12° RAPPORTO SUI PROGRESSI

5 giugno Nemur è turbato perché in due settimane non ho consegnato più alcun rapporto sui progressi (e ha ragione, in quanto la Fondazione Welberg ha cominciato a corrispondermi uno stipendio, in modo ch’io non debba cercare un lavoro). Manca una settimana appena al Congresso internazionale di psicologia, a Chicago. Nemur desidera che il suo rapporto preliminare sia completo il più possibile, in quanto Algernon e io. siamo le prime prove ch’egli può addurre.

I nostri rapporti stanno diventando sempre più tesi. Mi irritano gli incessanti riferimenti di Nemur a me come a un esemplare di laboratorio; egli mi dà l’impressione ch’io non sia stato in realtà, prima dell’esperimento, un essere umano.

Ho detto a Strauss ch’ero troppo impegnato nel pensare, nel leggere e nello scavare in me stesso, tentando di capire chi sono e che cosa sono, e che scrivere è un processo così lento da spazientirmi quando devo esporre le mie idee. Ho seguito il suo suggerimento di imparare a scrivere a macchina, e ora che riesco a battere quasi settantacinque battute al minuto mi è più facile trascrivere tutto sulla carta.

Strauss ha accennato di nuovo alla necessità ch’io parli e scriva con semplicità e immediatezza, per farmi capire alla gente. Mi ricorda che il linguaggio è talora un ostacolo, anziché un sentiero. È un’ironia il fatto ch’io sia venuto a trovarmi dall’altro lato della barricata intellettuale.

Mi trovo di quando in quando con Alice, ma non parliamo di quel ch’è accaduto. I nostri rapporti rimangono platonici. Tuttavia per tre notti, dopo che me n’ero andato dalla panetteria, ci sono stati gli incubi. Stento a credere che sia accaduto due settimane fa.

La notte sono inseguito per le vie deserte da figure spettrali. Per quanto seguiti a correre alla panetteria, la porta è chiusa a chiave e le persone lì dentro non si voltano neppure a guardarmi. Dietro la vetrina, la sposa e lo sposo sulla torta nuziale mi additano e ridono (l’atmosfera diventa satura di risate finché io non reggo più) e i due cupidi agitano le loro frecce fiammeggianti. Grido. Picchio contro la porta ma non si ode alcun suono. Vedo Charlie fissarmi dall’interno. È soltanto un riflesso? Cose mi s’avvinghiano alle gambe e mi trascinano lontano dalla panetteria, nelle ombre del vicolo, e proprio mentre cominciano a colarmi addosso dappertutto mi sveglio.

Altre volte la vetrina della panetteria si apre sul passato e guardando attraverso ad essa vedo altre cose e altre persone.

È stupefacente constatare come vada sviluppandosi la mia capacità di ricordare. Non posso ancora dominarla del tutto, ma talora, quando sono assorto nella lettura o nella soluzione di un problema, provo una sensazione di intensa chiarezza.

So ch’è una sorta di segnale d’avvertimento del subcosciente, e ora, invece di aspettare che il ricordo torni a me, chiudo gli occhi e mi protendo verso di esso. In ultimo riuscirò a dominare completamente questa capacità di rievocazioni, a esplorare non soltanto la somma delle mie trascorse esperienze ma anche tutte le mie facoltà mentali alle quali non ho ancora attinto. Anche adesso, mentre ci penso, sento il silenzio tagliente. Vedo la vetrina della panetteria… mi sporgo e la tocco… gelida e vibrante, e poi il cristallo diventa caldo… ancora più caldo… mi scotta le dita. La vetrina che rispecchia la mia immagine diviene luminosa e il cristallo si tramuta in uno specchio. Vedo il piccolo Charlie Gordon, ha quattordici o quindici anni, contemplarmi attraverso la finestra di casa sua, ed è doppiamente strano constatare quanto era diverso…


Ha aspettato che sua sorella tornasse da scuola, e quando la vede voltare all’angolo in Marks Street, saluta con la mano e la chiama e corre fuori sulla veranda per andarle incontro.

Norma agita un foglio. «Ho preso dieci all’esame di storia. Ho saputo rispondere a tutte le domande. La signora Baffin ha detto ch’era il compito migliore di tutta la classe.»

È una graziosa ragazza con i capelli castano chiaro intrecciati con cura e avvolti intorno al capo come una corona, e mentre alza gli occhi sul fratello maggiore il sorriso si tramuta in un cipiglio ed ella se la svigna lasciandoselo alle spalle nel correre in casa su per gli scalini.

Lui la segue sorridendo.

La mamma e il babbo sono in cucina e Charlie, traboccante d’entusiasmo per la buona notizia datagli da Norma, l’annuncia prima che possa farlo lei.

«Ha preso dieci! Ha preso dieci!»

«No!» strilla Norma. «Non te. Non dirglielo. Il voto è mio e glielo dico io.»

«Ehi, un momento, signorinetta.» Matt posa il giornale e si rivolge a lei con severità. «Non è questo il modo di parlare a tuo fratello.»

«Non aveva il diritto di dirlo!»

«Lascia stare.» Matt la fissa iroso al di sopra del dito ammonitore. «Non voleva farti un dispetto e tu non devi mai alzare la voce con lui in questa maniera.»

Norma si rivolge alla madre per averne l’appoggio. «Ho preso un dieci… il più bel voto della classe. Ora posso avere un cane? Me lo avevi promesso se avessi preso un bel voto all’esame. E mi sono meritata un dieci. Voglio un cane marrone a chiazze bianche. E lo chiamerò Napoleone perché questa è la domanda alla quale ho risposto meglio all’esame. Napoleone rimase sconfitto nella battaglia di Waterloo.»

Rose annuisce. «Va’ sulla veranda a giocare con Charlie. Sta aspettando da un’ora che tu tornassi da scuola.»

«Non voglio giocare con lui.»

«Va’ sulla veranda», dice Matt.

Norma guarda suo padre, poi Charlie. «Non sono obbligata. La mamma dice che non devo giocare con lui se non voglio.»

«Ehi, signorinetta», Matt si alza e va verso la figlia, «chiedi subito scusa a tuo fratello».

«Non sono obbligata», grida Norma correndo dietro la sedia di sua madre. «È come un bambino. Non sa giocare a monopoli né agli scacchi né a niente… confonde tutto. Non voglio più giocare con lui.»

«Allora va’ in camera tua!»

«Adesso posso averlo un cane, mamma?»

Matt batte il pugno sul tavolo. «Non ci sarà nessun cane in casa mia fino a quando assumerai questo atteggiamento, signorinetta.»

«Le ho promesso un cane se avesse avuto bei voti a scuola…»

«Un cane marrone a chiazze bianche!» aggiunge Norma.

Matt addita Charlie in piedi accanto alla parete. «Hai dimenticato di aver detto a tuo figlio che non potevamo tenere un cane perché non c’era posto e nessuno poteva badargli? Te ne ricordi? Quando chiese un cane? Adesso vorresti rimangiarti quello che gli hai detto?»

«Ma al mio cane posso badarci io», insiste Norma. «Gli darò da mangiare, lo laverò e lo porterò fuori…»

Charlie, che è rimasto in piedi accanto al tavolo, giocherellando con il grosso bottone rosso all’estremità dello spago, fa sentire a un tratto la sua voce.

«L’aiuterò io a badare al cane! L’aiuterò a dargli da mangiare e a spazzolarlo e non lascerò che gli altri cani lo mordano!»

Ma prima che Matt o Rose possano rispondere. Norma strilla: «No! Il cane sarà mio. Soltanto mio!»

Matt annuisce. «Vedi?»

Rose siede accanto a Norma e le accarezza le trecce per calmarla. «Ma le cose dobbiamo dividerle con gli altri, cara. Charlie può aiutarti ad averne cura.»

«No! È soltanto mio!… Sono stata io a prendere dieci in storia… non lui! Lui non prende mai bei voti come me. Perché dovrebbe aiutarmi a "badare al cane? E poi il cane gli si affezionerà più che a me e sarà più suo che mio. No! se non posso averlo tutto per me non lo voglio!»

«Allora è deciso», dice Matt, riprendendo il giornale e rimettendosi sulla sedia. «Niente cane.»

A un tratto Norma salta giù dal divano e afferra il compito di storia che soltanto pochi minuti prima aveva portato a casa con tanto entusiasmo. Lo strappa e getta i pezzi di carta sulla faccia stupefatta di Charlie. «Ti odio! Ti odio!»

«Norma, finiscila immediatamente!» Rose l’afferra ma, contorcendosi, lei riesce a sottrarsi alla stretta.

«E odio anche la scuola! La odio! Smetterò di studiare e diventerò una scema come lui. Dimenticherò tutto quello che ho imparato e così sarò proprio come lui.» Corre fuori della stanza, strillando: «Incomincia già a succedermi. Sto dimenticando tutto… Sto dimenticando… non ricordo più niente di quello che ho imparato!»

Rose, atterrita, le corre dietro. Matt rimane seduto fissando il giornale che ha in grembo. Charlie, spaventato da quegli isterismi e dalle grida, si fa piccolo su una sedia, piagnucolando sommessamente. Che cosa ha fatto di male? E sentendo il bagnato nei calzoni e il rivoletto che gli scende giù per la gamba, rimane lì in attesa dello schiaffo; sa che gli toccherà non appena tornerà sua madre.


La scena svanisce, ma a partire da quel momento Norma trascorse tutto il suo tempo libero con le amiche, oppure giocò sola in camera sua. Teneva chiusa la porta della sua stanza e a me era proibito entrare senza il suo permesso.

Ricordo di aver udito una volta Norma e una delle sue amiche giocare nella stanza di lei. Norma gridò: «Non è il mio vero fratello! È soltanto un ragazzo che abbiamo preso in casa perché ci faceva compassione. La mamma me lo ha detto, e ha soggiunto che ormai posso rivelare a tutti come non sia il mio vero fratello».

Vorrei che questo ricordo fosse una fotografia, per poterla strappare e gettargliela in faccia. Vorrei poterle parlare al di là degli anni e dirle che non ebbi mai l’intenzione di impedirle di avere il cane. Avrebbe potuto tenerlo tutto per sé. e io non gli avrei dato da mangiare né l’avrei spazzolato e neppure ci avrei giocato… e non mi sarei mai sognato di fare in modo che volesse più bene a me che a lei. Volevo soltanto che Norma continuasse a giocare con me come aveva sempre fatto. Non avevo l’intenzione di fare nulla che potesse addolorarla.


6 giugno Oggi ho avuto il primo vero litigio con Alice. La colpa è mia. Volevo vederla. Spesso, dopo un ricordo o un sogno che mi turbano, parlare con lei, o semplicemente esserle vicino, mi rasserena. Ma è stato un errore passare a prenderla al Centro.

Dopo l’operazione non ero più stato al Centro per adulti ritardati e il pensiero di rivedere quel luogo mi eccitava. Si trova nella Ventitreesima Strada, a est della Quinta Avenue, in una vecchia scuola che è stata impiegata in questi ultimi cinque anni dalla clinica dell’università Beekman come centro di istruzione sperimentale… corsi speciali per i tardi di mente. La targa sulla porta, incorniciata dall’antico cancello con le punte di ferro, una targa di ottone lucente, annuncia: Corsi di istruzione organizzati dall’università Beekman.

La lezione di Alice terminava alle otto, ma io volevo rivedere l’aula dove, fino a poco tempo fa, faticavo soltanto per imparare a leggere e a scrivere e a contare il resto di un dollaro.

Sono entrato, sono salito furtivamente di sopra fino alla porta e poi, senza farmi vedere, ho guardato dentro. Alice sedeva alla cattedra e su una sedia accanto a lei si trovava una donna dalla faccia smunta che non ho riconosciuta. Era accigliata, con un’espressione di aperto smarrimento, e io mi sono domandato che cosa cercasse di spiegarle Alice.

Accanto alla lavagna c’era Mike Dorni sulla sedia a rotelle e lì, nel solito banco in prima fila, Lester Braun che, a detta di Alice, era il più intelligente del gruppo. Lester aveva imparato con facilità ciò che a me era costato molta fatica, ma veniva alle lezioni soltanto quando ne aveva voglia oppure si assentava per guadagnare qualcosa tirando a cera pavimenti. Suppongo che se ci avesse tenuto molto, se la cosa fosse stata importante per lui come lo era per me, lo avrebbero scelto per questo esperimento. C’erano anche facce nuove, persone che non conoscevo.

Infine ho trovato il coraggio di entrare.

«È Charlie!» ha detto Mike voltando la sedia a rotelle.

L’ho salutato con la mano.

Bernice, la bionda graziosa dagli occhi vacui, mi ha guardato e mi ha rivolto uno smorto sorriso. «Dove sei stato, Charlie? Che bel vestito.»

Gli altri che si ricordavano di me mi hanno salutato a cenni e io ho risposto.

A un tratto mi sono accorto dall’espressione di Alice ch’ella era irritata.

«Sono quasi le otto», ha annunciato. «È giunto il momento di rimettere tutto a posto.»

Ognuno ha un compito preciso, bisogna metter via il gesso, i cassini, i fogli di carta, i libri, le matite, i taccuini, i colori e il materiale didattico. Ognuno sa quello che deve fare e ci tiene a farlo bene. Tutti hanno cominciato a darsi da fare eccetto Bernice. Mi stava fissando.

«Perché Charlie non viene più a scuola?» ha domandato. «Che cosa ti è successo, Charlie? Torni con noi?»

Gli altri hanno alzato gli occhi su di me. Ho guardato Alice, aspettando che rispondesse in vece mia, ma è seguito un lungo silenzio.

Che cosa avrei potuto dire io per non offenderli?

«La mia è soltanto una visita», ho detto.

Una delle ragazze ha cominciato a ridacchiare… Francine, che ha sempre dato molte preoccupazioni ad Alice. A diciott’anni aveva già messo al mondo tre figli, prima che i suoi genitori la facessero sottoporre a una isterectomia. Non è carina, non certo attraente come Bernice, ma ha rappresentato una facile conquista per una decina di uomini che si sono limitati a comprarle qualcosa di grazioso o a pagarle il cinematografo. Alloggia in una pensione autorizzata dalla clinica Warren per quelli che lavorano all’esterno, e le è permesso venire la sera al Centro. È capitato che per due volte non si facesse vedere, fermata da uomini durante il tragitto fino alla scuola, e ora può uscire soltanto se è accompagnata.

«Parla come un pezzo grosso, adesso», ha ridacchiato.

«Benissimo». ha detto Alice, interrompendola in tono aspro. «Potete andare. Ci rivediamo domani sera alle sei.»

Quando tutti sono usciti ho capito da come Alice sbatteva le sue cose nell’armadio ch’era arrabbiata.

«Scusami», ho detto. «Volevo aspettarti giù, ma poi mi è venuta la curiosità di rivedere l’aula. La mia alma mater. Volevo soltanto dare un’occhiata, ma poi, quasi senza accorgermene, sono entrato. Che cos’è che ti infastidisce?»

«Niente. Non mi infastidisce proprio niente.»

«Suvvia. La tua ira è sproporzionata rispetto a quel che è accaduto. Devi avere qualcosa in mente.»

Lei ha lasciato cadere con un tonfo un libro che aveva in mano. «E va bene. Vuoi saperlo? Sei diverso, sei cambiato. E non mi riferisco al tuo quoziente d’intelligenza. Parlo dell’atteggiamento che assumi nei confronti della gente… non sei più come prima…»

«Oh, andiamo! Non…»

«Non m’interrompere!» L’autentica ira nella sua voce mi respingeva. «Dico sul serio. C’era qualcosa in te, prima. Non saprei… un calore, un’aperta sincerità, una gentilezza che inducevano tutti a volerti bene e ad essere contenti di averti vicino. Ora, nonostante tutta la tua intelligenza e la tua cultura, vi sono differenze che…»

Non ho più sopportato di stare ad ascoltarla. «Che cosa ti aspettavi? Credevi che sarei rimasto un docile cucciolo, che avrei continuato a dimenare la coda e a leccare il piede dal quale venivo preso a calci? Sicuro, tutto questo ha cambiato me e il mio modo di pensare. Non sono più costretto a subire i maltrattamenti che la gente mi ha inflitto per tutta la vita.»

«La gente non è stata cattiva con te.»

«Tu che cosa ne sai? Sta’ a sentire, anche i migliori sono stati presuntuosi e condiscendenti… si sono serviti di me per sentirsi superiori e dotati, nonostante i loro limiti. Chiunque può sentirsi intelligente accanto a un idiota.»

Dopo averlo detto mi sono accorto che lei avrebbe interpretato male le mie parole.

«Collochi anche me in questa categoria, suppongo.»

«Non essere assurda. Sai benissimo, accidenti, che io…».

«Naturalmente, in un certo senso, penso che tu abbia ragione. In confronto a te io sono piuttosto ottusa. Ormai, ogni volta che ci troviamo insieme, dopo averti lasciato me ne torno a casa con l’avvilente sensazione di essere tarda e ottusa in tutto. Passo in rassegna le cose che ho detto, penso a tutte le cose brillanti e spiritose che avrei dovuto dire e mi vien voglia di prendermi a calci perché non le ho dette quando eravamo insieme.»

«Questa è un’esperienza piuttosto comune.»

«Mi sorprendo a voler far colpo su di te come non mi ero mai sognata prima, ma il frequentarti ha minato la mia fiducia in me stessa. Pongo in dubbio i miei moventi, adesso, qualsiasi cosa faccia.»

Ho cercato di cambiare discorso, ma Alice seguitava a tornare sullo stesso argomento. «Sta’ a sentire, non sono venuto qui per litigare con te», ho detto infine. «Mi permetti di accompagnarti a casa? Ho bisogno di parlare con qualcuno.»

«Anch’io. Ma in questi giorni non posso parlare con te. Posso soltanto ascoltare, e fare di sì con la testa e fingere di capire ogni cosa a proposito delle varianti culturali e della matematica neo-bouleana e della logica post-simbolica, e mi sento sempre e sempre più stupida, e quando tu te ne vai da casa mia devo guardarmi allo specchio e gridare a me stessa: ’No, non è vero che stai diventando più tonta ogni giorno! Non stai perdendo l’intelligenza! Non stai diventando senile e ottusa! È Charlie ad irrompere in avanti così fulmineamente da far sembrare che tu stia indietreggiando’. Dico questo a me stessa, Charlie, ma ogni volta che ci incontriamo e che tu mi dici qualcosa e mi guardi con quell’aria spazientita, so che stai ridendo… E quando tu mi spieghi qualcosa e io non riesco a ricordarmene, credi che succeda così perché non mi interesso e non voglio darmi la pena di starti ad ascoltare. Ma tu non sai come mi torturo quando te ne sei andato. Non sai quanti libri ho letto faticosamente, a quante lezioni ho assistito alla Beekman, eppure, ogni volta che parlo di qualcosa ti vedo spazientito, come se tutto ciò che dico fosse infantile. Volevo che tu diventassi intelligente, volevo aiutarti e dividere la tua felicità… e ora mi hai escluso dalla tua vita.»

Mentre ascoltavo quel che diceva ho cominciato a rendermi conto dell’enormità della cosa. Mi ero concentrato a tal punto su me stesso e su quanto mi accadeva, che non avevo mai pensato a quel che accadeva a lei.

Stava piangendo silenziosamente quando siamo usciti dalla scuola, e io mi sono trovato a corto di parole.

Durante tutto il tragitto in autobus ho riflettuto fino a qual punto si era capovolta la situazione. Alice aveva un sacro terrore di me. Il ghiaccio si era spezzato tra noi e il varco si stava allargando mentre la corrente della mia mente mi trascinava rapida nel mare aperto.

Alice aveva ragione rifiutando di torturarsi rimanendo con me. Non avevamo più niente in comune. La più semplice conversazione era divenuta uno sforzo; e tra noi, ormai, non rimaneva altro che un silenzio imbarazzato e un desiderio insoddisfatto in una stanza buia.

«Sei molto serio», ella ha detto emergendo dal suo stato d’animo e alzando gli occhi su di me.

«Penso a noi due.»

«Questo non dovrebbe renderti così serio. Non voglio turbarti. Stai attraversando una prova durissima.» Si sforzava di sorridere.

«Ma mi hai già turbato. Soltanto, non so che cosa farci.»

Mentre dalla fermata dell’autobus andavamo a casa sua, ha detto: «Non verrò al congresso con te. Ho telefonato al professor Nemur stamane e l’ho avvertito. Avrai molte cose da fare laggiù. Conoscerai persone interessanti… per qualche tempo proverai l’emozione di essere alla ribalta. Non voglio che tu mi abbia tra i piedi…»

«Alice…»

«… e qualsiasi cosa tu possa dire adesso, so che la penserò così, quindi, se non ti dispiace, mi avvinghierò al mio io che va frantumandosi… grazie.»

«Ma stai attribuendo a questa faccenda più importanza di quanta ne meriti. Io so, sono sicuro, che se soltanto…»

«Tu sai? Sei sicuro?» Si è voltata a fissarmi con ira sugli scalini del portone di casa sua. «Oh, quanto sei diventato insopportabile. Come puoi sapere tu quello che provo? Ti stai prendendo troppe libertà per quanto concerne gli stati d’animo altrui. Non puoi sapere quello che provo o come lo provo o perché lo provo.»

Ha fatto per entrare, poi si è voltata a guardarmi e con la voce che le tremava ha detto: «Sarò qui quando tornerai. Sono soltanto turbata, ecco tutto, e voglio che abbiamo entrambi la possibilità di riflettere sulla situazione mentre saremo lontani».

Per la prima volta in molte settimane non mi ha invitato a entrare.

Ho fissato la porta chiusa sentendo l’ira salire in me. Volevo fare una scenata, picchiare i pugni contro la porta, abbatterla. Volevo che la mia ira consumasse l’edificio.

Ma nell’allontanarmi mi sono sentito ribollire dentro, poi mi ha pervaso un gran gelo e infine è sopraggiunto il sollievo. Camminavo così in fretta che mi sembrava di volare lungo le strade, e sulle gote sentivo, nella notte estiva, una brezza fresca. Ero libero a un tratto.

Ora capisco che i miei sentimenti per Alice si erano spostati all’indietro contro la corrente della mia cultura, dall’adorazione all’amore, alla tenerezza, a un senso di gratitudine e di responsabilità. Quei sentimenti confusi per lei mi avevano trattenuto, e io m’ero avvinghiato ad Alice timoroso d’essere costretto ad andarmene per mio conto, alla deriva.

Ma con la libertà sopraggiungeva la tristezza. Volevo essere innamorato di lei. Volevo sormontare le mie paure emotive e sessuali, sposarla, avere figli, sistemarmi.

Ora è impossibile. Sono lontano da Alice con un quoziente d’intelligenza di 185 come lo ero con un quoziente di 70. E questa volta lo sappiamo entrambi.


8 giugno Che cosa mi induce a uscire di casa e a vagabondare per la città? Mi aggiro solo per le vie… non è la passeggiata distensiva d’una notte d’estate ma la tesa fretta di arrivare… dove? Lungo vicoli, sbirciando nei portoni, scrutando attraverso finestre con le veneziane abbassate a mezzo, desideroso di parlare con qualcuno e al contempo timoroso di incontrare sconosciuti. Su per una strada e giù per un’altra, attraverso il labirinto senza fine, lanciandomi contro la gabbia di neon della città. Cercando… che cosa?

Ho incontrato una donna al Central Park. Sedeva su una panchina accanto al lago, avvolta in un cappotto nonostante il caldo. Ha sorriso e mi ha fatto cenno di sederle accanto. Abbiamo contemplato il luminoso profilo della città sul Central Park South, il favo di cellette illuminate contro le tenebre, e io ho desiderato poter assorbire tutto ciò.

Sì, ero di New York, le ho detto. No, non ero mai stato a Newport News, in Virginia. Lei era di quelle parti, e laggiù aveva sposato il marinaio che ora sta navigando e che non rivede da due anni e mezzo.

Si è voltata e ha appallottolato un fazzoletto, servendosene di quando in quando per asciugarsi il sudore che le imperlava la fronte. Anche nella fioca luce riflessa dal lago ho notato ch’era molto truccata, ma sembrava attraente con i lisci capelli neri sciolti sulle spalle… a parte il fatto che aveva il viso tumido e gonfio, come se si fosse appena destata da un lungo sonno.

Voleva parlare di se stessa e io volevo ascoltare.

Suo padre le aveva dato una bella casa, un’istruzione, tutto ciò che un ricco armatore può dare a una figlia unica… ma non l’aveva perdonata. Non le avrebbe mai perdonato la fuga con il marinaio.

Mi ha preso la mano, parlando, e mi ha appoggiato il capo sulla spalla. «La notte in cui Gary e io ci sposammo», ha bisbigliato, «ero una vergine atterrita. E lui impazzì, né più né meno. Prima dovette schiaffeggiarmi e percuotermi. E poi mi prese senza una sola carezza. Quella fu l’ultima volta che andammo a letto insieme; non gli permisi mai più di toccarmi».

Probabilmente avrebbe potuto capire dal tremito della mia mano ch’ero esterrefatto. Si trattava di una confessione troppo violenta e intima per me. Sentendo la mia mano muoversi l’ha stretta più forte, come se dovesse finire il racconto prima di potermi lasciare andar via. Era importante per lei, e io sono rimasto zitto e immobile, come si rimane immobili dinanzi a un uccello che viene a beccarci il cibo nel palmo della mano.

«Non che non mi piacciano gli uomini», mi ha assicurato con franchezza spalancando gli occhi. «Sono stata con altri. Con lui no, ma con molti altri sì. Quasi tutti gli uomini sono dolci e teneri con le donne. Fanno all’amore adagio, e prima ti accarezzano e ti baciano.» Mi ha guardato significativamente e ha fatto passare il palmo aperto avanti e indietro sul mio.

Era quello di cui avevo sentito parlare, di cui avevo letto, di cui avevo sognato. Non sapevo come si chiamasse, né lei mi aveva chiesto il mio nome. Voleva soltanto che la conducessi in qualche posto dove potessimo essere soli. E io mi sono domandato che cosa ne avrebbe pensato Alice.

L’ho accarezzata goffamente e l’ho baciata in modo ancor più esitante, tanto ch’ella ha alzato gli occhi su di me.

«Che cosa c’è?» ha bisbigliato. «A che cosa stai pensando?»

«A te.»

«Hai un posto in cui possiamo andare?»

Ogni passo avanti era cauto. In quale punto il terreno avrebbe ceduto facendomi precipitare nell’ansia? Qualcosa continuava a spronarmi e a farmi procedere per tastare il terreno.

«Se non hai un posto, l’Hôtel Mansion, nella Cinquantatreesima, non costa troppo. E non stanno a seccarti per il bagaglio, se paghi in anticipo.»

«Ho una stanza…»

Mi ha guardato con nuovo rispetto. «Ah, be’, splendido.»

Ancora niente. E questo di per sé era curioso. Fino a qual punto avrei potuto spingermi senza essere sopraffatto dai sintomi del panico? Quando saremmo stati soli nella stanza? Quando si fosse spogliata? Quando avrei veduto il suo corpo? Quando avremmo giaciuto insieme?

A un tratto divenne importante sapere se sarei potuto essere come gli altri uomini, se avrei potuto chiedere a una donna di dividere la sua vita con me. Possedere intelligenza e cultura non bastava. Volevo anche questo. Il senso di sollievo e di distensione diventava irresistibile ora, insieme alla consapevolezza ch’era possibile. L’eccitazione che avevo provato baciandola tornava a dilagare in me, e ho avuto la certezza che sarei potuto essere normale con lei. Era diversa da Alice. Era il tipo di donna che ha vissuto.

Poi la sua voce è mutata, divenendo incerta. «Prima che andiamo… Soltanto una cosa…» Si è alzata e ha fatto un passo verso di me nella doccia di luce del lampione, aprendosi il cappotto, e io ho potuto vedere le forme del suo corpo, come non le avevo immaginate per tutto il tempo in cui eravamo rimasti seduti l’uno accanto all’altra nell’ombra. «Sono soltanto al quinto mese», ha detto. «Non fa alcuna differenza. Non ti dispiace, vero?»

Stando lì in piedi con il cappotto aperto, si è sovrapposta come una doppia esposizione all’immagine della donna matura che, appena uscita dalla vasca, teneva aperta la vestaglia affinché Charlie vedesse. E io ho aspettato, come un bestemmiatore aspetta d’essere fulminato. Ho distolto lo sguardo. Era l’ultima cosa che mi sarei aspettato, ma il cappotto strettamente avvolto intorno alla sua persona in una notte così calda avrebbe dovuto avvertirmi che c’era qualcosa di insolito.

«Non è di mio marito», mi ha assicurato lei. «Non era una menzogna quel che ti ho detto prima. Non lo vedo da anni. È stato un commesso viaggiatore che ho conosciuto otto mesi fa. Vivevo con lui. Ora non voglio più saperne, ma terrò il bambino. Dobbiamo soltanto essere prudenti… non violenti o qualcosa di simile. Ma per il resto non devi preoccuparti.»

La voce le si è abbassata e si è spenta quando ella si è resa conto della mia ira. «Ma tutto questo è sordido!» ho urlato. «Dovresti vergognarti!»

Si è scostata, avvolgendo rapidamente il cappotto intorno a sé per proteggere quello che nascondeva.

Mentre faceva questo gesto protettivo, ho veduto la seconda doppia immagine: mia madre, appesantita da mia sorella, ai tempi in cui mi teneva meno tra le braccia, mi riscaldava meno con la sua voce e le sue carezze, mi proteggeva meno da chiunque osasse dire ch’io non ero normale.

Credo di averla afferrata per una spalla… non ne sono sicuro, ma ecco che stava gridando, e sono tornato bruscamente alla realtà con la sensazione di pericolo. Avrei voluto dirle che non avevo cattive intenzioni… non sarei mai stato capace di fare del male a lei o a chiunque altro. «Per piacere, non gridare!»

Ma stava strillando e ho udito uno scalpiccio di passi in corsa sul viale buio. Era una situazione, questa, che nessuno avrebbe capito. Sono fuggito nell’oscurità per trovare un’uscita dal parco, zigzagando, attraversando un viale e seguendone un altro. Non conoscevo il parco e a un tratto ho urtato violentemente contro qualcosa che mi ha rigettato indietro. Una recinzione di rete metallica… un vicolo cieco. Poi ho veduto le altalene e gli scivoli e ho capito ch’era un campo di giochi per fanciulli, chiuso durante la notte. Ho seguito la recinzione e ho continuato a procedere, quasi correndo, incespicando contro radici contorte. Arrivato al lago, che segue una curva intorno al campo di giochi, sono tornato indietro, ho trovato un altro viale, ho attraversato il ponticello e poi sono passato intorno e sotto ad esso. Nessuna via d’uscita.

«Che cosa c’è? Che cosa è accaduto, signora?»

«Un maniaco?»

«È sana e salva?»

«Da che parte è andato?»

Avevo fatto un giro vizioso tornando al punto dal quale ero fuggito. Sono scivolato dietro l’enorme affioramento di una roccia e a uno schermo di rovi e mi sono lasciato cadere bocconi.

«Chiamate un poliziotto. Non c’è mai un agente quando se ne ha bisogno.»

«Che cosa è successo?»

«Un degenerato ha tentato di violentarla.»

«Ehi, c’è un tale laggiù che lo sta inseguendo. Eccolo là!»

«Avanti! Prendiamo il bastardo prima che esca dal parco!»

«Attenzione! Ha un coltello e una pistola…»

Era ovvio che le grida avevano stanato i vagabondi notturni, poiché l’avvertimento «eccolo là!» fu riecheggiato alle mie spalle e guardando da dietro la roccia vidi un uomo in fuga inseguito lungo il viale illuminato dai lampioni e poi nelle tenebre. Alcuni secondi dopo un altro individuo è passato davanti alla roccia, scomparendo nell’ombra. Ho immaginato me stesso raggiunto da questa folla infuriata e percosso e fatto a pezzi. Lo meritavo. Lo avevo quasi voluto.

Mi sono alzato, mi sono ripulito il vestito dalle foglie e dal terriccio e ho seguito adagio il viale nella direzione dalla quale ero venuto. Mi aspettavo di essere da un momento all’altro afferrato alle spalle e gettato giù a terra nelle tenebre, ma ben presto ho veduto le vivide luci della Cinquantanovesima Strada e della Quinta Avenue e sono uscito dal parco.

Ripensandoci, ora, nella sicurezza della mia stanza, mi sento scosso dalla rude esperienza che mi è toccata. Ricordare l’aspetto che aveva Ma’ prima di mettere al mondo mia sorella è spaventoso. Ma ancor più spaventosa è la consapevolezza che volevo essere raggiunto e picchiato. Perché volevo essere punito? Ombre emerse dal passato mi si avvinghiano alle gambe e mi trascinano giù. Apro la bocca per urlare ma non ho voce. Mi tremano le mani, mi sento tutto gelido e ho un ronzio lontano nelle orecchie.

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