarsi sul pavimento.

Tika balzò in piedi.

«Faremo meglio ad accompagnarlo a casa.» Sollevò lo sguardo, vide l’alta figura di Riverwind comparire sulla soglia, poi si rivolse a Tanis. «Ti rivedrò domattina, vero? Non potresti rimanere, anche soltanto per questa notte?»

Tanis guardò i suoi occhi imploranti e gli venne voglia di troncarsi la lingua con un morso prima di rispondere. Ma non c’era niente che potesse fare. «Mi spiace, Tika,» disse, afferrandole le mani.

«Vorrei poterlo fare, ma devo andare. È una lunga cavalcata da qui fino a Qualinost, e non oso arrivare in ritardo. Forse il destino di due regni dipende dalla mia presenza laggiù.»

«Capisco,» disse Tika con voce sommessa. «Comunque, questo non è il tuo problema. Me la caverò.»

Tanis avrebbe voluto strapparsi la barba per la frustrazione. Smaniava dal desiderio di rimanere e di aiutarla, sempre che avesse potuto aiutarla. Per lo meno avrebbe potuto parlare a Caramon per cercare di far entrare un po’ di buon senso in quel suo craniaccio. Ma Porthios l’avrebbe preso per un affronto personale se lui non fosse intervenuto al funerale, il che non avrebbe influenzato soltanto il suo rapporto personale con il fratello di Laurana, ma avrebbe proiettato un’ombra sul trattato di alleanza il cui negoziato era in corso fra Qualinesti e Solamnia.

E poi, quando i suoi occhi si posarono su Crysania, Tanis si rese conto di avere un altro problema.

Gemette dentro di sé. Non poteva condurla a Qualinost. Porthios non sapeva che farsene dei chierici umani.

«Ascolta,» disse Tanis all’improvviso, facendosi venire un’idea. «Tornerò dopo il funerale.» Gli occhi di Tika s’illuminarono. Si voltò verso Dama Crysania. «Ti lascerò qui, Reverenda Figlia,» continuò Tanis. «Sarai al sicuro in questa città, nella locanda. Poi ti scorterò nuovamente fino a Palanthas, dal momento che il tuo viaggio è fallito...»

«Il mio viaggio non è fallito,» dichiarò Crysania in tono risoluto. «Continuerò come ho cominciato. Intendo raggiungere la Torre della Grande Stregoneria a Wayreth, per tener consiglio colà, con Par-Salian delle Vesti Bianche.»

Tanis scosse la testa. «Io non posso portarti fin là,» disse. «Ed è ovvio che Caramon ne è incapace. Perciò suggerisco...»

«Sì,» lo interruppe Crysania, condiscendente. «È chiaro che Caramon è inabile. Perciò aspetterò che quel vostro amico kender arrivi qui, per incontrarmi con la persona che è stato mandato a cercare, poi continuerò il viaggio da sola.»

«Assolutamente no!» urlò Tanis. Riverwind sollevò le sopracciglia per ricordare a Tanis con chi stava parlando. Con uno sforzo, il mezzelfo recuperò il controllo. «Mia signora, non hai nessuna idea dei pericoli. Oltre a quelle creature tenebrose che ci hanno inseguito - e credo che tutti noi sappiamo chi le ha mandate - ho ascoltato le storie di Caramon sulla Foresta di Wayreth. È ancora più buia! Torneremo a Palanthas, troverò dei cavalieri...»

Per la prima volta Tanis vide una pallida macchia di colore disegnarsi sulle guance di marmo di Crysania. Le sue nere sopracciglia si contrassero mentre sembrava riflettere. Poi il suo volto si schiarì. Sollevando lo sguardo su Tanis, sorrise.

«Non c’è nessun pericolo,» disse. «Io sono nelle mani di Paladine. Le creature delle tenebre potranno anche essere state mandate da Raistlin, ma non hanno alcun potere di far del male a me! Sono servite soltanto a rafforzare la mia decisione.» Vedendo il volto di Tanis che s’incupiva sempre più, sospirò. «Ti prometto questo. Ci penserò. Forse hai ragione. Forse il viaggio è troppo pericoloso...»

«È una perdita di tempo,» mormorò Tanis, il dolore e la fatica lo inducevano a dire con franchezza ciò che aveva provato sin dall’inizio del folle piano di quella donna. «Se Par-Salian avesse potuto distruggere Raistlin, l’avrebbe fatto già da molto tempo...»

«Distruggere!» Crysania guardò Tanis scioccata, i suoi occhi grigi erano di ghiaccio. «Non cerco la sua distruzione.»

Tanis la fissò sbalordito.

«Sto cercando di recuperarlo» proseguì Crysania. «Adesso andrò nelle mie stanze, se qualcuno vuol essere così gentile da condurmici.»

Dezra si affrettò a farsi avanti. Con calma, Crysania augurò a tutti loro la buona notte, poi seguì Dezra fuori della sala. Tanis la seguì con lo sguardo, del tutto incapace di spiccicar parola. Sentì Riverwind borbottare qualcosa in queshu. Poi Caramon gemette di nuovo. Riverwind diede una gomitata a Tanis. Insieme si chinarono sull’addormentato Caramon e, con uno sforzo, sollevarono in piedi l’omone.

«In nome dell’Abisso, se pesa!» Tanis rantolò, barcollando sotto il peso morto mentre le braccia flaccide di Caramon gli penzolavano da sopra le spalle. Il fetore dello spirito dei nani semidigerito lo fece quasi vomitare.

«Come può bere quella roba?» chiese Tanis a Riverwind, mentre trascinavano l’ubriaco fino alla porta. Tika li seguiva piena d’ansia.

«Dovrei rimanere...» mormorò Tanis.

«Non puoi combattere un’altra battaglia, amico mio,» dichiarò con fermezza Riverwind.

«Specialmente quando è fra un uomo e la propria anima.»

Era passata mezzanotte quando Tanis e Riverwind finalmente riuscirono a portare a casa Caramon, scaricandolo senza tante cerimonie sul suo letto. Tanis non si era mai sentito tanto stanco in vita sua. Le spalle gli facevano male per aver trasportato il peso morto del gigantesco guerriero. Era esausto e si sentiva svuotato, i suoi ricordi del passato - un tempo piacevoli - adesso erano come vecchie ferite, aperte e sanguinanti. E doveva cavalcare ancora per ore prima dell’alba.

«Vorrei poter rimanere,» ripetè di nuovo a Tika, mentre sostavano insieme a Riverwind fuori della porta, contemplando la pacifica e sonnacchiosa città di Solace. «Mi sento responsabile...»

«No, Tanis,» disse Tika in tono pacato. «Riverwind ha ragione. Non puoi combattere questa guerra. Adesso devi vivere la tua vita. Inoltre non c’è niente che tu possa fare. Puoi soltanto peggiorare le cose.»

«Suppongo di sì.» Tanis corrugò la fronte. «Tornerò fra una settimana. Allora ne parlerò a Caramon.»

«Questo sarebbe simpatico,» sospirò Tika. Poi, dopo una pausa, cambiò argomento. «A proposito, che cosa voleva dire Dama Crysania quando ha accennato all’arrivo di un kender? Tasslehoff?»

«Sì,» disse Tanis, grattandosi la barba. «Ha qualcosa a che fare con Raistlin, anche se non sono sicuro di che cosa si tratti. Abbiamo incontrato Tas a Palanthas. Ha cominciato a raccontarci una delle sue storie - ho avvertito Crysania che soltanto la metà di quello che dice è vero, e anche quella metà sono insensatezze, ma è probabile che lui sia riuscito a convincerla a mandarlo alla ricerca di una persona che lei pensa possa aiutarla a recuperare Raistlin!»

«Quella donna potrà anche essere un sacro chierico di Paladine,» dichiarò Riverwind con severità,

«e possano gli dei perdonarmi se parlo male di uno dei loro prescelti, ma io penso che sia matta.»

Fatta che ebbe questa dichiarazione, si mise l’arco a tracolla e si apprestò a partire.

Tanis scosse la testa. Mettendo un braccio sulla spalla di Tika, la baciò. «Temo che Riverwind abbia ragione,» le disse con voce sommessa. «Tieni d’occhio Dama Crysania mentre è ospite qui da noi. Farò una chiacchierata su di lei con Elistan, quando torneremo. Mi chiedo quanto in realtà sapesse di questo suo piano avventato. Oh, e se Tasslehoff si farà vivo, trattienilo qui, per favore. Non voglio che mi compaia a Qualinost! Già senza di lui avrò abbastanza problemi con Porthios e gli elfi!»

«Certo, Tanis,» rispose Tika con voce sommessa. Per qualche istante si strinse a lui, lasciandosi confortare dalla sua forza e dalla compassione che poteva percepire nel suo tocco e nella sua voce.

Tanis esitò, tenendola a sé, riluttante a lasciarla andare. Lanciando un’occhiata all’interno della piccola casa, poteva sentire Caramon che piagnucolava nel sonno.

«Tika...» cominciò a dire.

Ma lei lo spinse via. «Vai, Tanis,» gli disse con voce ferma. «Ti attende una lunga cavalcata.»

«Tika, vorrei...». Ma non c’era niente che lui potesse dire per aiutarla, e lo sapevano tutti e due.

Voltandosi lentamente, Tanis si avviò con passo pesante dietro a Riverwind.

Seguendolo con lo sguardo mentre si allontanava, Tika sorrise.

«Sei molto saggio, Tanis Mezzelfo. Ma questa volta ti sbagli,» disse fra sé mentre era lì sola, sulla veranda. «Dama Crysania non è matta. È innamorata.».

Capitolo quarto.

Un esercito di nani stava marciando nella camera da letto, i loro stivali dalle suole d’acciaio facevano TONF TONF TONF. Ognuno dei nani aveva un martello in mano e, passando accanto al letto, lo picchiava sulla testa di Caramon. Caramon gemette e sbatté le mani in aria, debolmente.

«Andate via!» borbottò. «Andate via!»

Ma i nani si limitarono a rispondere sollevando il letto sulle loro spalle robuste e facendolo ruotare sempre più veloce, mentre continuavano a marciare, sbattendo i loro stivali sull’assito, TONF

TONF TONF.

Caramon si sentì afferrare da un conato di vomito. Dopo parecchi tentativi disperati riuscì a balzar fuori dal letto turbinante e a precipitarsi con movimenti goffi verso il vaso da notte che si trovava in un angolo della Camera. Dopo aver vomitato, si sentì meglio. Gli si erano schiarite le idee. i nani erano scomparsi, anche se sospettò che si fossero nascosti sotto il letto in attesa che lui tornasse a coricarsi.

Invece aprì un cassetto del minuscolo comodino dove teneva la sua fiaschetta di spirito dei nani.

Scomparsa! Caramon corrugò la fronte, così, Tika aveva ricominciato con quel gioco, vero?

Sorridendo compiaciuto, Caramon raggiunse barcollando la grande cassapanca sull’altro lato della stanza. Sollevò il coperchio e frugò in mezzo alle tuniche, ai calzoni e alle camicie che non erano più in grado di contenere il suo corpo inflaccidito. Eccola là, ficcata dentro un vecchio stivale.

Caramon tirò fuori la fiaschetta con amore, inghiottì un sorso di quel liquore di fiamma, ruttò ed esalò un sospiro. Ecco, il martellio nella sua testa era scomparso. Lanciò un’occhiata tutt’intorno.

Che i nani restassero pure sotto il letto. Non gliene importava.

Dall’altra stanza giunse un tintinnio di vasellame. Tika! In fretta e furia Caramon trangugiò un altro sorso, poi chiuse la piccola fiasca e la ricacciò dentro lo stivale. Chiuse il coperchio della cassapanca senza fare il minimo rumore, si raddrizzò, si passò una mano tra i capelli arruffati, e fece per uscire nella zona del soggiorno. Poi s’intravide nello specchio mentre passava.

«Devo cambiarmi la camicia,» borbottò con voce impastata.

Dopo essersi dimenato a lungo e aver tirato a tutto spiano, si sfilò la camicia sudicia che aveva addosso e la buttò in un angolo. Forse avrebbe dovuto lavarsi? Bah! Che cos’era... una donnicciola?

D’accordo, puzzava - era un odore di maschio. Un mucchio di donne lo trovavano attraente! Loro non si lamentavano né lo rimbrottavano mai, non come Tika. Perché lei non poteva prenderlo così com’era? Lottando per infilarsi la camicia pulita che aveva trovato ai piedi del letto, Caramon si sentì dispiaciuto per se stesso. Nessuno lo capiva... la vita era dura... adesso stava passando un brutto momento... ma le cose sarebbero cambiate... bastava aspettare... un giorno, domani, forse...

Uscendo dalla stanza con passo barcollante, cercando di apparire indifferente, Caramon attraversò con passo incerto il soggiorno pulito e ordinato e crollò su una sedia della sala da pranzo. La sedia scricchiolò sotto il suo corpo massiccio. Tika si voltò.

Cogliendo il suo sguardo, Caramon sospirò. Tika era pazza, di nuovo. Cercò di sorriderle, ma fu un sorriso malato e non servì. Con i riccioli rossi che rimbalzavano per la collera, Tika si girò di scatto e scomparve attraverso una porta che dava sulla cucina. Caramon sussultò quando udì uno sbatacchiare di pesanti pentole di ferro. Quel frastuono fece ritornare i nani e i martelli. Qualche istante dopo Tika ricomparve portando un gigantesco piatto di bacon sfrigolante, focaccine di granoturco fritte, e uova. Gli mise davanti il piatto sbattendolo giù con tanta forza che le focaccine schizzarono in aria fino a un’altezza di tre pollici.

Caramon sussultò di nuovo. Si chiese per un breve istante se fosse il caso di mangiare, vista la nausea che provava alla bocca dello stomaco poi, di malumore, ricordò al suo stomaco chi era il capo. Si sentiva morire dalla fame, non riusciva a ricordare quando avesse mangiato l’ultima volta.

Tika si lasciò cadere su una sedia accanto a lui. Sollevando lo sguardo, Caramon vide lampeggiare i suoi occhi verdi. Le lentiggini risaltavano con chiarezza sullo sfondo della sua pelle, un segno certo del suo furore.

«D’accordo,» grugnì Caramon, cacciandosi il cibo a palate in bocca. «Adesso che cosa debbo fare?»

«Non te lo ricordi.» Era un’affermazione.

Caramon scandagliò frettolosamente le regioni nebbiose della sua mente. Qualcosa si agitò incerto.

La sera prima avrebbe dovuto essere da qualche parte. Era rimasto a casa tutta la giornata per prepararsi. L’aveva

promesso a Tika... ma aveva cominciato ad avere sete. La sua fiasca era vuota. Era andato giù al Trough per un rapido bicchierino, poi a... dove... perché...

«Dovevo occuparmi di una faccenda,» disse Caramon, evitando lo sguardo di Tika.

«Sì, abbiamo visto la tua faccenda», sbottò Tika con amarezza. «La faccenda che ti ha fatto perdere i sensi proprio ai piedi di Tanis!»

«Tanis.» Caramon lasciò cadere la forchetta. «Tanis, ieri sera...». Con un gemito affranto, l’omone lasciò cadere fra le mani la testa dolorante.

«Hai dato proprio un bello spettacolo di te stesso,» continuò Tika, con voce soffocata. «Davanti a tutta la città, più la metà degli elfi di Krynn. Per non parlare dei nostri vecchi amici.» Adesso piangeva sommessamente. «I nostri migliori amici...»

Caramon gemette di nuovo. Adesso piangeva anche lui. «Perché? Perché?» piagnucolò. «Tanis, più di tutti...». Le sue autorecriminazioni vennero interrotte da un bussare alla porta d’ingresso.

«Adesso che cosa c’è?» borbottò Tika, alzandosi e asciugandosi le lacrime con la manica della camicetta. «Forse è Tanis, malgrado tutto.» Caramon sollevò la testa. «Cerca per lo meno di apparire come l’uomo che eri un tempo,» disse Tika fra i denti mentre si affrettava verso la porta.

Tirando il saliscendi, l’aprì. «Otik!» esclamò, stupefatta. «Cosa... Per chi è quel cibo?»

L’anziano e panciuto locandiere era in piedi sulla soglia, con un piatto di cibo fumante in mano.

Sbirciò al di là di Tika.

«Lei non è qui?» chiese, sorpreso.

«Chi?» rispose Tika, confusa. «Qui non c’è nessuno.»

«Oh, cielo.» Il volto di Otik si fece solenne. Con aria assente cominciò a mangiare le pietanze sul piatto. «Allora immagino che lo stalliere “vesse ragione. Se n’è andata. E io che le avevo preparato questa bella colazione.»

«Chi se n’è andata?» insistè Tika, esasperata chiedendosi se non intendesse Dezra.

«Dama Crysania. Non è nella sua stanza. E non ci sono neppure le sue cose. E lo stalliere ha detto che era venuta, stamattina, gli aveva detto di sellare il cavallo, e poi se n’era andata. Pensavo...»

«Dama Crysania!» rantolò Tika. «È partita, da sola. Certo che lo avrebbe fatto...»

«Cosa?» chiese Otik, sempre masticando.

«Niente,» disse Tika, pallida in volto. «Niente, Otik. Uh, farai meglio a tornare alla locanda. Io... io farò un po’ tardi, oggi.»

«Sicuro, Tika,» replicò Otik con gentilezza, avendo visto Caramon Curvo sopra il tavolo. «Vieni quando puoi.» Poi si allontanò, continuando a mangiare mentre camminava. Tika chiuse la porta alle sue spalle.

Vedendo Tika che tornava e sapendo di doversi aspettare una predica, Caramon balzò in piedi con movimenti impacciati. «Non mi sento troppo bene,» dichiarò. Attraversando la stanza con passo barcollante entrò in camera da letto, sbattendosi la porta dietro le spalle. Tika potè udire, proveniente dall’interno, il suono di laceranti singhiozzi.

Si sedette al tavolo, riflettendo. Dama Crysania se n’era andata. Avrebbe trovato da sola la Foresta di Wayreth. O meglio, era andata a cercarla. Nessuno la trovava mai, stando alla leggenda. Era la Foresta che ti trovava! Tika rabbrividì, ricordando le storie di Caramon. La temuta foresta appariva sulle mappe ma, confrontandole fra loro, non c’erano due mappe che fossero d’accordo sulla sua posizione. E accanto ad essa c’era sempre il simbolo del pericolo. Al suo centro s’innalzava la Torre della Grande Stregoneria di Wayreth, dove tutto il potere dei maghi di Ansalon si trovava adesso concentrato. Be’, quasi tutto...

Prendendo una decisione improvvisa, Tika balzò in piedi e aprì di colpo la porta della camera da letto. Entrando, trovò Caramon lungo disteso sul letto, che singhiozzava e piagnucolava come un bambino. Indurendo il proprio cuore per resistere a quella scena pietosa, Tika raggiunse con passo fermo la grande cassapanca dei vestiti. Dopo che ebbe sollevato il coperchio, cominciando a frugare tra gli indumenti, trovò la fiasca, ma si limitò a buttarla in un angolo della stanza. Poi, proprio in fondo, trovò quello che aveva cercato.

L’armatura di Caramon.

Sollevando un cosciale per la sua cinghia di cuoio, Tika si alzò in piedi e, voltandosi, buttò il metallo lucido addosso a Caramon.

Il cosciale lo colpì alla spalla, rimbalzò e cadde sul pavimento con un rumoroso sferragliare.

«Ouch!» gridò l’omone, rizzandosi a sedere. «In nome dell’Abisso, Tika! Lasciami solo per...»

«Tu le andrai dietro,» disse Tika con fredda decisione, tirando fuori un altro pezzo di armatura e sollevandolo in alto. «Le andrai dietro, anche se mi trovassi costretta a portarti fuori di qui con una carriola!»

«Uh, voglia scusarmi,» disse un kender a un uomo che stava oziando vicino al bordo della strada alla periferia di Solace. L’uomo strinse all’istante la mano sulla propria borsa. «Sto cercando la casa di un mio amico. Oh, in effetti si tratta di due miei amici. Uno dei due è una donna graziosa, con i riccioli rossi. Si chiama Tika Waylan...»

Fissando furibondo il kender, l’uomo sollevò di scatto un pollice. «Laggiù, da quella parte.»

Tas guardò. «Laggiù?» disse, indicando a sua volta, impressionato. «Quella magnifica casa sul nuovo albero di vallen?»

«Cosa?». L’uomo se ne uscì in una breve risata tagliente. «Com’è che la chiami? Magnifica? Questa sì che è buona.» Sempre ridacchiando, si allontanò, contando allo stesso tempo in fretta e furia le monete nella sua borsa.

Maleducato! pensò Tas, infilando distrattamente il coltello da tasca dell’uomo in qualche segreto ricettacolo dei propri indumenti. Poi, dimenticando subito l’incidente, il kender si avviò verso la casa di Tika. Il suo sguardo si soffermò con amorevolezza su ogni particolare della bella casa saldamente annidata in mezzo ai rami del vallen ancora in crescita.

«Sono così contento per Tika,» osservò Tas a quello che sembrava un mucchio di cenci dotato di piedi che camminava al suo fianco. «E anche per Caramon,» aggiunse. «Ma Tika non ha mai avuto per davvero una casa tutta sua. Come dev’essere orgogliosa! »

Quando si avvicinò alla casa, Tas vide che era una delle migliori costruzioni della città. Era stata costruita secondo il tradizionale stile di Solace. Le delicate volte dei frontoni erano sagomate così da apparire parte dell’albero medesimo. Ciascuna stanza si protendeva fuori dal corpo principale della casa, il legno delle pareti era scolpito e lucidato così da assomigliare al tronco di un albero. La struttura stessa si rifaceva, nel suo complesso, alla forma di un albero, una pacifica armonia esisteva tra l’opera dell’uomo e quella della natura, creando un insieme piacevole. Tas sentì un gradevole calore nel proprio cuore, nel pensare ai suoi due amici che lavoravano e vivevano in un’abitazione così bella. Poi...

«È strano,» disse Tas, parlando tra sé, «chissà perché non c’è il tetto.»

Mentre si avvicinava, guardando la casa con maggior attenzione, si accorse che mancavano non poche cose - fra queste un tetto, appunto. In effetti i grandi frontoni a volta non formavano altro che l’intelaiatura per un tetto che non c’era. Le pareti delle stanze si stendevano soltanto in parte lungo il perimetro dell’edificio. Il pavimento era soltanto una piattaforma spoglia.

Fermandosi subito sotto di essa, Tas sbirciò verso l’alto, chiedendosi Cosa mai stesse succedendo.

Poteva vedere martelli, asce e seghe sparpagliati lì all’aperto, lasciati ad arrugginire. Dal loro aspetto si deduceva che non venivano usati da mesi. La struttura stessa mostrava gli effetti di una lunga esposizione alle intemperie. Tas si tirò pensierosamente il ciuffo, quell’edifìcio aveva tutte le qualifiche per essere la più bella struttura di Solace, semmai fosse stato finito!

Poi Tas si ravvivò. Una sezione della casa era finita. Tutti i vetri erano Stati accuratamente installati nei telai delle finestre, le pareti erano intatte, un tetto proteggeva la stanza dagli elementi atmosferici. Per lo meno Tika aveva una stanza tutta sua, pensò il kender. Ma, non appena ebbe studiata la stanza con maggior attenzione, il suo sorriso scomparve. Poteva infatti vedere con chiarezza che sopra la porta, malgrado le intemperie lo avessero un po’ appannato, spiccava il marchio accuratamente lavorato che denotava la residenza di uno stregone.

«Avrei dovuto saperlo,» disse Tas, scuotendo la testa. Lanciò un’occhiata intorno. «Insomma, Tika e Caramon non possono certo abitare qui. Ma quell’uomo ha detto... Oh.»

Mentre camminava intorno al gigantesco vallen, Tas s’imbattè in una casetta quasi smarrita in mezzo alle erbacce troppo cresciute, nascosta dalla grande ombra dell’albero. Era ovvio che era stata costruita soltanto come abitazione temporanea, ma aveva l’aria di essere diventata fin troppo permanente. Se mai c’era un edificio che poteva apparire squallido, rifletté Tas, era proprio quello. I suoi frontoni erano afflosciati al punto da apparire accigliati. La pittura era crepata e scrostata.

Comunque, c’erano ancora fiori nelle cassette alle finestre e tendine di trine. Il kender sospirò. Così, era quella la casa di Tika, costruita all’ombra di un sogno.

Si avvicinò alla casetta e si fermò fuori dalla porta, ascoltando con attenzione. All’interno si udiva il più orrendo subbuglio. Poteva udire una serie ininterrotta di tonfi e il rumore di vetri che andavano in frantumi, e passi rimbombanti.

«Credo che farai meglio ad aspettare qua fuori,» disse Tas al fagotto di cenci.

Il fagotto grugnì e si accovacciò comodamente sulla strada fangosa, accanto alla casetta. Tas lo fissò incerto, poi scrollò le spalle e tornò ad avvicinarsi alla porta. Mise una mano sulla maniglia, la girò e fece un passo avanti, fiducioso di poter entrare. Invece andò a sbattere il naso contro il legno.

La porta era chiusa a chiave.

«È strano,» mormorò Tas, facendo un passo indietro e guardandosi intorno. «Cos’è venuto in mente a Tika? Mettersi a chiudere le porte a chiave... che barbarie! E un catenaccio per giunta. Sono sicuro che mi aspettavano...». Fissò con aria cupa la serratura. All’interno le urla e le grida non erano cessate. Gli parve di udire la voce profonda di Caramon.

«Pare che stia davvero succedendo qualcosa d’interessante là dentro.» Tas si guardò intorno, e si sentì subito incoraggiato. «La finestra! Naturalmente!»

Ma, nel l’affrettarsi verso la finestra, Tas scoprì che anche quella era chiusa! «Non mi sarei mai aspettato una cosa del genere da parte di Tika, fra tutte le persone che conosco,» commentò fra sé con tristezza il kender. Studiando la serratura notò che era di tipo semplice: sarebbe stato facile aprirla. Dalla serie di arnesi che aveva in borsa, Tas tirò fuori lo scassinaserrature che appartiene a ogni kender per diritto di nascita. Lo inserì, poi lo torse con mano esperta ed ebbe la soddisfazione di sentire la serratura che faceva clic. Sorridendo felice aprì con una spinta il pannello di vetro e strisciò dentro. Cadde sul pavimento senza produrre il benché minimo rumore. Sbirciando dietro di sé attraverso la finestra vide il fagotto informe appisolato nel rigagnolo.

Confortato su quel punto, Tasslehoff ristette per dare un’occhiata alla casa, i suoi occhi acuti videro ogni cosa, le sue mani toccarono ogni cosa.

«Cielo, questo sì che è interessante,» disse Tas, proseguendo il suo interminabile commento mentre si avvicinava a una porta chiusa da oltre la quale giungevano gli schianti. «A Tika non dispiacerà se lo studio per un momento. Lo rimetterò subito al suo posto.» L’oggetto ruzzolò come per volontà propria dentro la sua borsa. «E guarda questo! Uh-oh, è crepato. Tika mi ringrazierà quando glielo dirò.» L’oggetto scivolò dentro un’altra delle sue tasche. «E cosa ci fa qua, il piatto del burro? Sono sicuro che Tika lo terrebbe nella dispensa. Farò meglio a rimetterlo nel posto che gli si addice.» Il burro finì in una terza tasca.

A questo punto Tas aveva raggiunto la porta chiusa. Girò la maniglia (provò una viva gratitudine nello scoprire che Tika non aveva chiuso a chiave anche quella porta) ed entrò.

«Ehi!» esclamò in tono allegro. «Vi ricordate di me? Ah, questo sembra divertente. Posso giocare anch’io? Dai qualcosa anche a me da tirargli addosso, Tika. Ciao, Caramon.» Tas entrò nella camera da letto e si avvicinò a Tika che, con un pettorale in mano, lo stava fissando con profondo stupore.

«Che cosa avete?... siete spaventosi, proprio spaventosi! Dimmi, perché stiamo buttando addosso a Caramon l’armatura, Tika?» chiese Tas, prendendo in mano una cotta di maglia e girandosi verso il grosso guerriero che si era barricato dietro il letto. «È qualcosa che voi due fate regolarmente? Ho sentito dire che le coppie sposate fanno cose strane, ma questo mi pare davvero bizzarro...»

«Tasslehoff Burrfoot!» Tika aveva recuperato la favella. «In nome degli dei, che cosa ci fai, qui?»

«Diamine, sono sicuro che Tanis deve averti detto che sarei venuto,» disse Tas, scagliando la cotta di maglia addosso a Caramon. «Ehi! Questo sì che è divertente! Ho trovato la porta d’ingresso chiusa a chiave.» Tas le lanciò un’occhiata di rimprovero. «In effetti ho dovuto entrare dalla finestra, Tika,» le disse in tono severo. «Credo che dovresti avere più considerazione per la gente. Comunque, dovrei incontrare Dama Crysania qui da voi e...»

Con vivo stupore di Tas, Tika lasciò cadere il pettorale, esplose in lacrime e si accasciò sul pavimento. Il kender guardò in direzione di Caramon, il quale si stava risollevando da dietro il letto come uno spettro che sorgesse dalla tomba. Caramon se ne stette là immobile a fissare Tika con un’espressione smarrita e nostalgica. Poi si fece strada in mezzo ai vari pezzi di armatura che giacevano sparpagliati sul pavimento e s’inginocchiò accanto a lei.

«Tika,» bisbigliò patetico, battendole una mano sulla spalla. «Mi spiace. non intendevo dire tutte queste cose che ho detto, lo sai. Ti amo! Ti ho sempre amata. È soltanto che... non so che cosa fare!»

«TU sai che cosa fare!» urlò Tika, staccandosi da lui. Balzò in piedi. «Te l’ho appena detto! Dama Crysania è in pericolo. Devi raggiungerla!»

«Chi è questa Dama Crysania?» gridò Caramon in risposta. «Perché dovrebbe importarmi se è in pericolo oppure no?»

«Ascoltami una volta tanto in vita tua,» sibilò Tika a denti stretti. La rabbia le prosciugò le lacrime.

«Dama Crysania è un potente chierico di Paladine, uno dei più potenti al mondo, dopo Elistan. È stata avvertita in un sogno che il male di Raistlin potrebbe distruggere il mondo. Sta andando alla Torre della Grande Stregoneria a Wayreth per parlare a Par-Salian e...»

«... e ottenere l’aiuto necessario a distruggerlo, non è vero?» ringhiò Caramon.

«E se anche fosse questo?» avvampò Tika. «Merita forse di vivere? Ti ucciderebbe senza pensarci una seconda volta!»

Gli occhi di Caramon lampeggiarono pericolosamente, il suo volto s’imporporò. Tas deglutì, vedendo serrarsi il pugno dell’omone, ma Tika si avvicinò, fermandosi proprio davanti a lui.

Malgrado la sua testa arrivasse a malapena al mento di Caramon, a Tas parve che l’omone si facesse piccolo piccolo davanti alla sua collera. La sua mano si aprì, floscia.

«Ma no, Caramon,» disse Tika, con voce cupa. «È pazza tanto quanto lo sei tu. Ama tuo fratello, che gli dei la aiutino. Vuole salvarlo, vuole fargli voltare le spalle al male.»

Caramon fissò Tika in preda allo stupore. La sua espressione si ammorbidì.

«Davvero?» chiese.

«Sì, Caramon,» confermò Tika con stanchezza. «È per questo che è venuta qui ad incontrarti. Ha pensato che tu potessi essere in grado di aiutarla. Poi, ieri sera, quando ti ha visto...»

Caramon abbassò la testa. I suoi occhi si riempirono di lacrime. «Una donna, un’estranea, vuole aiutare Rais. E rischia la sua vita per farlo.» Ricominciò a piagnucolare.

Tika lo fissò esasperata. «Oh, per l’amore di... valle dietro, Caramon!» gridò, picchiando il piede sul pavimento. «Non raggiungerà mai da sola la Torre, lo sai! Tu hai attraversato la foresta di Wayreth.»

«Sì,» disse Caramon, tirando su col naso. «Ci sono stato con Rais. L’ho accompagnato là, in modo che potesse trovare la Torre e affrontare la Prova. Quella malefica Prova! Io l’ho protetto, aveva bisogno di me... allora.»

«E Crysania ha bisogno di te adesso!» esclamò Tika, ancora cupa. Caramon appariva tuttora indeciso, immobile, e Tas vide il volto di Tika irrigidirsi in linee dure e ferme. «Non hai molto tempo da perdere, se vuoi raggiungerla. Ricordi la strada?»

«Io la ricordo!» grido Tas tutto eccitato. «Vale a dire, ho una mappa.» E Tika e Caramon si voltarono a fissare il kender con stupore: entrambi si erano dimenticati della sua esistenza.

«Non so,» disse Caramon, fissando, scuro in volto, Tas. «Ricordo le tue mappe. Una ci ha condotto in un porto di mare che non aveva nessun mare!»

«Quella non è stata colpa mia!» gridò Tas indignato. «Perfino Tanis lo disse. La mia mappa era stata disegnata prima che arrivasse il Cataclisma e si portasse via il mare. Ma tu devi portarmi con te, Caramon! Devo incontrarmi con Dama Crysania. Mi aveva mandato a fare una cerca, ed io l’ho completata. Ho trovato...» un improvviso movimento attrasse l’attenzione di Tas, «oh, eccola qua.»

Agitò la mano e Tika e Caramon si girarono e videro l’informe fagotto di cenci in piedi sulla soglia della loro camera da letto. Soltanto che adesso al fagotto erano spuntati due occhi neri e sospettosi.

«Me affamata,» disse il fagotto rivolto a Tas, in tono di accusa. «Quando mangiamo?»

«Sono andato a cercare Bupu,» spiegò con orgoglio Tasslehoff Burrfoot.

«Ma in nome dell’abisso, cosa può volere Dama Crysania da una nana dei burroni?» esclamo Tika, completamente sconcertata. Condotta Bupu in cucina, le aveva dato un po’ di pane raffermo e mezzo formaggio, poi l’aveva mandata fuori: l’odore di una nana dei burroni non contribuiva per nulla a rendere una casa più confortevole. Bupu era tornata felice nel rigagnolo, dove aveva arricchito il suo pasto bevendo l’acqua d’una pozzanghera in mezzo alla strada.

«Oh, ho promesso che non l’avrei rivelato,» dichiarò Tas con aria d’importanza. Il kender stava aiutando Caramon ad affibbiarsi l’armatura: un compito piuttosto impegnativo, dal momento che l’omone era considerevolmente più grasso dell’ultima volta che l’aveva indossata. Sia Tika sia Tas finirono col trovarsi inzuppati di sudore, tirando cinghie, spingendo e pungolando i cuscinetti di grasso per convincerli a starsene al loro posto sotto il metallo.

Caramon grugnì e gemette, quasi il ritratto d’un uomo che venisse stirato sulla ruota della tortura.

L’omone si leccò le labbra e rivolse più d’una volta lo sguardo colmo di desiderio verso la camera da letto e la fiaschetta che con tanta indifferenza Tika aveva buttato in un angolo.

«Oh, suvvia, adesso, Tas,» lo blandì Tika, ben sapendo che il kender non sarebbe riuscito a mantenere un segreto neppure per salvarsi la vita. «Sono sicura che Dama Crysania non avrebbe niente da ridire...»

Il volto di Tas si contorse per l’angoscia. «Mi... mi ha fatto promettere e giurare su Paladine, Tika!». La faccia del kender divenne solenne. «E tu sai che Fizban, voglio dire Paladine, ed io siamo amici intimi.» Il kender fece una pausa. «Succhiati dentro la pancia, Caramon.» ordinò, irritato. «Ma come hai fatto a ridurti in queste condizioni?»

Appoggiando un piede sulla coscia dell’omone, Tas tirò. Caramon uggiolò per il dolore.

«Sono in forma,» borbottò rabbioso l’omone. «È l’armatura. Si è ristretta o qualcosa del genere.»

«Non sapevo che questo tipo di metallo si restringesse,» dichiarò Tas, con interesse. «Scommetto che bisogna scaldarlo! Come ci sei riuscito? Oppure da queste parti ha fatto caldo, ma caldo davvero?»

«Oh, chiudi il becco!» ringhiò Caramon.

«Cercavo soltanto di esserti di aiuto» disse Tas offeso. «Comunque... oh, a proposito di Dama Crysania.» Il suo volto assunse un’espressione altera. «Ho fatto il mio giuramento più sacro. Tutto quello che posso dire è che ha voluto che le raccontassi tutto quello che riuscivo a raccontare su Raistlin. E l’ho fatto. E ciò ha a che fare con questo. Dama Crysania è davvero una persona meravigliosa, Tika,» continuò Tas, con voce solenne. «Potresti non averlo notato, ma io non sono molto religioso. Di regola i kender non lo sono. Ma non c’è bisogno di essere religiosi per sapere che c’è qualcosa di davvero buono in Dama Crysania. Ed è anche sveglia. Forse anche più sveglia di Tanis.»

Gli occhi di Tas erano pieni d’importanza e di mistero. «Credo di potervi dire questo,» disse in un sussurro. «Ha un piano! Un piano per riuscire a salvare Raistlin! Bupu fa parte del piano. La sto portando da Par-Salian!»

Nell’udire questo, perfino Caramon parve dubbioso, e Tika cominciava a pensare fra sé e sé che forse Riverwind e Tanis avevano ragione. Forse Dama Crysania era pazza. Comunque, qualunque cosa potesse aiutare Caramon, che potesse servire a dargli una speranza...

Ma a quanto pareva Caramon aveva già elaborato le cose nella propria mente. «Sapete. È tutta colpa di questo Fis-Fistandudle o qualunque fosse il suo nome,» dichiarò, tirando con un certo disagio le cinghie di cuoio là dove mordevano la sua carne flaccida. «Sapete, quello che il mago, Fizban - ehm - Paladine ci ha raccontato. E anche Par-Salian ne sa qualcosa!». La sua faccia s’illuminò. «Sistemeremo tutto. Riporteremo qui Raistlin come abbiamo progettato, Tika! Potrà andare a vivere nella stanza che gli abbiamo preparato. Ci prenderemo cura di lui, tu ed io, nella nostra nuova casa. Starà benissimo, benissimo!». A Caramon luccicavano gli occhi. Tika non ce la faceva a guardarlo. Assomigliava così tanto al vecchio Caramon, il Caramon che lei aveva amato...

Mantenendo severa la propria espressione, Tika si girò di scatto e andò verso la camera da letto.

«Vado a prendere il resto delle tue cose...»

«Aspetta!» Caramon la fermò. «No... uh... grazie, Tika. Posso farcela da solo. Che ne diresti di, uh, di prepararci qualcosa da mangiare, da portar via?»

«Ti aiuto,» si offrì Tas, dirigendosi con slancio verso la cucina.

«Molto bene,» disse Tika. Allungando una mano, afferrò il kender per il ciuffo di capelli che gli ricadevano lungo la schiena. «Soltanto un momento, Tasslehoff Burrfoot. Non andrai da nessuna parte fino a quando non ti metterai seduto e non svuoterai ciascuna delle tue borse!»

Tas gemette una protesta. Approfittando della confusione, Caramon corse in camera da letto e chiuse la porta. Senza fermarsi, andò dritto all’angolo e recuperò la fiaschetta. Scuotendola, vide che era piena per più della metà. Sorridendo fra sé per la soddisfazione, la ficcò in fondo al suo zaino, poi in fretta e furia vi pigiò sopra altri indumenti.

«Adesso sono pronto a partire!» gridò a Tika con allegria.

«Sono pronto,» ripetè Caramon, fermandosi sconsolato sulla veranda.

Era, in verità, uno spettacolo ridicolo. L’armatura rubata che aveva indossato durante gli ultimi mesi della campagna era stata completamente rimessa a nuovo dal grosso guerriero quando aveva fatto ritorno a Solace. Caramon aveva lisciato le ammaccature, martellandole, aveva ripulito la superficie, l’aveva lucidata e rimodellata in modo così completo che non assomigliava più all’originale. Vi aveva profuso la massima cura, poi aveva impacchettato l’armatura e l’aveva messa via con molto amore. Era ancora in condizioni eccellenti. Soltanto che adesso, per sfortuna, c’era un grande spazio vuoto fra la scintillante cotta nera che copriva il petto e la grande cintura che cingeva la sua vita rotonda. Né lui né Tas erano stati capaci di affibbiare le piastre metalliche che proteggevano le sue gambe intorno alle cosce flaccide. Le aveva riposte nello zaino. Gemette quando sollevò il suo scudo e lo guardò insospettito, come se fosse certo che qualcuno l’avesse riempito di piombo durante gli ultimi due anni. La cintura della sua spada non voleva adattarsi al ventre cascante. Arrossendo furioso, si mise a tracolla la spada dentro il fodero logoro.

A questo punto Tas fu costretto a guardare da qualche altra parte. Il kender era convinto che sarebbe scoppiato a ridere, invece si scoprì sul punto di piangere.

«Sembro un imbecille,» borbottò Caramon, vedendo Tas che si affrettava a distogliere lo sguardo.

Bupu lo stava fissando con occhi grandi come tazze da tè e la bocca spalancata.

«Lui sembra come mio Highbulp, Phudge!» Poi sospirò.

Un vivo ricordo del grasso e trasandato re del clan dei nani dei burroni in Xak Tsaroth, si affacciò alla mente di Tas. Agguantando la nana dei burroni, le cacciò un pezzo di pane in bocca per farla stare zitta. Ma ormai il danno era fatto. A quanto pareva, anche Caramon se lo ricordava.

«Questo liquida la faccenda,» ringhiò, imporporandosi e scagliando lo scudo sul legno della veranda, dove sbatté e sferragliò rumorosamente. «Non andrò! Questa era comunque un’idea stupida!». Fissò Tika con sguardo accusatore poi, voltandosi, si diresse verso la porta. Ma Tika si mosse e gli si parò davanti.

«No,» disse con calma. «Non rientrerai in casa mia, Caramon, fino a quando non sarai tornato ad essere un uomo intero!»

«Lui molto più uguale a due uomini interi,» biascicò Bupu con voce soffocata. Tas le cacciò dell’altro pane in bocca.

«Quello che dici non ha senso!» sbottò Caramon, inferocito, calandole una mano sulla spalla.

«Togliti dalla mia strada, Tika! »

«Ascoltami, Caramon,» disse Tika. La sua voce era sommessa, ma penetrante; i suoi occhi colsero e trattennero l’attenzione dell’omone. Mettendogli la mano sul petto, sollevò lo sguardo ardente su di lui. «Una volta ti eri offerto di seguire Raistlin nella tenebra. Te ne ricordi?»

Caramon deglutì. Poi annuì in silenzio, pallido in volto.

«Lui rifiutò» continuò Tika con gentilezza, «dicendo che avrebbe significato la tua morte. Ma non capisci, Caramon... tu lo hai seguito nella tenebra! E stai morendo, lentamente, un po’ per volta!

Raistlin stesso ti aveva detto d’incamminarti per il tuo sentiero, e lasciare che lui percorresse il suo.

«Ma tu non l’hai fatto! Tu stai cercando di percorrere entrambi i sentieri, Caramon. Metà di te vive nella tenebra, e l’altra metà sta dimenticando con il bere l’orrore e il dolore che vedi in quel luogo.»

«È colpa mia!» cominciò a piagnucolare Caramon, con voce rotta. «È colpa mia se è diventato una Veste Nera. Sono stato io a spingerlo! È quello che Par-Salian ha cercato di farmi capire...»

Tika si morse un labbro. Tas potè vedere il suo volto incupirsi e irrigidirsi per la collera, ma riuscì a tenersela dentro. «Forse,» fu tutto quello che replicò. Poi tirò un profondo respiro. «Ma non tornerai da me come marito, o anche soltanto come amico, fino a quando non sarai di nuovo in pace con te stesso.»

Caramon la fissò, dando l’impressione di vederla per la prima volta. Il volto di Tika era fermo e risoluto, i suoi occhi verdi erano limpidi e freddi. D’un tratto Tas la ricordò mentre combatteva contro i draconici nel Tempio di Neraka durante quell’ultima orribile notte della guerra. Allora, gli era apparsa com’era adesso.

«Forse non succederà mai,» disse Caramon, scontroso. «Ci hai mai pensato... uh... mia bella signora?»

«Sì,» replicò Tika con voce ferma. «Ci ho pensato. Addio, Caramon.»

Voltando le spalle a suo marito, Tika riattraversò la porta della propria casa e la chiuse a chiave.

Tas sentì il catenaccio che s’incastrava al suo posto con un clic. Anche Caramon lo sentì e trasalì a quel suono. Strinse gli enormi pugni e per un attimo Tas temette che potesse sfondare la porta. Poi lasciò cadere le mani. Rabbiosamente, cercando di salvare parte della sua dignità infranta, Caramon scese dalla veranda pestando i piedi.

«Gliela farò vedere,» borbottò, allontanandosi a grandi passi, con l’armatura che sbatacchiava e sferragliava. «Tornerò fra tre o quattro giorni insieme a Dama Crysle... qualsiasi cosa sia. Poi parleremo di questa storia. Non può farmi questo! No, per tutti gli dei! Fra tre o quattro giorni m’implorerà di tornare. Ma forse lo farò, e forse no...»

Tas rimase là, indeciso. Alle sue spalle, all’ingresso della casa, le sue acute orecchie di kender potevano sentire dei singhiozzi colmi di dolore. Sapeva che Caramon, tra i suoi brontolii di autocommiserazione e lo sferragliare della sua armatura, non poteva sentire niente. Ma cosa poteva fare?

«Mi occuperò io di lui, Tika!» urlò. Poi, agguantando saldamente Bupu si mise a seguire l’omone.

Tas sospirò. Fra tutte le avventure che aveva vissuto fino a quel giorno, quella stava senza dubbio cominciando con il piede sbagliato.

Capitolo quinto

Palanthas, città favoleggiata per la sua bellezza. Una città che aveva voltato le spalle al mondo e se n’era rimasta seduta a guardarsi nel proprio specchio con occhi ammirati.

Chi l’aveva descritta così? Kitiara, seduta sul dorso del suo drago azzurro, Skie, rifletteva oziosamente mentre volava in vista delle mura della città. Forse il defunto, e per nulla compianto, Signore dei Draghi Ariakas. Sembrava abbastanza pretenzioso, come qualsiasi cosa che lui avrebbe detto. Ma Kit era costretta ad ammettere che aveva avuto ragione sui palanthani. Erano rimasti talmente terrorizzati al pensiero di veder devastata la loro amata città, che avevano negoziato una pace separata con i Signori dei Draghi. Soltanto appena prima della fine della guerra, quando era ormai ovvio che non avevano più nulla da perdere, seppure con riluttanza si erano uniti agli altri per combattere contro la potenza della Regina delle Tenebre.

Per merito dell’eroico sacrificio dei Cavalieri di Solamnia, alla città di Palanthas era stata risparmiata la devastazione che aveva portato alla distruzione di altre città come Solace e Tharsis.

Kit, volando a portata di freccia dalle mura, sorrise ironica. Adesso, ancora una volta, Palanthas avrebbe rivolto gli occhi al suo specchio, utilizzando la nuova ondata di prosperità per dare ulteriore enfasi al suo fascino già leggendario.

Pensando a questo, Kitiara scoppiò in una sonora risata quando vide l’agitazione sulle mura della Città Vecchia. Erano passati due anni da quando un drago azzurro aveva volato sopra le mura.

Poteva immaginarsi il caos, il panico. Fioco, nell’immobile aria della notte, poteva udire il rullare dei tamburi e i limpidi appelli delle trombe.

Anche Skie poteva udirli. Il suo sangue ribolliva ai rumori della guerra: volse un avvampante occhio rosso a Kitiara, pregandola di ripensarci.

«No, cucciolotto mio,» gli gridò Kitiara, abbassando il braccio per accarezzargli il collo e tranquillizzarlo. «Adesso non è il momento, ma ben presto, se avremo successo! Ben presto, te lo prometto!»

Skie fu costretto ad accontentarsi di questo. Tuttavia, si tolse una bella soddisfazione alitando una saetta dalle sue fauci spalancate, annerendo il muro di pietra mentre vi passava accanto al volo, tenendosi immediatamente fuori portata delle frecce. I soldati si sparpagliarono come formiche al suo arrivo. La paura del drago li aveva investiti come tante onde impetuose.

Kitiara volava lenta, prendendosela con comodo. Nessuno osava toccarla, una situazione di pace esisteva fra i suoi eserciti a Sanction e i palanthani, anche se c’era qualcuno fra i cavalieri che stava cercando di convincere i liberi popoli di Ansalon a unirsi e ad attaccare Sanction, dove Kitiara si era ritirata dopo la guerra. Ma i palanthani non erano disposti a scomodarsi. La guerra era finita, la minaccia non c’era più.

«E ogni giorno che passa aumentano la mia forza e la mia potenza,» disse Kit rivolta a loro, mentre volava sopra la città, assimilando tutto, immagazzinandolo nella propria mente a futura memoria.

Palanthas è costruita come una ruota: tutti gli edifici importanti, i palazzi dei signori regnanti, gli uffici governativi e le antiche dimore dei nobili, si ergono al centro. La città ruota intorno a questo mozzo. Nel cerchio successivo sorgono le case dei ricchi uomini delle gilde, i «nuovi» ricchi, e le dimore estive di coloro che vivono fuori delle mura della città. Qui si trovano inoltre i centri educativi, compresa la Grande Biblioteca di Astinus.

E infine, accanto alle mura della Città Vecchia, si trova la piazza del mercato con negozi d’ogni tipo e descrizione.

Otto grandi viali conducono fuori dal centro della Città Vecchia, come i raggi di una ruota. Questi viali sono bordati da alberi, alberi bellissimi, le cui foglie sono come un merletto dorato tutto l’anno.

I viali conducono al porto sul mare al nord e alle sette porte del Muro della Città Vecchia.

Attorno alle mura Kit vide la Città Nuova, costruita proprio come la Città Vecchia, con lo stesso modello circolare. Non c’erano mura intorno alla Città Nuova, poiché le mura «sminuivano il progetto d’insieme», come aveva affermato uno dei signori.

Kitiara sorrise. Lei non vedeva la bellezza della città. Gli alberi non erano niente per lei.

Contemplava l’abbacinante meraviglia delle sette porte senza provare nessun nodo in gola... be’, forse uno, ma piccolo piccolo. Come sarebbe stato facile, pensò con un sospiro, impadronirsene!

Altri due edifici attirarono il suo interesse. Un edificio nuovo, costruito al centro della città: un Tempio dedicato a Paladine. L’altro edificio era la sua destinazione. E su questo il suo sguardo si posò pensieroso.

Risaltava contrastando in maniera così vivida con la bellezza della città tutt’intorno che perfino lo sguardo gelido e insensibile di Kitiara lo notò. Ergendosi fuori dalle ombre che lo circondavano come l’osso calcinato di un dito, era intriso di tenebra e d’una contorta bruttura, cosa ancora più orribile poiché un tempo doveva essere stato l’edificio più splendido di Palanthas, l’antica Torre della Grande Stregoneria.

Le ombre la circondavano di giorno e di notte, poiché era protetta da un bosco di querce gigantesche, gli alberi più grandi che crescessero su Krynn, bisbigliavano sgomenti alcuni dei viaggiatori più navigati. Nessuno lo sapeva per certo, poiché nessuno, neppure della razza dei kender, riusciva a incamminarsi in mezzo alla temuta oscurità di quegli alberi.

«Il Bosco di Shoikan,» mormorò Kitiara a un invisibile compagno. «Nessun essere umano di qualsivoglia razza ha mai osato entrarvi. Nessuno, fino a quando non è arrivato lui: il padrone del passato e del presente.» Lo disse a se stessa con una nota di derisione nella voce, una nota che tremolò quando Skie cominciò a girare in cerchi sempre più stretti vicino a quella chiazza di oscurità.

Il drago azzurro si posò sulle strade deserte e abbandonate vicino al Bosco di Shoikan. Kit aveva sollecitato Skie con ogni possibile mezzo, dalle lusinghe alle minacce, perché volasse sopra il bosco fino alla Torre medesima. Ma Skie, benché solitamente disposto a versare fino all’ultima goccia del suo sangue per la sua padrona, gliel’aveva rifiutato. Era al di là del suo potere. Nessun essere mortale, neppure un drago, avrebbe potuto entrare in quell’anello maledetto di querce guardiane.

Skie se ne rimase là a fissare il bosco con odio, gli occhi rossi che ardevano, mentre i suoi artigli smuovevano nervosamente le piastrelle della pavimentazione stradale. Avrebbe impedito alla sua padrona di entrare, ma conosceva molto bene Kitiara. Una volta che avesse deciso di fare qualcosa, niente avrebbe potuto distoglierla. Così Skie ripiegò intorno al proprio corpo le grandi ali coriacee e fissò quella città bella e opulenta mentre pensieri di fiamme, fumo e fuoco lo riempivano di desiderio.

Kitiara scese lentamente dalla sella del suo drago. La luna d’argento, Solinari, era una pallida testa recisa nel cielo. La sua gemella, la luna rossa Lunitari, era appena spuntata e adesso tremolava all’orizzonte come il lucignolo d’una candela morente. La debole luce di entrambe le lune traeva riflessi dall’armatura di scaglie di drago di Kitiara, facendola apparire d’uno spettrale color sangue.

Kit studiò il bosco con attenzione, fece un passo verso di esso, poi si fermò innervosita. Alle sue spalle poteva udire un fruscio - le ali di Skie che le davano un tacito consiglio: Lasciamo questo luogo di morte, Signora! Fuggiamo fintanto che siamo ancora vivi!

Kitiara deglutì. Si sentiva la lingua secca e ingrossata. I muscoli del suo stomaco si annodavano dolorosamente. Vivi ricordi della sua prima battaglia le tornavano alla memoria, la prima volta che aveva affrontato Un nemico sapendo di dover uccidere quell’uomo, altrimenti sarebbe Stata lei a morire. Poi, aveva vinto con gli abili colpi della sua spada. Ma questo?

«Ho camminato per molti luoghi bui in questo mondo,» disse Kit al suo invisibile compagno con voce bassa e profonda, «e non ho mai conosciuto la paura. Ma qui non posso entrare.»

«Semplicemente tieni alto il gioiello che lui ti ha dato,» disse il suo compagno, materializzandosi dalla notte. «I Guardiani del Bosco saranno impotenti, non potranno farti alcun male.»

Kitiara aguzzò lo sguardo dentro il folto cerchio di quegli alberi altissimi. I loro enormi rami che si protendevano in tutte le direzioni oscuravano la luce delle lune e delle stelle, la notte, e il bagliore del sole di giorno. Intorno alle loro radici scorreva la notte perpetua. Nessuna brezza delicata sfiorava le loro braccia vetuste, nessun vento di tempesta smuoveva i loro arti massicci. Si diceva che perfino durante le orrende giornate del Cataclisma, quando tempeste quali non si erano mai viste prima su Krynn spazzavano la terra, soltanto gli alberi del Bosco di Shoikan non si fossero piegati alla collera degli dei.

Ma si diceva che ancora più orribile della loro perpetua oscurità fosse l’eco della vita eterna che pulsava dalle loro profondità, una vita eterna, ,una eterna infelicità e un eterno tormento...

«Quello che la mia testa dice, lo crede,» rispose Kitiara, rabbrividendo, «ma non il mio cuore, Lord Soth.»

«Gira la schiena, allora,» rispose il cavaliere della morte, scrollando le spalle. «Mostragli che il più potente Signore dei Draghi al mondo è un codardo.» Kitiara fissò Lord Soth dalle fessure degli occhi dell’elmo di drago. I suoi occhi castani luccicarono, la sua mano si chiuse spasmodica sull’elsa della spada. Soth le restituì l’occhiata, la fiamma arancione che tremolava tra le sue occhiaie arse di una luce più vivida, orrenda e beffarda. E se i suoi occhi ridevano di lei, che cosa avrebbero rivelato quegli occhi dorati del mago? Non risate... trionfo!

Serrando con forza le labbra, Kitiara afferrò la catena che aveva intorno al collo, dalla quale pendeva il talismano che Raistlin le aveva mandato. La strinse e le diede un fulmineo strattone, spezzandola con facilità. Poi tenne il gioiello fra le mani guantate.

Nero come il sangue di drago, il gioiello dava una sensazione di gelo al tatto, irradiandolo perfino attraverso i suoi pesanti guanti di cuoio.

Tutt’altro che gradevole, smorto, giaceva pesante nel palmo della sua mano.

«Come possono vederlo questi Guardiani?» volle sapere Kitiara, sollevandolo alla luce delle lune.

«Guarda, non luccica né sfavilla. Mi sembra di reggere in mano soltanto un pezzo di carbone.»

«Non puoi vedere la luna che non risplende sul gioiello della notte, né esiste qualcuno che possa vederla se non coloro che la venerano,» rispose Lord Soth. «Quelli... e i morti che, come me, sono stati condannati alla vita eterna. Noi possiamo vederla! Per noi risplende con più fulgore di qualsiasi altra luce nel cielo. Tienilo alto, Kitiara, tienilo alto e incamminati. I Guardiani non ti fermeranno. Togliti l’elmo, in modo che possano vedere la luce del gioiello riflettersi nei tuoi occhi.»

Kitiara esitò un momento ancora. Poi - al pensiero della risata beffarda di Raistlin che le riecheggiava nelle orecchie - la Signora dei Draghi si tolse l’elmo cornuto. Tuttavia, rimase ancora là ferma a guardarsi intorno. Nessun alito di vento le scarmigliava le ciocche scure. Sentiva un sudore freddo colarle lungo le tempie. Con un rabbioso colpo della mano guantata lo asciugò via.

Alle sue spalle sentiva ancora il drago che uggiolava, uno strano suono che mai prima di allora aveva sentito uscire da Skie. La sua determinazione vacillò. La mano con la quale reggeva il gioiello tremò.

«Si nutrono di paura, Kitiara,» le disse Lord Soth con voce sommessa. «Tieni alto il gioiello, fai che lo vedano riflesso nei tuoi occhi!»

Fagli vedere che sei una codarda! Queste parole echeggiarono nella sua mente. Stringendo il gioiello della notte, alzandolo sopra la sua testa, Kitiara entrò nel Bosco di Shoikan.

L’oscurità scese, calando così all’improvviso che Kitiara pensò, per un orribile, paralizzante momento, di essere stata accecata. Soltanto la vista degli occhi fiammeggianti di Lord Soth che tremolavano all’interno del suo pallido viso scheletrico la rassicurò.

Si costrinse a rimanere calma, lasciando che quel debilitante momento di paura svanisse. E poi osservò per la prima volta un luccichio emanare dal gioiello. Non assomigliava a nessun’altra luce che avesse mai visto. Non illuminava l’oscurità, piuttosto permetteva a Kitiara di distinguere tutto quello che viveva dentro l’oscurità dall’oscurità stessa.

Grazie al potere del gioiello, Kitiara poteva cominciare a distinguere i tronchi degli alberi viventi.

E adesso poteva scorgere un sentiero formarsi ai suoi piedi. Come un fiume di notte, scorreva davanti a lei in mezzo agli alberi, e Kitiara provò l’arcana sensazione di scorrere insieme ad esso.

Affascinata osservò i propri piedi che si muovevano, trasportandola avanti senza l’intervento della sua volontà. Con vivo orrore, si rese conto che, se prima il bosco aveva tentato di tenerla fuori, adesso la stava attirando dentro!

Disperatamente tentò di riguadagnare il controllo del proprio corpo. Finalmente l’ebbe vinta - o così suppose. Per lo meno, aveva smesso di muoversi. Ma adesso non poteva fare più nulla, se non rimanere in piedi in mezzo a quell’oscurità avvolgente e rabbrividire, il corpo squassato dagli spasimi della paura. Sopra di lei i rami crepitavano, ridacchiando per quello scherzo. Le foglie le sfioravano il viso. Kit tentò freneticamente di allontanarle colpendole con le mani, poi smise di farlo. Il loro Contatto era gelido ma non sgradevole. Era quasi una carezza, un gesto di rispetto. Era stata riconosciuta, accettata per una di loro. Kit riprese subito il controllo di sé. Sollevando la testa s’indusse a guardare il sentiero.

Non si stava muovendo: quella era stata un’illusione nata dal suo stesso terrore. Kit fece un cupo sorriso. Gli alberi si muovevano! Si facevano da parte per lasciarla passare. La fiducia di Kitiara crebbe. Percorse il Sentiero con passo fermo e perfino si voltò per guardare con aria di trionfo Lord Soth, il quale camminava a pochi passi dietro di lei. Però il cavaliere della morte non parve accorgersi del suo sguardo.

«È probabile che sia in comunione con gli spiriti suoi confratelli,» disse fra sé Kit con una risata che all’improvviso sfociò in uno strillo di puro terrore.

Qualcosa l’aveva afferrata alla caviglia! Un gelo da congelarle le ossa Stava filtrando lentamente attraverso il suo corpo, trasformando in ghiaccio il suo sangue e i suoi nervi. Il dolore era intenso.

Urlò in preda all’angoscia. Stringendosi la gamba, Kitiara vide cosa l’aveva ghermita: una mano bianca! Protendendosi fuori dal suolo, le sue dita ossute si erano avvolte saldamente intorno alla sua caviglia. Nel sentire il calore che abbandonava il suo corpo, Kit si rese conto che quella mano la stava prosciugando della vita. E ancora, in preda a un crescente orrore, vide il suo piede che cominciava a scomparire nel terreno melmoso.

Il panico s’impadronì della sua mente. Freneticamente tirò un calcio la mano, cercando di spezzare la sua morsa raggelante. Ma la mano continuò a stringerla saldamente, e un’altra mano ancora sorse dal nero sentiero e l’afferrò per l’altra caviglia. Urlando per il terrore, Kitiara perse l’equilibrio e cadde.

«Non lasciar cadere il gioiello!» le giunse la voce senza vita di Lord Soth. «Ti trascineranno sotto!»

Kitiara tenne stretto il gioiello, serrandolo tra le mani mentre si contorceva e lottava, cercando di sfuggire alla stretta mortale che la stava lentamente trascinando giù per farle condividere la propria tomba.

«Aiutami!» gridò Kitiara, cercando Lord Soth con lo sguardo, in preda al terrore.

«Non posso farlo,» rispose tetro il cavaliere della morte. «Qui la mia magia non può funzionare. Adesso tutto ciò che può salvarti è la forza della tua volontà, Kitiara. Ricordati del gioiello...»

Per un lungo istante Kitiara giacque del tutto immobile, rabbrividendo a quel tocco raggelante. E poi la rabbia percorse il suo corpo. Come godrà a farmi questo? pensò, vedendo ancora una volta quegli irridenti occhi dorati che si godevano la sua tortura. La sua rabbia fuse il gelo della paura e bruciò via il panico. Adesso era calma. Sapeva quello che doveva fare. Lentamente si spinse fuori dal suolo poi, con fredda deliberazione, abbassò la mano nella quale stringeva il gioiello, avvicinandolo alla mano scheletrica e, rabbrividendo, toccò con esso quella pallida carne.

Un’imprecazione soffocata uscì con un sordo rimbombo dalle profondità del terreno. La mano tremò, poi allentò la stretta, tornando a scivolare dentro le foglie marce accanto al sentiero.

Con uguale decisione Kitiara toccò con il gioiello l’altra mano che la stringeva. Anche questa scomparve. La Signora dei Draghi si risollevò e si guardò intorno. Poi tenne di nuovo in alto il gioiello.

«Avete visto questo, maledette creature della morte vivente?» gridò con voce stridula. «Non mi fermerete! Io passerò! Mi avete sentito? Io passerò!»

Non vi fu risposta. I rami non scricchiolavano più, le foglie penzolavano flosce. Dopo essere rimasta là in silenzio per qualche altro istante, sempre stringendo il gioiello in mano, Kitiara riprese a percorrere il sentiero, maledicendo Raistlin fra i denti. Era consapevole della presenza di Lord Soth accanto a lei.

«Non manca ancora molto,» disse questi. «Ancora una volta, Kitiara, ti sei guadagnata la mia ammirazione.»

Kitiara non rispose. La rabbia era scomparsa lasciandole un vuoto alla bocca dello stomaco che si stava riempiendo un’altra volta, e rapidamente, di paura. Non si fidava di parlare, ma continuava a camminare con gli occhi truci puntati sul sentiero davanti a sé. Adesso, tutt’intorno a lei, poteva vedere le dita che scavavano attraverso il terreno, cercando la carne vivente che allo stesso tempo odiavano e bramavano. Pallidi volti incavati la fissavano dagli alberi, informi creature nere le svolazzavano intorno, riempiendo l’aria fredda e appiccicosa dell’immondo puzzo della morte e della putredine. Ma, malgrado la mano guantata che reggeva il gioiello tremasse, mai una volta mostrò esitazione. Le dita scarnificate non la fermarono, così come le facce con le loro bocche spalancate che ululavano invano per avere il suo sangue caldo. Con lentezza, le grandi querce cominciarono a dischiudersi davanti a Kitiara, i rami s’incurvarono all’indietro scostandosi dal suo percorso.

Là, immobile, dove il sentiero finiva, c’era Raistlin.

«Dovrei ucciderti, dannato bastardo!» disse Kitiara attraverso le labbra irrigidite, con la mano sull’elsa della spada.

«Anch’io sono sopraffatto dalla gioia di rivederti, sorella mia,» rispose Raistlin con voce sommessa.

Era la prima volta che fratello e sorella s’incontravano, dopo più di due anni. Adesso che era uscita dall’oscurità degli alberi, Kitiara potè scorgere suo fratello là in piedi, illuminato dalla pallida luce di Solinari. Indossava paludamenti del più raffinato velluto nero. Ricadendo dalle sue spalle sottili, leggermente ricurve, formavano una serie di morbide pieghe intorno al suo corpo esile. Rune d’argento erano cucite sul cappuccio che gli copriva la testa, lasciando tutto in ombra salvo i suoi occhi dorati. La runa più grande era al centro: una clessidra. Altre rune d’argento luccicavano alla luce della luna sui polsini delle maniche ampie e capaci. Raistlin si appoggiava al Bastone di Magius, il cui cristallo, che fiammeggiava di luce soltanto a un ordine di Raistlin, era serrato, adesso scuro e freddo, nell’artiglio d’un drago dorato.

«Dovrei ucciderti!» ripetè Kitiara e, prima di essere del tutto consapevole di ciò che faceva, lanciò un’occhiata al cavaliere della morte, il quale pareva prender forma dall’oscurità del bosco. Era un’occhiata, non un ordine... un invito, una tacita sfida.

Raistlin sorrise, quel raro sorriso che pochi avevano visto, il quale però si smarrì fra le ombre del suo cappuccio.

«Lord Soth,» disse, voltandosi per salutare il cavaliere della morte.

Kitiara si morse il labbro mentre gli occhi a clessidra di Raistlin studiavano l’armatura del cavaliere non morto. Qui erano ancora incisi i simboli di Cavaliere di Solamnia: la Rosa, il Martin Pescatore e la Spada, ma erano tutti anneriti come se l’armatura fosse stata arsa in un incendio.

«Il Cavaliere della Rosa Nera,» continuò Raistlin, «che morì tra le fiamme del Cataclisma prima che la maledizione della fanciulla elfa a cui aveva fatto torto lo ritrascinasse ad una vita amara.»

«Tale è la mia storia,» disse il cavaliere della morte senza muoversi. «E tu sei Raistlin, padrone del passato e del presente, colui che è stato predetto.»

I due rimasero là a fissarsi, dimentichi entrambi di Kitiara la quale, percependo la silenziosa, micidiale contesa ingaggiata dai due, dimenticò la propria rabbia, trattenendo il fiato per assistere al risultato.

«La tua magia è forte,» commentò Raistlin. Un leggero vento agitò i rami delle querce, accarezzando le pieghe delle nere vesti del mago.

«Sì,» disse Lord Soth con calma. «Posso uccidere con una singola parola. Posso scagliare una palla di fuoco in mezzo ai miei nemici. Comando uno squadrone di guerrieri scheletrici, che possono uccidere al solo tocco. Posso innalzare un muro di ghiaccio per proteggere coloro che servo. I miei occhi possono discernere l’invisibile. Gli incantesimi della comune magia si sgretolano in mia presenza.»

Raistlin annuì, le pieghe del suo cappuccio si mossero lentamente.

Lord Soth fissò il mago senza parlare. Avvicinandosi a Raistlin, si fermò soltanto a pochi centimetri dal suo fragile corpo. Il respiro di Kitiara accelerò.

Poi, con un gesto regale, il cavaliere maledetto di Solamnia appoggiò una mano su quella parte della sua anatomia che un tempo aveva contenuto il suo cuore.

«Ma m’inchino in presenza d’un maestro,» dichiarò infine. Kitiara si morse il labbro, soffocando un’esclamazione. Raistlin le lanciò una rapida occhiata. C’era una nota divertita nei suoi balenanti occhi dorati a forma di clessidra. «Delusa, mia cara sorella?».

Ma Kitiara era ben abituata ai venti mutevoli del destino. Aveva esplorato il nemico, scoperto ciò che le serviva sapere. Adesso poteva procedere con la battaglia. «Naturalmente no, fratellino,» rispose con quel tono furfantesco che tanti avevano trovato così affascinante. «Dopotutto sei tu che sono venuta a trovare. È passato troppo tempo da quando ci siamo fatti visita l’ultima volta. Sembri in buona salute.»

«Oh, lo sono, cara sorella,» rispose Raistlin. Facendosi avanti appoggiò la mano sottile sul braccio di lei. Kitiara trasalì al suo tocco, sentì la pelle che le si scaldava, come se bruciasse per la febbre.

Ma, vedendo i suoi occhi fissi su di lei, che osservavano ogni sua reazione, non si mosse. Raistlin sorrise, e proseguì: «È passato così tanto tempo da quando ci siamo visti per l’ultima volta. Quanto, due anni? Due anni fa, in primavera, in effetti,» continuò Raistlin, loquace, stringendo il braccio di Kitiara nella sua mano. La sua voce era colma di sarcasmo. «È stato nel Tempio della Regina delle Tenebre a Neraka, la fatidica notte in cui la mia regina andò incontro alla sua caduta e venne bandita da questo mondo...»

«Grazie al tuo tradimento,» disse Kitiara con voce dura, cercando, senza riuscire, di liberarsi dalla sua stretta. Raistlin continuava a tenere la mano sul suo braccio. Nonostante fosse più alta e più forte del fragile mago, e in apparenza capace di spezzarlo in due a mani nude, Kitiara si scoprì desiderosa di sottrarsi a quel tocco bruciante, ma allo stesso tempo smise di agitarsi. Raistlin rise e, sempre tirandola per il braccio, le fece strada fino alla porta esterna della Torre della Grande Stregoneria.

«Dobbiamo parlare di stregoneria, cara sorella? Non ti eri forse rallegrata quando ho usato la mia magia per distruggere lo scudo protettivo di lord Ariaka concedendo a Tanis Mezzelfo la possibilità di affondare la sua spada nel corpo del tuo signore e padrone? Non fui forse io, grazie a quell’azione, a fare di te il più potente dei Signori dei Draghi di Krynn?»

«Proprio a tanto mi è servito!» replicò Kitiara con amarezza. «Tenuta quasi prigioniera a Sanction dagli immondi Cavalieri di Solamnia, che regnano su tutte le terre circostanti! Sorvegliata giorno e notte da draghi dorati, ogni mia singola mossa scrutata. I miei eserciti dispersi, ridotti a vagare in lungo e in largo...»

«Eppure sei venuta qua,» disse Raistlin con semplicità. «I draghi dorati ti hanno forse fermata? I Cavalieri hanno forse saputo della tua partenza?»

Kitiara si fermò lungo il sentiero che conduceva alla Torre, fissando stupefatta suo fratello. «Opera tua?»

«Naturalmente!» Raistlin scrollò le spalle. «Ma parleremo di queste faccende più tardi, cara sorella,» aggiunse mentre riprendevano ad avanzare. «Hai freddo e sei affamata. Il bosco di Shoikan scuote anche i nervi più saldi. Soltanto un’altra persona ha valicato con successo i suoi confini, con il mio aiuto, naturalmente. Mi aspettavo che tu te la cavassi bene, ma devo ammettere di essere rimasto un po’ sorpreso dal coraggio dimostrato da Dama Crysania...»

«Dama Crysania» ripetè Kitiara, ancora più stupita. «Una Reverenda Figlia di Paladine! Le hai permesso di venire... qui?»

«Non soltanto gliel’ho permesso, l’ho invitata,» rispose Raistlin imperturbabile. «Senza quell’invito e un talismano protettivo non sarebbe mai passata, naturalmente.»

«Ed è venuta?»

«Oh, con molto slancio, posso assicurartelo.» Adesso fu Raistlin a fare una pausa. Erano fermi fuori dell’ingresso della Torre della Grande Stregoneria. La luce delle torce che usciva dalle finestre illuminava il volto di Raistlin. Kitiara poteva vederlo con chiarezza. Le labbra erano contorte in un sorriso, i suoi piatti occhi dorati luccicavano freddi e sottili come la luce del sole d’inverno. «Con molto slancio,» ripetè con voce sommessa.

Kitiara scoppiò a ridere.

Quella notte sul tardi, dopo che le due lune erano tramontate, nelle ore buie e immobili prima dell’alba, Kitiara sedeva nello studio di Raistlin con un bicchiere di vino rosso in mano, le sopracciglia corrugate.

Lo studio era confortevole, o così sembrava a guardarlo. Sedie grandi e comode della stoffa migliore e ottimamente lavorate sopra tappeti tessuti a mano che soltanto le persone più ricche di Krynn potevano permettersi di possedere. Intessute nei tappeti, immagini di bestie fantastiche e fiori variopinti attiravano l’occhio, tentando l’osservatore a smarrirsi per lunghe ore nella loro bellezza.

Qua e là c’erano tavoli di legno scolpito e oggetti rari e bellissimi, oppure rari e orrendi, decoravano la stanza.

Ma la caratteristica predominante erano i libri. Le pareti della stanza scomparivano dietro profondi scaffali di legno che contenevano centinaia e centinaia di volumi. Molti erano simili nell’aspetto, tutti con una rilegatura blu-notte, decorati con rune d’argento. Era una stanza confortevole ma, malgrado il fuoco che ruggiva in un gigantesco caminetto a un’estremità dello studio, che pareva un’immensa bocca spalancata, c’era nell’aria un freddo che faceva raggelare le ossa. Kitiara non ne era sicura, ma aveva la sensazione che provenisse dai libri.

Lord Soth si teneva lontano dal bagliore del fuoco, nascosto fra le ombre. Kit non poteva vederlo, ma era ben conscia della sua presenza, come lo era Raistlin. Il mago sedeva dirimpetto alla sua sorellastra su un grande scranno dietro ad un gigantesco tavolo di legno nero, scolpito con tanta destrezza che le creature che lo decoravano parevano osservare Kitiara con i loro occhi di legno.

Kitiara, a disagio, si agitò e bevve il vino troppo in fretta. Malgrado fosse avvezza alle bevande forti, cominciava a sentirsi stordita, e odiava questa sensazione. Significava che stava perdendo il controllo. Con rabbia spinse via il bicchiere, decisa a non bere più.

«Questo tuo piano è folle!» disse a Raistlin con irritazione. Poiché non le piaceva lo sguardo di quegli occhi dorati puntati su di lei, Kitiara si alzò in piedi e prese a camminare su e giù per la stanza. «È insensato! Una perdita di tempo. Con il tuo aiuto potremmo dominare Ansalon, tu ed io. In effetti...» Kitiara si voltò all’improvviso: la sua faccia ardeva letteralmente per la foga, «... con il tuo potere potremmo dominare il mondo! Non abbiamo bisogno di Dama Crysania o del nostro grosso e goffo fratello...»

«“Dominare il mondo”,» ripetè Raistlin con voce sommessa, gli occhi ardenti. «Governare il mondo? Tu non capisci ancora, mia cara sorella. Lascia che ti chiarisca questo con l’identica chiarezza con cui conosco te.» Adesso fu il suo turno di alzarsi in piedi. Premendo le mani sottili sulla superficie del tavolo, si sporse verso di lei come un serpente. «Non me ne importa un dannato niente del mondo!» disse con voce sommessa. «Potrei dominarlo domani, se volessi! Non voglio.»

«Non vuoi il mondo.» Kit scrollò le spalle, la sua voce suonò amara per il sarcasmo. «Allora questo lascia soltanto...»

Kitiara si morse la lingua. Fissò Raistlin con meraviglia. In mezzo alle ombre della stanza, gli occhi fiammeggianti di Lord Soth avvampavano più luminosi della fiamma.

«Adesso capisci.» Raistlin sorrise soddisfatto e tornò a sedersi. «Adesso capisci l’importanza di questa Reverenda Figlia di Paladine! È stato il destino a condurla da me, proprio quando mi stavo avvicinando alla fine del mio viaggio.»

Kitiara non potè fare altro che fissarlo, atterrita. Alla fine ritrovò la propria voce. «Come... come fai a sapere che ti seguirà? Certamente non gliel’avrai detto!»

«Soltanto quel che basta per piantare il seme nel suo petto.» Raistlin sorrise, riandando con la memoria a quell’incontro. Abbandonandosi contro lo schienale si portò le dita alle labbra sottili.

«Ad esser franco, la mia recita è stata una delle migliori. Ho mostrato riluttanza nel parlare, le parole sgorgavano dalla mia bocca attirate dalla sua bellezza e purezza. Sono uscite tinte di sangue e lei è stata mia... smarrita a causa della sua stessa compassione.» Ritornò al presente con un sussulto. «Verrà,» lui disse con freddezza, mettendosi ancora una volta a sedere e sporgendosi in avanti. «Lei e quel buffone di nostro fratello. Caramon mi servirà, in modo inconsapevole, naturalmente. Ma d’altronde è così che fa ogni cosa.»

Kitiara si portò una mano alla testa, saggiando il pulsare del sangue. Non era il vino, adesso era fredda e sobria. Erano il furore e la frustrazione. Avrebbe potuto aiutarmi! pensò con rabbia. È davvero potente come dicevano. Anche di più! Ma è folle. Ha perso la testa... Poi, spontanea, una voce le parlò da qualche punto nelle profondità del suo intimo. E se non fosse folle? E se davvero avesse intenzione di andare fino in fondo?

Con freddezza Kitiara valutò il suo piano, esaminandolo con attenzione sotto ogni angolatura. Ciò che vide le fece orrore. No. Non poteva vincere! E, cosa ancora peggiore, l’avrebbe trascinata giù insieme a lui!

Questi pensieri passarono rapidamente attraverso la mente di Kit, senza minimamente trasparire sul suo volto. E, al contrario, il suo sorriso divenne ancora più incantevole. Molti uomini erano morti con quel sorriso come ultima immagine nei loro occhi.

Era possibile che Raistlin stesse valutando proprio quel sorriso mentre la guardava attentamente.

«Puoi essere dalla parte del vincitore tanto per cambiare, sorella mia.»

La convinzione di Kitiara vacillò. Ventotto anni prima era stato un neonato, debole e malato, un fragile alter ego di suo fratello gemello, forte e robusto.

«Lasciatelo morire. Sarà meglio così per il futuro,» aveva detto la levatrice. Allora Kitiara era un’adolescente. Sgomenta, aveva sentito che sua madre accondiscendeva piangendo.

Ma Kitiara aveva rifiutato. Qualcosa dentro di lei era pronto ad accettare quella sfida. Il bambino sarebbe vissuto! L’avrebbe fatto vivere, che lui lo volesse o no. «La mia prima lotta,» diceva, «è stata con gli dei. E ho vinto!»

E adesso? Kitiara lo studiò. Vide l’uomo. Vide, con l’occhio della sua mente, quel bambino lagnoso che vomitava a tutto spiano. D’un tratto si voltò.

«Devo tornare,» disse, infilandosi i guanti. «Ti metterai in contatto con me al tuo ritorno?»

«Se avrò successo non ci sarà bisogno che mi metta in contatto con te,» disse Raistlin con voce sommessa. «Lo saprai!»

Kitiara fu quasi sul punto di sogghignare, ma riuscì a imporsi di non farlo. Lanciando un’occhiata a Lord Soth, si preparò a lasciare la stanza. «Arrivederci, allora, fratello mio.» Per quanto la controllasse, non riuscì a impedire che una punta di rabbia trasparisse dalla sua voce. «Mi spiace che tu non condivida il mio desiderio per le cose buone di questa vita! Avremmo potuto fare molto, insieme, tu ed io!»

«Arrivederci Kitiara,» la salutò Raistlin, chiamando a se con la sua mano sottile le forme d’ombra di coloro che lo servivano perché accompagnassero i suoi ospiti alla porta. «Oh, a proposito,» aggiunse, mentre Kit era in piedi sulla soglia, «ti devo la vita, cara sorella. Per lo meno così mi è stato detto. Volevo soltanto farti sapere che, con la morte di Lord Ariakas, il quale indubbiamente ti avrebbe uccisa, considero pagato il mio debito. Non ti devo nulla!»

Kitiara fissò gli occhi dorati del mago, cercandovi una minaccia, una promessa... o cosa? Ma non c’era niente. Assolutamente niente. Poi, in un fuggevole istante, Raistlin pronunciò una parola magica e scomparve alla sua vista.

La via per uscire dal Bosco di Shoikan non fu difficile. Ai guardiani non importava nulla di coloro che lasciavano la Torre. Kitiara e Lord Soth camminarono insieme, il cavaliere della morte si muoveva in silenzio attraverso il Bosco, i suoi piedi non lasciavano nessuna impronta sulle foglie che giacevano morte e putrescenti sul terreno. La primavera non giungeva mai nel Bosco di Shoikan.

Kitiara non parlò fino a quando non ebbero oltrepassato il perimetro esterno delle querce e non ebbero rimesso piede ancora una volta sulle solide pietre della pavimentazione della città di Palanthas. Il sole si stava levando. Il cielo si stava rischiarando, passando dal profondo azzurro notturno a un pallido grigio. Qua e là quei palanthani le cui occupazioni richiedevano che si alzassero presto si stavano svegliando. In fondo alla strada, al di là degli edifici abbandonati che circondavano la Torre, Kitiara poteva udire un rumore di passi in marcia: il cambio della guardia.

Era di nuovo in mezzo ai vivi.

Tirò un profondo sospiro, poi disse rivolta a Lord Soth: «Bisogna fermarlo.»

Il cavaliere della morte non fece alcun commento, né in un senso né nell’altro.

«Non sarà facile, lo so,» disse Kitiara, calandosi sulla testa l’elmo di drago e camminando a rapidi passi verso Skie, il quale aveva inalberato la testa in un gesto di trionfo al suo avvicinarsi.

Accarezzando amorevolmente il drago sulla testa, Kitiara si voltò verso il cavaliere della morte.

«Ma non dobbiamo affrontare Raistlin direttamente. Il suo piano ruota intorno a Dama Crysania. Eliminiamo lei, e l’avremo fermato. In effetti, non sarà mai necessario che sappia che io ho avuto mano in questo. Molti sono morti mentre tentavano di entrare nella Foresta di Wayreth. Non è così?»

Lord Soth annuì, i suoi occhi fiammeggianti ebbero un fugace sprazzo di luce.

«Occupatene tu. Fai in modo che sembri... il destino,» disse Kitiara. «A quanto pare il mio fratellino ci crede.» Salì in groppa al drago. «Quand’era piccolo gli insegnai che rifiutarsi di obbedire ai miei ordini significava venir frustati. Ora, pare che debba imparare di nuovo quella lezione!»

A un suo ordine, le poderose zampe posteriori di Skie affondarono nel terreno, crepando e frantumando le pietre. Il drago balzò in aria, allargò le ali e si levò in alto nel cielo del mattino. Gli abitanti di Palanthas sentirono un’ombra sollevarsi dai loro cuori, ma fu tutto quello che seppero.

Pochi videro il drago andarsene con il suo cavaliere.

Lord Soth rimase immobile ai margini del Bosco di Shoikan.

«Anch’io credo nel destino, Kitiara,» mormorò il cavaliere della morte. «Il destino che un uomo si crea con le proprie mani.»

Lanciando un’occhiata verso le finestre della Torre della Grande Stregoneria, Soth vide la luce spegnersi nella stanza dov’erano stati poco prima. Per un breve istante la Torre fu riavvolta dall’oscurità perpetua che pareva attardarsi intorno ad essa, un’oscurità che la luce del sole non poteva penetrare. Poi baluginò una luce, da una stanza in cima alla Torre.

Il laboratorio del mago, la stanza buia e segreta dove Raistlin operava le sue magie.

«Chi imparerà questa lezione?» mormorò fra sé Lord Soth. Scomparve scrollando le spalle, fondendosi con le ombre sempre più pallide a mano a mano che la luce del giorno si avvicinava.

Capitolo sesto

«Proviamo là,» disse Caramon, avviandosi verso una costruzione sgangherata che sembrava acquattarsi lontano dal sentiero, in agguato nella foresta come una bestia imbronciata. «Forse si è fermata in quella...»

«Ne dubito,» replicò Tas, squadrando con occhio dubbioso l’insegna appesa ad una catena sopra la porta. «Il “Boccale Rotto” non mi sembra proprio il posto...»

«Sciocchezze,» ringhiò Caramon, come aveva già ringhiato più volte di quante Tas ne potesse contare, nel corso del viaggio. «Deve pur mangiare. O forse qualcuno, là dentro, può aver visto qualche sua traccia lungo il sentiero. Finora, non abbiamo avuto un briciolo di fortuna.»

«No,» borbottò Tasslehoff fra i denti, «ma potremmo avere più fortuna se esplorassimo le strade, non le taverne.»

Erano per strada da tre giorni, e le peggiori apprensioni di Tas su quest’impresa si erano rivelate azzeccate.

Di solito i kender sono viaggiatori entusiasti. Tutti i kender vengono colti dalla bramosia del meraviglioso in prossimità del loro ventesimo anno. In quest’epoca partono gioiosamente per luoghi sconosciuti, con il solo intento di cercare avventure e qualsiasi oggetto orribile o curioso che possa per caso cadere dentro le loro borse rigonfie. Completamente immuni da quell’istinto di conservazione che ha nome paura, afflitti da una curiosità insaziabile, gli abitatori kender di Krynn non erano, poi, tanto numerosi, cosa per la quale la maggior parte di Krynn provava una devota gratitudine.

Tasslehoff Burrfoot, adesso prossimo ai trent’anni (per lo meno stando a ciò che riusciva a ricordare), sotto molti aspetti era un kender atipico. Aveva viaggiato in lungo e in largo per l’intero continente di Ansalon, all’inizio con i suoi genitori, prima che si stabilissero a Kenderhome.

Dopo aver raggiunto l’età adulta, aveva vagato per conto proprio fino a quando non aveva incontrato Flint Fireforge, il fabbro dei nani, e il suo amico, Tanis Mezzelfo. Dopo che Sturm Brightblade, Cavaliere di Solamnia, e i gemelli Caramon e Raistlin si furono uniti a loro, Tas si era trovato coinvolto nella più bella avventura della sua vita: La Guerra delle Lance.

Ma sotto certi aspetti, Tasslehoff non era un kender tipico, anche se lui l’avrebbe prontamente negato se gli fosse stato detto. La perdita di due persone che amava moltissimo, Sturm Brightblade e Flint, l’aveva toccato in profondità. Era arrivato a conoscere l’emozione della paura, non per se stesso, ma per coloro che amava. Paura e preoccupazione. In questo momento, era molto preoccupato per Caramon.

E lo era ogni giorno di più.

Dapprima il viaggio era stato divertente. Una volta superati da Caramon gli attacchi di cattivo umore a causa della crudeltà di Tika e dell’incapacità di capirlo del mondo in genere, gli era bastato trangugiare qualche sorso dalla sua fiasca e si era subito sentito meglio. Dopo parecchie altre sorsate, aveva cominciato a raccontare storie sui giorni che aveva passato a dare una mano a braccare i draconici. Tas aveva trovato la cosa divertente e spassosa e, anche se doveva sorvegliare Bupu in continuazione per accertarsi che non venisse messa sotto da un carro o finisse dentro a qualche buco nascosto da una pozzanghera, si era goduto la mattinata.

Prima che il pomeriggio fosse finito, la fiasca si era vuotata, e Caramon era di umore talmente buono da essere disposto ad ascoltare perfino alcune delle storie di Tas, che il kender non si stancava mai di raccontare. Sfortunatamente, proprio nel momento migliore, quando lui stava scappando con un mammuth lanoso alle calcagna e gli stregoni che gli scagliavano dietro saette, Caramon era arrivato a una taverna.

«Riempio soltanto la fiasca,» aveva borbottato, ed era entrato.

Tas aveva accennato a seguirlo, poi aveva visto Bupu fissare a bocca spalancata per la meraviglia la forgia arroventata del fabbro sull’altra parte della strada. Rendendosi conto che Bupu avrebbe appiccato il fuoco a se stessa o alla città o a tutte e due le cose, e sapendo che non avrebbe potuto portarla dentro la taverna (per la maggior parte rifiutavano di servire i nani dei burroni), Tas aveva deciso di rimanere fuori a tenerla d’occhio. Dopotutto Caramon sarebbe rimasto dentro soltanto pochi minuti...

L’omone uscì due ore più tardi.

«Per l’Abisso, dove sei stato?» volle sapere Tas, saltando addosso a Caramon come un gatto.

«Sciol...scioltanto un po’... un po’...» Caramon ondeggiò incerto sulle gambe, «... uno scioltanto per... per la ssstrada.»

«Sto effettuando una ricerca!» urlò Tas, esasperato. «La mia prima ricerca, affidatami da una Persona Importante, che potrebbe trovarsi in pericolo. Sono rimasto incastrato per due ore qui fuori con una nana dei burroni!». Tas indicò Bupu che si era addormentata in un fosso. «Non mi sono mai annoiato tanto in vita mia, e tu te ne stavi là dentro a inzupparti di spirito dei nani!».

Caramon lo fissò furibondo, le sue labbra si contrassero facendo il broncio. «S... sai una cosh...» borbottò l’omone mentre si allontanava barcollando lungo la strada, «tu co... cominci ad asciomigliare molto a Tika...».

Da quel punto le cose erano peggiorate parecchio.

Quella sera erano giunti all’incrocio.

«Andiamo da quella parte,» aveva detto Tas, indicando. «È sicuro che Dama Crysania sa che dovrà affrontare gente che cercherà di fermarla. Prenderà una strada non molto frequentata cercando di scrollarsi di dosso gli inseguitori. Credo che dovremmo prendere Io stesso sentiero che abbiamo percorso due anni fa quando abbiamo lasciato Solace...»

«Sciocchezze!» sbuffò Caramon. «È una donna, e un chierico per giunta. Prenderà la strada più facile. Seguiremo la via di Haven.»

Tas aveva avuto dei dubbi su quella decisione, e questi si erano dimostrati ben fondati. Avevano percorso soltanto poche miglia quand’erano arrivati a un’altra taverna.

Caramon era entrato per scoprire se qualcuno aveva visto una persona che corrispondesse alla descrizione di Dama Crysania, lasciando Tas, ancora una volta, con Bupu. Un’ora più tardi, l’omone era emerso, il volto paonazzo e tutto ilare.

«Be’, qualcuno l’ha vista?» aveva chiesto Tas al colmo dell’irritazione.

«Visto chi? Oh... lei... io...»

E adesso, due giorni più tardi, erano soltanto a metà strada da Haven. Ma il kender avrebbe potuto scrivere un libro per descrivere le taverne lungo la strada.

«Ai vecchi tempi,» esplose Tas, furibondo, «avremmo potuto camminare fino a Tharsis e ritorno in tutto questo tempo!»

«Allora ero più giovane e immaturo. Adesso il mio corpo è maturo, e devo ricostituire le mie energie,» dichiarò Caramon con alterigia, «... a poco a poco.»

«Sta ricostituendo qualcosa a poco a poco,» bofonchiò Tas tra sé, cupamente, «ma non sono le energie!»

Caramon non riusciva a camminare per più di un’ora, senza trovarsi costretto a sedersi per riposare.

Spesso crollava del tutto, gemendo per il dolore, con il sudore che gli colava dal corpo. Ci volevano Tas, Bupu e la fiasca di spirito dei nani per rimetterlo di nuovo in piedi. Si lamentava amaramente e in continuazione. La sua armatura lo soffocava, aveva fame, il sole era troppo caldo, aveva sete... Al calar della notte insisteva perché si fermassero in qualche miseranda taverna. E là dentro Tas rinnovava l’emozione di osservare l’omone che si ubriacava fino a perdere i sensi. Tas e il barista lo trascinavano fino alla sua stanza dove lui dormiva fino a quando mezza mattina se n’era andata.

Dopo il terzo giorno di quella storia (e la loro ventesima taverna) e ancora nessun segno di Dama Crysania, Tasslehoff stava pensando seriamente di far ritorno a Kenderhome, comperarsi una bella casetta e ritirarsi da qualsiasi avventura.

Era circa mezzogiorno quando arrivarono al “Boccale Rotto”. Caramon scomparve subito all’interno. Tirando un sospiro che salì su dentro di lui partendo dalle sue nuove e lucide scarpe verdi, Tas rimase con Bupu, fissando in cupo silenzio l’esterno di quel luogo squallido.

«Me non piacere più questo,» annunciò Bupu. Fissò Tas con occhi furenti e accusatori. «Tu detto noi andare a trovare bell’uomo in vesti rosse. Tutto quello che trovato è uno ubriaco grasso. Io torno a casa, a Highbulp, Phudge I.»

«No, non andar via! Non ancora!» gridò Tas, disperato. «Troveremo, ehm, l’uomo bello. O per lo meno una bella signora che vuole aiutare l’uomo bello. Forse... forse qui verremo a sapere qualcosa.»

Era ovvio che Bupu non gli credeva. Neanche Tas credeva a se stesso.

«Ascolta,» disse, «aspettami qui. Non ci metterò molto. Lo so... ti porterò qualcosa da mangiare. Prometti che non te ne andrai?»

Bupu si leccò le labbra, squadrando Tas con occhi dubbiosi. «Me aspettare,» disse, lasciandosi cadere con un plop in mezzo al fango della strada. «Per lo meno fin dopo pranzo.»

Tas, protendendo all’infuori con fermezza il mento appuntito, seguì Caramon dentro la taverna.

Avrebbe fatto volentieri una chiacchieratina con l’omone...

Ma risultò che non era necessario.

«Alla vostra salute, signori,» disse Caramon, sollevando un bicchiere per brindare alla folla trasandata raccolta al bancone. Non c’era molta gente là dentro, un paio di nani viaggiatori seduti accanto alla porta, e un gruppo di umani vestiti come rangers, che sollevarono i loro bicchieri in risposta al saluto.

Tas si sedette accanto a Caramon, depresso al punto da restituire una borsa che le sue mani (senza che lui lo sapesse) avevano sfilato dalla cintura di uno dei nani mentre gli passava davanti.

«Credo che ti sia caduta,» mormorò Tas restituendola al nano, che lo fissò stupito.

«Stiamo cercando una giovane donna,» annunciò Caramon, sistemandosi per il pomeriggio. Recitò la sua descrizione come aveva fatto in ogni taverna da Solace in avanti. «Capelli neri, un volto piccolo e delicato, vesti bianche. E un chierico...»

«Sì, l’abbiamo vista,» disse uno dei rangers.

La birra schizzò fuori dalla bocca di Caramon. «L’avete vista?» riuscì a dire con voce soffocata.

Tas drizzò di scatto la testa. «Dove?» chiese frenetico.

«Stava vagando per i boschi a est di qui,» spiegò il ranger.

«Sì?» chiese Caramon, con sospetto. «E voi cosa ci facevate là fuori nei boschi?»

«Davamo la caccia ai goblin. C’è una taglia su di loro ad Haven.»

«Tre pezzi d’oro per gli orecchi d’un goblin,» spiegò il suo amico, con un sorriso sdentato, «... se volete tentare la fortuna.»

«Che mi dite della donna?» incalzò Tas.

«È una matta, credo.» Il ranger scosse la testa. «Le abbiamo detto che il territorio qui intorno pullula di goblin e che non avrebbe dovuto andare in giro là fuori da sola. Ha risposto soltanto che era nelle mani di Paladine, o qualcosa di simile, e che lui si sarebbe occupato di lei.»

Caramon tirò un sospiro e si portò il bicchiere alle labbra. «Pare sia proprio lei...»

Balzando in piedi, Tas strappò il bicchiere dalla mano dell’omone.

«Cosa diavolo...» Caramon lo fissò furente.

«Su, vieni» gli disse Tas, tirandolo. «Dobbiamo andare! Grazie per l’aiuto,» disse ansimando, spingendo Caramon verso la porta. «Dove avete detto di averla vista?»

«Circa dieci miglia a est da qui. Troverete una pista dietro la taverna. Si biforca dalla strada principale. Seguitela e vi porterà attraverso la foresta. Una volta era una scorciatoia per Gateway, prima che diventasse troppo pericolosa per viaggiarci.»

«Grazie di nuovo!». Tas spinse Caramon, che ancora protestava, fuori della porta.

«Maledizione, cos’è tutta questa fretta?» ringhiò Caramon rabbiosamente, sottraendosi con uno scatto alle mani pungolanti di Tas. «Potremmo per lo meno cenare...»

«Caramon!» esclamò Tas, frenetico, ballandogli intorno. «Pensa! Ricorda! Non ti rendi conto di dove si trova Dama Crysania? Dieci miglia a oriente da qui! Guarda...». Spalancando una delle sue borse, Tas tirò fuori un intero fascio di mappe. Le scorse in fretta, buttandole via via per terra nella foga. «Guarda,» ripetè alla fine, dispiegandone una e cacciandola sotto il naso di Caramon, il quale si era imporporato per la collera.

L’omone la fissò cercando di metterla a fuoco.

«Uh?»

«Oh, per... Guarda, qui ci troviamo noi, con la maggior precisione che riesco a immaginare. Qui c’è Haven, ancora più a sud rispetto a noi. Su questo lato c’è Gateway. Qui c’è la pista di cui parlavano, e qui...» le dita di Tas gliel’indicarono.

Caramon socchiuse gli occhi. «Bos-Bos-Bosco Scuro,» borbottò. «Bosco Scuro. Mi sembra familiare...».

«Certo che ti sembra familiare! Ci abbiamo quasi rimesso le penne in quel posto!» urlò Tas agitando le braccia. «C’è voluto Raistlin per salvarci...»

Vedendo che Caramon si accigliava, Tas si affrettò a proseguire: «Che cosa accadrebbe se lei dovesse addentrarsi là dentro da sola?» chiese con voce supplichevole.

Caramon guardò in mezzo alla foresta, i suoi occhi annebbiati scrutarono lo stretto sentiero coperto di vegetazione. Il suo cipiglio s’incupì. «Suppongo che tu ti aspetti che io la fermi,» brontolò.

«Be’, è naturale che dobbiamo fermarla!» cominciò a dire Tas, poi si arrestò di botto. «Non ne hai mai avuto l’intenzione,» disse il kender con voce sommessa, fissando Caramon. «Per tutto il tempo non hai mai avuto l’intenzione di andare a cercarla. Volevi soltanto girovagare qui intorno, farti un po’ di bevute, qualche risata, e poi tornare da Tika per dirle che sei un miserando fallimento, calcolando che ti avrebbe ripreso, come sempre...»

«E cosa ti aspettavi che facessi?» ringhiò Caramon, distogliendo gli occhi dallo sguardo di rimprovero di Tas. «Come posso aiutare questa donna a trovare la Torre della Grande Stregoneria, Tas?». Caramon cominciò a piagnucolare. «Non voglio trovare la Torre! Ho giurato che io non mi sarei mai più avvicinato a quel luogo immondo! Lì lo hanno distrutto, Tas. Quando ne uscì, la sua pelle aveva quello strano colore dorato. Gli hanno dato quegli occhi maledetti, cosicché tutto ciò che vede è morte. Gli hanno infranto il corpo. Non poteva più tirare un respiro senza tossire. E lo hanno indotto... lo hanno indotto a uccidermi!» Caramon si sentì soffocare e affondò il volto tra le mani, singhiozzando per il dolore, tremando per il terrore.

«Ma... ma non ti ha ucciso, Caramon,» disse Tas, provando una sensazione d’impotenza. «Me l’ha detto Tanis. Era soltanto una tua immagine. E lui soffriva ed era spaventato e, dentro, gli faceva davvero male. Non sapeva quello che stava facendo...»

Ma Caramon si limitò soltanto a scuotere la testa. E il kender, che era tenero di cuore, non poteva biasimarlo. Non c’è da stupirsi che non voglia tornare laggiù, pensò Tas in preda al rimorso. Forse dovrei ricondurlo a casa. Certamente non può essere utile a nessuno in questo stato. Ma poi Tas si ricordò di Dama Crysania, là fuori, tutta sola, che vagava alla cieca nel Bosco Scuro...

«Là in mezzo una volta ho parlato con uno spirito,» mormorò Tas, «ma non sono sicuro che si ricordino di me. E ci sono i goblin là fuori. E, anche se non ho paura di loro, non credo che riuscirei mai a combatterne più di tre o quattro per volta.»

Tasslehoff non sapeva cosa fare. Se soltanto Tanis fosse stato lì con lui! Il mezzelfo sapeva sempre cosa dire, cosa fare. Avrebbe indotto Caramon ad ascoltare la voce della ragione. Ma Tanis non è qui, disse una voce severa dall’intimo del kender che talvolta assomigliava in modo sospetto a quella di Flint. Tocca a te, testone!

Non voglio che tocchi a me! Tas gemette, poi aspettò un momento per vedere se la voce rispondeva. Non rispose. Era solo.

«Caramon,» disse allora, cercando d’incupire quanto più possibile la propria voce e cercando con tutte le forze di farla apparire come quella di Tanis, «ascolta, vieni con noi soltanto fino ai bordi della Foresta di Wayreth. Poi potrai tornartene a casa. Dopo quel punto è probabile che saremo al sicuro...».

Ma Caramon non lo stava ascoltando. In preda all’alcool e all’autocommiserazione, crollò al suolo.

Appoggiandosi con la schiena a un albero, farfugliò frasi incoerenti su orrori senza nome, implorando Tika di riportarlo a casa.

Bupu si alzò in piedi e si avvicinò al grosso guerriero. «Me andare via,» disse, disgustata. «Me non volere grasso, ubriaco piagnucolone, trovare tanti a casa.» Annuendo con la testa s’incamminò lungo il sentiero. Tas le corse dietro, l’afferrò e la trascinò con sé.

«No, Bupu! Non puoi! Siamo quasi arrivati!»

D’un tratto Tasslehoff perse la pazienza. Tanis non c’era. Nessuno era là per aiutarlo. Era come quella volta quando aveva rotto il globo dei draghi. Forse quello che stava facendo non era la cosa giusta, ma era l’unica che adesso gli era venuta in mente.

Si avvicinò a Caramon e gli tirò un calcio negli stinchi.

«Ahi!» esclamò Caramon. Deglutì rumorosamente e fissò Tas sorpreso, con un’espressione perplessa e ferita sul viso. «Perché l’hai fatto?»

Come risposta, Tas gli tirò un altro calcio, ancora più forte. Gemendo, Caramon si afferrò la gamba.

«Ehi, adesso sì che ci divertiamo,» disse Bupu. Correndo avanti tutta felice, appioppò un calcio all’altra gamba di Caramon. «Me rimanere adesso. Sì.»

L’omone ruggì. Alzandosi in piedi con movimenti impacciati, fissò Tas con occhi furenti.

«Maledizione, Burrfoot, se è uno dei tuoi giochetti...»

«Non è un giochetto, grosso manzo che non sei altro!» urlò il kender. «Ho deciso di farti entrare in testa un po’ di buonsenso a suon di calci, tutto qui! Ne ho abbastanza dei tuoi piagnistei! Non hai fatto altro che piagnucolare, tutti questi anni! Il nobile Caramon, che si sacrificava tutto per il suo ingrato fratello. L’amorevole Caramon che metteva sempre Raistlin per primo! Be’, forse l’hai fatto, o forse no. Comincio a pensare che tu abbia sempre messo Caramon per primo! E forse Raistlin lo sapeva, nel suo intimo, quello che io soltanto adesso comincio a capire! L’hai fatto soltanto perché ti faceva sentire bene! Raistlin non aveva bisogno di te, eri tu ad aver bisogno di lui! Hai vissuto la sua vita perché avevi troppa paura di vivere una tua vita!»

Gli occhi di Caramon ardevano febbricitanti, il suo volto era impallidito per la rabbia. Lentamente si sollevò in piedi serrando i pugni. «Sei andato troppo oltre, stavolta, piccolo bastardo...»

«Davvero?». Adesso Tas si era messo a urlare, saltando su e giù. «Bene, ascolta questo, Caramon! Hai sempre piagnucolato perché nessuno aveva bisogno di te. Ti sei mai soffermato a pensare che adesso Raistlin ha bisogno di te più di quanto ne abbia mai avuto prima d’ora? E Dama Crysania ha bisogno di te! E tu te ne stai là come un grosso grumo di gelatina tremolante con il cervello tutto inzuppato e ridotto in poltiglia!»

Per un momento Tasslehoff pensò di essersi spinto troppo oltre. Caramon avanzò incerto d’un passo, la sua faccia era chiazzata, sporca e imbruttita. Bupu cacciò un urlo e si rifugiò dietro a Tas.

Il kender tenne duro, proprio come aveva fatto quando i Signori degli elfi, inferociti, erano stati sul punto di tagliarlo in due per aver rotto il globo dei draghi. Caramon si stagliò minaccioso sopra di lui, l’alito dell’omone puzzolente di liquore fece quasi vomitare Tas. Involontariamente chiuse gli occhi. Non per paura ma per la terribile espressione di angoscia e di rabbia sulla faccia di Caramon.

Rimase là fermo, tenendo i piedi saldamente piantati nel terreno, in attesa del colpo che con ogni probabilità gli avrebbe fracassato il naso, facendolo schizzar fuori dall’altro lato della testa.

Ma il colpo non arrivò. Vi fu un fracasso di rami schiantati, di passi giganteschi che si addentravano in mezzo alla folta boscaglia destando sordi rimbombi.

Tas aprì cautamente gli occhi. Caramon se n’era andato, lasciando dietro di sé una scia di vegetazione abbattuta che si perdeva nella foresta. Sospirando, Tas lo seguì con lo sguardo. Bupu strisciò fuori da dietro la sua schiena.

«È divertente,» annunciò. «Dopotutto rimango. Forse giochiamo di nuovo?»

«Non credo, Bupu,» disse Tas con voce infelice. «Vieni, credo che faremo meglio a seguirlo.»

«Oh, be’,» rifletté con filosofia la nana dei burroni. «Altro gioco arriverà, divertente.»

«Sì,» fu d’accordo Tas con aria assente. Voltandosi, timoroso che qualcuno dentro quella disgraziata taverna potesse aver sentito e intendesse creare guai, sgranò gli occhi, allibito.

La Taverna del Boccale Rotto era scomparsa. L’edificio fatiscente, l’insegna appesa alla catena, i nani, i rangers, l’oste, perfino il bicchiere che Caramon aveva portato alle labbra... ogni cosa era scomparsa nell’aria di metà pomeriggio come un sogno malefico scompare nel momento del risveglio.

Capitolo settimo.

Canta, canta mentre gli spiriti ti commuovono,

canta al tuo occhio che vede doppio,

le scialbe Jane diventano le adorabili Linda

quando sei lune risplendono nel cielo.

Canta il coraggio di un marinaio,

canta mentre i gomiti si piegano,

il tuo vino un nettare color rubino,

innalza tre lenzuola ed vento.

Canta mentre il cuore è gonfio d’amicizia,

canta i tuoi affanni all’assenzio,

canta a colui che per la strada ondeggia,

e al cane, a ciascuno dei suoi peli.

Tutte le cameriere ti amano,

ogni cane è amico tuo,

qualunque cosa tu dica è proprio quello che intendi,

così leva tre lenzuola al vento.

Entro sera Caramon era ubriaco fradicio.

Tasslehoff e Bupu raggiunsero l’omone mentre era in piedi in mezzo ad un sentiero, intento a prosciugare le ultime gocce di spirito dei nani dalla fiasca. Aveva spinto la testa indietro così da poter succhiare ogni singola goccia. Quando finalmente abbassò la fiasca, fu per sbirciare al suo interno con disappunto. Oscillando incerto sui piedi, la scosse.

«Tutto finito,» lo sentì borbottare Tas in tono infelice.

Il kender provò un tuffo al cuore.

«Adesso l’ho fatta grossa,» si disse Tas sconsolato. «Non posso dirgli che la locanda è scomparsa. Non quando si trova in queste condizioni! Non farei altro che peggiorare le cose!»

Ma non si era reso conto di quanto effettivamente fossero peggiorate fino a quando non si fu avvicinato a Caramon battendogli una mano sulla spalla. L’omone si girò di scatto, allarmato.

«Cosa ci è? Chi... chi ci è?». Sporse la testa a scrutare la foresta che si stava rapidamente oscurando.

«Io, qua sotto,» rispose Tas con un filo di voce. «Volevo... volevo dirti che mi dispiace, Caramon, e...»

«Uh? Oh...» Caramon lo fissò, barcollando all’indietro. Poi sorrise scioccamente. «Oh, ciao piccoletto. Un kender,» il suo sguardo andò a Bupu, «e un na... nano dei bu... burroni,» terminò d’impeto. Fece un inchino. «Come vi chiamate?»

«Cosa?» fece Tas.

«Cuomevicchiamate?» ripetè Caramon, con estrema dignità. «Tu mi conosci, Caramon,» disse Tas perplesso. «Io sono Tasslehoff.»

«Me Bupu,» rispose la nana dei burroni, illuminandosi in viso. Era ovvio che sperava che quello fosse un gioco. «Chi tu?»

«Ma tu sai chi è...» cominciò a dire Tas, irritato, poi quasi inghiottì la lingua quando Caramon lo interruppe.

«Io sono Raistlin,» dichiarò l’omone, in tono solenne, facendo un altro inchino, barcollando pericolosamente sulle gambe. «Un... uh... grrrande e pos... pos... possente maguo...»

«Uffa, smettila, Caramon!» esclamò Tas, disgustato. «Ho detto che mi dispiace, perciò non...»

«Caramon?» Gli occhi dell’omone si spalancarono, poi si strinsero astutamente. «Caramon è morto. L’ho ucciso. Molto tempo fa nella Tor-tor-tor... nella Tuorre della Grande Stregoneriaaa...»

«Per la barba di Reorx!» alitò Tas.

«Lui non Raistlin!» esclamò Bupu. Poi la nana s’interruppe, osservandolo con occhio dubbioso. «È lui?»

«N... no! Naturalmente no!» ribadì Tasslehoff seccamente. «Questo non gioco divertente!» dichiarò Bupu con estrema decisione. «Me non piace! Lui non grazioso uomo carino con me. Lui grasso ubriaco. Me andare a casa.» Si guardò intorno. «Da che parte casa?»

«Non adesso, Bupu!» Che cosa sta succedendo? si chiese Tas desolato. Stringendosi il ciuffo, diede un energico strattone ai suoi capelli. I suoi occhi s’inumidirono per il dolore, e il kender sospirò di sollievo. Per un momento aveva pensato di essersi addormentato senza saperlo e di trovarsi a camminare in un sogno bizzarro.

Ma a quanto pareva era tutto vero, troppo vero. O per lo meno lo era per lui. Per Caramon era una storia molto diversa. 92

«Guardate,» stava dicendo Caramon, sempre solenne, barcollando avanti e indietro. «Ora lancerò un magico incantesimo.» Sollevando le mani, farfugliò una sfilza d’insensatezze. «Cienerepolverre e nididituopiii! Burrung!». Puntò un dito contro un albero. «Puff,» bisbigliò, barcollando all’indietro.

«Su, in fiamme! Su, su! Brucia, brucia, brucia... proprio cuome ti povverrro Caaramon.» Avanzò barcollando, procedendo a zig zag lungo il sentiero .

«Tuuutte le cammerrierreee ti ammano,» cantò. «Ogni caane è tuo imi... cooo. Qualunque cosa dicci è quello che in-intiendiiii...»

Strizzandosi le mani, Tas gli corse dietro. Bupu li rincorse trotterellando.

«Albero non brucia,» disse Bupu a Tas in tono accusatorio.

«Lo so!» gemette Tas. «È soltanto che... lui lo crede...»

«Lui cattivo mago. Tocca a me.» Frugando nell’enorme borsa che continuava a farla inciampare, Bupu lanciò un grido di trionfo e tirò fuori un grosso topo molto rigido e molto morto.

«Non adesso, Bupu...» cominciò a dire Tas, sentendo che quel poco di salute mentale che ancora gli rimaneva cominciava a sfuggirgli. Caramon davanti a loro aveva smesso di cantare e stava urlando che avrebbe coperto

la foresta di ragnatele.

«Io sto per dire segreta parola magica,» dichiarò Bupu. «Tu non ascoltare. Guastare segreto.»

«Non ascolterò,» disse Tas con impazienza, cercando di raggiungere Caramon il quale, malgrado tutto il suo barcollare, stava procedendo ad una più che discreta velocità.

«Stai ascoltando?» chiese Bupu, ansimando al suo fianco.

«No,» disse Tas con un sospiro.

«Perché no?»

«Me l’hai detto tu di non ascoltare!» urlò Tas esasperato.

«Ma come fai a sapere quando ascoltare se non ascoltare?» volle sape-

Bupu con rabbia. «Tu cerchi rubare segreto parola magica! Me andare casa.»

La nana dei burroni si fermò di colpo, si girò e cominciò a ripercorrere trotterellando il sentiero.

Tas si arrestò con una brusca frenata. Adesso poteva vedere Caramon, aggrappato a un albero, intento ad evocare un esercito di draghi, a giudicare da quanto stava biascicando ad alta voce.

Sembrava che l’omone dovesse starsene fermo almeno per un po’. Imprecando sottovoce, il kender si voltò e corse dietro alla nana dei burroni.

«Fermati, Bupu!» gridò freneticamente, afferrando una manciata di Stracci sudici che aveva scambiato per la sua spalla. «Giuro che non ruberei mai e poi mai la tua parola magica segreta!»

«L’hai rubata!» strillò Bupu, agitando verso di lui il ratto morto.

«L’hai detta!»

«Detto cosa?» chiese Tasslehoff, del tutto sconcertato. «Parola magica segreta! Tu detto!» urlò Bupu indignata. «Qui! Guarda!» Tenendo il ratto morto davanti a sé, indicò qualcosa più oltre nel sentiero, e gridò: «Io dico parola magica segreta adesso: parola magica segreta! Ecco. Adesso vediamo una magia che brucia.» Tas si portò la mano alla testa. Si sentiva stordito. «Guarda! Guarda!» urlò Bupu puntando un dito incredibilmente sporco. «Visto? Io appiccato fuoco. Parola magica segreta mai fallisce. Umpf. Cattivo sfruttatore magia, lui.»

Tas lanciò un’occhiata in fondo al sentiero, e sbatté le palpebre. C’erano fiamme visibili davanti a loro lungo il sentiero.

«Decisamente, ora me ne torno a Kenderhome,» ponderò Tas in silenzio fra sé e sé. «Mi cercherò una casetta... o forse andrò a vivere con i miei per qualche mese fino a quando non mi sentirò meglio.»

«Chi è là?» gridò una voce limpida e cristallina. Tasslehoff si sentì invadere da una sensazione di sollievo. «È il fuoco di un bivacco!» farfugliò, quasi isterico per la gioia.

Quella voce! Si precipitò avanti, correndo attraverso il buio verso la luce. «Sono io, Tasslehoff Burrfoot! Sono... uumf!»

L’«uumf» era stato causato da Caramon che aveva sollevato il kender da terra, stringendolo fra le braccia robuste e tappandogli la bocca con una mano.

«Sst!» bisbigliò Caramon nell’orecchio di Tas. I fumi del suo alito fecero girar la testa al kender.

«C’è qualcuno laggiù!»

«Mpf... blsxtchscat!» Tas si dimenò freneticamente, cercando di liberarsi dalla stretta di Caramon.

Il kender stava morendo lentamente per soffocamento.

«Proprio chi pensavo,» bisbigliò Caramon fra sé, solennemente, mentre la sua mano si serrava con fermezza ancora maggiore sulla bocca del kender.

Tas cominciò a vedere un turbinio di vivide stelle azzurre. Lottò disperato, cercando di strappar via le mani di Caramon con tutte le sue forze, ma sarebbe stata comunque la fine della sua vita breve ed eccitante se Bupu non fosse comparsa all’improvviso ai piedi di Caramon.

«Parola magica segreta!» gridò la nana con voce stridula, ficcando il ratto morto sotto il naso dell’omone. La lontana luce del bivacco si rifletté sugli occhi neri della carcassa dell’animale e luccicò sui denti aguzzi immobilizzati in un perpetuo sogghigno.

«Ahiii!» urlò Caramon e lasciò cadere il kender. Tas cadde pesantemente al suolo annaspando per respirare.

«Che cosa sta succedendo, là?» chiese una voce gelida.

«Siamo venuti... a salvarti...» balbettò Tasslehoff, tirandosi in piedi con la testa che ancora gli girava.

Una figura abbigliata di bianco e ammantata di pellicce comparve sul sentiero davanti a loro. Bupu sollevò lo sguardo su di essa con un’espressione di profondo sospetto negli occhi.

«Parola magica segreta,» disse ancora la nana dei burroni, agitando il ratto morto in direzione della Reverenda Figlia di Paladine.

«Mi perdonerai se non mi mostro sfrenatamente grata,» disse Dama Crysania a Tasslehoff mentre quella sera sul tardi sedevano davanti al fuoco.

«Lo so. Mi dispiace,» replicò Tasslehoff, tutto rannicchiato sul terreno, e infelice. «Ho fatto un gran pasticcio. Di solito lo faccio, appunto,» continuò addolorato. «Chiedilo a chiunque. Spesso mi dicono che faccio impazzire la gente, ma questa è la prima volta che l’ho fatto per davvero!»

Tirando su con il naso, il kender lanciò un’occhiata ansiosa in direzione di Caramon. L’omone sedeva accanto al fuoco, ravvoltolato nel suo mantello. Ancora sotto l’influenza del potente spirito dei nani, adesso era talvolta Caramon e talvolta Raistlin. In quanto Caramon, mangiava con voracità, ingozzandosi di gusto. Quindi concedeva al suo pubblico parecchie ballate sboccate, con grande delizia di Bupu, la quale batteva le mani fuori tempo e ci dava dentro forte con i ritornelli.

Tas era combattuto tra il forte desiderio di scompisciarsi dalle risate, oppure strisciare sotto una roccia e morire di vergogna.

Ma, decise il kender provando un brivido, lui preferiva di gran lunga il Caramon nudo e crudo, canzoni sboccate e tutto, al Caramon/Raistlin. La trasformazione avvenne all’improvviso, proprio nel mezzo di una canzone. La grande corporatura dell’omone parve afflosciarsi, cominciò a tossire poi, guardandoli con gli occhi ridotti a due fessure, ordinò con freddezza a se stesso di chiudere il becco.

«Non sei stato tu a fargli questo,» disse Dama Crysania a Tas, fissando Caramon con sguardo gelido. «È la bevanda. È volgare, ottuso, ed è ovvio che è privo di autocontrollo. Si è lasciato dominare dai suoi appetiti. Strano, vero, che lui e Raistlin siano gemelli? Suo fratello ha un controllo così completo di se stesso, così disciplinato, intelligente e raffinato.»

Dama Crysania scrollò le spalle. «Oh, non ci sono dubbi che si debba provare molta pietà per questo pover’uomo.» Alzandosi in piedi si avvicinò al suo cavallo impastoiato e cominciò a sciogliere le cinghie del sacco a pelo che teneva dietro la sella. «Lo ricorderò nelle mie preghiere a Paladine.»

«Sono sicuro che le preghiere non gli faranno male,» disse Tas, dubbioso. «Ma credo che in questo momento un po’ di tè speziato sarebbe preferibile.»

Dama Crysania si voltò e lanciò al kender un’occhiata di rimprovero.

«Sono certa che non intendevi nulla di blasfemo. Perciò accetterò la tua dichiarazione nel suo senso letterale. Comunque, sforzati di guardare alle cose con un atteggiamento più serio.»

«Ero serio,» protestò Tas. «A Caramon serve soltanto qualche tazza di buono e sciropposo tè speziato...»

Le scure sopracciglia di Dama Crysania si sollevarono con tale repentinità che Tas si azzittì, anche se non aveva la più pallida idea di cosa avesse detto per scombussolarla a tal punto. Cominciò a preparare il proprio giaciglio, con il morale tanto basso quanto non ricordava di averlo mai avuto prima. Si sentiva proprio come quando aveva cavalcato a dorso di drago con Flint durante la Battaglia delle Pianure di Estwilde. Il drago si era innalzato dentro le nuvole, poi si era tuffato fuori roteando su se stesso. Per lunghi istanti l’alto era stato il basso, il cielo era stato sotto, il suolo sopra, e poi... wuuush!, dentro un’altra nuvola e ogni cosa si era confusa nella nebbia.

La sua mente si sentiva proprio come allora. Dama Crysania ammirava Raistlin e provava pietà per Caramon. Tas non ne era sicuro, ma gli pareva che tutto procedesse alla rovescia. Poi c’era Caramon, che era Caramon e poi non era Caramon. Locande che si trovavano là un minuto prima e non c’erano più in quello successivo. Una parola magica segreta che avrebbe dovuto ascoltare così da sapere quando non ascoltare. Poi aveva dato un suggerimento perfettamente logico circa il tè speziato ed era stato rimproverato per aver detto qualcosa di blasfemo!

«Dopotutto...» borbottò fra sé, lisciando le coperte, «Paladine ed io siamo amici intimi. Lui sapeva quello che volevo dire.»

Sospirando, il kender appoggiò la testa sopra un mantello arrotolato. Bupu, adesso del tutto convinta che Caramon fosse Raistlin, dormiva della grossa, arrotolata su se stessa e con la testa appoggiata in adorazione sul piede dell’omone. Adesso lo stesso Caramon sedeva in silenzio e con gli occhi chiusi, canticchiando una canzone. Di tanto in tanto tossiva, e a un certo punto chiese ad alta voce che Tas gli portasse il suo libro degli incantesimi così da poter studiare la sua magia. Ma pareva abbastanza pacifico. Tas sperò che facesse presto ad addormentarsi ed esaurisse l’effetto dello spirito dei nani.

Il fuoco ardeva basso. Dama Crysania distese le coperte su un letto di aghi di pino che aveva ammucchiato per tener lontana l’umidità. Tas sbadigliò. Non c’era dubbio che se la stesse cavando meglio di quanto lui si era aspettato. Aveva scelto un posto buono e sensato per accamparsi, vicino al sentiero, con un ruscello di acqua limpida che scorreva lì vicino. Era un bene non essere stati costretti ad addentrarsi troppo in quei boschi bui e spettrali...

Boschi spettrali... che cosa gli ricordava questo? Tas si riprese mentre stava per piombare nel sonno. Qualcosa d’importante. Boschi spettrali. Spettri... parla di spettri...

«Il Bosco Cupo!» esclamò allarmato, rizzandosi a sedere di scatto.

«Che cosa?» chiese Dama Crysania, avvolgendosi nel proprio mantello e preparandosi a distendersi.

«Il Bosco Cupo!» ripetè Tas, allarmato. Adesso era completamente sveglio. «Siamo vicini al Bosco Cupo. Siamo venuti per avvertirti! È un luogo orribile. Avresti potuto finirci dentro senza accorgertene. Forse ci siamo già in mezzo...»

«Il Bosco Cupo?» Caramon spalancò di colpo gli occhi. Si guardò intorno, confuso.

«Sciocchezze,» disse Dama Crysania a proprio agio, aggiustandosi sotto la testa un piccolo cuscino da viaggio che aveva portato con sé. «Non siamo nel Bosco Cupo, non ancora. Dista all’incirca cinque miglia. Domani arriveremo a un sentiero che ci condurrà fin là.»

«Tu vuoi... vuoi andarci!» rantolò Tas.

«Certo,» annuì gelida Dama Crysania. «Vado là per cercare l’aiuto del Maestro della Foresta. Impiegherei molti mesi per viaggiare da qui alla Foresta di Wayreth, anche a cavallo. I draghi d’argento abitano nel Bosco Cupo insieme al Maestro della Foresta. Mi porteranno in volo fino alla mia destinazione.»

«Ma gli spettri, l’antico re morto e i suoi seguaci...»

«... sono stati liberati da questo terribile vincolo quando hanno risposto all’appello per combattere contro i Signori dei Draghi,» disse Dama Crysania, con voce un po’ stridula. «Dovresti studiare più seriamente la storia della guerra, Tasslehoff. Soprattutto perché vi hai partecipato. Quando le forze umane e quelle degli elfi si unirono per riconquistare Qualinesti, gli spettri del Bosco Cupo combatterono con loro, spezzando così il tenebroso incanto che li vincolava ad una vita terribile. Hanno lasciato questo mondo e da allora non sono più stati visti.»

«Oh,» disse Tas, stupidamente. Dopo essersi guardato intorno per un momento, tornò a sedersi sul suo sacco a pelo. «Ho parlato con loro,» continuò con nostalgia. «Erano molto cortesi. È triste pensare che...»

«Sono molto stanca,» lo interruppe Dama Crysania. «E domani mi aspetta un lungo viaggio. Prenderò con me la nana dei burroni e proseguirò per il Bosco Cupo. Tu potrai riportare il tuo amico inebetito a casa dove troverà, speriamo, l’aiuto che gli serve. Adesso vai a dormire.»

«Uno di noi non dovrebbe... vegliare?» chiese Tas, esitando. «Quei rangers hanno detto...» Quei rangers che si erano trovati nella locanda che non c’era.

«Sciocchezze. Paladine proteggerà il nostro riposo,» dichiarò Dama Crysania in tono perentorio.

Chiuse gli occhi e cominciò a recitare sommesse parole di preghiera.

Tas deglutì. «Mi chiedo se conosciamo lo stesso Paladine?» si chiese, pensando a Fizban e sentendosi molto solo. Ma lo disse fra i denti, non volendo essere accusato un’altra volta di essere blasfemo. Si coricò e si dimenò tra le coperte non riuscendo a mettersi comodo. Alla fine, ancora sveglio, si rizzò a sedere e si appoggiò contro il tronco di un albero. La notte di primavera era fresca ma non sgradevolmente gelida. Il cielo era limpido e non c’era vento. Dagli alberi si levava il frusciare delle loro conversazioni, sentivano la nuova vita scorrere attraverso tronchi e rami, risvegliandosi dopo il lungo sonno dell’inverno.

Passando la mano sopra il terreno, Tas toccò la nuova erba che faceva capolino in mezzo alle foglie putrescenti.

Il kender sospirò. Era una bella notte. Perché mai si sentiva inquieto? Era un suono quello che aveva sentito? Un ramoscello che si spezzava? Tas trasalì e si guardò intorno, trattenendo il respiro per sentire meglio. Niente. Silenzio. Sollevando lo sguardo al cielo vide la costellazione di Paladine, il Drago di Platino, che ruotava intorno alla costellazione di Gilean, i Piatti della Bilancia. Dalla parte opposta della costellazione di Paladine, ognuno sorvegliando attentamente l’altra, c’era la costellazione della Regina delle Tenebre Takhisis, il Drago a Cinque Teste.

«Sei spaventosamente lontano lassù,» disse Tas al Drago di Platino. «E hai un intero mondo da sorvegliare, non soltanto noi. Sono sicuro che non ti dispiacerà se stanotte veglierà sul nostro riposo. Non intendo mancarti di rispetto, naturalmente. È soltanto che ho la sensazione che anche Qualcun Altro lassù ci stia guardando, stanotte, se capisci quello che voglio dire.» Il kender rabbrividì. «Non so perché tutt’a un tratto mi sento così strano. Forse è il fatto che siamo così vicini al Bosco Cupo e, be’, a quanto pare io sono responsabile per tutti!»

Era un pensiero scomodo per un kender. Tas era abituato ad essere responsabile per se stesso, ma quando aveva viaggiato con Tanis e gli altri, c’era sempre stato qualcun altro responsabile per il gruppo. C’erano stati guerrieri forti e abili...

Stette in silenzio a fissare l’oscurità. C’era silenzio, poi un fruscio, poi...

Uno scoiattolo. Tas emise un sospiro che parve uscirgli dalla punta dei piedi.

«Visto che sono in piedi metterò un altro ciocco sul fuoco,» disse fra sé. Si avvicinò, e così facendo lanciò un’occhiata a Caramon, provando una fitta di dolore. Quanto più facile sarebbe stato far la guardia al buio se avesse saputo di poter contare sul braccio robusto di Caramon! Invece il grosso guerriero era rotolato supino, gli occhi chiusi, la bocca aperta, Tonfando soddisfatto da buon ubriaco. Arricciata sullo stivale di Caramon, la testa appoggiata al suo piede, Bupu mescolava il proprio russare a quello di lui. Dalla parte opposta, il più possibile lontano da loro, Dama Crysania dormiva pacifica, la guancia liscia appoggiata sulle mani ripiegate.

Con un tremulo sospiro, Tas buttò il ciocco sul fuoco. Lo vide avvampare e si sedette per vegliare, aguzzando lo sguardo sugli alberi avvolti dalla notte, le cui parole sussurrate avevano adesso un tono sinistro. Poi lo sentì di nuovo.

«Uno scoiattolo!» bisbigliò Tas risoluto.

C’era qualcosa che si muoveva fra le ombre? Udì un lontano crepitio, come un ramoscello che si spezzasse in due. Nessuno scoiattolo poteva far questo! Tas frugò nella sua borsa fino a quando la mano si chiuse sopra un piccolo pugnale. La foresta si stava muovendo! Gli alberi si stavano richiudendo su di loro!

Tas cercò di lanciare un grido di avvertimento, ma un ramo sottile gli afferrò il braccio...

«Ahiii,» urlò Tas, si contorse per liberarsi e colpì il ramo col suo pugnale.

Vi fu un’imprecazione e un grido di dolore. Il ramo lasciò la presa e Tas dette in un sospiro. Nessun albero da lui incontrato prima aveva mai lanciato grida di dolore. Qualsiasi cosa si trovasse a fronteggiare era viva, respirava...

«Siamo attaccati!» urlò il kender e arretrò barcollando. «Caramon, aiuto! Caramon...»

Due anni prima il grosso guerriero sarebbe balzato in piedi all’istante, la mano stretta sull’elsa della spada, vigile e pronto alla battaglia. Ma Tas, arrancando per volgere le spalle al fuoco del bivacco, con il suo piccolo pugnale come unico mezzo per tenere a bada qualunque cosa li stesse attaccando, vide la testa di Caramon ciondolare da un lato, torpida e beata nella sua ubriachezza.

«Dama Crysania!» urlò Tas a squarciagola, vedendo altre forme scure strisciare fuori dal bosco.

«Svegliati, per favore, svegliati!»

Adesso poteva sentire il calore del fuoco. Tenendo d’occhio quelle ombre minacciose, Tas abbassò una mano e afferrò un ramo fumante per una estremità, sperando che fosse quella fredda. Lo sollevò e spinse in avanti il legno avvampante.

Vi fu un rapido movimento quando una delle creature si lanciò verso di lui. Tas vibrò un colpo davanti a sé con il pugnale, facendo arretrare la creatura. Ma bastò l’istante in cui era stata illuminata a fargliela riconoscere.

«Caramon!» strillò Tas. «Draconici!»

Adesso Dama Crysania era sveglia; Tas vide che si rizzava a sedere, guardandosi intorno con gli occhi confusi dal sonno.

«Il fuoco!» le urlò Tas disperato. «Avvicinati al fuoco!». Inciampando su Bupu, il kender sferrò un calcio a Caramon. «Draconici!» urlò di nuovo.

Uno degli occhi di Caramon si aprì, poi l’altro, guardandosi intorno con sguardo furente e intontito.

«Caramon! Siano ringraziati gli dei!» Tas cacciò un rantolo di sollievo.

Caramon si rizzò a sedere. Sbirciando l’accampamento intorno a sé, completamente disorientato e confuso, era però ancora abbastanza guerriero da esser vagamente consapevole del pericolo.

Alzandosi in piedi con movimenti incerti, strinse l’elsa della spada e ruttò.

«Cuosac’è?» borbottò, cercando di mettere a fuoco la vista.

«Draconici!» strillò Tasslehoff, saltando tutt’intorno come un piccolo demone, agitando il tizzone e il pugnale con tanto vigore da riuscire davvero a tenere a bada i nemici.

«Draconici?» borbottò Caramon, guardandosi intorno incredulo. Poi intravide una faccia contorta da rettile illuminata dal fuoco morente. Spalancò gli occhi. «Draconici!» ringhiò. «Tanis, Sturm, a me! Raistlin... la tua magia! Li prenderemo.»

Strappando la spada dal fodero, Caramon si lanciò avanti con un rombante grido di battaglia... e stramazzò a faccia in giù. Bupu si aggrappò al suo piede.

«Oh, no!» gemette Tas.

Caramon giacque al suolo, sbattendo gli occhi e scuotendo la testa per lo stupore, cercando di capire cosa l’avesse colpito. Bupu, svegliata bruscamente, cominciò a ululare per il terrore e il dolore, poi morse Caramon alla caviglia.

Tas stava per balzare avanti in aiuto del guerriero caduto, per lo meno per strappargli di dosso Bupu, quando udì un grido. Dama Crysania! Dannazione! Si era dimenticato di lei! Girandosi di scatto, vide il chierico intento a lottare con uno dei draconici.

Tas si lanciò in avanti e calò con violenza il pugnale sul draconico. Con un urlo stridulo il mostro lasciò andare Crysania e cadde all’indietro.

Il suo corpo divenne di pietra ai piedi di Tas. Il kender si ricordò appena in tempo di recuperare il pugnale, altrimenti il cadavere di pietra l’avrebbe trattenuto senza remissione.

Tas trascinò indietro Crysania con sé verso il punto in cui Caramon giaceva per terra cercando di scuotersi di dosso la nana dei burroni.

I draconici li stavano circondando, stringendoli dappresso. Guardandosi intorno febbrilmente Tas vide dovunque queste creature. Ma perché non si scagliavano all’attacco? Che cosa stavano aspettando?

«Stai bene?» riuscì a chiedere a Crysania.

«Sì,» lei rispose. Malgrado fosse molto pallida, appariva calma e, se era spaventata, teneva la sua paura sotto controllo. Tas vide che le sue labbra si muovevano, presumibilmente in una silenziosa preghiera. Le labbra del kender si serrarono.

«Ecco, Dama,» disse, mettendole in mano il ramo ardente. «Credo che dovrai combattere e pregare allo stesso tempo.»

«Elistan lo faceva. Allora posso farlo anch’io,» rispose Crysania, con la voce percorsa da un tremito quasi impercettibile.

Degli ordini echeggiarono in mezzo alle ombre. La voce non era draconica. Tas non riuscì a distinguerla. Ma al solo udirla fu scosso da brividi di gelo. Non ebbe però il tempo d’interrogarsi. I draconici, con le lingue che guizzavano fuori dalle bocche, balzarono loro addosso.

Crysania sferrò dei colpi col ramo ardente. Erano movimenti goffi ma sufficienti a far esitare i draconici. Tas stava ancora tentando di strappare Bupu da Caramon. Ma fu un draconico a venire, involontariamente, in loro aiuto. Spingendo indietro Tas, il draconico appoggiò una mano artigliata su Bupu.

I nani dei burroni erano noti in tutto Krynn per la loro estrema codardia e la totale inaffidabilità in battaglia. Ma, quando si trovavano con le spalle al muro, potevano combattere come ratti rabbiosi.

«Glupsludge!» urlò Bupu rabbiosamente e, smettendo di rosicchiare la gamba di Caramon, affondò i denti nella pelle scagliosa della gamba del draconico.

Bupu non aveva molti denti, ma quei pochi che aveva erano aguzzi, e morse la pelle verde del draconico con un entusiasmo dovuto al fatto che non aveva mangiato molto a cena.

Il draconico esplose in un grido orrendo. Sollevò la spada di scatto e stava sul punto di porre fine ai giorni di Bupu su Krynn quando Caramon, incespicando qua e là con la spada in pugno e cercando di vedere quello che stava succedendo, troncò per caso il braccio della creatura. Bupu si sedette per terra, leccandosi le labbra, e si guardò intorno con avidità alla ricerca di un’altra vittima.

«Urrah, Caramon!» esclamò Tas, in preda a un’irresistibile frenesia mentre il suo piccolo pugnale colpiva a destra e a manca con la rapidità di un serpente. Dama Crysania sferrò un colpo col ramo ardente a un draconico, urlando il nome di Paladine. La creatura si abbatté al suolo.

Da quello che Tas poteva vedere, i draconici rimasti in piedi erano due o tre soltanto, e il kender cominciò a sentirsi imbaldanzito. Le creature si tenevano appena fuori del bagliore del fuoco e stavano squadrando circospette il grosso guerriero, Caramon, che si stava rialzando con qualche difficoltà. Vista soltanto in mezzo alle ombre, la sua figura appariva minacciosa come ai vecchi tempi. La lama della sua spada sfavillava sinistra alla luce rossastra delle fiamme.

«Beccali, Caramon!» urlò Tas con voce stridula. «Spaccagli la testa...»

La voce del kender si spense quando Caramon si voltò lentamente verso di lui con una strana espressione sulla faccia.

«Non sono Caramon,» disse con voce sommessa. «Sono il suo gemello Raistlin. Caramon è morto. L’ho ucciso io.» Abbassando lo sguardo sulla spada che stringeva in mano, il grosso guerriero la lasciò cadere come se l’avesse punto. «Cosa faccio con questo freddo acciaio in mano?» chiese con asprezza. «Non posso lanciare incantesimi con una spada e uno scudo!»

Tasslehoff soffocò, lanciando un’occhiata allarmata ai draconici. Poteva vedere che si stavano scambiando delle occhiate astute. Cominciarono ad avanzare lentamente, anche se tutti tenevano lo sguardo fisso sul grosso guerriero, probabilmente sospettando una trappola.

«Non sei Raistlin! Sei Caramon!» gridò Tas in preda alla disperazione, ma non servì. Il cervello dell’omone era ancora inzuppato di spirito dei nani. Col cervello completamente scardinato, Caramon chiuse gli occhi, sollevò le mani e cominciò a cantare.

«Nidi di formiche d’argento...» prese a mugolare, oscillando avanti e indietro.

Il volto ghignante d’un draconico si profilò davanti a Tas. Vi fu un balenare d’acciaio e la testa del kender parve esplodere per il dolore...

Tas era sul terreno. Un liquido caldo gli scorreva sul viso, accecandogli un occhio, gocciolandogli in bocca. Sentì il sapore del sangue. Era stanco... molto stanco...

Ma il dolore era tremendo. Non lo lasciava dormire. Temeva di muovere la testa, temeva che questa si spaccasse in due. E così giacque perfettamente immobile, osservando il mondo da un occhio solo.

Sentì la nana dei burroni che continuava a urlare come un animale torturato, e poi tutt’a un tratto le urla cessarono. Udì un profondo grido di dolore, un gemito soffocato, e un grosso corpo si schiantò al suolo accanto a lui. Era Caramon, con il sangue che gli scorreva dalla bocca, gli occhi spalancati e fissi.

Tas non riusciva a sentirsi triste. Non riusciva a sentire niente se non il terribile dolore alla testa.

Un gigantesco draconico si ergeva sopra di lui, con la spada in pugno. Sapeva che la creatura stava per ucciderlo. Non gli importava. Metti fine al dolore, lo implorò. Fai presto.

Poi vi fu un turbinio di vesti bianche e una limpida voce invocò Paladine. Il draconico scomparve all’improvviso con un trepestio di piedi artigliati che si allontanavano in mezzo alla boscaglia. Le vesti bianche s’inginocchiarono al suo fianco. Tas sentì il tocco di una mano gentile sulla testa, e udì di nuovo il nome di Paladine. Il dolore scomparve. Nel sollevare lo sguardo vide la mano del chierico toccare Caramon, vide le palpebre dell’omone che sbattevano per poi chiudersi in un sonno tranquillo.

Va tutto bene, pensò Tas giubilante. Se ne sono andati ! Siamo salvi. Poi sentì che la mano tremava. Recuperando un po’ i propri sensi a mano a mano che le energie curative del chierico si diffondevano nel suo corpo, il kender sollevò la testa, sbirciando davanti a sé con l’occhio ancora valido.

Stava arrivando qualcuno. Qualcosa aveva richiamato i draconici. Qualcosa stava entrando nella luce del fuoco.

Tas cercò di gridare un avvertimento, ma la gola gli si chiuse. La mente gli si inceppò più e più volte. Per un momento, troppo spaventato e stordito per riuscire a pensare con chiarezza, si convinse che qualcuno avesse mischiato le sue avventure.

Vide Dama Crysania alzarsi in piedi, le vesti bianche spazzarono il terriccio accanto alla sua testa.

Lentamente Dama Crysania cominciò ad arretrare dalla cosa che la guatava. Tas la sentì invocare il nome di Paladine, ma le parole sgorgavano da labbra irrigidite dal terrore.

Lo stesso Tas avrebbe voluto disperatamente chiudere gli occhi. La paura e la curiosità combattevano dentro il suo piccolo corpo. La curiosità l’ebbe vinta. Sbirciando dall’occhio buono, Tas osservò l’orrenda figura che si avvicinava sempre più al chierico. La figura indossava l’armatura d’un Cavaliere di Solamnia ma quell’armatura era bruciata e annerita. Mentre si avvicinava a Crysania la figura tese un braccio che non terminava con una mano. Pronunciò parole che non uscivano da una bocca. I suoi occhi avvamparono d’arancione, le sue gambe trasparenti attraversarono le ceneri fumanti del bivacco. Il gelo delle regioni in cui era costretto a dimorare in eterno scorreva fuori dal suo corpo, congelando il midollo nelle ossa di Tas.

Spaventato, Tas sollevò la testa. Vide Dama Crysania che arretrava. Vide il cavaliere della morte incamminarsi verso di lei con passi lenti e inesorabili.

Il cavaliere sollevò la mano destra e puntò contro Crysania un pallido dito scintillante.

Tas si sentì afferrare da un improvviso, incontrollabile terrore. «No!» gemette, rabbrividendo, anche se non aveva la più pallida idea di quale orrenda cosa stesse per accadere.

Il cavaliere disse una parola:

«Muori!»

In quell’istante, Tas vide Dama Crysania sollevare la mano e stringere il medaglione che portava appeso al collo. Vide un lampo accecante di pura luce bianca sgorgare dalle sue dita; poi Dama Crysania cadde al suolo come se fosse stata trafitta da un dito scarnificato.

«No!» si sentì gridare Tasslehoff. Vide quegli occhi avvampanti di arancione rivolgere la loro attenzione verso di lui, e un’oscurità umida e gelida, come l’oscurità di una tomba, gli sigillò gli occhi e gli chiuse la bocca...

Capitolo ottavo.

Dalamar si avvicinò trepidante al laboratorio del mago, passando un dito nervoso sulle rune protettive cucite sul tessuto delle sue vesti nere mentre frettolosamente ripeteva parecchi incantesimi difensivi della sua mente. Una certa dose di cautela non sarebbe parsa indecorosa da parte di qualsiasi giovane apprendista che si avvicinasse alle camere interne e segrete d’un maestro potente e tenebroso. Ma le precauzioni di Dalamar erano eccezionali. E con buone ragioni. Dalamar aveva propri segreti da nascondere, e non c’era nessuno al mondo che più di lui temesse e paventasse lo sguardo di quegli occhi dorati a forma di clessidra.

Eppure, ancora più in profondità di quella paura, una corrente sotterranea di eccitazione pulsava nel sangue di Dalamar, come sempre accadeva quando si arrestava davanti a quella porta. Aveva visto cose meravigliose dentro quella stanza. Meravigliose... spaventose...

Sollevando la mano destra tracciò un rapido segno nell’aria davanti alla porta e borbottò alcune parole nella lingua della magia. Non vi fu nessuna reazione. Sulla porta non era stato lanciato nessun incantesimo. Dalamar respirò un po’ più facilmente... o forse era un sorriso di delusione. Il suo padrone non era impegnato in nessuna magia potente e intensa, altrimenti Raistlin avrebbe bloccato ermeticamente la porta con un adeguato incantesimo. Lanciando un’occhiata al pavimento, l’elfo scuro non vide filtrare nessuna luce tremolante da sotto la massiccia porta di legno. Non sentì nessun odore, salvo quello consueto delle spezie e della putrefazione. Dalamar appoggiò le cinque punte delle dita della sua mano sinistra sulla porta e aspettò in silenzio.

Nello spazio di tempo che l’elfo scuro impiegò a tirare un sospiro, giunse l’ordine pronunciato con voce sommessa: «Entra, Dalamar.»

Facendosi forza, Dalamar entrò nella stanza quando la porta si spalancò in silenzio davanti a lui.

Raistlin sedeva a un enorme e antico tavolo di pietra, talmente grande che un esemplare della razza dei minotauri, alti e dalle ampie spalle, che vivevano a Mithas, avrebbe potuto distendercisi sopra, allungandosi tutto, e ancora sarebbe avanzato dello spazio. Il tavolo di pietra, e in effetti l’intero laboratorio, facevano parte dell’arredamento originario che Raistlin aveva trovato quando aveva reclamato la Torre della Grande Stregoneria come propria.

La grande camera in ombra pareva assai più grande di quanto avrebbe potuto essere, eppure l’elfo scuro non era mai riuscito a decidere se era la camera stessa ad apparire più grande, o se invece non era lui a sembrare più piccolo quando entrava. Qui, come nello studio del mago, i libri rivestivano le pareti. Rune e scritture filiformi ardevano attraverso la polvere raccolta sui dorsi. Sui tavoli disposti tutt’intorno, sui lati della camera, c’erano bottiglie e vasi di vetro dalle forme contorte e il loro contenuto dai vivaci colori gorgogliava e ribolliva d’una potenza occulta.

Qui, in questo laboratorio, molto tempo addietro, erano state compiute grandi e potenti magie. Qui gli stregoni di tutte e tre le Vesti: il Bianco del Bene, il Rosso della Neutralità, e il Nero del Male, si erano alleati per creare i Globi dei Draghi, uno dei quali era adesso in possesso di Raistlin. Qui le tre Vesti si erano unite in un’ultima disperata battaglia per salvare le loro Torri, i bastioni della loro forza, dal Gran Sacerdote di Istar e dalla plebaglia. Qui avevano fallito, convinti che fosse meglio vivere nella sconfitta piuttosto che combattere, sapendo che la loro magia poteva distruggere il mondo.

I maghi erano stati costretti ad abbandonare quella Torre, portando i loro libri degli incantesimi ed altre cose personali nella Torre della (Grande Stregoneria nascosta nelle profondità della magica Foresta di Wayreth. Era stato quando avevano abbandonato la Torre che era stata andata la maledizione su di essa. Il Bosco di Shoikan era cresciuto per proteggerla da tutti coloro che si avvicinavano fino a quando, come predetto, «il maestro del presente e del passato non fosse tornato con il potere.»

E il maestro era tornato. Adesso sedeva nell’antico laboratorio, rannicchiato sopra il tavolo di pietra che era stato trascinato fuori, molto tempo addietro, dal fondo del mare. Scolpito con rune che respingevano ogni incantesimo, veniva tenuto libero da qualunque influenza esterna potesse condizionare il lavoro del mago. La superficie del tavolo era levigata e lucidata quasi a specchio.

Dalamar poteva vedere le rilegature azzurro-notte dei libri degli incantesimi appoggiati sopra di essa riflettervisi alla luce delle candele.

Anche altri oggetti erano sparpagliati sulla sua superficie: oggetti tremendi e curiosi, terribili e adorabili, i componenti degli incantesimi del mago. Era su questi che adesso Raistlin stava lavorando, scorrendo un libro d’incantesimi, mormorando parole sommesse mentre schiacciava qualcosa fra le dita delicate, lasciandolo sgocciolare dentro una fiala che reggeva in mano.

«Shalafi,» disse Dalamar, a bassa voce, usando la parola elfa per “maestro”.

Raistlin levò lo sguardo.

Dalamar sentì che quegli occhi dorati gli trafiggevano il cuore causandogli un indefinibile dolore.

Un brivido di paura investì l’elfo scuro, le parole: Lo sa! gli ribollirono nel cervello. Ma niente della sua emozione era visibile all’esterno. I lineamenti decisi dell’elfo scuro rimasero fissi, immutati, freddi. I suoi occhi restituirono con fermezza l’occhiata di Raistlin. Le sue mani rimasero ripiegate all’interno delle vesti, così com’era corretto.

Quel lavoro era talmente pericoloso che, quando Loro avevano ritenuto necessario infiltrare una spia fra quelli che servivano il mago, avevano chiesto dei volontari, poiché nessuno fra essi era stato disposto ad assumersi la responsabilità di ordinare a qualcuno, a sangue freddo, di accettare quel micidiale incarico. Dalamar si era fatto subito avanti.

La magia era l’unica dimora possibile per Dalamar. Originario di Silvanesti, adesso non rivendicava né veniva rivendicato da quella nobile razza di elfi. Nato di bassa casta, gli erano stati insegnati soltanto i primissimi rudimenti delle arti magiche. Gli insegnamenti più alti erano riservati soltanto a coloro che avevano sangue reale. Ma Dalamar aveva assaggiato il potere, e questo era diventato la sua ossessione. Lavorava in segreto, studiando le cose proibite, apprendendo meraviglie riservate soltanto ai maghi degli elfi del più alto rango. Le arti tenebrose erano quelle che l’avevano attirato di più. E così, quand’era stato scoperto con addosso le Vesti Nere che nessun vero elfo poteva anche soltanto sopportare di guardare, Dalamar era stato bandito dalla sua casa e dalla sua nazione. Ed era diventato noto come «l’elfo scuro», colui che è fuori dalla luce. Ciò era andato benissimo per Dalamar poiché, sin dall’inizio, aveva appreso che c’era potere nella tenebra.

E così Dalamar aveva accettato la missione. Quando gli era stato chiesto di enunciare le proprie ragioni per le quali era disposto a rischiare volontariamente la propria vita per assolvere quel compito, aveva risposto con freddezza: «Rischierei la mia anima pur di avere la possibilità di studiare con il più grande e potente maestro del nostro ordine che sia mai vissuto!»

«Potresti benissimo finire per far questo,» gli aveva risposto una voce triste.

Il ricordo di quella voce tornava a Dalamar nei momenti più impensati, di solito nel buio della notte, che era così tremendamente scura all’interno della Torre. Adesso, gli ritornò alla mente, ma Dalamar lo respinse con uno sforzo.

«Cosa c’è?» chiese Raistlin in tono gentile.

Il mago parlava sempre con gentilezza e voce sommessa, talvolta senza neppure levare la voce al di sopra d’un sussurro. Dalamar aveva visto spaventevoli tempeste infuriare in quella stanza. La luce avvampante e lo schianto del tuono l’avevano lasciato parzialmente sordo per diversi giorni di seguito. Era stato presente quando il mago aveva evocato creature dai piani superni e dagli inferi perché eseguissero i suoi ordini; le loro grida, i gemiti e le imprecazioni risuonavano ancora nei suoi sogni durante la notte. Eppure, durante tutto questo, non aveva mai sentito una sola volta Raistlin levare la voce. Quel sussurro sommesso e sibilante penetrava sempre il caos e lo portava sotto controllo.

«Shalafi, nel mondo esterno stanno accadendo fatti che richiedono la tua attenzione.»

«Davvero?» Raistlin abbassò di nuovo lo sguardo, assorto nel suo lavoro. «Dama Crysania...»

Raistlin sollevò subito la testa incappucciata. Dalamar, davanti a quel movimento che gli ricordava un serpente pronto ad avventarsi sulla preda, e ;davanti a quello sguardo intenso, fece involontariamente un passo indietro. «Cosa? Parla!» Raistlin sibilò le parole.

«Dovresti... dovresti venire, Shalafi, » balbettò Dalamar. «I Vivi riferiscono...» L’elfo scuro aveva parlato all’aria. Raistlin era scomparso. Emettendo un tremulo sospiro, l’elfo scuro pronunciò le parole che l’avrebbero condotto all’istante al fianco del suo maestro.

Molto al di sotto della Torre della Grande Stregoneria, nelle profondità del terreno, c’era una piccola camera rotonda scavata per forza di magia nella roccia che sosteneva la Torre. In origine quella camera non aveva fatto parte della Torre. Conosciuta come la Camera della Visione, era una creazione di Raistlin.

Giusto al centro della piccola stanza, nella gelida pietra, c’era una pozza perfettamente rotonda di acqua scura e immobile. Dal centro di quello stagno strano e innaturale schizzava un getto di fiamme azzurre. Levandosi fino al soffitto della camera, bruciava in eterno, giorno e notte. E intorno ad esso, in eterno, sedevano i Vivi.

Sventurate creature nate da tragici errori nelle pratiche di magia, venivano tenute in schiavitù in questa camera, al servizio del loro creatore. Qui trascorrevano la loro vita torturata, contorcendosi come masse sanguinolente simili a larve intorno alla pozza fiammeggiante. I loro corpi umidi e luccicanti formavano un orribile tappeto sul pavimento le cui pietre, rese lisce dalle loro trasudazioni, diventavano visibili soltanto quando essi si scostavano per fare spazio al loro creatore.

Eppure, malgrado la loro esistenza di continuo e contorto dolore, i Vivi non pronunciavano nessuna parola per lamentarsi. Stavano assai meglio loro che quelli che vagavano per la Torre, conosciuti come i Morti...

Raistlin si materializzò all’interno della Casa della Visione, un’ombra scura che emerse dal buio. La fiamma azzurra sfavillava sui fili d’argento che decoravano le sue vesti, irradiandosi anche dentro il tessuto nero. Dalamar comparve accanto a lui, e i due si fecero avanti, fermandosi accanto all’acqua nera e immobile.

«Dove?» chiese Raistlin.

«Qui, M...maestro,» farfugliò uno dei Vivi, puntando un’appendice deforme.

Raistlin si portò rapidamente al suo fianco. Dalamar gli camminò accanto. Le loro vesti nere produssero un fruscio morbido e sussurrante sulle pietre viscide del pavimento. Fissando l’acqua, Raistlin fece cenno a Dalamar di fare lo stesso. L’elfo scuro guardò dentro la superficie immobile, e per un istante vi vide soltanto il riflesso del getto fiammeggiante azzurro. Poi la fiamma e l’acqua si fusero, quindi si dischiusero e Dalamar si trovò in una foresta. Un grosso maschio umano, abbigliato con un’armatura del tutto sproporzionata alla sua mole, stava fissando il corpo di una giovane femmina umana abbigliata di bianco. Un kender era inginocchiato accanto al corpo della donna, tenendole la mano nella sua. Dalamar sentì l’omone parlare con la stessa chiarezza come se lui si fosse trovato al suo fianco.

«È morta...»

«Non... non ne sono sicuro, Caramon. Penso...»

«Ho visto la morte tanto spesso quanto basta, credimi. È morta. Ed è tutta colpa mia... colpa mia...»

«Caramon, imbecille!» Raistlin ringhiò un’imprecazione. «Cos’è successo? Cos’è andato storto?»

Mentre il mago parlava, Dalamar vide il kender sollevare rapidamente lo sguardo.

«Hai detto qualcosa?» chiese il kender al grosso umano, che stava scavando il terreno.

«No, è stato il vento.»

«Cosa stai facendo!»

«Sto scavando una tomba. Dobbiamo seppellirla.»

«Seppellirla?» Raistlin se ne uscì in una breve, amara risata. «Oh, naturalmente, idiota pasticcione! È tutto quello che riesci a pensare di fare!» Il mago era furente. «Seppellirla! Devo sapere cos’è accaduto!». Si rivolse al Vivo. «Cos’hai visto?»

«L... loro ac... campati tra gli alberi, M... maestro.» La bava gocciolava dalla bocca. «D... draco uc... ucciso...»

«Draconici?» ripetè Raistlin con stupore. «Vicino a Solace? Da dove sono venuti?»

«N... non so! N... non so!» Il Vivo si ritrasse terrorizzato. «I... io...»

«Sst,» lo ammonì Dalamar, riportando l’attenzione del suo maestro sulla pozza dove il kender stava discutendo.

«Caramon, non puoi seppellirla! E...»

«Non abbiamo altra scelta. So che non è corretto ma Paladine farà in modo che la sua anima viaggi in pace. Non possiamo rischiare di erigere una pira funeraria, non con questi draconici intorno...»

«Ma Caramon, credo proprio che dovresti venire a darle un’occhiata! Non c’è un solo segno sul suo corpo!»

«Non voglio guardarla! È morta! È stata colpa mia! La seppelliremo qui, poi io tornerò a Solace, tornerò per scavare la mia stessa tomba...»

«Caramon!»

«Vai a cercare qualche fiore e lasciami in pace!»

Dalamar vide l’omone strappare dal suolo le zolle umide a mani nude, scagliandole da parte mentre le lacrime gli scorrevano giù per il viso. Il kender rimase accanto al corpo della donna, irresoluto. Il suo volto era coperto di sangue disseccato, la sua espressione era un misto di dolore e di dubbio.

«Nessun segno, nessuna ferita, i draconici sbucati dal nulla...». Raistlin corrugò la fronte pensieroso. Poi, d’un tratto s’inginocchiò accanto al Vivo, che cercò di sgusciare via da lui. «Parla. Dimmi tutto. Devo sapere. Perché non sono stato chiamato prima?»

«I... il d... draco uccide, M... maestro,» farfugliò il Vivo in preda all’angoscia. M... ma an... anche l’o...omone h... ha uc... ucciso. P... poi gr... grande buio v... venuto! O... occhi di f... fuoco. I... io p... paura, ca... cadere in ac... acqua...»

«Ho trovato il Vivo ai bordi dell’acqua,» riferì Dalamar con freddezza, «quando uno degli altri mi ha detto che stava accadendo qualcosa di strano. Ho guardato nell’acqua. Conoscendo il tuo interesse per questa femmina umana, ho pensato che tu...»

«Giusto,» mormorò Raistlin, interrompendo con impazienza la spiegazione di Dalamar. Gli occhi dorati del mago si restrinsero, le sue labbra sottili si stirarono. Percependo la sua collera, il povero Vivo trascinò il proprio corpo quanto più lontano possibile dal mago. Dalamar trattenne il fiato. Ma la collera di Raistlin non era diretta contro di loro.

«“Grande buio, occhi di fuoco”... Lord Soth! Così, sorella mia, mi tradisci,» bisbigliò Raistlin.

«Sento l’odore della tua paura, Kitiara! Vile! Codarda! Avrei potuto farti regina di questo mondo. Avrei potuto darti una ricchezza incalcolabile, un potere sconfinato. Ma no. Dopotutto, sei soltanto un verme!»

Rimase là in silenzio, riflettendo, fissando la pozza immobile. Quando riprese a parlare, la sua voce era sommessa, letale. «Non dimenticherò mai questo, mia cara sorella. Sei fortunata che io abbia faccende più urgenti e incalzanti di cui occuparmi, altrimenti ti troveresti già nell’identica dimora degli inferi insieme al lord fantasma che ti serve!» Raistlin serrò il pugno sottile, poi, con un chiaro sforzo, si costrinse a rilassarsi. «Ma adesso, cosa devo fare in proposito? Devo fare qualcosa prima che mio fratello pianti il chierico in un’aiuola!»

«Shalafi, cos’è successo?» chiese Dalamar, osando molto. «Questa donna... cos’è per te? Non capisco.»

Raistlin lanciò un’occhiata irritata a Dalamar e parve sul punto di rampognarlo aspramente per la sua impertinenza. Poi il mago esitò. I suoi occhi dorati balenarono all’improvviso d’un lampo di luce interiore che fece retrocedere Dalamar per la paura, prima di recuperare la sua espressione fissa e impassibile.

«Naturalmente, apprendista, saprai ogni cosa. Ma prima...»

Raistlin ristette. Un’altra figura era entrata in scena nella foresta che stavano osservando con tanta attenzione. Era una nana dei burroni, infagottata in strati e strati d’indumenti cenciosi e multicolori, che si trascinava dietro una borsa gigantesca.

«Bupu!» bisbigliò Raistlin, il suo raro sorriso gli sfiorò le labbra. «Eccellente. Ancora una volta mi servirai, piccolina.»

Allungando una mano, Raistlin toccò l’acqua immobile. I Vivi intorno alla pozza urlarono di orrore, poiché avevano visto molti della loro specie cadere dentro quell’acqua scura, per poi accartocciarsi e rimpicciolire e diventare null’altro che un filo di fumo che si levava in aria con un grido stridulo. Ma Raistlin si limitò a mormorare delle parole sommesse e poi ritirò la mano. Le sue dita erano bianche come il marmo, uno spasimo di dolore gli attraversò il viso. Raistlin si affrettò a infilare la mano dentro una tasca della sua veste.

«Osserva,» bisbigliò esultante.

Dalamar fissò l’acqua, osservando la nana dei burroni che si avvicinava alla forma immobile e senza vita della donna.

«Me aiutare.»

«No, Bupu!»

«Tu non piacere mia magia? io andare casa. Ma prima me aiutare graziosa dama.»

«Nel nome dell’Abisso, che cosa...» borbottò Dalamar.

«Osserva», gli intimò Raistlin.

Dalamar osservò la manina sudicia della nana dei burroni affondare nella sacca al suo fianco. Dopo aver frugato alla cieca per un paio di minuti, ne emerse con un oggetto ripugnante: una lucertola morta e irrigidita con una cinghia di cuoio intorno al collo. Bupu si avvicinò alla donna e quando il kender cercò di fermarla gli puntò in faccia il piccolo pugno a mo’ di ammonimento. Con un sospiro e un’occhiata in tralice a Caramon, che stava scavando furiosamente, con la faccia ridotta a una maschera di dolore e di sangue, il kender fece un passo indietro. Bupu si lasciò cadere accanto alla forma senza vita della donna e appoggiò con cura la lucertola morta sul suo petto.

Il petto della donna si sollevò, le vesti bianche tremolarono. Cominciò a respirare, profondamente e pacificamente.

Il kender lanciò un grido.

«Caramon! Bupu l’ha guarita! Evviva! Guarda!»

«Cosa dia...» L’omone smise di scavare e si avvicinò incespicando, fissando la nana dei burroni con stupore e paura.

«Lucertola guarisce, » disse Bupu trionfante. «Funziona tutte volte.»

«Sì, piccolina,» disse Raistlin, sempre sorridendo. «Funziona bene anche per la tosse, a quanto ricordo.» Agitò la mano sopra l’acqua immobile. La voce del mago divenne un canto suadente, quasi una ninnananna: «E adesso dormi, fratello mio, prima di fare qualche altra stupidaggine. Dormi, kender, dormi, piccola Bupu. E dormi anche tu, Dama Crysania, nel regno in cui Paladine protegge.»

Sempre salmodiando, Raistlin fece un cenno con la mano. «E adesso vieni avanti, Foresta di Wayreth. Striscia su di loro mentre dormono. Canta loro la magica canzone. Attirali lungo i tuoi segreti sentieri.»

L’Incantesimo era finito. Alzandosi in piedi, Raistlin si rivolse a Dalamar. «E vieni anche tu, apprendista,». C’era una nota di sottilissimo sarcasmo in quella voce, che fece rabbrividire l’elfo scuro, «vieni nel mio studio. È ora che noi due parliamo.».

Capitolo nono.

Dalamar sedeva nello studio del mago, sulla stessa sedia che Kitiara aveva occupato durante la sua visita. L’elfo scuro si sentiva assai meno a proprio agio, assai meno sicuro di quanto lo era stata Kitiara. Eppure le sue paure erano ben controllate. All’esterno appariva rilassato, composto. Un rossore accentuato sui suoi pallidi lineamenti da elfo poteva venir attribuito, forse, alla sua eccitazione per essere stato preso in confidenza dal suo maestro.

Dalamar era stato spesso nello studio, anche se non in presenza del suo maestro. Raistlin passava lì le sue serate da solo, a leggere e a studiare i tomi che rivestivano le pareti. Allora nessuno osava disturbarlo. Dalamar entrava nello studio durante le ore diurne, e anche allora soltanto quando Raistlin era impegnato altrove. In quei periodi all’elfo scuro apprendista era permesso, anzi richiesto, di studiare i libri degli incantesimi, alcuni soltanto, s’intende. Gli era stato proibito di aprire, o anche soltanto di toccare, i libri con la rilegatura azzurro-notte.

Dalamar una volta l’aveva fatto, naturalmente. La rilegatura gli aveva dato una sensazione di freddo intenso, così freddo da bruciargli la pelle. Ignorando il dolore, era riuscito ad aprire la copertina, ma dopo una sola occhiata si era affrettato precipitosamente a chiuderla. Le parole all’interno erano incomprensibili, non era riuscito a trarne alcun senso. E aveva percepito l’incantesimo protettivo lanciato su di esse. Chiunque le avesse guardate troppo a lungo senza la chiave adatta a tradurle sarebbe impazzito.

Vedendo la mano ferita di Dalamar, Raistlin gli aveva chiesto cos’era successo. L’elfo scuro aveva risposto, esibendo tutto il suo sangue freddo, di aver rovesciato dell’acido mentre stava mescolando i componenti di un incantesimo. L’arcimago aveva sorriso senza dir nulla. Non ce n’era stato bisogno. Entrambi avevano capito.

Ma adesso Dalamar si trovava nello studio dietro esplicito invito di Raistlin, e stava seduto là in una posizione più o meno alla pari con il suo maestro. Ancora una volta Dalamar provava l’antica paura corretta dall’ intossicazione dell’eccitazione.

Raistlin sedeva davanti a lui dietro al tavolo di legno scolpito, con una mano appoggiata su un grosso libro d’incantesimi rilegato in azzurro-notte. Le dita dell’arcimago accarezzavano distrattamente il libro, passando sopra le rune d’argento della sua copertina. Gli occhi di Raistlin fissavano Dalamar. L’elfo scuro non si mosse né si spostò sotto quello sguardo intenso e penetrante.

«Eri molto giovane quando hai affrontato la Prova,» disse Raistlin all’improvviso con voce sommessa.

Dalamar sbatté le palpebre. Non era questo che si era aspettato.

«Non giovane quanto te, Shalafi,» rispose l’elfo scuro. «Io sono sui novanta, il che corrisponde a circa venticinque dei vostri anni umani. Tu, credo, ne avevi soltanto ventuno quando hai affrontato la Prova.»

«Sì,» mormorò Raistlin, e un’ombra passò sul volto dorato del mago. «Avevo... ventun anni.»

Dalamar vide la mano appoggiata sul libro degli incantesimi serrarsi come per un improvviso, rapido dolore; vide lampeggiare quegli occhi dorati. Il giovane apprendista non fu sorpreso da quest’esibizione di emozione. Ogni mago che volesse praticare le arti magiche ad un livello elevato doveva affrontare la Prova. Là, nella Torre della Grande Stregoneria di Wayreth, veniva condotta dai capi di tutte e tre le Vesti. Molto tempo addietro i fruitori di magia di Krynn si erano resi conto di ciò che invece era sfuggito ai chierici: se si voleva mantenere l’equilibrio nel mondo, il pendolo doveva oscillare liberamente avanti e indietro fra tutti e tre, il Bene, il Male e la Neutralità. Bastava che uno dei tre diventasse troppo potente, uno qualunque fra essi, e il mondo avrebbe cominciato a pendere verso la distruzione.

La Prova era brutale. Ai livelli più alti della magia, in cui si otteneva il vero potere, non c’era posto per gli inetti e i confusionari. La Prova era concepita per sbarazzarsi di questi, e in modo permanente, poiché la morte era la punizione per l’insuccesso. Dalamar aveva ancora incubi causati dalla sua Prova, perciò poteva capire benissimo la reazione di Raistlin.

«L’ho superata,» bisbigliò Raistlin, riandando con la memoria a quel tempo. «Ma quando uscì da quel luogo terribile, ero come mi vedi adesso. La pelle aveva questa tinta dorata, i capelli erano bianchi e gli occhi...». Tornò al presente, per fissare Dalamar.

«Sai cosa vedo con questi occhi a clessidra?»

«No, Shalafi.»

«Vedo come il tempo influenza tutte le cose,» proseguì Raistlin. «La carne umana avvizzisce davanti a questi occhi, i fiori appassiscono e muoiono, le rocce stesse si sgretolano mentre le guardo. Davanti al mio sguardo è sempre inverno. Perfino tu, Dalamar,» gli occhi di Raistlin si appuntarono sul giovane apprendista trattenendolo nella loro orribile fissità,

«perfino la carne degli elfi che invecchia così lentamente e per cui lo scorrere degli anni è come gli acquazzoni di primavera, perfino il tuo giovane viso, Dalamar, porta, ben visibile per me, il marchio della morte!»

Dalamar rabbrividì, e questa volta non riuscì a nascondere la sua emozione. Involontariamente si rannicchiò tra i cuscini della sua seggiola. Un incantesimo protettivo gli venne subito alla mente, così come, senza che lui lo volesse, un incantesimo concepito per far del male, non per difendere.

Pazzo si disse, disprezzandosi, recuperando rapidamente il controllo: quale mio misero incantesimo potrebbe mai ucciderlo?

«È vero, è vero,» mormorò Raistlin, rispondendo, come faceva spesso, ai pensieri di Dalamar.

«Non esiste nessuno su Krynn che abbia il potere di farmi del male. Certamente non tu, apprendista. Ma sei ardimentoso. Hai coraggio. Spesso ti sei trovato al mio fianco, nel laboratorio, e hai affrontato coloro che ho trascinato fuori dai piani della loro esistenza. Tu sapevi che se avessi respirato nel momento sbagliato ci avrebbero strappato dal corpo il cuore ancora palpitante e l’avrebbero divorato mentre noi ci contorcevamo davanti a loro in preda ai tormenti.»

«Per me è stato un privilegio,» mormorò Dalamar.

«Sì,» rispose Raistlin con fare assente, i pensieri perduti altrove. Poi sollevò un sopracciglio. «E sapevi, vero, che se un fatto del genere fosse accaduto, avrei salvato me stesso, ma non te?»

«Naturalmente, Shalafi,» rispose Dalamar con voce ferma. «Capisco e accetto il rischio.» Gli occhi dell’elfo luccicarono. Dimenticate le sue paure, si sporse in avanti con foga dalla sua seggiola. «No, Shalafi, io invito i rischi! Sacrificherei qualunque cosa pur di...»

«La magia,» terminò Raistlin.

«Sì! Per la magia!» gridò Dalamar.

«È per il potere che conferisce.» Raistlin annuì. «Sei ambizioso. Ma, mi chiedo, ambizioso fino a che punto. Cerchi forse di dominare i tuoi consanguinei? Oppure un regno, in qualche luogo, tenendo soggiogato un monarca mentre tu ti godi la ricchezza delle sue terre? O forse un’alleanza con qualche tenebroso signore, come è stato fatto nei giorni dei draghi non molto tempo addietro. Mia sorella Kitiara, per esempio, ti ha trovato molto attraente. Le piacerebbe averti intorno. In particolare, se hai qualche arte magica che pratichi in camera da letto...»

«Shalafi, non dissacrerei...»

Raistlin agitò una mano. «Una battuta, apprendista. Ma hai capito quello che voglio dire. Qualcuno di questi intenti riflette i tuoi sogni?»

«Be’, certo, Shalafi.» Dalamar esitò, confuso. Dove portava tutto questo? A qualche informazione che poteva usare e trasmettere, così sperava, ma quanto di se stesso doveva rivelare? «Io...»

Raistlin lo interruppe. «Sì, vedo che sono arrivato vicino al bersaglio. Ho scoperto i vertici della tua ambizione. Non hai mai cercato d’indovinare i miei?»

Dalamar sentì un brivido di gioia percorrergli il corpo. Era questo che era stato mandato a scoprire.

Il giovane mago rispose lentamente: «Me lo sono chiesto spesso, Shalafi. Sei così potente.»

Dalamar indicò la finestra, oltre la quale erano visibili le luci di Palanthas che risplendevano nella notte. «Questa città, questa terra di Solamnia, questo continente di Ansalon potrebbero essere tuoi.»

«Il mondo potrebbe essere mio!» Raistlin sorrise, le labbra sottili si dischiusero leggermente.

«Abbiamo visto le terre al di là del mare, non è vero, apprendista? Quando guardiamo nell’acqua fiammeggiante, possiamo vederle, e vedere coloro che vi abitano. Controllarle sarebbe la semplicità stessa...»

Raistlin si alzò in piedi. Avvicinatosi alla finestra, fissò la città scintillante che si stendeva davanti a lui. Sentendo l’eccitazione del suo maestro, Dalamar lasciò la seggiola e lo seguì.

«Potrei darti quel regno, Dalamar,» disse Raistlin con voce sommessa. Scostò la tenda con la mano, si attardò con lo sguardo sulle luci che brillavano con più calore delle stelle in alto. «Potrei darti non soltanto la sovranità sui tuoi miserabili consanguinei, ma il controllo su tutti gli elfi di Krynn.»

Raistlin scrollò le spalle. «Potrei darti mia sorella.»

Voltando le spalle alla finestra, Raistlin fissò Dalamar, il quale lo osservava con ansia.

«Ma non m’importa nulla di tutto questo.» Raistlin fece un gesto di ripulsa lasciando cadere la tenda. «Nulla di nulla. La mia ambizione va oltre.»

«Ma, Shalafi, non rimane molto se rifiuti il mondo.» Dalamar esitò, senza capire. «A meno che tu non abbia visto mondi al di là di questo, che sono nascosti ai miei occhi...»

«Mondi al di là?» Raistlin rifletté. «Un pensiero interessante. Forse un giorno dovrei considerare questa possibilità. Ma no, non è questo che intendevo.» Il mago fece una pausa e con un movimento della mano fece segno a Dalamar di avvicinarsi di più.

«Hai visto la grande porta proprio in fondo al laboratorio? La porta di acciaio con rune d’argento e d’oro incise sopra? La porta senza una serratura?»

«Sì... Shalafi,» rispose Dalamar sentendosi percorrere da un brivido che neppure lo strano calore del corpo di Raistlin così vicino a lui poteva scacciare.

«Sai dove conduce quella porta?»

«Sì... Shalafi.» Un sussurro.

«E sai perché non è aperta?»

«Non si può aprirla, Shalafi. Soltanto qualcuno che possieda una grande e potente magia, insieme a qualcuno dotato di veri poteri sacri, potrebbero aprirla...». Dalamar ristette, la gola gli si chiuse per la paura, soffocandolo.

«Sì,» mormorò Raistlin. «Tu capisci. “Qualcuno che abbia veri poteri sacri”. Adesso sai perché ho bisogno di Lei! Adesso capisci le vette, e gli abissi, della mia ambizione,»

«Questa è follia!» Dalamar rantolò, poi abbassò gli occhi per la vergogna. «Perdonami, Shalafi, non intendevo mancarti di rispetto.»

«No, e hai ragione. È follia, con i miei limitati poteri.» Una punta di amarezza tinse la voce del mago. «È per questo che sto per intraprendere un viaggio.»

«Un viaggio?» Dalamar sollevò lo sguardo. «Dove?»

«Non dove, quando,» lo corresse Raistlin. «Mi hai sentito parlare di Fistandantilus?»

«Molte volte, Shalafi,» disse Dalamar, in tono quasi riverente. «Il più grande del nostro Ordine, Quelli sono i libri dei suoi incantesimi, quelli con la rilegatura azzurro-notte.»

«Inadeguati,» borbottò Raistlin, liquidando l’intera biblioteca con un gesto. «Li ho letti tutti, molte volte, durante questi ultimi anni, sin da quando ho ottenuto la chiave dei loro segreti dalla Regina delle Tenebre in persona. Ma servono soltanto a frustrarmi!». Raistlin serrò la mano sottile. «Ho letto questi libri d’incantesimi e vi trovo delle grandi lacune, mancano interi volumi! Forse sono andati distrutti durante il Cataclisma, o più tardi, nel corso delle Guerre di Porta dei Nani che causarono la rovina di Fistandantilus. Questi volumi mancanti, queste sue conoscenze che sono andate perdute, mi daranno il potere di cui ho bisogno!»

«E così, il tuo viaggio ti porterà...» Dalamar ristette incredulo.

«Indietro nel tempo,» terminò Raistlin con calma. «Ai giorni immediatamente precedenti al Cataclisma, quando Fistandantilus era al culmine del suo potere.»

Dalamar si sentiva stordito, i suoi pensieri erano un turbine confuso. Loro cosa avrebbero detto?

Fra tutte le ipotesi fatte non avevano certo previsto questa!

«Calmati, mio apprendista.» La voce sommessa di Raistlin parve giungere da molto lontano. «Ti sei spaventato. Un po’ di vino?»

Il mago andò a un tavolo. Sollevando una caraffa versò un bicchierino d’un liquido rosso sangue e lo porse all’elfo scuro. Dalamar lo prese con gratitudine, sorpreso nel constatare che la mano gli tremava. Raistlin versò un bicchierino anche per sé:

«Non bevo spesso questo vino forte, ma a quanto pare stanotte faremo bene a festeggiare. Un brindisi a... come hai detto... a qualcuno che abbia veri poteri sacri. A Dama Crysania, dunque!»

Raistlin bevve il vino a piccoli sorsi. Dalamar mandò giù il suo tutto d’un fiato. Quel liquido ardente lo morse nella gola. Tossì.

«Shalafi, se il Vivo ha riferito correttamente, Lord Soth ha lanciato un incantesimo su Dama Crysania, eppure è ancora viva. Le hai ridato la vita?»

Raistlin scosse la testa. «No, le ho dato soltanto dei segni visibili di vita, cosicché il mio caro fratello non la seppellisse. Non posso essere sicuro di ciò che è accaduto, ma non è difficile indovinarlo. Vedendo il cavaliere della morte davanti a lei, e conoscendo il proprio destino, la Reverenda Figlia ha combattuto l’incantesimo con la sola arma che aveva, ed era anche un’arma potente, il sacro medaglione di Paladine. Il dio l’ha protetta, trasportando la sua anima nel regno in cui dimorano gli dei, lasciando il suo corpo sul terreno come un guscio vuoto. Non c’è nessuno, neppure io, che possa rimettere insieme la sua anima e il suo corpo. Soltanto un grande chierico di Paladine ha quel potere.»

«Elistan?»

«Bah, quell’uomo è malato, morente...»

«Allora l’hai perduta!»

«No,» replicò Raistlin con gentilezza. «Non riesci a capire, apprendista. A causa della disattenzione ho perduto il controllo, ma l’ho presto riguadagnato. Non soltanto questo: farò in modo che ciò vada a mio vantaggio. Già adesso si stanno avvicinando alla Torre della Grande Stregoneria. Crysania andava là per cercare l’aiuto dei maghi. Quando arriverà troverà quell’aiuto e anche mio fratello lo troverà.»

«Vuoi che loro la aiutino?» chiese Dalamar, confuso. «Crysania trama per distruggerti!»

Raistlin sorseggiò in silenzio il vino, osservando intensamente il giovane apprendista. «Pensaci, Dalamar,» disse con voce sommessa, «pensaci, e arriverai a capire. Ma,» il mago mise giù il bicchiere vuoto, «ti ho trattenuto anche troppo a lungo.»

Dalamar lanciò un’occhiata alla finestra. La luna rossa, Lunitari, cominciava a scomparire alla vista dietro agli orli neri e frastagliati delle montagne. La notte si stava avvicinando alla sua metà.

«Devi fare il tuo viaggio ed essere di ritorno prima che io parta domattina,» continuò Raistlin.

«Senza dubbio ci saranno alcune istruzioni dell’ultimo momento. Oltre a molte cose che devo lasciare affidate alle tue cure. Naturalmente, qui l’incaricato sarai tu durante la mia assenza.»

Dalamar annuì, poi corrugò la fronte. «Hai parlato del mio viaggio, Shalafi! Io non devo andare da nessuna parte...». L’elfo scuro ristette, soffocando nel ricordare che in verità doveva andare da qualche parte, che doveva fare un rapporto.

Raistlin guardò il giovane elfo in silenzio, un’espressione d’inorridita constatazione affiorò sul volto di Dalamar, riflessa negli occhi simili a specchi del mago. Poi, con lentezza, Raistlin avanzò verso il giovane apprendista, con le vesti nere che gli frusciavano gentilmente intorno alle caviglie. In preda al terrore Dalamar non riuscì a muoversi, gli incantesimi protettivi gli sfuggirono di mano. La sua mente non riuscì a pensare a niente, soltanto a due dorati occhi piatti, privi di emozioni.

Lentamente Raistlin sollevò la mano e l’appoggiò delicatamente sul petto di Dalamar, toccando le vesti nere del giovane con la punta delle cinque dita.

Il dolore fu atroce, Dalamar si sbiancò in volto, i suoi occhi si spalancarono, e rantolò per la sofferenza. Ma l’elfo scuro non potè sottrarsi a quel terribile tocco. Incatenato dallo sguardo di Raistlin, Dalamar non riuscì neppure a urlare.

«Riferisci loro in modo accurato sia quello che ti ho detto,» bisbigliò Raistlin, «sia ciò che puoi aver indovinato. E porgi al grande Par-Salian i miei saluti... apprendista!»

Il mago ritirò la mano.

Dalamar crollò sul pavimento, gemendo e stringendosi il petto. Raistlin gli girò intorno senza rivolgergli neppure un’occhiata. L’elfo scuro lo sentì uscire dalla stanza, sentì il morbido frusciare delle vesti nere, la porta che si apriva e tornava a chiudersi.

In un parossismo di dolore, Dalamar si lacerò le vesti. Cinque scie di sangue rosse e luccicanti gli colavano lungo il petto, inzuppando il tessuto nero, sgorgando da cinque fori aperti là dove la sua pelle era stata bruciata.

Capitolo decimo.

«Caramon! Alzati! Svegliati!»

«No. Sono nella mia tomba. Fa caldo qui sotto il terreno, caldo e sicuro. Non puoi svegliarmi, non puoi raggiungermi. Sono nascosto nell’argilla. Non puoi trovarmi.»

«Caramon, questo devi vederlo! Svegliati!»

Una mano spinse da parte l’oscurità, tirandolo.

No, Tika, vai via! Una volta mi riportasti alla vita, al dolore, alla sofferenza. Avresti dovuto lasciarmi nel dolce regno della tenebra sotto il mare di Sangue di Istar. Ma adesso, finalmente, ho trovato la pace. Ho scavato la mia tomba e mi sono sepolto.

«Ehi, Caramon, farai meglio a svegliarti e a dare un’occhiata a questo!»

Quelle parole! Erano familiari. Naturalmente, le ho dette io. Le ho dette a Raistlin molto tempo fa, quando lui ed io siamo venuti per la prima volta in questa foresta. Allora, come posso sentirle? A meno che io non sia Raistlin... Ah... è...

C’era una mano sulla sua palpebra! Due dita la stavano aprendo! A quel tocco la paura corse pizzicante lungo il flusso sanguigno di Caramon, causandogli un sussulto al cuore.

«Arghhhh!» tuonò Caramon, allarmato, cercando di strisciare dentro il terreno quando quell’occhio aperto a forza vide una faccia gigantesca china sopra di lui: la faccia di una nana dei burroni!

«Lui sveglio,» riferì Bupu. «Qui,» disse a Tasslehoff. «Tu tieni quest’occhio, io apro altro.»

«No!» si affrettò a gridare Tas. Trascinando via Bupu dal guerriero, la spinse dietro di sé. «Uh... vai a prendere un po’ d’acqua.»

«Buona idea,» osservò Bupu, e corse via.

«Va... va tutto bene, Caramon,» disse Tas, inginocchiandosi accanto all’omone e battendogli una mano sulla spalla per rassicurarlo. «Era soltanto Bupu. Mi dispiace, ma stavo... uh... guardando... be’, vedrai... e mi sono dimenticato di sorvegliarla.»

Gemendo, Caramon si coprì il viso con la mano. Con l’aiuto di Tas, si dibatté fino ad alzarsi in piedi. «Ho sognato che ero morto,» disse con voce greve. «Poi ho visto quella faccia, e ho saputo che era tutto finito. Mi trovavo nell’Abisso.»

«Potresti ben desiderare di esserci,» replicò Tas, cupo.

Nell’udire quel tono di voce insolitamente serio, Caramon levò lo sguardo sul kender. «Perché? Cosa vuoi dire?» chiese con asprezza.

Invece di rispondere, Tas gli domandò: «Come ti senti?»

Caramon corrugò la fronte. «Sono sobrio, se è questo che vuoi sapere,» borbottò l’omone. «E per gli dei, vorrei non esserlo.»

Tasslehoff lo fissò pensieroso per un momento poi, lentamente, affondò la mano in una borsa e tirò fuori una piccola bottiglia chiusa in una guaina di cuoio. «Ecco qua, Caramon,» disse con calma,

«se pensi davvero di averne bisogno.»

Gli occhi dell’omone lampeggiarono. Tese con avidità la mano tremante e afferrò la bottiglia.

Stappatala, l’annusò, sorrise, e la sollevò alle labbra.

«Smettila di fissarmi!» ordinò a Tas, imbronciato.

«Mi spia... spiace.» Tas arrossì. Si alzò in piedi. «Va... vado ad occuparmi di Dama Crysania...»

«Crysania...» Caramon abbassò la fiasca, intatta. Si sfregò gli occhi gonfi. «Già. Mi sono dimenticato di lei. Buona idea di occuparti della Dama... Prendila e vattene da qui. Tu e quella tua appestata nana dei burroni! Vattene e lasciami solo!». Sollevando di nuovo la bottiglia alle labbra, Caramon tracannò una lunga sorsata. Ebbe un accesso di tosse, abbassò la bottiglia, e si asciugò la bocca col dorso della mano. «Vai,» ripetè, fissando Tas con occhio smorto, «vattene da qui! Andate via tutti! . Lasciatemi solo!»

«Mi spiace, Caramon,» disse Tas con calma. «Vorrei davvero che potessimo. Ma non possiamo.»

«Perché?» ringhiò Caramon.

Tas tirò un profondo sospiro. «Perché, se ricordo le storie che Raistlin mi ha raccontato, credo che la Foresta di Wayreth ci abbia trovato.»

Per un attimo, Caramon fissò Tas con gli occhi iniettati di sangue.

«È impossibile,» disse dopo un momento, le sue parole erano poco più di un bisbiglio. «Siamo a molte miglia da lì! Io... io e Raist... abbiamo impiegato mesi per trovare la Foresta! E la Torre è molto più a sud rispetto a questo luogo! Si trova bene al di là di Qualinesti, stando alla tua mappa.»

Caramon guardò Tas con espressione minacciosa. «Non sarà la stessa mappa che mostrava Tharsis in riva al mare, vero?»

«Potrebbe essere,» disse Tas, evasivo, affrettandosi ad arrotolare la mappa e nascondendola dietro la schiena. «Ne ho così tante...». Cambiò argomento in fretta e furia. «Ma Raistlin ha detto che era una foresta magica, perciò immagino che possa essere stata lei a trovarci, se ne aveva , la predisposizione.»

«È una foresta magica,» mormorò Caramon, con voce profonda e tremante. «È un luogo di orrori.»

Chiuse gli occhi e scosse la testa, poi, all’improvviso, sollevò lo sguardo, la sua faccia era un concentrato di astuzia. «È un trucco, non è vero? Un trucco per impedirmi di bere! Be’, non funzionerà...»

«Non è un trucco, Caramon.» Tas sospirò. Poi puntò un dito. «Guarda laggiù. È proprio come me l’ha descritta Raistlin, un giorno.»

Caramon voltò la testa e la vide, e rabbrividì, sia per la foresta in sé, J sia per gli amari ricordi di suo fratello che lo spettacolo fece riemergere in lui.

La radura nella quale erano accampati era un piccolo spiazzo erboso a una certa distanza dal sentiero principale. Era circondato da aceri, pini, castagni e perfino da qualche pioppo tremulo. Gli alberi stavano giusto cominciando a germogliare. Caramon li aveva guardati mentre scavava la tomba di Crysania. I rami scintillavano alla prima luce del mattino nel debole chiarore gialloverde della primavera. I fiori selvatici sbocciavano alle loro radici, i primi fiori della primavera, crochi e violette.

Adesso, mentre Caramon si guardava intorno, vide che quegli stessi alberi erano ancora attorno a loro... su tre lati. Ma adesso, sul quarto lato, a sud, gli alberi erano cambiati.

Quegli alberi, per la maggior parte morti, erano allineati in bell’ordine fila dopo fila. Qua e là, guardando più in profondità nella Foresta, era possibile vedere un albero vivo che sorvegliava come un ufficiale i ranghi silenziosi delle sue truppe. Il sole non risplendeva fra quegli alberi. Una nebbia densa e maligna fluiva dai tronchi, oscurando la luce. Gli alberi stessi erano orrendi a guardarsi, contorti e deformi, le radici e i rami si trascinavano sul terreno come grandi artigli. I loro rami non si muovevano, nessun vento agitava le loro foglie morte. Ma, cosa più orribile di tutte, c’erano creature all’interno della foresta che si muovevano. Mentre Caramon e Tas guardavano, potevano intravedere delle ombre che svolazzavano fra i tronchi, muovendosi furtive in mezzo al sottobosco spinoso.

«Guarda, adesso,» disse Tas. Ignorando il grido allarmato di Caramon, il kender corse dritto verso la foresta. E davanti a lui gli alberi si dischiusero! Un sentiero si spalancò davanti a lui, conduceva dritto dentro il cuore buio della Foresta. «Puoi fare di meglio?» gridò Tas, meravigliato, fermandosi un momento prima di metter piede sul sentiero. «E quando arretro...»

Il kender camminò all’indietro, allontanandosi dagli alberi, e i tronchi si ricongiunsero di nuovo, chiudendo i loro ranghi e ripresentando una barriera compatta.

«Hai ragione,» disse Caramon, con voce rauca. «È la Foresta di Wayreth. È così che ci è comparsa davanti una mattina.» Abbassò la testa. «Io non volevo entrare. Cercai di fermare Raist. Ma lui non aveva paura! Gli alberi gli si aprirono davanti, e lui entrò. “Rimani accanto a me, fratello mio”, mi disse, “ed io ti proteggerò”. Quanto spesso io gli avevo detto quelle parole? Non aveva paura! Ed io l’avevo!»

D’un tratto Caramon si alzò. «Usciamo da qui!». Afferrò con mani tremanti, fremente, il sacco a pelo, rovesciò l’intero contenuto della bottiglia sopra tutta la coperta.

«Non funziona,» disse Tas, laconico. «Ci ho provato. Guarda.»

Voltando le spalle agli alberi, il kender s’incamminò verso nord. Gli alberi non si mossero. Ma, cosa inesplicabile, Tasslehoff si stava dirigendo ancora una volta verso la Foresta. Per quanto tentasse, per quanto girasse, finiva sempre per camminare dritto in mezzo a quei filari di alberi da incubo immersi nella nebbia.

Sospirando, Tas si avvicinò a Caramon. Il kender sollevò solennemente lo sguardo sugli occhi cerchiati di rosso e chiazzati di lacrime dell’omone e sollevò la sua piccola mano appoggiandola sul braccio un tempo robusto del guerriero.

«Caramon, sei il solo ad essere passato di qua! Sei il solo che conosce la strada. E c’è qualcos’altro.» Tas puntò un dito. Caramon girò la testa. «Hai chiesto di Dama Crysania. Eccola là. È viva, ma allo stesso tempo è morta. La sua pelle è come il ghiaccio. I suoi occhi sono fissi in un’espressione terribile. Respira, il cuore batte, ma sarebbe lo stesso se pompasse attraverso il suo corpo quel fluido speziato che gli elfi usano per conservare i loro morti!». Il kender esalò un profondo, tremulo respiro. «Dobbiamo trovare aiuto per lei, Caramon. Forse là dentro,» Tas indicò la Foresta, «i maghi potranno aiutarla! Io non posso trasportarla.» Sollevò le mani, impotente. «Ho bisogno di te, Caramon. Lei ha bisogno di te! Immagino si potrebbe dire che glielo devi.»

«Da quando in qua è colpa mia se si è fatta male?» borbottò Caramon, con un ringhio.

«No, non volevo dire questo,» replicò Tas, inclinando la testa e sfregandosi gli occhi con la mano.

«Non è colpa di nessuno, immagino.»

«No, è colpa mia,» dichiarò Caramon. Tas sollevò lo sguardo su di lui, sentendo una nota nella voce di Caramon che da molto, moltissimo tempo non aveva più sentito. L’omone se ne stava là, fissando la bottiglia che stringeva fra le mani. «È ora che guardi in faccia la realtà. Ho dato la colpa a tutti: Raistlin, Tika... ma per tutto il tempo ho saputo, dentro di me, di essere io il colpevole. Si manifestava nei miei sogni. Giacevo in fondo ad una tomba, e mi rendevo conto: questo è il fondo! Non posso scendere più in basso. O rimango qui e lascio che mi buttino sopra la terra, proprio come io stesso avrei seppellito Crysania, oppure mi arrampico fuori.» Caramon sospirò, un lungo, tremulo sospiro. Poi, presa un’improvvisa decisione, rimise il turacciolo alla bottiglia e la restituì a Tas.

«Ecco,» disse con voce sommessa. «Sarà una lunga arrampicata e avrò bisogno di aiuto, immagino. Ma non questo genere di aiuto.»

«Oh, Caramon!» Tas buttò le braccia intorno alla vita dell’omone fin dove poteva arrivare, abbracciandolo con forza. «Non ho mai avuto paura di questo bosco spettrale, no davvero. Ma mi stavo chiedendo come avrei fatto ad attraversarlo da solo. Per non parlare di Dama Crysania e... oh, Caramon! Sono così contento che tu sia tornato. Io...»

«Su, su,» borbottò Caramon, arrossendo per l’imbarazzo e spingendo delicatamente Tasslehoff lontano da sé. «Basta così. Non so quanto potrò essere di aiuto, ero spaventato a morte la prima volta che entrai in quel posto. Ma hai ragione. Forse potranno aiutare Crysania.» Il volto di Caramon s’indurì. «Forse potranno rispondere anche a qualche domanda che ho su Raist. Adesso, dov’è finita quella nana dei burroni? E...» abbassò lo sguardo sulla sua cintura, «... dov’è il mio pugnale?»

«Quale pugnale?» chiese Tas, voltandosi di scatto, volgendo lo sguardo verso la Foresta.

Allungando una mano, la faccia cupa, Caramon afferrò il kender. Il suo sguardo andò alla cintura di Tas. Tas seguì il suo sguardo, i suoi occhi si spalancarono per lo stupore.

«Vuoi dire quel pugnale? Cielo, mi chiedo come sia finito là... Sai,» disse pensieroso, «scommetto che l’hai lasciato cadere durante il combattimento.»

«Già,» borbottò Caramon. Ringhiando recuperò il pugnale e lo stava infilando di nuovo nel fodero quando udì un rumore alle sue spalle. Girandosi di scatto, allarmato, ricevette una secchiata d’acqua gelida in piena faccia.

«Lui sveglio adesso,» fece Bupu compiaciuta, lasciando cadere il secchio.

Mentre faceva asciugare i suoi indumenti Caramon, seduto per terra, studiava gli alberi, col volto teso per il dolore causatogli dai ricordi. Infine, tirando un sospiro, si rivestì, controllò le armi, poi si alzò in piedi. Subito Tasslehoff gli fu accanto.

«Andiamo!» disse con foga.

Caramon si fermò. «Dentro la Foresta?» chiese con voce disperata.

«Sì, certo!» esclamò Tas, sorpreso. «E dove, altrimenti?»

Caramon si accigliò, poi sospirò, quindi scosse la testa. «No, Tas,» disse burbero. «Tu rimani con Dama Crysania. Adesso, guarda,» disse in risposta all’indignato lamento di protesta del kender, «io m’inoltrerò nella Foresta per un piccolo tratto, per... ehm... controllare.»

«Pensi che ci sia qualcosa là dentro, non è vero?» Tas accusò l’omone. «È per questo che mi costringi a rimanere fuori ! Tu andrai là dentro e ci sarà un grosso combattimento. Tu l’ammazzerai e io mi perderò tutto!»

«Ne dubito,» borbottò Caramon. Lanciando un’occhiata apprensiva alla Foresta immersa nella nebbia, strinse la cintura che reggeva la spada.»

«Per lo meno potresti dirmi quello che pensi che sia,» disse Tas. «E, ascolta, Caramon, che cosa dovrò fare se ti uccidesse? Allora potrò entrare? Quanto tempo dovrò aspettare? Potrebbe ucciderti in... diciamo... cinque minuti? Dieci? Non penso che lo farà, intendiamoci,» si affrettò ad aggiungere, vedendo che Caramon spalancava gli occhi. «Ma dovrei saperlo, visto che mi lasci il comando.»

Bupu studiò, perplessa, il grosso e trasandato guerriero. «Me dico, due minuti. Ucciderà lui in due minuti. Fai scommessa?». Guardò Tas.

Caramon fissò trucemente i due, poi tirò un altro sospiro. Dopotutto, Tas non faceva altro che comportarsi secondo logica.

«Non sono sicuro cosa aspettarmi», disse il grosso guerriero. «Io... io ricordo l’ultima volta. In... incontrammo... questa cosa... uno spettro. Esso... Raist...» Caramon si zittì. «Non so che cosa dovresti fare,» riprese, un attimo dopo. Voltò loro le spalle e, semiaccasciato, cominciò lentamente a incamminarsi verso la Foresta. «Il meglio che puoi, immagino.»

«Ho bel serpente qui, me dico lui dura due minuti,» disse Bupu a Tas, frugando nella sua borsa.

«Cosa scommetti?»

«Sst,» le intimò Tas con voce sommessa, seguendo con lo sguardo Caramon che si allontanava.

Poi, scuotendo la testa, corse a sedersi accanto a Crysania, che giaceva sul terreno con gli occhi ciechi fissi al cielo. Delicatamente, Tas abbassò il cappuccio bianco sulla testa del chierico, proteggendola dai raggi del sole. Aveva cercato invano di chiudere quegli occhi fissi, ma era come se la sua carne fosse diventata di marmo.

A Caramon pareva che Raistlin gli camminasse accanto, seguendolo per ogni singolo passo all’interno della Foresta. Il guerriero riusciva quasi a sentire il sommesso sussurro delle vesti rosse di suo fratello: allora erano state rosse! Poteva sentire la voce di suo fratello, sempre gentile, sempre vellutata, ma con quella sottile sfumatura di sarcasmo che tanto irritava i loro amici. Ma ciò non aveva mai preoccupato Caramon. Aveva capito, o per lo meno pensava di aver capito.

Gli alberi della Foresta si spostarono tutt’a un tratto all’avvicinarsi di Caramon, proprio come si erano spostati all’avvicinarsi del kender.

Proprio come si erano spostati quando noi ci avvicinammo... quanti anni fa? pensò Caramon. Sette?

Sono passati soltanto sette anni? No, si rese conto con tristezza. È stata un’intera vita... un’intera vita per tutti e due.

Quando Caramon arrivò ai confini del bosco, la nebbia fluttuò fuori dal terreno raggelandogli le caviglie con un freddo che gli penetrò nella pelle come una fiamma e gli morse le ossa. Gli alberi lo fissarono contorcendo i loro rami per la sofferenza. Caramon ricordò i boschi torturati di Silvanesti, e ciò gli fece tornare alla memoria altri ricordi di suo fratello.

Caramon rimase immobile per un momento, guardando dentro la Foresta. Poteva vedere le forme oscure e ombrose che lo aspettavano. E non c’era Raistlin per tenerle a bada. Non questa volta.

«Non ho mai avuto paura di niente fino al giorno in cui sono entrato nella Foresta di Wayreth,» disse Caramon fra sé, con voce sommessa. «Quell’ultima volta ci entrai soltanto perché tu eri con me, fratello mio. Soltanto il tuo coraggio mi permise di proseguire. Adesso, come posso entrare là dentro senza di te? È magica. Io non capisco la magia! Non posso combatterla! Che speranza c’è là dentro?». Caramon si coprì gli occhi con la mano per nascondere quell’orribile spettacolo. «Non posso entrare là dentro,» disse, infelice. «È chiedermi troppo!»

Sguainata la spada dal fodero, la tese davanti a sé. La mano gli tremò al punto che quasi lasciò cadere la lama. «Ah!» esclamò con amarezza. «Visto? Non riuscirei a combattere un bambino. Questo è chiedere troppo. Non c’è speranza. Proprio nessuna speranza...»

«È facile sperare in primavera, guerriero, quando il clima è caldo e i vallenwood sono verdi. È facile sperare in estate, quando i vallenwood luccicano d’oro. È facile avere speranza in autunno quando i vallenwood sono rossi come il sangue vivo. Ma in inverno, quando l’aria è tagliente e pungente e i cieli sono grigi, forse che i vallenwood muoiono, guerriero!»

«Chi ha parlato?» gridò Caramon, guardandosi intorno freneticamente, stringendo la spada nella mano tremante.

«Che cosa fanno i vallenwood d’inverno, guerriero, quando tutto è buio e perfino il terreno è gelato? Scavano in profondità, guerriero. Mandano giù le radici, già nel suolo, giù nel cuore caldo del mondo. Laggiù, nel profondo, i vallenwood trovano il nutrimento che li aiuta a sopravvivere al buio e al freddo, così da poter germogliare di nuovo in primavera.»

«E allora?» chiese Caramon, sospettoso, arretrando di un passo e guardandosi intorno.

«Allora tu ti trovi nell’inverno più buio della tua vita, guerriero. E così devi scavare in profondità per trovare il calore e la forza che ti aiuteranno a sopravvivere al freddo pungente e alla terribile oscurità. Tu non possiedi più lo sbocciare della primavera o il vigore dell’estate. Devi trovare la forza di cui hai bisogno nel tuo cuore, nella tua anima. Allora, come i vallenwood, crescerai ancora una volta.»

«Le tue parole sono belle...» cominciò a dire Caramon, accigliandosi, diffidando di quel discorso di primavera e di alberi. Ma non riuscì a concludere la frase, il respiro gli si impigliò in gola.

La Foresta stava cambiando davanti ai suoi occhi.

Gli alberi contorti e deformi si raddrizzarono mentre li fissava, sollevando i loro rami al cielo, crescendo, crescendo, crescendo. Piegò talmente la testa all’indietro che quasi perse l’equilibrio, ma anche così non riuscì a vedere le loro cime. Erano vallenwood! Proprio come quelli di Solace prima della venuta dei draghi. Mentre guardava sgomento, vide i rami morti esplodere alla vita, vide sbocciare le verdi gemme, aprirsi, germogliare le verdi foglie luccicanti che divennero del colore dorato dell’estate, le stagioni cambiarono mentre lui tirava un tremulo sospiro.

La pestilenziale nebbia scomparve, sostituita da una dolce fragranza che esalava dai bellissimi fiori che s’intrecciavano fra le radici dei vallenwood. L’oscurità della foresta scomparve, il sole spargeva la sua luce sfolgorante sugli alberi ondeggianti. E non appena la luce del sole toccava le foglie degli alberi, i richiami degli uccelli riempivano l’aria profumata.

Foresta confortevole, e confortevoli anche

le sue dimore perfette in cui cresciamo

e non più imputridiamo, i nostri alberi sempre verdi,

i frutti maturi non cadono mai, i ruscelli immobili

e trasparenti come il vetro, come il cuore in riposo

in questo durevole giorno.

Sotto questi rami il movimento si arresta

volontariamente, il canto degli uccelli, gli amori

restano ai margini insieme a tutte le febbri,

ai fallimenti della memoria.

Oh, confortevole foresta, e confortevoli

le sue perfette dimore.

È la luce sulla luce, la luce come congedo del buio,

sotto questi rami nessuna ombra, poiché l’ombra

è dimenticata al calore della luce e al fresco odore

delle foglie, dove noi cresciamo e imputridiamo; non più,

i nostri alberi sempre verdi.

Qui c’è silenzio, dove la musica

si corica nel silenzio, qui, sull’orlo immaginato del mondo,

dove la chiarezza completa i sensi,

dove finalmente contempliamo frutti maturi

che non cadono mai, ruscelli immobili e trasparenti.

Dove le lacrime vengono asciugate dai nostri volti,

o si acquietano,

immobili come un ruscello in compiuti paesi di pace,

e il visitatore apre, permettendo il viaggio

della luce come aria, come il cuore in riposo

in questo durevole giorno.

Oh, confortevole foresta,

e confortevoli anche le sue perfette dimore,

dove cresciamo e non imputridiamo più,

i nostri alberi sempre verdi,

i frutti maturi non cadono mai,

i ruscelli immobili e trasparenti come l’aria,

come il cuore in riposo in questo durevole giorno.

Gli occhi di Caramon si riempirono di lacrime. La bellezza della canzone gli trafiggeva il cuore.

C’era speranza! Dentro la Foresta avrebbe trovato tutte le risposte. Avrebbe trovato l’aiuto che cercava.

«Caramon!» Tasslehoff stava saltando su e giù per l’eccitazione. «Caramon! È meraviglioso! Come sei riuscito a farlo? Senti gli uccelli? Andiamo. Presto.»

«Crysania...» disse Caramon, cominciando a tornare indietro. «Dovremo preparare una lettiga. Dovrai aiutarmi...» Ma prima di riuscire a finire la frase s’interruppe, fissando con stupore due figure vestite di bianco che stavano fluttuando fuori dal bosco dorato. I cappucci bianchi erano abbassati sulle teste così da celare i volti. Entrambi s’inchinarono davanti a lui con solennità, poi attraversarono la radura fino al punto in cui Crysania giaceva immersa in un sonno simile alla morte. Sollevando senza difficoltà il suo corpo immobile, la trasportarono con delicatezza fin là, dove si trovava Caramon. Giunti ai bordi della Foresta si fermarono, voltando le teste incappucciate, guardandolo come in attesa.

«Credo che aspettino che tu entri per primo, Caramon,» disse Tas, in tono allegro. «Tu vai pure avanti, io prendo Bupu.»

La nana dei burroni era rimasta al centro della radura, fissando la foresta con profondo sospetto... un sospetto che anche Caramon, guardando le due figure vestite di bianco condivise.

«Chi siete?» chiese.

Non risposero. Rimasero lì ad aspettare.

«Che importa chi sono?» esclamò Tas, agguantando Bupu con mano impaziente e trascinandola con sé, con la sacca che le sbatteva contro i calcagni.

Caramon corrugò la fronte. «Andate voi per primi.» Indicò le figure vestite di bianco, ma queste non dissero niente, e neppure si mossero.

«Perché aspettate che sia io ad entrare in quella Foresta?» Caramon fece un passo indietro. «Andate avanti,» disse con un gesto. «Portatela alla Torre. Voi potete aiutarla. Non avete bisogno di me...»

Le figure non parlarono, ma una di loro sollevò una mano, indicando.

«Su, Caramon,» lo sollecitò Tas. «Guarda, è come se ci stesse invitando!»

Non ci daranno fastidio, fratello... Siamo stati invitati! Le parole di Raistlin pronunciate sette anni prima.

«I maghi ci hanno invitato. Non mi fido di loro.» Caramon ripetè sottovoce la risposta che aveva dato allora.

D’un tratto l’aria si riempì di risate: risate strane, arcane, sussurranti. Bupu buttò le braccia intorno alle gambe di Caramon, aggrappandosi a lui in preda al terrore. Perfino Tasslehoff parve un po’ sconcertato. E poi giunse una voce, come quella che Caramon aveva sentito sette anni prima.

Questo comprende anche me, caro fratello?

Capitolo undicesimo

L’orrenda apparizione si avvicinò sempre di più. Crysania era in preda a una paura che non aveva mai conosciuto prima. Mentre si ritraeva davanti ad essa Crysania, per la prima volta nella sua vita, contemplò la morte, la propria morte. Non era quella pacifica transizione verso un regno beato nella cui esistenza aveva sempre creduto. Era un dolore selvaggio, un’oscurità ululante, giorni e notti eterni trascorsi a invidiare i vivi.

Cercò di gridare per chiedere aiuto, ma la voce le venne meno. Non c’era nessuno che potesse aiutarla, comunque. Il guerriero ubriaco giaceva in una pozza di sangue. Le sue arti guaritone l’avevano salvato, ma avrebbe dormito per lunghe ore. Il kender non poteva aiutarla. Niente poteva aiutarla contro questo...

La figura scura continuava ad avanzare, ad ogni istante era più vicina. Corri! le urlava la mente. Ma le sue gambe non le obbedivano. Non potè fare altro che arretrare strisciando, e poi il suo corpo parve muoversi di propria volontà senza che lei facesse nulla. Non riusciva neppure a distogliere lo sguardo da lui. Le tremolanti luci arancione che erano i suoi occhi la imprigionavano.

L’apparizione sollevò una mano, una mano spettrale. Lei poteva vedere attraverso quella mano gli alberi retrostanti ombreggiati dalla notte. La luna d’argento era alta nel cielo, ma non era la sua vivida luce quella che traeva riflessi dall’antica armatura di un Cavaliere di Solamnia morto da moltissimo tempo. La creatura risplendeva di una propria luce corrotta, ardendo dell’energia della sua immonda putrefazione. La mano si sollevò sempre più in alto, e Crysania sapeva che quando fosse arrivata all’altezza del suo cuore, lei sarebbe morta.

Attraverso le labbra intorpidite dalla paura, Crysania invocò un nome. «Paladine,» pregò. La paura non la lasciò, non riuscì ancora a strappar via la propria anima dallo sguardo terribile di quegli occhi fiammeggianti. Ma portò la mano alla gola.

Afferrò il medaglione e lo strappò via dal collo. Sentendo che le forze le venivano meno, Crysania sollevò la mano. Il medaglione di platino rifletté la luce di Solinari e avvampò d’un bagliore biancoazzurro. L’orrenda apparizione parlò: «Muori!».

Crysania si sentì cadere. Il suo corpo si abbatté sul terreno, ma il terreno non la fermò. Stava cadendo attraverso di esso, oppure lontano da esso, cadendo... cadendo... chiudendo gli occhi... dormendo... sognando...

Era in un fitto bosco di querce. Mani bianche le ghermivano i piedi, bocche spalancate cercavano di berle il sangue. L’oscurità era interminabile, gli alberi la deridevano, i loro rami crepitanti esplodevano in orrende risate.

«Crysania,» sussurrò una voce soave.

Chi mai pronunciava il suo nome parlando dall’ombra delle querce? Poteva vederlo, in mezzo a una radura, abbigliato di nero.

«Crysania,» ripetè la voce.

«Raistlin!» singhiozzò Crysania con gratitudine. Uscendo fuori da quel terrorizzante bosco di querce, correndo e incespicando, fuggendo da quelle mani bianche come ossa che cercavano di trascinarla giù per farle patire insieme a loro gli incessanti tormenti, Crysania sentì delle braccia sottili che la trattenevano. Sentì uno strano tocco bruciante di esili dita.

«Riposa tranquilla, Reverenda Figlia,» disse la voce in tono sommesso. Tremando fra quelle braccia Crysania chiuse gli occhi. «Le tue prove sono finite. Hai attraversato indenne il Bosco. Non avevi nulla da temere, Dama. Avevi il mio amuleto.»

«Sì,» mormorò Crysania. Si toccò la fronte con la mano, là dove le labbra di lui le avevano premuto la pelle. Poi, rendendosi conto di cosa aveva vissuto, e rendendosi anche conto di aver permesso che lui la vedesse cedere alla debolezza, Crysania spinse via le braccia del mago.

Tenendosi lontana da lui, lo guardò con freddezza.

«Perché ti circondi di cose così immonde?» volle sapere. «Perché senti il bisogno di... di simili guardiani?». Suo malgrado la voce le tremava.

Raistlin la guardò con espressione pacata. «Di quale genere di guardiani ti circondi tu, Reverenda Figlia?» le chiese. «Quali tormenti patirei se mettessi piede sul terreno sacro del Tempio?»

Crysania aprì la bocca per dargli una risposta bruciante, ma le parole le morirono sulle labbra. In verità il Tempio si trovava su un terreno consacrato a Paladine. Se qualcuno che venerava la Regina delle Tenebre avesse varcato i suoi confini, avrebbe sentito la collera di Paladine. Crysania vide sorridere Raistlin, le sue labbra sottili si contrassero. Sentì la propria pelle coprirsi di rossore. Come riusciva a farle questo? Mai nessun uomo era riuscito ad umiliarla così! Mai nessun uomo aveva sconvolto a tal punto la sua mente!

Sin dalla sera in cui aveva incontrato Raistlin nella casa di Astinus, Crysania non era stata più in grado di bandirlo dai suoi pensieri. Aveva atteso con impazienza di poter visitare la Torre quella notte... con impazienza e timore allo stesso tempo. Aveva raccontato a Elistan ogni particolare della sua conversazione con Raistlin, tutto, ma non gli aveva riferito dell’amuleto che lui le aveva dato.

Per qualche motivo non era riuscita a indursi a dire a Elistan che Raistlin l’aveva toccata, l’aveva...

No, non glielo aveva detto.

Già così Elistan era rimasto alquanto turbato. Conosceva Raistlin, l’aveva conosciuto tempo addietro, poiché il mago era stato uno dei compagni che avevano salvato il chierico dalla prigione di Verminaard a Pax Tharkas. Elistan non si era mai fidato di Raistlin, né il mago gli era mai davvero piaciuto. Il chierico non era rimasto sorpreso nell’apprendere che il mago aveva indossato le Vesti Nere. Non era rimasto sorpreso nell’udire l’avvertimento che Crysania aveva ricevuto da Paladine.

Però era rimasto sorpreso dalla reazione di Crysania all’incontro con Raistlin. Era rimasto sorpreso e allarmato nell’udire che Crysania era stata invitata a visitare Raistlin nella Torre, un luogo in cui adesso pulsava il cuore del male su Krynn. Elistan avrebbe proibito a Crysania di andare, ma il libero arbitrio era un insegnamento degli dei.

Elistan aveva espresso a Crysania i suoi pensieri mentre lei lo ascoltava rispettosa. Ma lei era andata nella Torre, attirata da un richiamo che non poteva neppure cominciare a capire, anche se aveva dichiarato a Elistan che lo faceva per «salvare il mondo».

«Il mondo sta marciando molto bene,» aveva replicato Elistan con voce grave.

Ma Crysania non lo aveva ascoltato.

«Vieni dentro,» disse Raistlin. «Un po’ di vino ti aiuterà a bandire i ricordi di ciò che hai patito.»

La guardò con attenzione. «Sei molto coraggiosa, Reverenda Figlia,» disse ancora, e lei non percepì nessun sarcasmo nella sua voce. «Sono assai pochi quelli che hanno la forza di sopravvivere al terrore del Bosco.»

Poi le voltò le spalle, e Crysania fu contenta che l’avesse fatto. Si era sentita arrossire a quelle parole di lode.

«Tieniti vicina a me,» l’avvertì mentre camminava davanti a lei, con le vesti nere che frusciavano sommesse intorno alle sue caviglie. «Tieniti entro la luce del mio bastone.»

Crysania fece come le veniva ordinato osservando, mentre camminava accanto a lui, come la luce del bastone facesse risplendere le sue vesti bianche dello stesso gelido splendore della luna d’argento.

La condusse oltre la temuta Porta. Crysania la fissò incuriosita ricordando la macabra storia del mago malvagio che si era lasciato cadere su di essa, conficcandosi sulle sue cuspidi, lanciando maledizioni con il suo respiro morente. C’erano cose che bisbigliavano e farfugliavano intorno a lei.

Più d’una volta si voltò a quei suoni, sentendo le dita fredde sul suo collo o il tocco di una mano gelida sulle sue. Più d’una volta colse un movimento con la coda dell’occhio, ma quando si girava di scatto a guardare, non c’era mai nulla. Una nebbia immonda si levava dal terreno, rancida del fetore della putredine, facendole dolorare le ossa. Cominciò a tremare incontrollabilmente e quando, all’improvviso, guardò dietro di sé e vide due occhi incorporei che la fissavano, fece un rapido passo avanti e infilò la mano intorno al braccio sottile di Raistlin.

Lui la guardò incuriosito, con una certa aria divertita che la fece arrossire di nuovo.

«Non c’è bisogno di aver paura,» lui le disse semplicemente. «Qui io sono il padrone. Non permetterò che ti venga fatto del male.»

«Non... non ho paura,» lei disse, anche se sapeva che lui doveva sentire il tremito del suo corpo.

«Ero soltanto... incerta su dove mettere i piedi, nient’altro.»

«Scusami, Reverenda Figlia,» disse Raistlin, e adesso lei non avrebbe saputo dire se ci fosse del sarcasmo nella sua voce. «È stato scortese da parte mia obbligarti a percorrere questo terreno a te ignoto senza offrirti la mia assistenza. Adesso cammini meglio?»

«Sì, molto meglio,» lei rispose, arrossendo intensamente sotto quello strano sguardo.

Raistlin non disse nulla, si limitò a sorridere. Crysania abbassò gli occhi, incapace di guardarlo in viso, e ripresero a camminare. Crysania si rimproverò per la sua paura durante tutto il percorso fino alla Torre, ma non tolse la mano dal braccio del mago. Nessuno dei due parlò più fino a quando non raggiunsero la porta della Torre. Era una semplice porta di legno con delle rune incise sulla sua superficie. Raistlin non disse una sola parola, non fece nessun gesto visibile a Crysania ma, al loro avvicinarsi, la porta si aprì lentamente. La luce sgorgò da dentro, e Crysania si sentì talmente rallegrata dal suo calore vivido e accogliente che, per un istante, non vide l’altra figura il cui profilo si stagliava all’interno.

Quando infine la vide, si fermò e si ritrasse allarmata.

Raistlin le toccò la mano con le sue dita sottili e brucianti.

«È soltanto il mio apprendista, Reverenda Figlia. Dalamar è di carne e ossa, cammina fra i vivi, per ora, almeno.»

Crysania non comprese quell’ultima osservazione, né vi prestò molta attenzione, percependo l’ilarità nascosta nella risposta di Raistlin. Era troppo sorpresa dal fatto che gente viva vivesse là dentro. Come sono sciocca, si rimproverò. Che razza di mostro ho mai immaginato che fosse quest’uomo? È un uomo, nient’altro. È umano, è in carne ed ossa. Quel pensiero la sollevò, la rilassò. Attraversando la porta, si sentì quasi se stessa. Porse la mano al giovane apprendista così come l’avrebbe porta a un nuovo accolito.

«Il mio apprendista, Dalamar,» disse Raistlin, indicandolo con un gesto. «Dama Crysania, Reverenda Figlia di Paladine.»

«Dama Crysania,» disse l’apprendista con appropriata gravità, accettando la sua mano e portandosela alle labbra, facendo un leggero inchino, poi sollevò la testa e il cappuccio nero che gli oscurava il viso cadde all’indietro.

«Un elfo!» rantolò Crysania. La sua mano rimase stretta in quella di Dalamar. «Ma non è possibile,» riprese a dire, confusa. «Non al servizio del male...»

«Sono un elfo scuro, Reverenda Figlia,» disse l’apprendista, e amarezza trasparì nella sua voce.

«Per lo meno è così che mi chiama il mio popolo.»

Crysania mormorò imbarazzata: «Mi spiace, non intendevo...».

Balbettò e rimase silenziosa, non sapendo dove guardare. Poteva quasi sentire Raistlin che rideva di lei. Ancora una volta l’aveva colta impreparata. Con rabbia staccò la mano dalla gelida stretta dell’apprendista, e con un gesto brusco ritrasse l’altra mano dal braccio di Raistlin.

«La Reverenda Figlia ha fatto un viaggio faticoso, Dalamar,» disse Raistlin. «Per favore, conducila nel mio studio e versale un bicchiere di vino. Con il tuo permesso, Dama Crysania, ci sono alcune faccende che richiedono la mia attenzione. Dalamar, qualsiasi cosa la Dama richieda, provvederai subito.»

«Certo, Shalafi,» rispose Dalamar, in tono di rispetto.

Crysania non disse niente quando Raistlin se ne andò, all’improvviso sopraffatta da una sensazione di sollievo e da una sensazione di fatica che l’intorpidiva tutta. Così deve sentirsi il guerriero quando combatte per la propria vita contro un avversario abilissimo, osservò in silenzio Crysania mentre seguiva l’apprendista su per una stretta scala a chiocciola.

Lo studio di Raistlin era qualcosa che lei non si sarebbe mai aspettata.

Ma che cosa mi ero mai aspettata? si chiese. Certamente non quella stanza piacevole piena di libri strani e affascinanti. La mobilia era attraente e comoda, un fuoco ardeva nel caminetto, riempiendo l’ambiente d’un calore che era benvenuto dopo il gelo del tragitto fino alla Torre. Il vino che Dalamar le versò era delizioso. Il calore del fuoco pareva filtrare dentro il suo sangue mentre ne inghiottiva un piccolo sorso.

Dalamar tirò fuori un tavolinetto decorato e lo sistemò alla sua destra. Appoggiò su questo una terrina di frutta e una pagnotta fragrante ancora calda.

«Cos’è questa frutta?» chiese Crysania. Dalla terrina prese un frutto e l’esaminò con meraviglia.

«Non ho mai visto niente del genere prima d’oggi.»

«No, infatti, Reverenda Figlia,» rispose Dalamar, sorridendo. Crysania osservò che, a differenza di Raistlin, il sorriso del giovane apprendista si rifletteva nei suoi occhi. «Lo Shalafi se l’è fatta portare dall’isola di Mithas.»

«Mithas?» ripetè Crysania, stupefatta. «Ma è sull’altra faccia del mondo! Là vivono i minotauri. Non permettono a nessuno di entrare nel loro regno! Chi mai la porta?»

Crysania ebbe un’improvvisa e terrificante visione del servitore che poteva essere stato evocato per portare simili delizie ad un simile padrone. Si affrettò a rimettere il frutto nella terrina.

«Provalo, Dama Crysania,» la sollecitò Dalamar senza la benché minima traccia di divertimento nella voce: «Lo troverai delizioso. La salute dello Shalafi è delicata. Le cose che può tollerare sono così poche... Vive di poche cose, a parte questo frutto, il pane e il vino.»

La paura di Crysania diminuì. «Sì,» mormorò, girando involontariamente lo sguardo verso la porta.

«È terribilmente fragile, non è vero? E quella terribile tosse...». La sua voce era addolcita dalla pietà.

«Tosse? Oh, sì,» replicò Dalamar, in tono disinvolto. «La... tosse.» Non continuò e se Crysania trovò strana la cosa, se ne dimenticò ben presto smarrendosi nella contemplazione della stanza.

L’apprendista si fermò per qualche altro istante, per accertarsi se non le servisse qualcos’altro.

Poiché Crysania non disse altro, fece un inchino. «Se non hai bisogno di altro, mia signora, chiedo di potermi ritirare. Devo proseguire i miei studi.»

«Certo. Starò benissimo qui,» rispose Crysania, uscendo dai suoi pensieri con un sussulto. «Allora, è il tuo insegnante,» disse, rendendosene conto all’improvviso. Adesso toccava a lei guardare Dalamar. «È bravo? Impari da lui?»

«È più dotato di chiunque altro nel nostro Ordine, Dama Crysania,» rispose Dalamar con voce sommessa. «È brillante, abile, controllato. Ne è esistito soltanto un altro, potente quanto lui: il grande Fistandantilus. È il mio Shalafi è giovane, ha soltanto ventotto anni. Se vivrà, potrebbe benissimo...»

«Se vivrà?» ripetè Crysania, poi provò una viva irritazione per aver lasciato filtrare, senza volerlo, una nota di preoccupazione nella voce. È giusto provare preoccupazione, si disse. Dopotutto è una delle creature di Dio. Ogni forma di vita è sacra.

«L’arte è gravida di pericoli, mia signora,» le stava rispondendo Dalamar. «E adesso, se vuoi scusarmi...»

«Certo,» annuì Crysania.

Eseguendo nuovamente un inchino, Dalamar uscì in silenzio dalla stanza, chiudendo la porta alle sue spalle. Giocherellando con il suo bicchiere di vino, Crysania fissò le fiamme danzanti, smarrita nei propri pensieri.

Non sentì la porta che si apriva, sempre che si fosse aperta. Sentì delle dita che le toccavano i capelli. Rabbrividendo, si guardò intorno, e non vide altri che Raistlin seduto dietro alla sua scrivania su uno scranno dall’alto schienale. «Devo mandare a prendere qualcos’altro? Tutto è di tuo gradimento?» le chiese con cortesia.

«S... sì» balbettò Crysania, mettendo giù il bicchiere di vino, in modo che lui non potesse vedere che la mano le tremava. «Tutto è perfetto. Il tuo apprendista, Dalamar, è delizioso.»

«Vero,» annuì Raistlin, asciutto. Congiunse le punte delle dita delle mani e le appoggiò sul tavolo.

«Che mani meravigliose possiedi,» disse Crysania, senza pensare. «Come sono snelle e sottili le dita, e così delicate.» Rendendosi conto d’un tratto di ciò che stava dicendo, arrossì e balbettò. «M... ma suppongo che sia un requisito della tua Arte...»

«Sì,» disse Raistlin, sorridendo, e questa volta Crysania ebbe l’impressione di cogliere un autentico, sincero piacere in quel sorriso. Raistlin tenne le mani alla luce proiettata dalle fiamme. «Quand’ero soltanto un bambino, potevo stupire e deliziare mio fratello con i trucchi che queste mani potevano fare già allora.» Sfilando una moneta d’oro da una delle tasche delle sue vesti, Raistlin, l’appoggiò sulle nocche della sua mano. Senza nessuno sforzo la fece danzare, ruotare e turbinare sulla sua mano. La moneta luccicò dentro e fuori dalle sue dita. Gettata in aria, scomparve per poi riapparire nell’altra sua mano. Crysania lanciò esclamazioni deliziate. Raistlin sollevò lo sguardo su di lei, e Crysania vide un sorriso di piacere torcersi e diventare una smorfia amara di dolore.

«Sì,» lui disse, «era una delle mie capacità, il mio talento. Faceva divertire gli altri bambini. Talvolta li tratteneva dal farmi del male.»

«Farti del male?» chiese Crysania, esitando, colpita dalla sofferenza nella sua voce.

Lui non rispose subito, i suoi occhi continuarono a fissare la moneta d’oro che teneva ancora in mano. Poi tirò un profondo respiro. «Posso immaginare la tua giovinezza,» mormorò. «Tu provieni da una famiglia ricca, così mi dicono. Devi essere stata amata, protetta, coccolata, dev’esserti stato dato tutto quello che volevi. Eri ammirata, richiesta, apprezzata.»

Crysania non potè rispondere. D’un tratto si era sentita sopraffare da un senso di colpa.

«Quanto è stata diversa la mia infanzia.» Ancora una volta quel sorriso sofferto, pieno di dolore. «Il mio soprannome è l’Astuto. Ero debole e malato. È troppo sveglio. Loro erano così sciocchi! Le loro ambizioni così meschine, come mio fratello, ad esempio, il quale non pensava mai più in profondità del piatto di cibo che aveva davanti! O mia sorella, che vedeva nell’uso della spada l’unico modo per. raggiungere i suoi scopi. Sì, ero debole. Sì, loro mi hanno protetto. Ma giurai che un giorno non avrei più avuto bisogno della loro protezione! Sarei arrivato alla grandezza da solo, usando il mio nome... la mia magìa!»

La sua mano si contrasse, la sua pelle tinta d’oro impallidì. D’un tratto cominciò a tossire, quella tosse lacerante, squassante, che faceva contorcere il suo fragile corpo. Crysania si alzò in piedi, con il cuore dolorante. Ma Raistlin le fece segno di sedersi. Tirò fuori da una tasca un fazzoletto e si asciugò il sangue sulle labbra.

«È questo il prezzo che ho pagato per la mia magia,» disse quando potè parlare di nuovo. La sua voce era poco più d’un bisbiglio. «Hanno infranto il mio corpo e mi hanno dato questa visione maledetta, cosicché vedo morire davanti ai miei occhi tutto quello che guardo. Ma ne è valsa la pena, sì, senz’altro ne è valsa la pena! Poiché ho quello che cercavo: il potere. Non ho bisogno di loro, di nessuno di loro, mai più.»

«Ma questo potere è malefico!» replicò Crysania, sporgendosi in avanti dalla sedia e fissando Raistlin con fervore.

«Davvero?» chiese Raistlin d’un tratto. La sua voce suonò pacata. «L’ambizione è forse malvagia? La ricerca del potere, del controllo sugli altri, è forse malefica? Se è così, allora, Dama Crysania, temo che anche tu dovrai cambiare le tue bianche vesti con quelle nere.»

«Come osi?» gridò Crysania, sconvolta. «Io non...»

«Ah, ma sì, invece,» disse Raistlin con una scrollata di spalle. «Non avresti lavorato così duramente per arrivare alla posizione che occupi nella chiesa, senza avere la tua dose di ambizione, di desiderio di potere.» Adesso toccò a lui sporgersi in avanti. «Non ti sei forse sempre detta: C’è qualcosa di grande che sono destinata a compiere? La mia vita sarà diversa dalla vita degli altri. Non mi accontento di starmene seduta a guardare il mondo che scorre sotto di me. Voglio plasmarlo, controllarlo, modellarlo!»

Trattenuta dallo sguardo bruciante di Raistlin, Crysania non riuscì a muoversi o a pronunciare una sola parola. Come poteva sapere? si chiese. Riesce a leggere i segreti del mio cuore?

«Questo è forse malefico, Dama Crysania?» ripetè Raistlin con voce gentile e insistente.

Crysania scosse lentamente la testa, e portò con un gesto incerto la mano alla tempia che le pulsava. No, non era malefico. Non nel modo in cui Raistlin lo descriveva... ma qualcosa non era giusto. Non riusciva a pensare. Era troppo confusa. Tutto quello che continuava a lampeggiarle nella mente era: Come siamo uguali, lui ed io!

Raistlin rimase silenzioso, aspettando che lei replicasse. Doveva dire qualcosa. Crysania mandò giù frettolosamente una sorsata di vino per darsi il tempo di raccogliere i pensieri sparsi.

«Forse ho davvero questi desideri,» disse infine, lottando per trovare le parole, «ma se è così, la mia ambizione non è per me stessa. Uso le mie capacità e i miei talenti per gli altri, per aiutare gli altri. Li uso per la chiesa...»

«La chiesa!» sogghignò Raistlin.

La confusione di Crysania svanì, sostituita da una gelida rabbia. «Sì,» rispose, sentendosi su un terreno saldo e sicuro, circondata dal bastione della sua fede. «È stato il potere del bene, il potere di Paladine, che ha cacciato il male dal mondo. È il potere che cerco. Quel potere che...»

«Che ha cacciato il male?» la interruppe Raistlin.

Crysania sbatté le palpebre. I suoi pensieri l’avevano trasportata senza che quasi se ne rendesse conto. Non era stata del tutto cosciente di quanto stava dicendo. «Ebbene, sì...»

«Ma il male e le sofferenze sono ancora presenti nel mondo,» insistè Raistlin.

«A causa di quelli come te!» fu il grido veemente di Crysania.

«Ah, no, Reverenda Figlia,» ribatté Raistlin. «Non per un qualunque mio atto. Guarda...» l’invitò ad avvicinarsi con un cenno della mano, mentre una volta ancora cercava qualcosa nella tasca segreta della sua veste.

Divenuta d’un tratto sospettosa e guardinga, Crysania non si mosse, fissando l’oggetto che lui aveva tirato fuori. Era un minuscolo frammento rotondo vorticante di colori, un cristallo simile alla biglia d’un bambino. Raistlin prese da un angolo della scrivania un supporto d’argento e vi appoggiò sopra la pallina. L’oggetto aveva un aspetto ridicolo, era troppo piccolo per quel sostegno decorato. Poi Crysania boccheggiò. La pallina stava crescendo! O forse era lei che stava rimpicciolendo! Non poteva esserne certa. Ma adesso il globo di vetro aveva raggiunto le giuste dimensioni, comodamente appoggiato sul supporto d’argento.

«Guardaci dentro,» le disse Raistlin, con voce sommessa.

«No.» Crysania si tirò indietro, fissando intimorita il globo. «Cos’è?»

«Un globo dei draghi,» rispose Raistlin, trattenendola con lo sguardo. «È l’unico rimasto su Krynn. Obbedisce ai miei ordini. Non permetterà che ti venga fatto del male. Guarda dentro il globo, Dama Crysania, a meno che tu non tema la verità.»

«Come faccio a sapere che mi mostrerà la verità?» volle sapere Crysania, con voce tremante.

«Come faccio a sapere che non mi farà vedere soltanto quello che tu vuoi che io veda?»

«Se sai come sono stati creati i globi dei draghi, tanto tempo fa,» rispose Raistlin, «ricorderai che sono stati creati da tutte e tre le Vesti: la Bianca, la Nera e la Rossa. Non sono strumenti del male, non sono strumenti del bene. Sono tutto e niente. Tu porti il medaglione di Paladine,» il sarcasmo era ricomparso, «e la tua fede è forte. Potrei costringerti a vedere quello che non vuoi vedere?»

«Cosa vedrò?» bisbigliò Crysania. La curiosità e uno strano fascino la stavano attirando alla scrivania.

«Solamente quello che i tuoi occhi hanno visto e si sono rifiutati di vedere.»

Raistlin appoggiò un dito sottile sul vetro, intonando parole di comando. Esitando, Crysania si sporse sopra la scrivania e guardò dentro il globo dei draghi. Sulle prime non vide niente all’interno, soltanto un debole turbinio verdastro. Poi si ritrasse. C’erano mani dentro il globo! Mani che si stavano protendendo verso l’esterno...

«Non temere,» la rassicurò Raistlin. «Le mani vengono per me.»

E infatti, mentre parlava, Crysania vide le mani dentro il globo protendersi e toccare le mani di Raistlin. L’immagine scomparve. Colori vibranti solcarono per un istante come impazziti l’interno del globo, stordendo Crysania con la loro luce e il loro lampeggiare. Poi anch’essi scomparvero. E allora vide...

«Palanthas,» disse Crysania, sorpresa. Poteva vedere l’intera città avvolta dalle nebbie del mattino che si stendeva davanti ai suoi occhi, luccicante come una perla. E poi la città cominciò a precipitarle addosso, o forse era lei che cadeva dentro di essa. Adesso si librava sopra la Città Nuova, adesso era sopra il Muro, adesso era dentro la Città Vecchia. Il Tempio di Paladine s’innalzava davanti a lei, i bei terreni sacri erano tranquilli e sereni nella luce del mattino. E poi fu dietro al Tempio, e stava guardando al di là di un alto muro.

Trattenne il respiro. «Cos’è?» chiese.

«L’hai mai visto?» rispose Raistlin. «Questo vicolo così vicino ai terreni sacri?»

Crysania scosse la testa: «N... no,» rispose con voce rotta. «Eppure devo averlo visto. Ho vissuto a Palanthas tutta la mia vita. Conosco tutto...»

«No, mia signora,» disse Raistlin, accarezzando lievemente con la punta delle dita la superficie cristallina del globo dei draghi. «No, la conosci molto poco.»

Crysania non potè rispondere. A quando pareva, Raistlin diceva la verità poiché lei non conosceva quella parte della città. Cosparso di rifiuti, il vicolo era scuro e squallido. La luce del mattino non riusciva a trovare la strada al di là degli edifici che s’innalzavano dal suolo come se non avessero abbastanza energia per stare dritti. Adesso Crysania riconobbe quegli edifici. Li aveva visti dal lato anteriore. Venivano usati per immagazzinare qualunque cosa, dalle botti di vino a quelle di birra. Ma quanto apparivano diversi, visti dal lato anteriore! E chi era quella gente... quei disgraziati?

«Vivono là,» rispose Raistlin alla sua silenziosa domanda.

«Dove?» domandò Crysania in preda all’orrore. «Là? Perché?»

«Vivono dove possono. Scavano le loro tane nel cuore della città come i vermi, si nutrono della sua putrefazione. In quanto al perché...» Raistlin scrollò le spalle. «Non hanno nessun altro luogo dove andare.»

«Ma questo è terribile! Lo dirò a Elistan. Li aiuteremo, daremo loro dei soldi...»

«Elistan lo sa,» disse Raistlin con voce sommessa.

«No, non può saperlo! È impossibile!»

«Tu lo sapevi. Se non sapevi di questo luogo, ne conoscevi altri, nella tua bella città, che non sono belli.»

«Non...» Crysania cominciò a ribattere con rabbia, poi si arrestò. I ricordi la investirono a ondate. Sua madre che girava altrove il suo viso quando la loro carrozza attraversava determinati quartieri della città; suo padre che si affrettava a chiudere le tendine ai finestrini della carrozza, oppure si sporgeva per dire al conducente di prendere una strada diversa.

I colori turbinarono, la scena tremolò, si dissolse e venne sostituita da un’altra, poi da un’altra ancora. Crysania guardò, in preda all’angoscia, mentre il mago strappava via dalla città la facciata rilucente come una perla, mostrandole la tenebra e la corruzione sottostanti. Taverne, bordelli, locali per il gioco d’azzardo, i moli, le banchine... tutti vomitavano i loro rifiuti di miseria e di sofferenza davanti alla vista sconvolta di Crysania. Adesso non poteva più distogliere lo sguardo, non c’erano tende da tirare. Raistlin la trascinava dentro, la portava vicino ai disperati, agli affamati, agli abbandonati, ai dimenticati.

«No,» implorò Crysania, scuotendo la testa e cercando di arretrare dalla scrivania. «Ti prego, non mostrarmi altro.»

Ma Raistlin fu impietoso. Ancora una volta i colori turbinarono, e lasciarono Palanthas. Il globo dei draghi li trasportò in giro per il mondo, e dovunque Crysania guardasse, vedeva altri orrori. Nani dei burroni, una razza cacciata via dai loro confratelli nani, che vivevano nello squallore in qualunque parte di Krynn che riuscivano a trovare e nessun altro voleva. Esseri umani che conducevano un’esistenza sventurata in territori dove le piogge avevano cessato di cadere. Gli elfi selvatici, fatti schiavi dal loro stesso popolo. Chierici che usavano il loro potere per ingannare e ammassare grandi ricchezze.

Era troppo. Lanciando un urlo irrefrenabile, Crysania si coprì il volto con le mani. La stanza ondeggiò sotto i suoi piedi. Barcollando, quasi cadde per terra. E poi le braccia di Raistlin le si strinsero intorno. Sentì quello strano, bruciante calore che s’irradiava dal suo corpo e il morbido tocco del velluto nero. C’era un odore di spezie, di petali di rosa, con altri odori più misteriosi. Poteva udire il suo corto respiro risuonargli nei polmoni.

Delicatamente Raistlin ricondusse Crysania alla sua sedia. Lei si affrettò a sedersi ritraendosi dal suo contatto. La sua vicinanza era ripugnante e attraente allo stesso tempo, e accresceva la sua sensazione di perdita e di confusione. Desiderò disperatamente che Elistan fosse lì, accanto a lei. Lui avrebbe saputo, avrebbe capito... poiché doveva esserci una spiegazione! Sofferenze così terribili, una simile manifestazione del male, non avrebbero dovuto essere consentite. Sentendosi vuota e vana, fissò il fuoco.

«Non siamo poi tanto diversi,» la voce di Raistlin parve uscire dalle fiamme. «Io vivo nella mia Torre, dedicandomi ai miei studi. Tu vivi nella tua Torre, dedicandoti alla tua fede. E il mondo ci gira intorno.»

«È questo è il vero male,» disse Crysania rivolta alle fiamme. «Stare seduti e non far nulla.»

«Adesso capisci,» proseguì Raistlin, «io non mi accontento più di star seduto a guardare. Ho studiato per lunghi anni per una ragione, uno scopo. E adesso, questo è alla mia portata. Io farò la differenza, Crysania. Io cambierò il mondo. È questo il mio piano.»

Crysania sollevò rapidamente lo sguardo. La sua fede era stata scossa, ma il suo nocciolo era ancora forte. «Il tuo piano! È il piano contro cui Paladine mi ha messo in guardia nel mio sogno. Questo piano per cambiare il mondo causerà la distruzione del mondo stesso!» Serrò la mano in grembo. «Non devi attuarlo. Paladine...»

Raistlin fece un gesto impaziente con la mano, i suoi occhi dorati lampeggiarono e, per un momento, Crysania si ritrasse, intravedendo i fuochi che covavano all’interno di quell’uomo.

«Paladine non mi fermerà,» disse Raistlin, «poiché io cerco di deporre il suo più grande nemico.»

Crysania fissò il mago, senza capire. Quale nemico poteva mai essere? Quale nemico poteva avere Paladine in questo mondo? Poi il significato di ciò che aveva detto Raistlin le divenne chiaro. Crysania sentì il sangue defluirle dal volto, una gelida paura la fece rabbrividire convulsamente. Incapace di parlare, scosse la testa. L’enormità delle sue ambizioni e dei suoi desideri era troppo spaventosa, troppo impossibile anche soltanto a contemplarsi.

«Ascolta,» le disse Raistlin con voce sommessa. «Te lo chiarirò...»

E le riferì i suoi piani. Crysania rimase seduta per quelle che le parvero ore davanti al fuoco, trattenuta dallo sguardo di quegli strani occhi dorati, ipnotizzata dal suono della sua voce morbosamente sussurrante che le raccontava le meraviglie della sua magia e dell’altra magia che, adesso, era andata da tempo perduta, le meraviglie scoperte da Fistandantilus.

Raistlin tacque. Crysania rimase seduta per lunghi momenti, smarrita, vagando in un regno molto distante da qualunque altro regno da lei conosciuto. Il fuoco ardeva basso nelle grigie ore prima dell’alba. La stanza divenne più chiara. Crysania rabbrividì in quell’ambiente divenuto improvvisamente gelido.

Raistlin tossì, e Crysania sollevò lo sguardo su di lui, sorpresa. Era pallido per la fatica, i suoi occhi ardevano di febbre, le mani gli tremavano. Crysania si alzò in piedi.

«Mi spiace,» disse con voce sommessa. «Ti ho tenuto sveglio per tutta la notte, e non stai bene. Io devo andare.»

Raistlin si alzò insieme a lei. «Non preoccuparti per la mia salute, Reverenda Figlia,» rispose con un sorriso contorto. «Il fuoco che arde dentro di me produce energia sufficiente a riscaldare questo mio corpo infranto. Dalamar ti riaccompagnerà attraverso il Bosco di Shoikan, se lo vorrai.»

«Sì, grazie,» mormorò Crysania. Aveva dimenticato che avrebbe dovuto riattraversare quel luogo malefico. Tirando un profondo sospiro, porse la mano a Raistlin. «Grazie per avermi incontrato,» cominciò a dire, in tono formale. «Spero...»

Raistlin le prese la mano nella sua, il tocco della sua pelle liscia bruciava. Crysania lo fissò negli occhi. Vide se stessa riflessa là dentro, una donna incolore vestita di bianco.

«Non puoi far questo,» bisbigliò Crysania. «È sbagliato. Bisogna fermarti.» Gli strinse la mano con molta forza.

«Dimostrami che è sbagliato,» disse Raistlin, attirandola accanto a sé: «Dimostrami che questo è male. Convincimi che le vie del bene sono il modo per salvare il mondo.»

«Ascolterai?» chiese Crysania, ansiosa. «Sei circondato dalla tenebra. Come potrò arrivare da te?»

«L’oscurità si è dischiusa, non è vero?» chiese Raistlin. «L’oscurità si è dischiusa e tu sei entrata.»

«Sì...» Crysania fu d’un tratto conscia del tocco della sua mano, del calore del suo corpo. Arrossendo a disagio, fece un passo indietro. Togliendo la mano dalla sua stretta, la sfregò meccanicamente, come se le facesse male.

«Arrivederci, Raistlin Majere» disse, senza guardarlo negli occhi. «Arrivederci, Reverenda Figlia di Paladine,» lui rispose. La porta si aprì e Dalamar comparve sulla soglia, anche se lei non aveva visto Raistlin chiamare in qualche modo il giovane apprendista. Calandosi il bianco cappuccio sui capelli, Crysania voltò le spalle a Raistlin e varcò la soglia. Incamminandosi lungo il corridoio di pietra grigia, poteva sentire lo sguardo dei suoi occhi dorati che le penetrava le vesti, arroventandole. Quando arrivò alla stretta scala a chiocciola che conduceva in basso, la sua voce la raggiunse:

«Forse Paladine non ti ha mandato per fermarmi, Dama Crysania. Forse ti ha mandato per aiutarmi.»

Crysania si fermò e guardò dietro di sé: ma Raistlin era scomparso, il grigio corridoio appariva desolato e vuoto. Dalamar era in attesa accanto a lei.

Lentamente, raccogliendo le pieghe delle sue vesti bianche nella mano, in modo da non inciampare, Crysania scese la scala.

E continuò a scendere... giù... giù... interminabilmente.

Capitolo dodicesimo.

La Torre della Grande Stregoneria a Wayreth era stata per secoli l’ultimo avamposto della magia sul continente di Ansalon. Qui i maghi erano stati costretti a ritirarsi quando il Gran Sacerdote aveva ordinato loro di abbandonare le altre torri. Qui erano giunti lasciando la Torre di Istar, adesso sotto le acque del Mare di Sangue; abbandonando la Torre maledetta e annerita di Palanthas. La Torre, a Wayreth, era una struttura imponente, uno spettacolo che incuteva paura. Le pareti esterne formavano un triangolo equilatero. Una torre più piccola si ergeva su ogni angolo di quella forma perfettamente geometrica. Al centro si innalzavano due torri principali, leggermente inclinate, contorte soltanto un po’, quel che bastava per far sbattere le palpebre a chi le contemplava e fargli dire dentro di sé: Ma non sono storte?

Le mura erano costruite in pietra nera. Levigata fino ad essere lucidissima, questa pietra risplendeva sfolgorante alla luce del sole, e di notte rifletteva la luce delle due lune e specchiava l’oscurità della terza. Delle rune erano scolpite sulla superficie della pietra, rune di potere e di forza che facevano da scudo e protezione; rune che legavano le pietre le une alle altre. La sommità delle mura era liscia. Non c’erano spalti da difendere. Non ce n’era bisogno.

Lontana da ogni centro di civiltà, la Torre di Wayreth era circondata dal suo magico mondo. Nessuno che non vi appartenesse poteva entrarvi, nessuno vi veniva senza essere invitato. Così i maghi proteggevano il loro ultimo bastione di forza, difendendolo efficacemente dal mondo esterno.

Ma la Torre non era inanimata. Ambiziosi apprendisti fruitori di magia giungevano da ogni parte del mondo per affrontare la rigorosa, e a volte fatale, Prova. Stregoni di grande fama arrivavano quotidianamente per continuare i loro studi, incontrarsi, discutere, condurre esperimenti pericolosi e delicati. Per costoro, la Torre era aperta giorno e notte. Potevano andare e venire a loro piacimento: Vesti Nere, Vesti Rosse, Vesti Bianche.

Malgrado le loro filosofie fossero distanti, nel loro modo di vedere e vivere con il mondo, tutte le Vesti s’incontravano in pace nella Torre. I dibattiti erano tollerati soltanto se servivano a far progredire l’Arte. I combattimenti di qualsiasi genere erano proibiti: la punizione era la morte, rapida e terribile.

L’Arte. Era l’unica cosa che li univa tutti. Era la loro prima lealtà, non aveva importanza chi fossero, chi servivano, di che colore fossero le Vesti che indossavano. I giovani fruitori di magia che affrontavano la morte calmi e tranquilli quando acconsentivano ad affrontare la Prova, lo capivano. Gli antichi stregoni che venivano qui per esalare il loro ultimo respiro ed essere sepolti entro quelle mura familiari, lo capivano. L’Arte. La Magia. Era il genitore, l’amante, la sposa, il figlio. Era il suolo, il fuoco, l’aria, l’acqua. Era la vita. Era la morte. Andava oltre la morte.

Par-Salian rifletté su tutto questo mentre si trovava all’interno delle sue stanze, nella più settentrionale delle due alte torri, osservando Caramon e il suo piccolo seguito che venivano verso i cancelli.

Mentre Caramon ricordava il passato, così lo ricordava anche Par-Salian. Qualcuno si chiedeva se lo ricordasse con rincrescimento. No, disse in silenzio, osservando Caramon che avanzava lungo il sentiero, con la spada da battaglia che gli sbatteva sferragliando contro le cosce inflaccidite. Non mi rammarico per il passato. Mi venne offerta una terribile scelta, e la feci.

Chi può mettere in discussione gli dei? Mi hanno chiesto una spada. Ne ho trovata una. E, come tutte le spade, era a doppio taglio.

Caramon e il suo gruppo erano arrivati alla porta esterna. Non c’erano guardie. Un minuscolo campanello d’argento suonò nell’alloggio di Par-Salian.

Il vecchio mago sollevò la mano. La porta si spalancò.

Era l’imbrunire quando varcarono l’ingresso esterno della Torre della Grande Stregoneria. Tas si guardò intorno, sorpreso. Un attimo prima era ancora mattina. O per lo meno, gli era parso che fosse mattina! Sollevando lo sguardo vide dei raggi rossi che striavano il cielo, riflettendosi con luccichii arcani sulle mura di pietra levigata della Torre.

Tas scosse la testa. «Come fanno a sapere l’ora da queste parti?» si chiese. Si trovava in un grande cortile cinto dalle mura esterne e dalle due torri interne: un cortile spoglio e desolato. Pavimentato con quadrelli grigi, appariva freddo e sgraziato. Non vi crescevano fiori, nessun albero interrompeva l’implacabile monotonia della pietra grigia. E Tas notò, con disappunto, che era vuoto. Non c’era assolutamente nessuno lì intorno.

O forse sì? Tas colse un movimento fugace con la coda dell’occhio, un bianco svolazzare. Ma quando si girò di scatto fu sorpreso nel constatare che era scomparso. Là non c’era nessuno. E poi, vide con la coda dell’altro occhio, un volto e una mano e una manica rossa. Vi puntò direttamente gli occhi, e non c’era più! D’un tratto Tas ebbe l’impressione di essere circondato da gente che andava e veniva parlando, oppure se ne stava là senza far niente con lo sguardo fisso nel vuoto, o perfino dormiva! Eppure il cortile era ancora silenzioso, ancora vuoto.

«Devono esserci dei maghi che stanno facendo la Prova!» esclamò Tas con reverenziale sgomento.

«Raistlin mi diceva che viaggiano dappertutto, ma non immaginavo niente del genere! Mi chiedo se possono vedermi. Pensi che potrei toccarne uno, Caramon, se... Caramon?»

Tas sbatté le palpebre. Caramon non c’era più! Bupu non c’era più! Le figure dalle vesti bianche e Dama Crysania non c’erano più. Era solo!

Ma non per molto. Vi fu un lampo di luce gialla, un fetore orrendo, e un mago abbigliato di nero torreggiò sopra di lui. Il mago protese una mano... una mano di donna. «Sei stato convocato.»

Tas deglutì. Lentamente sollevò una mano. Le dita della donna si chiusero attorno al suo polso. Tas rabbrividì al loro freddo contatto. «Forse mi verrà fatta una magia!» disse fra sé, speranzoso.

Il cortile, le mura di pietra nera, le strisce rosse della luce del sole, i quadrelli grigi, tutto cominciò a dissolversi intorno a Tas, scivolando fuori dagli orli della sua visuale, come un dipinto inzuppato di pioggia. Profondamente deliziato, il kender sentì le vesti nere della donna avvolgergli tutt’intorno, quindi gli vennero rimboccate intorno al mento...

Quando Tasslehoff riprese i sensi, giaceva su un pavimento di pietra molto duro e molto freddo. Accanto a lui, Bupu russava beatamente. Caramon si era rizzato a sedere, scuotendo la testa, cercando di liberarla dalle ragnatele che sembravano avvolgerla.

«Ouch.» Tas si sfregò la nuca. «Strano alloggio, Caramon,» grugnì, alzandosi in piedi. «Ti verrebbe da pensare che potrebbero almeno far spuntare qualche letto dal pavimento, con la loro magia. E se vogliono che qualcuno si faccia un pisolino, perché non lo dicono, invece di mandare... oh...».

Sentendo la voce di Tasslehoff trasformarsi in uno strano gorgoglio, Caramon sollevò di scatto la testa.

Non erano soli.

«Conosco questo posto,» bisbigliò Caramon.

Si trovavano in un’enorme stanza scavata nell’ossidiana. Era così vasta che il suo perimetro si smarriva in mezzo alle ombre, e così alta che anche il suo soffitto si perdeva nell’oscurità. Nessun pilastro sorreggeva il soffitto, e non si vedevano fonti luminose. Eppure c’era luce, anche se era impossibile dire da dove prendesse origine. Una luce pallida, bianca, priva di sfumature. Fredda e squallida, non emanava nessun calore.

L’ultima volta che Caramon si era trovato in quella stanza, la luce aveva illuminato un vegliardo vestito di bianco, seduto su un grande seggio di pietra. Questa volta la luce illuminava lo stesso vecchio, ma non era più solo. Un semicerchio di sedie di pietra era disposto intorno a lui, esattamente ventuno. L’uomo vestito di bianco sedeva al centro. Alla sua sinistra c’erano tre figure indistinte, era difficile dire se fossero maschi o femmine o appartenenti a qualche altra razza. Avevano cappucci quasi del tutto abbassati sui loro volti. Erano vestiti di rosso. Alla loro sinistra sedevano sei figure, tutte vestite di nero. Fra queste c’era una sedia vuota. Alla destra del vecchio sedevano altre quattro figure vestite di rosso e, alla loro destra, sei vestite tutte di bianco. Dama Crysania giaceva sul pavimento davanti a loro, il suo corpo era disteso su un giaciglio bianco, coperto di lino bianco.

Di tutto quel conclave, soltanto la faccia del vecchio era visibile.

«Buona sera,» disse Tasslehoff, inchinandosi e arretrando, e continuando a farlo finché non andò a sbattere addosso a Caramon. «Chi è questa gente?» gli chiese il kender, con voce non troppo sommessa. «E cosa ci fanno nella nostra camera da letto?»

«Il vecchio al centro è Par-Salian,» rispose Caramon, bisbigliando. «E non siamo in camera da letto. Questa è la sala centrale, la Sala dei Maghi, o qualcosa di simile. Sarà meglio che tu svegli la nana dei burroni.»

«Bupu!» Tas tirò un calcio alla nana addormentata.

«Feccia di ghiottonvorace!» ringhiò la nana, rotolando su se stessa, gli occhi cocciutamente chiusi.

«Vai via. Me dormire.»

«Bupu!» Tas era disperato; gli occhi del vecchio sembravano trapassarlo. «Ehi, svegliati. È ora di cena.»

«Cena!». Aprendo gli occhi, Bupu balzò in piedi. Guardandosi intorno con avidità, vide le venti figure impaludate, sedute là in silenzio, i volti invisibili sotto i cappucci.

Bupu cacciò un urlo da coniglio torturato. Fece un balzo convulso e si lanciò addosso a Caramon, serrandogli le braccia intorno alla caviglia in una stretta micidiale. Conscio dei molti occhi luccicanti che lo guardavano, Caramon cercò di scrollarsela di dosso, ma la cosa risultò impossibile. Si teneva aggrappata a lui come una sanguisuga, tremando, fissando i maghi in preda al terrore. Alla fine Caramon rinunciò.

Il volto del vecchio s’increspò in quello che avrebbe potuto essere un sorriso. Tas vide Caramon che abbassava lo sguardo impacciato sui propri indumenti puzzolenti. Vide l’omone toccarsi la mascella ispida e passarsi una mano tra i capelli arruffati. Imbarazzato, il grosso guerriero arrossì. Poi la sua espressione s’indurì. Quando parlò, lo fece con semplicità e decoro.

«Par-Salian,» disse Caramon, le sue parole rimbombarono nell’ampia sala in penombra, «ti ricordi di me?»

«Mi ricordo di te, guerriero,» replicò il mago. La sua voce era sommessa, eppure risuonò ugualmente nella sala. In quella sala si sarebbe udito anche un bisbiglio morente.

Non disse altro. Nessun altro dei maghi parlò. Caramon si agitò a disagio. Alla fine indicò Dama Crysania. «L’ho portata qui sperando che tu possa aiutarla. Puoi farlo? Si riprenderà?»

«Che si riprenda o no, non dipende da noi,» rispose Par-Salian. «È al di là delle nostre capacità curarci di lei. Per proteggerla dall’incantesimo che il cavaliere della morte le ha lanciato, un incantesimo che certamente avrebbe significato la sua morte, Paladine ha ascoltato la sua ultima preghiera e ha mandato la sua anima a dimorare nei suoi pacifici regni.» Caramon chinò la testa. «È colpa mia,» disse con voce rauca. «Ho... ho mancato verso di lei. Avrei potuto...»

«Proteggerla?» Par-Salian scosse la testa. «No, guerriero, non avresti potuto proteggerla dal Cavaliere della Rosa Nera. Tentando questo, avresti perso la vita. Non è forse vero, kender?»

Tas, cogliendo d’un tratto lo sguardo di quegli occhi azzurri puntato su di lui, sentì un formicolio di scintille percorrergli il corpo. «S... sì,» balbettò. «L’ho... l’ho visto.» Tasslehoff rabbrividì.

«Questo da parte di qualcuno che non conosce la paura,» disse Par-Salian con voce pacata. «No, guerriero, non biasimarti. E non rinunciare alle speranze per lei. Anche se noi non possiamo ripristinare l’anima nel suo corpo, conosciamo chi può farlo. Ma prima dimmi perché mai Dama Crysania ci ha cercato. Poiché sappiamo che cercava la Foresta di Wayreth.»

«Non ne sono sicuro,» borbottò Caramon.

«È venuta a causa di Raistlin,» esclamò Tas, per aiutarlo. Ma la sua voce risuonò stridula e discordante in quella sala. Il nome del giovane mago suscitò echi arcani. Par-Salian corrugò la fronte, Caramon si voltò a guardare Tas, furibondo. Le teste incappucciate dei maghi si mossero leggermente, come se si fossero scambiati delle occhiate, le loro vesti frusciarono sommesse. Tas deglutì e rimase zitto.

«Raistlin.» Il nome uscì dalle labbra di Par-Salian con un sibilo sommesso. Fissò Caramon con intensità. «Cosa ha a che fare un chierico del Bene con tuo fratello? Perché mai Crysania ha intrapreso questo periglioso viaggio per lui?»

Caramon scosse la testa, restio o incapace di parlare. «Tu conosci la sua propensione per il Male?» proseguì Par-Salian con voce severa.

Caramon, ostinato, si rifiutò di rispondere, tenendo lo sguardo fisso sul pavimento di pietra.

«So...» cominciò a dire Tas, ma Par-Salian fece un lieve movimento con la mano e il kender tacque.

«Tu sai che adesso abbiamo motivo di credere che intenda conquistare il mondo?» continuò Par-Salian, le sue parole spietate colpirono Caramon come dardi. Tas vide sussultare l’omone.

«Insieme alla tua sorellastra, Kitiara, la Signora delle Tenebre, com’è conosciuta fra le sue truppe, Raistlin ha cominciato ad ammassare gli eserciti. Dispone di draghi, di cittadelle volanti. E inoltre sappiamo...»

Una voce irridente risuonò attraverso la sala. «Tu non sai nulla, Grande Mago. Sei uno sciocco!»

Quelle parole caddero come gocce d’acqua dentro uno stagno immobile, provocando delle increspature che si diffusero tra i maghi. Sorpreso, Tas si girò di scatto per cercare l’origine di quella strana voce e vide, dietro di sé, una figura emergere dalle ombre. Le sue vesti nere frusciarono mentre passava davanti a loro per fronteggiare Par-Salian. In quel momento la figura si sfilò il cappuccio. Tas sentì Caramon che s’irrigidiva. «Cos’è?» bisbigliò il kender, che non riusciva a vedere.

«Un elfo scuro!» borbottò Caramon.

«Davvero?» fece Tas, con gli occhi che gli si illuminavano. «Sai, in tutti gli anni in cui sono vissuto su Krynn, non ho mai visto un elfo scuro.» Il kender fece per avanzare ma venne afferrato per il colletto della tunica. Squittì per l’irritazione, mentre Caramon lo trascinava indietro, ma né Par-Salian né la figura abbigliata di nero parvero accorgersi di quella interruzione.

«Credo che dovresti spiegarti, Dalamar,» disse con calma Par-Salian. «Perché sono uno sciocco?»

«Conquistare il mondo!» sogghignò Dalamar. «Non ha in mente di conquistare il mondo! Il mondo non significa niente per lui. Potrebbe avere il mondo domani, stanotte, se lo volesse!»

«Allora, che cosa vuole?». La domanda era stata fatta da un mago vestito di rosso seduto accanto a Par-Salian.

Tas, sbirciando da dietro il braccio di Caramon, vide i lineamenti delicati e crudeli dell’elfo scuro rilassarsi in un sorriso.

«Vuole diventare un dio,» rispose Dalamar con voce sommessa. «Sfiderà la Regina delle Tenebre in persona. Questo è il suo piano.»

I maghi non dissero niente, non si mossero, ma il loro silenzio parve muoversi fra loro come una mutevole corrente d’aria, mentre fissavano Dalamar con occhi lucidi e immobili.

Poi Par-Salian sospirò. «Credo che tu l’abbia sopravvalutato.»

Vi fu un suono lacerante, come d’un tessuto che venisse strappato. Tas vide Dalamar muovere il braccio con uno scatto, mentre stracciava via il tessuto della sua veste.

«Questo significa forse sopravvalutarlo?» gridò Dalamar.

I maghi si sporsero in avanti, un rantolo simile al sibilo di un gelido vento percorse la vasta sala. Tas si dibatté per vedere, ma la mano di Caramon lo teneva ben fermo. Irritato, Tas sollevò lo sguardo sulla faccia di Caramon: possibile che non fosse curioso? Ma Caramon appariva del tutto insensibile.

«Vedete su di me il marchio della sua mano,» sibilò Dalamar. «Perfino adesso il dolore è quasi al limite della mia sopportazione.» Il giovane elfo fece una pausa, poi aggiunse a denti stretti: «Mi ha detto di porgerti i suoi saluti, Par-Salian!»

Il Grande Mago chinò la testa. La mano che sollevò per sorreggerla era scossa da un tremito. Parve vecchio, debole, stanco. Per qualche istante il mago sedette con gli occhi coperti, poi sollevò la testa e fissò Dalamar con attenzione.

«Così... i nostri peggiori timori si sono concretizzati.» Gli occhi di Par-Salian si strinsero, perplessi.

«Allora sa che siamo stati noi a mandarti...»

«Per spiarlo?» Dalamar rise amareggiato. «Sì, lo sa!». L’elfo scuro sputò fuori le parole. «L’ha sempre saputo. Mi ha usato, ha usato tutti noi, per portare avanti i suoi scopi.»

«Trovo molto difficile crederlo,» dichiarò il mago vestito di rosso, con voce pacata. «Tutti ammettiamo che il giovane Raistlin è potente, certo, ma trovo questo piano di sfidare una dea del tutto ridicolo... davvero ridicolo.»

Mormorii di assenso si levarono da entrambe le metà del semicerchio.

«Oh, davvero?» chiese Dalamar, e la sua voce era mortalmente soave. «Allora, lasciate che vi dica, sciocchi che non siete altro, che voi non avete nessuna idea del significato della parola potere. Non certo del modo in cui si riferisce a lui! Non potete neppure cominciare a sondare le profondità del suo potere o elevarvi fino alle sue vette! Io posso farlo! Io ho visto...». Dalamar ristette un attimo, la sua voce non era più rabbiosa, ma piena di meraviglia, «... io ho visto cose quali nessuno di voi ha mai osato immaginare! Ho camminato nel regno dei sogni con gli occhi aperti! Ho visto bellezze tali da far esplodere il cuore per il dolore. Sono disceso negli incubi, sono stato testimone di orrori,» rabbrividì, «di orrori così tremendi e innominabili che ho pregato perché la morte mi cogliesse all’istante piuttosto che guardarli!» Dalamar fissò il semicerchio davanti a lui, raccogliendoli tutti insieme nei suoi occhi lampeggianti. «E tutte queste meraviglie le ha evocate, create, portate alla vita con la sua magia.»

Non vi fu alcun suono, nessuno si mosse.

«È saggio da parte tua avere paura, Grande Mago.» La voce di Dalamar divenne un bisbiglio. «Ma non importa quanto grande sia la tua paura, non lo temi abbastanza. Oh, sì, gli manca il potere per varcare quella temuta soglia. Ma troverà quel potere. Già mentre noi parliamo, si sta preparando per il lungo viaggio. Domani, al mio ritorno, partirà.»

Par-Salian sollevò la testa. «Il tuo ritorno?» chiese, scosso. «Ma lui sa cosa sei: una spia, mandata da noi, il Conclave, i suoi colleghi.» Lo sguardo del Grande Mago andò alla sedia che si ergeva vuota in mezzo alle Vesti Nere, poi si alzò in piedi. «No, giovane Dalamar. Sei molto coraggioso, ma non posso permetterti di tornare a quella che, senza alcun dubbio, sarebbe una morte fra le torture per sua mano.»

«Non puoi fermarmi,» replicò Dalamar, e non c’era nessuna emozione nella sua voce. «Ho detto altre volte che avrei dato la mia anima per poter studiare con qualcuno come lui. E adesso, anche se dovesse costarmi la vita, rimarrò con lui. Si aspetta che io ritorni. Mi lascia la responsabilità della Torre della Grande Stregoneria in sua assenza.»

«Ti lascia di guardia?» chiese dubbioso il mago vestito di rosso. «Tu, che l’hai tradito?»

«Mi conosce,» spiegò Dalamar con amarezza. «Sa di avermi intrappolato. Ha punto il mio corpo e ha succhiato via la mia anima disseccandola, eppure tornerò nella ragnatela. Né sarò io il primo.»

Dalamar indicò la forma bianca distesa immobile sul giaciglio davanti a lui. Poi, quasi voltandosi, l’elfo scuro lanciò un’occhiata a Caramon. «Vero, fratello!» disse, con un sogghigno.

Finalmente, Caramon parve indotto ad agire. Scuotendo via con rabbia Bupu dal suo piede, il guerriero fece un passo avanti. Il kender e la nana dei burroni lo seguirono.

«Chi è costui?» volle sapere Caramon, fissando accigliato l’elfo scuro. «Cosa sta succedendo? Di chi stai parlando?»

Prima che Par-Salian potesse rispondere, Dalamar girò il volto verso il grosso guerriero.

«Mi chiamano Dalamar,» disse con freddezza l’elfo scuro. «E sto parlando di tuo fratello gemello, Raistlin. È il mio maestro. Io sono il suo apprendista. Inoltre sono una spia mandata da questa augusta compagnia che vedi davanti a te per riferire delle azioni di tuo fratello.»

Caramon non rispose. Era come se non avesse sentito. I suoi occhi, spalancati per l’orrore, erano fissi sul petto dell’elfo scuro. Seguendo lo sguardo di Caramon, Tas vide i cinque fori bruciati e insanguinati sulla pelle di Dalamar. Il kender deglutì provando d’un tratto una sensazione di nausea.

«Sì, è stata la mano di tuo fratello a far questo,» dichiarò Dalamar, indovinando i pensieri di Caramon. Sorridendo cupo l’elfo scuro afferrò con le mani gli orli strappati delle sue vesti nere e li ricongiunse nascondendo le ferite. «Non ha importanza,» borbottò. «Non è più di quanto meritavo.»

Caramon si affrettò a distogliere lo sguardo da Dalamar: aveva il volto talmente pallido che Tas infilò la sua mano in quella dell’omone, temendo che potesse accasciarsi al suolo.

«Cosa c’è?» chiese. «Non lo credevi capace di questo?» L’elfo scuro scosse la testa, incredulo, poi spazzò con lo sguardo l’assemblea. «No, siete come tutti gli altri. Sciocchi... tutti sciocchi.»

I maghi mormorarono insieme, qualche voce era rabbiosa, qualche altra intimorita, la maggior parte perplessa. Alla fine, Par-Salian sollevò la mano per ottenere silenzio.

«Dalamar, dicci quello che ha in mente. A meno che, naturalmente, non ti abbia proibito di parlarne.» C’era una nota d’ironia nella voce del mago che non sfuggì all’elfo scuro.

«No.» Dalamar sorrise tetro. «Conosco i suoi piani. Abbastanza, comunque. Mi ha perfino chiesto di accertarmi di essere in grado di riferirveli con la massima accuratezza.»

Nell’udire questo, si levarono mormorii e sbuffate di derisione. Ma Par-Salian parve soltanto ancora più preoccupato di prima, sempre che questo fosse possibile. «Continua,» gli intimò, quasi senza voce.

Dalamar tirò un lungo respiro.

«Viaggerà indietro nel tempo, nei giorni che hanno preceduto il Cataclisma, quando il grande Fistandantilus era al culmine del suo potere. È intenzione del mio Shalafi incontrare questo grande mago, studiare con lui, e recuperare quelle opere di Fistandantilus che sappiamo essere andate perdute nel corso del Cataclisma, poiché il mio Shalafi crede, da quanto ha letto nei libri degli incantesimi che ha preso nella Grande Biblioteca di Palanthas, che Fistandantilus abbia appreso come varcare la soglia che esiste fra dio e gli uomini. Così, il grande stregone è stato in grado di prolungare la sua vita dopo il Cataclisma per combattere le Guerre dei Nani. Così è stato in grado di sopravvivere alla terribile esplosione che devastò la terra di Dergoth. Così è stato in grado di vivere fino a quando non ha trovato un nuovo ricettacolo per la sua anima.»

«Non capisco niente di tutto questo! Ditemi cosa sta succedendo!» intimò Caramon, avanzando a grandi passi, in preda alla collera. «Altrimenti distruggerò questo miserando luogo fino a farvelo crollare in testa! Chi sarebbe questo Fistandantilus? Cosa mai ha a che fare con mio fratello?»

«Sst,» gli disse Tas, lanciando un’occhiata apprensiva ai maghi.

«Comprendiamo, kender,» disse Par-Salian, sorridendo a Tas con gentilezza, «comprendiamo la sua collera e il suo dolore. E ha ragione. Gli dobbiamo una spiegazione.» Il vecchio mago sospirò.

«Forse quello che ho fatto era sbagliato. Eppure, avevo forse una scelta? Dove mi troverei, oggi, se non avessi preso la decisione che presi?»

Tas vide Par-Salian che si voltava a guardare i maghi seduti sull’uno e sull’altro lato, e d’un tratto il kender si rese conto che la risposta del Grande Mago era tanto per loro quanto per Caramon. Molti avevano gettato indietro i loro cappucci e adesso Tas poteva vedere i loro volti. La rabbia s’irradiava dai visi di coloro che indossavano le Vesti Nere, la tristezza e la paura si riflettevano sui volti di coloro che indossavano le Vesti Bianche. Fra le Vesti Rosse, un uomo in particolare colse l’attenzione di Tas, soprattutto perché il suo volto era liscio, impassibile, eppure i suoi occhi scuri erano carichi d’emozione. Era il mago che aveva messo in dubbio il potere di Raistlin. Parve a Tas che Par-Salian rivolgesse le sue parole soprattutto a quell’uomo.

«Più di sette anni fa, Paladine mi comparve davanti.» Gli occhi di Par-Salian fissarono le ombre. «Il grande dio mi avvertì che un tempo di terrore sarebbe giunto e avrebbe inghiottito il mondo. La Regina delle Tenebre aveva svegliato i draghi malvagi e aveva progettato di far guerra alle genti per cercare di conquistarle. “Sceglierai uno fra quelli del tuo Ordine perché ti aiuti a combattere questo male” mi disse Paladine. “Scegli bene, poiché questa persona sarà come una spada che deve fendere la tenebra. Non potrai dirgli nulla di ciò che il futuro ci riserva poiché grazie alle sue decisioni e alle decisioni di altri, il tuo mondo rimarrà in piedi oppure precipiterà per sempre nella notte eterna”.»

Par-Salian venne interrotto da voci rabbiose, provenienti in modo particolare da coloro che indossavano le Vesti Nere. Par-Salian lanciò loro un’occhiata con occhi lampeggianti. In quell’istante Tas vide rivelati il potere e l’autorità che si celavano dentro quel mago vecchio e debole.

«Sì, forse avrei dovuto portare tutto questo avanti al Conclave,» riprese Par-Salian, con voce tagliente. «Ma credevo allora, come credo adesso, che la decisione doveva essere mia, e mia soltanto. Potevo ben prevedere le ore che il Conclave avrebbe sprecato bisticciando, sapevo bene che nessuno di voi sarebbe stato d’accordo! Io presi la mia decisione. Qualcuno di voi mette in discussione il mio diritto di farlo?»

Tas trattenne il respiro, sentendo la rabbia di Par-Salian ripercuotersi nella sala come un tuono. Le Vesti Nere riaffondarono nei loro sedili di pietra, borbottando. Par-Salian rimase silenzioso per qualche istante, poi riportò lo sguardo su Caramon, e la sua espressione severa si addolcì.

«Scelsi Raistlin,» disse.

Caramon corrugò la fronte. «Perché?» volle sapere.

«Avevo le mie ragioni,» disse Par-Salian, con gentilezza. «Alcune non posso spiegartele, neppure adesso. Ma posso dirti questo: è nato con il dono. È questa è la cosa più importante. La magia dimorava nel profondo di tuo fratello. Sapevi che fin dal primo giorno in cui Raistlin frequentò la scuola, il suo maestro provava paura e sgomento davanti a lui? Come può qualcuno istruire un allievo che ne sa più dell’insegnante? E insieme al dono della magia c’è quello dell’intelligenza. La mente di Raistlin non è mai ferma, cerca conoscenze, esige risposte. Ed è coraggioso, più coraggioso di quanto lo sia tu, guerriero. Combatte contro il dolore ogni giorno della sua vita. Ha affrontato la morte più d’una volta e l’ha sconfitta. Non teme nulla, né la luce né la tenebra. È la sua anima...» Par-Salian fece una pausa. «La sua anima brucia di ambizione, del desiderio di potere, del desiderio di altre conoscenze. Sapevo che niente, neanche la paura della stessa morte, gli avrebbe impedito di raggiungere i suoi scopi. E sapevo che gli scopi che lui cercava di raggiungere potevano beneficare il mondo, anche se lui avesse scelto di voltargli la schiena.»

Par-Salian ristette. Quando riprese a parlare, nella sua voce si percepiva il dolore. «Ma prima doveva affrontare la Prova.»

«Avresti dovuto prevedere il risultato,» dichiarò il mago vestito di rosso, in tono pacato.

«Sapevamo tutti che aspettava il momento opportuno...»

«Non avevo scelta!» ribadì Par-Salian, in tono secco, gli occhi azzurri lampeggianti. «Non c’era più tempo. Il mondo non aveva più tempo. Il giovane doveva affrontare la Prova e assimilare quello che aveva imparato. Non potevo più tardare.»

Caramon fissò l’uno e poi l’altro. «Sapevi che Raist avrebbe corso un pericolo quando l’hai fatto venire qui?»

«C’è sempre pericolo,» rispose Par-Salian. «La Prova è concepita per eliminare coloro che possono essere pericolosi per se stessi, per l’Ordine, per gli innocenti del mondo.» Si portò la mano alla testa, sfregandosi le sopracciglia. «E ricorda che la Prova è concepita anche per insegnare. Speravamo d’insegnare a tuo fratello la compassione per temprare le sue ambizioni egoistiche, speravamo di riuscire a insegnargli la misericordia, la pietà. E, forse a causa della mia foga nel volergli insegnare, ho commesso un errore. Mi sono dimenticato di Fistandantilus.»

«Fistandantilus?» fece Caramon, in preda alla confusione. «Cosa intendi dire... dimenticato? Da quanto hai detto, il vecchio mago è morto.»

«Morto? No.» Il volto di Par-Salian si oscurò. «L’esplosione che ne uccise a migliaia durante la Guerra dei Nani e rese deserta una terra che ancora oggi è devastata e spoglia non uccise Fistandantilus. La sua magia era tanto potente da sconfiggere la stessa morte. Si trasferì su un altro piano di esistenza, un piano lontano da qui, però non abbastanza lontano. Ed è rimasto sempre ad osservare, aspettando il suo momento, cercando un corpo che accettasse la sua anima. Ed ha trovato quel corpo: tuo fratello.»

Caramon stava ascoltando in un silenzio carico di tensione, il suo volto di un pallore mortale. Con la coda dell’occhio Tas vide Bupu che cominciava, a poco a poco, ad arretrare. L’afferrò per la mano e la tenne salda, impedendo alla terrorizzata nana dei burroni di precipitarsi a capofitto fuori della sala.

«Chi può sapere quale accordo presero i due durante la Prova? Nessuno di noi, probabilmente.» Par-Salian ebbe un lieve sorriso. «Io so però una cosa: Raistlin superò la Prova in maniera superba, ma la fragilità della sua salute era là a tradirlo. Forse sarebbe riuscito a sopravvivere all’ultima prova, il confronto con l’elfo scuro, anche se Fistandantilus non l’avesse aiutato. O forse no.»

«Aiutato? Gli salvò la vita?»

Par-Salian scrollò le spalle. «Sappiamo soltanto questo, guerriero: non è stato nessuno di noi a lasciare tuo fratello con quella pelle tinta d’oro. L’elfo scuro gli lanciò addosso una palla di fuoco, e Raistlin sopravvisse. Impossibile, naturalmente...»

«Non per Fistandantilus,» lo interruppe il mago vestito di rosso.

«No,» convenne Par-Salian con voce triste, «non per Fistandantilus. Allora me lo chiesi, ma non fui in grado d’indagare. Gli eventi del mondo stavano precipitando verso la crisi suprema. Tuo fratello era se stesso quando uscì dalla Prova. Più fragile, certo, ma questo bisognava aspettarselo. Ed io avevo ragione,» Par-Salian lanciò una rapida occhiata di trionfo intorno al semicerchio, «era forte nella sua magia! Chi altri avrebbe potuto conquistare il dominio di un globo dei draghi senza anni di studi?»

«Certo,» dichiarò il mago dalle Vesti Rosse, «aveva ricevuto l’aiuto da qualcuno che aveva al suo attivo anni e anni di studi.»

Par-Salian corrugò la fronte e non rispose.

«Fatemi capire bene,» disse Caramon, lanciando un’occhiata furente al mago vestito di bianco.

«Questo Fistandantilus... si è impadronito dell’anima di Raistlin? È lui che ha indotto Raistlin a prendere le Vesti Nere?»

«Tuo fratello fece la sua scelta,» replicò Par-Salian con voce tagliente. «Come l’abbiamo fatta tutti.»

«Non ci credo!» urlò Caramon. «Non è stato Raistlin a prendere questa decisione. Mentite, tutti! Avete torturato mio fratello, e poi uno dei vostri antichi stregoni ha rivendicato quello che rimaneva del suo corpo!» Le parole di Caramon tuonarono nella sala e fecero danzare allarmate le ombre.

Tas vide che Par-Salian fissava il guerriero con espressione cupa, e il kender si ritrasse, aspettando l’incantesimo che avrebbe fatto friggere Caramon come un pollo allo spiedo. Non arrivò. L’unico suono che udì era il respiro affannoso e irregolare di Caramon.

«Lo riavrò,» dichiarò Caramon alla fine, con gli occhi che gli luccicavano di lacrime. «Se lui può tornare indietro nel tempo per incontrare quel vecchio stregone, allora posso farlo anch’io. Voi potete mandarmi indietro. E quando troverò Fistandantilus, lo ucciderò. Poi Raistlin sarà...» soffocò un singhiozzo, lottando per controllarsi, «... sarà di nuovo Raist. E dimenticherà tutte queste sciocchezze di voler sfidare la Regina delle Tenebre e... diventare un dio.»

Il semicerchio esplose nel caos. Voci si levarono dovunque, schiamazzando incollerite.

«Impossibile! Cambierà la storia! Sei andato troppo oltre, Par-Salian...»

Il mago vestito di bianco si alzò in piedi e, voltandosi, fissò ogni singolo mago del semicerchio, trafiggendo con un’occhiata gelida ognuno di loro singolarmente. Tas potè percepire quella silenziosa comunicazione, rapida e bruciante come il lampo.

Caramon si passò la mano sugli occhi fissando i maghi con aria di sfida. Lentamente, tutti tornarono a sedersi. Ma Tas vide le mani stringersi, vide volti poco convinti colmi di rabbia. Il mago vestito di rosso fissò Par-Salian con espressione meditativa, sollevando un sopracciglio, poi anche lui tornò a sedersi. Par-Salian lanciò un’ultima, rapida occhiata tutt’intorno al Conclave, prima di voltarsi ancora verso Caramon.

«Prenderemo in considerazione la tua offerta,» gli disse. «Potrebbe funzionare. Certo è qualcosa che lui non si aspetterebbe...»

Dalamar cominciò a ridere.

Capitolo tredicesimo.

«Non se l’aspetterebbe?» Dalamar rise fino a quando non riuscì quasi più a respirare. «Raistlin ha progettato tutto questo! Voi credete davvero che questo grosso idiota,» indicò Caramon, «avrebbe potuto trovare la sua strada fin qui da solo? Quando quelle creature delle tenebre hanno inseguito Tanis Mezzelfo e Dama Crysania... inseguito senza mai raggiungerli... chi pensate che le avesse mandate? Perfino l’incontro con il cavaliere della morte, un incontro architettato da sua sorella, un incontro che avrebbe potuto infrangere i suoi piani, il mio Shalafi l’ha volto a proprio vantaggio. Poiché è indubbio che voi, sciocchi, spedirete questa donna indietro nel tempo dagli unici che possono guarirla, il Gran Sacerdote e i suoi seguaci. La manderete indietro nel tempo a incontrare Raistlin! Non soltanto questo, le fornirete perfino quest’uomo, il fratello di Raistlin, come guardia del corpo. Proprio quello che vuole lo Shalafi.»

Tas vide le dita simili ad artigli di Par-Salian stringersi sui freddi braccioli di pietra del suo seggio, gli occhi azzurri del vecchio luccicarono pericolosamente.

«Abbiamo sopportato abbastanza i tuoi insulti, Dalamar,» dichiarò Par-Salian. «Comincio a pensare che la tua fedeltà al tuo Shalafi sia eccessiva. Se questo è vero, allora la tua utilità per questo Conclave si è conclusa.»

Ignorando la minaccia, Dalamar esibì un amaro sorriso. «Il mio Shalafi,» ripetè lentamente, poi sospirò. Un brivido squassò il suo esile corpo, strinse le vesti strappate nella mano e chinò la testa.

«Mi trovo colto nel mezzo, come diceva lui,» bisbigliò l’elfo scuro. «Non so più chi servo, sempre che io serva qualcuno.» Sollevò gli occhi scuri, e la loro espressione ossessiva fece addolorare il cuore di Tas. «Ma io so questo: se qualcuno di voi arrivasse e cercasse di entrare nella Torre mentre lui è non presente, io vi ucciderei. Questa è la fedeltà che gli devo. Eppure, ho tanta paura di lui... almeno quanta ne avete voi. Vi aiuterò, se potrò farlo.» Le mani di Par-Salian si rilassarono, anche se il Grande Mago continuò a fissare Dalamar con severità. «Non riesco a capire perché mai Raistlin ti abbia raccontato i suoi piani... Deve certamente sapere che noi agiremo per impedirgli di avere successo con le sue terrificanti ambizioni.»

«Perché, come nel mio caso, vi ha posti nella posizione che voleva,» gridò Dalamar. D’un tratto barcollò, il suo volto era pallido per il dolore la fatica. Par-Salian fece un gesto, e una sedia si materializzò dalle tenebre. L’elfo scuro crollò su di essa. «Dovete assecondare i suoi piani. dovete mandare quest’uomo indietro nel tempo,» indicò Caramon, «insieme alla donna. È il solo modo che gli può consentire di aver successo...»

«Ed è il solo modo che può permetterci di fermarlo,» replicò Par-Salian a bassa voce. «Ma perché Dama Crysania? Quale interesse lui può -avere in qualcosa di così buono, di così puro...»

«... di così potente,» concluse Dalamar con un cupo sorriso. «Da quanto è riuscito a capire dagli scritti di Fistandantilus che ancora rimangono, avrà bisogno di un chierico che lo accompagni ad affrontare la temuta Regina. È soltanto un chierico del Bene ha abbastanza potere per sfidare la Regina e aprire la Porta Scura. Oh, Dama Crysania non è stata la prima scelta dello Shalafi. Raistlin aveva il vago progetto di utilizzare il morente Elistan, ma non vi parlerò di questo. Invece è stata Dama Crysania a cadere nelle sue mani, alla lettera, si potrebbe dire. È buona, forte nella sua fede, potente...»

«È attratta dal male come la falena dalla fiamma,» mormorò Par-Salian, fissando Crysania con profonda pietà.

Guardando a sua volta Caramon, Tas si chiese se l’omone stesse assimilando anche soltanto la metà di quello che sentiva. Aveva un’espressione vaga, istupidita, come se non fosse affatto certo di dove si trovasse, o se non sapesse bene chi lui fosse. Tas scosse la testa dubbioso. Mandare lui indietro nel tempo? si chiese il kender.

«Raistlin ha altre ragioni per volere sia questa donna sia suo fratello insieme a lui, indietro nel tempo, di questo puoi essere sicuro,» dichiarò il mago vestito di rosso a Par-Salian. «Non ha affatto rivelato il suo gioco. Ci ha detto, tramite il nostro agente, quel tanto che è bastato a lasciarci confusi. Io propongo di contrastare i suoi piani!»

Par-Salian non rispose. Ma sollevando la testa fissò Caramon per lunghi momenti, e nel suo sguardo c’era una tristezza che trafisse il cuore di Tas. Poi, scuotendo la testa, abbassò lo sguardo, fissando l’orlo delle sue vesti. Bupu piagnucolò e Tas l’accarezzò con gesto distratto. Perché mai quella strana occhiata rivolta a Caramon? si chiese il kender con inquietudine. Non era possibile che intendessero mandarlo ad una morte certa. Eppure, non era proprio questo che avrebbero fatto, se l’avessero mandato indietro nel tempo, nelle condizioni in cui si trovava adesso, malato, depresso, confuso? Tas spostò il proprio peso da un piede all’altro, poi fu colto da uno sbadiglio. Ma nessuno gli prestò attenzione. Tutti quei discorsi erano noiosi, e lui aveva anche fame. Se avevano intenzione di mandare Caramon indietro nel tempo, Tas desiderava ardentemente che lo facessero subito.

D’un tratto sentì una parte della sua mente (quella che aveva continuato ad ascoltare Par-Salian) dare uno strattone all’altra parte. Tas si affrettò all’istante a rimettere insieme entrambe le parti, per ascoltare ciò che veniva detto.

Dalamar aveva ripreso a parlare: «Dama Crysania ha passato una notte nel suo studio. Non so cosa sia stato discusso, ma quando se n’è andata, alla mattina, l’ho vista scossa e turbata. Le ultime parole che lui le ha rivolto sono state: “Non ti è venuto in mente che Paladine non ti abbia mandato per fermarmi, ma per aiutarmi?”»

«E quale risposta lei gli ha dato?»

«Non gli ha risposto,» disse Dalamar. «Ha riattraversato la Torre e poi il Bosco come qualcuno che non può vedere né sentire.»

«Quello che non capisco è il motivo per il quale Dama Crysania si è messa in viaggio per cercare il nostro aiuto e farsi mandare indietro nel tempo. Deve aver saputo per certo che avremmo rifiutato una simile richiesta!» dichiarò il mago vestito di rosso.

«A questo posso rispondere io!» esclamò Tasslehoff, parlando prima di pensare.

Adesso Par-Salian gli prestava attenzione, e anche tutti gli altri maghi del semicerchio gli stavano prestando attenzione. Tutte le teste, nessuna esclusa, si voltarono nella sua direzione. Tas aveva parlato agli spiriti della Foresta Scura, aveva parlato al Consiglio della Pietra Bianca ma, per un attimo, rimase intimorito da questo pubblico silenzioso e solenne. Specialmente dopo che gli era venuto in mente quello che aveva da dire.

«Per favore, Tasslehoff Burrfoot,» gli disse Par-Salian, con grande cortesia, «dicci quello che sai.»

Il Grande Mago sorrise. «Poi, forse, potremo concludere questo incontro e tu potrai cenare.»

Tas arrossì, chiedendosi se Par-Salian potesse - forse - vedere dentro il suo’ cranio e leggere i pensieri stampati sul suo cervello allo stesso modo in cui lui leggeva le parole scritte su un pezzo di pergamena.

«Oh, sì, cenare sarebbe splendido. Ma adesso, uhm, a proposito di Dama Crysania...» Tas fece una pausa per raccogliere i propri pensieri, poi si lanciò nella sua storia. «Be’, intendiamoci, non ne sono affatto sicuro. Io so soltanto quel poco che sono riuscito a raccogliere qua e là. Per cominciare dall’inizio, incontrai Dama Crysania quand’ero a Palanthas per visitare il mio amico, Tanis Mezzelfo. Lo conoscete? E Conoscete Laurana, il Generale Dorato? Ho combattuto con loro, nella Guerra delle Lance. Ho contribuito a salvare Laurana dalla Regina delle Tenebre.» Il kender parlò con orgoglio. «Avete mai sentito la storia? Mi trovavo nel Tempio di Neraka...»

Le sopracciglia di Par-Salian accennarono a sollevarsi, e Tas balbettò:

«Uh, sì, b... bene, ve lo racconterò più tardi. Comunque, incontrai Dama Crysania nella casa di Tanis e ascoltai i loro progetti per viaggiare fino a Solace per far visita a Caramon. È capitato che io... già... in un Certo senso trovassi una lettera che Dama Crysania aveva scritto a Elistan. Credo che le fosse caduta dalla tasca.»

Il kender fece una pausa per riprender fiato. Le labbra di Par-Salian si contrassero, ma si astenne dal sorridere.

«La lessi,» continuò Tas, godendosi adesso l’attenzione del suo pubblico per il fatto d’essere così importante. «Dopotutto poteva essere stata lei a buttarla via. Nella lettera si diceva... uhm... sono più che mai fermamente convinta, dopo il colloquio con Tanis, che c’è del bene in Raistlin, e che sarebbe possibile distoglierlo dal sentiero del male.” E aggiungeva: “Devo convincere i maghi di questo... Vidi perciò che la lettera era molto importante, così gliela portai. Dama Crysania me ne fu molto grata,» concluse Tas, in tono solenne. «Non si era resa conto di averla persa.»

Par-Salian si portò le mani alle labbra per impedirsi di sogghignare.

«Dissi che avrei potuto raccontarle un sacco di storie su Raistlin, se avesse voluto ascoltarle. Rispose che le sarebbe piaciuto moltissimo, così le narrai tutte le storie che mi riuscì di ricordare. La interessò in modo particolare quella che le raccontai su Bupu...

«“Se soltanto potessi trovare quella nana dei burroni!” mi disse una sera. “Sono certa che potrei convincere Par-Salian che c’è speranza, che può essere recuperato!”»

A queste parole una delle Vesti Nere sbuffò sonoramente. Par-Salian scoccò un’occhiata tagliente in quella direzione, gli stregoni si azzittirono. Ma Tas vide molti di loro, soprattutto le Vesti Nere, incrociare le braccia sul petto in segno di collera. Potè vedere i loro occhi luccicare nelle ombre dei loro cappucci.

«Uh, s... sono sicuro di non aver avuto nessuna intenzione di offendere,» balbettò Tas. «So di aver sempre pensato che Raistlin stava molto meglio in nero, con quella sua pelle dorata e tutto il resto. Certo io non credo che tutti debbano essere buoni, naturalmente. Fizban, che in realtà è Paladine, ed io, siamo amici intimi. Paladine... insomma, Fizban ha detto che doveva esserci un equilibrio nel mondo, che noi lottavamo per ripristinare quell’equilibrio. Questo significa, perciò, che devono esserci Vesti Nere oltre che Bianche, non è vero?»

«Sappiamo quello che vuoi dire, kender,» replicò Par-Salian con gentilezza. «I nostri confratelli non si offendono per le tue parole. La loro rabbia è diretta altrove. Non tutti al mondo sono saggi come Fizban il Favoloso.»

Tas sospirò. «Talvolta sento la sua mancanza. Ma dov’ero arrivato... Ah, sì, Bupu. È quando ho avuto la mia idea. “Forse, se Bupu raccontasse la sua storia, i maghi le crederebbero,” dissi a Dama Crysania. Lei si mostrò d’accordo, ed io mi offrii di andare a cercare Bupu, appunto. Non ero più stato a Xak Tsaroth sin da quando Goldmoon aveva ucciso il drago nero, ed era soltanto un breve salto da dov’eravamo, e Tanis disse che andava bene. In realtà, pareva molto contento di vedermi partire.

«L’Highpulp mi lasciò prendere Bupu dopo, uhm, una piccola discussione, e certi oggetti interessanti che avevo in borsa. Portai Bupu a Solace, ma Tanis era già partito, e anche Dama Crysania. Caramon era...» Tas smise di parlare, sentendo Caramon che si raschiava la gola alle sue spalle. «Caramon non... non si sentiva troppo bene, ma Tika, cioè la moglie di Caramon e mia grande amica... Tika comunque dichiarò che dovevamo raggiungere Dama Crysania perché la Foresta di Wayreth era un luogo terribile e, vi garantisco che non intendo offendere nessuno, ma vi siete mai soffermati a pensare che la vostra Foresta è davvero cattiva? Voglio dire, non è amichevole,» Tas fissò i maghi con severità, «e non so proprio perché la lasciate andare in giro! Credo sia una prova d’irresponsabilità!»

Le spalle di Par-Salian sussultarono.

«Ecco, è tutto quello che so,» disse Tas. «E c’è Bupu, e lei può...» Tas smise di parlare e si guardò intorno. «Dov’è andata?»

«Qui,» rispose Caramon, cupo, trascinando fuori la nana dei burroni da dietro la sua schiena, dove si era rintanata in preda al più abbietto terrore. Vedendo i maghi che la fissavano, la nana dei burroni cacciò uno strillo e crollò sul pavimento, un tremante fagotto di stracci.

«Credo che farai meglio a raccontarci tu la sua storia,» disse Par-Salian a Tas. «Se puoi farlo, s’intende.»

«Sì,» disse Tas, d’un tratto tutto mogio. «So quello che Dama Crysania voleva che raccontassi. È accaduto durante la guerra, quando eravamo a Xak Tsaroth. Gli unici che sapevano qualcosa di quella città erano i nani dei burroni. Ma la maggior parte di loro non voleva aiutarci. Raistlin lanciò un incantesimo su una di loro, Bupu. Incantesimo non è la parola giusta per definire quello che le fece. Bupu s’innamorò di lui.» Tas fece una pausa sospirando, poi continuò con un tono di voce pieno di rimorso. «Credo che qualcuno di noi abbia pensato che fosse divertente. Ma non Raistlin. Fu davvero gentile con lei, e perfino le salvò la vita, un giorno, quando i draconici ci attaccarono. Be’, dopo che lasciammo Xak Tsaroth, Bupu venne con noi. Non poteva sopportare di staccarsi da Raistlin.»

Tas abbassò la voce. «Una notte mi svegliai. Sentì Bupu che piangeva. Feci per andare da lei, ma vidi che anche Raistlin aveva sentito. Bupu aveva nostalgia di casa, voleva tornare dalla sua gente ma non poteva lasciarlo. Non so che cosa lui le disse, ma vidi che le appoggiava le mani sulla testa. E mi parve di distinguere una luce che risplendeva tutt’intorno a Bupu. E poi, Raistlin la mandò a casa. Dovette viaggiare attraverso una terra brulicante di terribili creature ma, chissà per quale motivo, sapevo che sarebbe stata al sicuro. E fu proprio così,» terminò Tas, con solennità.

Vi fu qualche istante di silenzio, poi parve che tutti i maghi si mettessero a parlare nello stesso tempo. Quelli dalle Vesti Nere scuotevano la testa. Dalamar sogghignò.

«Il kender sognava,» disse con disprezzo.

«Comunque, chi mai crede ai kender?» qualcuno gli fece eco.

I maghi dalle Vesti Rosse e dalle Vesti Bianche apparivano pensierosi e perplessi.

«Se questo è vero,» disse uno di loro, «forse l’abbiamo giudicato male. Forse dovremmo cogliere questa occasione, per quanto labile.»

Alla fine Par-Salian sollevò una mano per ottenere silenzio.

«Ammetto che trovo difficile crederlo,» dichiarò, infine. «Non intendo svalutare ciò che hai detto, Tasslehoff Burrfoot,» aggiunse con gentilezza, sorridendo all’indignato kender. «Ma tutti sanno che la tua razza ha la deprecabilissima tendenza a... uh... esagerare. Per me è ovvio che Raistlin ha semplicemente incantato questa... questa creatura,» Par-Salian parlò con disgusto, «per usarla e...»

«Me no creatura!»

Bupu sollevò dal pavimento il volto rigato di lacrime, striato di fango, i capelli arruffati come quelli di un gatto rabbioso. Fissando Par-Salian con occhi furenti, si alzò in piedi e fece per avanzare, inciampò sulla borsa che portava, e finì lunga distesa sul pavimento. Per nulla scoraggiata, la nana dei burroni si tirò su e fronteggiò Par-Salian.

«Me non sa niente di grandi, potenti stregoni.» Bupu agitò una mano tozza. «Me non sa niente di nessun incantesimo. Me sa che magia in questo.» Cercò a tastoni nella borsa, poi tirò fuori il ratto morto e lo agitò in direzione di Par-Salian. «E me sa che uomo di cui tu parli qui è buono uomo. Lui gentile con me.» Stringendo al petto il ratto morto, Bupu fissò Par-Salian con gli occhi colmi di lacrime. «Altri, uomo grosso, kender, ridono di Bupu. Guardano me come specie di insetto.»

Bupu si sfregò gli occhi. Tas sentì un nodo alla gola e gli parve d’essere lui stesso inferiore a un insetto.

Bupu continuò, parlando con voce sommessa: «Me so come sono.» Cercò invano con le mani sporche di lisciarsi il vestito, lasciando su di esso altre strisce di sporco. «Me so che me non bella, come signora distesa qui.» La nana dei burroni tirò su con il naso, poi se lo pulì con la mano e, sollevando la testa, tornò a fissare Par-Salian con aria di sfida. «Ma lui non chiama me “creatura”! Lui chiama me “piccolina”. Piccolina,» ripetè.

Per un momento rimase silenziosa, ricordando. Poi cacciò fuori un burrascoso respiro. «Io... io volevo stare con lui. Ma lui dice me, vuole me essere al sicuro. Lui mette mano su mia testa,» Bupu chinò la testa come in omaggio alla memoria, «e io sento caldo dentro. Poi lui dice me: “Arrivederci, Bupu”. Lui chiama me “piccolina”.» Sollevando lo sguardo, Bupu lanciò un’occhiata al semicerchio. «Lui mai riso di me,» disse, soffocando. «Mai!» Cominciò a piangere.

Per un attimo, gli unici suoni nella stanza furono i singhiozzi della nana dei burroni. Caramon si coprì il volto con le mani, sopraffatto. Tas esalò un tremulo sospiro e frugò nelle sue borse alla ricerca di un fazzoletto. Dopo qualche istante, Par-Salian si alzò dal suo seggio di pietra e si fermò davanti alla nana dei burroni, che lo stava guardando con sospetto, scossa allo stesso tempo dai singhiozzi.

Il Grande Mago tese la mano. «Perdonami, Bupu,» disse con voce grave, «se ti ho offeso. Devo confessare di aver detto quelle parole crudeli di proposito, sperando di farti arrabbiare abbastanza da indurti a raccontare la tua storia, poiché soltanto allora avremmo potuto esser certi della verità.»

Par-Salian appoggiò la mano sulla testa di Bupu, il suo volto era stanco e tirato, ma pareva esultante.

«Forse non abbiamo fallito, forse ho imparato un po’ di compassione,» mormorò. Gentilmente accarezzò i capelli scarmigliati della nana dei burroni. «No, Raistlin non avrebbe mai riso di te, piccolina. Sapeva. Ricordava. In troppi avevano riso di lui.»

Tas non riusciva a vedere attraverso le sue lacrime, e sentì Caramon che piangeva in silenzio accanto a lui. Il kender si soffiò il naso nel fazzoletto, poi venne avanti per recuperare Bupu che stava piagnucolando dentro l’orlo della veste bianca di Par-Salian.

«Così, questa è la ragione per la quale Dama Crysania ha intrapreso questo viaggio?» chiese Par-Salian a Tas quando il kender si avvicinò. Il mago lanciò un’occhiata alla forma bianca, fredda e immobile, stesa sotto il telo di lino, con gli occhi ciechi fissi sull’oscurità avvolta nelle ombre.

«Crede di poter riattizzare la scintilla del Bene che noi abbiamo cercato di accendere, senza riuscirci?»

«Sì,» rispose Tas, improvvisamente a disagio sotto lo sguardo penetrante degli occhi azzurri del mago.

«E perché vuole tentare questo?» insistette Par-Salian.

Tas tirò in piedi Bupu e le porse il suo fazzoletto, cercando d’ignorare il fatto che la nana lo fissava con stupore, ovviamente senza la più pallida idea dell’uso che avrebbe dovuto farne. Si soffiò il naso dentro l’orlo del suo vestito.

«Uhm, be’, Tika ha detto...» Tas s’interruppe, arrossendo.

«Cos’è che ha detto Tika?» chiese Par-Salian, con voce sommessa.

«Tika ha detto,» Tas deglutì, «Tika ha detto che lo faceva perché... perché Dama Crysania a... amava lui... Raistlin.»

Par-Salian annuì. Il suo sguardo andò a Caramon. «E tu che cosa mi dici, gemello?» chiese d’un tratto. Caramon sollevò la testa e fissò Par-Salian con occhi ossessionati.

«Lo ami ancora? Hai dichiarato che saresti tornato indietro nel tempo per uccidere Fistandantilus. Il pericolo che affronterai sarà grande. Ami abbastanza tuo fratello da intraprendere questo pericoloso viaggio? Da rischiare la tua vita per lui, come ha fatto questa Dama? Ricordati, prima di rispondere, che non tornerai indietro nel tempo per salvare il mondo. Tu tornerai indietro avventurandoti in una ricerca per salvare un’anima, niente di più. . Niente di nuovo.»

Le labbra di Caramon si mossero, ma nessun suono uscì da esse. Però la sua faccia era illuminata dalla gioia, c’era una felicità che sprizzava dalle profondità del suo essere. Riuscì soltanto ad annuire.

Par-Salian si voltò verso il Conclave.

«Ho preso la mia decisione,» cominciò.

Una delle Vesti Nere si alzò e buttò indietro il cappuccio. Tas vide che era la donna che l’aveva accompagnato qui. La collera ardeva nei suoi occhi. La donna fece un rapido movimento tagliente con la mano.

«Noi ci opponiamo a questa decisione, Par-Salian,» disse a bassa voce. «E sai che ciò significa che non puoi lanciare l’incantesimo.»

«Il Maestro della Torre può lanciare l’incantesimo da solo, Ladonna,» rispose Par-Salian, tetro. «Il potere viene conferito a tutti i maestri. Così Raistlin scoprì il segreto quando divenne Maestro della Torre a Palanthas. Non ho bisogno dell’aiuto né delle Vesti Rosse né delle Vesti Nere.»

Un mormorio si levò anche dalle Vesti Rosse; molti guardarono le Vesti Nere, annuendo in segno di accordo con loro. Ladonna sorrise.

«Invero, Grande Mago,» disse, «lo so, tu non hai bisogno di noi per lanciare quell’incantesimo, ma ugualmente hai bisogno di noi. Hai bisogno della nostra collaborazione, Par-Salian, altrimenti le ombre della nostra magia si leveranno e oscureranno la luce della luna d’argento. E tu fallirai.»

Il volto di Par-Salian divenne freddo e grigio. «Che mi dici della vita di questa donna?» intimò, indicando Crysania.

«Cos’è per noi la vita di un chierico di Paladine?» esclamò con disprezzo Ladonna. «I nostri interessi sono assai più grandi e non possono essere discussi in presenza di estranei. Mandali via,» indicò Caramon, «e ne discuteremo privatamente.»

«Credo che sarebbe saggio farlo, Par-Salian,» disse con voce pacata il mago vestito di rosso. «I nostri ospiti sono stanchi e affamati, e troverebbero del tutto noiosi i nostri disaccordi familiari.»

«Molto bene,» disse d’un tratto Par-Salian. Ma Tas riconobbe la collera sul volto del mago vestito di bianco, quando si voltò verso di loro. «Verrete convocati.»

«Aspetta!» urlò Caramon. «Esigo di essere presente! Io...»

L’omone tacque di colpo quasi strangolandosi da solo. La sala era scomparsa, i maghi erano scomparsi, i seggi di pietra erano scomparsi. Caramon stava urlando a una cappelliera.

Stordito, Tas si guardò intorno. Lui, Caramon e Bupu erano in una comoda stanza che avrebbe potuto benissimo trovarsi nella Locanda dell’Ultima Casa. Un fuoco bruciava nel caminetto, sul lato opposto c’erano dei comodi letti. Un tavolo pieno di cibo era accanto al fuoco. L’odore del pane appena cotto e della carne arrostita fece loro venire l’acquolina in bocca. Tas sospirò deliziato.

«Credo che questo sia il posto più bello del mondo,» disse.

Capitolo quattordicesimo.

Il vecchio mago vestito di bianco sedeva in uno studio che assomigliava molto a quello di Raistlin nella Torre di Palanthas, soltanto che i libri che riempivano gli scaffali di Par-Salian erano rilegati in cuoio bianco. Le rune d’argento tracciate sui loro dorsi e sulle loro copertine luccicavano al bagliore d’una fiamma scoppiettante. Chiunque fosse entrato avrebbe pensato che la stanza fosse invasa da un caldo soffocante, ma Par-Salian sentiva il gelo dell’età penetrargli le ossa. Per lui la stanza era del tutto confortevole.

Sedeva alla scrivania con gli occhi fissi sulle fiamme. Trasalì leggermente nel sentire un lieve bussare alla porta poi, sospirando, disse con voce sommessa: «Entra.»

Un giovane mago vestito di bianco aprì la porta, rivolgendo un inchino al mago vestito di nero che gli passò davanti, come si confaceva a qualcuno della sua posizione. Il mago dalle Vesti Nere, Ladonna, accettò l’omaggio senza far commenti. Buttando indietro il cappuccio, avanzò nella camera di Par-Salian ma si fermò subito oltre la soglia. Il mago vestito di bianco chiuse senza far rumore la porta alle sue spalle, e lasciò soli i capi dei rispettivi Ordini.

Ladonna lanciò uno sguardo rapido e penetrante intorno a sé. La maggior parte di quell’ambiente si smarriva fra le ombre, il fuoco proiettava l’unica luce esistente. Perfino le tende erano state tirate, escludendo l’arcano bagliore delle lune. Sollevando la mano, Ladonna mormorò poche parole sommesse. Parecchi oggetti presenti nella stanza cominciarono a luccicare d’una bizzarra luce rossastra mostrando di possedere proprietà magiche: un bastone appoggiato a una parete, un prisma di cristallo sulla scrivania di Par-Salian, un candelabro dalle molte braccia, un’enorme clessidra, e fra le altre cose parecchi anelli che ornavano le dita del vecchio. Niente di tutto questo parve allarmare Ladonna. Si limitò semplicemente a fissare ognuno di essi e ad annuire. Poi, soddisfatta, prese posto sulla sedia più vicina alla scrivania. Par-Salian la guardò con un lieve sorriso sulla faccia segnata.

«Non ci sono creature dell’Oltretomba annidate negli angoli, Ladonna, te lo assicuro,» disse asciutto il vecchio mago. «Se avessi voluto bandirti da questo piano avrei potuto farlo molto tempo fa, mia cara.»

«Quando eravamo giovani?». Ladonna buttò ancora più indietro il cappuccio. I capelli color grigioferro, raccolti in una treccia complicata avvolta a crocchia intorno alla testa, incorniciavano un volto la cui bellezza pareva accresciuta dalle rughe dell’età, e disegnata da un maestro, tanto dava risalto alla sua intelligenza quanto alla sua tenebrosa saggezza. «Quello sì sarebbe stato il contesto adatto, Grande Mago.»

«Lascia perdere il titolo, Ladonna,» replicò Par-Salian. «Ci conosciamo da troppo tempo ormai per usarlo ancora.»

«Da molto tempo e molto bene, Par-Salian,» disse Ladonna con un sorriso. «Molto bene,» ripetè sommessamente, girando gli occhi verso il fuoco.

«Torneresti alla tua giovinezza, Ladonna?» le chiese Par-Salian.

Per qualche istante lei non rispose, poi levò lo sguardo su di lui e scrollò le spalle. «Scambiando il potere, la saggezza e l’abilità per che cosa? Sangue ardente? Improbabile, mio caro. E tu?»

«Avrei risposto allo stesso modo vent’anni fa,» dichiarò Par-Salian, sfregandosi le tempie. «Ma adesso... me lo sto chiedendo.»

«Non sono venuta per rievocare i vecchi tempi, non importa quanto piacevoli siano stati,» disse Ladonna, schiarendosi la gola, con voce improvvisamente fredda e severa. «Sono venuta per oppormi a questa follia.» Si sporse in avanti, i suoi occhi scuri lampeggiarono. «Spero che tu non faccia sul serio, Par-Salian. Neppure tu puoi esser tanto debole di cuore e di cervello da mandare quello stupido umano indietro nel tempo per cercare di fermare Fistandantilus! Pensa al pericolo! Potrebbe cambiare la storia! Potremmo tutti cessare di esistere!»

«Bah, Ladonna, pensa tu, piuttosto!» sbottò Par-Salian. «Il tempo è un grande fiume che scorre, più vasto e più ampio di qualunque altro fiume che noi conosciamo. Se butti un sasso nell’acqua che scorre impetuosa, forse questa si ferma all’improvviso? Comincia a scorrere a ritroso? Devia dal suo corso per scorrere in un’altra direzione? Certo che no! Il sasso crea qualche increspatura sulla superficie, forse, ma poi affonda. Il fiume continua a scorrere in avanti, come ha sempre fatto.»

«Cosa stai dicendo?» chiese Ladonna, fissando circospetta Par-Salian.

«Che Caramon e Crysania sono sassi, mia cara. Non influenzeranno lo scorrere del tempo più di quanto due pietre scagliate nel Thos-Tsalarian influenzerebbero il suo corso. Sono sassi...» ripetè.

«Abbiamo sottovalutato Raistlin, così dice Dalamar,» lo interruppe Ladonna. «Dev’essere molto sicuro del suo successo, altrimenti non correrebbe il rischio. Non è uno sciocco, Par-Salian.» continuò, «È sicuro di potersi procurare la magia. Su questo punto non possiamo fermarlo. Ma questa magia sarà inutile per lui senza il chierico. Ha bisogno di Crysania.»

Il mago vestito di bianco sospirò. «Ed è per questo che dobbiamo mandarla indietro nel tempo.»

«Non riesco a capire...»

«Deve morire, Ladonna!» ringhiò Par-Salian. «Devo forse evocare una visione per te? Dev’essere mandata indietro in un’epoca in cui su questa terra non c’era nessun chierico. Raistlin ha detto che avremmo dovuto mandarla indietro. Che non avremmo avuto altra scelta. Come lui Stesso ha detto, questo è l’unico modo, per noi, di frustrare i suoi piani! È la sua più grande speranza, e la sua più grande paura. Ha bisogno di portarla con sé fino alla Porta, ma lei deve venire spontaneamente! Così, progetta di scuotere la sua fede, di disilluderla abbastanza in modo che lei lavori con lui.»

Par-Salian agitò la mano, irritato. «Stiamo sprecando tempo. Parte domattina. Dobbiamo agire subito.»

«Allora tienila qui!» esclamò Ladonna, sdegnosamente. «Mi pare abbastanza semplice.»

Par-Salian scosse la testa. «Lui, semplicemente, tornerebbe a prenderla. E a quel punto avrà la magia. Avrà il potere di fare ciò che vorrà.»

«Uccidila.»

«È stato tentato, ma senza successo. Inoltre, perfino tu con le tue arti, riusciresti a ucciderla mentre è sotto la protezione di Paladine?»

«Allora, forse, il Dio le impedirà di andare?»

«No. L’auspicio che ho fatto era neutrale. Paladine ha lasciato la faccenda nelle nostre mani. Qui, Crysania è soltanto un vegetale, né sarà mai nient’altro, poiché nessuno che viva oggi ha il potere di ripristinarla alla vita. Forse Paladine intende farla morire in un luogo e in un tempo in cui la sua morte avrà significato, così da completare il ciclo della sua vita.»

«Così, tu la manderai alla sua morte,» mormorò Ladonna, fissando Par-Salian con stupore. «Le tue vesti bianche si tingeranno del rosso del sangue, mio vecchio amico.»

Par-Salian picchiò le mani sul tavolo. Il suo volto era contorto dall’angoscia. «Non mi sto godendo tutto questo, dannazione! Ma cosa posso fare? Non riesci a capire la posizione in cui mi trovo? Chi siede adesso a capo delle Vesti Nere?»

«Io,» rispose Ladonna.

«Chi siederà come capo, se lui tornerà vittorioso?»

Ladonna corrugò la fronte e non rispose.

«Precisamente. I miei giorni sono contati, Ladonna. Lo so. Oh,» fece un gesto, «i miei poteri sono ancora grandi. Forse non sono mai stati più grandi. Ma ogni mattina, quando mi sveglio, sento la paura. Sarà oggi il giorno in cui verranno meno? Tutte le volte che ho difficoltà a ricordarmi un incantesimo, rabbrividisco. So che un giorno non riuscirò più a ricordare le parole giuste.» Chiuse gli occhi. «Sono stanco, Ladonna. Vorrei soltanto rimanere in questa stanza e nient’altro, vicino a questo caldo fuoco, e registrare in questo libro le conoscenze che ho acquisito nel corso degli anni. Eppure, adesso non oso lasciare il mio posto, poiché so chi l’occuperebbe.»

Il vecchio mago sospirò. «Sceglierò io il mio successore, Ladonna,» disse con voce sommessa.

«Non intendo farmi strappare di mano la mia posizione. La mia posta in questo gioco è più grande di quella di chiunque di voi.»

«Forse no,» replicò Ladonna, fissando le fiamme. «Se tornerà vittorioso, non ci sarà più un Conclave. Saremo tutti suoi servitori.» Strinse le mani. «Mi oppongo ancora, Par-Salian! Il pericolo è troppo grande! Lascia che lei rimanga qui. Lascia che Raistlin apprenda quello che può da Fistandantilus. Potremo affrontarlo quando tornerà! È potente, certo, ma gli ci vorranno anni per padroneggiare le arti che Fistandantilus conosceva quando è morto! Possiamo utilizzare quel tempo per armarci contro di lui! Possiamo...»

Vi fu un fruscio tra le ombre della stanza. Ladonna trasalì e la sua mano corse subito a una tasca nascosta fra le sue vesti.

«Ferma, Ladonna,» disse una voce pacata. «Non c’è bisogno che tu sprechi le tue energie per un incantesimo-scudo. Non sono una Creatura dell’Oltrelà, come Par-Salian ha già dichiarato.» La figura entrò nel cerchio di luce proiettato dal fuoco, le vesti rosse luccicarono debolmente.

Ladonna tornò ad appoggiarsi allo schienale con un sospiro, ma c’era un luccichio di collera nei suoi occhi che avrebbe fatto arretrare, allarmato, un apprendista. «No, Justarius,» replicò, gelida,

«tu non sei una Creatura dell’Oltrelà. E così, sei riuscito a nasconderti alla mia vista? Come sei diventato abile, Veste Rossa.» Girandosi sulla sua sedia, fissò Par-Salian con sdegno. «Stai diventando vecchio, amico mio, se hai bisogno di aiuto per trattare con me!»

«Oh, sono sicuro che Par-Salian è sorpreso di vedermi tanto quanto te, Ladonna,» dichiarò Justarius. Avvolgendosi nelle vesti rosse, venne lentamente avanti e prese posto su un’altra sedia davanti alla scrivania di Par-Salian. Zoppicava, camminando, trascinando sul pavimento il piede sinistro. Raistlin non era l’unico mago che era rimasto ferito durante la Prova.

Justarius sorrise. «Anche se il Grande Mago è diventato molto abile nel nascondere i suoi sentimenti,» aggiunse.

«Ero consapevole della tua presenza,» replicò Par-Salian con voce sommessa. «Mi conosci meglio di così, amico mio.»

Justarius scrollò le spalle. «Non ha poi importanza. M’interessava sentire quello che avevi da dire a Ladonna...»

«Ti avrei detto la stessa cosa.»

«Probabilmente meno, poiché io non avrei ribattuto come ha fatto lei. d’accordo con te, lo sono stato sin dall’inizio. Ma questo perché tutti conosciamo la verità.»

«Quale verità?» domandò Ladonna. Il suo sguardo andò da Justarius a Par-Salian, i suoi occhi si dilatarono per la collera. ;, «Dovrai mostrarglielo,» disse Justarius, sempre con la stessa voce pacata. «Altrimenti non si convincerà. Dimostrale quanto è grande il pericolo.»

«Non mi mostrerai niente!» esclamò Ladonna, con voce fremente. «ora non so se sono disposta a credere a quanto è stato concepito da voi due...»

«Allora lascia che lo faccia lei stessa,» suggerì Justarius, scrollando le spalle.

Par-Salian corrugò la fronte poi, sempre accigliato, spinse il prisma di cristallo sulla scrivania verso di lei. Glielo indicò. «Quel bastone all’angolo apparteneva a Fistandantilus, lo stregone più grande e più potente Che sia mai vissuto. Lancia un incantesimo di veggenza, Ladonna, e guarda il bastone.»

Ladonna toccò il prisma esitando, il suo sguardo carico di sospetto andò ancora una volta da Par-Salian a Justarius, per poi tornare a fissarsi Su Par-Salian.

«Fallo!» le ingiunse seccamente Par-Salian. «Non l’ho manipolato.» Le sue sopracciglia scure si corrugarono. «Tu sai che non posso mentirti, Ladonna.»

«Anche se puoi mentire ad altri,» disse Justarius con voce sommessa.

Par-Salian lanciò un’occhiata rabbiosa al mago vestito di rosso, ma non replicò.

Con decisione improvvisa, Ladonna prese il cristallo. Tenendolo nella mano, lo sollevò all’altezza degli occhi, salmodiando parole che suonavano aspre e taglienti. Un arcobaleno di luce s’irradiò dal prisma al bastone in apparenza di legno comune appoggiato contro la parete in un angolo buio dello studio. L’arcobaleno si espanse mentre sgorgava dal cristallo, per avvolgere completamente il bastone. Poi ondeggiò e si coagulò, formando una vivida immagine del proprietario del bastone.

Ladonna fissò l’immagine per un lungo istante, poi abbassò lentamente il prisma dal proprio occhio. Nel momento in cui ritrasse la propria attenzione da esso, l’immagine scomparve, l’arcobaleno di luce si spense. Il suo volto era pallido.

«Allora, Ladonna?» chiese Par-Salian con calma, un attimo dopo. «Procediamo?»

«Fammi vedere l’incantesimo del Viaggio nel Tempo,» lei disse con voce tesa.

Par-Salian fece un gesto d’impazienza. «Sai che non è possibile, Ladonna! Soltanto ai Maestri della Torre è permesso conoscere questo incantesimo...»

«Rientra nei miei diritti quanto meno assistervi,» replicò Ladonna con freddezza. «Nascondi i componenti e le parole alla mia vista, se vuoi. Ma esigo di vedere i risultati che ci si aspettano.» La sua espressione s’indurì. «Perdonami se non mi fido di te, vecchio amico, come un tempo avrei potuto. Ma le tue vesti sembrano diventare grigie come i tuoi capelli.» Justarius sorrise, come se la cosa lo divertisse.

Par-Salian rimase seduto per qualche istante, irresoluto. «Domani mattina, amico,» mormorò Justarius.

Con un gesto di rabbia Par-Salian si alzò in piedi. Allungò la mano sotto le vesti ed estrasse una chiave d’argento che portava al collo, appesa a una catena d’argento, una chiave che soltanto il Maestro della Torre della Grande Stregoneria poteva usare. Un tempo ce n’erano state cinque, adesso ne rimanevano soltanto due. Mentre Par-Salian si sfilava la chiave dal collo e la infilava in una cassapanca di legno decorata con incisioni che si trovava accanto alla scrivania, tutti e tre i maghi presenti in quella stanza si stavano chiedendo in silenzio se Raistlin, magari in quello stesso momento, non stesse facendo l’identica cosa con la chiave che lui possedeva, forse tirando fuori perfino lo stesso libro d’incantesimi rilegato in argento. Forse stava perfino sfogliando, lentamente e con reverenza, quelle stesse pagine, posando il suo sguardo sugli incantesimi conosciuti soltanto dai Maestri delle Torri.

Par-Salian aprì il libro, borbottando dapprima le parole prescritte che soltanto i Maestri conoscevano. Se non l’avesse fatto, il libro sarebbe svanito da sotto la sua mano. Arrivato alla pagina giusta, sollevò il prisma dal punto in cui Ladonna l’aveva lasciato, poi lo tenne sospeso sopra la pagina, ripetendo le stesse parole aspre e taglienti usate da Ladonna.

L’arcobaleno di luce scese a fiotti dal prisma, illuminando la pagina. A un ordine di Par-Salian, la luce del prisma s’irradiò verso l’esterno per colpire una parete nuda davanti a loro.

«Guarda,» disse Par-Salian. La collera traspariva ancora dalla sua voce. «Là, sulla parete, leggi la descrizione dell’incantesimo.»

Ladonna e Justarius si voltarono verso la parete dove lessero le parole a mano a mano che il prisma le presentava. Né Ladonna, né Justarius, però, furono in grado di leggere i componenti necessari o la formula specifica dell’incantesimo: gli uni e l’altra apparivano inintelligibili, o per l’intervento mirato di Par-Salian, o per un condizionamento imposto dallo stesso incantesimo. Ma la descrizione generica dell’incantesimo era chiara:

L’abilità di viaggiare indietro nel tempo è disponibile agli elfi, agli umani e agli orchi, poiché queste furono le razze create dagli dei all’inizio del tempo, e perciò esse viaggiano dentro il suo flusso. L’incantesimo non può venir usato dai nani, gnomi o kender, dal momento che la creazione di queste razze è stata un incidente, imprevisto dagli dei. (Con riferimento alla Pietra Grigia di Gargath, vedi Appendice G.). L’introduzione d’una qualunque di queste razze in un precedente arco di tempo potrebbe avere serie ripercussioni sul presente, anche se s’ignora quali possano essere. (Un appunto con la scrittura tremolante di Par-Salian aveva aggiunto in inchiostro la parola draconici tra le razze interdette.)

Ci sono però pericoli dei quali il lanciatore d’incantesimi dev’essere del tutto consapevole prima di procedere. Se il lanciatore d’incantesimi muore mentre si trova indietro nel tempo, questo non avrà nessuna influenza sul futuro, poiché sarà come se il lanciatore fosse morto in questo giorno nel presente. La morte di lui, o di lei, non avrà nessun effetto né sul passato, né sul presente, né sul futuro, salvo per l’effetto che avrebbe avuto normalmente su questi. Perciò non sprechiamo energia per un qualsivoglia tipo d’incantesimo protettivo. Il lanciatore d’incantesimi non sarà in grado di cambiare o influenzare in alcun modo ciò che è accaduto in precedenza. Questa è una precauzione ovvia. Perciò, in realtà, questo incantesimo è utile soltanto a scopo di studio. È questo lo scopo per il quale è stato concepito.

Un altro appunto, questa volta con una calligrafia molto più vecchia delle aggiunte ai margini fatte da Par-Salian:

“Non è possibile prevenire il Cataclisma: così abbiamo imparato a grande prezzo e con nostro grande dolore. Che la sua anima possa riposare con Paladine.”

«Così, è questo che gli è capitato,» disse Justarius con un sommesso fischio di sorpresa. «Questo era un segreto ben custodito.»

«Sono stati sciocchi anche soltanto a tentarlo,» dichiarò Par-Salian, «ma erano disperati.»

«Come lo siamo noi,» aggiunse Ladonna con amarezza. «Be’, c’è altro?»

«Sì, la pagina successiva,» rispose Par-Salian.

Se il lanciatore d’incantesimi non va di persona ma manda qualcun altro (si chiede caldamente di osservare le precauzioni razziali di cui alla pagina precedente), lei o lui dovrebbero equipaggiare colui che compie il viaggio con un congegno che possa essere attivato a volontà così da poter riportare il viaggiatore al proprio tempo. La descrizione di simili congegni e del modo di fabbricarli si trova dopo...

«E così sia,» disse Par-Salian. L’arcobaleno di luce scomparve inghiottito dalla mano del mago quando Par-Salian avvolse le dita intorno ad esso. «Il resto è dedicato ai particolari tecnici per fabbricare un simile congegno. Io ne ho uno antico. Lo darò a Caramon.»

Inconsciamente, pronunciò con enfasi questo nome, ma gli altri, lì nella stanza, lo notarono.

Ladonna ebbe un sorriso sarcastico, passandosi le mani sulle vesti nere. Justarius scosse la testa. Lo stesso Par-Salian, rendendosi conto delle implicazioni, sprofondò nel suo scranno. Il suo volto era segnato dal dolore.

«Così sarà soltanto Caramon a usarlo,» disse Justarius. «Capisco perché mandiamo Crysania, Par-Salian. Deve andare indietro nel tempo per non tornare mai più. Ma Caramon?»

«Caramon è la mia redenzione,» dichiarò Par-Salian senza sollevare lo sguardo. Il vecchio mago fissò le proprie mani che giacevano tremanti sul libro degli incantesimi aperto. «Intraprenderà un viaggio per salvare un’anima, come gli ho detto. Ma non sarà quella di suo fratello.» Par-Salian sollevò infine lo sguardo. I suoi occhi erano pieni di dolore. Il suo sguardo andò prima a Justarius, poi a Ladonna. Entrambi incontrando quello sguardo mostrarono piena comprensione.

«La verità potrebbe distruggerlo,» disse Justarius.

«C’è assai poco da distruggere, se vuoi la mia opinione,» osservò Ladonna con freddezza. Si alzò in piedi. Justarius si alzò con lei, barcollando un po’ fino a quando non riuscì a rimettersi in equilibrio sulla gamba storpiata. «Fintanto che ti sbarazzerai della donna, m’importa assai poco di ciò che farai dell’uomo, Par-Salian. Se pensi che possa lavare il sangue dalle tue vesti, allora aiutalo pure.» Esibì un torvo sorriso. «In un certo senso trovo la cosa molto divertente. Forse, a mano a mano che invecchiamo, non siamo poi tanto diversi, non è vero, mio caro?»

«Le differenze ci sono sempre, Ladonna,» replicò Par-Salian, con uno stanco sorriso. «Sono i contorni nitidi e distinti che cominciano a sbiadire e a farsi confusi alla nostra vista. Questo significa che le Vesti Nere si conformeranno alla mia decisione?»

«Pare che non abbiamo altra scelta,» constatò Ladonna, senza emozione. «Se fallirai...»

«Goditi la mia caduta,» disse Par-Salian, sarcastico.

«Lo farò,» rispose la donna con voce sommessa. «Ancora di più perché con ogni probabilità sarà l’ultima cosa che mi godrò in questa vita. Arrivederci, Par-Salian.»

«Una donna saggia,» osservò Justarius, quando la porta si fu chiusa alle sue spalle.

«Una rivale degna di te, amico mio.» Par-Salian tornò alla sua sedia dietro la scrivania. «Mi godrò lo spettacolo di voi due che vi darete battaglia per il mio posto.»

«Spero in tutta sincerità che ti sia possibile farlo,» disse Justarius, con la mano sulla porta.

«Quando lancerai l’incantesimo?»

«Domattina sul presto,» disse Par-Salian con voce grave. «Ci vogliono giorni di preparativi, ma ho già passato lunghe ore a lavorarci sopra. Non ho nessuno, neppure un apprendista. Alla fine sarò esausto. Occupati dello scioglimento del Conclave, vuoi farlo, amico mio?»

«Certo. E il kender e la nana dei burroni?»

«Rimanda a casa la nana dei burroni con qualunque piccolo tesoro che tu pensi possa piacerle. Quanto al kender,» Par-Salian sorrise, «puoi mandarlo dovunque voglia andare, escluse le lune, s’intende. In quanto al tesoro, sono certo che il kender ne avrà acquisito una quantità sufficiente prima di andarsene. Controlla di nascosto le sue borse ma, se non c’è niente d’importante, lascia pure che tenga quello che ha “trovato”.»

Justarius annuì. «E Dalamar?».

Il volto di Par-Salian s’incupì. «Senza dubbio l’elfo scuro se n’è già andato. Non avrebbe mai fatto aspettare il suo Shalafi.» Par-Salian batté le dita sulla scrivania, la fronte increspata per la frustrazione. «Quello che Raistlin possiede è un fascino ben strano! Tu non l’hai mai incontrato, vero? No. L’ho provato anch’io e non riesco a capire...»

«Forse io posso,» disse Justarius. «Tutti hanno riso di noi a un certo punto della nostra vita. Siamo tutti stati gelosi di un fratello germano. Tutti abbiamo provato dolore e abbiamo sofferto. E tutti abbiamo ambito, almeno una volta, ad avere il potere per schiacciare i nostri nemici. Lo odiamo. Lo temiamo soltanto perché c’è un po’ di lui in tutti noi, anche se lo ammettiamo a noi stessi soltanto nei momenti più bui della notte.»

«Sempre che lo ammettiamo. Quella donna, quel chierico sventurato! Perché mai doveva trovarsi coinvolta in questa faccenda?». Par-Salian si prese la testa fra le mani che gli tremavano.

«Arrivederci, amico mio,» disse Justarius, a bassa voce. «Ti aspetterò fuori del laboratorio, se avrai bisogno di aiuto quando tutto sarà finito.»

«Grazie,» bisbigliò Par-Salian senza sollevare la testa. Justarius uscì dallo studio con passo barcollante. Ma chiuse la porta troppo in fretta: l’orlo della sua veste rossa vi rimase impigliato, e fu costretto a riaprirla per liberarlo. Prima di chiudere di nuovo la porta sentì che qualcuno piangeva.

Capitolo quindicesimo.

Tasslehoff Burrfoot era annoiato. E, come tutti sanno, non c’è niente di più pericoloso su Krynn d’un kender annoiato.

Tas, Bupu e Caramon avevano terminato il loro pasto, un pasto assai monotono. Caramon, smarrito nei suoi pensieri, non aveva detto una sola parola, ma era rimasto seduto avvolto in un desolante silenzio, divorando con aria assente quasi tutto ciò che aveva sott’occhio. Bupu non si era neppure seduta. Agguantata una scodella, ne aveva tirato fuori il contenuto con le mani cacciandoselo in bocca con una perizia che era frutto d’una lunga esperienza acquisita alle tavole dei nani dei burroni.

Messa giù la prima scodella, ne aveva attaccata una seconda e ripulito un piatto dal sugo, per poi passare al burro, allo zucchero e alla crema, concludendo con mezzo piatto di purè di patate prima che Tasslehoff si fosse reso conto di ciò che stava accadendo. Era riuscito a malapena a salvare la saliera.

«Ah,» esclamò Tas in tono allegro. Allontanando da sé il piatto vuoto, cercò d’ignorare la vista di Bupu che lo agguantava a sua volta e lo puliva con la lingua. «Mi sento molto meglio. E tu, Caramon? Andiamo ad esplorare!»

«Esplorare!» Caramon gli rivolse un’occhiata talmente terrorizzata che Tas rimase momentaneamente sconcertato. «Sei pazzo? Non metterei piede fuori da quella porta neanche per tutte le ricchezze di Krynn!»

«Davvero?» chiese Tas, veemente. «Perché no? Oh, dimmi Caramon! Cosa c’è là fuori?»

«Non lo so.» L’omone rabbrividì. «Ma non può che essere orribile.»

«Non ho visto nessuna guardia...»

«No, e c’è una maledetta ragione perché non ce ne siano,» ringhiò Caramon. «Qui non hanno bisogno di guardie. Vedo l’espressione che hai negli occhi, Tasslehoff, perciò dimenticatene subito! Anche se ce la facessi a uscire da questa stanza,» Caramon rivolse alla porta un’occhiata possessionata, «cosa di cui dubito... finiresti tra le braccia d’un cadavere o anche peggio!»

Tas spalancò gli occhi. Riuscì comunque a soffocare un’esclamazione deliziata. Abbassando lo sguardo sulle proprie scarpe, borbottò: «Già, Immagino che tu abbia ragione, Caramon. Mi ero dimenticato di dove ci troviamo.»

«Credo proprio di sì,» replicò Caramon con severità. Sfregandosi le Spalle doloranti, l’omone gemette: «Sono stanco morto. Devo dormire un po’. Tu e quella-come-si-chiama coricatevi anche voi. D’accordo?»

«Certo, Caramon,» annuì Tasslehoff.

Bupu, producendo un rutto di soddisfazione, si era già avvoltolata in un tappeto davanti al fuoco, usando come cuscino quanto rimaneva di una scodella di purè di patate.

Caramon lanciò al kender un’occhiata carica di sospetto. Tas assunse l’espressione più innocente che un kender potesse assumere. Come risultato Caramon agitò con grande severità un dito verso di lui.

«Promettimi che non lascerai questa stanza, Tasslehoff Burrfoot. Promettimelo come lo prometteresti... diciamo a Tanis, se fosse qui.»

«Lo prometto,» rispose Tas con solennità, «proprio come lo prometterei a Tanis... se fosse qui.»

«Bene,» sospirò Caramon e crollò sul letto che scricchiolò di protesta, col materasso che sprofondò fino al pavimento sotto il peso dell’omone. «Immagino che qualcuno ci sveglierà, quando decideranno quello che vogliono fare.»

«Andrai davvero indietro nel tempo, Caramon?» chiese Tas con voce carica di desiderio, sedendosi sul proprio letto e fingendo di slacciarsi gli stivali.

«Sì, certo. Non è una gran cosa,» mormorò Caramon con voce assonnata. «Adesso fatti una dormita e... grazie, Tas. Mi sei stato... mi sei stato di grande aiuto...». Le parole si smorzarono in un sonoro russare.

Tas rimase perfettamente immobile, aspettando fino a quando il respiro di Caramon divenne costante e regolare. Non ci volle molto, poiché l’omone era fisicamente ed emotivamente esausto.

Guardando il volto pallido di Caramon, logorato dalle preoccupazioni e rigato di lacrime, il kender sentì per un attimo rimordergli la coscienza. Ma i kender sono abituati a trattare con i rimorsi di coscienza proprio come gli umani sono abituati a trattare con le punture delle zanzare.

«Non saprà mai che sono uscito,» disse Tas fra sé mentre sgusciava sul pavimento passando davanti al letto di Caramon. «E in effetti non è a lui che ho promesso di non andare da nessuna parte. L’ho promesso a Tanis. E Tanis non è qui, perciò la promessa non conta. Inoltre sono sicuro che lui avrebbe voluto esplorare, se non fosse stato così stanco.»

Quando Tas ebbe superato sempre strisciando il corpicino sozzo di Bupu, aveva ormai fermamente convinto se stesso che Caramon gli aveva ordinato di guardarsi intorno prima di andare a letto.

Saggiò la maniglia della porta con apprensione, ricordando gli ammonimenti di Caramon. Ma questa si aprì senza nessuna difficoltà. Allora siamo ospiti, non prigionieri. A meno che non ci fosse un cadavere di guardia all’esterno. Tas sporse la testa oltre il telaio della porta. Guardò lungo il corridoio, prima a destra e poi a sinistra. Niente. Nessun cadavere in vista. Sospirando un po’ per il disappunto, Tas sgusciò fuori della porta, poi la chiuse in silenzio alle proprie spalle.

Il corridoio si prolungava sia alla sua destra sia alla sua sinistra, scomparendo dietro angoli avvolti nell’ombra su entrambi i lati. Era spoglio, freddo e vuoto. Altre porte si aprivano sul corridoio, tutte buie, tutte chiuse. Non c’erano decorazioni di nessun genere né tendaggi alle pareti, nessun tappeto copriva il pavimento di pietra. Non c’erano neppure luci, né torce, né candele. A quanto pareva i maghi avrebbero dovuto procurarsele da soli, qualora fossero andati in giro dopo il calar del sole.

Una finestra a una delle due estremità lasciava filtrare la luce di Solinari, la luna d’argento, attraverso i pannelli di vetro, ma questo era tutto. Il resto del corridoio era immerso nel buio più completo. Tas pensò troppo tardi di reintrufolarsi nella stanza per prendere una candela. No. Se Caramon si fosse svegliato, avrebbe potuto non ricordare di aver detto al kender di andare ad esplorare.

«Farò una capatina in un’altra di queste stanze e prenderò a prestito una candela,» si disse Tas.

«Inoltre, è una buona maniera per incontrare gente.»

Scivolando lungo il corridoio, più silenzioso dei raggi della luna che danzavano sul pavimento, Tas raggiunse la porta successiva.

«Non busserò, nel caso in cui stiano dormendo,» ragionò, e girò con cautela la maniglia della porta.

«Ah, è chiusa a chiave!» disse, sentendosi immensamente incoraggiato. Questo gli avrebbe dato qualcosa da fare, almeno per alcuni minuti. Tirando fuori i suoi arnesi da scasso, li espose alla luce della luna per scegliere i fili di ferro della misura giusta per quella particolare serratura.

«Spero che non sia chiusa con un incantesimo,» borbottò e quel pensiero improvviso gli fece provare una sensazione di gelo. Sapeva che talvolta i maghi lo facevano, un’abitudine che il kender giudicava altamente contraria all’etica. Ma forse nella Torre della Grande Stregoneria, circondati da altri maghi, non avrebbero pensato che ne sarebbe valsa la pena. Voglio dire, chiunque potrebbe abbattere la porta con un soffio, ragionò Tas.

E infatti la serratura si aprì con facilità. Col cuore che gli batteva per l’eccitazione, Tas aprì la porta in silenzio e sbirciò dentro. La stanza era illuminata soltanto dal debole bagliore di un fuoco morente. Tese le orecchie.

Non riuscì a sentire nessuno all’interno, nessun russare o respirare, così entrò con passo felpato. I suoi occhi acuti trovarono il letto. Era vuoto. Non c’era nessuno in casa.

«Allora non gl’importerà se prendo a prestito la candela,» si disse il kender tutto felice. Trovato che ebbe una candela, accese lo stoppino con un carbone ardente. Poi si dedicò al delizioso compito di esaminare i beni degli occupanti, osservando, mentre lo faceva, che chiunque abitasse in quella stanza, non era una persona molto ordinata.

Circa due ore e molte stanze più tardi Tas stava tornando stancamente nella sua camera, con le borse gonfie degli oggetti più affascinanti... che era decisissimo a restituire ai proprietari il mattino seguente. Per la maggior parte li aveva prelevati da sopra i tavoli sui quali era ovvio che erano stati buttati con noncuranza. Non pochi altri li aveva trovati sul pavimento (era ovvio che i proprietari li avevano persi) e ne aveva perfino recuperati parecchi dalle tasche delle vesti che con tutta probabilità erano destinate a venir lavate nel qual caso gli oggetti sarebbero finiti certamente nel posto sbagliato.

Però, aguzzando gli occhi verso il fondo del corridoio, ebbe un grave shock quando vide la luce filtrare da sotto la loro porta!

«Caramon!» deglutì, ma nel medesimo istante cento scuse plausibili per giustificare il fatto di trovarsi fuori della stanza gli affluirono nel cervello. O forse Caramon non si era ancora accorto della sua assenza. Forse era ancora in preda ai fumi dello spirito dei nani. Prendendo in considerazione questa possibilità, Tas si avvicinò in punta di piedi alla porta chiusa della loro stanza e schiacciò l’orecchio contro di essa, ascoltando.

Sentì delle voci. Una la riconobbe prontamente: era quella di Bupu. L’altra... corrugò la fronte. Gli pareva familiare... dove mai gli era capitato di sentirla?

«Sì, ti rimanderò dall’Highpulp, se è là che vuoi andare. Ma prima devi dirmi dov’è l’Highpulp.»

La voce aveva un tono lievemente esasperato. A quanto pareva, la faccenda andava avanti da un po’. Tas applicò l’occhio al buco della serratura. Potè vedere Bupu con i capelli impiastricciati di purè di patate che fissava con sospetto una figura vestita di rosso. Adesso Tas ricordò dove aveva sentito quella voce! Quello era il mago presente al Conclave che aveva continuato a interrogare Par-Salian!

«Highbulp!» corresse Bupu, indignata. «Non Highpulp! E Highbulp è casa. Tu manda me casa.»

«Sì, naturalmente. Ora, dov’è la casa?»

«Dove Highbulp è.»

«E dov’è Highbulp?» chiese il mago vestito di rosso con una sfumatura di disperazione nella voce.

«Casa,» dichiarò Bupu succintamente. «Già detto te prima. Hai orecchie sotto tuo cappuccio? Forse tu sordo.» La nana dei burroni scomparve per un momento alla vista di Tas, tuffandosi dentro la sua sacca. Quando ricomparve stringeva in mano un’altra lucertola morta, con una cinghia di cuoio stretta intorno alla coda. «Me curare. Tu caccia coda in un orecchio e...»

«Grazie,» rispose precipitosamente il mago, «ma il mio udito è perfetto, te l’assicuro. Uhm, come chiami la tua casa? Qual è il suo nome?»

«Il Pitt. Con due ti. Bel nome, uh?» disse Bupu con orgoglio. «Idea di Highbulp. Lui mangiato libro una volta. Imparato un sacco. Qui tutto a posto!». Si accarezzò lo stomaco.

Tas si tappò la bocca con la mano per non scoppiare a ridere. Il mago vestito di rosso aveva gli stessi problemi. Tas vide le spalle dell’uomo scuotersi sotto le Vesti Rosse. Gli ci volle un bel po’ per rispondere. Quando lo fece, la sua voce aveva un leggero tremito.

«E con che nome gli umani chiamano il tuo, uhm, Pitt?»

Tas vide Bupu accigliarsi. «Nome stupido. Pare qualcuno che sputi. Skroth.»

«Skroth,» ripetè il mago vestito di rosso, perplesso. «Skroth,» borbottò. Poi fece schioccare le dita.

«Adesso ricordo. Il kender l’ha detto durante il Conclave. Xak Tsaroth?»

«Me detto questo già una volta. Tu sicuro non volere cura lucertola per orecchi? Metti cosa...?»

Con un profondo sospiro di sollievo, il mago vestito di rosso tenne la mano sopra la testa di Bupu,e Spruzzando quella che pareva polvere su di lei (Bupu starnutì con violenza) Tas sentì il mago salmodiare strane parole.

«Me andare a casa adesso?» chiese Bupu, speranzosa.

Il mago non rispose, continuò a salmodiare.

«Lui non carino,» borbottò la nana fra sé, starnutendo di nuovo mentre la polvere ricopriva lentamente i suoi capelli e il suo corpo. «Nessuno di loro carini. Non come mio grazioso uomo.» Si asciugò il naso, tirando su. «Lui non ride... Lui chiama me “piccolina”.»

La polvere che ricopriva la nana dei burroni cominciò ad ardere di un giallo pallido. Tas cacciò un breve rantolo. Il bagliore divenne sempre più luminoso, cambiando colore, trasformandosi in gialloverde, poi verdeazzurro, quindi azzurro, e all’improvviso...

«Bupu!» bisbigliò Tas.

La nana dei burroni era scomparsa!

«E io sono il prossimo!» si rese conto Tas con orrore. E infatti il mago vestito di rosso si stava avvicinando zoppicando al letto dove il previdente kender aveva deposto un fantoccio alla bell’e meglio perché Caramon non si preoccupasse, nel caso in cui si fosse svegliato.

«Tasslehoff Burrfoot,» chiamò con voce sommessa il mago dalle Vesti Rosse. Era uscito dalla visuale di Tas. Il kender rimase pietrificato, in fremente attesa che il mago scoprisse che lui non c’era. Non che avesse paura di venir preso. Era abituato a venir preso ed era abbastanza certo di riuscire a scamparla con la sua parlantina. Ma aveva paura di essere mandato a casa! Non si sarebbero davvero aspettati che Caramon andasse da qualche parte senza di lui, vero?

«Caramon ha bisogno di me,» bisbigliò Tas in preda all’angoscia. «Non sanno in quali brutte condizioni si trova. Diamine, cosa succederebbe se non ci fossi io, con lui, a trascinarlo fuori dalle osterie?»

«Tasslehoff,» ripetè la voce del mago dalle Vesti Rosse. Doveva essere vicino al letto, ormai.

Tas affondò rapidamente la mano in una borsa. Tirando fuori una manciata di cianfrusaglie, sperò contro ogni speranza di trovare qualcosa di utile. Aprendo la piccola mano, la sollevò alla luce della candela. Si ritrovò con un anello, un grappolo d’uva, e un grumo di cera per baffi. La cera e l’uva erano ovviamente da scartare. Le buttò sul pavimento.

Tas sentì il mago vestito di rosso che esclamava con severità: «Caramon!». Sentì Caramon che grugniva e gemeva e s’immaginò il mago che lo scuoteva. «Caramon, svegliati. Dov’è il kender?»

Cercando d’ignorare quello che stava accadendo nella stanza, Tas si concentrò nell’esame dell’anello. L’aveva preso nella terza stanza sulla sinistra. Oppure era la quarta? E di solito gli anelli magici funzionavano semplicemente infilandoseli al dito. Tas era un esperto dell’argomento. Una volta si era infilato per sbaglio un anello magico che l’aveva teleportato dritto nel cuore del palazzo d’uno stregone malvagio. Non aveva nessuna idea, adesso, di come operasse l’anello che aveva in mano.

Forse c’era qualche indizio sull’anello?

Tas lo rigirò, facendolo quasi cadere per la fretta. Grazie agli dei, era così difficile svegliare Caramon!

Era un anello dall’aspetto comune, intagliato nell’avorio, con due piccole pietre color rosa. C’erano alcune rune tracciate all’interno. Tas ricordò con uno spasimo i suoi Occhiali Magici della Veggenza, ma erano andati smarriti a Neraka, a meno che adesso non li inforcasse qualche draconico.

«Co... co...» stava farfugliando Caramon. «Kender? Gli ho detto... non uscire là fuori... cadaveri...»

«Dannazione!» Il mago dalle Vesti Rosse era già diretto verso la porta.

Poi, qualcosa cominciò ad accadere, anche se non proprio quello che Tas si era aspettato. Il corridoio si stava ingrandendo! Un sibilo assordante risuonò alle orecchie del kender mentre le pareti gli passavano accanto sfrecciando e il soffitto schizzava in alto lontano da lui. A bocca aperta fissò la porta che diventava sempre più grande, fino a raggiungere dimensioni sterminate.

Cos’ho fatto? si chiese Tas allarmato. Ho fatto crescere la Torre? Qualcuno se ne accorgerà? E quando se ne accorgeranno, si arrabbieranno poi tanto!

L’immensa porta si aprì con una raffica di vento che quasi appiattì il kender. Un’enorme figura vestita di rosso riempì il vano della porta.

Un gigante! rantolò Tas. Non soltanto ho fatto crescere la Torre... ho fatto crescere anche i maghi !

Oh, cielo. Immagino che di questo si accorgeranno! Per lo meno, accadrà la prima volta che cercheranno d’infilarsi le scarpe! E sono sicuro che si arrabbieranno. Io mi arrabbierei, se fossi alto sei metri e nessuno dei miei vestiti mi andasse più bene.

Ma il mago vestito di rosso, con grande stupore di Tas, non pareva affatto turbato per essere schizzato d’un tratto a quell’altezza. Si limitò a sbirciare su e giù lungo il corridoio, gridando:

«Tasslehoff Burrfoot!»

Guardò perfino a destra, dove lui si trovava, e non lo vide!

«Oh, grazie, Fizban!» squittì il kender. Poi tossì. Certo la sua voce suonava strana. Per prova, disse di nuovo: «Fizban?»

Ancora una volta uno squittio.

In quel momento, il mago dalle Vesti Rosse abbassò lo sguardo.

«Ah, ah! E da quale stanza sei scappato, mio piccolo amico?» esclamò il mago.

Mentre Tasslehoff guardava sgomento, una mano gigantesca calò verso di lui, si stava abbassando per prenderlo! Le dita si avvicinarono sempre di più. Tas era talmente sorpreso da non riuscire a correre o a fare nient’altro se non aspettare che quell’enorme mano lo afferrasse. Poi sarebbe tutto finito! Lo avrebbero rispedito subito a casa, sempre che non gì’infliggessero una punizione peggiore per aver ingrandito la loro Torre quando lui non era affatto sicuro che la volessero ingrandita.

La mano si librò sopra di lui e poi lo prese su per la coda.

«La mia coda» pensò Tas, fuori di sé, squittendo a mezz’aria quando la mano lo sollevò dal pavimento. «Io non ho una coda... ma devo averla! La mano mi ha agguantato da qualche parte!»

Torcendo la testa, Tas vide che aveva davvero una coda! Non soltanto una coda, ma quattro zampette rosse. Quattro! E invece dei suoi splendenti gambali azzurri, indossava una pelliccia bianca!

«Adesso,» tuonò una voce severa proprio dentro uno dei suoi orecchi, «rispondimi, piccolo roditore: di chi sei famiglio?»

Capitolo sedicesimo.

Famiglio! Tasslehoff si aggrappò a quella parola. Famiglio... Le conversazioni fatte con Raistlin gli ritornarono nella mente febbricitante.

«Alcuni maghi possiedono animali che sono obbligati a obbedire ai loro ordini,» gli aveva detto un giorno Raistlin. «Questi animali, o famigli come vengono chiamati, possono fungere da estensione dei sensi di un mago. Possono andare in luoghi a noi inaccessibili, vedere cose che il mago è incapace di vedere, udire conversazioni che lui non è stato invitato a condividere.»

A quell’epoca Tasslehoff l’aveva giudicata un’idea meravigliosa, anche se ricordava che Raistlin non ne era affatto entusiasta. Pareva considerarla una debolezza, trovarsi a dipendere in una simile maniera da un altro essere vivente.

«Be’, vuoi rispondermi?» gli intimò il mago vestito di rosso, scrollando Tasslehoff per la coda. Il sangue affluì alla testa del kender, facendogli venire le vertigini. Inoltre l’esser tenuto per la coda era molto doloroso, per non parlare poi dell’indegnità della cosa! Tutto quello che Tas riuscì a fare sul momento fu di ringraziare il cielo che Flint non potesse vederlo.

Suppongo, pensò cupo, che i famigli possano parlare. Spero che parlino comune, non qualche linguaggio strano, come il topese, per esempio.

«A... appartengo, uh...» qual era un buon nome di mago? «a Fa... Faikus,» squittì, ricordando che Raistlin aveva usato quel nome riferendosi a un suo compagno di studi di tanti anni prima.

«Ah,» disse il mago dalle Vesti Rosse, corrugando la fronte, «avrei dovuto saperlo. Andavi in giro per incarico del tuo padrone oppure stavi semplicemente vagando per tuo conto?»

Per sua fortuna, la stretta del mago cambiò: non lo tenne più appeso per la coda, ma saldamente stretto nella mano. Le zampe anteriori del kender erano appoggiate adesso, tremanti, sul pollice del mago dalle Vesti Rosse. I suoi occhietti luccicanti fissavano quelli freddi e scuri del mago.

Cosa gli devo rispondere? si chiese frenetico Tas. Nessuna delle scelte possibili gli pareva molto buona.

«È... è la mia serata libera,» disse Tas, con quello che sperava fosse uno squittio indignato.

«Umpf!» il mago tirò su col naso. «Sei stato troppo tempo insieme a quel pigrone di Faikus. Domattina dirò due paroline a quel giovanotto. In quanto a te, no, non c’è bisogno che tu cominci a contorcerti! Hai forse dimenticato che i famigli di Sudora si aggirano per i corridoi durante la notte? Avresti potuto essere il dessert di Marigold! Vieni con me, una volta che avrò finito con la faccenda di stasera, ti riporterò dal tuo padrone.»

Tas, che si era tenuto pronto ad affondare i suoi piccoli denti aguzzi nel pollice del mago, d’un tratto pensò che non sarebbe stata, dopotutto, una grande idea. “Finito con la faccenda di stasera”?

Certo doveva trattarsi di Caramon! Questo era anche meglio che essere invisibili! L’avrebbe accompagnato nel viaggio!

Il kender piegò la testa in quella che sperò fosse un’espressione topesca di docilità e contrizione.

Ciò parve soddisfare il mago rossovestito, poiché esibì un sorriso preoccupato e cominciò a frugare nella tasca della sua veste cercando qualcosa.

«Cosa c’è, Justarius?». Là c’era Caramon che appariva stordito e ancora mezzo addormentato.

Sbirciò con espressione vaga a destra e a sinistra nel corridoio. «Hai trovato Tas?»

«Il kender? No.» Il mago sorrise di nuovo, questa volta piuttosto addolorato. «Potrebbe volerci un po’ di tempo prima che riusciamo a trovarlo, temo.»

«Non gli farai del male?» chiese Caramon, con ansia. Con tanta di quell’ansia che Tas si sentì dispiaciuto per l’omone, ardendo dalla voglia di rassicurarlo.

«No, certo che no,» rispose Justarius, in tono rassicurante, sempre frugando tra le sue vesti. «Anche se,» aggiunse, come ripensamento, «lui potrebbe farsi inavvertitamente male. Ci sono oggetti sparsi sul pavimento qui intorno con cui non è consigliabile giocare. Bene, adesso, sei pronto?»

«Non voglio andarmene fino a quando Tas non sarà tornato e sarò sicuro che sta bene,» dichiarò Caramon, cocciuto.

«Temo che tu non abbia molta scelta,» replicò il mago, e Tas sentì la voce dell’uomo diventare gelida. «Tuo fratello partirà domani. Anche tu devi essere pronto a partire, nello stesso tempo. Ci vogliono ore perché Par-Salian riesca a memorizzare e a lanciare il suo complicato incantesimo. Ha già cominciato. Io ho perso anche troppo tempo a cercare il kender, in realtà. Siamo in ritardo. Vieni.»

«Aspetta... le mie cose...» disse Caramon, patetico. «La mia spada... »

«Niente di tutto questo deve preoccuparti,» rispose Justarius. Dando l’impressione di aver trovato quello che stava cercando, tirò fuori una borsa d’argento da una tasca delle sue vesti. «Non puoi tornare indietro nel tempo con qualunque arma o congegno appartenenti alla nostra epoca. Una parte dell’incantesimo si preoccuperà di fare in modo che tu sia vestito in modo adeguato al periodo nel quale ti muoverai.»

Caramon abbassò lo sguardo sul proprio corpo, sconcertato. «V... vuoi dire che dovrò cambiare vestiti? Che non avrò una spada... Cosa...»

E vuoi spedire quest’uomo indietro nel tempo tutto solo! pensò Tas indignato. Durerà soltanto cinque minuti. Cinque minuti, sempre che riesca a durare tanto a lungo! No, per tutti gli dei, io...

Quello che esattamente avrebbe fatto il kender andò perduto, quando si ritrovò all’improvviso cacciato a testa in giù nella borsa di seta!

Tutto divenne nero come l’inchiostro. Tas ruzzolò su se stesso in fondo alla borsa, atterrando sulla testa. Da qualche parte del suo intimo giunse l’orrenda paura di trovarsi rovesciato sulla schiena in una posizione vulnerabile. Freneticamente lottò per raddrizzarsi, annaspando all’impazzata sui lati lisci della borsa con le zampine artigliate. Alla fine riuscì a mettersi dritto, e quella terribile sensazione scomparve.

Ecco cosa vuol dire esser presi dal panico, pensò Tas con un sospiro. Io non ci penso mai troppo, questo è sicuro. Sono contentissimo che i kender, in generale, non ne soffrano. Adesso che cosa succede?

Costringendo se stesso alla calma, e il suo cuoricino a smettere di battere forte forte, Tas si rannicchiò in fondo alla borsa di seta cercando di riflettere su ciò che avrebbe dovuto fare adesso.

Durante quel frenetico annaspare aveva perso la cognizione di ciò che stava accadendo poiché, ascoltando, sentì due paia di piedi che procedevano lungo un corridoio di pietra: i piedi calzati da pesanti stivali di Caramon, e il passo felpato del mago. Avvertì anche un lieve movimento ondeggiante, e sentì il lieve fruscio di tessuto sopra il tessuto. D’un tratto gli venne in mente che il mago vestito di rosso aveva senza alcun dubbio appeso alla cintura la borsa in cui lui si trovava,

«Cosa dovrei fare laggiù? E una volta finito, cos’è che dovrei fare per tornare qui?...»

Quella era la voce di Caramon, un po’ ovattata dal tessuto del sacchetto ma ancora abbastanza chiara.

«Tutto questo ti sarà spiegato.» La voce del mago suonava fin troppo paziente. «Mi stavo chiedendo... Ti sono venuti dei dubbi, dei ripensamenti, forse? Se è così, dovresti dircelo adesso.»

«No.» C’era fermezza nella voce di Caramon, più fermezza di quanta ce ne fosse stata da lungo tempo. «No, non ho dubbi. Andrò. Riporterò con me Dama Crysania. È colpa mia se è ferita, non importa quello che dice quel vecchio. Farò in modo che ottenga l’aiuto che le serve e mi occuperò per vostro conto di questo Fistandantilus.»

«Mmmm...»

Tas sentì quel «Mmmm...», anche se dubitò che Caramon fosse stato in grado di udirlo. L’omone stava divagando su ciò che avrebbe fatto a Fistandantilus una volta che l’avesse acchiappato. Ma Tas provò un brivido di gelo, come quando Par-Salian aveva lanciato a Caramon un’occhiata strana e triste là nella Sala. Il kender, dimenticando dove si trovava, squittì per la frustrazione.

«Sst,» mormorò Justarius in tono assente, accarezzando la piccola borsa con la mano. «È soltanto per poco. Poi tornerai nella tua gabbia a mangiare grano.»

«Uh?» sbottò Caramon. Tas potè quasi vedere l’espressione sorpresa dell’omone. Il kender digrignò i suoi piccoli denti. La parola «gabbia» aveva richiamato alla sua mente un’immagine orribile e gli venne un pensiero davvero allarmante: e se non potessi più ritornare ad essere me stesso?

«Oh, non dicevo a te!» si affrettò a precisare il mago. «Stavo parlando con il mio piccolo amico peloso qua dentro. Sta diventando irrequieto. Se non fosse tardi lo riporterei subito alla sua gabbia.»

Tas s’immobilizzò. «Ecco, pare che si sia calmato. Ora... cos’è che stavi dicendo?»

Tas non gli prestò più nessuna attenzione. Si sentiva tremendamente infelice e si tenne aggrappato al sacchetto mentre questo ondeggiava avanti e indietro, sbattendo leggermente contro le cosce del mago che avanzava zoppicando. Certo, pensò, l’incantesimo poteva venir invertito semplicemente sfilandosi l’anello...

Tas si sentiva prudere le dita dalla voglia di provarci, per vedere cosa sarebbe successo. L’ultimo anello magico che si era messo addosso... non era più riuscito a toglierselo! E se con questo gli fosse capitata la stessa cosa? Era forse condannato ad una vita di pelliccia bianca e zampette rosse?

A questo pensiero Tas avvolse una zampa intorno all’anello che gli era rimasto incastrato a un dito del piede (o qualunque cosa fosse) e fece quasi per sfilarselo, giusto per esser sicuro.

Ma gli venne in mente che, così facendo, sarebbe schizzato fuori all’improvviso dalla piccola borsa di seta sotto forma di kender adulto per atterrare ai piedi del mago. AI che costrinse la sua zampina fremente a fermarsi. No, per lo meno, finché si trovava in quella forma, sarebbe stato portato dovunque Caramon veniva condotto. Se non altro, forse sarebbe riuscito a tornare indietro nel tempo insieme a lui sotto forma di topo. Potevano esserci cose peggiori...

Come avrebbe fatto ad uscire dalla borsa?

Il kender sentì il cuore sprofondargli fino alle zampe posteriori. Naturalmente, gli sarebbe stato facile uscire se fosse tornato ad essere se Stesso. Soltanto che allora l’avrebbero preso e rispedito a casa. Ma se fosse rimasto topo avrebbe finito per mangiare grano in compagnia di <, Faikus! Il kender gemette e si rannicchiò in fondo alla borsa, col naso tra le zampe. Quella era di gran lunga la situazione peggiore in cui si fosse provato in tutta la sua vita, anche tenendo conto di quella volta che i due Stregoni avevano scoperto che stava scappando col loro mammuth lanoso. E per coronare il tutto, cominciava a provare una sensazione di nausea, a causa del continuo oscillare della piccola borsa, del fatto di trovarsi rinchiuso in uno spazio angusto, e in più per lo strano odore, là dentro, il continuo sbatacchiare e tutto il resto. , «L’errore è stato rivolgere una preghiera a Fizban,» si disse il kender, , cupo. «Potrà anche essere Paladine, in realtà, ma scommetto che da qualche , parte quel vecchio mago strambo si sta facendo una solenne sghignazzata » per questo scherzetto.»

Pensando a Fizban, e a quanto sentiva la mancanza del vecchio mago pazzo, Tas non si sentì affatto meglio, così escluse quel pensiero dalla sua mente e cercò ancora una volta di concentrarsi sull’ambiente in cui si trovava, nella speranza di trovare una via d’uscita. Fissò quell’oscurità di seta e all’improvviso...

«Idiota che non sei altro!» si disse tutto eccitato. «Tonto pomolo di porta di un kender che non sei altro, come avrebbe detto Flint! Oppure tonto di un topino, poiché non sono più un kender! Sono un topo... e ho i denti!»

In fretta e furia Tas dette un morso di prova. A tutta prima non riuscì a far presa su quel tessuto liscio, e ancora una volta fu preso dalla disperazione.

«Prova alle giunture, sciocco,» si rimproverò con severità, e affondò i denti dentro il filo che teneva insieme i lembi della borsa. La cucitura cedette quasi subito quando i suoi piccoli denti aguzzi la recisero. Tas rosicchiò via rapidamente parecchi altri punti e ben presto riuscì ad intravedere qualcosa di rosso: la veste del mago. Colse un refolo di aria fresca «cos’aveva mai tenuto là dentro quell’uomo?» e così, imbaldanzito, continuò con i suoi morsi.

Poi si fermò. Se avesse continuato ad allargare il foro, sarebbe caduto , fuori. E non era pronto, per lo meno non ancora. Non fino a quando non fossero arrivati dove dovevano arrivare. A quanto pareva non era più molto lontano. Tas si rese conto che da un po’ non avevano fatto altro che salire una serie di scale. Poteva sentire Caramon che ansimava a causa di quell’insolito esercizio fisico e perfino il mago vestito di rosso pareva avere il fiato corto.

«Perché non puoi semplicemente trasferirci in questo laboratorio con un po’ di magia?» brontolò Caramon, ansante.

«No!» rispose Justarius con voce sommessa e pervasa di sgomento. «Posso sentire l’aria stessa prudere e crepitare per il potere che Par-Salian irradia nell’eseguire questo incantesimo. Non vorrei mai che un mio piccolo incantesimo turbasse le forze che sono all’opera qui, stanotte!».

Tas rabbrividì sotto la pelliccia a queste parole, e pensò che Caramon potesse aver fatto lo stesso, poiché sentì l’omone che si schiariva la gola innervosito per poi continuare a salire le scale in silenzio. D’un tratto si fermarono.

«Siamo arrivati?» chiese Caramon, sforzandosi di mantener calma la voce.

«Sì,» giunse la risposta bisbigliata. Tas si sforzò di ascoltare. «Ti accompagnerò su per questi pochi, ultimi gradini poi, quando saremo arrivati alla porta in cima, io l’aprirò il più silenziosamente possibile e ti lascerò entrare. Non dire una sola parola! Non dire niente che possa disturbare Par-Salian nella sua concentrazione. Per questo incantesimo ci vogliono giorni di preparativi...»

«Vuoi dire che Par-Salian sapeva già da molti giorni che avrebbe fatto questo?» lo interruppe Caramon con voce aspra.

«Zitto!» gli intimò Justarius, e la sua voce era gravida di collera. «Certo, sapeva che questa era una possibilità. Doveva tenersi pronto. Ed è stato un bene che l’abbia fatto poiché non avevamo nessuna idea che tuo fratello intendesse agire così presto!». Tas sentì il mago tirare un profondo sospiro.

Quando riprese a parlare, lo fece con un tono di voce più calmo. «Adesso, ripeto, quando avremo salito questi ultimi gradini, non dire una sola parola! Capito?»

«Sì.» Caramon parve ammansito.

«Fai esattamente quello che Par-Salian ti ordinerà di fare. Non fare alcuna domanda! Obbedisci e basta. Ci riuscirai?»

«Sì.» Caramon parve ancora più ammansito di prima. Tas percepì un leggero tremito nella risposta dell’omone.

Il kender si rese conto che Caramon aveva paura. Povero Caramon. Perché gli fanno questo? Non capisco. Qui sta succedendo più di quanto sembri a prima vista. Be’, questo taglia la testa al toro.

Non m’importa se io spezzerò la concentrazione di Par-Salian. Dovrò rischiare. In qualche modo, con qualche espediente, riuscirò a partire con Caramon! Ha bisogno di me. Inoltre, sospirò il kender, viaggiare indietro nel tempo... Meraviglioso!

«Molto bene.» Justarius esitò, e Tas potè sentire il suo corpo farsi teso e rigido. «Ti saluterò qui, Caramon. Che gli dei ti accompagnino. Ciò che fai è pericoloso... per tutti noi. Non puoi neppure cominciare a capire quale pericolo sia...». Queste ultime parole le aveva dette così sommessamente che soltanto Tas le aveva udite, e le orecchie del kender si contrassero allarmate. Poi il mago vestito di rosso sospirò. «Vorrei poter dire di aver pensato che per tuo fratello ne valesse la pena...»

«Vale la pena,» replicò Caramon con fermezza. «Vedrai.»

«Prego Gilean che tu abbia ragione... Adesso sei pronto?»

«Sì.»

Tas sentì un fruscio, come se il mago incappucciato avesse annuito. ripresero a muoversi, salendo lentamente la scala. Il kender sbirciò fuori, dal foro sul fondo della piccola borsa osservando i gradini immersi nell’ombra che scorrevano sotto di lui. Sapeva che gli rimanevano soltanto pochi secondi.

I gradini finirono. Poteva vedere sotto di sé un ampio pianerottolo di pietra. (Ci siamo!) si disse con un singulto. Sentì di nuovo il fruscio, e il corpo del mago che si muoveva. Una porta scricchiolò.

Fulmineamente, quei piccoli denti aguzzi recisero i fili rimasti che ancora tenevano unita la cucitura. Sentì i passi lenti di Caramon che attraversavano la soglia. sentì la porta che cominciava a chiudersi... La cucitura cedette. Tas cadde fuori dalla borsa. Ebbe un attimo per Chiedersi se i topi cadessero sempre sulle zampe, come i gatti. Una volta aveva fatto cadere un gatto dal tetto di casa per vedere se quell’antico ,detto era vero (lo era). E poi colpì il pavimento di pietra zampettando via veloce. La porta venne chiusa, il mago vestito di rosso si era allontanato. Senza fermarsi per guardarsi intorno il kender sfrecciò rapidamente e in silenzio lungo il pavimento. Appiattendo il suo piccolo corpo, si divincolò per passare attraverso la fessura che c’era tra la porta e il pavimento e si tuffò sotto la libreria che si trovava accanto alla parete. Qui, Tas si fermò per riprendere il fiato e ascoltare. E se Justarius avesse scoperto la sua assenza? Sarebbe tornato a cercarlo? Smettila, Tas si rampognò severamente. Non può sapere che sono caduto. E in ogni caso non tornerà qui. Potrebbe disturbare l’incantesimo. Qualche istante dopo il minuscolo cuore del kender rallentò il suo battito, così che poteva sentire al di sopra del rumore del sangue che gli rimbombava nelle orecchie.

Sfortunatamente le sue orecchie gli dissero molto poco. Poteva udire un sommesso mormorio come se qualcuno stesse ripassando una recita di artisti ambulanti. Poteva sentire Caramon che cercava di riprender fiato dopo la lunga salita mantenendo allo stesso tempo ovattato il suo respiro per non disturbare il mago. Gli stivali di cuoio dell’omone scricchiolarono mentre si spostava nervosamente da un piede all’altro.

Ma questo era tutto.

«Devo vedere!» si disse Tas. «Altrimenti non saprò quello che sta succedendo.»

Strisciando fuori da sotto la libreria, il kender cominciò veramente a sperimentare quel mondo minuscolo e singolare nel quale era finito. Era un mondo di briciole, un mondo di palle di polvere e filo, di spilli e di cenere, di petali di rosa disseccati e di foglie di tè ancora umide. L’insignificante era diventato tutt’a un tratto un mondo a sé. I mobili svettavano sopra di lui, come gli alberi di una foresta, e svolgevano press’a poco la stessa funzione, fornendo nascondigli. La fiamma di una candela era il sole. Caramon, un gigante mostruoso...

Tas girò cautamente intorno agli enormi piedi dell’uomo. Intravide un movimento con la coda dell’occhio: un piede infilato in una pantofola sotto una veste bianca. Par-Salian. In fretta, Tas si precipitò verso il lato opposto della stanza che, per fortuna, era illuminata soltanto da una candela.

Poi, Tas si fermò con una brusca slittata. Già un’altra volta si era trovato nel laboratorio di un mago, quando aveva infilato quel dannato anello teletrasportatore. Gli spettacoli strani e meravigliosi che aveva visto là dentro erano rimasti impressi nella sua mente, e adesso si fermò un attimo prima di entrare in un cerchio tracciato sul pavimento di pietra con polvere d’argento.

All’interno del cerchio, che luccicava alla luce della candela, giaceva Dama Crysania, con gli occhi ancora ciechi fissi sul nulla, il volto bianco come il lino che l’avvolgeva.

Era là che sarebbe stata attuata la magia!

Tas, la pelliccia ritta sulla testa, tornò indietro correndo veloce sulle quattro zampine, rintanandosi sotto un vaso da notte rovesciato. Fuori del cerchio c’era Par-Salian, le sue bianche vesti ardevano d’una luce arcana. In mano stringeva un oggetto incrostato di gioielli che lanciavano vividi riflessi mentre il mago lo rigirava. Assomigliava a uno scettro che una volta Tas aveva visto impugnare a un re di Nordmaar, ma quel congegno appariva molto più affascinante. Era sfaccettato e montato in maniera assolutamente unica. Tas si avvide che una parte di esso si muoveva e, cosa ancora più sorprendente, anche altre parti si muovevano senza muoversi! Mentre lo fissava incantato, Par-Salian manipolava con destrezza l’oggetto, piegandolo, curvandolo e torcendolo, fino a quando non l’ebbe ridotto alle dimensioni di un uovo. Borbottando strane parole sopra di esso, l’arcimago lo fece cadere nella tasca della sua veste.

Poi, malgrado Tas potesse giurare che Par-Salian non aveva fatto neppure un passo, il mago si trovò all’improvviso all’interno del cerchio d’argento accanto alla figura inerte di Dama Crysania. Il mago si chinò sopra di lei, e Tas vide che infilava qualcosa tra le pieghe delle sue vesti. Infine, Par-Salian cominciò a cantare nella lingua della magia, muovendo le mani nodose sopra Dama Crysania, descrivendo cerchi sempre più ampi. Lanciando una rapida occhiata a Caramon, Tas lo vide accanto al cerchio, con una strana espressione sulla faccia. Era l’espressione di qualcuno che si trova in qualche luogo che gli è sconosciuto ma che allo stesso tempo lo fa sentire perfettamente a casa propria.

Naturalmente, pensò Tas con una punta d’invidia, Caramon è cresciuto in mezzo alla magia. Forse, per lui, è come essere tornato di nuovo con suo fratello.

Par-Salian si alzò in piedi, e il kender rimase scosso nel vedere il cambiamento subito da quell’uomo. Il suo volto era invecchiato di molti anni, era diventato grigio, e il Grande Mago barcollava, là dove si trovava. Fece un segno a Caramon, e il grosso guerriero venne avanti, a lenti passi, passando con cautela sopra la polvere d’argento. Col volto fisso in una trance simile a un sogno, si fermò in silenzio accanto alla forma immobile di Crysania.

Par-Salian sfilò il congegno dalla sua tasca e lo porse a Caramon. L’omone vi appoggiò sopra la mano e, per un momento, i due uomini lo strinsero insieme. Tas vide muoversi le labbra di Caramon, anche se non udì alcun suono. Era come se il guerriero stesse leggendo per proprio conto, mandando a memoria alcune informazioni trasmesse per magia.

Poi Caramon cessò di parlare. Par-Salian sollevò le mani e con quel movimento si sollevò dal pavimento e fluttuò all’indietro, fuori dal cerchio, tornando nella penombra del laboratorio.

Tas non riusciva più a vederlo ma poteva sentire la sua voce. Il salmodiare divenne sempre più forte e d’un tratto un muro di luce argentea sorse dal cerchio tracciato sul pavimento. Era così intensa che Tas sentì gli occhi rossi da topo che gli bruciavano, ma non riuscì a distogliere lo sguardo. Adesso Par-Salian stava gridando con voce talmente forte che le pietre stesse della stanza cominciarono a rispondere con un coro di voci in apparenza uscite dalle profondità del sottosuolo. Lo sguardo di Tas era fisso su quella vivida cortina d’energia. All’interno di essa poteva vedere Caramon immobile accanto a Crysania. Nella mano stringeva sempre quel congegno. Poi Tas cacciò un piccolo rantolo che non produsse nella stanza niente di più del sospiro di un topo. Poteva ancora vedere il laboratorio attraverso quella barriera luminosa, ma adesso pareva accendersi e spegnersi, come se stesse lottando per la propria esistenza. E quando si spense, il kender intravide per un attimo un altro luogo. Foreste, città, laghi e oceani gli confusero la vista, andavano e venivano, gente vista per un solo istante che poi scompariva, sostituita da altri.

Il corpo di Caramon cominciò a pulsare con la stessa regolarità di quelle strane visioni mentre si trovava all’interno della colonna di luce. Anche Crysania c’era, e poi non c’era.

Le lacrime colarono oltre il naso tremante di Tas, scivolandogli giù lungo le vibrisse. «Caramon sta per intraprendere la più grande avventura di tutti i tempi!» pensò il kender desolato. «E mi lascia qui!»

Per un inconsulto istante Tas lottò con se stesso. Tutto quello che si trovava dentro di lui ed era logico e coscienzioso e simile a Tanis, gli diceva: Tasslehoff, non fare pazzie. Questa è una Grande Magia. Ci sono forti probabilità che tu pasticci davvero le cose! Tas sentì quella voce, ma era sommersa da tutto quel salmodiare e da quel canto delle pietre, e ben presto svanì nel nulla...

Par-Salian non sentì quel debole squittio. Smarrito nel lancio del complicato incantesimo, colse soltanto un fugacissimo movimento con la coda dell’occhio. Vide troppo tardi il topo che schizzava fuori dal suo nascondiglio, puntando dritto sul muro di luce argentea! Inorridito, Par-Salian interruppe il suo canto, le voci delle pietre divennero vuote e poi morirono. Adesso, nel silenzio, potè udire la minuscola invocazione: «Non lasciarmi, Caramon! Non lasciarmi! Sai in che razza di guai ti troverai senza di me!»

Il topo sfrecciò come un lampo attraverso la polvere d’argento, spargendo una scia sfavillante alle proprie spalle, e irruppe nel cerchio luminoso. Par-Salian udì un minuscolo suono sfumato e vide un anello rotolare sul pavimento di pietra. Vide una terza figura materializzarsi nel cerchio e lanciò un rantolo di orrore.

Poi le figure pulsanti scomparvero. La luce del cerchio venne risucchiata in un grande vortice, il laboratorio sprofondò nel buio.

Debole ed esausto, Par-Salian crollò sul pavimento. Il suo ultimo pensiero, prima di perdere conoscenza, fu terribile.

Aveva spedito un kender indietro nel tempo.

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