5 Ricongiungimento

L’ultima notte del viaggio in mare fu calma, calda, senza stelle. La Delfino si muoveva con un lieve dondolio sulle onde basse e regolari, veleggiando in direzione sud. Era facile dormire, e i passeggeri dormirono, e dormendo sognarono.

Alder sognò un piccolo animale che nell’oscurità veniva a toccargli la mano. Non riuscì a vedere cosa fosse, e quando provò a prenderlo, l’animaletto non c’era più, era scomparso. Sentì ancora il piccolo muso vellutato che gli toccava la mano. Si destò, e il sogno si dissolse, ma il dolore acuto della perdita gli rimase nel cuore.

Nella cuccetta sotto di lui, Seppel sognò di essere nella propria casa di Ferao, a Paln, intento a leggere un vecchio libro del sapere dell’epoca oscura, soddisfatto del proprio lavoro; ma fu interrotto. Qualcuno voleva vederlo. "Sarà solo questione di un minuto" pensò, e andò a parlare con il visitatore. Era una donna; i suoi capelli erano scuri con riflessi rossi, il volto era bellissimo e colmo di angoscia. — Devi mandarlo da me — gli disse. — Lo manderai da me, vero? — Seppel pensò: "Non so a chi si riferisca, ma devo fingere di saperlo" e rispose: — Non sarà facile. — Al che, la donna alzò una mano, e lui vide che in quella mano stringeva una pietra, una grossa pietra. Spaventato, pensò che intendesse scagliargliela addosso o percuoterlo, e indietreggiando si destò nell’oscurità della cabina. Rimase coricato, ascoltando il respiro dei compagni addormentati e il mormorio del mare lungo il fianco della nave.

Nella propria cuccetta sul lato opposto dell’angusta cabina, steso sul dorso, Onice fissava il buio; credeva di avere gli occhi aperti, credeva di essere sveglio, ma gli sembrava che tante cordicelle sottili fossero state legate attorno alle sue braccia, alle gambe, alle mani e alla testa, e che tutte quelle funi si estendessero nell’oscurità, sulla terra e sul mare, sulla curva del mondo: le corde lo tiravano, lo trainavano, e lui e la nave e tutti i passeggeri a bordo venivano così trascinati a poco a poco verso il luogo dove il mare si prosciugava, dove la nave si sarebbe arenata silenziosamente su sabbie invisibili. Ma Onice non poteva parlare né fare alcunché, poiché le corde gli bloccavano le mascelle, le palpebre.

Lebannen era sceso in cabina a dormire un po’, per essere fresco e riposato all’alba, quando forse avrebbero avvistato Roke. Si addormentò in fretta e profondamente, e i suoi sogni furono brevi e mutevoli: un’alta collina verde sul mare… una donna che sorrideva e, alzando la mano, gli mostrava di poter far sorgere il sole… un ricorrente alla corte di giustizia di Havnor da cui apprendeva, con orrore e vergogna, che metà degli abitanti del regno stavano morendo di fame in stanze chiuse a chiave sotto le case… un bambino che gli gridava: "Vieni da me!" ma invano, perché lui non riusciva a trovarlo… Mentre dormiva, stringeva con la destra il sasso nella piccola borsa che portava appesa al collo, lo stringeva forte.

Nella cabina sovrastante, anche le donne sognarono. Seserakh stava spingendosi verso le montagne, le belle e care montagne desertiche della sua patria. Ma stava percorrendo la via proibita, il sentiero dei draghi. Nessun piede umano doveva camminare su quel sentiero, non doveva nemmeno attraversarlo. La polvere del sentiero era liscia e calda sotto i suoi piedi nudi, e anche se sapeva di non dover seguire quel cammino, lei continuò ad avanzare, finché non alzò lo sguardo e vide che le montagne non erano quelle che conosceva, bensì picchi scoscesi neri e frastagliati che non avrebbe mai potuto scalare. Eppure aveva il dovere di farlo.

Irian volava gioiosa sul vento di tempesta, ma la tempesta le imprigionò le ali con lacci di lampo, facendola scendere sempre più giù, verso le nubi. Ma mentre veniva trascinata in basso vide che quelle non erano nubi ma rocce nere, una catena montuosa scura e frastagliata. Aveva le ali legate ai fianchi dalle corde di fulmini, e cadde.

Tehanu strisciava in una galleria nelle viscere della terra. Non c’era aria sufficiente per respirare, e la galleria diventava sempre più stretta. Non si poteva tornare indietro. Ma le radici luccicanti degli alberi che penetravano nel terreno fino al cunicolo le offrivano qualche appiglio, consentendole di trascinarsi avanti nell’oscurità.

Tenar saliva i gradini del Trono degli innominabili nel sacro Luogo di Atuan. Era molto piccola, e i gradini erano molto alti e quindi saliva a fatica. Quando arrivò al quarto gradino non si fermò e non si voltò, come le aveva raccomandato di fare la sacerdotessa. Proseguì. Salì il gradino successivo, e poi un altro, e un altro ancora, e la polvere era così spessa che gli scalini erano stati cancellati e lei doveva cercare a tentoni le superfici su cui non si era mai posato nessun piede. Aveva fretta, perché dietro il trono vuoto Ged aveva lasciato qualcosa o perso qualcosa, qualcosa di grande importanza per moltissime persone, e lei doveva trovarlo. Solo, non sapeva cosa fosse. — Una pietra, una pietra — si disse. Ma dietro il trono, quando finalmente giunse lassù, c’era soltanto polvere, escrementi di gufo e polvere.

A Gont, nell’alcova della casa del vecchio mago sull’Overfell, Ged sognò di essere arcimago. Stava parlando con l’amico Thorion, mentre percorrevano il corridoio delle rune verso la sala dove si riunivano i maestri della scuola. — Non ho avuto alcun potere, per anni e anni — disse serio a Thorion. L’evocatore sorrise e replicò: — Sai, era solo un sogno. — Ma Ged era preoccupato dalle lunghe ali nere che strisciavano sul pavimento del corridoio dietro di lui; alzò le spalle, cercando di sollevare le ali, ma quelle continuarono a strisciare come sacchi vuoti. — Hai le ali, tu? — chiese a Thorion, che rispose: — Oh, sì — compiaciuto, mostrandogli come le sue fossero legate strettamente alla schiena e alle gambe da tante cordicelle. — Sono bene aggiogato — disse.

Sull’isola di Roke, tra gli alberi del Bosco immanente, Azver lo strutturatore dormiva, come faceva spesso d’estate, in una radura vicino al margine orientale del bosco, dove poteva alzare lo sguardo e vedere le stelle attraverso il fogliame. Là, il suo sonno era leggero, trasparente, la sua mente si spostava dal pensiero al sogno e viceversa, guidata dal movimento delle stelle e delle foglie che cambiavano posto nella loro danza. Quella notte, però, non c’erano stelle, e le foglie erano immobili. Azver scrutò il firmamento privo di luce, e spinse lo sguardo oltre le nubi. Nell’alto del cielo nero c’erano degli astri: piccoli, brillanti, e fermi. Non si muovevano. Lo strutturatore capì che non ci sarebbe stato levar del sole… Si drizzò a sedere, allora, sveglio, scrutando la luce tenue, delicata, che splendeva sempre nei passaggi tra le file di alberi. Il suo cuore batteva lento e forte.

Nella Grande casa i giovani, dormendo, si agitarono e gridarono, sognando che dovevano andare ad affrontare un esercito su una piana di polvere, ma i guerrieri contro cui dovevano combattere erano vecchi, vecchie, gente debole e malata, bambini in lacrime.

I maestri di Roke sognarono una nave che stava veleggiando diretta alla loro isola, ed era molto carica. Uno sognò che la nave trasportava rocce nere. Un altro sognò che trasportava fuoco ardente. Un altro sognò che era carica di sogni.

I sette maestri che dormivano nella Grande casa si destarono, uno dopo l’altro, nelle loro celle di pietra, accesero una luce fatua, e si alzarono. Trovarono il portinaio già in piedi, che li attendeva alla porta. — Il re verrà, all’alba — annunciò, sorridendo.


— Il poggio di Roke — disse Tosla, osservando la sagoma immobile che si stagliava in lontananza a sud-Ovest, indistinta, sovrastando le onde nel fioco chiarore antelucano. Lebannen, accanto a lui, non disse nulla. La coltre di nubi si era dissolta, e la volta del cielo, pura e incolore, copriva come una cupola il grande cerchio delle acque.

Il capitano della nave si unì a loro. — Un’alba propizia — disse, mormorando nel silenzio.

L’Est s’illuminò, tingendosi lentamente di giallo. Il re lanciò un’occhiata a poppa. Due donne erano già in piedi, stavano accanto al parapetto all’esterno della loro cabina; donne alte, scalze, silenziose, che guardavano a est.

La sommità della tondeggiante collina verde fu lambita per prima dalla luce del sole. Era pieno giorno quando passarono tra i promontori della baia di Thwil. Tutti quelli che si trovavano a bordo erano in coperta, e osservavano. Parlavano poco, e con voce sommessa.

Il vento cessò, una volta nel porto. L’aria era così immota che l’acqua rifletteva il centro abitato che sorgeva sulla baia e i muri della Grande casa che dominava la città. La nave continuò ad avanzare, sempre più lenta.

Il re lanciò uno sguardo al capitano e a Onice. Il primo annuì. Il mago portò le mani in alto e verso l’esterno, lentamente, compiendo un gesto magico, e sussurrò una parola.

La nave continuò a scivolare leggera sull’acqua, e non rallentò finché non si affiancò al molo più lungo. Allora il capitano parlò, e la grande vela fu ammainata, mentre degli uomini a bordo gettavano le cime agli uomini sul molo, gridando, e il silenzio fu rotto.

Sulla banchina c’erano delle persone venute ad accoglierli, abitanti della cittadina che stavano radunandosi, e un gruppo di giovani della scuola, tra i quali spiccava un uomo grande e grosso dalla carnagione scura che stringeva in mano un bastone massiccio e alto quanto lui. — Benvenuto a Roke, re delle terre occidentali — disse, avanzando, mentre la passerella veniva abbassata e fissata. — E un benvenuto a tutta la tua compagnia.

I giovani che erano con lui e tutti i cittadini acclamarono a gran voce il sovrano, e Lebannen rispose alle grida festose allegramente, scendendo la passerella. Salutò il maestro evocatore, e parlarono un poco.

Gli astanti ebbero modo di notare che, malgrado le parole di benvenuto, il maestro evocatore guardò più volte con espressione corrucciata le donne ferme accanto al parapetto della nave, e che il re non parve soddisfatto delle sue opinioni.

Quando Lebannen si staccò da lui e tornò a bordo, Irian gli si fece incontro. — Signore re — dichiarò — puoi dire ai maestri che io non voglio entrare nella loro casa… questa volta. Non entrerei neppure se me lo chiedessero.

Il volto del sovrano era estremamente arcigno. — È il maestro strutturatore che ti chiede di andare da lui, nel Bosco immanente — la informò.

Al che, Irian rise, raggiante. — Sapevo che lo avrebbe fatto — disse. — E Tehanu verrà con me.

— E anche mia madre — mormorò Tehanu.

Il re guardò Tenar, che annuì.

— E sia — fece il sovrano. — Il resto di noi alloggerà nella Grande casa, a meno che qualcuno non preferisca un altro posto.

— Col tuo permesso, mio signore — intervenne Seppel. — Anch’io chiederò ospitalità al maestro strutturatore.

— Seppel, non è necessario — sbottò brusco Onice. — Vieni con me a casa mia.

Il mago pelnico fece un piccolo gesto conciliante. — Nessuna riprovazione nei confronti dei tuoi amici, amico mio — spiegò. — Ma è da una vita che desidero camminare nel Bosco immanente. E là mi sentirei più tranquillo.

— Può darsi che le porte della Grande casa per me siano chiuse, come è già accaduto in precedenza — disse Alder, esitante; ora la faccia olivastra di Onice era rossa di vergogna.

La testa velata della principessa si era voltata ora verso l’uno ora verso l’altro, ascoltando trepidante, cercando di capire cosa dicessero. Adesso anche lei parlò. — Per favore, mio signore re, posso stare con la mia amica Tenar? Con la mia amica Tehanu? E con Irian? E parlare con quel Karg?

Lebannen guardò tutti, si girò verso il maestro evocatore che attendeva imponente ai piedi della passerella, e rise. Poi parlò dal parapetto, con voce chiara e affabile. — I miei amici sono stati chiusi a lungo nelle cabine anguste della nave, evocatore, e a quanto pare sono smaniosi di avere dell’erba sotto i piedi e delle foglie sopra la testa. Se chiederemo tutti allo strutturatore di accoglierci, e lui acconsentirà, perdonerai questa nostra apparente mancanza di riguardo per l’ospitalità della Grande casa almeno per qualche tempo?

Dopo alcuni istanti, l’evocatore s’inchinò rigido.

Un uomo basso e tarchiato gli si era accostato sul molo, e adesso stava guardando il re, sorridendo. Alzò il proprio bastone di legno argenteo.

— Sire — disse — una volta, tanto tempo fa, ti ho accompagnato a visitare la Grande casa, e ti ho raccontato bugie su ogni cosa.

— Azzardo! — esclamò Lebannen. Si incontrarono a metà strada sulla passerella e si abbracciarono, e parlando scesero sulla banchina.

Onice fu il primo a seguirli; salutò l’evocatore con fare solenne e cerimonioso, quindi si rivolse all’uomo chiamato Azzardo. — Sei Chiave del vento, adesso? — domandò, e quando quello rise e rispose di sì, lo abbracciò anch’egli, dicendo: — Un maestro degno e meritevole! — Prendendo l’uomo un po’ in disparte, conversò con lui, interessato e accigliato.

Il sovrano alzò lo sguardo verso la nave per far segno agli altri di sbarcare, e quando scesero a terra uno alla volta, li presentò ai due maestri di Roke, Brando l’evocatore e Azzardo la Chiave del vento.

Nella maggior parte delle isole dell’Arcipelago, le persone non si salutavano accostando il palmo della mano secondo l’usanza di Enlad, ma si limitavano a piegare il capo o a tenere entrambe le mani aperte davanti al cuore, quasi in un gesto di offerta. Quando Irian e l’evocatore si incontrarono, non si inchinarono né fecero alcun gesto. Rimasero rigidi con le mani lungo i fianchi.

La principessa fece la solita profonda riverenza, la schiena ben eretta.

Tenar fece il gesto tradizionale, e l’evocatore ricambiò il saluto.

— La donna di Gont, la figlia dell’arcimago, Tehanu — disse il re. La ragazza abbassò il capo e fece il gesto tradizionale. Il maestro evocatore la fissò, spalancò la bocca ansimando, e indietreggiò come se fosse stato percosso.

— Lady Tehanu — si affrettò a intervenire Azzardo, portandosi tra lei e l’evocatore — ti diamo il benvenuto a Roke… per tuo padre, e tua madre, e per quello che sei. Mi auguro che il tuo viaggio sia stato piacevole.

Lei lo guardò confusa, e piegò la testa, nascose il viso, più che inchinarsi; tuttavia riuscì a rispondere al saluto, sussurrando qualcosa.

Lebannen, la faccia una maschera bronzea di calma e compostezza, disse: — Sì, è stato un viaggio piacevole, Azzardo, sebbene il suo esito sia ancora incerto. Possiamo attraversare la città, adesso, Tenar… Tehanu… principessa… Orm Irian? — Guardò ognuna di loro mentre parlava, pronunciando l’ultimo nome con particolare chiarezza.

Si mise in cammino insieme alla più anziana, e il resto del gruppo li seguì. Mentre scendeva la passerella, Seserakh si scostò risoluta i veli rossi dal volto.

Azzardo s’incamminò a fianco di Onice, Alder a fianco di Seppel. Tosla restò a bordo della nave. L’ultimo a lasciare il molo fu Brando l’evocatore, che procedeva in solitudine e con passo pesante.


Più di una volta, Tenar aveva chiesto a Ged di parlarle del Bosco immanente; le piaceva sentire la sua descrizione. — Sembra un bosco qualsiasi, la prima volta che lo si vede. Non è molto grande. I campi arrivano fino ai margini del bosco a nord e a est, e ci sono colline a sud e a Ovest… Non sembra nulla di eccezionale. Però attira l’attenzione. E a volte, dall’alto del poggio di Roke, si può vedere che quel bosco è una foresta, che si estende a perdita d’occhio. Si cerca di scorgere dove termini, ma senza riuscirci. È una distesa ininterrotta che continua verso Ovest… E quando lo si percorre, sembra ancora un bosco comune, anche se gli alberi sono per lo più di un genere che cresce solo là. Alti, con il tronco marrone, ricordano in parte le querce, e in parte i castagni…

— Come si chiamano?

Ged aveva riso. — Arhada, nella Vecchia lingua. Alberi… Gli alberi del bosco, in hardico… Le loro foglie non ingialliscono tutte in autunno, ma un po’ in ogni stagione, così il fogliame è sempre verde con una sfumatura dorata. Perfino nelle giornate fosche, quegli alberi sembrano riflettere un poco di sole. E di notte, sotto di essi non c’è mai completamente buio. C’è una specie di scintillio nelle foglie, simile al chiarore della luna o delle stelle. Crescono anche salici, là, e querce e abeti e altre piante; ma via via che ci si addentra, si incontrano solo gli alberi del bosco. Le loro radici scendono più in profondità dell’isola stessa. Alcuni sono alberi enormi, altri snelli, ma non se ne vedono molti caduti, né si vedono molti arboscelli. Vivono a lungo, per tantissimo tempo. — La sua voce si era fatta sommessa, sognante. — Si può continuare a camminare alla loro ombra, alla loro luce, senza che essi finiscano mai.

— Ma Roke è un’isola così grande?

Ged l’aveva guardata sereno, sorridendo. — Le foreste qui sul monte Gont sono quella foresta… Tutte le foreste lo sono.

E adesso Tenar poteva vedere finalmente il Bosco immanente. Seguendo Lebannen, erano saliti lungo le strade tortuose della città di Thwil, attirando uno stuolo di cittadini e di bambini accorsi a vedere e salutare il loro sovrano. Quella folla festosa a poco a poco si disperse, mentre i viaggiatori lasciavano la città percorrendo un viottolo tra siepi e fattorie, una via che diventava uno stretto sentiero oltre l’altura tondeggiante del poggio di Roke.

Ged le aveva parlato anche del poggio. In quel luogo, diceva, tutta l’arte magica era forte, tutte le cose assumevano la loro vera natura. — Là, la nostra magia e i Vecchi poteri della terra si incontrano, e sono una cosa sola.

Il vento soffiava tra l’erba alta e ingiallita sul colle. Un asinelio si allontanò goffamente al galoppo attraverso un campo di stoppie, agitando la coda. Del bestiame camminava lentamente lungo una staccionata che intersecava un ruscello. E c’erano alberi davanti a loro, alberi scuri, ombrosi.

Seguirono il re oltre un cancelletto e lungo un ponticello, giungendo a un prato soleggiato ai margini del bosco. Vicino al ruscello c’era una casupola decrepita. Irian si staccò dal gruppo, attraversò il prato di corsa fino alla casa, e accarezzò il telaio della porta quasi accarezzasse un cavallo o un cane dopo una lunga assenza. — Cara casa! — disse. E, girandosi verso gli altri, sorrise. — Vivevo qui — spiegò. — Quando ero Libellula.

Si guardò attorno, scrutando le fronde del bosco, poi si mise a correre di nuovo. — Azver! — gridò.

Un uomo era uscito dall’ombra degli alberi alla luce del sole. I suoi capelli splendevano come argento dorato. Rimase immobile mentre Irian correva da lui. Tese le mani verso la donna, e lei le strinse. — Non ti brucerò, non ti brucerò questa volta — stava dicendo lei, ridendo e piangendo, ma senza versare lacrime. — Terrò spento il mio fuoco!

Si avvicinarono e si guardarono negli occhi, e lui le disse: — Figlia di Kalessin, benvenuta a casa.

— Mia sorella è con me, Azver — annunciò Irian.

L’uomo girò il viso, una faccia kargica dura, dalla pelle chiara, vide Tenar e fissò Tehanu. Le andò accanto. Si inginocchiò davanti alla giovane. — Hama Gondun! - disse, e ripeté: — Figlia di Kalessin.

La giovane rimase un attimo immobile. Lentamente, gli porse la mano… la mano destra, quella bruciata, l’arto adunco. Lui la prese, piegò il capo, e la baciò.

— Ho l’onore di essere stato il tuo profeta, donna di Gont — dichiarò, con un misto di tenerezza e di esultanza.

Quindi, alzandosi, si rivolse infine a Lebannen, si inchinò e disse: — Mio re, benvenuto.

— È una gioia per me rivederti, strutturatore! Ma porto una folla nella tua solitudine.

— La mia solitudine è già affollata — disse lo strutturatore. — Qualche anima viva potrebbe mantenere l’equilibrio.

I suoi occhi chiari, tra il grigioverde e il verdazzurro, si posarono sul gruppetto. Di colpo, Azver sorrise, un sorriso di grande cordialità, sorprendente sul suo volto severo. — Ma ci sono donne del mio popolo — disse in kargico, e andò da Tenar e Seserakh, che erano fianco a fianco.

— Io sono Tenar di Atuan… di Gont — si presentò la donna. — Accanto a me c’è la somma principessa delle terre dei Karg.

Lui fece un inchino appropriato. Seserakh lo salutò con la solita rigida riverenza, ma le parole le sgorgarono di bocca, tumultuose, in kargico… — Oh, signore sacerdote, sono contenta che tu sia qui! Se non fosse stato per la mia amica Tenar, sarei impazzita, perché mi sembrava che al mondo non fosse rimasto più nessuno capace di parlare come un essere umano, a parte quelle stupide donne di Awabath che mi hanno accompagnato nel viaggio… ma adesso sto imparando a parlare la loro lingua… e sto imparando a essere coraggiosa, Tenar è la mia amica e la mia insegnante… Ma la notte scorsa ho infranto la proibizione! Ho infranto la proibizione! Oh, signore sacerdote, ti prego, dimmi cosa devo fare per espiare! Ho camminato sul Sentiero dei draghi!

— Ma eri a bordo della nave, principessa — fece notare Tenar — e il maestro strutturatore non è un sacerdote, bensì un… uno stregone…

— Principessa — disse Azver. — Penso che stiamo tutti camminando sul Sentiero dei draghi. E che si possano pure infrangere tutte le proibizioni. Non solo in sogno. Parleremo di questo in seguito, sotto gli alberi. Non temere. Ma permettimi ora di salutare i miei amici.

Seserakh annuì, l’aria regale, e l’uomo si avvicinò ad Alder e a Onice.

La principessa lo osservò. — È un guerriero — disse a Tenar in kargico, soddisfatta. — Non un sacerdote. I sacerdoti non hanno amici.

Tutti avanzarono lentamente e giunsero sotto l’ombra degli alberi.

Tenar alzò lo sguardo verso le arcate e le ogive formate dai rami, verso gli strati e le gallerie di foglie. Vide qualche quercia e una grande pianta di hemmen, ma gli altri erano tutti alberi del Bosco immanente. Le loro foglie ovali si muovevano al minimo soffio d’aria, come le foglie dei pioppi e dei tremoli; alcuni di essi erano in parte ingialliti, e il terreno alla base del tronco era screziato di marrone e d’oro, ma il fogliame nella luce del mattino aveva il colore verde dell’estate, era pieno di ombre e di luce intensa.

Lo strutturatore li condusse lungo un sentiero tra gli alberi. Mentre procedevano, Tenar pensò ancora a Ged, ricordando la sua voce che le parlava di quel luogo. Si sentiva più vicina a lui, lì… un sentimento che non aveva più provato con tale intensità da quando lei e Tehanu lo avevano lasciato sulla soglia della loro casa all’inizio dell’estate, ed erano scese al porto di Gont per imbarcarsi sulla nave del re diretta a Havnor. Lei sapeva che Ged aveva vissuto con Azver molto tempo addietro, e che aveva passeggiato lì in sua compagnia. Sapeva che per lui il bosco era il luogo sacro e centrale, il cuore della pace. Le sembrava quasi di poterlo scorgere in fondo a una delle lunghe radure chiazzate di sole. Quel pensiero le infondeva serenità.

Il sogno che aveva fatto la notte prima, infatti, l’aveva turbata, e quando Seserakh aveva rivelato di aver sognato di infrangere una proibizione, Tenar era rimasta sbigottita. Anche lei aveva infranto una interdizione nel proprio sogno, aveva trasgredito. Aveva salito gli ultimi tre gradini del Trono vuoto, i gradini proibiti. Il Luogo delle tombe di Atuan era lontano, nello spazio e nel tempo, e forse dopo il terremoto non esistevano più né un trono, né gradini nel tempio dove Tenar era stata privata del proprio nome; i Vecchi poteri della terra, però, erano sicuramente ancora là. Quelli non erano cambiati, non si erano spostati altrove. Erano il terremoto, e la terra. La loro giustizia non era la giustizia umana. Oltrepassando l’altura tondeggiante, il poggio di Roke, si era resa conto di trovarsi in un punto dove tutti i poteri si incontravano.

Lei li aveva sfidati, tempo fa, liberandosi dalle tombe, rubando il tesoro, fuggendo nell’Ovest. Ma quei poteri erano lì. Sotto i suoi piedi. Nelle radici di quegli alberi, nelle radici della collina.

Così, lì, in quel punto centrale dove i poteri della terra convergevano, anche i poteri umani si erano radunati: un re, una principessa, i maestri della magia. E i draghi.

E una sacerdotessa ladra diventata contadina, uno stregone di campagna con il cuore infranto…

Tenar lanciò un’occhiata ad Alder. Lo stregone camminava a fianco di Tehanu. Stavano parlando sottovoce. La ragazza parlava volentieri con lui, più che con chiunque altro, perfino Irian, e quando era con lui pareva a proprio agio. Vedendoli insieme, la donna si rallegrò, mentre procedeva sotto i grandi alberi, lasciando che la propria coscienza scivolasse in un abbandono estatico, rapita dal verde scintillante e dal movimento delle foglie. Si rammaricò quando, dopo un breve tragitto, lo strutturatore si fermò. Aveva la sensazione di poter camminare per sempre nel Bosco immanente.

Si raggrupparono in una radura erbosa, aperta al cielo nel centro, dove i rami degli alberi non arrivavano. Un affluente del Thwilburn scorreva su un lato della radura, e lungo le sponde crescevano salici e alni. Non lontano dal ruscello, c’era una casa bassa e bitorzoluta, fatta di pietre e di zolle, e addossata a questa, una capanna più alta a una falda, di vimini e canne intrecciate.

— Il mio palazzo d’inverno, il mio palazzo estivo — disse Azver, accompagnando la voce con due movimenti della mano.

Onice e Lebannen fissarono sorpresi quelle piccole costruzioni, e Irian disse: — Non sapevo che tu avessi una casa!

— Non l’avevo, un tempo — spiegò lo strutturatore. — Ma le ossa invecchiano.

Organizzando un rapido trasporto di materiale dalla nave, la casa fu dotata di giacigli per le donne, la capanna per gli uomini. Un andirivieni di ragazzi dalle cucine della Grande casa alle fronde del bosco rifornì il gruppo di abbondanti provviste. E nel tardo pomeriggio, invitati dallo strutturatore, i maestri di Roke si recarono nella radura per incontrare la comitiva reale.

— È qui che si radunano per scegliere il nuovo arcimago? — chiese Tenar a Onice, poiché Ged le aveva parlato di quella radura segreta.

Il mago scosse il capo. — Non credo — rispose. — Il re dovrebbe saperlo, perché era presente l’ultima volta che si sono riuniti. Ma forse solo Azver potrebbe dirtelo. Perché, vedi, le cose cambiano in questo bosco. Non è sempre nello stesso posto. E nemmeno i sentieri che lo attraversano sono mai gli stessi, credo.

— Dovrebbe essere spaventoso — commentò la donna. — Eppure, a quanto pare, non ho affatto paura.

Onice sorrise. — Succede, qui — disse.

Tenar osservò i maestri che entravano nella radura, guidati dalla mole orsina dell’evocatore e da Azzardo, il giovane maestro del tempo. Il mago le spiegò chi erano gli altri: il cambiatore, il cantore, l’erborista, il manipolatore. Avevano tutti i capelli grigi, il cambiatore era un vegliardo malfermo che usava il bastone da mago per sostenersi. Il portinaio, dal volto liscio e gli occhi a mandorla, non sembrava né giovane né vecchio. Il nominatore, che giunse per ultimo, dimostrava una quarantina d’anni. Aveva un viso calmo e imperscrutabile. Si presentò al sovrano, dicendo di chiamarsi Kurremkarmerruk.

Al che, Irian sbottò indignata: — Ma tu non sei Kurremkarmerruk!

Lui la guardò e disse pacato: — È il nome del nominatore.

— Allora il mio Kurremkarmerruk è morto?

L’uomo annuì.

— Oh — gemette lei. — È una notizia terribile! Lui era mio amico, quando avevo ben pochi amici qui! — Si girò, rifiutandosi di guardarlo, incollerita e in preda a un dolore senza lacrime. Aveva salutato con affetto il maestro erborista, e il portinaio, ma non rivolse la parola agli altri.

Tenar notò che le lanciavano brevi occhiate furtive, aggrottando inquieti le ciglia grigie.

Poi osservarono Tehanu… e distolsero lo sguardo; tornarono a osservarla, furtivamente. Cominciò a chiedersi cosa vedessero quando guardavano le due giovani. Perché quelli erano uomini che vedevano con occhi di mago.

Così la donna disse a se stessa che doveva perdonare l’evocatore per l’orrore incivile che aveva palesato nel vedere la giovane per la prima volta. Forse non si era trattato di orrore. Forse era soggezione, timore reverenziale.

Terminate le presentazioni, quando tutti furono seduti in cerchio, con cuscini e sedili di fortuna per chi ne aveva bisogno, l’erba come tappeto, e il cielo e le foglie come soffitto, lo strutturatore, con voce che aveva ancora un lieve accento kargico, disse: — Ora, compagni maestri, ascolteremo il re, se il re è d’accordo.

Lebannen si alzò. Mentre parlava, Tenar lo osservò, provando un senso irreprimibile di orgoglio. Com’era bello, com’era saggio nonostante la giovane età! Lei non seguì tutte le sue parole, dapprima, solo il tenore e la passione del discorso.

Il sovrano spiegò ai maestri, in modo chiaro e conciso, quale fosse il motivo che lo aveva condotto a Roke: il problema dei draghi e dei sogni.

E concluse dicendo: — Ci è parso che, di notte in notte, tutti questi fatti avessero un nesso sempre più evidente, un fine preciso, che dovessero portare a qualche evento. Abbiamo pensato che qui, su questo suolo, con l’aiuto della vostra conoscenza e del vostro potere, forse saremmo riusciti a prevedere e fronteggiare tale evento, evitando così che la nostra comprensione fosse sopraffatta dal precipitare della situazione. I nostri maghi più saggi hanno predetto che sta per avvenire un grande cambiamento. Dobbiamo unirci per scoprire in cosa consista questo mutamento, le sue cause, il suo corso, e in che modo possiamo sperare di volgerlo dal conflitto e dalla rovina, all’armonia e alla pace, nel cui segno io governo.

Brando l’evocatore si alzò per rispondergli. Dopo alcuni convenevoli solenni, con un benvenuto particolare rivolto alla somma principessa, disse: — Tutti i maestri e i maghi di Roke concordano sul fatto che i sogni degli uomini, e non solo quei sogni, siano preavviso di cambiamenti terribili. Confermiamo che c’è uno sconvolgimento dei confini profondi tra la morte e la vita… violazioni di quei confini, e la minaccia di cose peggiori. Ma dubitiamo che tali sconvolgimenti possano essere compresi o controllati da chi non è un maestro dell’arte magica. E dubitiamo fortemente che si possa fare assegnamento sui draghi, che quanto a vita e morte sono completamente diversi dagli esseri umani, perché soffochino la loro collera selvaggia e la loro invidia per servire il bene umano.

— Evocatore — Replicò Lebannen, prima che Irian potesse parlare. — Orm Embar è morto per me a Selidor. Kalessin mi ha condotto al mio trono… Qui in questo cerchio ci sono tre popoli: il popolo kargico, il popolo hardico, e il popolo dell’Ovest.

— Erano tutti un unico popolo, un tempo — osservò il nominatore, con la solita voce pacata, monotona.

— Ma non sono un unico popolo, adesso — disse l’evocatore, scandendo greve le parole. — Non fraintendermi perché dico la dura verità, mio signore! Rispetto la tregua che hai concluso con i draghi. Quando il pericolo che incombe su di noi sarà passato, Roke aiuterà Havnor a cercare la pace duratura con loro. Ma i draghi non hanno nulla a che fare con la crisi in cui ci troviamo. Come non hanno nulla a che fare con questi eventi i popoli orientali, che hanno rinunciato alla propria anima immortale quando hanno dimenticato la Lingua della creazione.

Es eyemra - disse con voce bassa, sibilante, Tehanu, alzandosi in piedi.

L’evocatore la fissò.

— La nostra lingua — ripeté lei in hardico, fissandolo a sua volta.

Irian rise. — Es eyemra - disse.

— Voi non siete immortali — disse Tenar all’evocatore. Non aveva intenzione di parlare. Non si alzò. Le parole le scaturirono dalle labbra come scintille da una pietra percossa. — Noi moriamo per riunirci al mondo imperituro. Siete stati voi a rinunciare all’immortalità.

Poi tutti tacquero. Lo strutturatore aveva fatto un piccolo gesto con le mani, un gesto delicato.

Il suo volto era assorto, sereno, mentre studiava un disegno di rametti e foglie che aveva fatto sull’erba dove sedeva, davanti alle gambe incrociate. Sollevò gli occhi, girò il capo tutt’intorno, guardando le persone radunate in cerchio. — Penso che dovremo andare là, presto — annunciò.

Dopo altri attimi di silenzio, Lebannen domandò: — Andare dove, mio signore?

— Nelle tenebre — rispose lo strutturatore.


Mentre Alder sedeva e li ascoltava, le voci lentamente si affievolirono, svanirono, e la calda luce del sole pomeridiano dell’estate inoltrata si offuscò, inghiottita dall’oscurità. Non rimasero che gli alberi: alte presenze cieche tra la terra e il cielo. I figli più vecchi della terra. "Oh, Segoy" disse Alder nel proprio intimo, "creatura e creatore, lascia che io venga da te".

L’oscurità proseguiva all’infinito, oltre gli alberi, oltre ogni cosa.

Contro il vuoto, Alder vide la collina, l’altura che si trovava alla loro destra quando erano saliti, lasciando la cittadina. Vide la polvere della strada, le pietre del sentiero, che conduceva oltre il colle.

Abbandonò il sentiero, staccandosi dagli altri, e salì il pendio.

L’erba era alta. Tra i lunghi steli, ondeggiavano involucri avvizziti di fiori di scintillaria. Giunse su uno stretto viottolo e lo seguì lungo l’erta salita. "Ora sono me stesso" disse nel proprio intimo. "Segoy, il mondo è bellissimo. Lascia che io lo attraversi e venga da te".

Mentre camminava pensò: "Posso fare di nuovo quello che ho sempre fatto. Posso riparare ciò che è rotto. Posso ricongiungere".

Arrivò in cima alla collina. Fermandosi al sole e al vento tra l’erba ondeggiante, vide sulla destra i campi, i tetti della cittadina e della grande casa, la baia lucente e il mare oltre essa. Se si fosse girato, avrebbe visto dietro di sé, a Ovest, gli alberi della foresta sterminata, una distesa che si perdeva in lontananza, svanendo nell’azzurro. Davanti a lui, il pendio era buio e grigio, scendeva verso il muro di pietra e l’oscurità oltre il muro, verso le ombre che si accalcavano accanto al muro e gridavano. "Verrò" disse Alder alle ombre. "Verrò!"

Avvertì una sensazione di calore sulle spalle e sulle mani. Il vento agitava le foglie sopra la sua testa. Delle voci parlavano… parlavano, non gridavano, non invocavano il suo nome. Gli occhi dello strutturatore lo stavano osservando dalla parte opposta del cerchio d’erba. Anche l’evocatore lo osservava. Alder abbassò lo sguardo, sconcertato. Cercò di ascoltare. Si concentrò e ascoltò.

Il re stava parlando, usando tutta la sua abilità e la sua forza per tenere unito quel gruppo accanito e caparbio di uomini e donne, perché non perdessero di vista lo scopo comune. — Maestri di Roke, consentitemi di raccontarvi quanto ho appreso dalla somma principessa durante il nostro viaggio in mare. Principessa, posso parlare a nome tuo?

Il volto svelato, la giovane lo guardò e piegò il capo solenne, acconsentendo.

— Questo è il racconto della principessa, dunque: molto tempo fa, gli esseri umani e i draghi erano un unico popolo, parlavano un’unica lingua. Ma cercavano cose diverse, così decisero di separarsi… di prendere strade diverse. Quell’accordo era chiamato il Vedurnan.

Onice drizzò il capo, e Seppel spalancò gli occhi scuri. — Verw nadan - mormorò.

— Gli esseri umani andarono a est, i draghi a Ovest. Gli uomini rinunciarono alla loro conoscenza della Lingua della creazione, ricevendo in cambio l’abilità e la destrezza manuale, e il possesso di tutto ciò che l’arte manuale può creare. I draghi abbandonarono tutte queste cose. Ma tennero la Vecchia lingua.

— E le loro ali — disse Irian.

— E le loro ali — ripeté Lebannen. Aveva notato l’espressione interessata di Azver, e proseguì: — strutturatore, puoi forse continuare la storia meglio di me?…

— Gli abitanti dei villaggi di Gont e di Hur-at-Hur ricordano quello che i saggi di Roke e i sacerdoti di Karego dimenticano — dichiarò Azver. — Sì, da bambino mi hanno raccontato questa storia, penso, o qualcosa del genere. Ma i draghi non comparivano nel racconto. La storia parlava di come il popolo scuro dell’Arcipelago avesse violato il giuramento fatto. Avevamo tutti promesso di rinunciare alla stregoneria e alla lingua della stregoneria, di parlare solo la nostra lingua comune. Ci eravamo impegnati a non porre alcun nome, a non fare incantesimi. A confidare in Segoy, nei poteri della terra nostra madre, madre degli dei guerrieri. Ma le genti del popolo scuro ruppero il patto. Utilizzarono la Lingua della creazione nella loro arte, scrivendola nelle rune. La tennero, la insegnarono, se ne servirono. Fecero incantesimi con essa, con l’abilità delle loro mani, con lingue false che pronunciavano le parole vere. E dunque il popolo kargico non può mai fidarsi di loro. Così dice la storia.

Irian parlò. — Gli uomini temono la morte, mentre i draghi non la temono. Gli uomini vogliono essere padroni della vita, possederla, quasi fosse un gioiello in uno scrigno. Quegli antichi maghi bramavano la vita eterna. Impararono a usare i veri nomi per impedire agli uomini di morire. Ma chi non può morire non può mai rinascere.

— Il nome e il drago sono una cosa sola — disse Kurremkarmerruk il nominatore. — Noi uomini abbiamo perso i nostri nomi al verw nadan, ma abbiamo scoperto come riacquistarli. Il nome è il sé, l’essenza. Perché la morte dovrebbe cambiare questo fatto?

Guardò l’evocatore, ma Brando sedeva massiccio e torvo, ascoltando, senza parlare.

— Parla ancora di questo argomento, nominatore, se vuoi — intervenne il re.

— Dico quello che ho in parte appreso, in parte dedotto, non da storie narrate nei villaggi ma dai più antichi documenti che si trovano nella torre isolata. Mille anni prima dei primi re di Enlad, c’erano uomini a Ea e Solea, i primi e i più grandi maghi, i creatori di rune. Furono loro a imparare a scrivere la Lingua della creazione. Crearono le rune, che i draghi non impararono mai. Ci insegnarono a dare a ogni anima il suo vero nome: nome che è la verità dell’anima, la sua vera essenza. E con il loro potere, hanno concesso, a chi porta il vero nome, la vita oltre la morte del corpo.

— La vita eterna — fece sommesso Seppel, abbozzando un sorriso. — In una grande terra di fiumi e montagne e splendide città, dove non ci sono sofferenza e dolore, e dove il sé permane, immutato, immutabile, per sempre… Questo è il sogno dell’antico sapere di Paln.

— Dov’è? — chiese l’evocatore. — Dov’è quella terra?

— Sull’altro vento — disse Irian. — L’Ovest oltre l’Ovest. — Guardò tutti quanti, sprezzante, adirata. — Pensate che noi draghi voliamo solo sui venti di questo mondo? Pensate che la nostra libertà, per cui abbiamo rinunciato a qualsiasi possesso, non sia più grande di quella dei gabbiani privi d’intelletto? Che il nostro regno sia soltanto qualche roccia ai margini delle vostre ricche isole? Voi possedete la terra, voi possedete il mare. Ma noi siamo il fuoco del sole, noi voliamo con il vento! Voi volevate della terra da possedere. Volevate delle cose da fare e tenere. E le avete. Quella è stata la divisione, il verw nadan. Ma non eravate soddisfatti della vostra parte. Volevate non solo le vostre preoccupazioni, ma pure la nostra libertà. Volevate il vento! E attraverso gli incantesimi e le magie di quei violatori di giuramenti, ci avete rubato metà del nostro regno, lo avete separato con un muro dalla vita e dalla luce, per poter vivere là in eterno. Ladri, traditori!

— Sorella — disse Tehanu. — Questi non sono gli uomini che ci hanno derubato. Sono quelli che ne pagano lo scotto.

Attimi di silenzio seguirono all’aspro sussurro delle parole della giovane.

— Qual era lo scotto da pagare? — chiese il nominatore.

Tehanu guardò Irian. Questa esitò, poi in tono più pacato rispose: — L’avidità spegne il sole. Queste sono le parole di Kalessin.

Azver lo strutturatore parlò. Mentre parlava, scrutò i passaggi tra le file di alberi al di là della radura, quasi seguisse i lievi movimenti delle foglie. — Gli antichi capirono che il regno dei draghi non era solo corporeo. Che i draghi potevano volare… fuori dal tempo, forse… E invidiando tale libertà, seguirono la via dei draghi nell’Ovest oltre l’Ovest. Là, rivendicarono il possesso di una parte di quel regno. Un regno eterno fuori del tempo, dove il sé potesse esistere per sempre. Ma non in modo corporeo, come i draghi. Solo con lo spirito gli uomini potevano abitare quel luogo… E così costruirono un muro invalicabile per gli esseri viventi, per gli uomini e i draghi. Perché temevano la loro collera. E le loro arti nominatone stesero una grande rete di incantesimi su tutte le terre occidentali, affinché la gente delle isole, dopo la morte, raggiungesse l’Ovest oltre l’Ovest e vivesse là per sempre, come spirito… Ma quando il muro fu eretto e l’incantesimo venne completato, il vento cessò di soffiare, all’interno del muro. Il mare si ritirò. Le sorgenti cessarono di zampillare. Le montagne dell’alba diventarono le montagne della notte. I morti giunsero in una terra tenebrosa, una terra arida.

— Ho attraversato quella terra — mormorò Lebannen, con riluttanza. — Non temo la morte, ma temo quel luogo.

Rimasero alcuni istanti in silenzio.

— Cob e Thorìon… — disse l’evocatore, la voce aspra e incerta. — Loro hanno provato ad abbattere quel muro. A riportare i morti in vita.

— Non in vita, maestro — replicò Seppel. — Come i creatori di rune, anche loro cercavano il sé incorporeo, immortale.

— Tuttavia, i loro incantesimi hanno sconvolto quel luogo — osservò meditabondo l’evocatore. — E così i draghi hanno cominciato a ricordare l’antico torto… E così le anime dei morti adesso si accalcano lungo il muro, tendendo le braccia, bramando il ritorno alla vita.

Alder si alzò. Disse: — Non bramano la vita. Bramano la morte. Desiderano fondersi di nuovo con la terra. Unirsi di nuovo alla terra.

Tutti lo guardarono, ma lui quasi non se ne accorse; la sua consapevolezza era rivolta in parte al gruppo, in parte alla terra desolata. L’erba sotto i suoi piedi era verde e illuminata dal sole, era morta e scura. Le foglie degli alberi tremavano sopra di lui, e il basso muro di pietra era ad appena qualche passo di distanza, lungo il pendio tenebroso della collina. Di tutte le persone presenti, Alder vedeva solo Tehanu; non riusciva a vederla con chiarezza, ma sapeva che era lei, la persona in piedi tra lui e il muro. Le parlò. — L’hanno costruito, ma non possono demolirlo — disse. — Vuoi aiutarmi, Tehanu?

— Ti aiuterò, Hara — rispose la giovane.

Un’ombra guizzò tra loro, una grande forza oscura, che nascose la ragazza, afferrando Alder e bloccandolo; lui si dibatté, boccheggiò, non riusciva a respirare, vide un fuoco rosso nell’oscurità, poi non vide più nulla.


Si incontrarono nel chiarore stellare ai margini della radura, il re delle terre occidentali e il maestro di Roke, i due poteri di Earthsea.

— Vivrà? — chiese l’evocatore, e Lebannen rispose: — Il guaritore dice che adesso non corre alcun pericolo.

— Ho sbagliato — disse il primo. — Mi dispiace.

— Perché l’hai richiamato? — domandò il re, non in tono di rimprovero, ma pretendendo una risposta.

Dopo una lunga pausa, arcigno, l’evocatore disse: — Perché avevo il potere di farlo.

Passeggiarono in silenzio, percorrendo un sentiero tra i grandi alberi. C’era molto buio su entrambi i lati, ma la luce delle stelle brillava grigia seguendo il loro cammino.

— Ho sbagliato. Ma non è giusto voler morire — riprese. Nella sua voce si coglieva l’accento aspro della Distesa Est. Parlava sommesso, quasi supplichevole. — Per chi è molto vecchio, molto malato, può darsi che sia giusto. Ma la vita ci è data. Sicuramente è sbagliato non conservare e aver caro questo grande dono!

— Anche la morte ci è data — osservò il re.


Alder giaceva su un pagliericcio sopra l’erba. Doveva rimanere fuori sotto le stelle, aveva detto lo strutturatore, e il vecchio maestro erborista era d’accordo con lui. Il convalescente dormiva, e Tehanu gli sedeva accanto, immobile.

Tenar sedeva sulla soglia della casupola di pietra e la osservava. Le grandi stelle dell’estate inoltrata brillavano sulla radura: la più alta era la stella chiamata Tehanu, il Cuore del cigno, il perno del cielo.

Seserakh uscì silenziosa dalla casa e si sedette sulla soglia vicino a lei. Si era tolta il cerchietto che tratteneva il velo, sciogliendo la massa di capelli fulvi.

— Oh, amica mia — mormorò — che ne sarà di noi? I morti stanno venendo qui. Li senti? Sono come la marea che cresce. Oltre quel muro. Penso che nessuno possa fermarli. Tutti i morti, dalle tombe di tutte le isole dell’Ovest, da tutti i secoli…

Tenar sentiva il battito, i richiami, nella testa e nel sangue. Adesso, come tutti gli altri, sapeva quello che Alder sapeva da tempo. Ma si aggrappò a quello in cui confidava, anche se la fiducia era diventata semplice speranza e disse: — Sono solo i morti, Seserakh. Abbiamo costruito un muro falso. Dev’essere demolito. Però c’è un muro vero.

Tehanu si alzò e si avvicinò adagio alle due donne. Si sedette sul gradino sotto di loro.

— Sta bene, dorme — sussurrò.

— Eri là con lui? — chiese Tenar. Lei annuì. — Eravamo al muro.

— Cos’ha fatto l’evocatore?

— L’ha chiamato… lo ha riportato indietro con la forza.

— L’ha riportato in vita.

— Sì, in vita.

— Non so cosa temere di più — disse la madre. — La morte o la vita? Vorrei smettere di avere paura.

Il volto di Seserakh, l’onda calda dei suoi capelli, si chinò un attimo sulla spalla della donna, sfiorandola con una lieve carezza. — Tu sei coraggiosa, coraggiosa — sussurrò la principessa. — Ma… ahimè! Io temo il mare! E temo la morte!

Tehanu sedeva tranquilla. Nel chiarore fioco che aleggiava tra gli alberi, Tenar notò come la mano snella della figlia fosse posata su quella bruciata e deforme.

— Penso che quando morirò — disse la ragazza con la solita voce bassa e strana — potrò restituire il soffio che mi ha dato la vita. Potrò restituire al mondo tutto quello che non ho fatto. Tutto quello che avrei potuto essere e non sono riuscita a realizzare. Tutte le scelte che non ho compiuto. Tutte le cose che ho perso e consumato e sprecato. Potrò restituire tutto quanto al mondo. Alle vite che non sono ancora state vissute. Quello sarà il dono che farò al mondo, per ringraziarlo di avermi dato la vita che ho vissuto, l’amore che ho conosciuto, il respiro che ho respirato.

Alzò lo sguardo alle stelle e sospirò. — Non per molto tempo ancora — mormorò. Poi si girò verso la madre.

Seserakh accarezzò delicatamente i capelli della donna, si alzò, ed entrò in casa silenziosa.

— Madre, fra breve, penso…

— Lo so.

— Non voglio lasciarti.

— Devi lasciarmi.

— Lo so.

Rimasero sedute nell’oscurità luccicante del Bosco immanente, taciturne.

— Guarda — sussurrò Tehanu. Una stella cadente attraversò il cielo, una rapida scia di luce che svanì lentamente.


Cinque maghi sedevano al chiarore stellare. — Guardate — disse uno di loro, seguendo con la mano la scia della stella luminosa.

— L’anima di un drago che muore — fece Azver lo strutturatore. — Così dicono a Karego-At.

— I draghi muoiono? — chiese Onice, meditabondo. — Non come noi, penso…

— Non vivono come noi. Si muovono tra i mondi. Così dice Orm Irian. Dal vento del mondo all’altro vento.

— Come noi abbiamo cercato di fare — disse Seppel. — Senza riuscire.

Azzardo lo guardò, incuriosito. — A Paln, avete sempre conosciuto questa storia, questo racconto che abbiamo sentito oggi… della separazione dei draghi e del genere umano, e della creazione della terra desolata?

— Non come l’abbiamo appreso oggi. A me avevano insegnato che il verw nadan fu il primo grande trionfo dell’arte magica. E che lo scopo della magia fosse di trionfare sul tempo e sulla vita per sempre… E questo spiega i mali causati dal sapere pelnico.

— Almeno, voi avete conservato la conoscenza madre che noi abbiamo disprezzato — disse Onice. — Come l’ha conservata il tuo popolo, Azver.

— Ebbene, voi avete avuto il buonsenso di costruire la vostra Grande casa qui — dichiarò lo strutturatore, sorridendo.

— Ma l’abbiamo costruita male — disse Onice. — Tutto quello che costruiamo, lo costruiamo male.

— Dunque dobbiamo abbatterlo — disse Seppel.

— No — replicò Azzardo. — Noi non siamo draghi. Noi viviamo nelle case. Dobbiamo avere qualche muro, almeno.

— Purché il vento possa soffiare dalle finestre — disse Azver.

— E chi entrerà dalle porte? — chiese il portinaio, con l’abituale voce pacata.

Ci fu una pausa. Un grillo trillò solerte in un punto della radura, tacque, trillò di nuovo.

— Draghi? — disse Azver.

Il portinaio scosse il capo. — Penso che forse la separazione iniziata, e poi non rispettata, alla fine giungerà a compimento — disse. — I draghi andranno liberi, e ci lasceranno qui con la scelta che abbiamo fatto.

— La conoscenza del bene e del male — disse Onice.

— La gioia di fare, foggiare — disse Seppel. — La nostra maestria.

— E la nostra avidità, la nostra debolezza, la nostra paura — aggiunse Azner.

Allo stridio del grillo rispose un altro grillo, più vicino al ruscello. I due trilli vibrarono, si sovrapposero, ritmicamente e fuori tempo.

— Quello che temo — disse Azzardo — e lo temo a tal punto da avere paura a parlarne, è questo: che quando i draghi andranno via, la nostra maestria scompaia con loro. La nostra arte. La nostra magia.

Il silenzio degli altri dimostrò che anche loro temevano la stessa cosa. Ma infine il portinaio parlò, pacato ma deciso. — No, non credo. Loro sono la creazione, sì. Ma noi abbiamo appreso la creazione. L’abbiamo fatta nostra. Non può esserci strappata. Per perderla dobbiamo dimenticarla, gettarla via.

— Come ha fatto il mio popolo — disse Azver.

— Però il tuo popolo ha ricordato cos’è la terra, cos’è la vita eterna — intervenne Seppel. — Mentre noi l’abbiamo dimenticato.

Ci fu un altro lungo silenzio.

— Potrei allungare la mano e toccare il muro — disse Azzardo, con un filo di voce, e Seppel osservò: — Sono vicini, sono vicinissimi.

— Come facciamo a sapere cosa dovremmo fare? — chiese Onice.

Azver parlò nel silenzio che seguì la domanda. — Una volta, quando era qui con me nel Bosco immanente, l’arcimago mio signore mi disse che aveva trascorso la vita imparando a decidere il da farsi in situazioni in cui non doveva decidere nulla perché non aveva scelta e non poteva agire che in un solo modo.

— Vorrei che lui fosse qui, adesso — disse Onice.

— Ha finito di agire — mormorò il portinaio, sorridendo.

— Ma noi, no. Sediamo qui a parlare sull’orlo del precipizio… lo sappiamo tutti. — Onice guardò le loro facce illuminate dalla luce delle stelle. — Cosa vogliono i morti da noi?

— Cosa vogliono da noi i draghi? — disse Azzardo. — Queste donne che sono draghi, questi draghi che sono donne… perché sono qui? Possiamo fidarci di loro?

— Abbiamo scelta? — chiese il portinaio.

— Non penso — rispose lo strutturatore. Una nota tagliente era affiorata nella sua voce, tagliente come una lama. — Possiamo solo seguire.

— Seguire i draghi? — domandò Azzardo.

Azver scosse il capo. — Alder.

— Ma lui non è una guida! — sbottò l’altro. — Dovremmo seguire un riparatore di campagna?

Onice disse: — Alder è saggio… ma la sua saggezza è nelle mani, non nella testa. Lui segue il suo cuore. Sicuramente, non cerca di guidarci.

— Eppure è stato scelto tra tutti noi.

— Chi lo ha scelto? — chiese sommesso Seppel.

Lo strutturatore rispose: — I morti.

Rimasero in silenzio. Il trillo dei grilli era cessato. Due alte figure avanzarono verso di loro, attraversando la distesa di erba tinta di grigio dalla luce delle stelle.

— Brando e io possiamo sederci un poco con voi? — chiese Lebannen. — Questa notte, non è possibile dormire.


Seduto sul gradino della porta della casa sull’Overfell, Ged osservava la volta celeste sopra il mare. Più o meno un’ora prima, era rientrato per dormire, ma chiudendo gli occhi aveva visto il fianco della collina e udito le voci che si levavano come un’onda. Si era alzato subito ed era uscito, dove poteva vedere le stelle che si muovevano.

Era stanco. Gli si chiudevano gli occhi, e un istante dopo si ritrovava là accanto al muro di pietra, il cuore raggelato dal terrore di rimanere in quel luogo per sempre, senza conoscere la via del ritorno. Alla fine, spazientito e stanco di avere paura, si alzò di nuovo, andò in casa a prendere una lanterna, l’accese, e s’incamminò sul sentiero che conduceva alla casa di Muschio. Chissà, forse Muschio era spaventata, o forse no; viveva molto vicino al muro, in quei giorni. Ma Erica doveva essere in preda al panico, e Muschio probabilmente non era in grado di calmarla. E dal momento che, qualunque cosa bisognasse fare, lui non poteva fare nulla questa volta, almeno avrebbe potuto consolare la povera stolta. Le avrebbe raccontato che erano solo sogni.

Era arduo procedere al buio; la lanterna proiettava sul sentiero grandi ombre di piccole cose. Ged camminava più lentamente di quanto non gli aggradasse, inciampando a volte.

Vide una luce nella casa del vedovo, malgrado l’ora tarda. Un bambino gemette, nel villaggio. — Mamma, mamma, perché la gente piange? Chi è la gente che piange, mamma? — Nemmeno là dormivano. Quella notte, dovevano essere ben pochi quelli che riuscivano a dormire in tutto il mondo di Earthsea, rifletté. Sorrise un po’, a quel pensiero: gli era sempre piaciuta quella pausa, quella pausa spaventosa, l’attimo prima che le cose cambiassero.


Alder si svegliò. Era steso a terra e ne sentiva la profondità sotto di sé. Sopra di lui le stelle ardevano vivide, le stelle dell’estate, che si muovevano tra le foglie agli sbuffi del vento, che si spostavano da est a Ovest con la rotazione del mondo. Le osservò per un po’ prima di abbandonarle.

Tehanu lo aspettava sulla collina.

— Cosa dobbiamo fare, Hara? — gli chiese.

— Dobbiamo riparare il mondo — rispose lui. Sorrise, perché finalmente aveva il cuore allegro. — Dobbiamo abbattere il muro.

— Loro possono aiutarci? — chiese la ragazza, perché i morti si erano radunati e attendevano in basso nell’oscurità, innumerevoli come fili d’erba o stelle o granelli di sabbia, silenziosi adesso, una grande spiaggia tenebrosa di anime.

— No — disse Alder. — Ma forse può aiutarci qualcun altro. — Scese il pendio fino al muro, che lì era alto poco più della cintola. Mise le mani su una delle pietre della parte superiore del muro e provò a muoverla. Era fissata saldamente, o era più pesante di una pietra normale; non riuscì a sollevarla, non riuscì a spostarla minimamente.

Tehanu gli si affiancò. — Aiutami — disse lui. Lei mise le mani sulla pietra, la mano sana e quella bruciata, stringendola come meglio poteva, e diede uno strattone verso l’alto insieme ad Alder. La pietra si mosse un poco, poi ancora un po’. — Spingi! — disse Tehanu, e insieme la spostarono lentamente, facendola stridere sulla pietra sottostante, finché non cadde sul lato opposto del muro con un tonfo sordo.

La pietra successiva era più piccola; in due, riuscirono a rimuoverla e a sollevarla. La lasciarono cadere nella polvere dalla loro parte.

Un tremito percorse il terreno sotto i loro piedi, a quel punto. I sassi che riempivano gli interstizi produssero un forte crepitio. Con un lungo sospiro, la moltitudine di morti si avvicinò al muro.


Lo strutturatore si alzò all’improvviso e rimase in ascolto. Le foglie turbinavano in tutta la radura, gli alberi del Bosco immanente si piegavano e tremavano come se fossero investiti da violente raffiche di vento, ma non c’era il minimo alito.

— Ora avviene il cambiamento — disse Azver, e si allontanò dagli altri, addentrandosi nell’oscurità sotto gli alberi.

L’evocatore, il portinaio e Seppel si alzarono e lo seguirono, rapidi e silenziosi. Poi anche Azzardo e Onice gli andarono dietro, più lentamente.

Il re si drizzò; fece qualche passo nella direzione presa dagli altri, esitò, quindi attraversò frettolosamente la radura, andando verso la casa bassa di pietra e di zolle. — Irian — disse, chinandosi sulla soglia buia. — Irian, vuoi portarmi con te?

Lei uscì dalla casa; sorrideva, e sembrava circondata da un fulgore ardente. — Vieni allora… vieni, presto — gli disse, e gli prese la mano. La mano di Irian bruciava come un tizzone, quando sollevò Lebannen e lo portò nell’altro vento.

Poco dopo, Seserakh uscì dalla casa e si fermò alla luce delle stelle, seguita da Tenar. Si guardarono intorno. Non si muoveva più nulla; gli alberi erano ancora immobili.

— Sono andati tutti — sussurrò la principessa. — Sul Sentiero dei draghi.

Fece un passo avanti, scrutando le tenebre.

— Cosa dobbiamo fare, Tenar?

— Dobbiamo custodire la casa — rispose lei.

— Oh! — mormorò la giovane, cadendo in ginocchio. Aveva visto Lebannen steso vicino alla porta, a faccia in giù nell’erba. — Non è morto… non credo… Oh, mio caro signore re, non andare, non morire!

— È con loro. Tu rimani con lui. Tienilo caldo. Custodisci la casa, Seserakh — disse Tenar. Andò accanto ad Alder, che giaceva a terra con gli occhi ciechi rivolti alle stelle. Si sedette vicino a lui, prendendogli la mano. E attese.


Alder non era certo in grado di spostare la grande pietra su cui aveva posato le mani, ma l’evocatore era al suo fianco, chino con la spalla contro la pietra, e disse: — Ora! — Insieme, spinsero finché il masso, sbilanciato, non cadde con lo stesso tonfo conclusivo dalla parte opposta del muro.

Adesso c’erano degli altri, lì con lui e Tehanu, e davano strappi alle pietre, le gettavano al suolo. Per un attimo, lo stregone vide apparire l’ombra delle proprie mani in un bagliore rosso. Orm Irian, come la prima volta che l’aveva vista, in sembianza di grande drago, aveva emesso una fiatata di fuoco mentre si sforzava di smuovere un masso della fila inferiore, conficcato in profondità nel terreno. I suoi artigli fecero sprizzare scintille, il suo dorso irto di aculei s’inarcò, e il masso si staccò e rotolò via, aprendo una breccia nel muro, in quel punto.

Dalle ombre sull’altro lato, si levò un grido molteplice, sommesso, simile al rumore del mare su una sponda incavata. La loro massa scura si slanciò verso il muro. Alder alzò lo sguardo e vide che l’oscurità stava scomparendo. Una luce si muoveva in quel cielo dove le stelle non si erano mai mosse, rapide scintille di fuoco in lontanaza, a Ovest.

— Kalessin!

Era la voce di Tehanu. Alder la guardò. La giovane stava scrutando in alto, verso Ovest. Non le interessava la terra.

Alzò le braccia. Un fuoco le scorse lungo le mani, le braccia, nei capelli, sulla faccia e sul corpo, formando due grandi ali sopra il capo, e sollevandola nell’aria, una splendida creatura fiammeggiante.

Lei lanciò un grido, un grido chiaro, che non era nessuna parola. Volò alta, impetuosa, veloce, salendo nel cielo dove la luce stava crescendo e un vento bianco aveva cancellato le stelle insignificanti.

Dalle schiere dei morti, qui e là, alcuni, come lei, avvamparono e si tramutarono in draghi, e si librarono in volo, montando sul vento.

I più avanzarono a piedi. Non si accalcavano, non gridavano adesso, ma camminavano sicuri e senza fretta verso gli squarci nel muro: grandi moltitudini di uomini e donne, che una volta giunti al muro demolito non esitavano, lo oltrepassavano e sparivano… un filo di polvere, un alito che brillava un istante nella luce sempre più intensa.

Alder li osservò. Teneva ancora in mano, dimenticato, un sasso di riempimento che aveva staccato dal muro per smuovere una pietra più grossa. Osservò i morti che si liberavano. E finalmente la vide in mezzo a loro. Allora gettò il sasso e le andò incontro. — Giglio — disse. Lei lo vide e sorrise e gli tese la mano. Lui la prese, e insieme superarono la barriera che li separava dalla luce del sole.

In piedi accanto al muro diroccato, Lebannen osservò l’alba che rischiarava l’Est. C’era un Est, adesso, dove prima non esisteva alcuna direzione, alcuna via da prendere. C’erano Est e Ovest, luce e movimento. La terra stessa si muoveva, tremava, si scuoteva come un grande animale, e il muro di pietra, nei punti in cui non lo avevano abbattuto, vibrò e si sbriciolò. Del fuoco si sprigionò dai lontani picchi neri delle montagne chiamate Dolore, il fuoco che ardeva nel cuore del mondo, il fuoco che nutriva i draghi.

Lebannen guardò il cielo sopra quelle montagne e vide — come avevano visto una volta lui e Ged sul mare occidentale — i draghi che volavano sul vento del mattino.

Tre di essi vennero volteggiando verso di lui, che si trovava con gli altri vicino alla cresta della collina, sopra il muro diroccato. Il re ne riconobbe due: Orm Irian e Kalessin. Il terzo aveva una corazza lucente, dorata, con ali d’oro. Era quello che volava più alto, e non si abbassò verso il gruppo. Orm Irian svolazzò giocosa attorno all’amica, poi si allontanarono, inseguendosi, salendo sempre più, finché tutt’a un tratto i raggi più alti del sole nascente colpirono Tehanu, che brillò come il proprio nome, una grande stella sfolgorante.

Kalessin volteggiò ancora, si abbassò, e si posò imponente tra le rovine del muro.

Agni Lebannen - disse il drago al re.

— Anziano — disse il re al drago.

Aissadan verw nadannan - disse la poderosa voce sibilante, simile a un mare di cembali.

Piantato saldamente accanto al re, Brando l’evocatore di Roke ripeté le parole del drago nella Lingua della creazione, poi le pronunciò in hardico: — Ciò che è stato diviso è diviso.

Lo strutturatore era vicino a loro, i capelli lucenti nel chiarore crescente del giorno. Disse: — Ciò che è stato costruito è infranto. Ciò che è stato infranto è ripristinato.

Poi guardò con struggimento il cielo, il drago d’oro e quello rosso-bronzeo; ormai si scorgevano a stento, erano molto lontani, volteggiavano in ampi cerchi sopra la lunga distesa digradante, dove città fantasma deserte si dissolvevano alla luce del giorno.

— Anziano — disse, e la lunga testa tornò a girarsi lentamente verso di lui.

— Qualche volta, lei seguirà la via del ritorno attraverso la foresta? — chiese Azver nella lingua dei draghi.

I grandi occhi gialli insondabili di Kalessin lo fissarono. L’enorme bocca sembrava, come la bocca delle lucertole, chiusa in un sorriso. Non parlò.

Poi, trascinando pesantemente la propria mole lungo il muro e facendo cadere e scivolare sotto il ventre ferreo le pietre ancora in piedi, Kalessin contorcendosi si allontanò da loro, e con uno slancio e un fragore di ali spiegate, si staccò dal fianco della collina e volò basso verso le montagne, i cui picchi adesso erano coperti di fumo e di vapore bianco, e brillavano lambiti dal fuoco e dal sole.

— Venite, amici — disse la voce sommessa di Seppel. — Per noi non è ancora il momento di andare liberi.


Il sole illuminava il cielo sopra la chioma degli alberi più alti, ma nella radura c’era ancora il grigio gelido dell’alba. Tenar sedeva con la mano posata su quella di Alder, il capo chino. Guardò la fredda rugiada che imperlava uno stelo d’erba, il disegno di quelle goccioline così minuscole e delicate, che riflettevano tutto il mondo.

Qualcuno pronunciò il suo nome. Lei non alzò lo sguardo.

— È andato — disse.

Lo strutturatore le si inginocchiò accanto. Toccò con dolcezza il volto di Alder.

Rimase un poco in silenzio. Poi disse alla donna, nella sua lingua: — Mia signora, ho visto Tehanu. Vola splendente sull’altro vento.

Lei lo guardò. Era pallido ed esausto, ma nei suoi occhi c’era un’ombra di giubilo.

Fece uno sforzo, poi, brusca, la voce quasi impercettibile, disse: — Sana e salva?

Lui annuì.

Tenar accarezzò la mano di Alder, la mano del riparatore, bella, abile. Le vennero le lacrime agli occhi.

— Lasciami stare con lui per un po’ — disse, e cominciò a piangere. Si coprì il viso e versò lacrime copiose, amare, silenziose.


Azver andò dal gruppetto vicino alla porta della casa. Onice e Azzardo erano accanto all’evocatore, che stava, massiccio e ansioso, accanto alla principessa. Lei era accovacciata vicino a Lebannen, le braccia stese sul suo corpo, lo proteggeva, non voleva che nessuno dei maghi lo toccasse. Le lampeggiavano gli occhi. In una mano stringeva il pugnale d’acciaio del sovrano.

— Sono tornato con lui — disse Brando ad Azver. — Ho cercato di stare con lui. Non ero sicuro della via. La principessa non vuole che mi avvicini a lui.

Ganai - disse Azver, il titolo della giovane in hardico, "principessa".

Lei si voltò di scatto. — Oh, sia ringraziato Atwah-Wuluah e sia lodata la Madre per sempre! — strillò. — Signore Azver! Manda via questi maledetti-stregoni. Uccidili! Hanno ucciso il mio re. — Gli porse il pugnale, tenendolo per la sottile lama d’acciaio.

— No, principessa. Lui è andato con il drago Irian. Ma questo stregone lo ha riportato da noi. Lascia che lo veda. — Lo strutturatore s’inginocchiò, e girò leggermente il volto di Lebannen per osservarlo meglio, poi gli posò le mani sul petto. — È freddo — disse. — È stato un ritorno arduo… Prendilo tra le braccia, principessa. Scaldalo.

— Ho provato — disse lei, mordendosi un labbro. Gettò a terra il pugnale e si chinò sull’uomo privo di sensi. — Oh, povero re! — mormorò in hardico. — Caro, povero re!

Azver si alzò e disse all’evocatore: — Penso che si rimetterà, Brando. Adesso, lei è molto più utile di noi.

L’evocatore allungò la grossa mano e strinse il braccio dello strutturatore. — Adesso riposati — disse.

— Il portinaio — disse l’altro, diventando ancor più pallido e guardandosi attorno.

— È tornato con il mago pelnico — disse Brando. — Siediti, Azver.

Lui obbedì, sedendosi sul ceppo occupato dal vecchio cambiatore quando si erano disposti in cerchio il pomeriggio prima. Sembrava fossero trascorsi mille anni. I vecchi erano tornati alla scuola, la sera… E poi era iniziata la lunga notte, la notte che aveva portato il muro di pietra così vicino che dormire equivaleva a trovarsi là, e trovarsi là era terrificante, così nessuno si era addormentato. Nessuno, forse, in tutta Roke, in tutte le isole… Solo Alder, che li aveva preceduti e guidati… Azver si accorse che stava sonnecchiando e tremava.

Azzardo cercò di farlo entrare nella casa di pietra e di zolle, ma lo strutturatore insisté che doveva rimanere accanto alla principessa, per farle da interprete. E vicino a Tenar, pensò, senza dirlo, per proteggerla. Per lasciare che si rattristasse. Ma Alder aveva finito di affliggersi. Aveva passato a lei la propria afflizione. A tutti loro. La sua gioia…

L’erborista arrivò dalla scuola e colmò di premure Azver, gli mise sulle spalle un mantello invernale. Quello rimase seduto a dormicchiare, stremato e febbricitante, senza badare agli altri, vagamente irritato dalla presenza di tante persone nel dolce silenzio della sua radura, osservando la luce del sole che calava lentamente tra le foglie. La sua veglia fu ricompensata quando la principessa andò da lui, gli si inginocchiò di fronte, guardandolo in viso con sollecitudine e rispetto, e gli disse: — Signore, il re desidera parlarti.

Lo aiutò ad alzarsi, come se fosse un vecchio. Lui non se ne curò. — Grazie, gainha - disse.

— Non sono regina — replicò la giovane, con una risata.

— Lo sarai — disse lo strutturatore.


C’era l’alta marea del plenilunio, e la Delfino dovette attendere la stanca per superare le scogliere di Armed Cliff. Tenar non sbarcò nel porto di Gont fino a metà mattina, e poi dovette percorrere il lungo tragitto in salita. Era quasi il tramonto quando attraversò Re Albi e imboccò il sentiero sulla scogliera che conduceva a casa.

Ged stava innaffiando i cavoli, ben cresciuti ormai.

Si drizzò e guardò la moglie che si avvicinava, con occhi di sparviero, corrugando la fronte. — Ah — disse.

— Oh, mio caro — disse lei. E affrettò il passo, mentre il marito le andava incontro.


Era stanca. Era contentissima di sedere con lui con un bicchiere di buon vino rosso di Scintilla e osservare la sera dell’inizio dell’autunno accendersi d’oro su tutto il mare occidentale.

— Come faccio a raccontarti tutto? — disse.

— Raccontalo al contrario — rispose Ged.

— D’accordo. Lo farò. Volevano che restassi, ma io ho detto che volevo tornare a casa. Ma c’è stata una riunione del consiglio, sai, una riunione del Consiglio reale, per il fidanzamento. Ci sarà un matrimonio sontuoso e via dicendo, naturalmente, ma non penso di dover andare. Perché loro in realtà si sono sposati allora. Con l’Anello di Elfarran. Il nostro anello.

Ged la guardò e sorrise, l’ampio sorriso dolce che soltanto lei aveva visto sul suo viso… almeno, così pensava lei, forse a torto, forse a ragione.

— Sì? — fece il marito.

— Lebannen è entrato e si è fermato alla mia sinistra, e poi Seserakh è entrata e si è fermata alla mia destra. Davanti al trono di Morred. E io ho alzato l’anello. Come ho fatto quando lo abbiamo portato a Havnor, ricordi? Sulla nave, facendolo brillare al sole? Il re lo ha preso, lo ha baciato, e me lo ha restituito. E io l’ho messo al braccio di Seserakh… non le è arrivato che al polso… Non è una donna piccola. Oh, dovresti vederla, Ged! Che splendida creatura è, che leonessa! Lebannen ha trovato pane per i suoi denti… E tutti hanno acclamato. E ci sono stati festeggiamenti, e via dicendo. E così io sono potuta partire.

— Continua.

— Al contrario?

— Al contrario.

— Bene. Prima di quell’evento ci sono stati gli avvenimenti di Roke.

— Roke non è mai semplice.

— No.

Bevvero il vino rosso in silenzio.

— Parlami dello strutturatore.

Tenar sorrise. — Seserakh lo chiama il guerriero. Dice che solo un guerriero può innamorarsi di un drago.

— Chi lo ha seguito nella terra desolata, quella notte?

— Lui ha seguito Alder.

— Ah! — esclamò Ged, sorpreso, e con una certa soddisfazione.

— E lo hanno seguito anche altri maestri. E Lebannen, e Irian…

— E Tehanu.

Silenzio.

— È uscita dalla casa. Quando sono andata fuori, lei era scomparsa. — Un lungo silenzio. — Azver l’ha vista. Nella luce dell’alba. Sull’altro vento…

Silenzio.

— Sono scomparsi tutti. Non ci sono più draghi a Havnor o nelle isole occidentali. Onice ha detto: come quel luogo d’ombra e tutte le ombre che lo popolavano si sono ricongiunti al mondo della luce, così i draghi hanno riacquistato il loro vero regno.

— Abbiamo rotto il mondo per renderlo integro — fece Ged.

Dopo una lunga pausa, Tenar mormorò: — Lo strutturatore pensa che Irian tornerà nel Bosco immanente, se lui la chiamerà.

Il marito parlò solo dopo un’altra pausa. — Guarda là, Tenar.

Lei guardò nella direzione in cui lui stava guardando, la distesa d’aria ormai buia sopra il mare occidentale.

— Se lei verrà, arriverà da là — disse l’uomo. — E se non verrà, sarà là.

La moglie annuì. — Lo so. — Aveva gli occhi colmi di lacrime. — Lebannen mi ha cantato una canzone, sulla nave, mentre stavamo tornando a Havnor. — Lei non sapeva cantare e ne sussurrò le parole: — Oh, mio gaudio, va’ in libertà…

Ged spostò lo sguardo verso le foreste, la montagna, le alture su cui stava scendendo l’oscurità.

— Raccontami… — disse Tenar. — Raccontami cos’hai fatto mentre io ero via.

— Ho badato alla casa.

— Hai passeggiato nella foresta?

— Non ancora — rispose il marito.

FINE
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