C’erano due stazioni intermedie per arrivare a Nidenhaut, dove la ferrovia a cremagliera si arrestava in una stazione coperta, festonata di ghiaccioli. Avevano superato la linea delle nevi poche centinaia di metri dopo la seconda fermata: in mezz’ora erano saliti di seicento metri dal fondovalle, che a sua volta si trovava a trecento metri dal livello del mare. Douglas Poole trascinò la valigia sulla piattaforma, la portò oltre la barriera. Il riflesso del sole sulla neve l’abbagliava. Stava battendo le palpebre e, in un primo momento, non riuscì a vedere bene la persona che gli aveva rivolto la parola.
«Mr. Poole, vero? George Hamilton.»
La voce aveva la brusca sicurezza dell’accento di un ex militare della RAF. Una mano era tesa verso di lui, e Douglas la prese. La stretta era salda. Quando i suoi occhi si abituarono alla luce, vide che anche l’aspetto dell’uomo era in armonia con la voce e con la stretta di mano: un uomo magro, dalle ossa robuste, con il viso un po’ gonfio e i baffi ispidi, neri e spruzzati di bianco. Indossava calzoni da sciatore, una giacca a vento con cappuccio e un berretto d’astrakhan nero piazzato energicamente sulla testa.
«Sì,» disse. «Sono Poole. Non mi aspettavo che venisse a prendermi, comunque. Non avevo detto con che treno sarei arrivato.»
«Quasi tutti quelli che prendono l’aereo del mattino per Ginevra arrivano con questo. Per la verità, non sono venuto proprio a prendere lei. A bordo c’è della roba per noi… carne e verdure. Ci vorrà un quarto d’ora per scaricarla. Le va di prendere qualcosa, mentre aspettiamo?»
Douglas esitò un momento. Quando aveva guardato l’orologio, e il treno si stava fermando nella stazione, mancavano dieci minuti alle quattro. Dopotutto, pensò, era in vacanza.
«Benissimo,» disse.
Hamilton lo guidò, oltre un minibus Volkswagen con le catene alle ruote e uno spartineve ammaccato, verso il Buffet de la Gare. Douglas diede un’occhiata a Nidenhaut: un’unica strada fiancheggiata da edifici di legno, negozi, un paio d’alberghi. Il pendio della montagna continuava a salire, oltre il paesetto, fino ad una vetta nitida e bianca contro lo sfondo azzurro del cielo. Salirono alcuni gradini, e svoltarono a destra su di una terrazza piena di tavolini e di sedie: i tavolini erano sovrastati da ombrelloni con la pubblicità del Campari e della Pepsi Cola. La terrazza era affacciata sopra la ferrovia, e guardava i picchi meridionali, dall’altra parte della valle. Douglas riconobbe la cresta seghettata del Dent du Midi.
«Prende una birra?» Douglas annuì. Hamilton parlò a un cameriere, troppo rapidamente perché Douglas potesse seguirlo, con la sua conoscenza zoppicante del francese. «Niente male come panorama.»
«È imponente.»
«Qualche volta queste montagne fanno impazzire, ma in realtà sono bellissime. Com’è andato il suo volo?»
«Tranquillo.»
«Meglio. Io preferisco il treno e la nave. Gli altri mezzi mi fanno paura. Rimane con noi due settimane, esatto?»
«Sì.»
«Io non lo so mai; è Mandy che tiene i registri. Lei ha sciato molto?»
«Praticamente niente. Un paio di settimane durante il servizio militare. Eravamo di base in Austria. Da allora non ho più sciato.»
«Qui abbiamo diversi pendii facili. E ci sono altri principianti, così non sfigurerà troppo. Abbiamo della gente simpatica, in questo momento. Le piacerà.»
Douglas disse, educatamente: «Ne sono certo.»
Il cameriere portò da bere. Dalle montagne innevate scendeva una leggera brezza, ma al sole faceva caldo. La birra fu ben accolta. Era molto chiara, ma sorprendentemente forte.
«Fanno una birra robusta, da queste parti,» disse.
Hamilton sogghignò. «È meglio ancora con un bicchierino di cognac, non pensa? È un po’ leggera, da sola.»
«Be’,» fece Douglas. «Grazie per il consiglio.»
«Su allo chalet, noi ci teniamo molto a creare un’atmosfera familiare,» disse Hamilton. «Dato che ci sono solo pochi ospiti, e siamo molto isolati, in fondo è necessario. Le dico subito chi ci troverà. I Deeping, per cominciare. Lui è in affari… ha qualcosa a che fare con i tessuti. Hanno con loro un paio di bambini, ma non danno fastidio.»
Douglas scosse il capo. «A me i bambini piacciono.»
«Anche a me, purché si comportino bene. Comunque, i Deeping si fermeranno ancora per un paio di giorni. Poi ci sono i Grainger. Lui è un chirurgo: specialista di chirurgia plastica. Aggiusta i nasi, rialza seni cascanti. E ne è molto soddisfatto. La signora è molto cara. Poi ci sono due sorelle. Mrs. Winchmore e Miss Blackstone. Ma la signora è vedova. Molto simpatica, tranquilla. Ma la più giovane è piena di vita. Una bella compagnia, nel complesso.»
«Sì.»
Hamilton finì di bere e respirò pesantemente. «Come dicevo, ci teniamo a creare un’atmosfera familiare. Quasi sempre ci riusciamo.»
«Ne sono convinto, Mr. Hamilton.»
«George. George e Mandy.» Il sorriso era nel contempo gaio e perentorio. «Ci teniamo molto.»
«Ma certo. Io sono Douglas.»
Tra sé, aveva qualche dubbio su quel programma accelerato di familiarità; e per un momento si chiese se non era stato un errore venir lì. Si era arreso all’esigenza urgente di un periodo di riposo: ma avrebbe potuto scegliere qualcosa d’altro. Magari una crociera, a bordo di una grande nave, dove uno poteva sottrarsi alla gente, se lo desiderava. Ma ormai era lì. E doveva adattarsi.
«Bene,» disse Hamilton. «Ormai dovrebbero avere scaricato la roba. Se è pronto, possiamo andare.»
La velocità con cui Hamilton guidava il minibus con le catene sulla strada di neve, pensò Douglas, non era fatta per aggiustare le gomme. E neanche per dargli un senso di tranquillità. Appena fuori dal villaggio la strada, che era poco più di un sentiero, seguiva un dosso della montagna: non era mai molto ampia, e spesso era anche troppo stretta. Lo strapiombo era dalla parte di Hamilton: Douglas scorgeva di tanto in tanto il fondovalle, dove il Rodano, che lì era un ruscello minuscolo, scorreva tortuosamente tra i piccoli campi. Il pulmino sobbalzava, e Douglas si afferrò al bordo del sedile.
«Andare in su è uno scherzo,» spiegò allegramente Hamilton, «purché si affronti la salita con grinta. Il guaio è scendere. Un tale è volato nel precipizio, l’anno prima che venissimo qui noi. Tirarono fuori lui e la macchina da un burroncello, circa duecentocinquanta metri più sotto. L’identificazione fu piuttosto difficile per tutti e due.»
«Lei è qui da molto?»
«Tre anni.» Hamilton staccò una mano dal volante per battersela sul petto. «E da due anni i miei vecchi polmoni si sono ripuliti. Prima fischiavo come un flauto.»
La strada curvò di colpo, e nello stesso tempo si restrinse pericolosamente. Sulla strada c’era una sporgenza di roccia, sulla sinistra dei cartelli coperti di neve: poi, un vuoto agghiacciante. Douglas sentì la parte posteriore del pulmino scarrellare, quando i pneumatici, dietro, non morsero più il fondo stradale. Ma fu solo un momento. Hamilton corresse l’assetto con esperienza e sicurezza. Ma, pensò Douglas con un certo risentimento, non era venuto in vacanza in Svizzera solo per farsi spaventare a morte.
«Non può affrontare la salita con grinta andando un pochino più adagio?» chiese.
Hamilton non rispose subito. Era impegnatissimo a cambiare per affrontare un tratto di strada ancora più ripido. Quando l’ebbe superato, disse:
«Lì bisogna proprio correre. Altrimenti si rischia di restare bloccati, anche con le catene. Quella svolta è una maledetta scocciatura. Diciotto mesi fa ci fu una frana, e ci volle una settimana per sgombrarla. Ci è costato parecchio.»
«Quindi vivere tra le Alpi presenta qualche svantaggio.»
La strada cominciò a diventare quasi pianeggiante, e Hamilton rallentò.
«Parecchi,» disse. «Ormai siamo quasi arrivati.»
Svoltarono ad un’altra curva brusca, e Douglas vide la casa. Era nella parte alta di una conca che qualche remoto cataclisma geologico aveva scavato nel fianco della montagna. La strada vi saliva zigzagando: e non proseguiva più oltre.
«Siete proprio sistemati al capolinea, allora?» chiese Douglas.
«Durante l’inverno, sì. In estate, portano il bestiame al pascolo ancora più in alto. Ci sono due baracche di mandriani, e uno chalet privato. Adesso sono tutti chiusi, naturalmente.»
Era un tipico chalet svizzero, tutto in legno, con un’ampia terrazza al piano terreno e piccoli balconi ai due piani superiori. Da una parte c’era un paio d’altre costruzioni, e un enorme mucchio di tronchi tagliati tra quelle baracche e lo chalet. Da un paio di camini saliva il fumo, scuro contro il pendio candido che incorniciava la casa. Aveva un’aria solida, comoda e rassicurante. Su di un pendio molto dolce e facile, a un centinaio di metri dallo chalet, quattro persone stavano sciando. Douglas provò un senso di sollievo nel notare che andavano piuttosto male.
Il pulmino si fermò sferragliando davanti allo chalet, e Douglas vide che l’ingresso principale era da un lato, e più in alto. Immediatamente davanti a loro stava una specie di seminterrato: la casa sorgeva su un pendio. Mentre scendeva dal minibus, si aprì una porta, ed uscì un uomo magro, sulla sessantina, con un grembiule blu.
«Peter,» disse Hamilton. Pronunciò il nome alla tedesca. «Prendi il bagaglio di Mr. Poole.» Poi si rivolse a Douglas. «Venga, vediamo di farla scaldare un po’.»
Salirono i gradini di pietra, coperti di neve e cosparsi di sabbia. La porta principale era in cima alla scala: era di legno massiccio, fiancheggiata da finestre smerigliate. Dalla porta si accedeva in un piccolo atrio, poi c’era una seconda porta altrettanto massiccia. Hamilton l’aprì e fece segno a Douglas di passare. Il corridoio era semibuio, ma caldo e piacevolmente odoroso di spezie. Hamilton lo seguì.
«Mandy!» chiamò. «Un nuovo ospite. Vieni a registrarlo.»
Prima che venisse il momento di cenare, Douglas aveva imparato a orientarsi nello chalet e aveva appreso qualcosa sul conto della gente che vi si trovava. La sua stanza era una delle tre del primo piano, considerando l’ingresso come pianterreno: era simpatica, arredata semplicemente, dalle pareti a pannelli di pino cui erano appesi paesaggi di montagna. C’erano un lavabo, un termosifone, e una porta-finestra a doppi vetri che dava su uno dei balconcini che lui aveva visto dal basso. Il panorama era imponente. La casa guardava verso sud-ovest, verso i picchi dall’altra parte della valle. Hamilton gliene aveva indicati due, identificandoli come Grammont e Cornettes de Bise. Verso destra si scorgeva il lago, immobile, azzurro e lontano: Douglas aveva scorto uno dei battelli che andavano verso Ginevra.
Al pianterreno, immediatamente a destra dell’ingresso, c’era una saletta che fungeva sia da fumoir sia da bar. Poi c’erano il salotto e la sala da pranzo: da entrambi si accedeva alla terrazza. L’arredamento era sobrio, ma di buon gusto. In sala da pranzo c’era un lungo tavolo fratino di quercia, intorno al quale sedevano gli Hamilton ed i loro ospiti. Hamilton prese posto a capotavola, dalla parte del salotto, sua moglie di fronte a lui, all’estremità opposta. Douglas sedette tra due delle signore, Ruth Deeping ed Elizabeth Grainger. La prima aveva i capelli rossi e l’aria nervosa, il viso magro prematuramente segnato (Douglas calcolò che fosse verso la quarantina); ma quando sorrideva era attraente. Elizabeth Grainger, la moglie del chirurgo, era una rarità, una bellezza autentica. Era bruna, di statura superiore alla media, dai lineamenti incantevoli e ben armonizzati. Si muoveva con molta grazia, e con la sicurezza della donna che non ha mai dubitato del proprio aspetto, né dell’impressione che fa agli altri. Non parlava molto, ma aveva una voce limpida e ferma.
Proprio di fronte a lui c’era Leonard Deeping, e poi Jane Winchmore, la vedova. Deeping era sui quarantacinque anni: robusto, con le guance cascanti, i capelli brizzolati, pettinati in un’onda ben curata. Si vestiva con un gusto meticoloso: si era cambiato per la cena, e portava un abito blu scuro a quadretti, con un panciotto di seta rossa. Sebbene vivesse e svolgesse la sua attività a Londra, aveva uno spiccato accento settentrionale… probabilmente del Lancashire. Un po’ noioso, pensò Douglas, e aveva un po’ il tipo dell’imbroglione.
Jane Winchmore era rimasta vedova presto: poteva avere trent’anni al massimo. La cosa più bella, in lei, erano i capelli, folti, serici, dorati e tagliati e corti: ma aveva lineamenti che si accompagnavano bene a quei capelli: zigomi alti, alla slava, bocca generosa. Quando sorrideva, mostrava i denti bellissimi. Ma non sorrideva molto. Dava l’impressione di ascoltare un’altra conversazione, di osservare un’altra scena.
Sua sorella, seduta tra Deeping e Hamilton, era completamente diversa nell’aspetto e nei modi. Era più sottile, bruna, e a Douglas ricordava le fotografie della principessa Margaret giovane. Aveva due splendidi occhi azzurri, e sapeva come servirsene. Era molto più giovane della sorella, anzi era la più giovane dei presenti, e chiacchierava continuamente. Deeping ed Hamilton si disputavano amabilmente la sua attenzione. Lei aveva l’aria di apprezzarlo, ma Douglas notò che, una volta o due, lei aveva lanciato un’occhiata di sottecchi nella sua direzione. Una ragazza, pensò, senza dubbio riluttante ad ammettere che qualcuno potesse averne abbastanza di qualcosa di bello.
Infine c’era Selby Grainger, il chirurgo. Sedeva alla destra di Mandy Hamilton. Sembrava magro, in confronto alla moglie statuaria, ma era un po’ più alto di lei. Aveva un volto magro, mobile, soprattutto delicato. Aveva all’incirca l’età di Deeping, ma i suoi modi erano più giovanili e disinvolti. Parlava gesticolando: aveva mani più fini e delicate di quanto si immaginano abitualmente le mani di un chirurgo. Ma era uno specialista di chirurgia plastica, si rammentò Douglas: non aveva bisogno, presumibilmente, della stessa forza bruta. Era intelligente, estroverso, dotato di un fascino che sapeva benissimo come usare.
La cena, che a quanto pareva era stata preparata da Mandy Hamilton in persona, venne servita dalla camerierina svizzera-francese, Marie, che insieme al vecchio Peter costituiva tutto il personale domestico. Era una cena gradevole, senza essere eccezionale: una densa crema di verdure, seguita da un arrosto e una torta di mirtilli con gelato. Mandy era stata una specie di sorpresa. Douglas non si aspettava che un uomo tipicamente inglese come Hamilton avesse una moglie americana. Era più giovane di lui di pochi anni: era stata bella, ma i suoi lineamenti cominciavano a involgarirsi. Ma la sua voce era bassa, calda, con un accento gradevole.
Il caffè venne servito in salotto, ampio, dalle pareti a pannelli di pino come le altre stanze e ben fornito di comode poltrone. La porta sul terrazzo era chiusa, le tende tirate. In un angolo c’era un pianoforte a mezza coda, in un altro un radiogrammofono. C’era anche la presa per l’antenna della televisione ma, come notò con soddisfazione Douglas, il televisore non c’era. Attese che gli altri si fossero seduti ai loro posti abituali e si scelse una poltrona alla periferia del gruppo. Hamilton, che era uscito a sbrigare qualche incombenza, rientrò poco dopo che Marie aveva portato il caffè, e sedette accanto a lui.
«Le è piaciuto il rancio?» chiese.
«Moltissimo.»
La conferma venne accettata come dovuta. Hamilton annuì.
«La migliore cuoca che abbia mai conosciuta. Qui è sprecata. Cos’ha intenzione di fare, stasera?»
«Niente di particolare.»
«Non ci sono molti svaghi serali, da queste parti, naturalmente: ma al villaggio c’è un locale dove si può bere e ballare. Quello che chiamano ballare, al giorno d’oggi. L’ho chiesto perché di solito io non vado, ma il vecchio minibus è a disposizione degli ospiti che vogliono andare.»
Douglas ricordò il tragitto d’andata… e lo aveva fatto di giorno.
«Credo di no. Comunque, grazie.»
«I Grainger scendono, e Diana va con loro. Non sapevo se lei teneva ad accompagnarli, per fare un quartetto.»
Douglas, per un attimo, provò un estremo risentimento. Non poteva decentemente rifiutare di fare da scorta alla ragazza, e intuiva che Hamilton, sapendolo, stava sforzandogli la mano. Ma doveva esserci un limite anche all’abitudine di trattare gli ospiti come membri della famiglia. Rispose, un po’ seccato:
«In tal caso, sarà naturalmente un piacere.»
«Solo se se la sente, però,» disse Hamilton. «Se ci va, non credo che vedrà la ragazza per più di dieci minuti dopo essere arrivato al villaggio. Si è già trovata due corteggiatori del posto.»
Hamilton sorrideva maliziosamente. Douglas disse, sollevato: «Allora io…»
«Lasci perdere. Se resta qui… Jane preferisce leggere in santa pace. I Deeping giocano a bridge, e Mandy e io di solito giochiamo con loro. Mandy sarà felice di cederle il posto, se lei se la sente… con tutto quello che ha da fare, vede.»
«Credo che preferirei leggere anch’io. Almeno questa sera.»
«Bene,» disse allegramente Hamilton. «Vuole qualcosa, con il caffè?»
«Un brandy andrebbe bene.»
«Subito.»
Quando i Grainger e Diana furono usciti, venne preparato il tavolo da bridge. Douglas rimase con Jane Winchmore. Aveva portato giù un libro, ma non poteva cominciare decentemente a leggere prima che incominciasse la giovane vedova. Lei, probabilmente, la pensava allo stesso modo. Si misero a parlare, un po’ impacciati.
Lei aveva vissuto nell’Oxfordshire fino alla morte del marito; poi aveva venduto la casa, e da allora viveva in albergo. Era stata la sorella a convincerla a venire lì in vacanza. Diana avrebbe preferito St. Moritz, e poi si erano accordate su Nidenhaut. Era stata raccomandata agli Hamilton dagli amici di un’amica.
«Io ho visto la pubblicità,» disse Douglas, «in un settimanale. Volevo cambiar aria, ma all’estero mi trovo un po’ sperso, così l’idea di una pensione all’inglese mi ha attirato.»
«Sì.» Vi fu una pausa: ritornò l’impaccio. «E che attività svolge, Mr. Poole?»
«Faccio l’avvocato,» rispose lui. «Ho uno studio a Winchester. Poole, Stephens Willoughby, ma non si lasci ingannare dal fatto che il mio cognome viene per primo. Il primo Poole era mio zio.»
«Le interessa la giurisprudenza?»
«Credo di sì. Non ci ho mai pensato molto. Sono entrato nello studio legale appena uscito dall’università, e non l’ho più lasciato.» Esitò. «Sono soddisfatto, direi.»
Era una risposta abbastanza sincera, pensò. Il suo lavoro gli piaceva, ed era stato un rifugio, per lui. Almeno fino agli ultimi tempi. E se adesso non lo era più tanto, la colpa non era del lavoro. Sarebbe stato così in ogni caso.
Poco dopo, Jane Winchmore si scusò, dicendosi molto stanca, e Douglas poté cominciare a leggere il suo libro. Una donna simpatica, pensò, e posata: aveva interrotto con molto garbo una conversazione inutile. Tuttavia, il pretesto poteva essere valido: aveva davvero l’aria stanca. Con distaccata simpatia, si augurò che dormisse bene, che non fosse anche lei vittima delle lunghe ore vuote della notte.
Quando si svegliò guardò l’orologio, e il quadrante fluorescente gli disse che mancava poco alle tre. Era perfettamente sveglio e sapeva, in base all’esperienza passata, che lo attendevano ore d’insonnia. Accese la lampada sul comodino. La stanza era diversa nei dettagli, ma era la stessa cella solitaria che si era lasciato alle spalle. Il quadro ad olio del Matterhorn, visto per la prima volta il pomeriggio precedente, era già noiosamente familiare.
C’era un caldo quasi soffocante, con le finestre chiuse e il termosifone al massimo. Infilò la vestaglia, aprì la porta-finestra e uscì sul balconcino. Non c’era vento, ma il freddo era pungente. La luna era assente dal cielo, ma la luce delle stelle scintillava viva sulla neve. Gli pareva quasi di scorgere i pendii delle montagne dall’altra parte della valle, ma probabilmente era un’illusione ottica. Lontano, in basso a destra, si vedeva un gruppo di luci. Un villaggio, probabilmente, ma dove? Forse in riva al lago. L’avrebbe identificato l’indomani.
Era troppo freddo per rimanere fuori; rientrò, chiudendo la finestra. Notò, con una certa preoccupazione, che il segnalibro non era molto lontano dalla fine del volume. Ne aveva con sé altri due, ma doveva andarci piano, fino a quando avesse scoperto che cosa c’era da leggere, lassù. Aveva pensato di portare altri libri, ma quell’idea gli era sembrata una debolezza, come prendere l’ombrello quando ci si sente dire che sarà una bellissima giornata, e si desidera disperatamente crederlo.
Douglas tornò a letto e prese il libro dal comodino.
Si assopì verso le sei. Si svegliò, intontito, quando gli portarono il tè alle otto, e poi tornò a svegliarsi alle nove e un quarto: il tè era freddo, coperto dalla spuma del latte. Ricordò che la colazione veniva servita fino alle nove e un quarto, salvo accordi diversi. Non aveva molto voglia di mangiare, ma ci teneva ad adeguarsi agli orari della pensione, soprattutto dato che c’era così poco personale. Si lavò in fretta, si pettinò, e scese in vestaglia. A tavola c’era solo Jane Winchmore.
«Buongiorno,» fece lui. «Avevo detto che ci saremmo visti a colazione, ma sono arrivato proprio all’ultimo momento.»
Jane sorrise. «Gli altri sono tutti fuori, a rinvigorirsi nella neve. Purtroppo io sono pigra. E ho l’abitudine di perdere molto tempo a tavola.»
Entrò Mandy Hamilton e gli chiese se preferiva il porridge, i fiocchi di granturco o il succo di frutta, e se dopo gli sarebbero andate bene le uova con il bacon. Douglas si accorse improvvisamente di aver appetito, molto appetito, e chiese il porridge.
Jane Winchmore tirò fuori una sigaretta. «Le dà fastidio? Posso andare in salotto.»
«No, resti, la prego.» Douglas cercò l’accendino, tastandosi le tasche vuote della vestaglia. «Purtroppo, non posso farla accendere.»
«Non importa: ho un accendino io.»
Accese maldestramente la sigaretta; Douglas ebbe l’impressione che non avesse più fumato da molto tempo.
«Sa se gli Hamilton hanno una specie di biblioteca?» le chiese. «Credo di non aver portato abbastanza libri.»
«Ecco là.»
Jane indicò il salotto attraverso la porta comunicante. Contro una delle pareti c’era un grosso scaffale. La sera prima, lui si era seduto proprio di fronte, ma inspiegabilmente non l’aveva notato.
Si mise a ridere. «Devo essere cieco.»
Jane disse: «Un assortimento variato, naturalmente. Ma se resta a corto di letture, ho qualche libro in camera mia. Purtroppo sono solo romanzi.»
«Non mi dispiacciono. Anche se preferisco le biografie.»
«Si,» fece lei, riflettendo. «L’avevo immaginato.»
Lei si scusò quando arrivarono le uova con il bacon. Douglas mangiò parecchio, e finì con pane tostato e marmellata d’arance, poi andò a vestirsi e a farsi la barba con un senso piacevole di sazietà. Quando ridiscese, incontrò Hamilton in fondo alla scala: era vestito da sciatore, e aveva in testa un passamontagna. Il suo volto era acceso per lo sforzo fisico.
«Ce l’ha fatta, allora!» esclamò. «Bene. Già fatto colazione?»
«Sì, grazie.»
«Molto bene. Allora muoviamoci.»
Hamilton lo aiutò a prepararsi, poi lo condusse fuori.
«Non bisogna sprecare una mattinata come questa,» disse. Era magnifica, infatti, senza più neppure le nubi sparse del giorno precedente. Azzurro e bianco luminosi e abbaglianti, e le chiazze verdi dei prati, molto più in basso. «Il barometro non è molto promettente.»
«Brutto tempo in arrivo? Sembra bello stabile.»
Hamilton alzò le spalle. «Un altro po’ di neve non andrebbe male. Quest’anno ce n’è molto meno del solito.»
Fornì a Douglas qualche indicazione elementare, e lasciò che si arrangiasse da solo, tornando di tanto in tanto a indicargli gli errori e ad offrirgli incoraggiamento. E dell’incoraggiamento Douglas aveva molto bisogno: nel pomeriggio stava ancora tentando corsette elementari nella piccola conca davanti alla casa, e continuava a cadere il più delle volte. Dopo un’ora rinunciò a questo secondo tentativo, andò a fare il bagno e a cambiarsi, poi sedette sulla terrazza a prendere il sole e ad osservare gli altri.
Hamilton aveva condotto i Grainger e Diana al villaggio, quella mattina, perché di là potevano arrivare a una delle piste attrezzate con lo ski-lift. I Deeping e Jane avevano preferito fare i loro capitomboli in un relativo isolamento, nei pressi dello chalet: comunque, erano molto più bravi di lui. E i piccoli Deeping imparavano bene. Avevano rispettivamente otto e dieci anni, Andy e Stephen. Il primo era minuto, sveglio, vispo e loquace, l’altro più tranquillo e chiuso, fisicamente più grande, più di quanto ci si potesse aspettare dai due anni di differenza: era bruno e grezzo quanto l’altro era biondo ed esile. Ad un certo punto, durante una discussione, Douglas vide che il bambino più piccolo faceva lo sgambetto al fratello: poi rotolarono nella neve, azzuffandosi. Il fatto che Ruth Deeping, la quale non aveva assistito alla prima fase dell’incidente, se la prendesse immediatamente con il maggiore, confermò l’impressione che avesse un debole per il secondogenito. Poiché lui stesso, da piccolo, si era sempre visto preferire la sorella, Douglas simpatizzò con Stephen.
All’ora del tè, venne bloccato da Leonard Deeping, il quale gli fece domande interminabili sul suo lavoro, dove viveva e così via, senza mostrarsi affatto turbato dalla concisione delle risposte. Parlava con voce lenta, meticolosamente articolata, e l’accento consciamente solido del settentrionale franco e onesto. Quando si stancò di interrogare Douglas, cominciò a parlare di se stesso, un argomento che evidentemente lo interessava assai di più. Dirigeva la sede londinese di un’azienda tessile del Lancashire, ma Douglas aveva l’impressione che si occupasse anche di qualcosa d’altro. Comunque, Deeping ammise apertamente che negli ultimi anni se l’era cavata bene. Pensava di ritirarsi presto; possibilmente in un posto dove le tasse fossero meno alte. Aveva in mente l’isola di Man, poiché era di quelle parti, ma sua moglie avrebbe preferito una località più calda. Forse lo Jersey. Douglas lo ascoltò senza badargli troppo, guardando le lontane vette innevate, dall’altra parte della valle. Intorno ai picchi si stavano raccogliendo le nubi, bianche e fioccose, ma molto dense. Il maltempo che aveva preannunciato Hamilton, presumibilmente.
Prendendo una ciambella imburrata, Deeping disse:
«George e Mandy sono pieni di premure. Secondo me è uno spreco di danaro andare in un posto di lusso, soprattutto con i bambini. Si paga per i saloni e le sale di scrittura e le orchestre, e tante altre cose che poi non si sfruttano. È inutile buttare il danaro dalla finestra.»
«Già.»
«Come la scuola. Per esempio, io avrei potuto permettermi di pagare per tutti e due i ragazzi, ma dovrebbero ottenere delle borse di studio. Con un po’ di lezioni private, dovrebbero farcela… per questo non mi dispiace pagare. E Ruth non sopporterebbe che fossero via a studiare.»
Ruth Deeping era seduta in fondo alla terrazza. I due bambini le stavano accanto, ma Andy le era più vicino: le stava appoggiato contro le gambe. Deeping disse:
«Anche i Grainger hanno due figli, sa. Un maschio e una femmina. Tutti e due in convitto.» E scosse il capo. «No, credo che Ruth non lo sopporterebbe.»
«Ma i suoi figli non dovrebbero essere a scuola?» chiese Douglas.
Deeping sorrise, strizzando l’occhio. «Viaggio d’istruzione. Be’, non lo è, forse? Conosco il loro direttore. Saremmo dovuti partire per le vacanze di Natale, ma avevo in piedi un affare che non potevo rimandare. E potrei dire che è servito a pagarci la vacanza.»
«Ah, complimenti,» disse educatamente Douglas; e Deeping accettò quel tributo con un cenno del capo.
Hamilton scese al villaggio con il minibus per riprendere i tre sciatori, un po’ prima delle sei. Nel frattempo, le nubi si erano raccolte da questa parte della valle, e si era levato un vento gelido e tagliente. Il paesaggio divenne cupo e minaccioso nell’addensarsi del crepuscolo. Ma nello chalet c’era un’atmosfera gaia, con le tende ben chiuse e i ceppi che ardevano nel camino del salotto. Lì c’era Deeping, ma se ne stava zitto, a meditare sulla pagina finanziaria del Daily Telegraph che Hamilton aveva portato dalla prima corsa al villaggio. Jane Winchmore, come Douglas, stava leggendo un libro, mentre Ruth Deeping era salita per fare il bagno ai bambini. Douglas si sentiva piacevolmente stanco e sereno. Con un po’ di fortuna, pensò, quella notte avrebbe dormito bene.
Gli altri, tornando da Nidenhaut, portarono la notizia che aveva incominciato a nevicare. Grainger si accostò al fuoco, stropicciandosi le mani. «Finalmente un po’ di calduccio.» Si raddrizzò e guardò Douglas sorridendo: «Com’è andata, oggi?»
«Alzate e cadute. Bilancio in parità, ma abbondante.»
Grainger sorrise. «Sì, è una brutta fase. Molto lesiva per l’ego. L’alcol è il balsamo più adatto per le ferite spirituali. Mi è parso di sentire George che apriva il bar.» Diede un’occhiata alla moglie. «Tu prendi qualcosa, tesoro?»
Lei scosse il capo lentamente: non per riluttanza, pensò Douglas, ma perché tutti i suoi movimenti erano lenti e aggraziati. Lei disse:
«Salgo a fare il bagno e a cambiarmi.»
«Diana, Jane? Abbiamo giusto il tempo per bere qualcosa, di fretta.»
La più giovane delle due donne stava per lasciarsi convincere, ma la sorella rifiutò a nome di entrambe e la condusse via. Grainger guardò Douglas, scrollando le spalle.
«Be’, restiamo noi.» Non badò a Deeping, ancora immerso nel Listino di Chiusura della Borsa. «Spero di convincere almeno lei.»
Nella saletta accanto, Hamilton era dietro al bar; si era già preparato un abbondante whisky e soda. Mentre versava da bere agli altri, disse:
«Prende il minibus per scendere al villaggio stasera, Selby?»
In quella stanza, le tende non erano state chiuse. Grainger guardò dalla finestra: la neve cadeva fitta e turbinante nel vento. Alzò il bicchiere.
«Salute. No, a meno che il tempo migliori molto in fretta.»
«Sarebbe un colpo di fortuna,» gli disse Hamilton. «Dia un’occhiata al barometro. Si è messo al brutto stabile.»
«In tal caso, giocheremo a dadi.» Grainger sbadigliò. «Posso far benissimo a meno di ballare. Oggi mi sono già mosso abbastanza.»
Prima che fosse pronta la cena, il vento ululava intorno allo chalet, e Hamilton riferì che la neve cominciava ad ammucchiarsi contro la porta principale. Non c’era neppure da pensare di scendere a Nidenhaut: finché durava la tempesta di neve, erano isolati lì. Non era un pensiero sgradevole. Erano al caldo e al riparo, ben forniti di viveri e bevande. Il rumore del vento sembrava sottolineare il loro comfort.
I Deeping proposero di nuovo il bridge, e Mandy Hamilton e Jane accettarono di giocare con loro. Douglas si lasciò convincere da Grainger a giocare ai Dadi Bugiardi, un gioco che non conosceva. Aveva avuto intenzione di smettere presto per andare a letto, ma il suo tentativo di sganciarsi, quando le partite di bridge finirono alle dieci e mezzo, venne fermamente frustrato da Grainger.
«Non può piantare tutto a questo punto, Douglas. Proprio dopo aver vinto l’ultimo piatto.»
Smisero di giocare un po’ prima della una, e solo perché Elizabeth Grainger insistette. In camera sua, Douglas pensò che si era goduto la serata, aveva bevuto molto whisky ma non troppo, ed era pronto a dormire. La stanchezza ritornò, in un’ondata avvolgente. Si tolse i vestiti e li drappeggiò non troppo ordinatamente sulla sedia. Fuori il vento urlava, e di tanto in tanto scuoteva le sue finestre: ma quasi fiaccamente. Non sarebbe bastato a tenerlo sveglio. Infilò il pigiama, si mise a letto, e si addormentò quasi immediatamente.
E non fu il vento che lo svegliò. Si accorse di essere già sveglio da un po’ di tempo, quando notò il costante, profondo ruggito della tempesta. Guardò l’orologio. Le quattro e mezzo. Con una differenza di sei ore, erano le dieci e mezzo. Non era l’ora di andare a letto, per la moglie di un funzionario del ministero del Commercio Estero britannico a New York. Che cosa stava facendo? Ballava? Era a teatro? A cena? E con chi? Con Robert… o con qualche sconosciuto? Un americano. Forse un latino-americano. Una volta aveva detto, scherzando, che i sudamericani l’affascinavano. Ma gli scherzi, come tutto il resto, avevano finito per diventare amari. Forse sorrideva, socchiudendo lievemente gli occhi. Douglas si rigirò inquieto nel letto. Le barriere si erano di nuovo abbassate, e il passato riaffluiva.
Dopo essersi lavata e spazzolati i capelli e puliti i denti, Mandy Hamilton s’inginocchiò accanto al letto e recitò le preghiere. Era l’unica osservanza religiosa che le rimaneva. La chiesa più vicina che avrebbe avuto un significato per lei si trovava a Montreux, e un viaggio fin laggiù, già abbastanza difficile in ogni caso, era fuori questione quando avevano ospiti allo chalet.
Le sue devozioni assunsero la forma abituale. Un Padre Nostro, e poi una preghiera a Dio perché avesse cura di coloro che lei aveva conosciuto nella sua vita ed aveva amato. Prima i figli, il dolore immutato. Una volta aveva cercato di vederli mentalmente come dovevano essere in realtà: ma adesso non ci provava più. Cambiavano tanto a quell’età, e così in fretta. Johnny, che allora aveva cinque anni, adesso ne aveva tredici, le bambine erano diventate giovani donne. Perciò pregava per loro com’erano quando li aveva visti l’ultima volta: Johnny con il vestito blu, la faccia arrossata, i capelli biondi scompigliati, Lois e Annette nei grembiuli gialli dalle tasche rosse, i capelli bruni pettinati con cura nelle treccine, gli occhi perplessi, insicuri. Oh, Dio, pensò, fa’ che siano felici.
E John, dolorosamente ferito nonostante la sua corazza di indulgenza… che la ferita si fosse rimarginata, dimenticata. Che fosse felice con la nuova moglie, di cui aveva visto la faccia, una volta, su una rivista: ovale, con le labbra sottili, molto graziosa. Le donne di John gli facevano sempre onore. Fai che i bambini le vogliano bene, ti prego, mio Dio, e che lei voglia bene a loro. Pregò per sua madre, al sole della Florida, e per suo padre morto. Per tutti i morti: i suoi due fratelli, caduti in guerra, per nonno e nonna Hardy. Ricordando loro, ricordava tante cose. La casa di Cape Cod, le lunghe estati con le nuotate e le gite in barca, gli inverni con il toboga, i giorni della certezza di essere al sicuro da tutto, e sentirsi dire che era bella.
Il vento, scuotendo la casa, disturbò le sue fantasticherie. Recitò il secondo Padre Nostro e andò a letto. Si raggomitolò, e pensò a George, alla sua sorpresa quando aveva scoperto che lei diceva le preghiere prima di andare a letto, alla sua gioia e alla sua tenerezza. Era stato tanto tempo fa: ma lui le era affezionato, e lei a lui. Sperava che non restasse alzato fino a tardi a giocare a dadi. Si stancava senza rendersene conto.
Si addormentò e dormì profondamente; non si accorse quando George venne a letto, e si svegliò alle sei e mezzo. Rimase distesa nel buio, ascoltando il vento che infuriava ancora e il respiro pesante di suo marito, accanto a lei. Era sempre quello il momento più difficile, il momento che sarebbe diventato infelicità, se lei lo avesse permesso. Sopra la sua testa, lontano e debole, udì lo squillo della sveglia di Marie. Premette l’interruttore della lampadina del comodino, ma non accadde nulla. Una valvola saltata, probabilmente. Scostò le coperte, buttò i piedi giù dal letto, e frugò al buio nel comodino. La bottiglia era al suo posto, con il bicchiere accanto. Versò, calcolando vagamente il quantitativo, e rimise il tappo. Poi bevve in fretta il gin bruciante, sentendone il calore nella gola, nello stomaco. L’ansia si allontanò da lei. Aveva bevuto il solito sorso, e nel bicchiere ce n’era ancora un po’. Ma non l’aveva fatto apposta, si disse: non aveva potuto vedere quanto ne versava. Bevve il resto e si sentì meglio, molto meglio.
Fuori si sentirono dei passi, e poi la voce sommessa di Marie.
«Madame»
Mandy andò alla porta, l’aprì.
«Sì?»
«Non c’è la luce, madame.»
«Lo so. Tu hai una lampada tascabile, no?»
«Non riesco a trovarla.»
Mandy sospirò, esasperata. Quella ragazza era abbastanza intelligente, volonterosa e lavoratrice, ma era irrimediabilmente distratta. Andò al cassetto della toeletta, trovò la sua torcia elettrica e la portò all’uscio.
«Prendi questa, e cerca la tua. E di’ a Peter di andare giù a controllare le valvole.»
Quando Marie se ne fu andata, trovò le pantofole e la vestaglia. Sedette sull’orlo del letto. Non poteva fare molto, finché non aveva una luce. Restò lì per molto tempo, ad ascoltare la tempesta, prima di cercare la bottiglia. Stette attenta a versare il gin nel bicchiere. Solo un pochino… ma forse più di così. Non ne aveva quasi versato. Rimise il tappo, e spinse con fermezza la bottiglia in fondo al comodino. Bevve a sorsi, razionandosi il liquore. Solo quando sentì che Marie ritornava buttò giù il resto in un sorso.
Marie disse: «La sua lampada, madame.»
«Dov’era la tua?»
«Sotto al letto.»
«Hai avvertito Peter?»
«Sì, madame. È sceso a vedere le valvole.»
«Allora vestiti. Ci vediamo giù.»
Il letto cigolò, mentre George si girava. Lui disse, assonnato:
«Cosa c’è? È successo qualcosa?»
«Solo le valvole. Dormi pure.»
George non le rispose: probabilmente si era già riaddormentato. Per non disturbarlo più, si portò i vestiti in bagno, mise ritta la lampada tascabile, in modo che il soffitto riflettesse un po’ di luce, e fece il bagno in fretta. Si vestì in quella strana mezza luce, e scese in cucina. Anche Marie aveva posato ritta la sua lampada, e aveva un’aria desolata.
«La lampada a paraffina,» disse Mandy. «Vai a tirarne fuori una, e accendila. Non startene lì a far niente.»
Mentre scendeva l’ultima rampa di scale, verso la cantina, Mandy si sentiva un po’ stordita. Si sarebbe sentita meglio dopo il caffè, e decise che quella mattina avrebbe mangiato qualche toast. Quando ci si alzava senza luce, e con una tempesta che infuriava fuori, erano necessarie certe concessioni.
Chiamò Peter, dai piedi della scala:
«Non ha ancora trovato il guasto?»
«No.» Il vecchio si girò verso di lei, e la luce della torcia elettrica investì le rughe del volto, la linea dura del mento. «Non è qui. Ho controllato anche le valvole centrali. Deve essere interrotta la linea, là fuori.»
«Mio Dio, ci mancava anche questa.»
«Si è sentito un rumore, stanotte. Una valanga, credo.»
«Io non l’ho sentita. Senta, tiri fuori tutte le lampade dal magazzino e le accenda. Abbiamo cherosene in abbondanza, no? Marie può metterne una in ogni stanza quando porta il tè, e le altre le sistemeremo dove saranno più utili.» Fece un rapido elenco. «Il vento è ancora fortissimo. La corrente non tornerà fino a che il tempo non si sarà schiarito. Anche se è un guasto di poco conto, non lo ripareranno di certo adesso. C’è abbastanza legna in casa?»
«Sì,» fece Peter, «penserò io a tutto.»
Marie aveva acceso in cucina una lampada al cherosene, che faceva apparire la situazione un po’ più rosea. La cucina a combustibile solido era già pronta; Mary accostò un fiammifero alla carta e ascoltò il rombo consolante della combustione. Diede un’occhiata all’orologio della cucina. Le sette e cinque. Avrebbero avuto tutti il tè alle otto, e la colazione, se la volevano, dalle otto e mezzo in poi.
Questo significava una lunga attesa, per il suo caffè e il suo toast. Pensò di andare al bar a bere un goccio e poi, accantonando quel pensiero, cominciò a occuparsi del lavoro che c’era da fare.
Come Mandy aveva immaginato, gli altri trovarono piuttosto eccitante la cosa. I Grainger, come al solito, furono i primi ospiti a scendere e si misero a tavola con George, che aveva già attaccato le uova al bacon. Lui li salutò e disse:
«Non potrete sciare molto, stamattina. E neanche questo pomeriggio, direi. Comunque, non al villaggio. Anche se si schiarisce, non credo che ce la faremmo a passare con il minibus.»
«Un giorno di riposo mi farà bene,» disse Grainger. Guardò il piatto di George. «Colazione! Era questo che mi preoccupava. Pensavo che cucinaste con l’elettricità.»
«Abbiamo una stufa a carburante solido, di riserva,» disse Mandy.
«Che donna meravigliosa!» Grainger avanzò a passo di valzer verso di lei, con esuberanza, e le diede allegramente un bacio sulla guancia. «Brava la nostra Mandy!»
Lei accettò l’omaggio, sorridendo. Aveva osservato a sufficienza il modo di fare di Grainger, nei cinque giorni da lui passati allo chalet, per farsene un’opinione precisa: non era un donnaiolo, ma un uomo decisamente leggero con le donne. La castità di quel saluto era un omaggio ai suoi anni, non alla sua virtù. Disse:
«I toast saranno un po’ zebrati. Abbiamo dovuto improvvisare una forchetta per tostarli.»
«Dei toast fatti sul fuoco!» esclamò Grainger. «Il mio posso prepararmelo da solo?»
Mandy scosse il capo. «Darebbe fastidio a Marie, e questa mattina abbiamo già tanta confusione.»
«E la lampada alla paraffina,» continuò Grainger. «Non ne ho più vista una da quand’ero bambino. Le tenevano nel cottage del giardiniere. Io le adoperavo per fare i toast, davanti al fuoco. Avevano una forchetta, che Kendall aveva fabbricato con del robusto filo di rame. Io mi sedevo sul tappeto davanti al camino. Era uno di quelli fatti di pezzi di stracci… tutti colori diversi. A motivi vivaci.»
Elizabeth Grainger disse: «La solita nostalgia, stamattina, dura più del solito.»
George cominciò a imburrare il suo toast. «Capisco quello che vuol dire,» osservò. «Il tappeto di stracci e tutto il resto. Ma non era nel cottage del giardiniere. Io ci vivevo in mezzo, con mia nonna. E le lampade, francamente, erano una grande scocciatura… uno dei miei compiti era scorciare gli stoppini.»
Sorrideva e, notò Mandy, osservava i Grainger. Era uno dei suoi trucchi. Gli piaceva vedere se riusciva a provocare una reazione: trovava divertente soprattutto l’imbarazzo. Come al solito, provò un senso di calore. Era stato in un’occasione del genere che George le era apparso per la prima volta come un tipo diverso.
Grainger ricambiò imperturbabile il sorriso. «Mrs. Kendall mi lasciava scorciare gli stoppini delle sue lampade. Devo dire che io mi divertivo. Ma immagino che i lavori cui si è costretti non siano mai divertenti.»
I Deeping scesero, e Mandy andò in cucina a organizzare le altre colazioni. Peter aveva spazzato via la neve dalla porta d’ingresso. Rientrò soffregandosi le mani, e Mandy gli versò del caffè.
«Il tempo promette di schiarirsi?» gli chiese.
«Il vento soffia meno forte.» Tenne la tazza fra le mani per scaldarle. «Avevo ragione, a proposito della valanga. Una piccola slavina, circa trecento metri più a ovest.»
Mandy annuì, poi pensò a quello che lui aveva detto.
«A ovest? Ma allora non può essere la causa del guasto alla linea elettrica.»
Peter si strinse nelle spalle. «Forse c’è stata un’altra slavina, tra qui e il villaggio.»
George entrò in cucina, accendendo una sigaretta. Ne offrì una a lei, ma Mandy scosse il capo. Lui disse:
«Qualcuno ha già provato a telefonare?»
«Non ci avevo pensato.»
«Faccio io.»
Quando George tornò, disse: «Niente da fare. Siamo completamente isolati.»
Mandy disse: «Dovremo far passare il tempo ai bambini. Dirò a Marie di sgombrare la sala da pranzo, subito dopo la colazione, e così potranno giocare lì.»
«Bene,» disse George. Prese una tazza e si versò il caffè. «Andrò a fare una ricognizione non appena il tempo migliora.»
La tempesta continuò per tutta la mattina, pur diminuendo d’intensità. Fino a quel momento non c’era segno di noia da parte degli ospiti: sembravano accontentarsi di leggere o di parlare, o di guardare la neve che cadeva. Mandy si adattò facilmente alla stufa a combustibile solido. Come portata principale preparò una casserôle di bue, con grano dolce e patate. Era un po’ a corto di verdure: quel giorno avrebbero dovuto andare a far provviste a Nidenhaut. C’erano in tutto tre cavoli, un paio di grossi cavolfiori, e circa tre chili di carote nella dispensa. D’altra parte, c’era una buona scorta di verdure in scatola. Comunque, non c’era motivo di preoccuparsi. Domani, probabilmente, avrebbero potuto andare a Nidenhaut.
Durante il pranzo smise di nevicare, e il vento si attenuò molto. George dichiarò che aveva intenzione di uscire a dare un’occhiata in giro.
Stavano prendendo il caffè in salotto. Ruth Deeping chiese:
«Prende la macchina?»
Rispose suo marito, in tono amabilmente sprezzante: «Con un metro e ottanta di neve contro la porta del garage? Non so neppure come farebbe a trovare la strada.»
«Oh, come sono stata sciocca,» fece lei. «Non ci avevo pensato.»
Grainger cambiò discorso, togliendola dall’imbarazzo: «Ha intenzione di scendere con gli sci, George?»
«Sì.»
«Fino al villaggio?»
«Se riesco a farcela.»
«E per tornare?»
«Tornerò a piedi, se sarà necessario,» disse George. «Un po’ di moto non può farmi male.»
Grainger disse: «Questo mi fa passare la voglia di offrirmi d’accompagnarla. Risalire fin qui da Nidenhaut, a me, farebbe male parecchio.»
Diana si alzò e si avvicinò inquieta alla finestra.
«Si sta schiarendo davvero,» disse. «C’è uno squarcio tra le nuvole.»
Grainger si alzò, le andò accanto. «Dove? Io non lo vedo.»
«Ecco là. Guardi.» Diana si appoggiò a lui, mentre tendeva la mano, osservò Mandy. Come era tutto assurdo, e così triste. «Un grosso squarcio.»
«Questa ragazza ha ragione,» disse Grainger. «C’è abbastanza azzurro da farne un bikini. O almeno mezzo bikini. Prendiamo gli sci e facciamo un po’ di slalom sul posto, mentre George si avventura in cerca di aiuto tra le nevi sconfinate.»
Mandy prese il caffè solo quando ebbero finito di sparecchiare e lei ebbe visto Marie già abbastanza avanti con la lavatura dei piatti. Mentre il caffè filtrava, sgattaiolò nel bar. Non c’era nessuno; dalla finestra si vedevano i bambini dei Deeping che trascinavano un luge su per il pendio. Aprì la credenza, si versò in fretta un gin in un bicchiere da medicinali che aveva portato, rimise a posto la bottiglia e chiuse di nuovo a chiave. Poi, ora che non aveva più bisogno di affrettarsi, portò il bicchiere accanto alla finestra e guardò fuori, senza assaggiarlo ancora.
Gli altri stavano sciando, più lontano. Riconobbe i Deeping, i Grainger e Diana Blackstone, e Douglas Poole. Jane Winchmore non si vedeva: doveva essere salita in camera sua. Sorseggiò il gin e provò un’ondata di affetto per tutti, per tutti gli esseri umani, sia che volassero altissimi come uccelli, sia che scivolassero e precipitassero nel ridicolo e nell’umiliazione. In fondo, anche uno come Leonard Deeping non era cattivo. Conoscere un po’ era comprendere un po’; comprendere un po’ era perdonare tutto. Sorrise dei propri pensieri. Oh, figlia mia, si disse, stai diventando filosofa. Buttò giù il resto del gin, si infilò il bicchiere nella tasca del grembiule e andò a prendere il caffè.
Il salotto era deserto. Era piacevole trovarlo vuoto, per un momento, e starci da sola, in pace. Accostò una poltrona alla finestra, prese un poggiapiedi, mise il caffè sul tavolo accanto, e sedette, con un libro in mano. Di tanto in tanto alzava gli occhi dalle pagine ai lunghi pendii innevati e alle vette lontane. Poi, una volta, alzando lo sguardo, fu stupita nel vedere una figura che saliva faticosamente: era George che tornava indietro. Diede un’occhiata all’orologio. Era partito non più di tre quarti d’ora prima.
Mandy gli andò incontro alla porta. George si sganciò gli sci, li mise nella rastrelliera, si grattò via la neve dagli scarponi.
«Come va?» chiese lei.
«Mezza montagna non c’è più.»
«All’angolo?»
«Sì.»
«Non c’è modo di passare?»
«No, a meno di essere un alpinista, e bisognerebbe andarci in cordata, per poter passare.»
«Allora siamo isolati.»
«Su questo non c’è dubbio, cara mia.»
«Per quanto tempo, secondo te?»
Geroge alzò le spalle. «Ci vorranno due o tre giorni di lavoro per sgombrare la strada, a dir poco. E forse non potranno cominciare subito.»
«E perché?»
«Be’, non mi stupirei se avessero avuto i guai loro, al villaggio. La montagna si è data una bella scrollata, in un modo o nell’altro. Voglio dire, ci sono due slavine, a quanto ne so io… più in giù potrebbero essercene altre.»
«E allora cosa facciamo?»
George sogghignò, all’improvviso. «Hai una sigaretta?» Mandy gliela diede. «Cosa facciamo? Ce ne stiamo qui buoni e aspettiamo. Non possiamo fare altro, no? Come stiamo a viveri?»
«Non troppo male.» Mandy ci pensò sopra. «Comunque, posso dare da mangiare a tutti per una settimana. Roba in scatola, però.»
«E lo Scotch durerà ancora di più. Peccato che i Deeping avrebbero dovuto ripartire domani.»
Mandy aveva acceso la sigaretta di George, e adesso accese la sua.
«Perché?»
«Perché Leonard, se non mi sbaglio, sosterrà che il contratto comprende anche il trasporto fino a Nidenhaut. In caso di inadempienza…» George prese a imitare l’accento settentrionale di Deeping: «Ritengo che siamo stati trattenuti contro la nostra volontà, e di conseguenza ritengo che non le dobbiamo nulla per la pensione di questi giorni, anzi penso che abbiamo il diritto di chiedere i danni.»
Mandy rise. «È capacissimo di dirlo. Ce la faranno a riaprire la strada entro una settimana? Ne sei sicuro? Non dovremo cominciare a razionare i viveri, o qualcosa del genere?»
«Niente razionamenti,» disse lui. «A Nidenhaut lo sanno che abbiamo viveri, in caso d’emergenza. Se dovesse durare a lungo, chiamerebbero un elicottero, per farci lanciare qualche cassa di provviste. Siamo nel novecentosettanta e passa, tesoro. Non dovremo tirare a sorte per decidere chi deve essere mangiato dagli altri.»
«Allora non c’è da preoccuparsi?»
«Be’, dovrai preoccuparti di farli contenti con la roba in scatola.» George le passò un braccio intorno alle spalle: un normale gesto di affetto, ma lei sentì che le comunicava forza e sicurezza. «Fatti coraggio, cara: ma se c’è qualcuno che può riuscirci, quella sei tu. Sai che ti dico? Andiamo a berci un goccetto, prima che arrivi l’orda affamata per il tè.»
Mandy protestò: «A quest’ora?»
George le sorrise, e lei pensò che era da sciocca fingere. Lui doveva sapere, almeno, della bottiglia che teneva nascosta nel comodino, e probabilmente non gli era sfuggito che il livello delle bottiglie, nel bar, continuava a calare. Gli appoggiò la testa contro il mento.
«Qualcosa da bere mi andrebbe bene,» ammise.
Uno degli svantaggi rappresentati dai bambini è che la sera bisogna preparare un pasto apposta per loro. Quella sera, Mandy fece i maccheroni al formaggio: li avevano già mangiati altre volte, e li avevano graditi. E di maccheroni e formaggio c’era una buona scorta, in dispensa. Almeno, con i bambini Deeping, non doveva sovrintendere al pasto, oltre a prepararlo. Ruth Deeping era con loro. Mandy le porto una tazza di tè, e lei sorrise, riconoscente.
«Ne avevo proprio bisogno. Grazie, Mandy.»
Stephen, che dei due era quello che mangiava più in fretta, aveva già finito i maccheroni al formaggio.
«Posso avere un po’ di pane e marmellata?» chiese.
«Si dice per favore, caro,» fece sua madre.
«Per favore.»
Mandy disse a Ruth Deeping: «Il pane è una delle cose con cui dovremo stare attenti… non si sa mai. Può bastare una fetta a testa? Se hanno ancora fame, ci sono altri maccheroni.»
«Certo,» disse Ruth Deeping, «possono fare a meno del pane.»
Andy depose la forchetta. «Vorrei un po’ di pane e marmellata,» disse. Alzò gli occhi verso Mandy, con un sorriso tranquillo. «Posso, per favore?»
Ruth Deeping disse: «Forse può dargli la fetta di cui parlava prima?»
Mandy disse: «Certo. Vado a prenderle.»
Quando rientrò, i bambini avevano ricominciato a fare ipotesi sul tempo che avrebbero dovuto probabilmente passare isolati dal resto del mondo.
Stephen disse: «Più di una settimana, forse. Due settimane.»
«Un mese,» disse Andy.
«Sei settimane,» disse Stephen. «E così non andremo più a scuola, per quest’anno.»
La madre disse: «Non preoccupatevi, sarete di nuovo a scuola all’inizio della settimana prossima.»
«Lei che ne dice, Mrs. Hamilton?» chiese Andy.
Aveva l’abitudine di inclinare la testa da una parte quando faceva una domanda, un gesto interrogativo e intento che, in un bambino che si rivolgeva ad un adulto, era quasi impertinente.
Mandy disse: «Credo che tua madre abbia ragione, Andy. Rientrerete con un ritardo di un paio di giorni al massimo.»
«La Svizzera,» disse lui. «Mi piace stare qui.» Non distolse lo sguardo dalla faccia di lei e sorrise. «Grazie per il pane e marmellata. Ribes nero? Mi piace tanto il ribes nero.»
Nei suoi modi, pensò Mandy, c’era qualcosa di stranamente accattivante. Come se avesse un disprezzo generalizzato per il mondo degli adulti, ma te ne esentasse. Era interessante, come lo erano di rado i bambini della sua età, e naturalmente era fisicamente più bello del fratello maggiore. Si chiese se lo avrebbe preferito, se quei bambini fossero stati suoi, come faceva così apertamente Ruth Deeping. Io non avevo preferenze per i miei, pensò… li ho abbandonati tutti.
Stephen stava affrontando pane e marmellata, mangiando prima la crosta tutto intorno. Ruth Deeping disse:
«Mangia da persona educata, Stephen.»
«Preferisco tenere per ultima la parte centrale.»
Lei disse, severamente: «Fai come ti dico.» E come se sentisse il bisogno di spiegarsi, disse a Mandy: «Se lo lasciassi, farebbe così con tutto. È importante che imparino a comportarsi bene a tavola. Non le pare?»
«Sì, penso di sì,» disse Mandy.
Andy mangiava decorosamente, seduto a dovere, con i gomiti stretti. Anche questo poteva spiegare la differenza: uno che bisognava controllare continuamente, e un altro che non aveva bisogno di richiami. Mandy vide Andy strizzare l’occhio al fratello, un gesto amichevole e cospiratorio, ma che non escludeva una certa consapevolezza di superiorità. C’erano tante ingiustizie nella vita, pensò Mandy. Bisognava abituarcisi: e ci si abituava.
Per cena, Mandy servì prosciutto al forno, che venne accolto con entusiasmo. Poi, come avevano fatto la sera prima, giocarono a bridge e a dadi, e anche stavolta la partita a dadi durò più degli incontri di bridge. Mandy andò a letto alle dieci e mezzo. Tutto andava bene, pensò… meglio di quanto aveva previsto. Fino a quel momento non c’erano state difficoltà, né attriti dovuti al fatto di essere chiusi lì tutti insieme. Prese la bottiglia e misurò con cura il bicchierino finale: era importante non esagerare. Poi si lavò, si pettinò, e s’inginocchiò per recitare le preghiere.
Un uomo pieno di dedizione, pensò Selby Grainger, avrebbe cominciato a preoccuparsi del possibile ritardo nel rientrare al lavoro. Si stiracchiò, si abbandonò sulla poltrona, con un lieve grugnito di soddisfazione. La dedizione, nel suo campo, aveva un suono leggermente comico… tranne, forse, in tempo di guerra. Quel giorno, ogni settimana, che lui dedicava all’Ospedale Pediatrico era più che compensato dai quattro giorni alla Clinica, soprattutto finanziariamente. Riconsiderò pigramente il suo elenco. Mrs. Enderby… i seni. Nathan, Levi e Moncrieff… i nasi. Juliet Minchin… una voglia. Quest’ultima era anche l’unica che gli avrebbe dato, probabilmente, una soddisfazione personale. I seni, per quanto la paziente potesse essere fiera del miglioramento, di solito non venivano esibiti in pubblico, e solo di rado era contento dei nasi. Sarebbe stato necessario rimodellare tutto il volto per ottenere un risultato veramente buono: di solito, il nuovo naso gli sembrava fuori posto, per quanto ne fosse soddisfatto il cliente. Ma una voglia era un’altra cosa. Togliere quella brutta chiazza dal viso della ragazza sarebbe stato uno dei lavori più soddisfacenti.
Prese il caffè, che Mandy aveva appena portato. Anche per quella non c’era fretta. La piccola Juliet se l’era portata addosso per ventisette anni, e qualche giorno di più non avrebbe fatto una grande differenza. La zia che, morendo, le aveva lasciato quel paio di migliaia di sterline che l’avevano portata alla Clinica… per il resto della vita, la ragazza avrebbe benedetto il suo nome. Ma aveva lasciato quasi ventimila sterline al nipote che stava in Rhodesia, e da quando aveva finito la scuola la piccola Juliet aveva assistito la cara zietta, le aveva fatto continuamente compagnia, e aveva tenuto la testa inclinata da una parte per nascondere l’orrenda guancia destra. Lui l’avrebbe liberata da quella grossa voglia: ma era pronto a scommettere che, anche da vecchia, Juliet avrebbe continuato a guardare il mondo con l’occhio sinistro.
Era inutile continuare a pensare alle brutture della vita, quando non si poteva far niente per rimediare. Selby Grainger bevve il caffè e guardò la neve. Il cielo si era schiarito: poche nubi tondeggianti erano raccolte intorno alle vette, dall’altra parte della valle, ma tutto il resto era di un intenso azzurro. Bellissimo. Era contento di essere venuto lì, nonostante le sue resistenze iniziali. Aveva pensato a Marrakesh o, se proprio doveva essere la Svizzera, qualche posto più vivace. Ma a Elizabeth avevano consigliato gli Hamilton: le era piaciuta l’idea di un’enclave inglese nelle Alpi e, come sempre, lei stava attenta alle spese. Se dovevano andare in Grecia verso la fine dell’estate, non potevano permettersi di scialacquare per le vacanze invernali. Era un argomento difficile da contestare, soprattutto perché sapeva benissimo qual era la vera ragione per cui voleva andare in un posto più allegro, e temeva che anche Elizabeth se ne rendesse conto. Eppure adesso se ne stava lì, pensò sodisfatto, con un tempo meraviglioso, isolato dal mondo, con quella graziosa creatura dai capelli neri seduta accanto a lui. Certo, con Elizabeth dall’altra parte, ma questo non gli dispiaceva. Il fatto che Elizabeth fosse bellissima, mentre la piccola Blackstone era soltanto graziosa, gli dava una particolare sensazione d’orgoglio. E c’era tempo, tutto il tempo che voleva.
La sua posizione nei confronti di Elizabeth era ideale, pensò. Lei sapeva che il marito guardava volentieri una faccia o una figura graziosa e, conscia della propria superiorità, non se ne preoccupava. Sapeva che flirtava con le donne, e la cosa la divertiva. Sapeva anche che nessuna avrebbe mai potuto prendere il suo posto. Tutto questo era vero. Quel che non sapeva, e che Selby Grainger era deciso a non farle sapere mai, era che qualche volta i flirt assumevano una piega più intima. Lui aveva bisogno di quelle piccole avventure, dopo le quali tornava da Elizabeth più innamorato e ammirato che mai: ma non superava mai i limiti della discrezione. Perciò le avventure non avvenivano mai con le amiche di Elizabeth anche se, Dio lo sapeva, le occasioni non mancavano: e stava attento al tipo di ragazza che sceglieva. La sorella di Diana, per esempio, sebbene in realtà la preferisse, l’aveva esclusa quasi subito. Una giovane vedova era promettente: ma quella aveva un’aria troppo seria perché lui fosse disposto a rischiare.
No, era Diana che gli interessava. Era pronto a scommettere che non era vergine; d’altra parte, non era neppure una ragazza facile. Nei confronti della vita aveva un atteggiamento spensierato e, a giudicare dal fatto che non scriveva lettere e non riceveva telefonate, era abbastanza sicuro che per il momento nella sua vita sentimentale non ci fosse niente d’importante. Il suo modo di attirare l’attenzione di tutti i maschi che c’erano in circolazione non era significativo: ma le occhiate furtive che aveva ricevuto da lei, di tanto in tanto, appartenevano ad un’altra categoria.
Bastava soltanto prendere le cose con calma. Aspetta, e ti sarà dato. Lì a Nidenhaut, un piccolo flirt innocente, sotto lo sguardo indulgente di Elizabeth. Si girò a guardare la moglie, con un sorriso d’ammirazione e d’affetto. Era una donna meravigliosa.
«Siamo pronti per affrontare di nuovo le discese?» le disse.
Elizabeth scosse la testa elegante. «Ho il ginocchio un po’ indurito, dopo l’ultima caduta. Vai con Diana. Io me ne starò qui seduta a guardarvi.»
Grainger si alzò, si mise davanti a Diana. «Andiamo, ragazza mia. Entriamo in azione.»
«Anch’io preferirei riposarmi,» disse. Ma si afferrò alle sue mani, e lui la sollevò.
Diana non aveva mai sciato, prima di quella vacanza, ma aveva imparato molto in fretta e non se la cavava male. Doveva avere belle cosce, pensò Selby, un corpo agile e snello. Le toccò il braccio quando uscirono a prendere gli sci, e sentì la lieve pressione di risposta contro le sue dita. Sì, pensò, con un piacevole fremito d’anticipazione, sarà divertente.
Quando rientrarono, Elizabeth non c’era. Probabilmente era salita a prepararsi per il pranzo. George aveva aperto il bar, e Deeping era lì seduto, a bere una birra. Selby prese un Campari per sé e uno per Diana, e li portò sulla terrazza. Non c’era nessun altro. Lei era appoggiata alla balaustrata di legno in una posa che metteva in risalto la sua figura, nonostante l’ingombrante maglione. Selby lasciò che i propri occhi dimostrassero ammirazione, e lei sorrise, socchiudendo leggermente le labbra.
«Grazie, Selby. Stavo cercando Elizabeth.»
«È di sopra, credo: a dorare l’oro fino, a dipingere i gigli.»
«È molto bella, no?»
Ma non ne sembrava preoccupata. Selby disse:
«Molto. C’è abbastanza soda, o devo andare a prendere il sifone?»
«Va benissimo così.» Diana inarcò il corpo, un poco di più. «Mi piace. Solo, è un peccato che non siamo rimasti bloccati alla fine della vacanza, come i Deeping.»
«Può darsi che sia lo stesso anche per noi.»
«Troppa grazia. Niente: ritorno alla squallida Londra e allo squallido lavoro.»
«E che cosa fa? Voglio dire, so che è segretaria, ma dove lavora?»
«Un ufficio di contabilità. Non potrebbe essere più noioso. Neanche un brillante evasore fiscale. Contabilità di società, e società molto solide.»
«Vive con Jane?»
«Santo cielo, no. Non andremmo d’accordo per un pezzo. Lei ha vissuto in campagna fino alla morte di Harry. Da allora, vive passando da un albergo all’altro. Credo che dovrebbe decidersi a farsi una casa sua.»
«E lei ce l’ha… una casa sua?»
«Io,» disse Diana, assumendo un’aria istrionica, «vivo con un’amica a West Chelsea. A Fulham, cioè. Tre piani da fare a piedi, e là ci siamo noi. Due stanze, cucinino, bagno in comune. La mia amica si chiama Sylvia Farley: lavora per una ditta che vende diamanti. Purtroppo non le regalano i campioni. Abbiamo un fornello a gas, una radio a transistor, una TV a noleggio, e oltre al bagno abbiamo in comune un gatto. Tutte le comodità. Il venerdì sera ci laviamo i capelli.»
«Tutte le comodità? Immagino che ci sia anche un telefono.»
Lei lo guardò, mordendosi le labbra. «Sì, infatti. Un piccolo telefono rosa. Dividiamo le spese, ma sull’elenco c’è il mio nome. Blackstone, Diana, Finsborough 1256. Uno più due più tre eguale a sei. Tutti dicono che è un numero facile da ricordare.»
Selby sentì dei passi che arrivavano dal salotto, e riconobbe Elizabeth. Si concesse un lieve sorriso prima di girarsi verso la moglie.
«Sì,» disse. «Sembra anche a me.»
Elizabeth non aveva molta voglia di uscire neppure il pomeriggio, ma Selby la convinse. Con Diana si era spinto fino al punto cui voleva arrivare, date le circostanze attuali, e adesso poteva impegnarsi a placare i vaghi fremiti di sospetto che potevano attraversare la mente di Elizabeth. Disse, allegramente:
«Andiamo! Devi smaltire un po’ di tutti quegli idrati di carbonio.» Mandy, per pranzo, aveva preparato un abbondante spezzatino con pallottole di pasta bollita, seguito da una torta di mele e albicocche. «Altrimenti perdi la forma.»
Accompagnati da Diana, si diressero verso l’angolo occidentale più alto della conca, da dove era possibile lanciarsi in una lunga discesa… anche per più di un chilometro e mezzo, volendo, fino al punto in cui la strada per Nidenhaut era bloccata dalla valanga. In pratica, però, non sarebbero andati molto oltre lo chalet, probabilmente fino al punto dove Jane, insieme a Douglas Poole e ai Deeping, si stava esercitando su uno dei pendii più facili.
«Solo una discesa,» disse Elizabeth. «Poi lascerò che continuiate tu e Diana.»
«Sciocchezze,» disse Selby. «È la risalita che ti fa bene, la discesa non è gran che, come esercizio.»
Arrivarono al punto di partenza prestabilito, e si fermarono, ansimando. Erano a circa ottocento metri dallo chalet, verso ovest, ad una quota un po’ più elevata: in mezzo c’era la conca, ingombra di neve, ghiaccio e rocce, cadute con la valanga più piccola. Per fortuna, l’ingombro non arrivava fino alla loro linea di discesa.
I bambini Deeping, notò Selby, avevano tirato fuori di nuovo la slitta, e scendevano dalla parte più ripida del pendio, al di là della valanga. Andavano velocissimi: probabilmente non controllavano bene la slitta, ma almeno era improbabile che si facessero del male: lì la neve era alta. Quasi a conferma, vide la slitta sobbalzare e andarsi a seppellire, insieme ai suoi passeggeri, in un mucchio di neve. I bambini ne uscirono subito, e le loro voci, eccitate e felici, volarono esili nell’aria fredda.
Elizabeth disse: «Loro sono quelli che si divertono di più.» Nella sua voce c’era una nota che si avvicinava alla tristezza, per quanto lo consentiva la sua placidità. «Andare in slitta è sempre stata la cosa più bella dell’inverno, per me.»
«Giusto,» disse Selby. «Quando avremo finito la discesa, andremo in slitta. Tireremo fuori quella grande. George ci darà una mano.»
«I bambini,» disse Diana. «Hanno trovato qualcosa?»
Il più piccolo, Andy, stava frugando nella neve. Voltava loro le spalle, e stava chino. Si rialzò e chiamò il fratello, che tirava lo slittino sul pendio. Poi tornò a chinarsi, e scivolò in avanti, lentamente, bocconi.
Stavano giocando, pensò Selby: ma c’era qualcosa d’inquietante nel modo in cui il bambino era caduto. Rimase immobile, indeciso, a guardare. Stephen scese accanto ad Andy, si piegò, lo sollevò e lo girò. Poi si accosciò, con il fratello tra le braccia come un peso morto, e alzò la testa, come per cercare aiuto. Selby non perse altro tempo: piantò i bastoncini nella neve e scese verso di loro.
Una comune sincope, pensò, vedendo il volto bianco ed esanime, il corpo inerte. Troppo sforzo, subito dopo il pranzo, o forse lo choc ritardato per la caduta dalla slitta. Disse a Stephen:
«Bene. Dallo a me.»
«È svenuto,» disse Stephen.
«Sì. Fra poco rinverrà.»
Si era tolto i guanti e li aveva sfilati al bambino, e le sue dita cercarono automaticamente il polso. Rimase sconvolto, incredulo. Accostò la guancia alla bocca del bambino, infilò la mano sotto il maglione e la camicia per sentirgli il cuore. Lo stava tenendo così, sorreggendolo con l’altro braccio, quando in uno spolverio di neve Diana gli arrivò vicina, subito seguita da Elizabeth.
«Cosa c’è?» chiese Diana. «È successo qualcosa?»
«È svenuto,» ripeté Stephen. «È caduto e svenuto.»
Selby disse a Elizabeth: «Sganciami gli sci, per favore. Lo riporto in casa.»
Mantenne la voce su un tono neutro, ma dall’espressione di lei capì che aveva intuito trattarsi di qualcosa di grave. Lei gli sganciò gli sci rapidamente, con gesti esperti. Selby portò il ragazzo allo chalet, camminando sulla neve. Quelli che si trovavano sul pendio più sotto, a quanto pareva, non si erano accorti di niente, ma Mandy gli andò incontro sulla porta.
«Un incidente?» domandò.
«Non so.»
Mandy si fece da parte, e Selby portò il bambino in salotto. Lo depose sul tappeto, davanti al fuoco, gli tolse maglione e camicia. Massaggiò il torace ancora caldo, cercò di insufflare aria nei polmoni afflosciati. Ma sapeva che non c’era niente da fare, prima ancora di desistere. Alzò la testa. Accanto a lui c’erano Elizabeth e Diana.
Elizabeth disse: «Mandy ha condotto Stephen in cucina. Selby, è morto?»
Lui annuì, senza dir nulla.
«Ma come? Cos’è successo?»
«Arresto del cuore. Può darsi che lo avesse già debole.» Selby scosse il capo. «Ma non sembrava un cardiopatico.»
Diana disse, con voce atona: «Non posso crederlo.» Distolse lo sguardo dal corpo del bambino, andò alla finestra che dava sulla terrazza. «Stanno ancora sciando, laggiù,» disse. «Qualcuno dovrà avvertirli.»
«Andrò io,» disse Elizabeth. Si chinò e toccò il viso del bambino morto, come se, toccandolo, rendesse più credibile la realtà di quella morte. «Lo lasci qui?»
«Per il momento.»
Mentre attendeva che arrivassero i Deeping, Selby si sentiva stordito. Nei primi tempi, nel teatro anatomico, aveva incontrato moltissimi casi diversi di morte improvvisa. Ma era stato anni prima, e c’era sempre stato un preavviso, una spiegazione. Adesso fissava il corpo senza segni di malattia, e si sentiva pieno di stupore e di risentimento. Il suo lavoro consisteva nel rimediare alle imperfezioni dell’aspetto umano, nel conquistare piccole vittorie sull’indifferenza della natura, nel condurre una campagna tranquilla e misurata contro la bruttezza. E li c’era quel bambino, delicato, senza difetti, morto. L’indifferenza suprema, la bruttura finale. Di fronte ad essa, tutto ciò che lui aveva fatto o sperato di fare sembrava un’irrisione.
Fino a quando lei non parlò, aveva dimenticato che Diana era ancora lì. Lei disse:
«Crede che farei meglio ad andarmene… prima che arrivi lei?»
Selby la sentì appena. «Come crede.»
«Non sopporto le scene, e del resto, non posso rendermi utile.» Diana ebbe una piccola risata nervosa. «E sento il bisogno di fumare una sigaretta.»
«Sì,» disse lui. «Vada, allora.»
Elizabeth arrivò con i Deeping. Era sempre perfetta, in situazioni del genere: tranquilla, comprensiva, serena. Con discrezione ma con fermezza, cinse con un braccio le spalle di Ruth Deeping e la guidò attraverso il salotto.
Per qualche secondo nessuno parlò. Il silenzio era rotto solo dagli scoppiettii del fuoco, dal ticchettio del grosso, complicato orologio a cucù appeso alla parete. Ruth Deeping si era lasciata cadere in ginocchio accanto al figlio, gli aveva sollevato la testa, stringendola tra le braccia. Quando alzò gli occhi e parlò, la sua voce era ragionevole, controllata.
«Non è morto,» disse. «È solo svenuto.»
«Mi dispiace, ma…»
«È caldo!»
Un pezzo di legno sibilò, nel fuoco, come per sottolineare l’inutilità di qualunque risposta. Gli occhi azzurri stavano diventando vitrei. Selby guardò Deeping. Lui l’aveva accettato, sicuro. La rassegnazione era espressa dalle spalle piegate, dalla contrazione mesta della bocca. Selby gli si avvicinò, disse sottovoce:
«Mi dispiace moltissimo. Nessuno avrebbe potuto far nulla. Era già morto quando l’ho trovato.»
Deeping girò la testa di scatto. «Come?»
«Il cuore. Ha… aveva dei disturbi?»
Deeping scosse la testa, lentamente. «Non ha mai avuto niente. Mai niente. Solo la varicella, il morbillo… le solite cose.» Fissò Selby, come chiedendogli una spiegazione. «Com’è successo? Lei deve averne un’idea.»
«Doveva trattarsi di un vizio cardiaco. Qualcosa che non risulta se non facendo un elettrocardiogramma. L’unico modo per scoprirlo sarebbe…» Esitò. «Sarebbe un’autopsia.»
Sebbene avesse parlato sottovoce, Ruth Deeping doveva aver udito le sue parole. Disse, con voce aspra:
«No. Niente da fare. È già abbastanza che sia morto. Non importa qual è stata la causa.»
Selby provò un senso di sollievo nell’accorgersi che aveva superato la prima, terribile crisi; ma si sarebbe sentito più tranquillo se lei avesse pianto. L’arida amarezza che mostrava quella donna lo rendeva inquieto. Si rivolse a Deeping.
«Forse è meglio che lei lo porti in camera sua. Ce la fa?»
«Ce la faccio.»
Ruth non fece obiezioni, quando Deeping sollevò il bambino tra le braccia e lo seguì in silenzio. Selby li sentì salire le scale, e ricordò che l’altro bambino era in cucina con Mandy. Sua madre avrebbe dovuto andare da lui, pensò. Sono i vivi che hanno delle esigenze. Andò in cucina, e trovò il bambino seduto davanti a un bicchiere di cordiale bollente. Mandy stava lavorando. La guardò con aria interrogativa, e lei scosse leggermente il capo. Selby si stupì un poco di quel gesto. Toccava ai genitori dargli la notizia, non a semplici conoscenti come loro.
Stephen chiese: «Andy… è morto, Mr. Grainger?»
C’era un po’ di paura nella sua voce, e tanta incertezza. Non poteva aspettare che i Deeping ritornassero dalla loro veglia, pensò Selby.
«Sì, Steve,» gli disse. «Purtroppo sì.»
«L’avevo pensato.» Il bambino esitò. «Non è stato… perché la slitta si è rovesciata?»
Ancora paura, con una sfumatura di senso di colpa. Forse aveva fatto deviare la slitta mandandola contro il mucchio di neve, o temeva che dessero la colpa a lui. Gli disse, con fermezza:
«No, quello non c’entra affatto.» Però, naturalmente, poteva essere stata una causa, se il bambino aveva avuto un vizio cardiaco congenito. Continuò: «Cos’è successo, dopo che la slitta si è rovesciata? Come stava Andy?»
«Stava bene. Rideva. E poi…»
«Poi?»
«Poi mi ha gridato che aveva trovato qualcosa nella neve.»
«Cosa aveva trovato?»
«Non lo so. Sembrava una palla azzurra.»
«Tu l’hai vista?» chiese Selby.
«Solo un momento. Poi Andy è caduto.»
«Capisco.»
Era ben poco probabile che ci fosse una palla azzurra tra i detriti trascinati da una valanga giù per il fianco desolato di una montagna. Probabilmente, una pietra azzurra, sferica quando bastava per sembrare una palla. L’unica cosa strana era che, se Stephen l’aveva vista, avrebbe dovuto vederla anche lui, quando aveva raccolto il corpo di Andy. Ricordava la scena con molta esattezza: la neve smossa ma omogenea. Nessuna traccia d’azzurro, in quel biancore. Nessuna pietra.
«Tu non l’hai raccolta,» chiese, «quando sei andato ad aiutare Andy?»
«Allora non c’era più niente. Ma prima c’era qualcosa. Era di un azzurro vivo e… ecco, lucente.»
Un’illusione, pensò Selby. Sapeva che la luce del sole, sulla neve, poteva creare bizzarre illusioni ottiche. In quel momento entrò in cucina George Hamilton: fece per dire qualcosa a Selby, ma s’interruppe quando vide il bambino. Quando riprese a parlare, lo fece in tono più cauto.
«Posso parlarle un momento, Selby?»
«Certo.» Poi, al ragazzo: «Non ha sofferto, sai. È successo all’improvviso. Bevi il cordiale che ti ha preparato Mrs. Hamilton: ti scalderà. La tua mamma verrà qui da te molto presto.»
Si augurò che fosse vero. Hamilton lo condusse in sala da pranzo e disse:
«È la maledizione inevitabile, quando si ha una pensione… la mancanza d’intimità. Si sieda.» Sedettero uno di fronte all’altro, a tavola. «È stato un brutto colpo.»
Selby annuì. «Sì.»
«Il cuore, immagino. Povero piccolo. Suppongo che i genitori non sospettavano che fosse malato.»
«No, a quanto mi risulta.»
«È proprio in quel modo che mi sono sempre augurato di andarmene. Ma a quell’età! Non è giusto. Comunque, noi non potevamo farci niente.» Guardò irrequieto Selby. «Il problema è: e adesso cosa succede?»
«In Inghilterra, in circostanze simili, dovrebbe esserci un’inchiesta. Non so bene come vadano le cose, qui in Svizzera.»
«Non lo so neppure io,» disse Hamilton. «Accidenti! Forse dovrei saperlo, ma non ci è mai capitato che morisse qualcuno.» Il suo volto aveva un’espressione perplessa. «E non possiamo chiedere consiglio alle autorità locali. Non possiamo metterci in contatto con nessuno.»
«Comunque, non si può fare niente con il cadavere,» osservò Selby, «fino a quando non avranno sgombrato la strada per Nidenhaut.»
«Sì. Ci avevo pensato anch’io. Brutta faccenda.»
«Brutta faccenda?»
«Ho appena visto Ruth Deeping. Lei sa che hanno la stanza accanto alla nostra, e quella dei bambini è lì accanto?» Selby annuì. «Mi ha chiesto di far portare nella loro camera il letto di Stephen.»
«E allora? Quel povero ragazzino deve pur stare in qualche posto.»
Hamilton batté sul piano del tavolo le grosse mani. «Senta, io potrei spegnere il radiatore, ma i tubi dell’impianto del riscaldamento passano sotto la stanza. Non posso chiuderli, altrimenti qui si muore tutti congelati. Questa casa è stata costruita in modo da essere molto calda, d’inverno. E noi non sappiamo quanto tempo ci vorrà prima che arrivino dal villaggio e sgombrino la strada. Potrebbe essere una settimana e in questo caso…»
«Sì,» disse Selby. «È naturale. C’è una stanza fredda, da qualche parte?»
«In cantina. Nell’angolo a nord-est: non è riscaldata. Non ci teniamo altro che viveri in scatola, qualche corda e gli attrezzi. Possiamo portare via tutto in un attimo.»
«Allora questo risolve il nostro problema.»
«Sì, se riusciamo a convincere Mrs. Deeping.»
«Già,» fece Selby. Tacque per un istante. «Crede che farà delle difficoltà?»
«Non è convinto anche lei?»
«L’alternativa non è piacevole.»
«Se la sente di porgliela, Selby? Dopotutto, lei è un medico. È abituato a queste cose.»
Selby sorrise sarcastico. «Non proprio. Sono passati parecchi anni, da quando ho perduto un paziente.»
«Comunque, è sempre un medico. Saprà dirlo meglio di quanto potrei fare io. E Ruth l’ascolterà più di quanto ascolterebbe me. Se la sente?»
«D’accordo. Lasciamole un’ora, più o meno, prima, perché si abitui alla situazione.»
«Bravo.» Hamilton sbuffò di sollievo. «Dirò a Peter di preparare tutto, in cantina. Dovrà portare dentro un po’ di ghiaccio, e montare una tavola sui cavalletti. E intanto, credo che mi farebbe bene bere qualcosa. Cosa le sembra dell’idea?»
«Approvata,» disse Selby. «Approvata di tutto cuore.»
In un primo momento, Ruth Deeping non voleva saperne di spostare di nuovo il corpo di suo figlio. Doveva restare dov’era, insistette, fino a quando fosse stato possibile portarlo al villaggio. Non voleva che lo mettessero in cantina.
Selby non faticò ad ottenere l’appoggio di Deeping, ma questo non bastò a convincere la donna: guardò il marito con occhi irosi e risentiti e disse che non si aspettava che lui la pensasse allo stesso modo, a proposito di Andy. Lui aveva anteposto i suoi capricci agli interessi dei bambini da quando erano nati, ed era naturale che la loro morte lo lasciasse indifferente. La «loro», pensò Selby… come se li avesse perduti entrambi. Deeping non cercò neppure di risponderle: sembrava intimidito. Era sorprendente: talvolta la sottomissione, nelle donne, nascondeva una dominazione potenziale, in particolare nei confronti di uomini sgradevolmente arroganti come Deeping. La dominazione, e la stessa indifferenza che lei lo accusava di provare per i figli. Anche prima che nascessero, Selby ne era convinto, Ruth non doveva avere mai provato nulla per il marito.
Allora intervenne, con calma ma fermamente: «È necessario, Ruth. Deve farsene una ragione.»
Lei scosse il capo, guardandolo con odio. «No.»
«Ho visto la stanza. È pulita e fresca. Il posto migliore, le assicuro.»
Ruth Deeping disse qualcosa che lui non afferrò. La pregò di ripeterlo. Con voce fremente di orrore, lei disse:
«Potrebbero esserci i ratti.»
Selby fece, pietosamente: «No. Non ci sono ratti, qui… me l’ha assicurato George. E la stanza è vuota. Potrà vedere lei stessa che non c’è neppure una tana di topi.»
Ruth lo fissò. «No. Lo voglio qui con me.»
Selby diede alla propria voce il tono autoritario del chirurgo. «Come medico, debbo insistere.» Poi, dopo una pausa, proseguì: «Lei si preoccupava dei ratti. Ha mai visto come si riduce un corpo umano quando comincia a decomporsi?»
Lei chiuse gli occhi, rifiutando quell’immagine. Selby si rivolse a Deeping.
«George ha fatto portare su una barella. È fuori, sul ballatoio. La porti dentro: le darò una mano a scendere.»
Deeping obbedì. Mentre era fuori, Selby posò una mano sul braccio di Ruth. Lei tremava leggermente.
«Vada giù,» le disse. «George le darà un brandy.» Ruth scosse appena il capo, e lui insistette: «Glielo prescrivo. Le parlo ancora come medico. Poi George l’accompagnerà in cantina, e le farà vedere come si è organizzato.»
La donna rimase immobile per un momento. Poi si piegò e baciò il viso del bambino. Quindi uscì dalla stanza, in fretta: Selby sentì i suoi passi scendere le scale.
Peter, l’uomo di fatica, sostituì Selby per l’ultima rampa di scale: era più stretta e contorta e Peter, che scendeva per primo, doveva muoversi con attenzione. Selby li seguì nel locale che era già stato preparato. Era in fondo al corridoio. La porta era aperta, e lasciava filtrare un po’ di luce.
Dentro c’era George. Al centro della stanza c’era un vecchio tavolo, e un paio di grosse casse di legno, cui era stato asportato un lato, erano state messe insieme in modo da formare una specie di rozza bara scoperta. Selby la guardò, mentre gli altri due deponevano la barella. Il fondo e i lati erano stati rivestiti di ghiaccio. Guardò George e annuì in segno di approvazione. Poi Deeping sollevò dalla barella il corpo del figlio, lo distese nelle casse. Il bambino era stato rivestito di un pigiama, e a Selby parve terribilmente freddo e sperduto. Deeping stese il lenzuolo, lo tirò per coprire la faccia. Abbassò gli occhi, impotente, per un momento, poi disse:
«Ruth vuole vederlo, adesso. Vado a dirglielo.»
«Aspetterò qui,» disse Selby.
George attese con lui. L’aria era molto fredda, dopo il tepore del resto della casa, e il silenzio era rotto da un suono lontano, che Selby riconobbe: era il rombo della caldaia. Più che altro per spezzare il silenzio, disse:
«Il ghiaccio è stato una buona idea. Non ci avevo pensato.»
«Niente di speciale,» disse George. «Mio padre era macellaio.» Guardò la bara improvvisata, con occhi inespressivi. «No, non devo coltivare illusioni di grandezza. Era un garzone di macellaio. Anche se alla fine gli avevano affidato la gestione di un negozio. Morì l’anno dopo.»
«E lei quanti anni aveva?»
«Quattordici. E a quell’epoca c’era la recessione. Ebbi l’autorizzazione a lasciare la scuola e a impiegarmi come commesso. Dodici e sei alla settimana. Avrei potuto guadagnare un’altra mezza corona come garzone di macelleria, ma mia madre non ne volle sapere.»
«Deve essere stata molto dura.»
George alzò le spalle. «Cosi-così. La guerra cambiò tutto, naturalmente. Ebbi la fortuna di finire in aviazione e di qualificarmi come pilota. Quello fu il difficile: il resto andò liscio come l’olio.» Sogghignò. «Per usare una delle tante frasi fatte che ho imparato sotto le armi.»
«Assimilazione,» ammise Selby. «Pensa che questo l’abbia reso felice?»
Con bonario disprezzo, George disse: «Ecco: parla l’uomo per cui un garzone di macellaio era qualcosa con il grembiule bianco e blu che arrivava alla porta di servizio, schivando il cane e dando un pizzicotto alla sguattera. Forse la mia vita non le sembrerà un grande successo, amico, secondo i suoi criteri, ma per me lo è. Un benessere ragionevole, invece della miseria. E quando guardo dalla finestra vedo il Grammont e il lago di Ginevra, non l’altra parte di Crake Terrace con i cani rognosi che pisciano contro le staccionate. Tutte le primavere porto qui mia madre. Anche lei va pazza come me per queste montagne.»
Selby annuì. «Capisco.»
«Capisce davvero? Può darsi.» Si avvicinò alla tavola, e guardò il corpo del bambino. «Per quanto lo riguarda, non esistono più possibilità. Povero piccolo. Che peccato.»
Fuori si udirono dei passi, ed entrò Ruth Deeping, guidata dal marito. George si scostò quando lei si avvicinò al tavolo e si fermò. Il suo volto era sbiancato, immobile. George rivolse un cenno del capo a Selby, e uscirono insieme.
Il pomeriggio sfumò nella pesantezza della sera. C’era come un sudario, sopra la casa, particolarmente deprimente per un uomo vivace ed estroverso come Selby. La morte del bambino era stata un trauma, e capiva ciò che dovevano provare i Deeping, soprattutto Ruth: ma non gli sembrava una ragione sufficiente per giustificare la tetraggine generale. Dopotutto, non si poteva negare la verità psicologica che, anche se non si trattava d’una perdita personale, la morte di un altro, anche di un bambino, era la conferma della continuità della vita. Per questo c’era la tradizione della veglia, del banchetto funebre. Chiedi per chi suona la campana, e chiedi a chi la suona di farlo un po’ più allegramente.
Era impossibile, naturalmente, nell’ambito circoscritto di uno chalet circondato dalla neve e completamente isolato dal mondo. Non si poteva far altro che sopportare, con una smorfia. George aprì presto il bar, e Selby condusse Elizabeth e Diana a bere qualcosa. Jane Winchmore entrò più tardi, insieme a Douglas Poole. Sembrava che andassero d’accordo, notò Selby: a modo loro, in sordina. Era difficile immaginare lei che accettava un approccio più caloroso, o lui che lo tentava. Finalmente li raggiunse anche Deeping, dando inizio allo scambio opaco e depresso di banalità. Ruth Deeping, a quanto pareva, vegliava il bambino morto. Quello vivo, che sembrava non interessarla più, era affidato alle cure di Mandy e della cameriera.
Selby salì presto a fare il bagno e rimase a lungo nella vasca, malinconicamente, leggendo una copia del Ladies’ Home Journal che Elizabeth aveva comprato all’aeroporto di Londra. Si scosse solo quando lei bussò più volte alla porta e lo chiamò con voce misurata ma penetrante. Allora si vestì lentamente, cercando di far passare i minuti.
Ruth non si presentò per cena. George le aveva messo una sedia nella stanza in cantina, e lei aveva detto che voleva restare lì. Aveva bevuto il tè preparatole da Mandy, ma aveva dichiarato che non se la sentiva di mangiare nulla. Selby aveva un appetito furioso, e Mandy aveva fatto un eccellente pasticcio di carne, ma la tetraggine, le voci smorzate, diventavano progressivamente insopportabili. Per il bene di tutti e anche per il suo, per non parlare poi di quello di Selby in particolare, Ruth doveva togliersi di torno. Scese in cantina con passo fermo e animo deciso.
Lei era seduta con la testa appoggiata al fianco d’una delle casse, e non alzò gli occhi quando Selby entrò. La prese per un braccio con fermezza e disse:
«Adesso l’accompagno di sopra, Ruth. Deve sdraiarsi e riposare un po’.»
Lei continuò a non guardarlo. «No.»
«Insisto.» La fece alzare, a forza. «Può scendere di nuovo più tardi, se vuole.»
Lei non aveva opposto resistenza. Disse, con voce atona:
«Qualcuno deve stare con lui.»
«E qualcuno ci starà. Verrà giù Leonard.»
Gli occhi di Ruth erano enormi, in un volto disfatto che dimostrava quindici anni di più della sua età.
«Se viene lui, prima.» Scosse il capo. «Non voglio che resti solo.»
Selby annuì, e risalì per andare a prendere Deeping. Ruth non disse nulla al marito: si limitò a guardarlo mentre la sostituiva accanto alla bara. Poi si lasciò condurre di sopra da Selby. Non volle svestirsi; acconsentì soltanto a togliersi le scarpe e a stendersi sul letto. Il medico le fece portare dalla cameriera un ponce bollente e poi, dalla scorta di medicinali che portava sempre con sé, prese un mezzo grano di Nembutal. Ruth prese la capsula gialla con un’espressione allarmata.
«Non voglio dormire,» disse.
«Ha i nervi a pezzi,» le disse Selby. «È inevitabile. Questo è solo un leggero sedativo: la calmerà. Lo butti giù in fretta. Eccole un bicchier d’acqua.»
Quando Ruth ebbe preso il Nembutal, Selby restò a guardarla mentre beveva il ponce. Poi la convinse ad appoggiare la testa sul cuscino. La lasciò, e scese a prendere il caffè. Quando salì di nuovo, dopo venti minuti, Ruth Deeping dormiva profondamente. Riuscì ad infilarla, vestita, sotto le coperte. Lei si agitò nel sonno, ma senza destarsi.
Deeping era seduto, a disagio, sulla sedia nella cantina, quando Selby lo raggiunse.
«Tutto a posto. Ruth dorme. Io andrei di sopra, se fossi in lei.»
Deeping sembrava imbarazzato.
«Ruth non vuole che lui rimanga solo,» disse.
«Senta,» fece Selby. «Sua moglie ha avuto uno choc tremendo. Si sentirà meglio domattina, quando si sveglierà. E lei non può fare niente per il bambino, ormai… lo sa. Con la porta chiusa, niente potrà toccarlo.» Poiché Deeping continuava a esitare, gli disse: «O stava pensando di passare la notte qui?»
«Se Ruth si sveglia e scende…»
«Sua moglie prende abitualmente dei sonniferi?»
«Sonniferi? No.»
«Le ho dato mezzo grano di Nembutal, e poi una dose abbondante di brandy. Non si sveglierà tanto presto.»
Deeping si lasciò convincere. Di sopra, l’atmosfera si era un po’ schiarita, ma era ancora mesta. Selby bevve parecchio whisky in pochissimo tempo, tenendo testa a George, che preferiva grandi bicchieri di brandy. Bevevano tutti più del solito, notò: persino Jane Winchmore. La guardò con ammirazione istintiva. Peccato che avesse quel temperamento. Poi guardò la sorella, che gli lanciò un’occhiata di complicità. Sì, pensò, molto più soddisfacente.
Tutti andarono a letto presto. Selby diede un’occhiata a Ruth Deeping, che dormiva profondamente. Andò in camera sua, e trovò Elizabeth già svestita e nel suo letto. Indossava una camicia da notte che a lui piaceva particolarmente: diafana, orlata di seta che aveva quasi il colore della sua pelle. Nel darle il bacio della buonanotte, pensò di tentare un approccio più concreto, ma lei aveva uno strano, rigido senso della correttezza, e Selby pensò che avrebbe potuto offenderla. Più tardi, nel suo letto, la sentì agitarsi e rivoltarsi, e pensò che forse si era sbagliato. Ma ormai era troppo tardi per rimediare. Ed era stanco.
Qualcuno urlò in un incubo, così forte che lo svegliò. E mentre cercava i fiammiferi per accendere la lampada accanto al letto, si rese conto che le urla erano reali… Una donna, e nello chalet. Elizabeth gli disse qualcosa e lui mormorò una risposta mentre usciva con la lampada sul ballatoio. Le urla continuavano, e provenivano dal basso. Vide che c’era una luce, laggiù: una lampada. E Ruth Deeping la reggeva, ed era lei a lanciare quelle urla di dolore e di angoscia. Selby scese correndo: posò la sua lampada sul tavolo, prese l’altra dalle mani della donna. Poi la cinse con un braccio e disse:
«È tutto a posto.» La scrollò, bruscamente, rabbiosamente. «Ascolti. È tutto a posto.»
La fine delle urla fu sconcertante quanto era stato quel suono. Nel silenzio, Selby vide altri che si affacciavano, di sopra, ed Elizabeth che lo seguiva. Ruth Deeping aprì la bocca, e lui pensò che stesse per ricominciare a urlare. Ma la donna parlò coerentemente, sebbene con una voce sconvolta dallo strazio.
«Non c’è più,» disse. «Qualcuno l’ha portato via.»
Si era svegliata ed era scesa, e in cantina era entrata in un altro locale. Era facile che accadesse, dato soprattutto che lei era sconvolta e obnubilata dal sonnifero che le aveva dato. La guidò con le braccia, come aveva già fatto una volta, quel giorno.
«No,» le disse. «C’è ancora. Venga, glielo farò vedere.»
Ruth non oppose resistenza. La porta della stanza dove stava la bara era socchiusa. La spinse, spalancandola, per farle vedere. La lampada appesa al soffitto ardeva ancora. Ma la bara era vuota, vuota come la stanza.