La vecchia trappola che Thomas, come voleva il suo nome, aveva distrutto, smantellandola, tanto tempo prima, pendeva ancora inutilizzabile sulla parete opposta.
Ecco, di nuovo, quel candore abbagliante, quello spazio che faceva impazzire per la suavastità.
Eric voltò subito a destra e si mise a correre rasente il muro, contando i passi, seguendo lo stesso itinerario percorso in occasione del suo primo Furto. Ansimava per la paura, ma continuava a ripetere a se stesso che lì correva gli stessi rischi di qualsiasi altro essere umano che vi si fosse avventurato. Lì, tutti gli uomini erano fuorilegge, inseguiti spietatamente, condannati a morte. In territorio titanico, nessuno godeva di privilegi speciali.
Appena ebbe raggiunto l’enorme mobile titanico, svoltò a sinistra, correndo sempre. Sussisteva una probabilità che gli Stranieri, o qualcuno di essi, fossero rimasti nel luogo dove li aveva incontrati la prima volta. In questo caso li avrebbe informati di quello che stava succedendo nei cunicoli, e forse loro gli avrebbero permesso di restare con la tribù. Perfino la compagnia di quegli Stranieri effeminati, chiacchieroni, troppo vestiti, sarebbe stata meglio di niente. Pareva che anche quello, come tante altre cose che gli avevano insegnato, fosse inutile e falso.
Mentre stava per entrare nell’andito buio, Eric si fermò. Finora aveva continuato a correre come gli avevano insegnato di fare in territorio titanico: Corri senza guardare intorno, e non fermarti mai. Beh, aveva già guardato, una volta, durante il Furto, e non gli era successo niente.
Perciò si fermò deliberatamente, prima di entrare, e dopo essersi assicurato che non ci fossero Titanici nei paraggi, si piazzò i pugni sui fianchi ed esaminò con aria di sfida l’enorme cunicolo. Sì, alla prima occhiata faceva sempre un certo effetto, questo doveva ammetterlo. Ma ci si abituava. Col tempo, anche quelle enormi bisacce, quei mobili strani, quel soffitto che si perdeva lontano lontano lassù in alto, avrebbero finito col diventare familiari.
Ci si abitua a tutto ridisse Eric. Basta stare attenti, tenere gli occhi bene aperti e giudicare da sé le cose. Sì, era deciso a meritarsi sul serio il nome di Eric l’Occhio.
Entrò nella struttura, e avanzò con cautela. Se gli Stranieri erano ancora lì dentro, forse temevano un attacco, e avrebbero infilzato senza tanti complimenti il primo estraneo, riservando a un secondo tempo le spiegazioni. Questo era certo, nel caso che Arthur l’Organizzatore fosse al corrente degli avvenimenti che si erano svolti e si stavano svolgendo nei cunicoli. Sicuramente in questo caso, avrebbe appostato delle sentinelle.
Ma Eric non ne incontrò. Sentì invece delle voci non appena fu entrato nel cunicolo più basso. E a mano a mano che si avvicinava alla biforcazione, le voci diventavano sempre più forti. Quando infine uscì nello spiazzo quadrato, era già preparato a quello che vide: decine di Stranieri, più o meno malconci, che discutevano, chiacchieravano, gesticolavano. Ognuno aveva la sua lampada legata alla fronte, e il locale era illuminato in modo abbacinante.
I feriti più gravi, quelli privi di sensi, erano sdraiati vicino al muro, e abbandonati a se stessi; quelli che invece potevano ancora reggersi o erano appena contusi, stavano raggruppati al capo opposto del cunicolo, formando circolo intorno a Walter l’Armatolo, e ad Arthur l’Organizzatore, e ciascuno voleva dire la sua, raccontare quello che gli era successo, criticare il comportamento degli altri, mettere in evidenza i difetti o i punti deboli dei progetti di Walter o delle direttive di Arthur.
Appena li aveva visti, Eric aveva pensato di avere davanti a sé i superstiti di un popolo dopo una disastrosa battaglia. La sua impressione corrispondeva alla realtà. Lì erano raccolti i fautori della Scienza titanica, o, per lo meno, quelli che erano riusciti a sopravvivere e a fuggire dopo che gli altri abitanti dei cunicoli li avevano sopraffatti e scacciati.
Chiunque essi fossero, ormai erano la sua gente. Gli unici compagni che gli rimanevano. Eric si fece avanti. Un uomo voltò la testa, lo guardò e sorrise: «Eric! Ehi, Eric!» chiamò.
L’uomo sovrastava gli altri di tutta la testa e portava i capelli sciolti, non raccolti sulla nuca con un laccio, come gli Stranieri. Quella era la testa di un guerriero dell’Umanità.
A forza di gomiti, Eric e il guerriero si fecero strada uno incontro all’altro, e molto prima che s’incontrassero, Eric riconobbe l’uomo. Alto, magro, nervoso, scattante. Il guerriero della banda di Thomas che gli aveva sempre reso la vita difficile, l’uomo col quale, per poco, non aveva avuto un duello prima del Furto: Roy il Corridore.
A quanto sembrava, Roy non pensava più al loro antagonismo. Quando finalmente furono uno di fronte all’altro, abbracciò con calore Eric, ed esclamò: «Finalmente una faccia nota! Eric l’Unico, se tu sapessi quanto sono felice di rivederti!»
Eric s’irrigidì un poco, cercando di svincolarsi dall’abbraccio: «Eric l’Occhio» si affrettò a correggere. «Sono diventato Eric l’Occhio.»
L’altro sollevò le mani per placarlo. «Ma sicuro, Eric l’Occhio! Scusami. Ti prometto che d’ora in avanti non me lo dimenticherò. Eric l’Occhio. Come vuoi tu, ragazzo mio. Basta che siamo amici. Parliamo un po’. Sto impazzendo in mezzo a questa gente, questi guerrieri da burla, queste mezze donne che non fanno che blaterare… E non so che cosa sia successo da noi. Qual è la nostra situazione?»
«Non facciamo più parte dell’Umanità» rispose Eric, e poi gli raccontò tutto quello che era successo da quando era rientrato dopo il Furto. «Siamo dei Fuorilegge» concluse. «Tu, io e tutti gli altri della banda di Thomas. Chi è rimasto?»
«Nessuno, per quanto mi risulta. Credevo di essere l’unico superstite, finché non sei arrivato tu. Me la sono cavata soltanto perché ero di sentinella in fondo al corridoio quando ci hanno assalito di sorpresa. Ho sentito il rumore, e sono corso indietro. Stephen Fortebraccio e la sua banda, insieme a un folto gruppo di Stranieri, stavano massacrando i nostri. Appena mi hanno visto hanno tentato di raggiungermi, ma io non ci ho pensato due volte e mi sono messo a correre… mandando al diavolo il giuramento del guerriero. E, credimi, se pensi di avermi mai visto correre svelto, ebbene ti sbagli. Facevo dei balzi così lunghi che per poco non mi spaccavano in due. E intanto quelli continuavano a scagliarmi contro le lance. Non ne ho mai viste tante, ma per fortuna non mi hanno colpito. Dopo tutto, cosa vuoi aspettarti da degli Stranieri?» aggiunse con disprezzo. «Non riuscirebbero nemmeno a colpire il vecchio Franklin, grasso com’è, seduto sul suo tumulo. Diciamo piuttosto che sono stato fortunato perché nessuno degli uomini di Stephen ha partecipato all’inseguimento. E poi, come ti ho detto, correvo… Diavolo come correvo! Non ci ho messo molto a seminarli tutti, e quando finalmente mi sono sentito al sicuro mi sono fermato per riprendere fiato. Poi mi sono diretto a un’altra porta, naturalmente, ed eccomi qua.»
«Conoscevi questo posto? Ci eri già stato prima?»
«No, proprio qui non c’ero mai stato. Ma sai, noi della banda di Thomas eravamo tutti affiliati alla Scienza titanica, chi più chi meno. Tuo zio ci aveva convertito poco per volta. E spesso, quando uscivamo a razziare cibo, lui entrava qua dentro e lasciava uno di noi fuori, di guardia. E ci aveva insegnato come fare per arrivare fin qui, in caso di emergenza, se avessimo avuto bisogno di aiuto. Aiuto!» Roy il Corridore si guardò intorno, facendo una smorfia. «Aiuto da questi smidollati chiacchieroni? Gli Stranieri non sanno fare altro che parlare, parlare, parlare.»
Eric ammise che aveva ragione, ma in quel momento almeno, che altro potevano fare? Tuttavia disse che avrebbero potuto almeno appostare delle sentinelle.
«L’ho detto anch’io, al loro capo, ad Arthur l’Organizzatore» disse Roy. «Ma cosa vuoi aspettarti da questi Stranieri? Non sono guerrieri, loro. Arthur non mi ha nemmeno badato, e si è limitato a chiedermi se sapevo che ci fossero affiliati alla Scienza titanica nelle altre bande dell’Umanità. Possono assalirci da un momento all’altro, e lui pensa alle organizzazioni segrete.»
«È più forte di lui» disse Eric. «Dopo tutto è un Organizzatore. Così come tu sei un Corridore e io un Occhio. Se tu perdessi le gambe e io diventassi cieco, come ci sentiremmo? Arthur ha perso la sua organizzazione. È un Organizzatore senza organizzazione. Devi ammettere che per lui è terribile.»
«Può darsi. Ma, sono fatti suoi, non miei. Io sono sempre in grado di correre più svelto di chiunque altro… Ah, dimenticavo: mi ha anche detto che se tu o tuo zio riuscivate a tornare qui, doveva farvi qualche domanda. Adesso ti porto da lui.»
Mentre si facevano strada fra la ressa, Roy si chinò a sussurrare nell’orecchio di Eric: «Lasciami però dire, Eric, che ora come ora non ci serve un Arthur l’Organizzatore. Quello che ci occorre è un bravo capitano, uno di prim’ordine, com’era tuo zio. Sapeva sempre cosa fare, sia quando vinceva sia quando perdeva. Quello sì che era un uomo… E pensare che adesso ingrassa le fogne. Non riesco a crederci.»
Arthur l’Organizzatore si staccò dal gruppetto di Stranieri vociferanti che lo attorniava, esclamando: «Benvenuto, Eric! Benvenuto di tutto cuore. Mi hanno detto che tuo zio non è riuscito a salvarsi, ma spero proprio che non sia vero.»
«Invece è vero, purtroppo» disse Eric. «L’ho sepolto io stesso.» E raccontò all’Organizzatore quello che aveva appena raccontato a Roy.
Quando ebbe finito, Arthur rimase a lungo pensoso, e infine commentò: «Proprio come gli altri… Il capo ucciso, i suoi uomini sterminati, salvo pochi costretti alla fuga. E, in ogni caso, un attacco di sorpresa. Devo ammettere che si è trattato di un’organizzazione perfetta, da come tutto è filato liscio. Certo, non tutto e riuscito come doveva, prova ne sia che tu e Roy siete riusciti ad arrivare fin qui. Ma sono inezie in confronto alla perfetta riuscita del piano.»
«Lieto che tu sia in grado di apprezzarlo… Noi, però, lo apprezziamo un po’ meno. Siamo distrutti, non abbiamo più speranze.»
«Non è ancora detto» rispose Arthur, circondando le spalle di Eric con un braccio. «Una fase è chiusa, e adesso se ne apre un’altra, ecco tutto. Per citare la Scienza ancestrale dei nostri antenati: azione uguale a reazione. In questo momento, la reazione predomina, e l’azione, la nostra azione, deve ricostituire le proprie forze e cercare nuove vie. Tutti i cunicoli umani ci sono preclusi, ma abbiamo a disposizione quelli dei Titanici. Vi andrebbe l’idea di una piccola spedizione?»
Eric arretrò di un passo: «Una spedizione? In territorio titanico? Ma perché? A quale scopo?»
«Per conoscere meglio la Scienza titanica. In altre parole, per mettere in pratica quello che andiamo predicando. Noi siamo uomini di Scienza titanica, ma quali dimostrazioni di questa Scienza siamo in grado di offrire a quelli che vogliamo convertire? Ben poche. Sappiamo sì molte cose, ma un po’ di tutto, e niente a fondo. Ora io dico questo.» Aveva alzato la voce, ed Eric si accorse che gli altri avevano smesso di parlare e lo stavano ascoltando tutti. «Se dobbiamo essere scienziati titanici, siamolo fino in fondo, con completa cognizione di causa. Cerchiamo di strappare ai Titanici tutti i segreti, così, quando torneremo dalla nostra gente, potremo offrire prove inconfutabili delle nostre convinzioni. Solo in questo modo saremo in grado di distruggere dalle fondamenta la Scienza ancestrale.»
«Ha ragione!» esclamò una voce entusiasta.
«Certo. Arthur ha trovato quello che ci voleva.»
«Bravo, Arthur. È proprio un Organizzatore in gamba.»
«Ma cosa dovremmo fare?» chiese a questo punto Eric, in tono freddo e pratico.
L’Organizzatore si voltò a guardarlo, inarcando un sopracciglio. «Se lo sapessimo, saremmo alla pari coi Titanici, e non avremmo ragione di preoccuparci» disse. «No, non sappiamo esattamente cosa dobbiamo trovare, però Walter conosce un posto dove i Titanici tengono le loro armi più potenti. Non è vero, Walter?»
L’Armaiolo fece un cenno di assenso, mentre tutti si voltavano a guardarlo. «Ne ho sentito parlare, e credo di essere in grado di trovarlo. Secondo me là sono conservate le ultime armi costruite dai Titanici, l’ultima parola in fatto di Scienza titanica.»
«Avete sentito, ragazzi?» disse Arthur. «L’ultima parola in fatto di Scienza titanica! E noi ce ne impadroniremo. E allora, lasciamo pure che i capi e le Società Femminili reazionarie ci siano ostili. Che ci si provino! Faremo vedere a tutti, una volta per sempre, di che cosa è capace la Scienza titanica!»
Tutti, Roy compreso, gridarono e applaudirono con entusiasmo. Eric, ancora dubbioso, si limitò a stringersi nelle spalle.
Arthur gli diede un’occhiata, e il suo sorriso si fece più largo, più espansivo. «Daremo una lezione tale, che non la dimenticheranno mai» disse, con sicurezza. «Ma adesso dormiamo un po’. Domattina, tutti quelli che sono in grado di stare in piedi dovranno mettersi in marcia. Dichiaro che da questo momento è notte.»
Roy e Eric si ritirarono in un angolo appartato e si sdraiarono per terra, schiena contro schiena. Dopo tutto, erano gli unici guerrieri dell’Umanità presenti. Prima di addormentarsi, Roy sussurrò: «Che idea eccezionale, eh, Eric? Veramente sublime!»
«Se non altro servirà a distrarre la nostra mente dal fatto che siamo dei Fuorilegge e tali resteremo per tutto il resto della vita» fu la risposta di Eric.
La mattina seguente, Eric si alzò prima degli altri e constatò che non erano ancora state appostate le sentinelle. Visto che il comando era così deficiente, decise che lui e Roy avrebbero fatto personalmente dei turni di guardia a partire dalla notte successiva. Non avrebbero perduto molte ore di riposo, dato che gli Stranieri avevano bisogno di molto più sonno dei guerrieri dell’Umanità. Oltre che dormire di più avevano anche bisogno di parlare molto di più. Eric non aveva mai visto una spedizione preceduta da tante discussioni. Indignato e impaziente si accoccolò in un angolo, e Roy lo raggiunse. Anche lui trovava gli Stranieri decisamente assurdi.
Per prima cosa dovettero stabilire chi sarebbe partito e chi sarebbe rimasto. Era chiaro che i feriti gravi non potevano muoversi. Ma quanti altri avrebbero dovuto rimanere per prendersi cura di loro? E chi avrebbe provveduto a seppellire i morti? E dovevano lasciare un gruppo di riserva in quella base, nell’eventualità che qualcuno portasse notizie dai cunicoli, e per avere pronti dei rinforzi, caso mai il corpo di spedizione ne avesse avuto bisogno.
Mentre Thomas il Distruggitrappole si sarebbe limitato a esporre i suoi piani ai seguaci obbedienti e rispettosi, Arthur l’Organizzatore continuava a chiedere il parere di tutti su ogni minimo particolare. E ognuno aveva la sua opinione da dire.
Tutti volevano esporre le proprie idee e ricevere adeguate lodi nel caso in cui una di queste idee si fosse rivelata brillante. Persero un mucchio di tempo per convincere un tale a rimanere coi feriti, mentre lui avrebbe preferito partire. Alla fine, tuttavia, Eric notò con una certa sorpresa che le decisioni prese dalla collettività collimavano quasi in ogni punto coi progetti di Arthur, mentre ciascuno era convinto di avere contribuito in modo essenziale alla formulazione dei progetti.
Arthur ci sapeva fare con gli uomini, anche se non era capace di imporsi.
E non era nemmeno capace di guidare una spedizione, come ebbe modo di constatare Eric poco dopo. Una volta sistemati i feriti e quelli che sarebbero rimasti a curarli e a occuparsi del resto, rimasero ventitré uomini che si avviarono disordinatamente, strascicando i piedi, chiacchierando, isolati o a gruppetti.
Uno di questi gruppi ruotava intorno ad Arthur che, più che il comandante di una banda di guerrieri, sembrava il capo di un gregge indisciplinato. Perfino nel tunnel basso, dove le pareti erano anguste e tutti dovevano chinarsi, il chiacchiericcio continuò fitto e senza pausa.
«Li senti?» disse Eric a Roy. «Continuano a parlare delle battaglie di ieri. Dicono che i capi erano legati fra loro e avevano un sistema di spionaggio che ha funzionato ottimamente. Se invece di chiacchierare avessero agito, forse anche loro avrebbero ottenuto qualche buon risultato.»
«Oh, sono Stranieri» disse con disprezzo l’altro. «Che cosa pretendi? Sono fatti a modo loro, e noi non li possiamo capire.» Eric si sorprese che Roy fosse diventato così tollerante, ma non fece commenti.
Quando davanti a loro comparve l’apertura da cui entrava a fiotti l’abbondante luce titanica, Eric si fermò, in attesa di ordini. Non poteva nemmeno supporre che sarebbero usciti allo scoperto senza prendere le necessarie precauzioni. Invece, il primo uomo della fila uscì come se niente fosse. Ma aveva appena fatto un passo che si udì un rumore secco, come uno’scatto, e l’uomo gridò, poi fece un giro su se stesso e cadde.
Tutti si fermarono di colpo. Dopo un poco, il secondo della fila sporse cautamente la testa e guardò verso l’alto. Gli altri non gli levavano gli occhi di dosso. Finalmente l’uomo ritrasse la testa e comunicò: «Una trappola. Una sola, e Dan l’ha fatta scattare. Non ce ne sono altre in vista.»
Quanto era successo li aveva fatti ammutolire, e ripresero ad avanzare in silenzio. Una volta usciti allo scoperto, si raggrupparono intorno al compagno morto, sollevando di tanto in tanto la testa sulla trappola, ormai inoffensiva, che i Titanici avevano sistemato proprio sopra l’apertura.
«Ho già visto una trappola come questa, durante una spedizione comandata da tuo zio» disse Roy a Eric. «Per smantellarla, non basta infilarci una lancia. Non scatta. Bisogna infilarci un piede e ritirarlo subito. Ma subito, perché se no, addio piede!»
«Visto che sei pratico di trappole» intervenne Arthur che aveva sentito, «d’ora in avanti camminerai in testa alla fila.»
«Non ho detto di essere pratico di trappole» ribatté Roy. «Ne ho solo vista qualcuna. Non sono un Distruggitrappole, io, ma un Corridore. E per avvistarle credo che sia più utile Eric. Dopo tutto, lui è un Occhio.»
«Allora voi due marcerete all’avanguardia» decise Arthur. Poi, dopo avere dato disposizioni a un paio di uomini perché trascinassero il cadavere nello spiazzo dove erano rimasti i feriti, affinché si provvedesse al suo seppellimento, continuò: «Tornate subito. Vi aspettiamo qui.» Indicando la trappola: «È chiaro» disse agli altri, «che è stata sistemata da poco, perché ieri, quando siamo arrivati, non c’era. Evidentemente abbiamo fatto troppo rumore, attirando così l’attenzione dei Titanici. Ho constatato che mettono sempre delle trappole quando è in corso un’attività insolita da parte nostra. Che ne dite, ho ragione?»
«Che cervello!» commentò uno. «Ha una spiegazione per ogni cosa. Ma dove le prendi le idee, Arthur?»
«Che cervello!» sussurrò Roy a Eric. «Ci voleva proprio un organizzatore per dedurre che la trappola è stata installata durante la notte. Ma cosa vuoi aspettarti da gente che non sa nemmeno distinguere un Corridore da un Occhio?»
Arthur, intanto, continuava a parlare: «È dunque evidente che i Titanici si sono accorti del nostro andirivieni, ieri, e che, di conseguenza, dobbiamo stare molto, molto attenti. Quindi, secondo il mio parere, ecco cosa dobbiamo fare. Primo, un gruppo di esploratori deve procedere all’avanguardia del grosso della spedizione, e questi esploratori devono tenere occhi e orecchie bene aperti. Secondo, finché non saremo molto lontani di qui, dovremo camminare nel più assoluto silenzio. Terzo, prima di rimetterci in marcia dobbiamo guardarci attentamente attorno. Non è escluso che i Titanici ci stiano già osservando.»
Appena ebbe finito, tutti si guardarono in giro. Tutti, esclusi Roy ed Eric, che si scambiarono un’occhiata di disgusto. Infatti, dal momento in cui erano usciti allo scoperto, loro due non avevano fatto che guardarsi in giro per scoprire se ci fosse traccia di Titanici nei paraggi. Dopo che una trappola aveva fatto una vittima, quella era la prima cosa cui pensare, e solo degli stupidi Stranieri potevano dimenticarsene.
Ma, dopo un po’ che si erano rimessi in cammino, l’atteggiamento di Roy cambiò una volta ancora. «Dopo tutto» mormorò, come parlando fra sé, «questo è un grosso corpo di spedizione, ben più numeroso delle nostre bande, e ci vuole un Organizzatore per dirigerlo. Un comune capitano, come tuo zio, per esempio, non saprebbe neanche da che parte cominciare per tenerli uniti.»
Eric si mise a ridere. «Tenerli uniti è il meno. L’importante è fare in modo che restino vivi. Non credo che Arthur sia capace di tanto.»
Il Corridore si limitò a borbottare seccato. Eric non riusciva a capirlo: un momento disprezzava gli Stranieri, subito dopo si dimostrava tollerante e comprensivo nei loro confronti. Quando passarono davanti alla porta da cui il giorno prima Eric era uscito nel corso della sua fuga dai cunicoli, videro che la lastra non era stata ancora rimessa a posto. I due esploratori controllarono che non ci fossero trappole nelle vicinanze, poi, di comune accordo, senza bisogno di parlare, sollevarono la porta e l’incastrarono nell’incavo del muro. Infine si scambiarono un sorriso soddisfatto: si erano comportati come rispettabili guerrieri dell’Umanità.
Dopo trecento passi si fermarono, perché Arthur aveva detto che dovevano aspettare lì che arrivassero anche gli altri. In quel punto un mobile titanico, relativamente piccolo, era appoggiato alla parete. Alzando la testa e torcendo il collo, Eric riusciva a vederne la sommità, stranamente curva e da cui sporgevano oggetti simili a maniglie. I due guerrieri si fermarono al riparo del mobile, riposandosi finalmente, dopo avere segnalato a gesti al grosso, ancora lontano, che potevano avanzare senza paura.
Solo allora, Eric chiese a Roy spiegazioni sul suo ambiguo atteggiamento verso gli Stranieri.
«Spiegami un po’: il momento prima li disprezzi tutti quanti, e il momento dopo dichiari che Arthur sa il fatto suo?»
Dopo averci pensato, Roy rispose: «Lo dico perché, essendo il capo, Arthur non può sbagliare.»
«Andiamo! Non dire sciocchezze. Fin dove credi che potremo arrivare, se il nostro capo si comporta così da inesperto? Prima si dimentica di mettere le sentinelle, poi di mandare gli esploratori in avanscoperta, e lo fa solo quando uno de suoi uomini è stato ucciso da una trappola. Infine, non tiene in nessun conto la disciplina.»
«È il capo» insisté Roy, cocciuto. «Tuo zio, secondo te, era più bravo di lui, con tutta la sua abilità nel distruggere le trappole e la sua disciplina? D’accordo, ha commesso un unico sbaglio… Ma è stato sufficiente perché lui e la sua banda fossero distrutti. Arthur, invece, è vivo.»
«Lo è perché quando è successo il guaio lui si trovava al sicuro nel quartier generale della Scienza titanica.»
«Il motivo non interessa, Eric. Interessa invece che sia ancora vivo. E poi, questa banda è tutto quello che ci resta. Non abbiamo più né parenti, né amici, ricordatelo. Quindi dobbiamo fare del nostro meglio per adattarci e dimostrare che sappiamo andare d’accordo con gli Stranieri.»
Eric non rispose. Pensava al passato, quando le orgogliose bande dei guerrieri dell’Umanità venivano in quello stesso luogo a compiere le loro scorrerie. Allora, lui e Roy erano fieri di appartenere all’Umanità. Adesso dovevano imparare a essere fieri di diventare Stranieri? E Stranieri fuggitivi, per di più, senza donne a consigliarli e a guidarli, a dire loro cos’era bene e cosa male!
No, lui non la vedeva così, e lo disse: «Caro mio, non ho intenzione di farmi ammazzare per uno Straniero e per i suoi progetti.»
«Sempre il solito!» esclamò Roy. «Ribelle, piantagrane, individualista. Io, invece ho cercato di andare sempre d’accordo con tutti. Perché credi che abbia aderito alla Scienza titanica? Perché così aveva fatto tutta la mia banda. Se gli altri avessero aderito alla Scienza ancestrale, avrei fatto così anch’io, e adesso sarei dalla parte del capo e di tutti gli altri reazionari. Io vado sempre d’accordo con la maggioranza, perché così mi sento sempre molto più protetto e sicuro.»
A questo punto sopraggiunse Arthur col resto della spedizione, e il colloquio finì lì. Arthur ordinò ai due esploratori di riprendere la marcia, indicando il punto fin dove dovevano arrivare.
Eric e Roy si rimisero in cammino senza più parlare. Eric capiva il punto di vista di Roy, ma non riusciva a condividerlo. Si rifiutava di accettare supinamente il parere e le decisioni degli altri, specialmente quando si trattava di Stranieri. Tuttavia, almeno per il momento, non vedeva cos’altro potesse fare.
Tutto il gruppo si accampò per la notte in una fessura di una gigantesca arcata che, dalla dispensa, portava in un’altra stanza titanica. Con soddisfazione, Eric notò che Arthur aveva provveduto ad appostare le sentinelle. Tutti avevano fatto provvista di viveri rubati nella dispensa e avevano riempito le borracce a un’apertura di un tubo di acqua potabile che Walter l’Armaiolo conosceva.
Mentre si rifocillavano, cosa che Eric fece con una certa diffidenza perché quel cibo non era stato esaminato dalle donne, sentì Roy dire a un gruppetto di Stranieri: «Sapete come si chiamava la mia tribù, giù nei cunicoli? Umanità! Umanità! Roba da non crederci. Erano così superstiziosi che bevevano solo l’acqua delle condutture che passavano nei cunicoli, e nel timore di morire avvelenati mangiavano soltanto dopo che le donne avevano esaminato il cibo. Qui in territorio titanico, avrebbero preferito morire di fame e di sete, piuttosto che rinunciare alle loro abitudini superstiziose… Temevano che i loro antenati si sarebbero infuriati, e…»
Eric si allontanò per non ascoltarlo più. Si sentiva molto, molto solo.
Quando la spedizione si rimise in cammino dopo una notte di riposo, Eric trovò Roy ancora più insopportabile. Il Corridore aveva trovato da qualche parte una piccola fascia e si era annodato i capelli dietro la nuca, secondo l’usanza degli Stranieri.
Adesso, erano in tre a formare l’avanguardia. Arthur aveva infatti ordinato a Walter l’Armaiolo di unirsi a Roy e a Eric. Walter infatti, era l’unico di tutto il gruppo che si fosse già avventurato in territorio titanico oltre la dispensa, alla ricerca di oggetti titanici da potere trasformare in armi adatte all’uomo.
Roy era affascinato, e continuava a insistere sull’argomento, tempestando Walter di domande, e parlando con ironia della «sua piccola tribù nei cunicoli», composta di gente ignorante che non era mai stata più in là della dispensa.
«Attenzione alle trappole» disse Walter, mentre uscivano dalla grande arcata. «Ne mettono sempre, all’uscita della dispensa.»
«Scommetto che tu hai visto trappole che lo zio di questo ragazzo» così dicendo indicò Eric, «non si era mai nemmeno sognato. Di’, Eric, non ti danno fastidio tutti quei capelli sulla faccia? Un Occhio come te, non deve avere la faccia coperta.»
«Mi arrangio lo stesso» replicò brusco Eric. E rivoltosi a Walter chiese: «Vuoi che marci io, in testa?»
«Ottima idea, giovanotto» rispose l’Armaiolo. «La tua vista è migliore della mia. Non dobbiamo fare altro che seguire questa parete fino al prossimo turno di riposo. Se vedi qualcosa di sospetto, fermati subito e segnala il pericolo.»
Mentre avanzava, Eric si stupiva di essersi abituato così in fretta all’abbagliante vastità del territorio titanico. Sebbene non mancasse di sentirsi intimidito tutte le volte che alzava la testa, gli bastava procedere sfiorando il muro per sentirsi sicuro e disinvolto.
Per tre volte s’imbatte in piccoli ostacoli che potevano essere trappole, e segnalò il fatto agli altri che seguivano, i quali, a loro volta, informarono il grosso della spedizione. Senza avvicinarsi per osservare meglio, tutti aggirarono gli ostacoli descrivendo un ampio semicerchio per riprendere poi a costeggiare la parete.
Avevano appena superato l’ultimo intralcio, quando Eric sentì uno strano ronzio, proveniente proprio dalla parete. Cosa poteva essere? Una nuova specie di trappola invisibile? Un sistema di allarme in uso fra i Titanici per segnalare l’avvicinarsi dell’uomo? Informò Walter e Roy, che si misero a loro volta in ascolto. Ma Walter, dopo un momento, scosse la testa e fece segno a Eric di riprendere la marcia.
Ma, d’improvviso, nel tratto di muro fra Eric e quelli che lo seguivano, si aprì una fessura, che andò rapidamente allargandosi come se la parete stesse avvolgendosi su se stessa. Pochi istanti dopo, al posto della parete c’era una gigantesca apertura che dava su una immensa distesa bianca… E un Titanico avanzava tranquillamente verso di loro.
A dispetto del lungo addestramento di guerriero, Eric rimase paralizzato dal terrore. Gli pareva di avere i piedi inchiodati al pavimento, e per quanto sapesse che doveva muoversi subito, rimase immobile nonostante il pericolo che una delle sei enormi gambe del Titanico si abbassasse su di lui, schiacciandolo.
Walter, invece, non perse tempo.
Staccatosi da Roy, anche lui immobilizzato dal terrore, corse fino a trovarsi davanti al mostro, e poi si mise a gridare agitando le braccia.
L’immane creatura si fermò di scatto, rimase immobile per un secondo mentre Walter continuava a starle davanti agitandosi e urlando, poi cominciò a indietreggiare emettendo un lungo lamento grave che riecheggiò ovunque. Infine fece dietrofront con un balzo, e si allontanò di corsa nella direzione da dove era venuto. Il pavimento rimbombava e tremava sotto i suoi passi. Il Titanico continuava a correre, e un odore disgustoso si diffondeva nell’aria. Sempre gemendo, il mostro scomparve oltre un angolo.
Intanto, la fessura che si era aperta nella parete, andava lentamente richiudendosi. E Walter era dall’altra parte!
Eric vide l’Armaiolo correre disperatamente verso di lui. Se la fessura si fosse chiusa del tutto, lo Straniero si sarebbe trovato completamente solo in una zona sconosciuta del territorio titanico.
Roy, che si era un po’ riavuto, si affiancò a Eric, e tutti e due incitarono Walter a fare presto: «Corri! Corri!» gridavano.
La fessura continuava a restringersi. Quando fu così stretta che un uomo ci sarebbe passato a malapena, Walter si trovava ancora a due passi di distanza.
Senza scambiarsi una parola, colti all’improvviso dalla stessa idea, Roy ed Eric si misero a spingere contro i lati della fessura, augurandosi di impedirle di chiudersi. Con grande meraviglia, non dovettero fare alcuno sforzo. Non appena vi appoggiarono le mani, la parete smise di muoversi e la fessura di restringersi.
Walter arrivò, ormai senza fiato, e si gettò a terra esausto. Eric e Roy si scostarono dalla parete e immediatamente la fessura si richiuse lasciando il muro solido e intatto.
Eric rimase a fissarlo stupefatto, provò a tempestarlo di pugni, a graffiarlo: niente. Era duro, chiuso, solido. Eppure, solo pochi istanti prima si era aperto con la massima facilità.
E che cosa era successo al Titanico? Possibile che si fosse davvero spaventato alla vista di Walter l’Armaiolo, così piccolo, al suo confronto, e che il mostro avrebbe potuto schiacciare con la massima facilità?
Eppure, era proprio così, come spiegò Walter dopo avere ripreso fiato. «Alcuni Titanici si spaventano da morire al solo vederci. Altri, invece, no. Quelli che si spaventano si fermano non appena gli si corre incontro urlando, e poi scappano. Naturalmente bisogna sapere riconoscere i tipi, perché se si fa così davanti a uno di quelli che non hanno paura di noi… buonanotte!»
«Ma come si fa a distinguere un Titanico da un altro?» chiese Roy.
«Sai quei tentacoli che hanno sul collo, subito dopo la testa? Bisogna guardare quelli. Se sono corti e rosa carico, quasi rossi, allora il Titanico si spaventa e, appena vede un uomo, piange e scappa. Ma se sono lunghi e rosa chiaro, allora bisogna fare attenzione. Il Titanico non si spaventa ed è pronto a calpestarti.»
«Ma cosa c’entrano i tentacoli?» chiese Eric.
«E cosa ne so?» rispose l’Armaiolo, allargando le braccia. «E poi, che importanza ha? Nemmeno la Gente di Aaron lo sa. E sì che se ne intendono di tutto, quelli! Comunque, è così, ed è bene saperlo.»
«È davvero utilissimo» disse Roy. «Se non intervenivi, Eric rimaneva schiacciato. Con tutte le arie che si dà, era paralizzato dalla paura» aggiunse, dimenticandosi che la visione del Titanico aveva fatto lo stesso effetto anche a lui.
Eric, che non aveva voglia di litigare, cambiò discorso. «Sai anche altre cose utili?» chiese a Walter.
«Sì… Per esempio, ricordate quel piccolo mobile con le maniglie o cos’altro erano, che sporgevano dall’alto? Quello appena fuori dalla dispensa?»
Roy ed Eric annuirono.
«Bene. Molto tempo fa ero a caccia di armi da queste parti, con una banda della mia tribù. Il bottino era magro, non avevamo trovato niente di speciale. Così, sulla via del ritorno, mi sono chiesto “chissà se quelle maniglie verdi servono a qualcosa”. Allora ho ordinato a uno dei miei uomini di arrampicarsi sul mobile e di cercare di staccare uno di quei cosi sporgenti. Lui ha ubbidito, e dopo essersi arrampicato si è messo a tirare e a girare una di quelle maniglie. Dopo un po’ mi ha fatto segno che l’oggetto stava cedendo. Ma, d’improvviso, dalla maniglia è uscita una fiammata rossa, e l’uomo è precipitato come un masso. Era tutto bruciato ed è morto prima ancora di sfracellarsi al suolo. Poi tutte le luci si sono spente di colpo e noi siamo tornati nei nostri cunicoli al lume delle nostre lampade. Ma stavamo giusto entrando nella porta titanica, che le luci si sono riaccese come se non fosse successo niente. Cos’era stato? Non lo so e non mi curo di saperlo. So soltanto che è meglio non toccare quelle sporgenze verdi. Forse sono una trappola.»
Dopo l’incidente ripresero la marcia, e continuarono finché Arthur non decise di fermarsi. Si rifocillarono. Poi, l’Organizzatore dichiarò che era notte e tutti si prepararono a dormire.
Eric aveva appena preso sonno, o almeno così gli parve, quando fu improvvisamente destato da un grido dell’uomo lasciato di guardia. Anche gli altri si svegliarono. E quando videro che cosa aveva spaventato la sentinella, balzarono tutti in piedi, pallidi e tremanti.
A circa duecento passi di distanza, un Titanico, uno dei più grandi che avessero mai visto, li stava guardando imperturbabile. Le massicce gambe grigie che sostenevano il corpo enorme erano divaricate, come quelle di un uomo che si soffermi a esaminare attentamente un fenomeno interessante. Il lunghissimo collo proteso ondeggiava lievemente avanti e indietro, cosicché la piccola testa dagli occhietti fissi cambiava continuamente posizione. I tentacoli che partivano dalla base del collo e che, come osservò Eric, erano lunghissimi e rosa pallido, ondeggiavano in sincrono con i movimenti del collo. Non sembrava che l’enorme creatura avesse intenzione di attaccare.
Dopo quell’unico grido, silenzio. Adesso, nessun suono, né dai tremanti esseri umani, né dal Titanico. Cosa voleva la terrificante creatura? Che cosa stava esattamente guardando? E che cosa stava passando per la sua mente?
D’un tratto, il Titanico si voltò, allontanandosi nella luce abbagliante. Nonostante la mole, il pavimento vibrava appena sotto i suoi passi. Gli uomini rimasero muti a guardarlo finché scomparve, poi si misero a blaterare tutti insième, con voci stridule e isteriche.
«Walter!» disse Arthur che, a quanto pareva, non aveva perso la calma. «Cosa ne pensi? Cosa succederà?»
Tutti si voltarono verso Walter. «Non lo so» rispose l’Armaiolo. «Non ho mai visto un Titanico comportarsi così.»
In seguito all’accaduto si tenne un consiglio di guerra per decidere se, date le circostanze, si dovessero cambiare i piani. I membri del consiglio erano tre: Arthur l’Organizzatore, in veste di presidente; Walter l’Armaiolo, perché era l’unico che si fosse avventurato in quella zona prima di allora e il membro più anziano della spedizione; e un vecchio singolarmente vivace che rispondeva al nome di Manny l’Artigiano, scelto, almeno così pareva, solo in considerazione dell’età.
«Possiamo decidere sia di proseguire sia di tornare indietro» disse Arthur. «Tornare significa che abbiamo fallito il nostro scopo ultimo. Se proseguiamo, dobbiamo aspettarci il peggio.»
Walter spostava continuamente il peso del corpo da una gamba all’altra, dimostrando così la sua impazienza. «Certamente ci aspettano, e ci avranno preparato una bella accoglienza» disse.
«È probabile. Ma può anche darsi di no» continuò l’Organizzatore. «Il modo di pensare dei Titanici è diverso dal nostro. Perciò non abbiamo motivi per credere che reagiscono come reagiremmo noi. Può darsi che quello che abbiamo appena visto ci abbia osservato solo per curiosità, e adesso non pensi già più a noi. Il modo tranquillo con cui se n’è andato rafforza, secondo me, questa ipotesi. Questo è un aspetto che dobbiamo considerare seriamente.»
«E allora io dico che dobbiamo proseguire» disse Walter.
«Del resto, non abbiamo altra scelta» disse il vecchio Manny. «Se torniamo senza nuove armi che ci diano la possibilità di lottare e vincere, resteremo dei Fuorilegge per tutta la vita. E, secondo me, non vale la pena di vivere così. Sono convinto che anche gli altri la pensano allo stesso modo. Quindi, andiamo avanti.»
Arthur volle conoscere il parere dei due abitatori dei cunicoli di superficie: «Tu cosa ne dici, Eric?»
Con tutta la dignità di cui era capace, dato che quella era la prima volta che un consiglio di anziani nchiedeva la sua opinione, il giovane rispose: «Credo che dovremmo proseguire come avevamo progettato.»
«Puoi dircene i motivi?»
«Ecco» cominciò Eric, un po’ meno sicuro di sé. «Se è stato diramato l’allarme, i Titanici sanno che siamo qui. Nelle vicinanze non ci sono porte che diano nei cunicoli, e quindi non possiamo fuggire. È probabile che loro ci aspettino al varco, sia che ci ritiriamo sia che proseguiamo. Se andiamo avanti, per lo meno c’è la probabilità di ottenere qualcosa. E poi, Manny ha ragione: l’idea di vivere da Fuorilegge non mi attira per niente.»
«E tu Roy, cos’hai da dire?»
«Sono molti i problemi da prendere in considerazione» cominciò con grande enfasi il Corridore. «Nessuno può essere sicuro sulle vere intenzioni dei Titanici. È molto facile parlare, ma di sicuro c’è soltanto quello che hai detto tu, Arthur: che dobbiamo “considerare”. Io voto per questo.»
«Tu non hai diritto di voto» gli fece osservare l’Armaiolo. «Hai solo la facoltà di esporre la tua opinione, e basta. È giusto, invece, quel che ha detto il ragazzo» aggiunse indicando Eric. «Se i Titanici ci aspettano, ci assaliranno sia che proseguiamo sia che torniamo. E siccome è nelle nostre intenzioni andare avanti, perché solo così possiamo sperare di ottenere qualcosa, allora proseguiamo.»
Riassumendo il parere degli altri, Arthur decise che dovevano proseguire. «Così vuole la maggioranza» aggiunse, rivolto a Roy. «Non è che rifiutiamo il tuo consiglio, ma in una discussione democratica bisogna adattarsi al parere della maggioranza. Non si può fare sempre quello che si vuole.»
Prima di rimettersi in marcia, interrogarono a lungo Walter, l’unico fra tutti loro che fosse mai penetrato in profondità nel territorio titanico: ma alla fine scoprirono che anche lui ne sapeva ben poco. Aveva visto quel nuovo cunicolo solo dall’ingresso della dispensa, riconosceva il mobile più vicino, e nient’altro. Eric, in qualità di Occhio e di avanguardia sentì aumentare le proprie responsabilità, e anche la paura. Adesso cominciava la parte più difficile, irta di incognite e di pericoli. Meno male che, per il momento, non c’erano Titanici in vista.
Dopo essersene assicurato ben bene sbirciando al di là dell’arcata d’ingresso, col cuore che gli batteva all’impazzata, Eric avanzò di qualche passo. Si sentiva terribilmente solo e vulnerabile.
Tuttavia si fece forza e continuò a procedere rasente il muro. Un passo, un altro, un altro ancora… Non troppo lentamente, ma nemmeno di corsa. Gli pareva di essere ritornato indietro di qualche giorno, quando si era avventurato per la prima volta in territorio titanico. Si voltò indietro, a guardare Walter che lo seguiva alla distanza di trenta passi, e questi a sua volta segnalò ad Arthur. Il nuovo cunicolo in cui si stavano addentrando era, se possibile, ancora più ampio del primo, e tutto intersecato di aste metalliche che s’incrociavano a intervalli regolari. Dalla retroguardia, segnalarono a Eric di staccarsi dal muro e di avanzare verso la prima sbarra. Per un attimo, Eric si sentì perduto: finora aveva sempre camminato rasentando i muri, e avanzare per primo, da solo, allo scoperto, in quella vastità immensa, gli pareva superiore alle sue forze. Tuttavia si disse che un guerriero non doveva mai dimostrare debolezza, soprattutto davanti agli Stranieri. Si staccò dal muro e avanzò di un passo: gli pareva di avere i piedi di piombo, ma con coraggio e determinazione continuò ad andare avanti.
Finalmente la sua spalla urtò contro un oggetto freddo e duro: alzò gli occhi, che finora aveva tenuto sempre fissi sul pavimento, come volevano le regole. Era arrivato alla prima asta. Sentendosi un po’ più al sicuro, al riparo di quella altissima sbarra metallica, si guardò intorno. Nessun Titanico in vista. Reggendosi alla sbarra, si voltò e fece segno a Walter che poteva avanzare. Questi si voltò per fare i segnali al grosso della spedizione, poi si staccò a sua volta dal muro.
Eric lo seguì per un po’ con lo sguardo, intuendo il disagio e la paura del compagno, poi tornò a voltarsi per esaminare l’ambiente. Le aste metalliche, altissime, disposte a intervalli regolari, grosse quanto il suo braccio, erano solidamente infisse nel pavimentò: lui non riusciva però a vedere dove finissero perché erano tropoo alte. Disposte a intervalli di circa quindici passi, erano intersecate, a partire da un’altezza d’uomo, da sbarre uguali disposte orizzontalmente, sistemate anche queste a intervalli regolari. Nel punto di intersezione gli parve di vedere un cubo trasparente, ma la luce abbagliante che si rifletteva in quei cubi gli rese impossibile osservarli bene, anche se gli parve che in essi si muovessero delle ombre. Che si trattasse di armi speciali?
Eric riabbassò la testa, incapace di guardare più a lungo in alto, senza essere preso dalle vertigini. Proprio in quel momento Walter lo raggiunse, rosso e ansimante. Tremava tutto e gli si aggrappò per reggersi.
«Il muro…» balbettò in modo incoerente, con voce rotta. «Torniamo al muro… rinunciamo.»
«Su, Walter, calmati» lo esortò Eric, che aveva avuto il tempo di riprendersi. Tuttavia capiva il panico che aveva colto il compagno. Non era certo facile, per un uomo, avventurarsi così allo scoperto in territorio titanico. Per fortuna, da quel punto in avanti, le sbarre si ergevano a brevi intervalli, offrendo, se non proprio una vera copertura, almeno un senso di sicurezza agli uomini che potevano aggrapparsi a qualcosa di solido.
Terzo ad arrivare fu Roy, che aveva perso un po’ della sua spavalderia. Gli altri seguirono a gruppi di tre, e perché non si affollassero tutti attorno alla stessa sbarra, cosa del resto impossibile, a mano a mano che un nuovo gruppo si staccava dal muro, i primi arrivati indicavano a quale sbarra dovesse dirigersi. Molti caddero, gemendo e tremando, prima di arrivare. Alcuni, arrivati a metà strada fecero dietrofront e tornarono di corsa al muro. Ma, finalmente, con grida, aiuti e incitamenti, tutti riuscirono a raggiungere la prima fila di sbarre.
Allora, Eric, Roy e Walter discussero con Arthur sulla prossima mossa da fare.
«Io direi di fermarci un momento qui per riprendere fiato e mangiare» decise l’Organizzatore. «Siete d’accordo? Così tutti avranno tempo di calmarsi. Prima di mangiare» aggiunse, «voi tre dovreste fare una puntata in avanscoperta, per vedere come si presenta la zona. Visti i precedenti, è meglio essere sicuri prima di muovere il gruppo.»
Eric, Walter e Roy avanzarono fino alla prossima fila di sbarre, in tutto e per tutto identica alla prima.
«Cosa credi che siano quei cubi lassù?» chiese Eric a Walter.
«Non lo so. E non credo sarà facile scoprirlo. Sono situati troppo in alto perché qualcuno riesca a salire lassù. Forse, più avanti, se ce ne saranno di più bassi, potremo tentare di arrampicarci. Ma questi cubi non hanno appigli. Può darsi che…»
«Zitto!» l’interruppe Eric, afferrandolo per un braccio. «Ascolta! Non hai sentito?»
«No» rispose l’Armaiolo dopo un momento. «Cosa c’è?»
Ma anche Roy aveva sentito. «Sta arrivando qualcuno» disse. «Non è un vero e proprio rumore, per adesso, ma solo una vibrazione.»
Walter si mise in ascolto, e stavolta percepì anche lui il rumore lontano. «Titanici» disse. «Sono più di uno. Vengono da questa parte.» Si volse verso il gruppo che sostava al riparo della prima fila di sbarre, e alzando l’indice tese il braccio in alto e ruotò la mano. Era il segnale di massimo pericolo. Significava: “Attenti. Arrivano i Titanici”.
Ma gli altri erano troppo intenti a bere e a mangiare per badare a loro, e nessuno si accorse del segnale.
Il rumore era chiaramente percepibile, adesso, e Walter mandò al diavolo le precauzioni.
«Maledetti idioti!» urlò. «Arrivano i Titanici! Non li sentite?»
L’urlo riuscì a scuotere gli altri. Tutti balzarono in piedi, senza badare a raccogliere bisacce e borracce, e, pallidissimi, si volsero per guardare i tre esploratori.
«Scappiamo» disse Eric ai due compagni. Era convenuto, fra la gente dei cunicoli, che in situazioni del genere ognuno dovesse badare solo a se stesso. «È meglio sparpagliarci. I Titanici inseguiranno il grosso della spedizione.»
Senza aspettare risposta si lanciò allo scoperto e, contemporaneamente, con la coda dell’occhio, scorse l’enorme mole grigia di un Titanico che stava avanzando. Il pavimento vibrava appena, e il mostro procedeva con una velocità impensabile, considerate le sue dimensioni.
Eric correva con tutta la velocità di cui era capace, incurante di essere allo scoperto. Ma ecco, davanti a lui, un altro Titanico, e altri ai lati… Cosa sarebbe successo? L’avrebbero schiacciato?
Raggiunse la successiva fila di sbarre e, poco dopo, fu raggiunto da Roy e da Walter. Il grosso era in difficoltà. Gli uomini correvano disordinatamente, gridando disperati, urtandosi, cadendo, senza sapere cosa fare, sotto lo sguardo di cinque imperturbabili Titanici che bloccavano il passo da ogni parte.
Eric li fissava attento, uno dopo l’altro, ma non riusciva a capire le loro intenzioni. D’un tratto, da ciascuno di essi calò a terra una lunga corda verde. Quelle corde sembravano vive: si contorcevano e a tratti mutavano colore.
Uno dei Titanici emise un suono, simile a uno scatto metallico seguito da una lunga, stridula nota musicale, e le corde si mossero, proprio come creature vive, serpeggiando fra l’intrico delle sbarre metalliche. Quando toccavano un uomo, diventavano più scure e gli restavano appiccicate addosso.
«Riunitevi tutti!» gridò Arthur. «Cerchiamo di liberare gli uomini dalle corde!» In quell’istante anche lui fu sfiorato da una corda serpeggiante, e vi rimase attaccato come gli altri. Cercò invano di staccarsi, urlando e contorcendosi… Nel giro di pochi minuti, tutti gli uomini si ritrovarono prigionieri. Solo i tre esploratori erano ancora liberi.
«Pare che vogliano prenderci vivi» sussurrò Walter. «Non ho mai visto i Titanici comportarsi così.»
A una a una, le verdi corde serpeggianti vennero sollevate coi loro grappoli di uomini che urlavano e si dibattevano. Eric vide i lunghissimi colli grigi chinarsi e i tentacoli rosa, evidentemente erano l’equivalente delle mani nei Titanici, afferrare i prigionieri.
«Ecco la fine della spedizione!» esclamò Roy in tono isterico. «E adesso, che cosa facciamo?»
«Abbassa la voce, maledetto cretino!» gli sibilò Walter. «Se perdi il controllo, siamo fritti anche noi tre.»
Quasi a convalidare la sua asserzione, il lungo collo di un Titanico si protese per frugare fra l’intrico delle sbarre, non molto lontano dal punto dove si trovavano loro tre. Eric si costrinse a restare immobile, nonostante il terrore che lo attanagliava. Quella orrenda bocca grigia, che avrebbe potuto inghiottire tre uomini in un solo boccone e da cui emanava un fetore insopportabile… Quei viscidi tentacoli rosa così vicini… Ma, evidentemente, il Titanico non li aveva visti. La testa continuava a frugare fra le file di sbarre e sfiorò inavvertitamente Roy che stava rigido e immobile. A quel contatto, il Corridore alzò le braccia, si mise a urlare e scappò. La testa del Titanico si sollevò e scomparve, mentre Roy andava ad appoggiarsi a un’altra sbarra.
«Adesso ci siamo!» mormorò Walter.
Subito dopo, una serpeggiante corda verde scese vicino a Roy, gli si avvicinò, lo afferrò, e continuò ad avanzare. Si dirigeva verso di loro.
«Dividiamoci!» ordinò Walter. «Buona fortuna, ragazzo.»
Si misero a correre in direzioni opposte. Eric stava chino, tutto raggomitolato su se stesso per essere meno visibile, e correva a zigzag. Se fosse riuscito a raggiungere la prossima fila di…
Sentì Walter gridare e sprecò un istante prezioso per voltarsi a guardare. L’Armaiolo era stato afferrato dalla corda, e si trovava a pochi passi da Roy che invano si dibatteva per liberarsi. Poi la corda si sollevò, trascinando con sé i due uomini, per tornare a scendere, subito dopo, più vicina.
Eric riprese a correre. Sentiva, sempre più vicino, le urla dei due compagni. Non poteva correre più in fretta. Non poteva…
Qualcosa di freddo, di viscido, gli sfiorò un fianco, e lui si sentì sollevare da terra. Senza volerlo, si mise a urlare come gli altri, e a martellare coi pugni la corda che lo teneva prigioniero e che, nel punto in cui aderiva al suo fianco, era di un verde scurissimo. Quella corda era diventata parte di lui, ed Eric non poteva assolutamente staccarsela dalla pelle.
Un tentacolo rosa si accostò alla corda e l’afferrò, sollevandola, insieme ai tre uomini che continuavano a urlare. E continuavano anche a salire, sempre più in alto, finché, nell’abbacinante luce che feriva gli occhi, non riuscirono nemmeno più a distinguere il pavimento. Su, su, sempre più su, affinché i Titanici di cui erano prigionieri potessero esaminarli meglio e con maggiore comodità.
Eric non riuscì mai a ricordare con esattezza quello che accadde in seguito. Il panico gli aveva sconvolto la mente, cancellando i ricordi. Gli rimasero solo impressioni vaghe e frammentarie: la corda che lo teneva appeso veniva passata da un tentacolo all’altro… un enorme occhio purpureo che si avvicinava… una zaffata di alito fetido… le urla dei suoi amici. Ma, più di ogni altra cosa, ricordava la sensazione di disfatta, di terrore, di completo abbandono.
Ricominciò a ragionare in modo un po’ più coerente quando la corda a cui lui, Roy e Walter erano attaccati li calò dentro una specie di scatolone trasparente, lasciandoveli. Non appena ebbe toccato il pavimento della scatola, Eric scoprì infatti che la corda si era staccata ed era scomparsa. Guardandosi intorno, vide Roy e Walter, caduti vicino a lui. Stavano rialzandosi. Poco più oltre, c’erano alcuni membri della spedizione, ancora sconvolti e tremanti, e negli istanti successivi altre corde scaricarono nella scatola il resto del gruppo degli Stranieri.
Ma cos’era quella scatola trasparente? Attraverso il fondo, Eric poteva scorgere l’intrico delle sbarre, giù giù fino al pavimento invisibile. Alle intersezioni, c’erano scatole trasparenti, cubiche, uguali a quella in cui si trovava. Alcune contenevano esseri umani, altre erano vuote.
«Ecco cos’erano i cubi con le ombre in movimento» gli disse Walter, con una smorfia. «I cubi erano gabbie, e le ombre erano uomini prigionieri.»
Intorno a loro, gli altri si erano inginocchiati e rivolgevano fervide preghiere agli antenati perché li salvassero. Ma Eric aveva altro a cui pensare. Ormai sapeva che gli antenati non avrebbero potuto aiutarlo. Si mise a camminare, e misurò la gabbia: era lunga dodici passi e larga dieci. Ci stavano un po’ stretti. Non c’erano suppellettili di nessun genere. In un angolo, il pavimento era in pendenza, verso un foro che si apriva in corrispondenza dell’intersezione dei tubi, evidentemente cavi. Dunque, i tubi sono un sistema di fognature, pensò Eric, continuando a camminare, seguito da Roy e da Walter.
Le pareti erano trasparenti e solide. Eric non riuscì a scalfirle neppure con la punta della lancia. Quanto all’altezza, così a occhio, dovevano essere alte come tre uomini messi uno sull’altro, e l’orlo si curvava all’interno verso il basso. Sarebbe stato impossibile scalare le pareti. Inoltre, l’orlo si trovava troppo lontano dal pavimento.
«Il vostro problema non è tanto quello di riuscire a scappare di qui» disse una voce fievole alle loro spalle, «bensì quello che farete una volta fuori.»
Si voltarono tutti di scatto. Chi aveva parlato era un uomo dall’aspetto bizzarro. Stava sdraiato sul pavimento poco lontano, e non pareva uno Straniero, pensò Eric, e sicuramente non apparteneva all’Umanità. Portava i capelli acconciati alla moda degli Stranieri, ma aveva il corpo avvolto in un ridicolo indumento che lo copriva dal collo alle cosce, pieno di tasche e fatto di cuoio. Dalle tasche uscivano oggetti strani, che Eric non aveva mai visto.
Lo sconosciuto era gravemente ferito. Sulla faccia, sul collo e sul fianco destro recava i segni di profonde graffiature; il braccio destro penzolava inerte, evidentemente spezzato.
«Eri già in questa gabbia, quando siamo arrivati noi?» gli chiese Eric.
«Sì, ma eravate troppo presi dalle vostre preoccupazioni per accorgervi di me.» Fece un gemito, chiudendo gli occhi, prima di proseguire. «Vedete, se anche riusciste a scappare da questa gabbia, non sapreste dove andare. Le pareti esterne sono lisce quanto quelle interne, e non potreste certo fare un salto fino a terra dalla sommità della gabbia. Non ci sono appigli di sorta, e anche se riusciste a fare una corda con le vostre cinghie, ricordatevi che da qui a terra corre l’altezza di un Titanico, e inoltre non potete essere certi che il cuoio resisterebbe… Sebbene» aggiunse con un sospiro, «forse sarebbe meglio morire così.»
«Ma tu chi sei?» gli chiese l’Armaiolo. «Chi è la tua gente?»
«Che importanza ha? E poi sono affari miei. Ora, per favore, allontanatevi. Non voglio che mi guardiate soffrire.»
«Siamo ben contenti di allontanarci» replicò bruscamente Roy. «Torneremo quando avrai imparato a essere un po’ più gentile.»
Così detto, si mosse, seguito, dopo un momento di esitazione, da Walter. Ma Eric si inginocchiò accanto al ferito e gli chiese: «Posso aiutarti in qualche modo? Vuoi un po’ d’acqua? Ne ho ancora nella borraccia.»
L’uomo si passò la lingua sulle labbra screpolate. «Grazie, ho molta sete.» Bevve avidamente dalla borraccia di Eric, e quando gliela ebbe restituita disse: «Qui ci danno da bere solo una volta al giorno. Ho preso delle pillole per i dolori, ma non avevo niente per vincere la sete. Sei stato davvero gentile… Io mi chiamo Jonathan Danielson.»
«E io Eric. Eric l’Occhio.»
«Lieto di conoscerti, Eric. Vieni dai cunicoli di superficie, non è vero?»
«Sì, la mia tribù si chiama Umanità. Solo io e Roy il Corridore, quel guerriero che se l’è presa con te, apparteniamo all’Umanità. Gli altri sono Stranieri.»
«Io sono l’unico superstite del mio gruppo. Eravamo in quattordici.» Uno spasimo di dolore strappò un gemito al ferito. «Eravamo in quattordici» ripeté, «e ci hanno preso tutti. Il calcio di un Titanico ha seminato la morte. Io sono stato fortunato. Mi ha colpito di striscio, però mi ha spezzato il braccio e alcune costole, e devo avere qualche emorragia interna.»
Gli si spense la voce ed Eric chiese impaurito: «È così che ci trattano? Ci prenderanno a calci?»
«Ma no!» ribatté il ferito con l’ombra di un sorriso. «È successo così a noi, quando un Titanico, inaspettatamente, ci ha incontrati. Io ero ancora vivo e mi ha portato qui. Sai dove ci troviamo, o no?»
«In gabbia.»
«D’accordo. Siamo in gabbia. Ma sai come si chiama questo posto? È il Centro Controllo Parassiti.»
«Parassiti? Centro Controllo?»
«Io e te, tutti gli esseri umani, per i Titanici siamo dei parassiti» spiegò il ferito, parlando a fatica. «Dopo tutto, dal loro punto di vista non hanno torto: li derubiamo, infestiamo le loro case. Insomma, siamo un fastidio e loro vogliono sbarazzarsi di noi. Questo Centro è appunto un posto in cui studiano i sistemi per farlo. È un laboratorio dove provano tutti i generi di ominicidi: polveri, spray, trappole, cibi avvelenati, tutto, insomma. Ma per esperimentare le loro invenzioni, hanno bisogno di animali da laboratorio. Ecco cosa siamo, noi: cavie.»
Più tardi, quando tutti si erano già addormentati, Eric ripensò a lungo a quello che gli aveva detto Jonathan Danielson.
Centro di Controllo Parassiti….
Animali da laboratorio…
Provano tutti i generi di ominicidi…
Non ci fu bisogno di dichiarare ufficialmente l’inizio di un giorno. Furono svegliati dal getto di una gran quantità di cibo che un tubo trasparente, sorretto da un Titanico, riversava nella gabbia.
Dopo un primo momento di diffidenza, perché non tutto il cibo era uguale a quello che già conoscevano, gli uomini si decisero a mangiare. Era alquanto insipido, ma non cattivo. Quando ebbero finito, il Titanico inserì nella gabbia un altro tubo, direttamente sopra al buco di scolo, e versò acqua. Tutti bevvero, e contemporaneamente l’acqua ripulì il fondo della gabbia dai rifiuti che vi si erano accumulati dal giorno prima.
Eric si affrettò a riempire la borraccia e ordinò a Roy di fare altrettanto e di andare a dare da bere al ferito. Dopo avere brontolato un poco, Roy ubbidì e si allontanò con la borraccia. Poco dopo, il getto dell’acqua diminuì fino a cessare, e il Titanico ritirò il tubo. Ma non si allontanò. Due tentacoli rosa, dai quali pendeva una corda verde, apparivano al di sopra della gabbia: la corda scese vibrando e contorcendosi, si avvicinò a uno dei prigionieri che guardava verso l’alto con aria attonita e spaventata, gli si attaccò alla schiena e tornò a sollevarsi trascinando con sé il prigioniero. Questi era ancora talmente sbalordito, che non pensò nemmeno a dibattersi e a gridare.
Eric lo seguì con lo sguardo, fremendo di rabbia impotente, poi si recò dal ferito, a cui Roy stava dando da bere.
Jonathan Danielson stava molto male. Aveva tutto il corpo gonfio ed era pallidissimo. Respirava a fatica e riusciva appena a parlare.
Quando Eric gli disse che un Titanico aveva estratto un prigioniero dalla gabbia, e gli chiese cosa ne avrebbe fatto, il ferito sollevò con fatica una mano e mormorò: «Da quella parte… Se andate là, vedrete…»
Molti seguirono Eric nel punto indicato dal ferito. Di lì, attraverso la parete trasparente e nonostante l’intrico delle sbarre e l’ostacolo delle altre gabbie, si riusciva a scorgere un’ampia superficie bianca, sorretta da tubi che partivano dal pavimento. A quella distanza, pareva piccola, ma quando il Titanico vi ebbe depositato il prigioniero, al quale legò accuratamente braccia e gambe mediante morsetti attaccati alla superficie bianca, Eric dovette constatare che, su quella specie di tavolo, avrebbe potuto trovare posto comodamente tutta l’Umanità.
Dapprima non riuscì a capire bene quello che il Titanico stava facendo. Vicino all’uomo legato c’era un groviglio di corde verdi, alcune grosse e avvolte a spirale, altre lunghe e rigide. Il Titanico prendeva una di quelle corde, toccava l’uomo, deponeva la corda, ne prendeva un’altra… Il corpo del prigioniero s’irrigidiva e sussultava. Tutti stavano protesi col naso schiacciato contro la parete, il fiato sospeso… E d’un tratto Eric capì cosa stava facendo il Titanico.
«Gli strappa la pelle!» gridò inorridito.
«Lo fa a pezzi» esclamò una voce vicino a lui.
«Gli ha strappato le gambe e le braccia» mormorò un altro con voce tremante di terrore.
«Bastardi! Maledetti! Perché fanno questo?»
Dal corpo martoriato del prigioniero scorrevano rivoli di sangue che spiccava vermiglio sul ripiano bianco. Probabilmente il poveretto urlava di dolore, ma era troppo lontano perché loro potessero sentirlo.
Intanto il Titanico continuava calmo e metodico nel suo lavoro, servendosi dei diversi strumenti verdi che aveva a disposizione.
Eric notò che molti dei suoi compagni avevano distolto lo sguardo da quello spettacolo orribile. Molti piangevano o si coprivano la taccia con le mani. Tutti erano pallidi e sconvolti.
«Ma perché fanno una cosa simile?» mormorò uno, con voce rotta. «Che cosa vogliono? Perché?»
Ma Eric si sforzò di continuare a guardare. Era un Occhio lui, ed era suo compito vedere tutto. Inoltre, qualunque cosa avesse potuto apprendere sul conto dei Titanici, un giorno o l’altro avrebbe potuto essere utile.
Vide che quanto restava del disgraziato era oramai immobile, immerso in una pozza di sangue. Il Titanico girò il collo, e un tentacolo afferrò un tubo trasparente. Un attimo dopo, un fiotto d’acqua si riversò sul cadavere, lavandolo e lavando il sangue che era sgorgato dalle ferite. Acqua e sangue finirono in un foro rotondo che si apriva al centro della superficie bianca. Quando tutto fu pulito, il Titanico spinse anche il cadavere col getto d’acqua, finché non venne inghiottito dal foro. Poi lavò gli strumenti verdi con cui l’aveva ucciso. Infine il tentacolo lasciò andare il tubo, e il Titanico si allontanò dal tavolo tornato candido.
A testa china, sconvolto e in preda a un violento senso di nausea, Eric si volse e tornò da Jonathan Danielson.
Prima che Eric avesse avuto il tempo di fargli una domanda, Danielson disse: «Vivisezione. Vogliono scoprire se noi, esseri umani, siamo tutti uguali. Credo che sezionino un uomo per ogni gruppo che catturano.» S’interruppe per respirare. «Hanno fatto così anche a un mio compagno: Saul Davidson.»
«E si serviranno di noi per altri esperimenti, suppongo» disse Eric.
«Sì…» mormorò il ferito, «almeno a giudicare da quello che ho visto nelle altre gabbie. Ti ricordi quando dicevo che sarebbe meglio morire tentando di scappare?»
«Sai come funzionano quelle strane corde verdi?»
«Il principio fondamentale è l’affinità protoplasmatica. È un argomento, questo, sul quale i Titanici hanno compiuto studi importanti, ultimamente. Io e i miei compagni eravamo venuti qui proprio per questo.»
«Ma cosa significa?» chiese Eric.
«Affinità protoplasmatica» ripeté la fievole voce del ferito. «Hai mai visto una delle porte scorrevoli, che si aprono e chiudono come tende, nelle pareti dei cunicoli titanici? Basta toccarle e non si muovono più.»
Eric annuì, ricordando la fessura attraverso la quale Walter era riuscito a malapena a passare, mentre lui e Roy spingevano i lati opposti della parete scorrevole, senza fatica.
«Ebbene, il principio in base al quale funzionano quelle porte è esattamente il contrario: incompatibilità protoplasmatica.»
«Sì, credo di capire… ma cosa significa quella strana parola… protopla… pla…»
Il ferito alzò gli occhi al cielo: «È mai possibile» esclamò con insospettata foga, «che tu sia selvaggio al punto da ignorare cosa sia il protoplasma? In nome di Aaron, è davvero incredibile!»
«Aaron?» ripeté Eric, lieto di cambiare discorso. «Sei della Gente di Aaron, tu?» chiese, memore di quanto gli aveva raccontato Arthur in proposito.
Ma il ferito non rispose.
«Mia nonna apparteneva alla Gente di Aaron, almeno così mi hanno detto. Era Deborah la Cantatrice. L’hai mai sentita nominare?»
«Oh, ti prego, vai via!» mormorò Jonathan Danielson. «Sono moribondo, e ho il diritto di morire in pace, senza dovere sprecare il poco fiato che mi resta a discutere con un selvaggio ignorante come te.»
Eric lo guardò dubbioso, fu lì lì per rivolgergli altre domande, poi ci ripensò, si alzò e andò via, sconsolato e perplesso.
Poco dopo, incontrò Walter, e gli chiese: «Senti, Armaiolo, conosci nessuno che si intenda di protoplasma?»
«Cosa?»
«Protoplasma. Affinità e incompatibilità protoplasmatica. Saprai pure cos’è il protoplasma, no?»
«No che non lo so. Non ho mai sentito nominare quella roba.»
«Beh, non importa» disse Eric che cominciava a sentirsi meglio. Dopo tutto, se lui era un selvaggio, lo erano anche gli altri Stranieri!
La mattina dopo, il Titanico li rifornì di cibo e acqua, e poi ricomparve con la solita corda verde. Stavolta, la sua comparsa suscitò il panico fra i prigionieri, che si misero a correre urlando qua e là nella gabbia cercando di sfuggire alla corda.
Il Titanico, però, aveva molta pazienza, e manovrando abilmente la corda riuscì a isolare un uomo e a catturarlo. Quando il disgraziato fu scomparso oltre l’orlo della gabbia, molti dei suoi compagni caddero in ginocchio, invocando gli antenati e piangendo. Eric si fece forza e andò nell’angolo da cui vedeva il tavolo bianco.
Per fortuna, il secondo prigioniero morì in fretta. Non ci fu vivisezione, ma solo la prova di una trappola. Uno scatto, e tutto fu finito. Poi, come il giorno prima, il Titanico ripulì la superficie candida con un getto d’acqua, mandando il cadavere verso il foro che lo risucchiò immediatamente.
Eric venne distolto dalle sue amare meditazioni da Roy: Jonathan Danielson era morto.
«Qualcuno l’ha calpestato nel fuggi-fuggi generale, prima che il Titanico catturasse quell’altro disgraziato» spiegò Roy. «E lui, poveretto, era troppo debole per muoversi.»
Esaminarono insieme i pochi effetti personali del morto. Gli oggetti contenuti nelle numerose tasche della tunica erano tutti strani e sconosciuti, salvo uno, una specie di punta di lancia lunga e aguzza, che rientrava in un astuccio, e che qualcuno dichiarò di riconoscere: «Lo chiamano coltello a serramanico» spiegò. Eric si appropriò dell’oggetto. Intanto Arthur l’Organizzatore aveva spogliato il morto e gli aveva coperto la faccia con la tunica.
«Se, come pare, apparteneva alla Gente di Aaron» disse, «e credo che così fosse, perché così si vestono gli Aaron, è giusto rispettare la loro usanza di coprire la faccia dei morti. Li seppelliscono in quel modo.»
Ma come potevano seppellirlo, se il foro che si apriva in un angolo della gabbia era troppo stretto? Avevano già deciso di formare una piramide umana e di issare il cadavere fino all’orlo della gabbia, per poi scaraventarlo giù dall’altra parte, quando i Titanici risolsero il problema per loro. Una corda verde calò nella gabbia, afferrò il corpo di Jonathan Danielson, lo sollevò rapidamente e lo portò via: Eric seguì la corda con lo sguardo e vide che depositava il cadavere sulla superficie bianca. Poco dopo, Danielson scompariva nel foro circolare, spinto da un getto d’acqua.
Poi, inaspettatamente, il Titanico tornò alla gabbia, calò di nuovo la corda e afferrò Eric!
Tutto si svolse così in fretta, in modo così inaspettato, che Eric non ebbe il tempo di pensare a correre dall’altra parte della gabbia o a dibattersi per evitare la cattura. Solo un debole grido, più di sorpresa che di protesta, gli sfuggì mentre veniva sollevato: vide le facce alzate dei suoi compagni allontanarsi vertiginosamente, finché diventarono minuscoli punti bianchi.
Poi si sentì trasportare attraverso una vastità immensa, dondolando appeso alla corda del Titanico. Cosa gli sarebbe successo? Riusciva a malapena a connettere, tanto la sua mente era devastata dal terrore. Vivisezione? No, forse no, se era vero quello che aveva detto Jonathan Danielson, e cioè che solo un individuo di ogni gruppo catturato veniva sottoposto a vivisezione. Forse lo aspettava la prova di chissà quale nuova mostruosa trappola.
…un laboratorio dove provano tutti i generi di ominicidi: spray, bocconi avvelenati, trappole, tutto…
Quale prova lo aspettava? In un certo senso, poteva dirsi fortunato: sapeva, grosso modo, che avrebbero sperimentato su di lui qualche strumento di morte. Non sarebbe stato un docile animale di laboratorio. Se non altro, almeno questo… Avrebbe lottato con tutte le sue forze, il più a lungo possibile. Ma in che modo?
Aveva con sé delle punte di lancia, ma a che cosa potevano servire, contro la mole enorme dei Titanici? Gli occorreva qualcosa di nuovo, d’insolito, come la gelatina rossa che gli aveva dato Walter l’Armaiolo, e che aveva staccato di netto la testa a Stephen Fortebraccio. La gelatina rossa! Ne aveva ancora? Era un’arma che Walter aveva rubato ai Titanici, e lui adesso avrebbe potuto benissimo usarla contro uno di loro.
Allungò la mano destra dietro le spalle e frugò nella bisaccia finché le dita non toccarono la massa gelatinosa. Quanta ce ne sarebbe voluta? Per liquidare Stephen ne era bastato un pezzettino, ma data la mole di un Titanico era meglio adoperarla tutta.
Soppesando fra le mani la sfera di sostanza gelatinosa, Eric aspettava l’occasione propizia. Non sarebbe stata un’impresa facile. Doveva bagnare di saliva la sostanza e lanciarla immediatamente; perciò doveva anche calcolare le oscillazioni della corda a cui era sospeso.
Se avesse eseguito il lancio quando l’oscillazione l’avesse portato alla massima distanza dal mostro, sarebbe stato più difficile colpirlo e d’altra parte se non voleva finire a pezzi, doveva liberarsi della sostanza appena l’avesse bagnata. Attenzione, dunque: doveva tenersi pronto ad agire nel momento in cui l’oscillazione della corda l’avrebbe portato più vicino al mostro. Sapeva che, se l’avesse ucciso, lui sarebbe caduto a terra da un’altezza vertiginosa. Ma prima sarebbe morto il nemico. Un uomo almeno sarebbe riuscito a compiere quello che tutti avevano sempre sognato: rendere la pariglia ai Titanici!
Si augurò che i suoi compagni, dalla gabbia in cui erano chiusi, continuassero a guardarlo. Avrebbero visto, allora, di cosa era capace!
Intanto, il Titanico era arrivato al tavolo bianco degli esperimenti, ma l’aveva anche superato. Dove lo portava?
Non aveva importanza. Una sola cosa contava: uccidere il Titanico, e poi morire. Si sarebbe presentato davanti agli antenati con un trofeo ineguagliabile. Ecco, la testa immonda si avvicinava. Era giunto il momento. Eric si portò la palla alla bocca e la bagnò di saliva. Poi, quando l’oscillazione della fune lo portò quasi davanti alla testa del Titanico, scagliò la palla. Aveva mirato giusto. Gli antenati avevano guidato la sua mano.
Ma, mentre l’oscillazione stava di nuovo allontanandolo, Eric si accorse che stava succedendo qualcosa di strano, di imprevisto. Il Titanico aveva notato la palla rossa, e aveva abbassato la testa, spalancando la bocca per afferrarla! La inghiottiva! Il Titanico aveva ingoiato l’arma!
L’ultima cosa che Eric riuscì a vedere fu l’increspatura del lungo collo, mentre il mostro inghiottiva il boccone. E quegli orribili occhietti… Non c’era dubbio: avevano un’espressione di gioia!
Poi l’oscillazione lo costrinse a voltare la schiena al Titanico. Invano Eric attese il rimbombo dell’esplosione che avrebbe lacerato i visceri dell’immonda creatura. Udì, è vero, un rumore, alle sue spalle, ma non era un’esplosione, solo uno schiocco sordo. Tuttavia, Eric sentì rinascere la speranza. La corda a cui era sospeso oscillò forte. Con uno sforzo, Eric riuscì a ruotare su se stesso, e guardò: sul collo del Titanico si formavano lunghe increspature e a ognuna di esse corrispondeva quello schiocco che aveva già sentito… Non era tosse, no… ecco: era, ingigantito, il rumore che fa un uomo schioccando le labbra quando mangia qualcosa che gli piace in modo particolare! E gli occhi… gli occhi avevano addirittura un’espressione estatica.
Bel successo davvero! Altro che Eric Uccisore di Titanici, pensò con amarezza.
Ma come mai l’arma non aveva funzionato? Ragionandoci su, giunse alla conclusione che probabilmente non era un’arma, almeno per i Titanici. Walter, che l’aveva trovata, aveva scoperto che serviva a uccidere gli uomini, e per questo aveva creduto che fosse un’arma. Ma per i Titanici era tutt’altra cosa: un cibo, un condimento, forse addirittura una droga oppure un afrodisiaco. Mescolata con saliva umana produceva degli effetti del tutto impensati, ma non certo pericolosi per i Titanici.
Eric si consolò dell’umiliazione subita pensando che, se non altro, quello che gli era successo era una lezione salutare. Nei progetti di distruzione dei Titanici, d’ora in avanti, bisognava tenere conto del fatto che non tutto quello che era dannoso all’uomo era dannoso anche per loro. E, logicamente, poteva essere vero anche il contrario. Quest’idea lo eccitò, ma non ebbe assolutamente il tempo di elaborarla, perché il suo catturatore era arrivato a destinazione; non solo, ma, per il momento, lui era prigioniero, e come armi aveva soltanto un paio di piccole punte di lancia.
La corda verde, a cui era attaccato, cominciò a calare. Eric guardò verso il basso, ma prima aveva impugnato le due punte di lancia, pensando di servirsene per tagliare le corde con cui il Titanico lo avrebbe legato al tavolo di sezione, a meno che la fortuna non lo assistesse facendogli avvicinare la testa del mostro in modo da riuscire a colpirla… Ma non c’era un tavolo bianco sotto di lui. C’era semplicemente un’altra gabbia.
Eric sospirò di sollievo. Stava per riporre le punte di lancia nella bisaccia, ma in quel momento la corda si staccò da lui, e i suoi piedi toccarono il pavimento della gabbia. Eric si guardò intorno.
Le lance gli salvarono la vita quando la ragazza nuda gli si avventò addosso.