Capitolo VIII

Rumata decise di non andare direttamente negli uffici di Don Reba di Arkanar.

Strisciò di soppiatto lungo i cortili, si nascose dietro file di stracci appesi ad asciugare, si infilò dentro i buchi nelle palizzate, impigliandosi con i nastri e i preziosi pizzi di Soan nei chiodi arrugginiti, e camminò a quattro zampe tra i mucchi di patate. Ma nonostante tutti gli sforzi non riuscì a eludere l’occhio vigile dei monaci neri. Girando in un vicolo stretto che portava alla discarica, ne incontrò due, cupi e ubriachi.

Cercò di evitarli, ma i monaci sguainarono le spade e gli bloccarono il passaggio.

Mentre anche lui afferrava le spade, i monaci fischiarono per chiamare rinforzi.

Rumata stava per ritornare nel buco della palizzata da cui era uscito, quando un omino agile dal viso insignificante corse verso di lui. Urtò contro la spalla di Rumata, si precipitò verso i monaci e sussurrò loro qualcosa, al che i due sollevarono le vesti, scoprendo i nastri lilla avvolti intorno alle gambe, e se ne andarono, sparendo presto dietro alcune case. L’omino li seguì senza voltarsi.

«Così va la faccenda» pensò Rumata. «Una spia, una guardia del corpo. E non si cura neppure di fare il suo lavoro di nascosto. Il nostro nuovo vescovo pensa davvero a tutto. Sarebbe interessante sapere se ha paura di me o per me». Seguendo con lo sguardo la spia, Rumata andò verso la discarica, che portava al retro degli edifici dell’ex ministero della Sicurezza Interna. Sperava che non ci fosse nessuno di guardia.

Il vicolo era deserto. Non si vedeva anima viva. Ma subito sentì lo scricchiolio delle persiane, delle porte aperte e richiuse, un neonato che piangeva e un mormorio ansioso che avvolgeva tutto. Da dietro una staccionata cadente sbucò un viso emaciato, annerito da strati di sporcizia. Due occhi vuoti spaventati guardarono Rumata.

«Le chiedo scusa, nobile signore; mi perdoni, la prego. Forse il nobile signore potrebbe dirmi cosa sta succedendo in città? Sono Kickus il fabbro, detto anche lo Zoppo. Vorrei andare alla mia forgia, ma ho paura…»

«Non andarci» disse Rumata. «Con questi monaci c’è poco da scherzare. Il Re è morto. Don Reba ha preso il potere. Adesso è vescovo del Sacro Ordine. È meglio che tu resti a casa».

Il fabbro accompagnò ciascuna parola di Rumata con un cenno entusiastico della testa, mentre gli occhi gli si riempivano di malinconia e disperazione.

«Il Sacro Ordine. Dice davvero?» borbottò. «Sarò dannato… Le chiedo perdono, nobile signore. Così, l’Ordine… Sono i Grigi, vero?»

«No, no» rispose Rumata, guardandolo con una certa curiosità. «I Grigi sono stati sconfitti. Questi sono i monaci».

«Oh povero me! Allora i Grigi sono… i Grigi sono stati sconfitti? Non male, direi.

Ma cosa ci succederà adesso, nobile signore, che ne dice? Dovremo conformarci, eh?

Conformarci al Sacro Ordine, vero?»

«Perché no? L’Ordine dovrà pure mangiare e bere. Adattatevi a loro!»

Di colpo il fabbro si animò.

«È quello che penso anch’io, signore. Dobbiamo adattarci e conformarci. Penso che la cosa principale sia vivere e lasciar vivere. È così?»

Rumata scosse la testa. «Oh, no» disse. «Quelli che resteranno calmi e pacifici saranno i primi a morire».

«Mi sembra anche giusto, in fondo. Ma noi cosa dovremmo fare? Un uomo solo è debole come un mignolo, e tutti quei preti ci stanno addosso. Oh, madre gloriosa, se solo tagliassero la gola al mio padrone! Era ufficiale dei Grigi. Che ne dice, signore, è possibile che gli abbiano fatto la festa, vero? Sa, gli devo cinque monete d’oro».

«Non saprei. Potrebbero averlo fatto fuori, possibile. Ma vorrei che tu pensassi a una cosa: è vero che da solo sei debole come un mignolo, ma ci sono migliaia di mignoli come te in questa città».

«E allora?»

«Niente, pensaci!» disse infastidito Rumata e si allontanò.

«Per il bene che potrà fargli un simile consiglio» pensò Rumata. «Per lui è ancora troppo presto per cercare di pensare. Come potrebbero essere semplici le cose, qui: migliaia di pugni come questo, se infuriati a dovere, potrebbero fare polpette di chiunque. Ma non sono ancora a questo punto. Non hanno ancora sperimentato la giusta furia. Solo la paura. Ognuno per sé, e Dio per tutti».

I cespugli di sambuco che orlavano la strada cominciarono improvvisamente a muoversi e a ondeggiare, e saltò fuori Don Tameo. Nel momento in cui vide Don Rumata, Don Tameo esplose di gioia; malgrado la mole balzò agilmente in piedi, e si avvicinò barcollando, stendendo le mani sporche verso Rumata.

«Mio nobile amico!» gridò. «Che gioia! Vedo che anche lei sta andando verso la cancelleria».

«Sì, infatti, signore» rispose Don Rumata. Si divincolò, liberandosi subito dall’abbraccio di Don Tameo.

«Mi permette di unirmi a lei, signore?»

«Sarà un onore per me, signore».

Si inchinarono. In apparenza, Don Tameo non aveva ancora calmato la sete della mattina. Dalle pieghe dei suoi ampi pantaloni gialli estrasse una fiaschetta del migliore.

«Le andrebbe di bere qualcosa con me?» chiese, facendo un gesto elegante con la bottiglia.

«No, grazie» rispose Rumata.

«Rum! Vero rum della capitale! L’ho pagato a peso d’oro!»

Scesero lungo la discarica. Tennero il naso chiuso mentre passavano attraverso mucchi di spazzatura, cani morti, pozzanghere puzzolenti brulicanti di vermi. L’aria mattutina era piena del ronzio incessante di milioni di mosche smeraldine.

«Stranissimo» disse Don Tameo, tappando la bottiglia. «Non ero mai stato qui».

Rumata restava zitto.

«Sono sempre stato un ammiratore di Don Reba» continuò Don Tameo. «Ho sempre saputo che prima o poi avrebbe cacciato dal trono quel buono a nulla del Re, aprendoci nuove strade e offrendo nuove prospettive alla nazione». A quelle parole scivolò in una pozzanghera verdastra, schizzandosi di fango dalla testa ai piedi, ma riuscendo ad aggrapparsi al braccio di Rumata per non cadere a faccia in giù. «Oh, sì» riassunse le sue considerazioni dopo essersi rimesso in piedi. «Noi, i giovani aristocratici, saremo sempre sostenitori di Don Reba! Adesso ci dimostreranno il dovuto rispetto. Giudicate da voi, mio nobile amico, è un’ora che cammino per le strade e non ho ancora incontrato uno solo di quei bastardi Grigi. Abbiamo cancellato la feccia Grigia dalla faccia della terra. Ah, che meraviglia poter respirare di nuovo nella nostra nuova Arkanar! Al posto dei bottegai arroganti, degli imbroglioni, di quei pidocchi dei contadini, ora nelle strade ci sono i Servi di Dio. L’ho visto con i miei occhi: i nobili camminano apertamente davanti ai loro palazzi. Non devono più temere che qualche sciocco con il grembiule da vetturino li schizzi di fango con le ruote del carro! E non c’è più bisogno di farsi largo a gomitate tra le file dei macellai.

Ispirati dalla benedizione del Sacro Ordine, per il quale devo ammettere di aver sempre nutrito grande ammirazione e simpatia, ci stiamo avviando verso un’era di gloria inaudita. Nessun contadino si permetterà più di alzare lo sguardo su un nobile senza essersi procurato prima un permesso speciale che dovrà essere firmato dall’ispettore distrettuale del Sacro Ordine. Sto appunto andando a consegnare una petizione scritta a questo proposito».

«Che puzza» disse Rumata.

«Sì, disgustosa» disse Don Tameo, rimettendo il tappo alla bottiglia. «Comunque, d’altro canto, come respiriamo liberamente nella nostra nuova Arkanar! E il prezzo del vino da ieri è calato della metà…»

Quando arrivarono in fondo al vicolo Don Tameo aveva vuotato la fiaschetta, che gettò via. Cominciò a essere stranamente agitato, cadde due volte con la faccia a terra, rifiutò di ripulirsi i vestiti insozzati dichiarando che essere impuro era la sua condizione naturale, che desiderava presentarsi così al suo nuovo padrone. Recitò più volte la sua petizione a gola spiegata: «Come parlo meravigliosamente!» urlava. «Per esempio, considerate questo passaggio, signori! ‘Affinché i luridi contadini…’ Eh?

Non è un’intuizione stupenda?»

Entrando nel cortile dietro la cancelleria Don Tameo si scontrò con un monaco, scoppiò in lacrime e chiese perdono per i suoi peccati. Il monaco, mezzo soffocato, cercò di difendersi dalla sua presa ferrea e di chiedere aiuto con un fischio, ma Don Tameo gli si aggrappò alla veste e caddero tutti e due in un mucchio di spazzatura.

Rumata li lasciò dov’erano e si allontanò. Anche da lontano continuava a sentire i fischi e le urla: «Affinché i luridi contadini! La vostra be-be-benedizione!… Con tutto il cuore!… Io avevo compassione, compassione, capito, villano schifoso?»

Sulla piazza di fronte all’ingresso della cancelleria stazionava un distaccamento di monaci di fanteria armati di rozzi manganelli. Avevano rimosso i cadaveri dalle strade. Il vento mattutino spingeva colonne di polvere giallastra attraverso la piazza.

L’ombra rettangolare della Torre della Gioia si proiettava sui soldati. Sotto il largo tetto conico della Torre i corvi gracchiavano e litigavano come al solito. In alto sporgeva una trave a cui si impiccavano i condannati a testa in giù. La Torre era stata costruita due secoli prima dagli antenati del Re, al solo scopo di tenere lontani i nemici in caso di guerra. Elevata su fondamenta solidissime, era una struttura a tre piani che poteva servire da magazzino viveri in caso di assedio prolungato. Più tardi la Torre era stata utilizzata come prigione. Poi, in seguito a un terremoto, tutti i pavimenti e i soffitti all’interno erano crollati, e la prigione dovette essere trasferita a livello delle fondamenta. Una volta una regina di Arkanar si era lamentata che le grida dei prigionieri torturati la disturbavano, e così il consorte aveva decretato che una banda militare dovesse suonare dal mattino presto fino a tarda notte. Era stato allora che aveva assunto il nome che ancora aveva. Ormai era solo un guscio vuoto di pietra: le sale di tortura erano state trasferite da tempo nelle buche più profonde delle cantine e l’orchestra aveva smesso di suonare i suoi concerti quotidiani, ma i cittadini continuavano a chiamarla con lo stesso nome, Torre della Gioia.

Di solito la zona intorno alla Torre era deserta. Ma quel giorno brulicava di gente. I monaci soldati conducevano, spingevano, trascinavano orde di Sturmovik con le uniformi strappate, vagabondi, straccioni, cittadini mezzi nudi paralizzati dalla paura, ragazze che urlavano istericamente. I soldati male in arnese dell’armata di Koleso, che lanciavano sguardi sprezzanti, venivano spinti come mandrie di bestiame. I monaci tiravano fuori i cadaveri dalle botole con dei ganci, li gettavano sui carri e li trasportavano fuori dalla città. Nella lunga coda di cortigiani e di privilegiati che attendevano davanti alle porte della cancelleria, l’ultimo della fila osservava inorridito l’orribile traffico.

Tutti venivano ammessi all’interno della cancelleria; qualcuno veniva aggregato a un gruppo. Rumata si fece largo a gomitate. Dentro l’aria era appiccicosa e pesante come nella discarica. A un’enorme scrivania coperta di fasci di carte sedeva un ufficiale dal colorito grigio giallastro. Dietro l’orecchio sinistro teneva una grande penna d’oca. Il richiedente di turno, il nobile Don Keu, giocherellava sprezzante con il baffo annunciando il suo nome.

«Si tolga il cappello» disse l’ufficiale con voce monotona, senza alzare gli occhi dalle sue carte.

«Il clan dei Keu ha il privilegio di portare sempre il cappello, anche in presenza del Re» disse orgogliosamente Don Keu.

«Davanti al Sacro Ordine nessuno ha più privilegi» rispose l’ufficiale con la stessa voce monotona. Don Keu cominciò a sibilare e diventò rosso, ma si tolse il cappello.

L’ufficiale faceva scorrere il dito sottile e giallastro lungo il foglio.

«Don Keu… Don Keu» mormorò. «Don Keu… Via Reale, numero 12?»

«Sì» rispose lui con voce irritata.

«Numero 485, Frate Tibak».

Frate Tibak, con il viso rubizzo e il fiato corto, era seduto alla scrivania accanto.

Frugò in certi documenti, si asciugò il sudore dalla fronte, si alzò in piedi e lesse con voce piatta: «Numero 485, Don Keu, Via Reale numero 12, colpevole di bestemmia contro il nome di Sua Magnificenza il Vescovo di Arkanar, Don Reba, due anni fa a un ballo reale, è condannato a trentasei colpi di frusta sulla schiena nuda e a baciare la scarpa di Sua Magnificenza».

Frate Tibak riprese il suo posto. «Vada in quel corridoio» disse l’ufficiale con la sua voce incolore. «Le frustate a destra, la scarpa a sinistra. Il prossimo». Con grande sorpresa di Rumata, Don Keu non cercò neppure di protestare. Evidentemente doveva aver visto molte cose mentre aspettava in fila. Squittì una volta, si toccò i baffi con grande dignità ed entrò nel corridoio.

Il successivo era l’enorme Don Pifa, una massa di grasso tremolante. Si era già tolto il cappello facendo un passo avanti. «Don Pifa… Don Pifa» borbottò l’ufficiale, facendo scorrere il dito sul foglio davanti a lui. «Via Lattai, numero 2?»

Don Pifa fece un suono gorgogliante.

«Numero 504, Frate Tibak».

Frate Tibak si toccò la pelata e si alzò in piedi.

«Numero 504, Don Pifa, Via Lattai numero 2. Non sono state rilevate sue offese contro Sua Magnificenza, e di conseguenza è puro».

«Don Pifa» disse l’ufficiale. «Ricevete l’attestato di condotta irreprensibile». Si chinò su una cassetta accanto alla sedia e prese un braccialetto di ferro che diede al gentiluomo. «Da portarsi al polso sinistro, da presentarsi immediatamente quando richiesto dai guerrieri del Sacro Ordine. Il prossimo».

Don Pifa fece di nuovo un gorgoglio, con gli occhi incollati al braccialetto, e uscì dalla stanza. L’ufficiale dalla voce incolore stava già chiamando il nome successivo.

Rumata guardò la gente che si era messa in coda ad aspettare. Tra la folla c’erano molti visi familiari. Alcuni erano vestiti bene come al solito, altri erano visibilmente caduti in disgrazia, ma ricchi e poveri erano tutti inzaccherati di fango. In mezzo alla fila, Don Sera disse per la terza volta in cinque minuti, ad alta voce: «Non vedo proprio perché un gentiluomo non possa prendersi anche qualche bella sferzata, in nome di Sua Magnificenza!»

Rumata aspettò che inviassero nel corridoio anche il successivo. Era un pescivendolo ben conosciuto, condannato a cinque colpi di bastone, senza bacio della scarpa, a causa di pensieri illeciti. Quindi Rumata si fece largo fino alla scrivania e senza tanti complimenti posò la mano sul fascio di carte dell’ufficiale.

«Scusate. Mi serve un ordine ufficiale di scarcerazione per il dottor Budach. Sono Don Rumata».

L’ufficiale non alzò gli occhi.

«Don Rumata… Don Rumata» borbottò, spinse da parte la mano di Rumata e fece scorrere il dito su una lista di nomi.

«Ma che stai facendo, scribacchino? Mi serve un ordine di scarcerazione!» disse Rumata.

«Don Rumata… Don Rumata». Impossibile scalfire l’automatismo fossilizzato del burocrate. «Via Spengler numero 8. Numero 16, Frate Tibak». Rumata, si accorse che tutti, dietro di lui, trattenevano il respiro. Ma per essere sinceri, anche lui si sentiva leggermente a disagio. Frate Tibak, con la faccia rossa e sudata, si alzò in piedi.

«Numero 16, Don Rumata, Via Spengler numero 8, per servizi speciali a favore della causa del Sacro Ordine, riceve un’espressione di ringraziamento particolare da Sua Magnificenza. Sua Magnificenza concede quindi graziosamente un editto per il rilascio del dottor Budach, della cui persona gli sarà permesso di disporre a sua discrezione, vedi modulo 6/17/11».

L’ufficiale procedette subito a estrarre il modulo dalla pila di documenti alla sua destra e lo diede a Don Rumata.

«Dopo la porta gialla, secondo piano, stanza sei, in fondo al corridoio, la prima a destra e poi la prima a sinistra» disse senza muovere neppure un muscolo. «Il prossimo».

Rumata scorse velocemente il contenuto del documento. Non era un ordine di rilascio per il dottor Budach. Era solo un documento per ottenere un permesso di entrata nel quinto dipartimento speciale della cancelleria, dove avrebbe potuto ritirare una raccomandazione per il segretario della polizia segreta. «Che cosa mi hai dato, imbecille! Dov’è l’ordine ufficiale di rilascio?» chiese.

«Dopo la porta gialla, secondo piano, stanza sei, in fondo al corridoio, la prima a destra e poi la prima a sinistra» ripeté l’ufficiale.

«Ti ho chiesto dov’è l’ordine di rilascio!» gridò Rumata.

«Non ne ho la più pallida idea… Assolutamente… Il prossimo!»

Sopra le orecchie Rumata sentì un respiro ansimante e qualcosa di morbido contro la schiena. Si scostò con un movimento rapido e risoluto. Era Don Pifa, che era tornato indietro.

«Non è della mia misura» si lamentò.

L’ufficiale alzò lo sguardo e lo guardò con i suoi occhi vuoti e stanchi.

«Nome? Rango?» chiese.

«Non mi va bene» ripeté Don Pifa, spingendo con forza il braccialetto che non riusciva a passare neppure attraverso tre dita.

«Non va bene… Non va bene…» mormorò uno degli ufficiali, e afferrò subito un librone che stava in un angolo della scrivania. Il libro aveva un aspetto minaccioso, con la sua copertina nera e unta. Per un attimo Don Pifa fissò confuso il libro, poi fece un passo indietro e senza dire più niente si avviò verso l’uscita. Dalla fila delle voci cominciarono a lamentarsi: «Non farci aspettare! Vuoi sbrigarti?»

Anche Rumata si allontanò dalla scrivania. «Bestia schifosa, ti faccio vedere io!» pensò. L’ufficiale cominciò a leggere ad alta voce il libro: «Nel caso che detto braccialetto non si adatti al polso sinistro, o che la persona purificata non abbia una mano sinistra…» Rumata girò attorno alla scrivania, mise tutte e due le mani nella cassetta dei braccialetti, ne prese più che poteva e se ne andò.

«Ehi, ehi» gridava l’ufficiale, sempre con la stessa voce monotona. «Il motivo…»

«In nome del Signore» disse Rumata con enfasi significativa, senza voltarsi.

L’ufficiale e Frate Tibak si alzarono subito in piedi e risposero confusi: «Nel Suo nome!» La gente in coda guardava ammirata e invidiosa Rumata che si allontanava.

Rumata uscì dalla cancelleria e andò verso la Torre della Gioia, facendo tintinnare allegramente i cerchietti di ferro. Si accorse di aver preso nove braccialetti, ma che al polso sinistro ce ne stavano solo cinque, così infilò gli altri quattro al destro. «È così che il vescovo di Arkanar voleva sbarazzarsi di me» pensò. «Be’, ha sbagliato persona!» I braccialetti di metallo tintinnavano a ogni passo, e Rumata teneva in mano un pezzo di carta dall’aria importante, il modulo 6/17/11, decorato da bolli multicolori. I monaci che camminavano o cavalcavano per strada lo evitavano accuratamente. Ogni tanto scorgeva tra la folla la sua spia e guardia del corpo, che si teneva sempre a rispettosa distanza. Rumata arrivò al cancello della Torre della Gioia. Fece tintinnare minacciosamente le spade davanti alla guardia che allungava il collo con curiosità, ma che si ritirò subito. Rumata attraversò il cortile e scese, nella semioscurità interrotta solo dal bagliore di rozze lampade a olio, gli scalini consunti e scivolosi. Era l’entrata del sancta sanctorum dell’ex ministro della Sicurezza Interna, la prigione reale con le sale di tortura.

Ogni dieci passi, lungo il corridoio a volta, c’era una torcia puzzolente fissata a un sostegno arrugginito. Sotto ogni torcia c’era una nicchia simile a una caverna, che terminava in una porta nera con una finestrella provvista di sbarre. Era l’entrata delle celle. All’esterno le porte erano sprangate da pesanti chiavistelli. I corridoi brulicavano di gente che si urtava, correva avanti e indietro, gridava, cercava di dare ordini. I chiavistelli sferragliavano e sbattevano, le porte venivano aperte e chiuse, qualcuno veniva picchiato e urlava di dolore, un altro cercava disperatamente di aggrapparsi alle grate mentre lo trascinavano via, un prigioniero veniva spinto in una cella già sovraffollata, e un altro condannato, che alcuni uomini cercavano di trascinare fuori da una cella, si stringeva a un compagno gridando. I visi dei monaci erano pieni di zelo. Andavano tutti di fretta, tutti svolgevano mansioni importantissime per lo Stato. Rumata decise di scoprire che cosa stava succedendo là dentro. Si aggirò indisturbato in vari corridoi, scendendo sempre di più. I piani inferiori erano un po’ più calmi. Basandosi sulle indiscrezioni che aveva captato, era lì che venivano esaminati i diplomati alla Scuola dei Patrioti. Vestiti solo di pantaloni di cuoio, i ragazzi stavano in piedi davanti alle porte delle sale di tortura, sfogliavano vecchi manuali unti e ogni tanto andavano a bere un po’ d’acqua da una tinozza servendosi di una coppa legata al muro con una catena. Dalle stanze provenivano grida orribili, il rumore delle frustate e l’odore inconfondibile della carne bruciata. E i loro discorsi! Oh, quei discorsi!

«Sai, la ruota ha una vite in cima, che si era consumata ed era caduta. È colpa mia, dico io? Mi ha fatto frustare per questo. ‘Schifoso, porco’ mi ha detto. ‘Imbecille, vai a farti dare cinque frustate sul sedere nudo. Poi torna qui’«.

«Se solo riuscissimo a scoprire chi è che dà le frustate. Forse è uno di noi, uno studente. Potremmo alleggerirgli la mano, basterebbe qualche moneta di rame…» «Quando si ha sottomano un grassone, le spine non gli lasciano segni nella carne.

La cosa migliore è prendere un paio di chiodi incandescenti e spingergli via un po’ di lardo…» «Sì, ma le catene di Dio servono solo per torturare le gambe, e i guanti del martire, quelli con i chiodi, servono per le mani, ti ricordi?» «Fratelli, sono quasi scoppiato, ho riso tanto! Entro per dare un’occhiata, e chi ti vedo? Fika il rosso, il macellaio del mio quartiere che mi tirava sempre le orecchie quando era ubriaco. Adesso tocca a me, mi sono detto, aspetta un po’…» «E Pekor, quello con le labbra grosse, è stato portato via dai monaci stamattina.

Non è ancora tornato. Non si è visto neanche all’esame».

«Dovevo lavorare al tritacarne, ma per caso ho preso l’uomo di fianco. Be’, si sono rotte un po’ di costole, e allora? Avreste dovuto vedere Padre Kin! Mi prende per i capelli e mi dà dei calci con gli scarponi. Ragazzi, che mira! Ho visto le stelle! ‘Che ti salta in mente?’ mi grida. ‘Stai danneggiando le proprietà!’««Date un’occhiata, amici» pensò Rumata, girando lentamente la testa per inquadrare tutta la scena. «Venite a vedere. Qui non si tratta solo di teorie: sulla Terra non si è mai visto niente di simile. Guardate, ascoltate, registrate tutto! E imparate ad apprezzare e ad amare la nostra vita sulla Terra, maledizione, inchinatevi per onorare la memoria di quelli che sono vissuti in epoche come questa! Osservate bene questi visi ripugnanti, giovani, ottusi, indifferenti, abituati alle peggiori bestialità; ma non inorgoglitevi. I nostri antenati, ai loro tempi, non erano affatto migliori».

Ormai gli studenti si erano accorti di lui. Una ventina di occhi di tutti i colori lo osservavano.

«Ehi, guarda, il signore si degna di venirci a trovare. La pappagorgia è un po’ pallida, eh, messere?»

«Ma come! Credevo che li avessimo sistemati tutti!»

«Dicono che in questi casi gli mettono davanti dell’acqua, ma gli lasciano una catena troppo corta per riuscire a raggiungerla…»

«Perché è venuto a ficcare il naso qui?»

«Mi piacerebbe mettergli le mani addosso. Scommetto che risponderebbe a tutto, confesserebbe ogni cosa…»

«Basta! Parlate più piano! È capace di sguainare la spada senza preavviso, state attenti… Guardate quanti braccialetti ha, e quel pezzo di carta!»

«Non mi piace come ci sta guardando. Andiamocene, ragazzi. Non voglio immischiarmi con questi individui!»

Finalmente si allontanarono, nascondendosi in qualche angolo buio. Solo i lampi degli occhi sospettosi ogni tanto ne rivelavano la presenza. «Meglio essersene sbarazzati» si disse Rumata. «Non mi seccheranno più». Stava per fermare uno dei monaci che si affrettavano lungo il corridoio, quando vide in un angolo altri tre monaci che sembravano meno di fretta e si concentravano con calma sulla loro occupazione. Stavano bastonando un boia, probabilmente colpevole di qualche insubordinazione. Rumata si avvicinò.

«In nome del Signore» disse, facendo tintinnare i braccialetti.

I monaci abbassarono i bastoni e lo osservarono.

«Nel Suo nome» disse il più alto dei tre.

«Portatemi dal supervisore di sezione!» gridò Rumata.

I monaci si scambiarono degli sguardi veloci. Intanto, il boia si rannicchiò dietro una tinozza.

«Di cosa avete bisogno?» chiese il monaco più alto.

Senza parlare, Rumata gli mise il documento sotto il naso.

«Aha. Bene. Al momento il supervisore di questa sezione sono io».

«Benissimo» disse Rumata, arrotolando il foglio. «Io sono Don Rumata. Sua Magnificenza mi ha fatto dono del dottor Budach. Fatelo portare qui!»

«Budach?» chiese il monaco, aggrottando la fronte. «E chi sarebbe?» Mise la mano sotto il cappuccio e si grattò la testa. «Budach il sovversivo?»

«No, no» disse un altro. «Il sovversivo si chiama Rudach. È stato rilasciato ieri notte. Padre Kin in persona gli ha tolto le catene e lo ha portato fuori. Ma…»

«Sciocchezze, sciocchezze!» sbottò Rumata, battendo il foglio arrotolato sulla coscia. «Budach è quello che ha avvelenato il Re!»

«Ahhh!» esclamò il supervisore. «Ho capito. Probabilmente è già nelle segrete.

Frate Pacca, andate a vedere al numero 12». Si rivolse ancora a Rumata: «Così voi vorreste portarlo fuori di qui?»

«Certo. Adesso appartiene a me».

«Va bene, Vostro Onore. Posso avere il foglio? Devo registrare tutto con esattezza». Rumata gli diede il modulo. Il supervisore lo esaminò da tutte e due le parti, con speciale attenzione per il sigillo, e poi disse compiaciuto: «Ecco un bel documento! Scusate, signore, potreste spostarvi un attimo e aspettare che finiamo questo lavoretto?… Ma dov’è andato il boia?»

I monaci cercarono il boia, che a quanto pareva aveva trattato i prigionieri troppo delicatamente per i gusti del nuovo padrone. Rumata si allontanò. I monaci trovarono il boia, lo tirarono fuori dal nascondiglio, lo fecero stendere sul pavimento e ricominciarono l’opera senza dimostrare passione o crudeltà particolare. Dopo cinque minuti riapparve il monaco che era stato mandato a prendere il dottor Budach.

L’uomo sbucò da una curva del corridoio tirando una corda legata al collo di un vecchio emaciato, con i capelli grigi, vestito di scuro.

«Ecco il suo uomo! Vecchio Budach!» gridò allegramente il monaco da lontano.

«Non era stato ancora gettato nelle segrete. È vivo e vegeto! Solo un po’ debole; probabilmente è un po’ che non mangia».

Rumata andò verso di loro, strappò la corda di mano al monaco e la tolse dal collo del vecchio.

«Siete Budach di Irukan?»

«Sì».

«Io sono Rumata. Mi segua e cerchi di starmi dietro!» Rumata si rivolse ai monaci: «In nome del Signore!» disse.

Il supervisore si irrigidì, lasciò cadere il bastone e rispose, ansimando: «Nel Suo nome!»

Rumata guardò Budach. Vide che il vecchio si appoggiava al muro e non si reggeva quasi in piedi.

«Ho la nausea e sono debolissimo» disse con un sorriso stanco. «Per favore mi scusi, signore!»

Rumata lo prese per un braccio e lo sorresse per tutto il corridoio. Appena furono fuori dalla portata dei monaci si fermò e prese una pillola di Sporamina da una fialetta. La diede a Budach, che gli lanciò uno sguardo interrogativo.

«La inghiotta» disse Rumata. «Si sentirà subito meglio».

Budach era ancora appoggiato al muro. Prese la pillola dalle mani di Rumata, l’esaminò accuratamente, l’annusò, aggrottò le sopracciglia pelose, poi si mise la pillola sulla lingua e l’assaggiò cautamente.

«Inghiotta, inghiotta» disse Rumata sorridendo.

Budach eseguì.

«Mmmm» disse. «E pensare che credevo di sapere tutto di medicina». Tacque di nuovo, osservando i cambiamenti che avvenivano nel suo corpo. «Interessante! Milza essiccata della scrofa selvaggia Y? No, impossibile, non sento sapore di putrefazione».

«Andiamo» disse Rumata.

Attraversarono i corridoi, salirono alcune scale, girarono in un altro passaggio.

All’improvviso Rumata si fermò. Un ruggito selvaggio e familiare riempiva le volte della prigione. Rimbombava da una delle celle, maledicendo Dio e il mondo. Era la voce tonante del suo caro amico, il barone Pampa, Don Bau de Suruga de Gatta di Arkanar. Con voce stentorea bestemmiava Dio e tutti i santi, Don Reba, il Sacro Ordine e tutti gli altri. «Cosi anche il barone è finito nelle loro grinfie» pensò tristemente Rumata. «Mi ero completamente dimenticato di lui. Lui non si sarebbe dimenticato di me…» Si tolse velocemente due braccialetti dal polso, li infilò a quello del dottor Budach e disse: «Ora salga di sopra, ma resti dentro l’edificio. Mi aspetti in qualche angolo nascosto. Se qualcuno la infastidisce gli mostri questi cerchietti di ferro e la lascerà in pace».

Il barone Pampa ruggiva e mugghiava come una rompighiaccio a propulsione atomica attraverso la nebbia polare. Sotto le volte risuonava un’eco tonante. La gente che passava nel corridoio si irrigidiva e si fermava ad ascoltare a bocca aperta. Molti si passavano velocemente i pollici sul viso per scacciare gli spiriti maligni. Rumata scese di corsa due rampe di scale, spingendo da parte i monaci che gli ostacolavano il passaggio. Con le due spade si fece largo tra gli studenti della Scuola dei Patrioti e aprì con un calcio la porta della cella. La stanza tremava per la voce tonante del barone. La luce fluttuante delle torce rivelava uno spettacolo strano. Il suo amico Pampa, quella montagna d’uomo, era stato appeso per i piedi a testa in giù, completamente nudo. Il viso gli era diventato nero-bluastro, congestionato di sangue.

A un tavolino dalle gambe contorte sedeva un ufficiale gobbo che si tappava le orecchie con le mani; un aguzzino sudato, che assomigliava chissà perché a un dentista, si affaccendava ai suoi strumenti dentro un catino di ferro.

Rumata chiuse la porta, gli si avvicinò da dietro e lo colpì in testa con l’elsa della spada. L’uomo fece un giro su se stesso, alzò le mani, perse l’equilibrio e cadde all’indietro sul catino. Rumata sguainò la seconda spada e tagliò in due il tavolino dell’ufficiale. L’aguzzino restò seduto nel catino, in preda al singhiozzo, mentre l’ufficiale correva a nascondersi carponi in un angolo. Rumata si avvicinò al barone e cercò di sciogliere le catene con cui era stato legato al muro. Al secondo tentativo riuscì a staccarle, poi aiutò l’amico a rimettersi in piedi. Il barone smise subito di ringhiare, si irrigidì in un suo atteggiamento particolare, e tirando le corde si liberò le mani.

«Non ci posso credere» gridò, roteando gli occhi iniettati di sangue. «Sei tu, mio nobile amico! Ti ho trovato, infine!»

«Sì, amico mio, sono qui! Ma adesso andiamocene. Questo non è posto per te!»

«Birra! Da qualche parte ho visto della birra». Il barone si aggirò nella cella, trascinandosi dietro i resti delle catene, senza smettere di ruggire e di far rumore. «Ti ho cercato per tutta la notte! E mi hanno detto che eri stato arrestato, maledizione, così ho preso a pugni un sacco di gente e poi mi hanno convinto che ti avrei trovato qui dentro. E in effetti alla fine salta fuori che è così».

Si avvicinò all’aguzzino e lo spinse da una parte con un movimento del braccio, come avesse voluto solo spolverare qualcosa. Dietro al punto dove si trovava il catino apparve un piccolo barile. Il barone lo sfondò con un pugno, gettò indietro la testa, spalancò la bocca e si versò il contenuto in gola. Un torrente di birra gli gorgogliò nelle fauci. «Che tipo» pensò Rumata, osservando contento il barone.

«Sembra un bue, un toro senza cervello, eppure mi ha cercato, mi voleva salvare e probabilmente è finito qui dentro a causa mia… Tutto questo spontaneamente. Grazie a Dio ci sono ancora degli esseri umani su questo mondo, marcio com’è. Per fortuna che alla fine tutto è andato per il meglio!» Il barone aveva prosciugato il barile. Lo gettò nell’angolo dove l’ufficiale stava battendo i denti. Si sentì squittire.

«Così va meglio» disse il barone, asciugandosi la barba con il dorso della mano.

«Adesso sono pronto. Fa niente anche se sono nudo?»

Rumata si guardò intorno, si avvicinò all’aguzzino e gli tolse il grembiule di cuoio.

«Per il momento prendi questo» gli disse.

«Giusto» disse il barone, infilandoselo. «Sarebbe davvero sconveniente comparire nudo davanti alla baronessa».

Uscirono dalla cella. Nessuno aveva il coraggio di opporsi, e il corridoio si svuotò per almeno venti passi.

«Li ucciderò tutti!» gridò il barone. «Mi hanno occupato il castello, hanno ordinato a qualcuno di prendervi residenza in nome di Padre Arima. Non so di chi sia padre, ma ti giuro che i suoi figli saranno orfani presto! Che il diavolo li porti, amico mio, non ti sembra che questi soffitti siano maledettamente bassi? Mi sono già scorticato il cranio…»

Finalmente uscirono dalla Torre, Per un attimo la guardia del corpo-spia divenne visibile, ma sparì subito tra la folla. Rumata fece cenno a Budach di seguirlo. La folla davanti al cancello si divise, come se avessero cercato di fenderla con una spada.

Sentirono urlare che era fuggito un importante criminale politico, si videro indicare a dito e delle voci ringhiarono: «Guardate quel diavolo nudo, il famoso boia di Estor!»

Il barone andò in mezzo alla piazza, si fermò e dovette tenere gli occhi semichiusi a causa del sole. Ora la cosa più importante era la velocità. Rumata valutò in un attimo la situazione. «Da qualche parte c’era il mio cavallo, qui!» disse il barone.

«Ehi, voi, laggiù, il mio cavallo!»

Nel recinto dei cavalli dell’Ordine nacque un tumulto.

«Non quello là!» gridò il barone. «Quell’altro, lo stallone grigio pezzato!»

«In nome del Signore!» urlò Rumata e si aggiustò il cerchietto sulla fronte.

Un monaco spaventato dal mantello sporco portò al barone il suo cavallo.

«Dagli qualcosa, Don Rumata» disse il barone, issandosi in sella con difficoltà.

«Ferma, ferma!» gridavano dalla Torre.

Alcuni monaci arrivarono di corsa, brandendo i randelli. Rumata tese al barone una delle spade.

«Forza, barone, fai presto!» gli disse.

«Sì. Devo sbrigarmi. Quell’Arima mi sta prosciugando la cantina. Ti aspetto al castello domani o dopodomani, amico mio. Messaggi per la baronessa?»

«Baciale la mano per me» disse Rumata. I monaci ormai erano quasi su di loro.

«Ma adesso vai, presto!»

«Sei fuori pericolo, amico mio?» La voce del barone tradiva la preoccupazione per la sicurezza dell’amico.

«Sì, sì, maledizione! Muoviti!»

Il barone si gettò al galoppo contro la folla di monaci. Uno di essi cadde a terra, un altro rotolò lontano, si sentì gemere, si alzò un nuvolone di polvere, gli zoccoli del cavallo stridettero sul selciato e il barone sparì dalla vista. Rumata guardava in fondo a una stradina dove si erano rifugiati quelli che erano stati feriti nel tumulto.

Improvvisamente sentì una voce insistente e insinuante.

«Ma, mio nobile signore, non le sembra di essersi preso delle libertà illecite?»

Rumata si voltò e si trovò di fronte il sorriso affettato di Don Reba.

«Illecite?» disse Rumata. «Nel mio vocabolario questa parola non esiste».

Improvvisamente si ricordò di Don Sera. «E comunque, non vedo perché due gentiluomini non dovrebbero aiutarsi a vicenda in caso di difficoltà».

Un gruppo di monaci ansimanti li oltrepassò, con le alabarde in mano, all’inseguimento del barone Pampa. Il viso di Don Reba mutò espressione.

«Va bene, allora» disse. «Dimentichiamo tutto. Oh, ma non si tratta qui dell’eccellentissimo dottor Budach? È in splendida forma, dottore. Penso che dovrei ispezionare la mia prigione. I criminali politici, inclusi i prigionieri liberati, non devono mai andarsene a piedi. Dovrebbero essere trasportati».

Il dottor Budach tentò di gettarsi ciecamente contro Don Reba. Rumata si mise subito tra i due.

«A proposito, Don Reba» disse. «Che mi dice di Padre Arima?»

«Padre Arima?» Don Reba aggrottò le sopracciglia. «Un guerriero straordinario.

Occupa una posizione molto alta nel mio episcopato. Che cosa significa questa domanda?»

«Come servo fedele di Vostra Magnificenza» disse Rumata con evidente piacere «mi affretto a informarla che può considerare vacante la sua alta posizione».

«Come mai?»

Rumata guardò in fondo al viottolo dove la polvere giallastra non si era ancora posata. Anche Don Reba guardò da quella parte. Sul suo viso apparve un’espressione preoccupata.

Era ormai pomeriggio inoltrato quando Kyra chiese al suo signore e al suo distinto ospite di accomodarsi a tavola.

Ora che il dottor Budach aveva fatto un bagno, si era rasato e aveva indossato degli abiti puliti, aveva un aspetto piacevole e maestoso.

I suoi movimenti erano decisi e pieni di dignità, gli occhi grigi e intelligenti guardavano da sotto le sopracciglia folte in modo benevolo e quasi condiscendente.

Per prima cosa si scusò con Rumata del suo comportamento impulsivo verso Don Reba durante il loro incontro sulla piazza.

«La prego di capirmi» disse. «È una persona orribile, un mostro capitato su questo mondo per volere divino. Sono un medico, ma non mi vergogno di ammettere che lo ucciderei se ne avessi l’opportunità. Mi è giunta notizia che il Re è stato avvelenato.

Ora capisco come è successo». Rumata ascoltò attentamente. «Quel Reba è venuto nella mia cella e mi ha chiesto di preparare un veleno che facesse effetto qualche ora più tardi. Naturalmente, ho rifiutato. Ha minacciato di farmi torturare, e gli ho riso in faccia. Per tutta risposta ha chiamato i suoi aguzzini e ha detto loro di portargli una decina di bambini sotto i dieci anni. Li ha allineati davanti a me, ha aperto la mia borsa delle medicine e ha detto che avrebbe sperimentato i miei farmaci uno dopo l’altro su quelle povere cavie umane, fino a trovare quello giusto. Ed è stato così che il Re è stato avvelenato, Don Rumata».

Le labbra di Budach cominciarono a tremare, ma ritrovò subito la calma. Rumata annuì e si voltò, per non imbarazzare l’ospite. «Adesso finalmente capisco» pensò.

«Ora capisco tutto. Il Re non avrebbe mai accettato nulla dalle mani dei suoi ministri, neppure un sottaceto. Così il maledetto ha pensato di scovare un ciarlatano di terz’ordine promettendogli di farlo diventare medico personale del Re come ricompensa per aver curato le sue gambe. Adesso è chiaro perché Don Reba era così trionfante quando l’ho provocato nella camera reale: gli ho fornito il destro per affibbiare al Re un falso Budach. La responsabilità ricadeva tutta sulle spalle di Rumata di Estor, cospiratore e spia di Irukan. Siamo noi i veri novellini. Siamo come dei cuccioli sciocchi e ingenui. All’Istituto dovrebbero introdurre un corso di intrighi feudali. E anche uno per l’acquisizione delle capacità necessarie alla cattura dei Reba dell’universo, grandi e piccoli».

Il dottor Budach era chiaramente affamatissimo. Ciononostante, rifiutò cortesemente ma decisamente tutti i piatti di carne e assaggiò solo le insalate, la pasta e i dessert. Bevve anche un bicchiere di vino di Estor e i suoi occhi ricominciarono a scintillare. Sulle sue guance si diffuse un colorito roseo. Rumata non riusciva a inghiottire neppure un boccone. Aveva ancora davanti agli occhi le torce fumanti; sentiva ancora l’odore della carne bruciata. Aveva un nodo alla gola. Così aspettò che il dottor Budach finisse di mangiare a sazietà, mentre lui, Rumata, appoggiato al davanzale, conversava gentilmente, evitando di disturbare l’ospite che si godeva il pranzo.

Lentamente, in città riprendeva la vita. Nelle strade tornava la gente, si sentivano voci sempre più alte, accompagnate dal battere dei martelli e dallo scricchiolio del legno: stavano abbattendo gli idoli di legno dai muri e dai tetti. Un negoziante calvo e grasso spingeva davanti a sé un carretto carico di barili di birra, per andare a venderla in piazza a due centesimi il boccale. La gente camminava sottobraccio, dandosi pacche amichevoli sulla schiena. Sotto il portale, dall’altra parte della strada, vide la sua spia e guardia del corpo che parlava con una donna magra. Sotto la finestra passavano dei carri pieni di roba. Sul momento Rumata non capì che cosa portassero; poi vide mani e piedi bluastri che sporgevano da sotto i mucchi di spazzatura. Si allontanò in fretta dalla finestra.

«La natura umana» disse Budach, masticando con gusto «è caratterizzata dall’abilità di adattarsi a tutto. Al mondo non esiste niente a cui l’uomo non possa adattarsi. I cani, i cavalli, non possiedono quest’abilità. Presumibilmente, quando Dio ha creato l’uomo ha considerato le sofferenze a cui sarebbe stato sottoposto nel mondo, e quindi l’ha dotato di una grandissima capacità di sopportazione.

Naturalmente è difficile dire se sia un bene o un male. Se l’uomo non fosse stato dotato di questo potenziale, allora tutti i buoni sarebbero morti da un pezzo, e sarebbero sopravvissuti solo i malvagi e i senza cuore. D’altro canto, la tolleranza e l’adattabilità rendono l’uomo una bestia ottusa, distinguibile dagli animali solo per la struttura fisica, inferiore perfino alle bestie più infime, come capacità di difendersi. E ogni giorno crescono gli esempi di orrore, di malvagità e di brutalità…»

Rumata guardò Kyra. Era seduta di fronte a Budach e ascoltava attentamente le sue parole, con la guancia appoggiata sulla mano. I suoi occhi erano pieni di dolore: si capiva quanto stava soffrendo per l’umanità.

«Probabilmente avete ragione, dottore» disse Rumata. «Ma prendete me, per esempio. Sono solo un nobile qualunque di alto lignaggio». Budach corrugò l’alta fronte e spalancò gli occhi stupito e divertito. «Amo le persone colte più di qualunque altra cosa: ammiro la loro nobiltà di spirito. Ma d’altra parte non riesco proprio a capire perché voi, che siete uomini di scienza e quindi i soli rappresentanti della vita intellettuale e della saggezza, restiate così passivi. Perché vi arrendete al disprezzo senza lottare, perché lasciate che vi gettino in prigione, perché accettate il vostro destino e vi fate bruciare sui roghi? Perché separate la vostra ragion d’essere, la ricerca della conoscenza, dalle necessità pratiche della vita, la lotta contro il male?»

Budach spinse indietro il piatto vuoto.

«Fate strane domande, Don Rumata. Stranamente, l’onorevole Don Hug, il ciambellano del duca, mi ha chiesto le stesse cose. Per caso vi conoscete? Sì, lo pensavo… Certo, la lotta contro il male! Ma che cosa si intende con questa parola?

Dopotutto, ognuno è libero di interpretare il concetto di male a suo modo. Per noi studiosi il male sta nell’ignoranza. La chiesa invece insegna che l’ignoranza è gioia, e che tutto il male viene dalla conoscenza. Per il contadino il male sta nelle tasse e nella siccità. Per il mercante di grano, però, la siccità è molto vantaggiosa. Gli schiavi vedono il male nella persona di un padrone ubriaco e senza cuore, mentre gli artigiani lo vedono personificato in un usuraio avaro. Ditemi, allora, dov’è il male che dovremmo combattere, Don Rumata?» Lanciò all’interlocutore uno sguardo triste. «Il male non può essere estirpato. Nessuno è in grado di impedirne la crescita, in questo mondo. L’individuo può migliorare la sua condizione, forse, ma solo a spese degli altri. E ci saranno sempre re che si distingueranno l’uno dall’altro solo per il grado di crudeltà, ci saranno sempre baroni crudeli e debosciati, come ci sarà sempre la plebe stupida, la massa ignorante che ama i suoi oppressori e, paradossalmente, odia i suoi liberatori. Tutto questo si può spiegare con lo strano fenomeno secondo cui i servi e gli schiavi capiscono i loro padroni, anche i più crudeli, mentre non capiscono coloro che vorrebbero liberarli. Perché ogni schiavo sa immaginarsi al posto del proprio padrone, ma è raro quello che sa vedersi al posto del proprio liberatore. Questi sono gli esseri umani, Don Rumata. Così è il nostro mondo».

«Il mondo è soggetto a continui cambiamenti, dottor Budach. Sappiamo che c’è stata un’epoca in cui non c’erano re…»

«Il mondo non può continuare a cambiare per sempre, perché niente è eterno, neppure il cambiamento… Non conosciamo le leggi della perfezione completa, ma questa prima o poi sarà raggiunta. Per esempio, considerate la struttura della nostra società. Com’è piacevole all’occhio dell’osservatore questo sistema dalla perfezione geometrica! In basso ci sono i contadini e gli artigiani, poi i nobili, poi il clero e infine il Re. Come tutto è stato calcolato meticolosamente! Che stabilità, che simmetria, che ordine armonioso! Quale cambiamento potrebbe avvenire in questa gemma tagliata dal nostro divino gioielliere? In questo mondo non c’è struttura più perfetta della piramide, come potrà confermarvi qualunque bravo architetto». Alzò un dito, sottolineando ogni osservazione con un leggero movimento. «Quando da un sacco esce del grano, non si dispone uniformemente in piano, ma forma una cosiddetta piramide conica. Ogni granellino aderisce all’altro cercando di non cadere per terra. Così succede anche all’umanità. Nel loro tentativo di formare un’entità di qualche tipo, gli uomini devono aderire l’uno all’altro, e formano inevitabilmente una piramide».

«Davvero considera questo come il migliore dei mondi possibili?» chiese Rumata stupito. «Dopo aver incontrato Don Reba, dopo essere stato in prigione?»

«Certo che no, mio giovane amico! In questo mondo ci sono molte cose che non mi piacciono, e senza dubbio vorrei vederle cambiare. Ma cosa dovremmo fare? Agli occhi del Potere Supremo la perfezione presenta un aspetto diverso che ai miei. Che senso avrebbe se un albero si lamentasse di essere radicato in un punto, mentre sarebbe felicissimo di potersi muovere per potere sfuggire all’ascia del taglialegna?»

«E se fosse possibile modificare le decisioni del Potere Supremo?»

«Solo il Potere Supremo può farlo».

«Ma immagini di avere l’autorità divina…»

Budach rise.

«Se potessi immaginare di essere Dio, lo diventerei!»

«Va bene, immagini di avere l’opportunità di dare a Dio qualche consiglio».

«Lei ha un’immaginazione molto vivace. Sarebbe meraviglioso. Conosce le Sacre Scritture? Magnifico! Sarei felice di conversare con lei».

«Mi lusinga. Comunque, che consiglio darebbe all’Onnipotente? Cosa dovrebbe fare perché lei possa dire: adesso il mondo è davvero buono e bello?»

Budach ebbe un sorriso di approvazione, si appoggiò comodamente allo schienale della poltrona e intrecciò le mani sopra lo stomaco. Piena d’interesse, Kyra osservò il suo viso.

«Va bene» disse Budach. «Se proprio ci tiene. Direi all’Onnipotente: ‘Creatore, non conosco i tuoi piani, forse non è affatto tua intenzione rendere buona e felice l’umanità. Comunque ti supplico, fa’ che tutti gli uomini abbiano pane, carne e vino a sufficienza! Per te sarebbe così facile! Da’ loro un riparo, dei vestiti, fa’ scomparire dalla faccia della Terra la fame e il bisogno e tutto quello che separa un uomo dall’altro’«.

«Tutto qui?»

«Le sembra poco?»

Rumata scosse lentamente la testa.

«Dio le risponderebbe: ‘Questa non sarebbe una benedizione per l’umanità. Perché i forti porterebbero via ai deboli quello che ho dato loro, e i deboli tornerebbero poveri come prima’«.

«Allora pregherei Dio di proteggere i deboli. Gli direi di illuminare i monarchi crudeli».

«La crudeltà è una forza difensiva. Se i monarchi si liberassero della loro crudeltà, perderebbero il potere. E altri uomini crudeli prenderebbero il loro posto».

Il viso affabile di Budach divenne improvvisamente cupo.

«Allora punisca gli uomini crudeli» disse con foga «e li allontani dalla via del male, così che i forti non possano sopraffare i loro fratelli più deboli».

«L’uomo nasce debole per natura. Diventa forte soltanto quando incontra qualcuno più debole di lui. E se i più crudeli tra i forti vengono puniti e allontanati dal loro posto, sono rimpiazzati da quelli relativamente più forti fra i deboli. E i nuovi forti diventeranno a loro volta crudeli. Questo significherebbe che alla fine tutti gli uomini dovrebbero essere puniti, cosa che non voglio».

«Sei molto lungimirante, Signore Onnipotente. Perciò fa’ in modo che tutta l’umanità ottenga ciò che le serve, ed evita così che si rubi a vicenda ciò che le hai dato».

«Neppure questa soluzione sarebbe una benedizione per l’umanità» sospirò Rumata. «Perché non ne trarrebbe nessun vantaggio. Perché se gli uomini ottenessero tutto dalla mia mano senza sforzo, dimenticherebbero cosa significa lavorare e faticare: perderebbero il gusto di vivere. Con il tempo diventerebbero animali domestici che io dovrei nutrire e vestire per l’eternità».

«Non dare tutto subito!» disse Budach con eccitazione. «Da’ lentamente, gradualmente!»

«Gradualmente, l’umanità otterrà comunque ciò di cui ha bisogno».

Il sorriso di Budach si fece imbarazzato.

«Adesso mi rendo conto che le cose non sono tanto semplici» disse. «Non avevo mai pensato seriamente a questo problema… Penso che abbiamo discusso tutte le possibilità. Comunque ne resta ancora una. Ordina all’umanità di amare sopra ogni cosa il lavoro e la conoscenza, che consideri il lavoro e la saggezza la sua unica ragione d’essere!»

«Sì» pensò Rumata. «Abbiamo già tentato questi esperimenti. Ipno-induzione di massa, rimoralizzazione positiva, esposizione a radiazioni ipnotiche da satelliti equatoriali…» «Questa è un’alternativa più accettabile» disse. «Ma come potrei giustificarmi per aver privato l’umanità della sua storia? Che senso ha sostituire un tipo d’uomo con un altro? Non significherebbe annientare quest’umanità e crearne al suo posto un’altra?»

Budach aggrottò la fronte e restò zitto, assorto nei propri pensieri. Dalla strada continuava a venire il cigolio triste dei carri. Improvvisamente, Budach disse: «Allora, Signore, annientaci e ricreaci di nuovo, creaci migliori questa volta, più perfetti. Oppure, meglio ancora, lasciaci come siamo, ma ordina che possiamo seguire la nostra strada!»

«Il mio cuore è pieno di dolore» disse lentamente Rumata «ma questo non è in mio potere».

E all’improvviso si accorse degli occhi di Kyra, fissi su di lui con grande intensità.

Nel suo sguardo lesse la paura e la speranza.

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