Ben Bova Gravità zero

Joe Tenny sembrava un mediano di spinta dei Pittsburgh Steelers. Seduto nella fresca penombra del bar dell'Astro Motel, con quella carnagione scura, la corporatura tarchiata, il viso im­bronciato e la bocca che stringeva un sigaro fumante, nessuno l'avrebbe preso per quello che era veramente, un buon ingegnere ed anche un ottimo ufficiale.

— 'Giorno, Maggiore.

Tenny si girò sullo sgabello e vide il vecchio Cy Calder, il de­cano dei giornalisti accreditati alla base.

— Salve. Vuoi bere?

— Sto lavorando — rispose Calder con dignità. Ma siste­mò la sua corporatura una volta smilza sullo sgabello accan­to.

— Uno scotch doppio — disse Tenny al barista. — E riempi di nuovo il mio.

— Ufficiale e gentiluomo — mormorò Calder. La sua voce era granulosa come il suo viso.

Mentre il barista faceva scivolare verso di loro i bicchieri, Tenny disse: — Tu vuoi sapere chi è stato scelto.

— Ti ho detto che sto lavorando.

Tenny fece una smorfia. — Sai tenere la bocca chiusa fino a domani? Murdock farà l'annuncio ufficiale allora, alla conferen­za stampa.

— Se puoi risparmiarmi la noia di dover ascoltare due ore il buon colonnello prima che tiri fuori quel nome, pagherò il pros­simo giro, ti luciderò le scarpe per un mese e vedrò anche di la­sciarti qualche piatto a poker.

— Vai al diavolo!

Calder fece spallucce. Tenny bevve un lungo sorso dal pro­prio bicchiere e Calder lo imitò.

— Okay, tanto lo scopriresti lo stesso. Ma stai buono fino al­l'annuncio di Murdock. Sarà Kinsman.

Calder posò con cura il bicchiere sul bancone. — Chester A. Kinsman, l'orgoglio dell'aeronautica? È difficile crederci.

— L'ha scelto Murdock.

— So che questa missione ha uno scopo strettamente pubbli­citario — disse Calder, — ma Kinsman? In orbita per tre giorni con la ragazza più carina di Photo Day? Murdock vuole pubbli­cità o un certificato di paternità?

— Avanti, Chet non è poi così male…

— Ah no? Dalle voci che ho sentito sulle poche settimane che avete passato al centro della NASA di Ames, Kinsman ha fatto man bassa da Berkeley a North Beach.

Tenny ribatté: — È giovane e bello. E le ragazze non hanno molti astronauti scapoli tra cui scegliere. Quelli della NASA sono un branco di vegliardi in confronto ai miei ragazzi. E Chet è il migliore del mazzo, senza scherzi.

Calder non sembrò convinto.

— Ascolta. Durante l'addestramento ad Edwards, lo sai che cosa ha fatto Kinsman? Ha costruito un biplano, una copia per­fetta in ogni minimo dettaglio di un caccia Spad. È un tipo one­sto.

— Certo, e poi per sei settimane ha giocato al Barone Rosso. Non si è cacciato nei guai per essere andato a ronzare intorno ad un aereo di linea?

La risposta di Tenny venne interrotta da uno scoppio di risa e da un brusio. Una mezza dozzina di giovani snelli ed aitanti, con la divisa blu dell'aeronautica (tutti capitani), stavano scendendo i gradini moquettati che portavano al bar.

— Eccoli — disse Tenny. — Puoi chiederlo tu stesso a Chet. Kinsman non era diverso dagli altri astronauti dell'Air Force.

Alto poco meno di un metro e novanta, un fisico asciutto che tra­diva la sua giovane età, con i capelli corti secondo lo stile milita­re, occhi grigio azzurri, il viso magro. In quel momento aveva un gran sorriso sulle labbra, mentre lui e gli altri astronauti prende­vano posto in un angolo del bar e gridavano al barman le loro or­dinazioni.

Calder prese il bicchiere e si diresse al loro tavolo, seguito dal maggiore Tenny.

— Fermi — gridò uno dei capitani, — arriva la stampa.

— Massima sicurezza.

— Perché, ragazzi — Calder cercò di dare un tono dolente alla sua voce rauca, — non vi fidate di me?

Tenny spinse una sedia verso il giornalista e ne prese un'altra per sé. Sedendosi a cavalcioni disse: — È tutto a posto, ragazzi. Gliel'ho detto io.

— Quanto ti ha pagato, capo?

— Questa è una cosa fra me e lui.

Mentre il barista portava il vassoio con le ordinazioni, Calder disse: — Questo giro lo paga il Quarto Potere, signori. Voglio farvi scucire delle informazioni.

— Dovrai pagare un sacco di giri, per questo.

Rivolto a Kinsman, Calder disse: — Congratulazioni, ragazzo mio. Il colonnello Murdock deve proprio tenerti in grande consi­derazione.

Kinsman scoppiò a ridere. — Murdock? Avresti dovuto vede­re la sua faccia quando mi ha detto che sarebbe toccato a me.

— Sembrava che avesse succhiato un limone.

Tenny spiegò: — La scelta per questo volo è stata fatta dal computer. Murdock voleva essere assolutamente imparziale e co­sì ha messo i risultati delle prestazioni di tutti nel computer, ed è uscito il nome di Kinsman. Se non avesse fatto tanto chiasso sulla sua imparzialità, avrebbe ancora potuto mescolare le carte e ri­provarci. Ma quando la macchina diede il responso, io ero là, co­sì non poté più rimangiarsi quello che aveva detto.

Calder fece una smorfia. — Va bene, allora è il computer che ha un'alta opinione di te, Chet. Suppongo che anche questo pos­sa essere considerato un onore.

— Diciamo un privilegio. Ho osservato quella ragazza del Photo Day durante l'addestramento: è uno schianto.

— Sarà ancora meglio una volta su in orbita.

— Quando si sarà tolta la tuta pressurizzata… eccetera.

— Ehi, lo sapete che nessuno l'ha mai fatto in orbita?

— Sì… caduta libera, gravità zero.

Kinsman assunse un'espressione pensierosa. — Questo aggiunge una nuova dimensione al problema, vero?

— Lo rende tridimensionale — Tenny si tolse il sigaro di boc­ca e scoppiò a ridere.

Calder si alzò lentamente dalla sedia e ordinò agli altri di fare silenzio. Guardando teneramente Kinsman, disse:

— Ragazzo mio… nel 1915 a Londra divenni socio onorario del Club Alta Quota. Esattamente all'altezza di un miglio, men­tre giravo sopra St. Paul, riuscii con successo a penetrare un'in­fermiera dell'esercito in un abitacolo aperto… nonostante gli oc­chialoni appannati, lo spazio operativo limitato e un grave caso di scottatura da vento.

— Da allora c'è stato ben poco da conquistare. I pescatori subacquei sostengono di rappresentare la nuova frontiera, ma in effetti stanno solo regredendo. Qualunque stupido delfino è ca­pace di farlo nell'acqua.

— Ma tu hai qualcosa di nuovo da sperimentare: l'assenza di peso. Galleggiare in caduta libera, sedurre una ragazza in quelle condizioni. E al di là di ogni immaginazione!

— Kinsman, io ti passo il testimone. Al fondatore del Club Gravità Zero.

Come un sol uomo, tutti si alzarono e brindarono solenne­mente al capitano Kinsman.

Quando tornarono a sedersi, il maggiore Tenny fece scoppia­re la bomba. — Voi ragazzi non avete fatto credito di molta in­telligenza al colonnello Murdock. Non penserete davvero che la­sci andare Chet da solo con quella ganza, vero?

La faccia di Kinsman assunse un'espressione di completa de­lusione. Gli altri si illuminarono.

— Sarà una missione a tre!

— Due uomini e la pollastra.

Tenny li ammonì: — Adesso non cominciate a fare i buffoni; Murdock vuole uno chaperon, non un assistente violentatore.

Fu Kinsman ad arrivarci per primo. Accasciandosi sulla se­dia, e appoggiando il mento sul petto, mormorò: — Figlio di put­tana… ci manda dietro Jill.

Un mormorio collettivo di disapprovazione.

— Murdock ha preso la decisione un'ora fa — disse Tenny. — Era obbligato a mandare te, Chet, così ha avuto l'idea di uno chaperon. Ti assegnerà anche qualche lavoretto domestico per te­nerti occupato. Come ad esempio collegare il modulo del genera­tore.

— Jill Meyers — disse uno degli ufficiali con aria disgustata.

— Ha le carte in regola, ed è stata lei a seguire la ragazza del Photo Day durante tutto l'addestramento. Scommetto che ne sa più lei su questa missione di tutti voi ragazzi.

— Non mi stupirebbe.

— Infatti — aggiunse malizioso Tenny, — penso che lei sia il capitano anziano tra tutti voi pivellini.

Kinsman fece un solo commento: — Merda.


Il rumore e le fortissime vibrazioni del decollo cessarono al­l'improvviso. Sprofondato nel sedile anatomico, e occupato a controllare file di quadranti e indicatori a pochi centimetri dai suoi occhi, Kinsman sentì la tensione e la pressione allentarsi. Tuttavia non stava ritornando al livello normale, ma a zero. Non era più schiacciato contro il sedile, ma ora lo sfiorava appena, quasi galleggiando sopra di esso, trattenuto solo dalle cinture.

Era la quarta volta che si trovava in assenza di peso. E nono­stante tutto si lasciò sfuggire un sorriso dentro il casco ingom­brante.

Senza pensarci, sfiorò il bottone di controllo sul bracciolo del sedile. Un razzo di manovra si accese per un attimo e la massa lu­minosa e imponente della Terra apparve lentamente nell'oblò di fronte a Kinsman. Scivolava maestosa e serena, per lo più di un azzurro intenso, ma qua e là avvolta dal bianco puro ed accecan­te delle nuvole, bella, pacifica, splendente.

Kinsman avrebbe potuto restare per sempre a guardarla, ma nella sua cuffia udì alcuni suoni di movimento. Le due ragazze si erano sedute, fianco a fianco, dietro di lui. La cabina del veicolo spaziale faceva sembrare spazioso un sottomarino: i tre sedili erano incassati in mezzo a montagne di strumenti e vario equipag­giamento.

Jill Meyers, che era arrivata al programma astronautico dalla divisione medica aerospaziale, aveva ufficialmente le mansioni di secondo pilota e di ufficiale biomedico. E chaperon,come ben sapeva Kinsman. La fotografa, Linda Symmes, era semplicemen­te una passeggera.

Gli auricolari di Kinsman gracchiarono quando entrò in con­tatto con la Terra. — AF-9, qui è il contatto a terra. Confermia­mo l'entrata in orbita. Traiettoria nominale. Tutti i sistemi in or­dine.

— Ricevuto — disse Kinsman nel microfono del casco.

La voce, che cominciava a svanire, passò ad un tono meno formale. — Sembra che siate proprio dritti sull'obbiettivo, Chet. Abbiamo messo i parametri orbitali nel computer e saranno pronti per quanto passerete su Ascension. Probabilmente non dovrete ricorrere a manovre troppo complicate per effettuare il rendez-vous con il laboratorio.

— Bene. Sul mio pannello le luci sono tutte verdi.

— Okay. Controllo a terra chiude. — Sempre più debole. — E… Buona fortuna, Padre Fondatore.

Kinsman fece una smorfia. Alzò la visiera del casco, slacciò la cintura e si voltò. — Okay, ragazze, ora potete togliervi il casco, se volete.

Jill Meyers aprì la visiera e cominciò ad allentare la chiusura posteriore del casco.

— Comincio io — disse, — così poi posso aiutare Linda.

— Sicura che non ti serve aiuto? — si offrì Kinsman.

Jill si tolse il casco. — Io ho passato più ore di te in orbita. E poi non dovresti fare attenzione agli strumenti?

Allora sarà questa la musica,pensò Kinsman.

Jill aveva un viso rotondo, bruttino e lucido come una mone­ta da un penny nuova. Il naso era camuso, la bocca larga e i ca­pelli di un castano spento. Kinsman sapeva che sotto la tuta a pressione nascondeva una figura che al massimo poteva essere descritta come ordinaria.

Linda Symmes era tutta un'altra cosa. Aveva sollevato la vi­siera del casco e lo stava fissando con gli occhi spalancati, occhi azzurri in cui la curiosità femminile si univa ad un tocco di vulne­rabilità. Era alta quasi quanto Kinsman, con folti capelli color del miele ed un corpo che gli si era impresso nella mente fino al­l'ultima curva.

Con quella sua voce dolce e sonora disse: — Penso di essere sul punto di sentirmi male.

Oh, per…

Jill si sporse verso lo scomparto tra i loro due due sedili. — Ci penso io. Tu occupati dei controlli. — Aprì un sacchetto di plastica bianca e lo mise sul viso di Linda.

Tremando al pensiero di quello che sarebbe potuto capitare in caduta libera, Kinsman rivolse la sua attenzione al pannello dei comandi. Richiuse la visiera del casco e aprì la ventilazione nella propria tuta, cercando di escludere dalla mente i rumori osceni degli sforzi di Linda.

— Per amor del cielo — gridò, — spegni la sua radio! Vuoi che mi metta a vomitare anch'io?

— AF-9, qui è Ascension.

Cercando di non pensare a quello che stava succedendo dietro di lui, Kinsman schiacciò il pulsante sul pannello delle comunica­zioni. — Avanti, Ascension.

Durante l'ora seguente, Kinsman ringraziò Dio di avere un sacco di lavoro da fare. Allineò l'orbita del loro veicolo a tre po­sti con quella del laboratorio orbitante dell'Aeronautica, che or­mai era lassù da più di un anno e veniva occupato saltuariamente da equipaggi composti da due o tre persone.

Il laboratorio aveva la forma di un grosso cilindro che risal­tava sul bianco brillante della coltre di nubi che ricopriva la Terra. Mentre portava il velivolo più vicino, Kinsman fu in gra­do di individuare le antenne, i portelli stagni e tutte le altre stra­ne apparecchiature che si erano accumulate sopra di esso. Ad ogni viaggio sembra diventare sempre più un ammasso di ferra­glie. Nella scia del laboratorio, non collegato ad esso in alcun modo, vi era la forma conica e massiccia del nuovo gruppo elet­trogeno.

Kinsman compì un giro intorno al laboratorio, usando con cautela i razzi di manovra. Sfiorò un interruttore e il faro radar per il rendez-vous si attivò, come confermava una luce accesa sul suo pannello di controllo.

— Tutti i sistemi sul verde — disse al controllo a terra. — Sembra tutto okay.

— Roger, AF-9. Siete autorizzati ad attraccare.

Questa era una cosa un tantino più delicata. Sarebbe utile se Jill potesse leggermi i dati del computer…

— Distanza ottantotto metri — disse la voce ferma di Jill nei suoi auricolari. — Angolo di avvicinamento…

Istintivamente Kinsman si voltò, ma il casco gli impedì di ve­derla. — Ehi, come sta la tua paziente?

— Ha vuotato lo stomaco, e le ho dato un sedativo. È fuori combattimento.

— Okay — disse Kinsman, — attracchiamo.

Avvicinò lentamente il velivolo al punto di attracco sulle estremità del laboratorio, si agganciò e vide che le luci del pan­nello confermavano che l'aggancio era avvenuto.

— È meglio impacchettare la Bella Addormentata — disse a Jill mentre premeva il pulsante che comandava l'uscita del tunnel d'accesso flessibile che avrebbe collegato il boccaporto superiore della navetta con il portello principale del laboratorio. Le luci sul pannello passarono dal rosso al verde quando il tunnel si aggan­ciò al portello del laboratorio.

Jill disse: — Dovrei essere io a controllare il tunnel.

— Resta lì. Lo faccio io. — Sigillando la visiera del casco, Kinsman slacciò le cinture e si sollevò senza sforzo dal sedile, an­dando a sbattere leggermente con il casco contro il portello supe­riore.

— Siete tutt'e due ben abbottonate?

— Sì.

— Tieni d'occhio l'indicatore dell'aria. — Aprì il portello di pochi millimetri.

— La pressione è okay. Niente luci rosse.

Annuendo, Kinsman aprì del tutto il portello. Si spinse in alto con facilità ed entrò nel tunnel che era largo come le sue spalle; si spinse lungo la galleria curva con piccoli tocchi delle dita contro le pareti scanalate.

Piano e con leggerezza,ricordò a se stesso. Niente movimenti bruschi o spinte troppo forti.

Quando raggiunse il portello del laboratorio, ruotò lentamen­te su se stesso come un nuotatore che compisse una pigra virata, e ispezionò ogni centimetro delle guarnizioni di tenuta del tunnel, alla luce della torcia inserita sul casco. Soddisfatto nel vedere che le chiusure erano perfettamente a posto, aprì il portello ed entrò nel laboratorio. Con cautela, fece aderire gli stivali al pavimento di plastica e riprese la posizione eretta. Le braccia tendevano ad alzarsi e a toccare la strumentazione allineata ai lati dello stretto passaggio centrale. Kinsman accese le luci interne, controllò le ri­serve d'aria, gli indicatori di pressione e di temperatura, poi si di­resse di nuovo verso il portello e si tuffò nel tunnel.

Rientrò nella cabina a testa in giù e dovette fare delle lente contorsioni attorno al sedile del pilota per riprendere una posizio­ne normale.

— Il laboratorio è okay — disse quando ebbe finito. — E adesso come facciamo a portarla attraverso il tunnel?

Jill aveva già slacciato le cinture sulle spalle di Linda. — Io ti­ro e tu spingi. Dovrebbe scivolare bene sugli angoli.

E infatti fu così.

All'interno, il laboratorio aveva la forma e le dimensioni di un piccolo aereo da trasporto. Su di un lato era ricoperto per quasi tutta la lunghezza da una fila di strumenti di controllo, e dal computer che ronzava sommesso dietro i sottili pannelli di plastica. Al di là del piccolo corridoio c'erano le postazioni del­l'equipaggio: banco di controllo, due oblò di osservazione e le strumentazioni di biologia ed astrofisica. In fondo, dietro una tenda c'era la prua e un'unica branda.

Kinsman, che aveva indossato la tuta da lavoro, si sedette al tavolo dei controlli, agganciando una gamba all'unica colonna di sostegno della sedia per evitare di galleggiare nell'abitacolo. Do­veva effettuare un controllo di tutti i sistemi di sopravvivenza del laboratorio: aria, acqua, riscaldamento, energia elettrica. Sul pannello principale tutte le luci erano verdi. Apparecchiatura di comunicazione. Verde. Lo schermo radar mostrava un solo gros­so punto luminoso vicino: il modulo del generatore.

Sollevò lo sguardo quando Jill spostò la tenda dell'area di ri­poso. Indossava ancora la tuta pressurizzata, a cui aveva tolto solo il casco.

— Come sta?

Con espressione stanca Jill rispose: — Bene. Sta ancora dor­mendo. Credo che quando si sveglierà sarà a posto.

— Farà meglio ad esserlo. Non voglio avere in giro un peso morto. O mando a monte la missione.

— Concedile una possibilità, Chet. Si è limitata a una crisi di vomito quando si è trovata in caduta libera. Tutto l'addestra­mento del mondo non può prepararti a quei primi minuti.

A Kinsman tornò in mente il suo primo volo orbitale. Sembra non finire mai. Precipiti. Come quando scii o ti lanci col paraca­dute. Solo che questo è meglio.

Jill gli si avvicinò, aggrappandosi saldamente ai sedili davanti ai banchi di lavoro e alle maniglie inserite nelle apparecchiature.

Kinsman si alzò e si spinse verso di lei. — Dai, lascia che ti aiuti a togliere la tuta.

— Posso farlo da sola.

— Chiudi la bocca.

Dopo parecchi minuti Jill si era liberata dall'ingombrante tu­ta pressurizzata ed era già in piena attività, con indosso la tuta da lavoro. Abbassando leggermente la tesa a causa del soffitto ricur­vo, Kinsman scivolò nella cambusa. Era larga meno della metà di una cabina telefonica e certo non così alta e profonda.

— Caffè, tè o latte?

Jill sogghignò. — Succo d'arancia.

Lui prese un sacchetto di concentrato. — Sei una ragazza dif­ficile da accontentare.

— No, non lo sono. È facile andare d'accordo con me. Mi piace stare in compagnia.

Sentendosi un tantino perplesso, Kinsman le passò il conteni­tore con il succo d'arancia.

Durante le due ore seguenti controllarono minuziosamente l'e­quipaggiamento del laboratorio. Kinsman stava rimontando una macchina fotografica ad alta risolvenza dopo averla pulita, e i vari pezzi galleggiavano a mezz'aria intorno a lui, mentre Jill si occu­pava di un rigoglioso filodendro che era stato portato a bordo di nascosto, e stava lentamente avanzando dal banco di biologia ver­so i pannelli luminosi sul soffitto. Linda scostò la tenda dell'area di riposo e avanzò cautamente nel compartimento principale.

Jill fu la prima ad accorgersi di lei. — Salve, come ti senti?

Kinsman sollevò lo sguardo. Lei indossava una tuta aderentis­sima. Lui balzò dalla sedia per raggiungerla, spargendo i pezzi della macchina fotografica da ogni parte.

— Ti senti bene? — le chiese.

Sorridendo con aria timida, disse: — Credo di sì. Sono piut­tosto imbarazzata… — la sua voce era bassa e sonora.

— Oh, non ti preoccupare — disse allegro Kinsman. — Capi­ta praticamente a tutti. Anch'io mi sentii male la prima volta che mi trovai in orbita.

— Questa — disse Jill schivando una lente che roteava lenta­mente e che andò a rimbalzare dolcemente sul soffitto, — è una piccola bugia per farti sentire più a a tuo agio.

Kinsman si sforzò di non assumere un'espressione accigliata. Perché Jill vuole contraddirmi?

Jill disse: — Chet, è meglio che tu raccolga i pezzi di quella macchina prima che si spargano dappertutto.

Ebbe l'impulso di risponderle a tono, poi ci ripensò e si limitò a dire: — Va bene.

Quando ebbe finito con la macchina fotografica, diede un'oc­chiata attenta a Linda. Il viso aveva ripreso colorito. Aveva gli occhi limpidi, fermi, che non tradivano paura né smarrimento. Dopo tutto forse sarà okay. Jill le preparò una tazza di tè, che lei sorbì dal beccuccio di plastica del coperchio.

Kinsman andò al banco di controllo e controllò i turni della missione.

— Ehi, Jill il tuo turno di riposo è già cominciato.

— Non ho molto sonno — disse lei.

— Può darsi. Ma hai avuto una giornata faticosa, ragazzina. E domani lo sarà ancora di più. Adesso vai a farti le tue quattro ore, che poi tocca a me. Bisogna essere freschi per l'accoppia­mento.

— Accoppiamento? — chiese Linda dal suo sedile sul lato estremo del corridoio, a cinque passi buoni da Kinsman. — Oh, tu intendi collegare il cono al laboratorio.

Evitando una mezza dozzina di giochi di parole che gli erano venuti in mente, Kinsman annuì. — Attività extra-veicolare.

Con riluttanza Jill si allontanò fluttuando dalla sedia. — Okay, vado a cuccia. Sono stanca, ma sembra proprio che quas­sù non mi venga mai sonno.

Mi domando quanto le avrà detto Murdock. Si comporta proprio come uno chaperon.

Jill si trascinò nell'area di riposo e tirò la tenda. Dopo alcuni momenti di silenzio, Kinsman si rivolse a Linda.

— Finalmente soli.

Lei rispose con un sorriso.

— Uh, sei seduta proprio dove devo installare la macchina fotografica.

Diede un colpetto alla macchina che fluttuò dolcemente verso la ragazza.

Lei si alzò piano, con molta attenzione, rimanendo in piedi dietro alla sedia e tenendosi aggrappata allo schienale con en­trambe le mani come se avesse paura di cadere. Kinsman scivolò nella sedia ed arrestò il lento movimento della camera con una mano. Mentre lavorava all'apparecchiatura della paratia a cui andava fissata, chiese:

— Ti senti bene davvero?

— Sì, sul serio.

— Pensi che te la sentirai di fare l'AEV domani?

— Lo spero… voglio andare fuori con te.

Io preferirei stare dentro con te,sogghignò Kinsman mentre lavorava.

Un'ora più tardi erano seduti fianco a fianco davanti ad uno degli oblò di osservazione, a guardare la massa tondeggiante della Terra, lo splendore bianco e azzurro del Pacifico striato di nubi. Kinsman aveva appena fatto rapporto al controllo delle Hawaii. Il piano di volo della missione galleggiava su di una tavoletta ferma­carte in mezzo a loro. Lui stava cercando di studiarlo, confrontan­do i turni di riposo di Jill con i lunghi intervalli tra i controlli a ter­ra, quando non ci sarebbe stata la possibilità di essere interrotti.

— Quella è terraferma? — chiese Linda indicando una spessa striscia di nubi che avviluppavano l'orizzonte.

Sollevando lo sguardo dal piano di volo, Kinsman disse: — Costa del Sud America. Cile.

— C'è un'altra stazione, là.

— È una stazione della NASA. Non fa parte della nostra re­te. Noi usiamo solo le stazioni dell'Aeronautica.

— Come mai?

Il viso di lui si incupì. — Murdock gioca ai soldatini. Questa dovrebbe essere una operazione strettamente militare. Nessuna guerra, per carità. Ma ci comportiamo come se non ci fossero stazioni civili qui intorno in grado di aiutarci. La solita musica «un-dué, avanti march».

Lei rise. — Non sei d'accordo con il colonnello?

— C'è solo una cosa che lui recentemente ha fatto e con cui sono completamente d'accordo.

— E sarebbe?

— Averti portato quassù.

Il sorriso rimase, ma gli occhi si distolsero da lui. — Adesso parli come un soldato anche tu.

— Non come ufficiale e gentiluomo?

Lei lo guardò dritto in faccia. — Cambiamo argomento.

Kinsman scosse le spalle. — D'accordo. Certo. Tu sei qui per scrivere una storia. Murdock vuole che l'Aeronautica abbia la stessa pubblicità di cui gode la NASA. E il Pentagono vuole di­mostrare al mondo che non abbiamo nessuna arma a bordo. Sia­mo militari, d'accordo, ma militari coscienziosi.

— E tu — chiese Linda in tono serio. — Tu che cosa vuoi? Come mai un capitano dell'Aeronautica è entrato a far parte dei cadetti spaziali?

— Nel modo in cui succedono sempre queste cose… sei nel posto giusto al momento giusto. Mi dissero che sarei diventato un astronauta. Faceva tutto parte del lavoro… fino al mio primo volo orbitale. Ora è un particolare modo di vita.

— Davvero? Come mai?

Sogghignando, lui rispose: — Aspetta di essere uscita. Lo scoprirai.

Jill ritornò nella cabina principale in perfetto orario e fu il turno di Kinsman di andare a dormire. Raramente aveva delle difficoltà a prendere sonno sulla Terra, e certo mai quando si trovava in orbita. Ma mentre si sistemava le cinghie a pressione ai polsi e alle gambe, si domandava quali sarebbero state le rea­zioni di Linda nel trovarsi all'esterno. I medici insistevano molto su queste cinghie a pressione, sostenendo che stimolavano le fun­zioni del sistema cardiovascolare durante il sonno.

Una maledetta seccatura,borbottò tra sé Kinsman. Un'idea di qualche medico di terra per farsi un nome.

Finalmente si infilò in quell'amaca a forma di bozzolo e chiu­se gli occhi. Poteva sentire la delicata pressione delle cinghie. Il suo ultimo pensiero cosciente fu la fastidiosa preoccupazione che Linda sarebbe stata terrorizzata dalla AEV.

Quando si svegliò e toccò a Linda infilarsi nell'amaca, parlò della cosa con Jill.

— Penso che andrà tutto bene, Chet. Non farti scoraggiare da quei primi minuti.

— Non so; ci sono solo due tipi di reazione possibili quassù: o ti piace o provi una fott… maledetta paura. E non si può finge­re. Se si fa prendere dal panico quando siamo fuori…

— Non lo farà — disse Jill con fermezza. — E comunque tu sarai là ad aiutarla. Le ho detto che non potrà uscire fino a quando tu non avrai finito il lavoro di collegamento. Voleva scattare delle fotografie mentre sei al lavoro, ma si accontenterà di alcune pose.

Kinsman annuì. Ma la preoccupazione rimase. Chissà se l'in­fermiera di Calder aveva paura di volare?

Stava infilandosi gli stivali, con il piede libero ancorato ad un'apparecchiatura per evitare di galleggiare, quando Linda ter­minò il suo turno di riposo.

— Pronta per il giretto intorno all'isolato? — le chiese. Lei sorrise e fece cenno di sì senza alcuna esitazione.

— Non vedo l'ora. Posso scattare qualche foto mentre ti infi­li la tuta?

Forse sarà proprio okay.

Alla fine lui fu chiuso nella tuta a pressione. Linda e Jill si ri­trassero mentre lui apriva il portello stagno. Era inserito nel pavi­mento all'estremità della cabina dove era attraccato il velivolo spaziale. La camera stagna aveva le dimensioni di una bara. Con l'aiuto di Jill vi si infilò e chiuse il portello. Per muoversi Kin­sman dovette piegarsi in due. Fece un ultimo controllo alla tuta e poi pompò l'aria fuori dal compartimento. Adesso era pronto ad aprire il portello esterno.

Si trovava sotto i suoi piedi, ma quando si aprì ed apparvero le stelle, l'orientamento di Kinsman in assenza di peso parve ca­povolgersi, come in presenza di un'illusione ottica ed ebbe l'im­pressione di essere girato a testa in giù a guardare fuori.

— Esco ora — disse nel microfono del casco.

— Okay — rispose la voce di Jill.

Con cautela si infilò nel portello aperto e una volta fuori af­ferrò con una mano guantata il bordo dell'apertura, come un nuotatore si tiene per un attimo alla ringhiera prima di immerger­si in acque profonde. Fuori. Ruotando lentamente su se stesso, vide la bellezza immensa della Terra, di una luminosità abba­gliante anche attraverso il visore oscurato. Oltre l'orizzonte in­curvato vi era l'oscurità dell'infinito, con le stelle splendenti che lo fissavano con imperturbabile solennità.

Ora era solo. Un piccolo universo personale, indipendente da tutto e da tutti. Poteva tagliare il cordone ombelicale di sopravvi­venza che lo univa al laboratorio e galleggiare libero per sempre. Ed essere morto in due minuti. Eh, questo è il guaio!

Invece, slacciò la minuscola pistola a gas che aveva sul petto e, trascinandosi dietro il cordone ombelicale, si avviò verso il mo­dulo del generatore, situato a poca distanza dal laboratorio: un tozzo cono tronco, di lunghezza minore ma più grande del labo­ratorio stesso, con un lato vividamente illuminato dalla luce del sole, mentre il resto era immerso nella luce più tenue riflessa dal lato diurno della Terra sottostante.

Il lavoro di Kinsman consisteva nell'ispezionare il generatore, controllare gli strumenti, e infine collegarlo al sistema elettrico del laboratorio. Non c'era bisogno di congiungere materialmente le due parti, ma solo di collegare un paio di cavi elettrici. Tutto quello che serviva per il lavoro, attrezzi, cavi, strumenti di con­trollo, erano già all'interno del generatore, in attesa di essere usati.

Sulla Terra sarebbe stata un'operazione semplice. A gravità zero, era piuttosto complicata. Il più piccolo movimento spinge­va il corpo alla deriva. Bisognava lottare contro i movimenti ai quali si era abituati; fare uno sforzo per mantenersi sempre nella giusta posizione. Era facile stancarsi a gravità zero.

Kinsman accettava tutto questo quasi inconsciamente. Lavorò lentamente, metodicamente, facendo il minor numero possibile di movimenti, lasciandosi andare leggermente alla deriva finché un movimento più o meno naturale del corpo lo risospingeva nel­la direzione opposta. Cavalca le onde, lentamente e con calma. Il suo lavoro aveva un ritmo, il ritmo naturale, simile a un sogno, dell'assenza di peso.

I suoi auricolari rimasero silenziosi e lui taceva. Gli unici ru­mori erano il mormorio del ventilatore della tuta e il suo respiro regolare. Era concentrato solo sul suo lavoro.

Alla fine si spinse con i razzi in direzione del laboratorio trai­nando un paio di spessi cavi. Trovò i connettori nella parete late­rale del laboratorio e inserì le spine. Vi dichiaro laboratorio e gruppo elettrogeno. Ispezionò le luci di controllo lungo i connet­tori. Tutto verde. Possiate voi generare molti kilowatt.

Dondolando da un appiglio all'altro lungo il fianco del labo­ratorio, ritornò verso il portello stagno.

— Okay, ho finito. A che punto è Linda?

La voce di Jill rispose: — È pronta.

— Mandala fuori.

Lei uscì lentamente, e i primi a spuntare dal portello a for­ma di bulbo furono i suoi piedi, incerti e ondeggianti. A Kinsman quella scena ricordò un vecchio film sul parto di una ba­lena.

— Benvenuta nel mondo vero — le disse quando anche la te­sta spuntò dalla camera a tenuta stagna.

Lei si voltò per rispondergli, la udì boccheggiare, e in quel momento capì che lei gli piaceva.

— È… è…

— Impressionante — suggerì Kinsman. — E guardati… sen­za mani.

Lei galleggiava liberamente, la tuta appesantita dalle apparec­chiature fotografiche e il cordone ombelicale che ondeggiava len­tamente dietro di lei. Kinsman non riusciva a scorgere il suo volto attraverso il visore oscurato, ma intuiva la sua meraviglia nel to­no della sua voce, persino nel modo in cui respirava.

— Non ho mai visto nulla di così assolutamente irresisti­bile…

E poi, tutto ad un tratto, divenne completamente professio­nale: afferrò la macchina fotografica, e cominciò a scattare foto della Terra, delle stelle e della luna, una dopo l'altra. Si mosse troppo in fretta e cominciò a ruzzolare. Kinsman si slanciò su di lei e la fermò, afferrandola per le spalle.

— Ehi, calma. Non c'è pericolo che scappino. Hai un sacco di tempo.

— Voglio scattarti delle foto, e anche al laboratorio. Puoi tornare al generatore e ripetere qualcuno dei movimenti che face­vi quando eri al lavoro?

Kinsman si mise in posa per lei, rispose alle sue domande, re­cuperò una macchina che lei si era lasciata sfuggire dalle mani e che se ne stava andando alla deriva nello spazio.

— Giudicare le distanze diventa un tantino difficile qui fuori, — disse lui riportandole la macchina fotografica.

Jill li chiamò due volte e ordinò loro di rientrare. — Chet, sei già quindici minuti oltre il limite!

— Possiamo restare fuori ancora un po', ho ancora della ri­serva.

— La farai stancare troppo.

— Io mi sento perfettamente bene — disse Linda con voce rapita.

— Quanta pellicola ti è rimasta? — le chiese Kinsman.

— Ancora sei fotografie — disse lei guardando la macchina.

— Okay, rientreremo quando avrà finito la pellicola, Jill.

— Fra cinque minuti sarete al buio!

Voltandosi verso Linda, che stava galleggiando a testa in giù con la Terra striata di nubi sullo sfondo, disse: — Risparmia la pellicola per il tramonto e poi scatta a più non posso.

— Il tramonto? E che cosa devo inquadrare?

— Quando sarà il momento lo saprai. Per ora guarda.

Arrivò rapidamente, ma Linda fu più rapida. Mentre il labo­ratorio percorreva la sua orbita verso le ombre notturne della Ter­ra, il sole calò all'orizzonte e proiettò per qualche attimo spettaco­lari riflessi di un rosso e di un arancione purissimi, per passare alla fine ad un blu mozzafiato. Kinsman guardò in silenzio, udendo il respiro sempre più rapido di Linda mentre scattava le foto.

Poi furono nell'oscurità. Kinsman accese la lampada del pro­prio casco; Linda era immobile con la macchina ancora fra le mani.

— È… impossibile descriverlo. — La sua voce era come svuotata. — Se non l'avessi visto… se non l'avessi messo sulla pellicola, non credo che sarei capace di convincermi che non fos­se un sogno.

La voce di Jill gracchiò negli auricolari di Kinsman: — Chet, rientrate! È contro ogni misura di sicurezza restare fuori al buio.

Lui guardò in direzione del laboratorio. Le luci erano visibili lungo tutta la fiancata e gli oblò erano illuminati dall'interno. Senza di essi, non sarebbe neppure riuscito a vederlo, anche se era a pochi metri di distanza.

— Okay, okay. Accendi la luce della camera stagna, così possiamo vedere il portello.

Linda continuò ancora a parlare di quello che aveva visto là fuori, molto dopo che si furono tolti le tute a pressione ed ebbero mangiato panini e biscotti.

— Sei mai stata fuori? — chiese a Jill.

Appollaiata sull'orlo del banco di biologia vicino alla colonia di topi, Jill annuì brevemente: — Due volte.

— Non è spettacolare? Spero molto nelle foto; qualche messa a fuoco della macchina…

— Andranno benissimo — disse Jill. — Se non vengono, ab­biamo un cumulo di fotografie che potrai usare.

— Oh, ma non ci saranno quelle di Chet che lavora al gene­ratore.

Jill scosse le spalle. — Ma non devi scattare foto anche all'in­terno? Se vuoi delle istantanee di veri veterani dello spazio, do­vresti fotografare questi topi. Sono quassù ormai da mesi, e vivo­no tranquilli mettendo su famiglia. E non fanno certo tante sto­rie.

— Be', alcuni di noi fanno cose eccitanti — disse Kinsman, — mentre altri danno da mangiare ai topi.

Jill gli rivolse uno sguardo infuocato.

Dando un'occhiata al suo orologio, Kinsman disse: — Ragaz­ze, è ora che io vada a nanna. Ho avuto una giornata dura: mec­canico, guida turistica, e cover boy per Photo Day. Lavoro, lavo­ro, lavoro.

Scivolò accanto a Linda con un sorriso, continuando a sorri­dere anche quando fu vicino a Jill. La sua espressione era sempre minacciosa.

Quando si risvegliò, Linda e Jill stavano chiacchierando pia­cevolmente davanti al microscopio e ai vetrini sul banco di biolo­gia.

Linda fu la prima a vederlo. — Oh, salve. Jill mi ha fatto ve­dere le spore che sta studiando. E ho fotografato i topi. Forse ci finiranno loro in copertina al posto tuo.

Kinsman fece una smorfia: — Ti sta mettendo contro di me? — Ma dentro di sé pensò: Che cosa diavolo avrà detto di me Jill?

Jill galleggiò verso il banco di controllo, prese il giornale di bordo della missione e lo fece scivolare verso Kinsman.

— Il controllo a terra dice che il generatore è okay — disse. — Hai fatto un buon lavoro.

— Grazie. — Afferrò il giornale di bordo. — A chi tocca an­dare a dormire, ora?

— A me — rispose Jill.

— Okay. Niente di speciale in arrivo?

— No. Tutto come da programma. La prossima trasmissione di dati tra dodici minuti. Stazione di Kodiak.

Kinsman annuì. — Dormi bene.

Quando Jill ebbe tirato la tenda dell'area di riposo, Kinsman portò il diario della missione al banco di controllo e si sedette. Linda rimase al bancone di biologia, a circa tre passi di distanza.

Con uno sguardo rapido controllò il quadro degli strumenti e poi si rivolse a Linda. — Bene, adesso hai capito cosa intendevo dire quando parlavo di una nuova esperienza di vita?

— Credo di sì. È così diverso…

— Qui è la realtà. La libertà completa. Un mondo nuovo. Dopo dieci minuti di AEV tutto il resto non ha più valore.

— È stato certamente eccitante.

— Di più. È vivere. Stare a terra è insopportabile, anche gui­dare un aereo è noioso. Il divertimento è qui… in orbita, e sulla Luna. Nessuno può dire di essere mai andato più vicino al para­diso.

— Parli sul serio?

— Certamente. Ho pensato di chiedere a Murdock di farmi trasferire alla NASA. Le missioni dell'aeronautica non compren­dono la Luna, e a me piacerebbe camminare su di un mondo nuovo per vedere il panorama.

Lei gli sorrise. — Ho paura di non avere il tuo entusiasmo.

— Be', pensaci un attimo. Quassù sei libera. Libera davvero, per la prima volta in vita tua. Tutte le regole, le leggi, i pregiudizi che ti hanno pesato addosso per tutta la vita, sono tutti laggiù. Quassù si comincia da capo. Puoi essere te stesso e fare ciò che ti piace… e nessuno può interferire.

— Fintanto che qualcuno ti rifornisce di aria, cibo, acqua e…

— Certo, questo è l'aspetto pratico. Viviamo in un microco­smo grazie all'industria aerospaziale e all'AFSC. Ma non abbia­mo legami. Quelli con i galloni non possono obbligarci a seguire le loro regole. Siamo noi a scrivere il libro dei regolamenti… per la prima volta dal 1776, stiamo scrivendo delle regole nuove.

Linda assunse un'espressione pensierosa. Kinsman non sape­va se le sue parole l'avessero davvero impressionata o se lei im­maginasse dove lui voleva andare a parare. Si girò di nuovo verso il banco di controllo, e studiò ancora il piano di volo della mis­sione.

Aveva attentamente considerato tutte le possibili opportunità e le aveva ristrette. Entrambe erano per domani, sull'Oceano In­diano. Quaranta, cinquanta minuti tra un collegamento a terra e l'altro e in tutte e due le occasioni Jill se ne sarebbe rimasta a dormire.

— AF-9, qui è Kodiak.

Sfiorò l'interruttore della radio. — Qui AF-9, Kodiak. Avanti.

— Riceviamo la trasmissione automatica dei dati forte e chiara.

— Roger, Kodiak. Qui tutto normale; programma della mis­sione immutato.

— Okay, AF-9. Non c'è nulla di nuovo. Oh, aspettate… Chet, Lew Regneson è qui e dice che sta scommettendo su di te affinché tu mantenga alto l'onore dell'aeronautica. Sempre più in alto.

Cercando di non tradire la minima emozione, Kinsman rispo­se: — Roger, Kodiak. Programma della missione immutato.

— Buona fortuna!

L'espressione pensierosa di Linda si era accentuata. — Che cosa ha voluto dire?

Lui guardò dritto in quegli occhi azzurri e rispose: — Che io sia dannato se lo so. Regneson fa parte del gruppo degli astro­nauti; da sei settimane è stato assegnato a Kodiak. Il gelo gli avrà dato alla testa. Ho pensato che fosse meglio assecondarlo.

— Oh, capisco. — Ma non sembrava convinta.

— Hai controllato qualcuna delle tue foto con il processore?

Scuotendo il capo, Linda disse: — No, non voglio rischiare le pellicole con la vostra attrezzatura automatica. Le svilupperò io quando torneremo.

— È un'ottima attrezzatura — disse Kinsman.

— Sono molto esigente.

Lui alzò le spalie e lasciò perdere.

— Chet?

— Che cosa?

— Quel generatore… a che cosa serve? Il colonnello Murdock è stato terribilmente riservato quando gliel'ho chiesto.

— Nessuno dovrebbe saperlo finché Washington non farà l'annuncio ufficiale… probabilmente quando saremo tornati. Uf­ficialmente non posso dirti niente — sogghignò, — ma fonti ge­neralmente ben informate ritengono che servirà ad alimentare un impianto radar che verrà messo in orbita il mese prossimo. Il ra­dar farà parte del nostro sistema di allarme ABM.

— Missile antibalistico?

Kinsman annuì e spiegò: — Dall'orbita si può individuare con più facilità il lancio di missili, dando così un preavviso più lungo agli Stati Uniti.

— Così questo tuo nuovo mondo è coinvolto nella guerra.

— Più o meno — Kinsman si accigliò. — Naturalmente i ra­dar non ammazzano nessuno. Possono salvare delle vite.

— Ma questo è un satellite militare.

— Disarmato. Due sono le cose che questo nuovo mondo non ha ancora: morte e amore.

— Degli uomini sono morti…

— Non in orbita. Nel rientro. O in incidenti a terra, o in vo­lo. Nessuno è morto quassù. E nessuno ha fatto l'amore, anche.

A dispetto di se stessa, così sembrò a Kinsman, lei sorrise.

— Non ci sono state possibilità al riguardo?

— Be', i russi hanno avuto donne come astronauti. Jill è sta­ta la prima donna americana in orbita. Tu sei la seconda.

Lei rifletté per un momento. — Questa non è proprio la suite matrimoniale del Waldorf… in effetti ho visto stanze migliori nei motel lungo la Jersey Turnpike.

— I pionieri hanno la vita dura.

— Io sono una fotografa, Chet, non una pioniera.

Kinsman curvò le spalle e allargò le braccia, movimento che lo fece rimbalzare leggermente sulla sedia. — Colpito. Sono fuori gioco.

— Ti andrà meglio la prossima volta.

— Grazie. — Riportò l'attenzione sul piano di volo della missione. La prossima volta sarà tra sedici ore esatte, micina.

Quando Jill emerse dall'amaca, fu il turno di Linda di andare a dormire. Kinsman rimase al banco di controllo, sorbendo da un contenitore del caffè tiepido. Tutte le luci sui pannelli erano verdi. Jill stava prendendo un campione di sangue a uno dei to­polini bianchi.

— Come si comportano?

Senza alzare lo sguardo, lei rispose: — Bene. Si sono adattati magnificamente all'assenza di peso. Il livello del calcio si è stabi­lizzato, il tono muscolare è buono…

— Allora c'è speranza per noi, creature a due gambe?

Jill rimise il topo all'ingresso della colonia e chiuse il coper­chio facendo scattare la serratura. Il topo sgattaiolò per riunirsi al gruppo nel labirinto di tunnel di plastica trasparente.

— Non vedo alcuna ragione fisica per cui gli uomini non pos­sano vivere indefinitamente in orbita.

Kinsman colse una leggera ma decisa inflessione sulla parola fisica. — Tu pensi che alla lunga possano sorgere dei problemi emotivi?

— Chet, riesco a notare dei problemi emotivi in una missione di tre giorni. — Jill iniettò il campione di sangue in una provetta munita di tappo.

— Che cosa vuoi dire?

— Avanti — fece lei, mentre un'espressione di disgusto mista a disappunto le compariva in viso. — Quello che stai cercando di fare è ovvio. Dimeni la coda come un cucciolo tutte le volte che lei è in vista.

— Non hai dormito molto, vero?

— Non sono stata ad origliare, se è questo che intendi. Sem­plicemente sono rimasta ad osservarti mentre la guardavi. E qualcuno di quei messaggi da terra… c'è dentro tutta l'Aeronau­tica? Quanto denaro è stato scommesso?

— Non sono coinvolto in nessuna scommessa. Sto solo…

— Stai solo correndo il rischio di far fallire la missione e ma­gari di ammazzarci tutti e tre, solo per provare che tu sei Tarzan e lei Jane.

— Dannazione, Jill, adesso parli proprio come Murdock!

L'espressione acida sul viso di lei si fece più profonda. — Okay. Sei un ragazzo cresciuto. Se vuoi giocare a fare Tarzan mentre sei in servizio, questi sono fatti tuoi. Io non ti metterò i bastoni tra le ruote. Prenderò una pillola per dormire e me ne starò a cuccia.

— Lo faresti?

— Sì. Puoi avere la tua bionda Barbie e buona fortuna. Ma ti dico questo… non è sincera. Ho parlato con lei abbastanza a lun­go per potermene accorgere. Tu stai cercando di usarla, ma an­che lei sta usando te. Mi ha fatto un sacco di domande sul gene­ratore mentre tu dormivi. Lei è qui per ragioni sue, Chet, e se ti darà corda non sarà certo per un'avventura romantica o per il fa­scino della missione.

Dio Onnipotente, Jill è gelosa!

Quando Linda tornò dall'area di riposo, l'atmosfera era tran­quilla ma tesa. Ognuno badò al proprio lavoro: Jill si occupava della colonia di alghe sullo scaffale sopra il bancone di biologia; Kinsman estraeva le pellicole dalle macchine fotografiche in pre­visione del ritorno a terra e le ricaricava; Linda aveva cura di sta­re alla larga da tutti e due.

Il controllo a terra chiamò per sapere come andavano le cose. Sia Linda che Jill lanciarono un'occhiata penetrante a Kinsman. Lui si limitò a rispondere:

— Seguiamo il programma della missione. Tutti i sistemi so­no sul verde.

Consumarono un pasto a base di cibo spremuto da tubetti di plastica, rimanendo per lo più in silenzio, e poi venne il turno di riposo di Kinsman. Ma non prima che avesse controllato il piano di volo. La prossima è Jill, e per quattro ore saremo soli, com­preso un passaggio sull'Oceano Indiano.

Quando Jill si fu ritirata, Kinsman chiamò Linda al banco di controllo con il pretesto di mostrarle l'immagine radar di un sa­tellite russo.

— Ci stiamo avvicinando, adesso. — Si strinsero fianco a fianco per sbirciare lo schermo arancione del radar, abbastanza vicini perché Kinsman riuscisse a cogliere un soffio di profumo molto femminile. — Solo mille chilometri di distanza.

— Perché non fai lampeggiare le luci?

— Non c'è equipaggio.

— Oh.

— È un po' come la prima guerra mondiale quassù — si rese conto Kinsman rialzandosi. — Il solo fatto di essere qui è più im­portante della nazione di appartenenza.

— Anche i russi la pensano allo stesso modo?

Kinsman accennò con il capo: — Penso di sì.

Linda era in piedi di fronte a lui, tanto vicina che quasi si po­tevano toccare.

— Sai — disse Kinsman, — la prima volta che ti ho visto ho pensato che tu fossi una modella… non una fotografa.

Scostandosi leggermente da lui, lei rispose: — Ho cominciato come modella… — la sua voce si spense.

— Non fermarti. Cosa stavi per dire?

Qualcosa in lei era cambiato, notò Kinsman. Era sempre freddamente amichevole, ma ora stava in guardia, era cauta e… triste?

Scrollando le spalle, lei rispose: — Essere una fotomodella è una strada senza uscita. Alla fine mi resi conto che c'era molto più futuro dall'altra parte della macchina fotografica.

— Eri troppo intelligente per fare la modella.

— Non adularmi.

— Perché mai dovrei adularti?

— Qui non siamo sulla Terra.

Touché.

Lei galleggiò verso la cambusa. Kinsman la seguì.

— Da quanto tempo sei dall'altra parte della macchina?

Voltandosi verso di lui lei disse: — Suppongo che sia io a do­ver raccontare la tua storia e non viceversa.

— Okay… fammi delle domande.

— In quanti sanno che tu dovresti portarmi a letto quassù?

Kinsman si lasciò sfuggire un sorriso, un riflesso automatico per guadagnare tempo. Ma che diavolo,pensò. Ad alta voce ri­spose: — Non lo so. È cominciato come uno scherzo fra qualcu­no dei ragazzi… evidentemente la voce si è sparsa.

— E quanto denaro c'è in gioco se vinci o perdi? — Lei non sorrideva.

— Denaro? — Kinsman era davvero sorpreso. — Il denaro non c'entra.

— Ah, no?

— No, non per me — insistette lui.

La tensione del corpo di lei sembrò attenuarsi un poco. — Al­lora perché… voglio dire… che cos'è questa storia?

Kinsman fece riapparire il sorriso e scivolò nella sedia più vi­cina. — Perché no? Tu sei maledettamente carina, nessuno di noi ha dei legami, nessuno ci ha mai provato a gravità zero… Diami­ne, perché no?

— Ma perché io dovrei farlo?

— Questa è la domanda fondamentale. È questo che lo rende un'avventura.

Lei lo guardò pensierosa appoggiando il corpo alto al pannel­lo della cambusa. — Proprio così. Un'avventura. Non c'è nient'altro?

— Dipende — rispose Kinsman. — È difficile dirlo prima.

— Tu vivi in un mondo molto semplice, Chet.

— Cerco di farlo. Tu no?

Lei scosse la testa. — No, il mio mondo è molto complesso.

— Ma include il sesso.

Lei sorrise, ma senza allegria. — Davvero?

— Vuoi dire mai? — La voce di Kinsman suonò incredula al­le sue stesse orecchie. Lei non rispose.

— Proprio mai? Non posso crederci…

— No, — rispose lei, — non esattamente. Mai per… per un'avventura. Per la sicurezza dell'impiego, sì. Per avere gli inca­richi migliori. Per farmi insegnare ad usare una macchina fotografica, in primo luogo. Ma mai per divertimento… almeno, è da molto, molto tempo che non lo faccio per divertimento.

Kinsman guardò quegli occhi azzurro ghiaccio e vide che era­no perfettamente asciutti e fissi su di lui. Tese una mano verso la ragazza, ma lei non mosse un muscolo.

— Questo… questo è un modo maledettamente solitario di vivere — disse lui.

— Sì, lo è. — La sua voce era come una lama d'acciaio, sen­za alcuna traccia di autocompatimento.

— Ma com'è successo… perché…

Lei riappoggiò la schiena alla paratia della cambusa, lo sguardo lontano, nel passato. — Ebbi una bambina. Lui non la voleva. Dovetti darla in adozione… o quello, o abortire. La piccola dovrebbe avere cinque anni, adesso. Non so dov'è. — Si raddrizzò e guardò di nuovo Kinsman. — Ma ho scoperto che il sesso serve a fare bambini o a fare carriera. Mai a diver­tirsi.

Kinsman sedeva immobile, come se avesse appena ricevuto un pugno nello stomaco. L'unico suono era il debole ronzio delle apparecchiature e il sussurro del ventilatore.

Linda fece una smorfia. — Vorrei che tu riuscissi a vedere la tua faccia… Tarzan, l'Uomo-Scimmia che cerca di capire un reattore nucleare.

— L'unico guaio con la gravità zero — borbottò lui, — è che non ti puoi impiccare.


Kinsman ebbe l'impressione che Jill si fosse accorta che qual­cosa non andava. Dal momento in cui uscì dall'amaca cominciò ad annusare in giro, lanciando sguardi perplessi. Finalmente, quando Linda si ritirò per il suo ultimo periodo di riposo, Jill gli chiese:

— Come va tra voi due?

— Bene.

— Davvero?

— Davvero. Stiamo per aprire qui un Playboy club. Vuoi fa­re la coniglietta?

Lui arricciò il naso. — Di quelle ne hai in abbondanza.

Per più di un'ora si occuparono delle loro mansioni in silen­zio. Kinsman era intento a ricalibrare il tracciatore radar quando Jill gli allungò una tazza di caffè bollente.

Lui si girò sulla sedia. Jill era in piedi accanto a lui; non mol­to più alta della sua testa anche da seduto.

— Grazie.

Il viso di lei era molto serio. — C'è qualcosa che ti turba, Chet? Che cosa ti ha fatto?

— Niente.

— Davvero?

— Per amor del cielo, non ricominciare! Niente, non mi ha fatto assolutamente niente. Forse è proprio questo che mi secca.

Scuotendo il capo, lei disse: — No, tu sei preoccupato per qualcosa e non riguarda te.

— Non essere così maledettamente drammatica, Jill.

Lei gli mise una mano sulla spalla. — Chet… lo so che per te tutto questo è solo un gioco, ma la gente può farsi male in questo genere di gioco e… be'… non sempre nella vita le cose vanno co­me ci si aspetta.

Alzando lo sguardo verso quei profondi occhi castani, Kinsman sentì svanire la propria irritazione. — Okay, bimba. Gra­zie per la filosofia. Io sono grande, però, e so di che cosa si tratta.

— Tu pensi di saperlo.

Scrollando le spalle: — Okay, lo penso. Forse non tutto è co­me dovrebbe essere, ma un uomo è innocente finché non è stata provata la sua colpevolezza, e tutto è splendente come l'oro fin­ché non ci trovi sopra qualche macchia. Questa è la mia filosofia per oggi!

— Va bene, furbone — Jill sorrise tristemente. — Fai Tarzan. Combatti da solo. Il fatto è che non voglio che lei ti faccia del male.

— Non mi farà del male.

Jill disse: — Tu lo speri. Okay, se c'è qualcosa che posso fare…

— Sì che c'è qualcosa…

— Cioè?

— Quando vai di nuovo a dormire, fai in modo che Linda si accorga che tu prendi un sonnifero. Lo farai?

Il viso di lei perse ogni espressione. — Certo — rispose in to­no piatto, — qualunque cosa per un collega ufficiale.

Parecchie ore più tardi recitò molto bene la sua parte, dando molto risalto al fatto che prendeva una pillola per riposare bene nell'ultimo periodo prima del rientro. A Kinsman sembrò che Jill stesse francamente esagerando.

— Prendete sempre la pillola prima dell'ultimo turno di ripo­so? — chiese Linda dopo che Jill si fu ritirata.

— Bisogna essere completamente svegli e riposati per il volo di rientro. È la parte più rischiosa dell'operazione.

— Oh, capisco.

— Ma non c'è niente di cui preoccuparsi, però — aggiunse Kinsman.

Andò al banco di controllo e si occupò delle attività imposte dalla missione. Linda si adagiò nella sedia vicina, a meno di mez­zo metro di distanza. Kinsman parlò brevemente con il controllo di Kodiak, come previsto, e fece una registrazione sul diario di bordo.

Ancora tre controlli a terra e poi saremo sull'Oceano India­no. Con tutto il tempo di questo mondo.

Ma non sollevò lo sguardo dal pannello di controllo; verificò ogni sistema del laboratorio, con le dita che guizzavano sui pul­santi, gli occhi fissi sulle luci rosse, arancioni e verdi che gli con­fermavano il funzionamento dei macchinari elettrici e meccanici del laboratorio.

— Chet?

— Sì?

— Sei… seccato con me?

Sempre senza guardarla: — No, sono occupato. Perché do­vrei essere seccato con te?

— Be', forse non seccato, ma…

— Sconcertato?

— Sconcertato, ferito, qualcosa del genere.

Inserì qualcosa nel pannello del computer e poi si volse verso di lei. — Linda, non ho avuto tempo di analizzare il mio stato d'animo. Sei una ragazza complicata; forse troppo complicata per me. La vita ne ha già troppe di complicazioni.

Lei aprì leggermente la bocca.

— D'altra parte — aggiunse lui, — noi WASP dobbiamo restare uniti. Siamo rimasti in pochi.

Questo la fece sorridere. — Io non sono una WASP. Il mio vero nome è Szymanski… l'ho cambiato quando ho cominciato a fare la modella.

— Oh. Un'altra complicazione.

Lei stava per rispondere quando la radio gracchiò: — AF-9, qui è Cheyenne. Cheyenne a AF-9.

Kinsman si sporse e schiacciò il pulsante di trasmissione. — AF-9 a Cheyenne. Vi riceviamo chiaro ma debole.

— Roger AF-9. Riceviamo la vostra telemetria. Qui tutti i si­stemi indicano verde.

— Anche il controllo manuale dei sistemi è sul verde — disse Kinsman. — Programma della missione okay, nessuna deviazio­ne. Compiti ultimati al novanta per cento.

— Roger. Il controllo a terra suggerisce di iniziare i controlli del veicolo spaziale alla prossima orbita. Il rientro è programma­to fra dieci ore.

— Va bene. Lo faremo.

— Okay, Chet. Da qui sembra che tutto vada bene. Nient'altro da riferire, Padre Fondatore?

— Fatevi gli affari vostri — spense il trasmettitore.

Linda gli stava sorridendo.

— Che cosa c'è di così divertente?

— Tu. Stai diventando molto suscettibile per tutta questa faccenda.

— E continuerò ad esserlo per parecchi anni a venire. Quei ragazzi me lo rinfacceranno per un sacco di tempo.

— Potresti sempre dire una bugia.

— Su di te? No, non credo che potrei farlo. Se la ragazza fosse stata anonima, la cosa sarebbe diversa. Ma tutti ti conosco­no, sanno dove lavori…

— Sei un ufficiale galante. Suppongo che questo genere di voci potrebbero arrivare fino a New York.

Kinsman sogghignò. — Potresti persino andare sulla prima pagina del National Enquirer.

Lei rise: — Scommetto che tirerebbero fuori qualcuna delle mie vecchie fotografie in bikini.

— Attenta — disse Kinsman sollevando una mano, — adesso non sollecitare la mia fantasia più di quanto non lo sia già. Fac­cio già molta fatica ad essere galante, in questo momento.

Si tennero a distanza, Kinsman seduto al banco di controllo, Linda che galleggiava verso la cambusa, fin quasi a sfiorare la tenda dell'area di riposo.

Il centro di controllo a terra chiamò, e Kinsman fece un rapi­do rapporto. Quando alzò di nuovo lo sguardo su Linda, lei era seduta di fronte all'oblò di osservazione dell'altra parte del corri­doio vicino alla cambusa.

Il suo viso era preoccupato, ora, mentre ricambiava lo sguar­do di Kinsman, gli occhi… lui non era sicuro di quello che c'era in quegli occhi. Sembravano diversi: non come il ghiaccio, non più calcolatori. Ma molto preoccupati, quasi spaventati.

Kinsman continuò a rimanere in silenzio. Controllò e ricon­trollò il quadro dei comandi, per essere assolutamente sicuro che ogni valvola e ogni transistor del laboratorio funzionassero per­fettamente. Diede un'occhiata all'orologio: ancora cinque minuti prima della chiamata di Ascension. Controllò ancora il quadro luminoso.

Ascension chiamò in orario perfetto. Poiché avvertì che la tensione stava crescendo dentro di lui, Kinsman fece il normale rapporto con una voce deliberatamente calma e meccanica. Ascension chiuse il collegamento.

Con un ultimo, lungo sguardo ai controlli, Kinsman si spinse fuori dalla sedia e galleggiò verso Linda, con le mani che appena sfioravano gli appigli lungo il corridoio.

— Sei stata terribilmente tranquilla — le disse stando in piedi davanti a lei.

— Ho pensato a quello che hai detto poco fa. — Che cosa c'era nei suoi occhi? Ansia? Paura? — È… è stata una vita male­dettamente solitaria, Chet.

Lui la prese per un braccio, la sollevò gentilmente e la baciò.

— Ma…

— Va tutto bene — sussurrò lui. — Nessuno ci disturberà. Non lo saprà nessuno.

Lei scosse il capo. — Non è così facile, Chet. Non è così sem­plice.

— Perché no? Siamo insieme qui… cosa c'è di tanto compli­cato?

— Ma non c'è niente che ti turba? Stai galleggiando in un so­gno. Sei circondato da macchine belliche, vivi ogni minuto in mezzo al pericolo. Se una pompa si ferma o se un meteorite ci colpisce…

— Pensi di essere più al sicuro, laggiù?

— Ma la vita è complessa, Chet. E l'amore… be', è molto di più che puro divertimento.

— Certo che è di più. Ma è fatto anche per essere goduto. Che cosa c'è di sbagliato nell'afferrare un'opportunità quando ti si presenta? Che cosa c'è di così maledettamente complicato o importante? Siamo al di sopra delle preoccupazioni e dei guai della Terra. Forse solo per poche ore, ma ciò che conta è il mo­mento e il luogo, ciò che conta siamo noi. Loro non possono toc­carci, non possono obbligarci a fare niente o impedirci di fare ciò che vogliamo. Dipendiamo solo da noi stessi, capisci? Completa­mente.

Lei annuì, gli occhi ancora spalancati con l'espressione di un animale spaventato. Ma le sue mani scivolarono intorno al corpo di lui e insieme galleggiarono verso il banco di controllo. Senza parlare, Kinsman spense tutte le luci, e l'unico chiarore era quello emanato dal pannello di controllo e dalle luci lampeggianti del computer con il suo incessante mormorio.

Ora erano nel loro mondo, nel loro cosmo privato, fluttuava­no liberamente e dolcemente nell'oscurità. Sfiorandosi, allonta­nandosi, accoppiandosi, cercando nuovi mari e nuovi continenti, essi esplorarono il loro mondo.


Jill rimase nell'amaca finché Linda non entrò piano per vede­re se era già sveglia. Kinsman sedeva al banco di controllo; non era stanco, ma stranamente intorpidito.

Il resto del volo fu semplice routine. Jill e Kinsman si occupa­rono delle rispettive mansioni, parlando solo lo stretto necessa­rio. Linda fece un breve sonnellino, poi tornò a scattare le ultime fotografie. Finalmente ritornarono a carponi nel veicolo spaziale, si staccarono dal laboratorio e iniziarono la lunga parabola che li avrebbe riportati sulla Terra.

Kinsman diede un ultimo sguardo alla maestosa bellezza del pianeta, sereno e immoto tra le stelle, prima di premere il bottone che avrebbe fatto scivolare lo scudo termico davanti al suo oblò. Poi sentirono la spinta dei razzi, e si tuffarono nell'atmosfera, sapendo che un calore inimmaginabile li circondava in una stretta morsa e trasformava il piccolo velivolo in una fiammeggiante stella cadente. Schiacciato contro il sedile a causa della fortissima accelerazione, Kinsman lasciò che il controllo automatico guidasse il rientro, attraverso il calore e le turbolenze, fino ad un'altez­za in cui il veicolo, munito di ali, avrebbe potuto volare come un aereo a reazione.

Riprese i controlli e puntò il razzo verso la base aeronautica di Patrick, nel mondo degli uomini, del brutto tempo, delle città, della gerarchia e delle regole. Lo fece da solo, in silenzio. Non aveva bisogno dell'aiuto di Jill né di nessun'altro. Guidò il veli­volo dall'interno della sua tuta pressurizzata, con lo sguardo puntato sul pannello attraverso il visore del casco.

Automaticamente, si mise in contatto con il controllo a terra e ottenne l'autorizzazione a sollevare lo scudo termico.

L'oblò gli mostrò uno strato di nubi nere che si stendevano dal mare alla spiaggia, fino alla terraferma. Nei suoi auricolari si udivano le voci di molti altri uomini, ora: condizioni del vento, altitudine, velocità stimata. Sapeva, anche se non poteva vederli, che due aerei lo stavano seguendo, con le cineprese puntate sul velivolo in fase di rientro. Per avere delle prove se mi sfracello.

Si tuffarono nelle nubi e un'ondata di nebbiolina grigia li av­volse oscurando l'oblò. Gli occhi di Kinsman passarono allo schermo radar che si trovava alla sua destra. Il velivolo tremò, poi uscirono dalla coltre di nubi e videro il lungo e nero rettilineo della pista a breve distanza davanti a loro. Rilasciò leggermente gli strumenti di guida, mentre le mani ed i piedi si muovevano istintivamente, sorvolò la rada vegetazione e portò il velivolo sul­la pista. Il carrello sfiorò il terreno una prima volta, li fece rim­balzare leggermente e poi toccò di nuovo con un tremendo stri­dio. Corsero per più di un miglio prima di fermarsi.

Si appoggiò all'indietro sul sedile e sentì il corpo ricoperto di sudore.

— Bell'atterraggio — disse Jill.

— Grazie — spense tutti gli strumenti, con gesti sicuri ed au­tomatici dovuti ad un lungo addestramento. Poi sollevò il visore del casco, si sporse verso l'alto e aprì il portello.

— Capolinea — disse in tono stanco. — Tutti a terra.

Si arrampicò attraverso il portello, sentendo di nuovo il pro­prio peso con un vago risentimento, poi aiutò Linda e Jill ad uscire dall'apparecchio. Saltarono sulla pista nera. Due furgoni, un'ambulanza e due autocarri dei pompieri si dirigevano verso di loro dai parcheggi all'estremità della pista, circa mezzo miglio più avanti.

Kinsman si tolse lentamente il casco. Il caldo e l'umidità della Florida gli davano fastidio, ora. Jill camminava alcuni passi da­vanti a lui, verso i veicoli che si stavano avvicinando.

Si affiancò a Linda. Lei si era tolta il casco ed aveva una bor­sa piena di pellicole.

— Ho riflettuto — le disse. — Sul fatto di condurre una vita solitaria… lo sai, non sei la sola. E non deve essere così. Posso venire a New York tutte le volte…

— Adesso chi sta prendendo le cose seriamente? — Il suo vi­so era di nuovo calmo, freddo, nonostante il caldo soffocante.

— Ma voglio dire…

— Ascolta, Chet. Ci siamo divertiti. Ora tu puoi raccontarlo ai tuoi amici, ed io ai miei. Ne ricaveremo un sacco di pubblicità. Sarà utile per la nostra carriera.

— Non ho mai pensato… io non…

Ma lei aveva già distolto lo sguardo, camminando in direzio­ne degli uomini che stavano accorrendo verso di loro dai camion. Uno di essi, un civile, aveva una macchina fotografica tra le ma­ni. Appoggiò un ginocchio a terra e scattò una fotografia di Lin­da che teneva in mano la pellicola, sfoderando un largo sorriso.

Kinsman rimase lì a bocca aperta.

Jill ritornò verso di lui. — Be'? Hai ottenuto quello che stavi cercando?

— No — disse lui adagio, — credo di no.

Lei gli tese la mano. — Non lo otteniamo mai, vero?


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