CAPITOLO QUINTO

A bordo del Fevre Dream
FIUME OHIO
Luglio 1857

Mal di testa o no, Abner Marsh era un marinaio troppo attaccato al suo mestiere per passare l’intera giornata a dormire, specie una giornata importante come quella. Si drizzò a sedere nel letto verso le undici, dopo aver dormito sì e no poche ore, si sciacquò la faccia con un po’ d’acqua tiepida che prese dalla bacinella poggiata sul comodino, e si vestì. C’era del lavoro da sbrigare, e York non si sarebbe visto in giro se non dopo il tramonto. Il Capitano si piazzò il berretto in testa, aggrottò le ciglia nel guardare la propria immagine riflessa nello specchio e si scarmigliò un poco la barba, poi raccolse il bastone da passeggio e si avviò a passi pesanti verso il ponte di controcoperta. Visitò dapprima i bagni, poi tornò sui suoi passi per dirigersi in cucina. «Ho saltato la colazione, Toby,» disse al cuoco, che stava già cucinando per il pranzo. «Di’ ai tuoi ragazzi che mi preparino sei uova e qualche fetta di prosciutto, e fammeli portare su alla mia cabina, va bene? E anche del caffè. A litri.»

Nel salone Marsh bevve un paio di bicchierini che lo aiutarono a sentirsi un po’ meglio. Borbottò qualche convenevole ai passeggeri ed ai camerieri, poi si affrettò sul ponte superiore in attesa della colazione. Dopo che ebbe mangiato, Abner Marsh si sentì di nuovo lui. Salì subito sul ponte di comando, ed entrò nella cabina di pilotaggio. Il turno era cambiato, ed ora c’era l’altro pilota al timone, e soltanto uno dei due colleghi, ospiti senza biglietto, a tenergli compagnia. «Buongiorno, Mister Kitch,» disse Marsh al timoniere. «Come si sta comportando, il nostro Fevre Dream?»

«Non ho nulla di cui lamentarmi,» rispose il pilota. Gettò quindi un’occhiata a Marsh. «Questo vostro battello ha il diavolo in corpo, Capitano. Se intendete portarlo giù a New Orleans, allora vi consiglio di affidarlo a piloti che la sanno lunga. Qui ci vuole una mano esperta al timone, eh sì.»

Marsh annuì. Del resto, non era una sorpresa; sovente i battelli più veloci erano più difficili da guidare. Ma la cosa non lo preoccupava affatto. Nessun pilota che non sapesse il fatto suo avrebbe mai messo le mani sul timone del Fevre Dream.

«Che tempo stiamo facendo?» s’informò Marsh.

«Abbastanza buono,» rispose il pilota con una scrollata di spalle. «Beh, potrebbe fare di meglio, ma Mister Daly ha detto che non avevate premura, e così stiamo facendo una tranquilla passeggiata.»

«Faremo scalo a Paducah,» ordinò Marsh. «Ho due passeggeri da far sbarcare e delle merci da scaricare.» Trascorse ancora qualche minuto a conversare con il pilota, dopodiché tornò giù, sul ponte di controcoperta.

Il salone di prima classe era stato apparecchiato per il pranzo. Il fulgido sole di mezzogiorno si riversava dagli osteriggi in una cascata iridescente, e sotto il barbaglio policromo una lunga fila di tavoli si susseguivano per tutta la lunghezza della cabina. I camerieri stavano disponendo sui tavoli l’argenteria e le porcellane; i bicchieri di cristallo scintillavano, sfolgoranti nella luce. Dalla cucina Marsh carpì un effluvio dei profumi più meravigliosi e succulenti. Si fermò e si procurò un menu, vi diede un’occhiata e decise che aveva ancora fame. Inoltre, York non s’era ancora fatto vivo, ed era più che corretto che almeno uno dei capitani si unisse ai passeggeri ed agli altri membri superiori dell’equipaggio per consumare il pranzo.

Pranzo che, a giudizio di Marsh, fu ottimo. Il Capitano fece fuori una robusta porzione di agnello arrosto in salsa di prezzemolo, un piccioncino, una montagna di patate irlandesi con granturco fresco e barbabietole, e due pezzi della celebre torta di noci, un cavallo di battaglia del bravo Toby. Alla fine del pranzo il Capitano si sentiva dell’umore più amabile. Acconsentì persino a che il pastore tenesse un sermone sulla necessità di cristianizzare gli indiani; un evento raro, considerando la sua intolleranza nei confronti dei predicatori che non voleva neppure a bordo. Bisognava pur intrattenere in qualche modo i passeggeri, giacché anche lo scenario più splendido dopo un po’ risultava noioso.

Nel primo pomeriggio il Fevre Dream giunse a Paducah, la città che sorgeva sul lato del fiume che rientrava nei confini del Kentucky, dove il Tennessee confluiva nell’Ohio. Fu la terza sosta di quel viaggio, ma la prima di una buona durata. Si erano fermati brevemente a Rossborough durante la notte per far scendere tre passeggeri, poi avevano fatto rifornimento di legname e avevano imbarcato un piccolo carico ad Evansville mentre Marsh dormiva. A Paducah, però, dovevano scaricare dodici tonnellate di ferro, oltre un carico di farina, zucchero e libri. Per contro, avrebbero dovuto caricare a bordo quaranta o cinquanta tonnellate di legname. Paducah era nota per il commercio di legname, sicché era costantemente invasa di zattere cariche di tronchi che scendevano lungo il corso del Tennessee, intasando il fiume ed ostacolando il traffico dei battelli. Come la maggioranza degli armatori e comandanti di battelli, Marsh non nutriva grande simpatia per gli zatterieri. Quasi mai avevano luci notturne e spesso venivano speronati da qualche sfortunato battello, soltanto allora si decidevano a farsi vedere, bestemmiando, urlando e lanciando cose.

Fortunatamente non c’erano zattere in giro quando giunsero a Paducah, dove ormeggiarono. A Marsh bastò una sola occhiata al carico in attesa sul pontile — che includeva enormi torri di casse ed alcune balle di tabacco — per decidere che non sarebbe stato complicato imbarcare altre merci sul ponte di coperta. Sarebbe stato un peccato, giudicò, andar via da Paducah e lasciare tutto quel ben di Dio ad altri battelli, rinunciando ad una clientela così appetibile.

Intanto, il Fevre Dream era già saldamente legato alla calata della banchina e sciami di scaricatori stavano, abbassando le passerelle di sbarco e si accingevano a scaricare. Mike il Peloso gironzolava tra di loro, e tuonava, «Spicciatevi, non siete mica signori delle cabine scesi a fare una passeggiata,» e «Tu fattelo cadere, ragazzo, ed io mi faccio cadere questa sbarra di ferro dritto sulla tua testa,» e giù così, snocciolando moniti ed incitamenti in una feroce sequela. La passerella venne giù con un whunk e pochi passeggeri incominciarono a sbarcare. Marsh prese la decisione. Si recò nell’ufficio del commissario di bordo, e vi trovò Jonathan Jeffers intento a lavorare su alcune polizze di carico. «Dovete scriverle necessariamente adesso, Mister Jeffers?» chiese.

«Assolutamente no, Capitano Marsh,» fece il contabile. Si tolse gli occhiali e ne pulì le lenti su di un fazzoletto da collo. «Servono per quando arriveremo a Cairo.»

«Bene,» disse Marsh. «Venite con me. Scendiamo a terra e scopriamo chi è il proprietario di tutto quel carico esposto laggiù al sole, e dov’è diretto. Se va nella direzione di St. Louis, almeno una parte, allora forse guadagneremo un po’ di quattrini.»

«Eccellente,» ribatté Jeffers. Si alzò dallo sgabello, si raddrizzò la giacca nera di ottima fattura, controllò che la massiccia cassaforte di ferro fosse chiusa e raccolse il bastone. «Conosco una buona osteria a Paducah,» aggiunse mentre uscivano.

L’intraprendenza speculativa di Marsh si rivelò proficua. Trovarono lo spedizioniere del tabacco senza difficoltà, e lo condussero all’osteria dove Marsh lo convinse a consegnare la sua merce al Fevre Dream e Jeffers gli accordò un buon prezzo. La conclusione dell’affare richiese quasi tre ore, ma alla fine Marsh si sentiva terribilmente soddisfatto quando lui e Jeffers si avviarono di buon passo alla calata dov’era ormeggiato il Fevre Dream. Quando vi giunsero, Mike il Peloso stava lì a fumare un sigaro nero ed a conversare con il secondo di qualche altro battello. «Quello è nostro adesso,» gli annunziò Marsh, indicando il tabacco con il bastone. «Fallo caricare alla svelta, così possiamo partire.» Marsh si appoggiò al parapetto del ponte, al riparo dal sole, e, compiaciuto dì se stesso, si mise a contemplare l’andirivieni degli scaricatori che trasportavano le balle mentre Whitey cominciava a far salire il vapore. Casualmente, qualcos’altro attirò la sua attenzione; una fila di omnibus a cavalli appartenenti ad un albergo che attendevano sulla strada, poco lontano dal pontile d’imbarco. Per un istante Marsh restò a fissarli con curiosità tirandosi le basette, poi salì dritto alla cabina di pilotaggio.

Il pilota stava mangiando una fetta di torta accompagnandola con una tazza di caffè. «Mister Kitch,» gli disse Marsh, «non fatelo partire finché non ve lo dirò io.»

«Come mai, Capitano? Hanno quasi finito di caricare, ed il vapore è già alto.»

«Guardate laggiù,» disse Marsh, sollevando il bastone. «Quegli omnibus stanno portano dei passeggeri al pontile, o aspettano che ne arrivino. Non i nostri, no, e certamente un albergo non manda i suoi tram incontro ai passeggeri di ogni misero battello con la ruota poppiera. Ho un presentimento.»

Pochi istanti, e quel presentimento trovò conferma. Sputacchiando fumo e vapore, scintillando giù per l’Ohio veloce come il diavolo, un lungo battello di gran lusso si offrì alla loro vista. Marsh lo riconobbe quasi immediatamente, prim’ancora di leggerne il nome; il Southerner della Cincinnati Louisville Packet Company. «Lo sapevo!» esultò. «Dev’essere partito da Louisville dodici ore dopo di noi. Ha fatto un tempo migliore, però.» Si portò alla finestra laterale, scostò la lussuosa tenda che riparava dal caldissimo sole pomeridiano e guardò l’altro battello avvicinarsi alla banchina, ormeggiarsi e cominciare lo sbarco dei passeggeri. «Non ci metterà molto,» disse Marsh al suo pilota. «Niente merci da caricare o da scaricare, solo passeggeri. Lasciate che parta per primo, capito? Fatelo discendere il fiume per un piccolo tratto, poi partite a tutto vapore ed inseguitelo.»

Il pilota finì l’ultimo pezzetto di torta e si pulì col tovagliolo un angolo della bocca dove gli era rimasta appiccicata un po’ della meringa. «Volete che lasci andare il Southerner davanti a noi e poi cerchi di raggiungerlo? Ho capito bene? Capitano, respireremo il suo vapore per tutto il tragitto fino a Cairo. Se gli diamo quel vantaggio, non lo vedremo più, statene certo.»

Abner Marsh si rabbuiò come un nembo pronto ad esplodere. «Ma cosa state dicendo, Mister Kitch? Non voglio sentire discorsi di questo genere. Se non siete all’altezza di fare ciò che vi ho chiesto basta che me lo diciate, vado subito a tirare giù dal letto Mister Daly e faccio piazzare lui al timone.»

«Quello è il Southerner,» insisté Kitch.

«E questo è il Fevre Dream, e non dimenticatelo!» sbottò Marsh. Quindi girò i tacchi e, scuro in viso, uscì dalla cabina con la furia di un temporale. Quei maledetti piloti, si credevevano tutti quanti i re del fiume. E naturalmente lo erano, quando il battello era sul fiume, ma ciò non li autorizzava a fare tante storie per una corserella, e, peggio ancora, a dubitare del suo battello.

La sua furia si placò quando vide che il Southerner stava già prendendo a bordo i suoi passeggeri. Aveva sperato in un’occasione simile fin dal primo momento, quando aveva osservato il Southerner sulla riva opposta, a Louisville, ma non aveva osato sperare con troppa audacia. Se il Fevre Dream fosse riuscito a raggiungere il Southerner, allora avrebbe già compiuto metà dell’opera di costruzione della sua reputazione, non appena la notizia si fosse diffusa tra la gente lungo il fiume. Quel battello, ed il suo gemello Northerner, erano l’orgoglio della compagnia di navigazione a cui appartenevano. Erano battelli speciali, costruiti nel ’53 per filar via sul fiume alla massima velocità. Più piccoli del Fevre Dream, erano gli unici battelli tra quelli che Marsh conosceva a non trasportare merci ma esclusivamente passeggeri. Il Capitano non riusciva proprio a capire quale profitto ne traessero, ma evidentemente ciò non era importante, quel che contava era quanto fossero veloci. Nel ’54 il Northerner aveva stabilito un nuovo primato sulla linea Louisville-St. Louis, il Southerner lo aveva superato l’anno successivo, e tuttora deteneva il primato per il miglior tempo; un giorno e diciannove ore, nientemeno. In alto, sulla cabina di pilotaggio, recava le corna dorate, il trofeo che lo distingueva come il battello più veloce sull’Ohio.

Quanto più Abner Marsh prendeva in considerazione la prospettiva di superarlo, tanto più cresceva la sua eccitazione. E tutto d’un tratto gli balenò in niente che un evento di quella portata era qualcosa che Joshua York non doveva assolutamente perdersi, al diavolo il suo sonno diurno. Marsh si avviò spedito alla cabina di York, fermamente deciso a svegliarlo. Batté con vigore la punta del bastone sulla sua porta.

Nessuna risposta. Marsh bussò ancora, con maggiore energia ed altrettanta insistenza. «Ehi, qui dentro!» tuonò. «Tiratevi giù dal letto, Joshua, stiamo per fare una corsa!» Neppure stavolta si udì il minimo rumore dalla cabina di York. Marsh si provò ad aprire la porta ma la trovò chiusa a chiave. Incalzò coi colpi, diede pugni sui muri, bussò sulla finestra dalle imposte serrate, urlò; tutto inutile. «Dannazione, York,» disse, «alzatevi, o altrimenti ve la perderete.» A quel punto, gli venne un’idea. Ritornò sui suoi passi, avvicinandosi alla cabina di pilotaggio. «Mister Kitch,» gridò verso l’alto. Abner Marsh era uno che sapeva farsi sentire quando s’impegnava con tutta la forza dei suoi polmoni. La testa di Kitch fece capolino dalla porta della timoniera, guardandolo. «Suonate la sirena, e seguitate finché non vi farò cenno di fermarvi, capito?»

Ritornò quindi alla porta di York e riprese a picchiare a forza di pugni, ed improvvisamente la sirena innalzò il suo ululato. Una volta. Due. Tre volte. Lunghi squilli irati. Il bastone di Marsh riprese a flagellare brutalmente.

La porta della cabina di York si aprì.

Marsh diede un solo sguardo agli occhi di York e la sua bocca si spalancò, paralizzandosi in un urlo strozzato. La sirena ululò ancora, ed egli si affrettò a gesticolare concitatamente. Lo strepito tacque. «Entrate,» disse Joshua York in un freddo sussurro.

Marsh entrò e York chiuse la porta dietro di lui. Il Capitano lo sentì girare la chiave nella serratura. Ma non lo vide. Non vedeva nulla. Una volta chiusa la porta, la cabina di York divenne nera come la pece. Neppure il più piccolo barlume di luce trapelava da una fessura della porta o dalle finestre con le imposte chiuse e le tende tirate. A Marsh parve di esser diventato improvvisamente cieco. Ma nell’occhio della sua mente indugiava una visione, l’ultima immagine messa a fuoco prima che il buio inghiottisse ogni cosa; Joshua York, in piedi sulla soglia, nudo come nel giorno in cui era nato, la sua pelle mortalmente bianca come alabastro, le labbra ritratte dai denti in un’espressione di rabbia animale, gli occhi come due fumose fessure grigie apertesi sull’inferno.

«Joshua,» disse Marsh, «potete accendere una lampada? O scostare una tenda? Non vedo niente.»

«Io vedo benissimo,» rispose la voce di York dall’oscurità dietro di lui. Marsh non lo aveva sentito muoversi. Si voltò, ed inciampò in qualcosa. «State fermo,» comandò York, e lo fece con un tono così gravido di forza e di furia che a Marsh non restò che obbedire. «Vi darò un lume prima che naufraghiate nella mia cabina.»

Un fiammifero divampò nel buio della stanza e York lo accostò alla candela che usava per leggere, poi si sedette sulla sponda del letto scompigliato. Era riuscito in quel frangente ad indossare un paio di calzoni, ma il suo volto seguitava a mostrarsi inferocito e terribile. «Ecco,» disse. «E adesso spiegatemi. Perché siete venuto qui? Vi avverto, sarà meglio per voi che abbiate una ragione valida!»

Marsh cominciò a perdere la calma. Mai nessuno gli aveva parlato in quel modo, nessuno. «Il Southerner è vicino a noi, York» disse seccamente. «Il battello più dannatamente veloce di questo fiume, ha le corna e tutto il resto. Voglio che il Fevre Dream lo insegua, e pensavo che avreste voluto assistere. Se non ritenete che questa sia una ragione valida per tirarvi giù dal letto, allora vuol dire che non siete e non sarete mai un battelliere! E badate a come parlate quando vi rivolgete a me, intesi?» Qualcosa di simile all’impeto di una fiammata incendiò gli occhi di Joshua York, ed egli fece per alzarsi, ma nel momento stesso in cui stava per farlo riuscì a controllarsi e desistette. «Abner,» disse. S’interruppe, accigliandosi. «Mi dispiace, non intendevo mancarvi di rispetto, né spaventarvi. La vostra intenzione era buona.» Marsh fu sconcertato nel vedere la sua mano serrarsi con violenza e poi distendersi. York si mosse nella penombra della cabina. Tre lunghi passi, rapidi e decisi, e raggiunse la scrivania su cui era poggiata la bottiglia della sua bevanda privata, quella che Marsh lo aveva incoraggiato ad aprire la notte scorsa. Riempì un intero calice e gettando indietro la testa tracannò il liquore in unica sorsata. «Ah,» disse piano. Si voltò a fronteggiare di nuovo Marsh. «Abner,» disse, «io vi ho dato il battello dei vostri sogni, ma non è stato un dono. Abbiamo fatto un contratto. Voi dovete obbedire ai miei ordini, quali che siano, e dovete rispettare il mio comportamento eccentrico senza fare domande. Intendete onorare la vostra metà del patto?»

«Io sono un uomo di parola!» disse Marsh con vigore e determinazione.

«Bene,» replicò York. «Adesso ascoltatemi. Avete agito in buona fede, ma avete sbagliato a svegliarmi in quel modo. Non fatelo più. Mai. Per nessuna ragione.»

«Se scoppia una caldaia e andiamo a fuoco devo lasciarvi arrostire lì dentro, è così?»

Gli occhi di York luccicarono nel fioco lucore. «No,» ammise. «Ma per voi potrebbe essere meno pericoloso. M’imbestialisco quando vengo svegliato all’improvviso. Non sono più io. Si sa di me che talvolta ho fatto cose di cui in seguito mi sono pentito. È per questo che sono stato così brusco con voi. Me ne scuso, ma so che accadrebbe di nuovo. Se non peggio. Capite, Abner? Non venite mai qui quando la mia porta è chiusa.»

Marsh aggrottò le ciglia, ma non seppe pensare a cosa poter dire. Dopotutto aveva accettato le condizioni del contratto; se York si sconvolgeva fino a quel punto per un sonnellino, beh, erano affari suoi. «Capisco,» disse. «Accetto le vostre scuse, e vi porgo le mie, se può servire. E adesso volete venire su a vedere come sorpassiamo il Southerner? Visto che ormai siete già sveglio?»

«No,» disse York con un’espressione torva. «Non pensate che la cosa non abbia interesse per me, Abner. M’interessa, altroché. Ma — dovete capirmi — ho bisogno di riposare. Il riposo ha per me un’importanza vitale. E poi non amo la luce del giorno. Il sole è violento, brucia. Vi è mai capitato di scottarvi malamente? Se vi è successo, allora potete capire. Avete visto com’è chiara la mia carnagione. Io e il sole non andiamo d’accordo. È una condizione patologica, Abner. Non mi va di discuterne ulteriormente.»

«Va bene,» disse Marsh. Sotto i suoi piedi, il ponte cominciò a vibrare leggermente. La sirena emise il suo gemito lacerante. «Stiamo uscendo dal porto,» disse Marsh. «Devo andare. Joshua, mi dispiace di avervi importunato, mi spiace davvero.»

York annuì, gli voltò le spalle e prese a versarsi un’altra dose di quella sua perniciosa bevanda. «Lo so.» Stavolta non la mandò giù di botto, ma si mise a sorseggiarla. «Andate,» disse. «Ci vediamo stasera, a cena.» Marsh si avviò alla porta, ma la voce di York lo arrestò prima che l’aprisse. «Abner.»

«Sì?» fece Marsh.

Joshua York lo gratificò di un pallido, esile sorriso. «Battetelo, Abner. Vincete.»

Marsh sorrise ed uscì dalla cabina.

Quando raggiunse la timoniera, il Fevre Dream aveva già preso il largo e stava invertendo il movimento delle pale. Il Southerner lo precedeva di una buona lunghezza. La cabina di pilotaggio era affollata di una buona mezza dozzina di piloti senza imbarco, che discutevano e masticavano tabacco e scommettevano sulla vittoria dell’uno o dell’altro battello. Anche Mister Daly era presente; aveva interrotto il suo periodo di riposo per andar su a guardare. Tutti i passeggeri sapevano che qualcosa bolliva in pentola; i ponti inferiori erano gremiti di osservatori appostati lungo i parapetti e pigiati sul castello di prua per godere di una buona visuale.

Kitch fece girare la grande ruota nera ed argentea, ed il Fevre Dream tagliò diagonalmente per immettersi nel canale principale, scivolando lungo la corrente all’inseguimento del suo rivale. Il pilota chiese al ponte di manovra un aumento del vapore. Whitey gettò della pece nei forni e questi offrirono alla gente sulla riva uno spettacolare strascico fatto di nuvoloni di fumo nero e denso. Abner Marsh stava in piedi alle spalle del pilota, appoggiato sul suo bastone, e guardava avanti con gli occhi socchiusi. Il sole del meriggio si rifrangeva sulle limpide acque azzurre ed il riverbero accecante era una danza di luci che guizzavano nell’aria e ferivano gli occhi. Luci che la scia sciabordante delle ruote del Southerner sminuzzava in uno sfarfallio di mille scintille ardenti.

Dapprincipio l’impresa sembrò di facile attuazione. Il Fevre Dream si lanciò nella corsa: fumo e vapore volavano dietro di lui, le bandiere americane a prua e a poppa garrivano a più non posso, le ruote schiaffeggiavano l’acqua ad un ritmo via via crescente, i motori rombavano dal ventre del battello. Lo spazio d’acqua che separava i due battelli cominciò a diminuire a vista d’occhio. Ma il Southerner non era il Mary Kaye, non un battelluccio da quattro soldi da lasciarsi alle spalle a piacimento. Non ci volle molto perché il suo comandante o il suo pilota si rendessero conto di quel che stava accadendo, e la risposta fu un beffardo scatto di velocità. Il fumo del Southerner si fece più denso e sbuffò sul Fevre Dream, e la scia divenne ancor più gagliarda e flagellante, tanto che Kitch dovette compiere una piccola virata per evitarla, perdendo parte della propulsione durante la manovra. La distanza tra i battelli si allargò di nuovo, per poi assestarsi ad una lungheza costante.

«Tieni il passo,» disse Marsh al suo pilota quando apparve chiaro che i due battelli avrebbero mantenuto le loro posizioni. Uscì dalla cabina di pilotaggio e si mise alla ricerca di Mike Dunne il Peloso, che infine riuscì a localizzare sul castello di prua del ponte di coperta, gli stivali piantati sopra una cassa ed un grosso sigaro in bocca.

«Chiama all’adunata gli scaricatori e i manovali,» disse Marsh al suo secondo. «Voglio che assettino il battello.» Mike il Peloso assentì con un cenno della testa, si alzò, si cacciò il sigaro dalla bocca e cominciò a radunare i suoi uomini sbraitando a pieni polmoni.

Nel giro di pochi secondi, buona parte della ciurma si trovava a poppa e a babordo, bilanciando parzialmente il peso dei passeggeri, la maggioranza dei quali si erano assiepati a prora e a tribordo per osservare la gara. «Maledetti passeggeri,» borbottò Marsh. Il Fevre Dream, riassettato alla meglio, ricominciò a guadagnare terreno sul Southerner. Marsh ritornò sul ponte di comando.

Entrambi i battelli filavano adesso a tutto vapore, e sembrava che nessuno prevalesse sull’altro. Abner Marsh era dell’opinione che il Fevre Dream fosse più potente del Southerner, ma 6iò non bastava a segnare l’esito di una competizione. Il suo battello era stracarico di merci ed il livello d’immersione era maggiore, per giunta correva sulla scia del rivale, e le onde che s’infrangevano contro di lui lo rallentavano. Mentre il Southerner scivolava con tutta la facilità di questo mondo, col solo carico dei passeggeri, e davanti a sé aveva un fiume liscio e sgombro. In quelle condizioni, evitare avarie o incidenti era nelle mani dei piloti. Kitch, concentrato nel suo compito, manovravava la ruota del timone con disinvoltura, facendo del suo meglio per guadagnare un briciolo di minuto ad ogni occasione che gli si presentava. Dietro di lui, Daly ed i piloti ospiti continuavano a snocciolare consigli sul fiume, sul suo livello e sulla maniera migliore di navigarlo.

Per più di un’ora il Fevre Dream inseguì il Southerner, perdendolo di vista una volta o due oltre un’ansa, ma riprendendolo puntualmente allorché Kitch prendeva la curva rasentando la sponda ed accorciava così la distanza. Una volta gli si avvicinarono talmente che Marsh riuscì a distinguere i volti dei passeggeri affacciati dal parapetto del ponte di poppa del battello in fuga, ma poi il Southerner scattò in una nuova volata ristabilendo la distanza tra loro. «Scommetto che hanno appena cambiato pilota,» disse Kitch, sputando un po’ di tabacco nella sputacchiera lì vicino. «Avete visto come ha recuperato?»

«Ho visto,» grugnì Marsh. «Adesso voglio vedere il Fevre Dream recuperare un poco.»

E proprio allora giunse la loro buona occasione. Il Southerner procedeva indisturbato davanti a loro, seguendo la curva di un’ansa irta di boschi. Tutt’a un tratto la sirena prese ad ululare ed il battello rallentò, e vibrò, e le due ruote laterali invertirono il senso di marcia.

«Attento,» disse Daly a Kitch. Questi sputò di nuovo e manovrò il timone con notevole cautela, ed il Fevre Dream attraversò la scia turbolenta del Southerner aggirandola e portandosi a dritta dell’avversario. Percorsa metà della curva, scorsero la causa del problema; un altro grande battello, il ponte di coperta sepolto sotto montagne di tabacco, si era arenato in una secca. Il capitano in seconda e la ciurma al completo, armati di aste ed argani, stavano tentando di disincagliarlo. Per un soffio il Southerner non gli era finito addosso.

Per alcuni lunghi minuti il caos regnò sul fiume. Gli uomini sulla secca urlarono e gesticolarono ed il Southerner indietreggiò con la rapidità del baleno. Il Fevre Dream svicolò verso il tratto di fiume sgombro. Allora il Southerner invertì nuovamente il senso di rotazione delle pale, girò il muso e sembrò che stesse tentando di tagliare la strada al Fevre Dream. «Maledetti idioti succhiauova,» imprecò Kitch, e fece ruotare il timone ancora un poco, poi disse a Whitey di diminuire un poco a babordo. Ma non indietreggiò, né cercò di frenare. I due grandi battelli si mossero obliquamente diretti l’uno verso l’altro, avvicinandosi sempre più. Marsh sentì le urla allarmate dei passeggeri sui ponti inferiori, e vi fu un momento, un lungo momento, in cui lui stesso temette la collisione.

Ma poi il Southerner uscì dalla traiettoria del Fevre Dream ed il suo pilota diresse nuovamente la prora nel senso della corrente. Il Fevre Dream avanzò, ed ora la distanza tra i due contendenti si contava in centimetri. Qualcuno di sotto cominciò ad acclamare trionfalmente.

«Non mollate,» mormorò Marsh, ma lo fece così sommessamente che nessuno dovette udirlo. Le ruote del Southerner sollevavano spruzzi d’acqua e mulinavano con foga dietro il Fevre Dream, sì, dietro adesso, ma non di molto, di una sola scarsa lunghezza. Naturalmente, tutti i dannati passeggeri del Fevre Dream si precipitarono a poppa e l’intero equipaggio dovette correre a prua, ed il battello tremò sotto l’esagitato scalpiccio.

Il Southerner stava riacquistando su di loro. Affiancando il Fevre Dream sul lato di babordo, correva parallelo, appena dietro di esso. Ora la prua aveva raggiunto la poppa del Fevre Dream, e la distanza tra i due si accorciava di centimetro in centimetro. I fianchi dei due battelli erano così vicini che i passeggeri avrebbero potuto agevolmente saltare dall’uno all’altro se ne avessero avuta l’intenzione, malgrado il Fevre Dream fosse più alto. «Maledizione,» disse Marsh quando il Southerner fu sul punto di affiancarsi al Fevre Dream. «Quando è troppo è troppo. Chiamate giù e dite a Whitey di usare il mio lardo.»

Il pilota gli lanciò una rapida occhiata, il viso illuminato da un larghissimo sorriso. «Lardo, Capitano? Oh, lo sapevo che eravate un furbacchione!» Urlò un comando nel portavoce a tubo che terminava nella sala motori.

I due battelli procedevano di pari passo, muso a muso. La mano di Marsh che stringeva il bastone era madida di sudore. Di sotto, probabilmente, i manovali stavano litigando con dei dannati forestieri che si erano appollaiati sui barili di lardo e sarebbe stato necessario sloggiarli prima di poter trasportare il lardo ai fuochisti. Marsh stava bruciando dall’impazienza, bollente come lo sarebbe stato il suo lardo. Il lardo di prima scelta era caro, ma tornava assai utile su di un battello. Poteva servirsene il cuoco, e quando bruciava produceva un calore fenomenale. Questo era ciò di cui adesso avevano un disperato bisogno: la spinta bollente di una massa di vapore ad alta pressione che il legno da solo non poteva produrre.

Quando il lardo fu gettato nelle bocche dei forni, ogni dubbio si fugò dalla cabina di pilotaggio. Colonne alte e lunghe di bianco vapore sibilante si levarono dai tubi di scappamento e matasse di fumo si dipanarono dagli alti fumaioli. Il Fevre Dream emise sbuffi fiammeggianti e tremò un poco, poi si lanciò in una scintillante galoppata. Le pale mordevano l’acqua con il loro chunkachunka, rapide come la ruota di un treno, ed i colpi percuotevano il ponte. Il Fevre Dream volò davanti al Southerner, e quando lo ebbe distaccato di un buon tratto, Kitch si piazzò direttamente davanti alla prua del rivale, cosicché fu il Southerner adesso a cavalcare le onde sulla scia del Fevre Dream. I piloti senza imbarco ridacchiavano, si passavano i sigari e commentavano a gran voce il successo del Fevre Dream, mentre il Southerner si allontanava dietro di loro ed il Capitano Marsh sghignazzava come uno sciocco.

Avevano distanziato il Southerner di dieci minuti abbondanti quando approdarono a Cairo, dove le acque limpide dell’ampio Ohio si mescolavano al torbido Mississippi. Ed allora Abner Marsh aveva già quasi dimenticato quel piccolo dissapore con Joshua York.

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