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Zove aveva sessanta anni, Parth venti; ma quel freddo pomeriggio nei Campi Lunghi ella pareva vecchia in un modo che nessun uomo può arrivare a essere: senza età. Non la confortavano le idee di un grandioso trionfo ultra-stellare, né la vittoria della verità. Il dono profetico posseduto dal padre, in lei era soltanto mancanza di illusioni. Aveva saputo che Falk partiva. Disse solo: — Non tornerai più.

— Tornerò, Parth.

Lei lo strinse tra le braccia, senza credergli.

Egli tentò di entrare in contatto con i pensieri di lei, pur avendo scarsa abilità nella comunicazione telepatica. L'unica capace veramente di Udire, in tutta la casa, era la cieca Kretyan; nessuno di loro aveva molto approfondito la comunicazione diretta del pensiero. Le tecniche del discorso mentale non erano andate perdute, ma non venivano praticate. Il maggior pregio della più intensa e perfetta forma di comunicazione era divenuto un pericolo per gli uomini. Il discorso mentale tra due intelligenze può essere incoerente, o folle, e naturalmente può contenere errori o convinzioni infondate; ma è impossibile compiere truffe o errori nell'usarlo. Tra il pensiero e la parola pronunciata c'è un passaggio, di cui può approfittare l'intenzione scorretta, distorcendo il significato del simbolo o usandolo ambiguamente — e per questo varco entra facilmente la menzogna. Tra pensiero concepito e pensiero comunicato telepaticamente non c'è invece nessun passaggio: è un'unica azione. Non v'è posto per la menzogna.

Nell'Era della Lega, a quanto mostravano i racconti e le frammentarie testimonianze che Falk aveva studiato, l'uso del discorso mentale era largamente diffuso, e l'abilità telepatica aveva raggiunto comunemente livelli assai raffinati. Era un'abilità che gli abitanti della Terra avevano raggiunto tardi, imparandone le tecniche da qualche razza; l'Ultima Arte, la chiamava un libro. Da certi indizi si capiva che la Lega dei Mondi aveva dovuto affrontare difficoltà e discordie, provocate anche dal prevalere di una forma di comunicazione che impediva la menzogna. Ma tutto questo era nebuloso e semileggendario, come tutta la storia umana. Indubbiamente, dopo l'arrivo degli Shing e il crollo della Lega, la dispersa comunità degli uomini era divenuta meno fiduciosa nel prossimo, ed era tornata al linguaggio parlato. Un uomo libero può parlare liberamente, ma uno schiavo o un fuggiasco ha bisogno di nascondere i suoi pensieri, e mentire. Questo Falk aveva imparato nella Casa di Zove, e per questo motivo egli aveva poca pratica nel sintonizzarsi con le menti altrui. Ma ora tentava di mettersi in contatto con quella di Parth, perché lei vedesse che non mentiva.

Ma lei non voleva ascoltare. — No, non voglio entrare in telepatia — disse forte.

— Tu mi nascondi i tuoi pensieri.

— Certo. Non voglio che tu veda la mia pena. Che vantaggio c'è a essere sinceri? Se tu mi avessi mentito, ieri, crederei ancora che tu debba solo andare a Ransifel ed essere di ritorno tra dieci giorni. Avrei ancora dieci giorni e dieci notti. Adesso non mi resta né un giorno né un'ora. Tutto finito. Che vantaggio c'è?

— Parth, mi aspetterai un anno?

— No.

— Solo un anno.

— Un anno e un giorno e tu ritornerai su un cavallo d'argento, per portarmi nel tuo regno e farmi regina. No, non starò ad aspettare, Falk. Assurdo aspettare un uomo che finirà morto nella foresta, o ucciso dai Vagabondi nella prateria, o senza cervello nella città degli Shing, oppure lontano cento anni su un'altra stella. Cosa devo aspettare? Non c'è bisogno che tu creda che mi prenderò un altro. Resterò qui, nella casa di mio padre. Voglio tinger fili neri e tesser tela nera da indossare. Nero e morte, ma non stare ad aspettare qualcuno o qualcosa. Mai.

— Non avevo il diritto di chiederlo — disse lui umile e afflitto.

Lei pianse sommessamente. — Io non ti rimprovero nulla, Falk.

Erano seduti sul pendio che dominava i Campi Lunghi. Capre e pecore erano sparse su un miglio di pascolo cintato che li separava dalla foresta. Puledri di un anno si rincorrevano e si impennavano intorno alle giumente. Tirava un vento grigio di novembre.

Le loro mani erano unite. Parth toccò l'anello d'oro che lui portava alla sinistra. — Un anello è un dono — disse. — A volte ho pensato, tu no? che potresti avere una moglie. Pensa, se lei ti sta aspettando… — Scosse il capo.

— Andiamo, cosa significa per me quel che è accaduto allora, quel che io sono stato? Perché dovrei andarmene da qui? Tutto ciò che io sono ora è opera tua, Parth, viene da te, è un tuo dono.

— Liberamente dato — disse la ragazza. — Prendilo e vai. Va' via. — Si erano abbracciati, e nessuno dei due voleva liberarsi per primo.

La Casa era lontana, dietro i tronchi neri e il groviglio dei rami senza foglie. Gli alberi chiudevano la vista dietro il sentiero.

La giornata era grigia e fredda, silenziosa tranne che per il soffiare monotono del vento tra i rami, sospiro senza senso, senza destinazione, incessante. Metock apriva la via, con un passo lungo e sciolto. Falk lo seguiva, e il giovane Thurro era l'ultimo. Indossavano abiti leggeri e caldi, camicie col cappuccio e pantaloni di stoffa non tessuta, detta "invernale" sopra la quale non occorreva altra copertura, anche in mezzo alla neve. Portavano zaini pieni di regali e oggetti da barattare, sacchi a pelo, e cibo secco concentrato sufficiente a resistere anche a un mese di tormenta. Buckeye, che non aveva mai lasciato la Casa da quando era nata, aveva una gran paura dei rischi che si possono correre nella foresta, e aveva riempito gli zaini in proporzione. Ognuno di loro portava una pistola laser; e Falk aveva qualcosa in più degli altri — un paio di libbre di cibo in più, medicine, una bussola, una seconda pistola, abiti di ricambio, un rotolo di corda, un piccolo libro che Zove gli aveva regalato due anni prima — in tutto i suoi beni terreni ammontavano a quindici libbre di oggetti vari. Agile e instancabile Metock procedeva a grandi balzi, a circa dieci metri veniva Falk e dietro c'era Thurro. Procedevano veloci, con poco rumore, e dietro di loro gli alberi si richiudevano sull'esile sentiero, ingombro di foglie.

Dovevano raggiungere Ransifel in tre giorni. La sera del secondo giorno si trovarono in una terra assai diversa da quella che circondava la Casa di Zove. La foresta era meno fitta, il terreno più sconnesso. Radure grigiastre sul fianco di colline che dominavano torrenti dal moto estremamente rapido. Si accamparono in uno di questi luoghi aperti, su un pendio esposto a sud, per essere al riparo dal vento di settentrione che soffiava sempre più forte, con una punta di gelo. Thurro raccolse bracciate di legna secca mentre gli altri due aprivano una piazzuola nell'erba grigia e costruivano un semplice riparo di pietre. Mentre lavoravano Metock disse: — Questo pomeriggio abbiamo passato lo spartiacque. I fiumi ora scendono a ovest, verso il Fiume Interno, finalmente.

Falk si drizzò per guardare verso ovest, ma c'erano subito le colline e il cielo si chiudeva basso, bloccando la visuale.

— Metock — disse — ho pensato che non c'è ragione che io venga fino a Ransifel. Forse sono già sulla strada giusta. Sembra che ci sia un sentiero diretto a ovest lungo il grande fiume che abbiamo passato oggi pomeriggio. Tornerò indietro e lo seguirò.

Metock gli lanciò un'occhiata; non usò la telepatia, ma il suo pensiero era molto chiaro: "Stai pensando di scappare… verso cosa?

Falk usò la telepatia per rispondere: — No, dannazione, non è vero!

— Ti chiedo scusa — disse forte il Fratello Maggiore, con il suo tono severo e scrupoloso. Era lieto che Falk se ne andasse, e non tentava di nasconderlo. A Metock nulla importava veramente, tranne la sicurezza della Casa; ogni straniero era una minaccia, anche se lui quello straniero lo conosceva da cinque anni, era suo compagno di caccia e l'amante di sua sorella. Ma proseguì: — Ti accoglieranno bene a Ransifel. Perché non parti da lì?

— E perché non da qui?

— Sta a te scegliere. — Metock finì di sistemare l'ultima pietra e Falk cominciò a preparare il fuoco. — Forse quello che abbiamo incontrato era un sentiero; non so da dove parta né dove vada. Domattina troveremo una vera pista, la vecchia Hirand Road. Casa Hirand si trova molto lontano verso ovest, almeno una settimana di cammino a piedi; sono sessanta o settant'anni che nessuno ci va. Non so perché. Ma la pista era ancora ben chiara l'ultima volta che son passato da queste parti. Quell'altra può essere una pista di animali e portarti a girare in tondo, o finire in un pantano.

— Va bene, proverò la Hirand Road.

Ci fu una pausa, poi Metock domandò: — Perché vai verso ovest?

— Perché Es Toch si trova a ovest.

Quel nome raramente pronunciato suonava strano lì, sotto il cielo aperto. Thurro, arrivando con la legna, si guardò attorno imbarazzato. Metock non fece altre domande.

Quella notte all'accampamento sulle colline fu l'ultima che Falk passò con coloro che gli erano fratelli, la sua gente. Il giorno dopo si rimisero sulla pista subito dppo il sorger del sole, e molto prima di mezzogiorno giunsero a una larga pista, cosparsa di vegetazione, che puntava a sinistra di quella per Ransifel. Cominciava con una specie di porta, formata da due grandi pini. Quando essi vi sostarono l'aria era calma e scura sotto i rami.

— Torna da noi, ospite e fratello — disse il giovane Thurro turbato, oltre che dall'imminente matrimonio, dall'aspetto scuro e incerto della via che Falk stava per prendere. Metock disse soltanto: — Lasciami la tua borraccia, vuoi? — e in cambio diede a Falk la sua, che era d'argento lavorato. Poi si separarono, gli uni diretti a nord, e l'altro a ovest.

Dopo aver camminato per un poco, Falk si fermò e si guardò alle spalle. Gli altri erano già fuori vista; la pista di Ransifel era nascosta dagli alberi giovani e dalla sterpaglia che cresceva tutt'attorno alla Hirand Road. Quella pista sembrava ancora utilizzata, anche se non frequentemente, ma non era stata ripulita e sgombrata da molti anni. Intorno a Falk non si scorgeva nulla, tranne la foresta, il mondo selvaggio. Era solo, sotto le ombre di alberi senza fine. Il terreno era ammorbidito dalle foglie che erano cadute per millenni; i grandi alberi, pini e abeti, rendevano l'aria scura e calma. Qualche fiocco di neve roteava nel vento morente.

Falk allentò un poco la cinghia dello zaino e proseguì per tutta la giornata. Quando scese la sera gli sembrò di aver lasciato la casa da molto, molto tempo, un'epoca incommensurabilmente lontana, dietro di lui, e di esser sempre vissuto solo.

Le sue giornate si fecero tutte uguali. Luce grigia invernale; il soffiare del vento; colline e vallate coperte di bosco, lunghi pendii, fiumi immersi nella sterpaglia, terre basse acquitrinose. Anche se invasa dalla vegetazione, la Hirand Road si poteva seguire con facilità, perché procedeva a lunghi rettilinei o larghe curve, evitando i pantani e le cime. Tra le colline, Falk comprese di star seguendo il corso di una strada antica molto importante, perché era stata tagliata diritta nel corpo della terra, e duemila anni non erano bastati per cancellarla completamente. Ma gli alberi ora vi crescevano dentro, e tutt'intorno pini e abeti, e vaste macchie di agrifoglio sui pendii, boschi senza fine di faggi, querce, noci, ontani, frassini, tutti dominati dal grande castagno, che solo ora perdeva le ultime foglie giallo scuro, seminando di grossi ricci tutta la pista. La sera cucinava lo scoiattolo, o il coniglio, o la gallina selvatica che aveva cacciato a caso tra l'abbondantissima selvaggina che sgambettava e volava nel regno degli alberi; raccoglieva noci di varie qualità e arrostiva le castagne sui carboni del fuoco. Le notti però erano cattive. Due incubi lo seguivano per tutto il giorno e immancabilmente lo raggiungevano prima di mezzanotte. Uno era quello di essere seguito in quella oscurità da una persona che non riusciva mai a vedere. L'altro era peggiore: sognava di essersi dimenticato di prender con sé qualcosa, una cosa importante, essenziale, senza la quale sarebbe stato perduto. Da questo sogno si svegliava, e capiva che era vero: era perduto perché era se stesso che aveva dimenticato. Allora, se non pioveva, accendeva il fuoco e vi si accucciava accanto, troppo assonnato e spaventato dai sogni per aprire il libro che portava con sé, il Vecchio Canone, e cercare conforto nelle parole che proclamavano che quando tutte le vie eran perdute, la Via restava chiara. Un uomo tutto solo è una cosa miserabile. Ed egli, inoltre, sapeva di non essere nemmeno un uomo, ma qualcosa a metà che cercava di ritrovarsi per intero con un viaggio senza meta attraverso un continente, sotto le stelle indifferenti. Le giornate erano tutte uguali, ma venivano come un sollievo dopo le notti.

Continuava a contare i giorni, ed era arrivato all'undicesimo da che aveva lasciato il bivio, il tredicesimo da quanto era in viaggio, quando giunse alla fine della Hirand Road. Lì c'era stata una radura, una volta. Si aprì la via in una vasta distesa di rovi selvatici e macchie di betulle cresciute da poco, fino a quattro torri nere in rovina che si innalzavano sopra i rovi, i rampicanti e i cardi: erano i camini di una Casa crollata. Hirand non era più nulla ora: solo un nome. La strada terminava presso la rovina.

Rimase presso la casa crollata per un paio d'ore, trattenuto solo dalla pallida traccia della presenza umana. Riuscì a trovare alcuni frammenti di macchine arrugginite, schegge di vasellame, che sopravvive più a lungo delle ossa umane, un pezzo di stoffa ammuffita, che gli andò in briciole tra le mani. Infine si riprese, e si mise a cercare una pista che portasse a ovest, oltre la radura. Trovò una cosa molto strana: un campo di mezzo miglio quadrato perfettamente in piano e levigato da una sostanza vetrosa, color viola scuro, senza alcun difetto. La terra ci si era ammucchiata sopra i bordi, foglie e rami vi erano rimasti incrostati sopra, ma il piano non aveva una crepa, non era nemmeno scalfito. Come se quell'ampio spazio fosse stato riempito di un'acqua mischiata all'ametista. Cosa poteva essere stato? Una rampa di lancio per qualche veicolo inimmaginabile, uno specchio per far dei segnali ad altri mondi, la base di una forza militare? Qualunque cosa esso fosse, era stata la fine di Hirand. Un'opera troppo grande perché gli Shing potessero permettere agli uomini di proseguirla.

Falk se la lasciò alle spalle ed entrò nella foresta, senza più nessuna pista da seguire.

Erano boschi puliti, di maestosi alberi decidui, dai grandi rami. Proseguì di buon passo per il resto della giornata, e per metà del giorno dopo. La terra era tornata collinare, le catene si stendevano da nord a sud, tagliandogli la strada, e verso mezzogiorno, scendendo da una di quelle catene verso il punto più basso di quella successiva, si trovò imbrogliato in una valle paludosa, percorsa da mille rigagnoli. Cercò i guadi, si impantanò in prati acquitrinosi, tutto sotto una pioggia fredda e battente. Infine, quando trovò la via per uscire da quella lugubre valle, il tempo migliorò di colpo, e mentre saliva per la catena di colline il sole si affacciò sotto le nubi, proprio di fronte a lui, e lanciò raggi invernali tra i rami nudi spargendo il suo oro brillante sui grandi tronchi e sul terreno. Il cuore gli si riscaldò, ed egli proseguì spedito, deciso a non fermarsi più prima di notte. Ora ogni cosa aveva un aspetto brillante, e c'era un silenzio perfetto, tranne che per le gocce di pioggia che cadevano dai rami e per il canto lontano e malinconico di un chickadee. Allora egli udì, come in sogno, un rumore di passi che lo seguivano, alla sua sinistra.

Una quercia caduta, che era stata un ostacolo, divenne in un attimo una barricata difensiva: si buttò lì dietro e, impugnata la pistola, gridò forte: — Vieni fuori!

Per un lungo minuto nulla si mosse.

— Vieni fuori! — gridò ancora Falk con il linguaggio telepatico, poi chiuse il contatto, perché aveva paura di ricevere una risposta. Si sentiva strano; nel vento c'era un lieve odore rancido.

Un cinghiale selvaggio uscì dal folto degli alberi, attraversò la sua pista e si arrestò ad annusare il terreno. Era un cinghiale grandioso e grottesco, con spalle fortissime, la schiena di un pecari, zampe eleganti, scattanti e infangate. Sopra le zanne e il muso dal pelo ruvido c'erano due occhi brillanti che guardavano verso Falk.

— Aah, aah, aah, uomo, aah — disse la creatura sbuffando.

I muscoli tesi di Falk ebbero uno scatto, e la mano si strinse sulla pistola-laser. Non sparò. Un cinghiale ferito diventa terribilmente veloce e pericoloso. Si rannicchiò e rimase perfettamente immobile.

— Uomo, uomo — disse il cinghiale, con la voce pesante e piatta che gli veniva dal grugno deformato, — pensami, pensami. Le parole sono difficili per me.

La mano di Falk ebbe una scossa, ma si controllò. Subito rispose forte: — Non parlare allora. Io non farò discorsi telepatici. Vai via, va' per la tua strada di cinghiale.

— Aah, aah, uomo, entra in contatto con me!

— Vai via o ti sparo. — Falk si levò in piedi, con la pistola fermamente puntata. I piccoli occhi brillanti del cinghiale fissarono la pistola.

— Togliere la vita è male — disse il cinghiale.

Falk aveva recuperato la propria prontezza, e questa volta non rispose, sicuro che la bestia non capiva le parole. Mosse un poco la pistola, poi tornò a puntarla sul bersaglio e disse: — Vai! — Il cinghiale scosse la testa, esitò. Poi con incredibile rapidità, come tirato da una fune, si voltò e sparì per dove era venuto.

Falk rimase immobile ancora un momento e quando riprese il cammino tenne la pistola sempre in pugno. La mano gli tremava ancora. C'erano vecchi racconti di animali parlanti, ma gli abitanti della Casa di Zove li consideravano solo fiabe. Egli sentiva una sottile nausea, e un desiderio ugualmente sottile di ridere forte. — Parth — sussurrò come se stesse parlando con qualcuno, — ho ricevuto una lezione di morale da un porco selvatico… oh, Parth, uscirò mai dalla foresta? È proprio senza fine?

Si apriva la strada sul pendio a gradini della catena, cosparso di cespugli. Presso il valico il bosco si diradava, e attraverso gli alberi egli vide il sole e il cielo. Ancora pochi passi e uscì da sotto i rami, e si trovò sul bordo di un verde pendio che finiva in un cerchio di frutteti a terra arata, con in fondo un fiume ampio e chiaro. Sulla sponda opposta del fiume cinquanta vacche o più pascolavano in un prato recintato, sopra il quale erano disposti a gradini prati a fieno e frutteto, che salivano verso la cima della nuova catena di colline, incoronate di boschi. Appena più a sud del luogo dove Falk si trovava, il fiume compiva una curva intorno a un basso poggio, sopra il quale, dorato dal sole al tramonto, spuntava il camino rosso di una casa.

Sembrava il frammento di un'altra era, un'Età dell'Oro, che si fosse fermata in quella valle dimenticata dal passare dei secoli, sfuggita al gran disordine selvaggio della foresta infida. Rifugio, compagnia, e soprattutto ordine: il risultato del lavoro dell'uomo. Una specie di debolezza e di sollievo invase Falk quando vide un poco di fumo alzarsi dal camino rosso. Un focolare… Corse giù per il lungo pendio della collina, attraverso il frutteto, fino a una traccia di sentiero che seguiva la riva del fiume, tra bassi ontani e salici dorati. Non si vedeva nulla di vivo, tranne le vacche dal pelo rosso scuro che pascolavano al di là del fiume. Il silenzio e la pace riempivano la valle scaldata dal sole invernale. Rallentando il passo attraversò alcuni orti e si diresse verso la porta più vicina della casa. Aggirato il poggio, la costruzione si drizzò davanti a lui, con mura di mattoni rozzi e pietra, che si specchiavano nell'acqua veloce dell'ansa del fiume. Si arrestò, intimidito, pensando che era meglio chiamare la gente di casa, prima di avvicinarsi ancora. Un movimento a una finestra aperta sopra il grande portone attirò la sua attenzione. Mentre restava immobile, esitante, con gli occhi rivolti in su, sentì un dolore improvviso, profondo e sottile, che gli bruciava il petto appena sotto lo sterno; barcollò e poi cadde piegandosi in due come un ragno schiacciato.

Il dolore durò solo un attimo. Non perse conoscenza, ma non poteva muoversi, né parlare.

C'erano uomini attorno a lui; poteva vederli, in modo incerto, attraverso ondate di non-percezione, ma non riusciva a udire le loro voci. Come se fosse diventato sordo, e il suo corpo insensibile. Si sforzò di pensare, nonostante la mutilazione dei sensi. Lo trasportavano da qualche parte e non riusciva a sentire le mani che lo tenevano sollevato; un'orribile vertigine lo sopraffece, e quando fu passata egli aveva perduto ogni controllo dei pensieri che si erano messi a correre, balbettare, divagare. Alcune voci cominciarono a ronzargli confuse nella mente, mentre il mondo si muoveva e ondeggiava fioco e silenzioso attorno a lui. Chi sei tu tu sei dove tu vieni Falk vai dove vai io non so sei un uomo a ovest vado io non so dove la strada occhi un uomo non un uomo… Ondate ed echi e voli di parole come passeri, domande, risposte, angustie, sovrapposizioni, giri, grida, finendo in un silenzio grigio.

Una superficie scura era stesa davanti ai suoi occhi. Da un angolo spuntava la luce.

Un tavolo; il bordo di un tavolo. Luce di lampade, in una stanza scura.

Cominciò a vedere, a percepire. Si trovava su una sedia, in una stanza scura, accanto a un lungo tavolo su cui si trovava la lampada. Era legato alla sedia. Poteva sentire le funi tagliargli i muscoli del petto e delle braccia, appena si muoveva. Movimento: un uomo apparve alla sua destra e un altro alla sua sinistra. Erano seduti come lui, vicino al tavolo. Si piegarono in avanti e si parlarono davanti a lui. Le voci suonavano come se provenissero da grandi vallate lontanissime, ed egli non riuscì a comprendere le parole.

Rabbrividì di freddo. La sensazione di freddo lo riportò a un contatto più diretto con il mondo ed egli cominciò a riprendere il controllo della mente. Ciò che udiva si fece più chiaro e la lingua divenne libera. Disse qualcosa che nelle sue intenzioni doveva essere: — Cosa mi state facendo?

Non ci fu risposta, ma subito l'uomo alla sua sinistra portò la faccia vicinissima a quella di Falk e disse forte: — Perché sei venuto qui?

Falk udì le parole; dopo un attimo le comprese; dopo un attimo ancora rispose. — Per rifugiarmi. La notte.

— Rifugiarti da cosa?

— Foresta. Solo.

Il freddo penetrava in lui sempre di più. Riuscì a spostare un poco le mani, che sentiva pesanti e inabili, e tentò di abbottonarsi la camicia. Sotto alla fune che lo legava alla sedia, proprio sotto allo sterno, c'era un piccolo punto doloroso.

— Tieni giù le mani — disse l'uomo alla sua destra dalle tenebre. — Questo è qualcosa di più di un programmato, Argerd. Nessun blocco ipnotico può resistere al penton in questo modo.

L'uomo alla sua sinistra, dalla faccia magra e gli occhi vivaci, un uomo molto grosso, rispose con una voce debole e sibilante: — Non si può dire… che ne sappiamo dei loro trucchi? Chi è? Tu, Falk, dove si trova il posto da cui sei venuto, la Casa di Zove?

— A est. L'ho lasciata da… — Il numero non voleva tornargli in mente. — Quattordici giorni, mi pare.

Come sapevano il nome della sua casa, e il suo nome proprio? Stava riavendosi del tutto, oramai, e non si stupì oltre. Aveva cacciato selvaggina con Metock usando frecce ipodermiche, capaci di uccidere anche con un semplice graffio. La freccia che l'aveva colpito, o un'iniezione successiva, quando ormai era immobilizzato, doveva contenere una droga che liberava i controlli acquisiti e il primitivo blocco inconscio dei centri telepatici del cervello. Egli era quindi rimasto senza difese contro le domande telepatiche. Essi avevano rovistato il suo cervello. A quell'idea le sue sensazioni di astio e nausea si fecero più forti, peggiorate dall'oltraggio irreparabile subito. Perché questa violazione? Perché, prima ancora di rivolgergli la parola, erano sicuri che avrebbe mentito?

— Voi pensavate che io fossi uno Shing? — domandò.

La faccia dell'uomo alla sua destra, scavata, con barba e capelli lunghi, apparve improvvisamente alla luce della lampada; aveva le labbra tirate all'indietro, e colpì Falk sulla bocca con la mano aperta, strappandogli la testa all'indietro e accecandolo per un attimo per lo shock. Gli rimbombarono le orecchie; e sentì in bocca il sapore del sangue. Ci fu un secondo colpo, poi un terzo. L'uomo respirò fischiando, più volte. — Tu non dire quel nome, non dirlo, non lo dire, non lo dire…

Falk si agitò, senza speranza, tentando di difendersi, di liberarsi. L'uomo alla sua sinistra parlò con voce assai netta, e allora ci fu silenzio per qualche attimo.

— Non avevo intenzione di nuocere venendo qui — disse Falk alla fine, sforzandosi quanto poteva di parlare con voce ferma, nonostante la rabbia, il dolore e la paura.

— Bene — disse quello alla sua sinistra, Argerd — vai avanti e raccontaci la tua piccola storia. Che intenzioni avevi venendo qui?

— Chiedere rifugio per la notte. E chiedere se c'è una pista che va a ovest.

— Perché vai verso ovest?

— Perché lo chiedete? Vi ho già detto tutto in telepatia, dove non si può mentire. Voi conoscete la mia mente.

— Hai una mente strana — disse Argerd con la sua voce debole — e occhi strani. Nessuno viene qui a domandare rifugio per la notte, né per chiedere la strada, né per nessun altro motivo. Nessuno viene qui. Quando ci vengono i servi degli Altri, li uccidiamo. Uccidiamo gli uomini programmati, le bestie parlanti, i Vagabondi, i porci e i parassiti. Noi non rispettiamo la legge che dice che è male togliere la vita… non è vero, Drehnem?

Quello con la barba ghignò, mostrando denti brunastri.

— Noi siamo uomini — disse Argerd — uomini, uomini liberi, uccisori. Tu cosa sei, mezza-mente e occhi di gufo, e perché non dovremmo ucciderti? Sei un uomo?

Nell'arco breve della sua memoria, Falk non si era mai trovato direttamente di fronte alla crudeltà o all'odio. Le poche persone che aveva conosciuto non erano proprio senza paura, ma non ne erano completamente dominate; erano stati generosi e amichevoli. Lì, tra quei due, era senza difesa, come un bambino, e il fatto di saperlo lo lasciava confuso e furente.

Pensò a qualche mezzo per difendersi e fuggire e non ne trovò nessuno. Poteva soltanto dire la verità.

— Io non so cosa sono, né da dove vengo. Sono in viaggio per tentare di scoprirlo.

— Verso dove?

Girò lo sguardo da Argerd verso l'altro, Drehnem. Sapeva che essi conoscevano già la risposta, e che Drehnem lo avrebbe colpito ancora quando l'avesse detta.

— Rispondi! — bisbigliò l'uomo con la barba, alzandosi e piegandosi in avanti.

— A Es Toch — disse Falk, e di nuovo Drehnem lo colpì in viso, e di nuovo ricevette il colpo con l'umiltà silenziosa di un bambino punito da un estraneo.

— Questo non va; non dice niente di diverso da quello che abbiamo ricavato con il penton. Lascia stare.

— E allora? — chiese Drehnem.

— È venuto per trovare rifugio una notte; lo avrà. In piedi!

La cinghia che lo legava alla sedia fu allentata. Con qualche incertezza si resse sulle gambe. Quando vide la porta bassa e la rampa nera di scale in discesa verso cui lo trascinavano, tentò di resistere e di liberarsi, ma i muscoli non gli obbedivano ancora. Drehnem gli torse le braccia fino a farlo accucciare, poi lo spinse oltre la porta. Quando si girò su se stesso per conservare l'equilibrio sulle scale, la porta fu sbattuta e chiusa.

Era nel buio, nero. La porta era come sigillata, non c'era maniglia sul bordo, dall'altro lato non arrivava nessun movimento, nessuna lama di luce, nessun suono. Falk sedette sul primo gradino e lasciò cadere la testa tra le braccia.

Gradualmente la debolezza del corpo e la confusione del cervello sparirono. Alzò la testa, sforzandosi di vedere. Nel buio la sua vista era straordinariamente acuta, e questo, Rayna l'aveva dimostrato molto tempo prima, era merito dei suoi occhi dalla pupilla e dall'iride allargati. Ma solo macchie e frammenti di visioni passate giunsero a tormentargli gli occhi; non poteva veder nulla, perché la luce mancava del tutto. Si alzò in piedi e un gradino alla volta tastò la via lentamente, giù per la stretta scala che non vedeva.

Ventun gradini, due, tre… pavimento. Polvere. Falk si incamminò adagio, con una mano stesa in avanti, in ascolto.

Nell'oscurità si percepiva una specie di pressione fisica, una costrizione che lo ingannava creandogli l'illusione che in fondo sarebbe riuscito a vedere se si sforzava abbastanza, che non doveva e non aveva paura del buio in se stesso. Metodicamente, a passi e tastoni e suoni, esplorò e si fece un quadro di una parte della vasta cantina in cui si trovava, la prima di una serie di stanze che, a giudicare dagli echi, proseguiva senza fine. Si aprì la via del ritorno alle scale, che eran divenute la sua base, perché da lì aveva cominciato l'esplorazione. Tornò a sedersi, sull'ultimo gradino stavolta, e rimase fermo. Aveva fame, anche molta sete. Gli avevano tolto lo zaino, non aveva nulla con sé.

"Hai sbagliato" si disse Falk amaramente, e nella sua mente iniziò un dialogo;

"Che ho fatto di male? Perché mi hanno attaccato?"

"Zove ti aveva avvertito: non fidarsi di nessuno. Loro non si fidano di nessuno e fanno bene."

"Anche se qualcuno viene a chiedere aiuto?"

"Qualcuno con la tua faccia… i tuoi occhi? È ovvio anche al primo sguardo che non sei un uomo come gli altri."

"Nonostante tutto, un sorso d'acqua me l'avrebbero potuto dare" — disse la parte più infantile e intrepida della sua mente.

"Sei dannatamente fortunato che non ti abbiano ucciso subito" replicò duro il suo intelletto, e non ottenne risposta.

Era chiaro: tutti quelli che vivevano nella Casa di Zove si erano abituati agli occhi di Falk, gli ospiti erano rari e cauti, sicché egli non era mai stato costretto a tener conto della differenza fisica che lo distingueva dagli altri uomini. Sembrava una differenza e una barriera molto meno importante dell'amnesia e dell'ignoranza che per tanto tempo lo avevano isolato dagli altri. Ora, per la prima volta, egli si rese conto che un estraneo guardandolo in faccia non vedeva la faccia di un uomo.

Quello che si chiamava Drehnem aveva paura di lui, e lo aveva colpito perché aveva paura, repulsione per l'alieno, il mostruoso, l'incomprensibile.

Era proprio questo che Zove aveva tentato di dirgli con quell'ammonimento severo e affettuoso: — Devi andare da solo, non puoi che essere solo.

Non c'era rimedio, per ora, se non dormire. Si distese sull'ultimo gradino, piegato su se stesso quanto poteva, perché il pavimento oltre che sporco era bagnato, e chiuse gli occhi nel buio.

A un certo momento di quella situazione senza tempo fu svegliato dai topi. Correvano lì attorno, facendo un esile rumore graffiante, zigzag acuto di suoni che si incrociavano nel buio, sussurrando con voci piccolissime: — È male togliere la vita, è male togliere la vita, hello heellllooo non ucciderci non uccidere.

— Io lo farò — tuonò Falk, e tutti i topi rimasero zitti.

Adesso era difficile tornare a dormire; o forse non gli era più possibile sapere se dormiva o se era sveglio. Restò disteso a domandarsi se era giorno o notte; e quanto tempo lo avrebbero tenuto rinchiuso; o se volevano ucciderlo o usar di nuovo la droga finché la sua mente fosse distrutta completamente; e dopo quanto tempo la sua sete sarebbe passata dalla sofferenza alla tortura; e se era possibile prendere topi al buio senza trappole né esche; e quanto tempo si poteva sopravvivere con una dieta di topi crudi.

Diverse volte, per distrarsi dai pensieri, tornò a compiere esplorazioni. Una volta trovò una grande tinozza o botte aperta in alto, e il suo cuore fece un balzo di speranza, ma picchiandola diede un suono vuoto, i bordi scheggiati gli graffiarono le mani, ed egli se ne andò a tastoni. Non riuscì a trovare altre scalinate o altre porte nelle sue esplorazioni tra muri senza fine e mai visibili.

Perse l'orientamento alla fine, e non riuscì più a ritrovare le scale. Sedette sul pavimento, nell'oscurità, ed immaginò la pioggia, fuori nella foresta in cui aveva viaggiato sempre solo, e la luce grigia, col suono della pioggia. Declamò nella sua mente tutto ciò che riuscì a ricordare del Vecchio Canone, cominciando dall'inizio:

La via che può essere percorsa

non è l'eterna Via…

Dopo pochi minuti la sua bocca si fece talmente secca che egli tentò di leccare il pavimento, umido, sporco, ma anche fresco; la sua lingua però ebbe l'impressione di incontrare soltanto polvere secca. I topi correvano molto vicini a lui a volte, bisbigliando.

Molto lontano, in fondo ai corridoi bui, scattarono dei catenacci, ci fu rumore di metalli urtati e un netto scoppio di luce. Luce…

Forme e ombre, volte, archi, tini, botti, aperture, apparvero in massa, confusamente, nella realtà che lo circondava. Si alzò e cominciò a muoversi, con passo malcerto però di corsa, verso la luce.

Veniva da una porta bassa, attraverso la quale, quando fu vicino riuscì a scorgere un rialzo di terreno, cime di alberi, e il cielo rosato di una sera o di un mattino, che lo abbacinava come il sole di un mezzogiorno d'estate. Si fermò prima della porta, perché era abbagliato e perché subito oltre c'era una figura immobile.

— Vieni fuori — disse la voce sottile e roca del grosso uomo, Argerd.

— Aspetta. Non riesco ancora a vederci.

— Fuori. E in marcia. Non voltare nemmeno la testa, o te la faccio saltare dal collo.

Falk raggiunse la porta, poi esitò ancora. I pensieri che aveva avuto al buio servivano a qualcosa, ora. Se lo lasciavano andare, aveva pensato, voleva dire che avevano paura ad ucciderlo.

— Muoviti!

Decise di correre il rischio. — Non senza il mio zaino — disse con la voce indebolita dalla gola secca. — Questo è un laser.

— Puoi anche usarlo. Non posso attraversare il continente senza una pistola.

Questa volta fu Argerd a esitare. Infine, alzando la voce quasi in uno strillo, gridò a qualcuno: — Gretten! Gretten! Porta qui la roba dello straniero!

Una lunga pausa. Falk restò nell'oscurità, appena dentro alla porta. Argerd, immobile, fuori. Una ragazza arrivò di corsa giù per il pendio erboso visibile dalla porta, depose lo zaino di Falk e sparì.

— Raccoglilo — ordinò Argerd. Falk uscì alla luce e obbedì. — Adesso in marcia.

— Aspetta — disse Falk, inginocchiato a guardare nello zaino tutto in disordine. — Dov'è il mio libro?

— Quale libro?

— Il Vecchio Canone. Un libro stampato, non elettronico.

— Pensavi che ti lasciassimo andar via con quello?

Falk lo fissò stupito. — Non riconoscete i Canoni dell'Uomo quando li vedete? Perché l'avete preso?

— Tu non sai e non scoprirai ciò che sappiamo, e se non ti metti in marcia subito ti faccio saltar via la testa. Alzati e cammina, cammina diritto, avanti. — La nota strillante era tornata nella voce di Argerd, e Falk comprese di essersi spinto già troppo in là. Quando vide lo sguardo di odio e di paura che c'era sul viso forte e intelligente di Argerd, ne rimase contagiato e in fretta chiuse lo zaino e se lo mise in spalla, passò accanto al grosso uomo e si incamminò per la salita erbosa che incominciava dalla porta della cantina. Era certamente sera, un po' dopo il tramonto. Falk camminò diritto verso il sole calante. Pareva che ci fosse un sottile cavo elastico di paura allo stato puro che congiungeva la sua nuca al mirino della pistola-laser che Argerd impugnava, e il cavo si tendeva, si tendeva sempre più man mano che egli avanzava. Oltre un prato di erbacce, oltre un ponte di tavole grezze che superava il fiume, su per un sentiero tra i pascoli, e poi tra i frutteti. Raggiunse la cima delle colline. Qui si volse un attimo e vide la valle nascosta proprio come l'aveva vista la prima volta, piena della luce dorata del tramonto, dolce e colma di pace, con i camini che si innalzavano accanto al fiume che rispecchiava il cielo. Si affrettò verso il folto della foresta, dove era già notte.

Assetato e affamato, dolorante e avvilito, Falk vide il suo viaggio senza meta nella Foresta Orientale, senza più speranze di incontri amichevoli lungo la via che spezzassero la dura monotonia della vita selvaggia. Non doveva più cercare strade ma evitare tutte le strade, tenersi nascosto agli uomini e lontano dai luoghi in cui essi vivevano, come faceva qualunque bestia selvatica. A parte un ruscello presso cui si fermò a bere e la razione d'emergenza che estrasse dal sacco, una sola cosa lo rallegrò un poco, e fu il pensiero che, dopo tutto, aveva sopportato le avversità tutto da solo, non aveva ceduto. Era riuscito a tener testa al cinghiale moralista e agli uomini brutali, e se l'era cavata. Questo lo rincuorò, perché si conosceva ancora tanto poco che ogni sua azione era anche una scoperta di se stesso, come le azioni di un bambino, e sapendo che tante cose gli mancavano, fu lieto di constatare che, almeno, non era senza coraggio.

Dopo aver bevuto e mangiato, e bevuto di nuovo, proseguì alla luce incostante della luna, sufficiente per i suoi occhi, però, finché non ebbe messo un miglio buono di terreno accidentato tra sé e la Casa della Paura (con questo nome pensava a quel luogo). Poi, esausto, si adagiò per dormire ai margini di un piccolo slargo, senza accendere fuoco né costruirsi riparo, disteso con gli occhi fissi al cielo invernale sbiancato dalla luna. Nulla interrompeva il silenzio; solo ogni tanto si udiva il grido sommesso di un gufo in caccia. E la sua miseria gli parve riposante e benedetta, dopo la costante presenza di piccoli passi in corsa, piccole voci, e nessuna luce, della cantina-prigione della Casa della Paura.

Spingendosi sempre più a ovest, attraverso gli alberi e le nuove giornate, non faceva conto né di queste né di quelli. Il tempo andò avanti; e anche lui andava avanti.

Il libro non era l'unica cosa che aveva perduto; gli avevano portato via la borraccia d'argento di Metock, e una piccola scatola, anch'essa di argento, che conteneva unguento disinfettante. Il libro potevano averlo preso solo perché lo desideravano pazzamente, o perché l'avevano scambiato per una specie di codice o di mistero. Ci fu un periodo in cui quella perdita gli pesò in modo irragionevole, perché gli pareva di aver perduto l'unico serio legame che gli era rimasto con la gente che amava e in cui aveva fiducia e una volta, seduto accanto al fuoco, si disse che il giorno dopo sarebbe tornato indietro, avrebbe ritrovato la Casa della Paura e ripreso il libro. Ma il giorno dopo proseguì. Andare a ovest era facile, con il sole e la bussola per guidarsi, ma non gli sarebbe mai riuscito di ritrovare un posto ben preciso nell'immensità di quelle colline senza fine e tra le valli della Foresta. Non la valle nascosta di Argerd; e non la Radura dove adesso Parth stava forse tessendo al sole invernale. Era tutto dietro di lui, perduto.

Forse non era un male aver perduto il libro. Che senso poteva avere per lui, qui, il sagace ed esperto misticismo di una civiltà molto antica, quella voce tranquilla che arrivava a lui dal folto di guerre e disastri già dimenticati? L'umanità era sopravvissuta al disastro; e lui si era lasciato alle spalle l'umanità. Era troppo lontano, troppo solo. Ora viveva interamente di caccia; questo rallentava il ritmo della sua avanzata. Anche quando la selvaggina non ha imparato a temere le armi ed è molto abbondante, la caccia non è un'attività che consente di agire in fretta e furia. Bisogna pulire e cucinare la preda, spolpare e succhiare le ossa accanto al fuoco, restare un po' a pancia piena e sonnolenti nel freddo invernale; e costruire un riparo di rami e corteccia contro la pioggia; e dormire; e il giorno dopo andare avanti. Non lo avrebbe letto, il libro; stava smettendo, veramente, di pensare. Cacciava e mangiava, camminava e dormiva, silenzioso nella foresta silenziosa, un'ombra grigia che si spostava lentamente verso ovest nel freddo della boscaglia.

Il tempo si era fatto sempre più micidiale, il terreno sempre più indurito dal ghiaccio. Spesso coraggiosi gatti selvatici, splendide piccole creature dalla pelliccia a macchie o a righe, aspettavano ai bordi del cerchio di luce del fuoco, per avere i resti del suo pasto e si facevano avanti, con sorniona e timida fierezza, per prendere gli ossi che egli lanciava loro; i roditori di cui si cibavano si erano fatti rari, quasi tutti in letargo. Nessun animale dopo la Casa della Paura gli aveva più parlato, in parole o per telepatia. Gli animali delle pianure boscose e gelate che ora stava attraversando non si erano mai temprati della presenza dell'uomo, non l'avevano mai visto né mai ne avevano colto l'odore, forse. E più si allontanava, più avvertiva quanto gli fosse estranea quella casa nascosta nella valle pacifica, con fondamenta dove vivevano topi che squittivano in lingua umana, abitata da gente che possedeva molta scienza, la droga della verità, e un'ignoranza barbarica. Laggiù c'era stato il Nemico.

Che il Nemico fosse stato qui era proprio improbabile. Nessuno c'era mai stato. Nessuno ci sarebbe mai. Le ghiandaie gridavano sui rami grigi. Foglie scure coperte di brina si spezzavano sotto i piedi, le foglie di centinaia di autunni. Un grande cervo fissò Falk dall'altra riva di un fiumicello; immobile, imperativo, metteva in dubbio il suo diritto a stare in quel luogo.

— Non voglio spararti. Ho preso due gallinelle questa mattina — disse Falk.

Il cervo lo fissava, con la signorile padronanza di sé del senza-parola, e lentamente si allontanò. Egli pensò che alla fine poteva dimenticare ancora il linguaggio, e diventare di nuovo ciò che era prima, muto, selvatico, inumano. Si era spinto troppo lontano dagli uomini ed era venuto dove regnano creature mute, e gli uomini non avevano mai vissuto.

In riva al fiume inciampò in una pietra, e steso a quattro zampe lesse lettere consumate dalle stagioni, incise su una pietra mezzo sepolta in terra: CK O.

Gli uomini erano stati anche lì, ci avevano vissuto. Sotto i suoi piedi, sotto il terreno ghiacciato, ondulato, sotto quella foresta di arbusti senza foglie e alberi nudi, sotto le radici, c'era una città.

Era arrivato in città un millennio o due troppo tardi.

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