XV Arresto di un cospiratore

Baley sentiva l’odore di Lievitown diventare più forte, più penetrante. Non lo trovava sgradevole, come succedeva a Jessie e a tanti altri, anzi gli piaceva. Aveva del buono.

Ogni volta che respirava il lievito grezzo, l’alchimia dei sensi lo portava indietro di trent’anni: era di nuovo un ragazzino di dieci anni e si trovava a casa di zio Boris, che era appunto un coltivatore di lievito. Lo zio aveva sempre un po’ di dolciumi da parte: pasticcini, tavolette che sembravano cioccolata ed erano ripiene di un liquido dolce, biscotti a forma di cani e gatti. Tutti a base di lieviti. Pur essendo un ragazzo Lije sapeva che cose come quelle non abbondano in casa di nessuno, ma ne mangiava lo stesso in tranquillità, seduto in un angolo, la schiena rivolta al centro della stanza. Per paura di essere sorpreso cercava di finirle in fretta, e questo aggiungeva un sapore speciale.

Povero zio Boris! Era morto in un incidente, ma a Lije nessuno aveva raccontato i particolari; lui aveva pianto disperatamente, convinto che lo zio fosse stato arrestato per furti di lievito in fabbrica, e per un po’ aveva temuto di essere arrestato a sua volta e condannato a morte… Anni dopo aveva frugato gli schedari della polizia e scoperto la verità: lo zio era caduto sotto i cingoli di un trasporto. Era stata la fine di un mito romantico.

Ma ogni volta che sentiva odore di lievito grezzo, il mito tornava in vita per un po’.

Lievitown non era un nome ufficiale: nessun atlante e nessuna carta dei quartieri di New York lo riportava. Quello che la gente, nel linguaggi corrente, chiamava "Lievitown" era semplicemente l’insieme dei distretti di Newark, New Brunswich e Trenton (secondo la classificazione dell’Ufficio Postale). Si stendeva come una lunga striscia in quello che una volta era stato il New Jersey, ed era punteggiato di quartieri d’abitazione che per lo più si addensavano intorno a Newark Center e Trenton Center; la maggior parte del territorio, tuttavia, era occupata dalle fattorie multistrato in cui crescevano e si moltiplicavano migliaia di varietà di lieviti.

Un quinto della popolazione della Città lavorava alla coltivazione dei lieviti e nelle industrie sussidiarie. Cominciando dalle montagne di legno e cellulosa grezza che affluivano in Città dalle foreste degli Allegheny, e continuando per le vasche d’acido che tramite idrolisi li trasformavano in glucosio, i carichi di nitrati e fosfati che costituivano i principali additivi, giù giù fino alle sostanze organiche fornite dai laboratori chimici, tutto mirava a un solo scopo: produrre lieviti, sempre più lieviti.

Senza di essi, otto miliardi d’uomini sarebbero morti di fame in un anno.

Baley si sentì gelare al pensiero. Tre giorni prima l’eventualità di una simile catastrofe c’era stata come ora, ma tre giorni prima non ci avrebbe mai pensato.

Trovarono l’uscita della periferia di Newark e la imboccarono. Le corsie scarsamente popolate, fiancheggiate dagli enormi blocchi delle "fattorie", offrivano uno spettacolo ben poco attraente: tanto valeva accelerare.

«Che ora è, Daneel?»

«Sedici e zero cinque» rispose l’automa.

«Allora sarà al lavoro, se è del turno di giorno.»

Baley parcheggiò l’autopattuglia nel settore riservato ai trasporti e bloccò i comandi.

«Questa è dunque la Lieviti Newyorchesi, Elijah?» chiese R. Daneel.

«Una parte» disse Baley.

Entrarono in un corridóio fiancheggiato da una duplice fila di uffici. Un’impiegata li accolse tutta sorrisi: «Chi desiderate vedere?».

Baley mostrò il distintivo. «Polizia. Un certo Francis Clousarr lavora per voi?»

La ragazza sembrava turbata. «Un attimo, controllo.»

Infilò uno spinotto nel pannello su cui era scritto "Personale" e mosse leggermente le labbra, anche se non ne uscì suono.

Baley conosceva i laringofoni, che traducevano in parole i piccoli movimenti della laringe. Disse: «Parli ad alta voce, per favore. Devo sentirla».

Le parole divennero udibili, ma ormai la frase era finita: «…Dice che è un poliziotto, signore.»

Un uomo dai capelli neri e ben vestito uscì da uno degli uffici. Portava baffetti sottili e cominciava ad essere stempiato. Fece un sorriso a tutti denti e disse: «Sono Prescott, il capo del personale. Qual è il problema, agente?».

Baley lo gratificò di un’occhiata gelida e il sorriso di Prescott si raggrinzì.

«Non voglio turbare i lavoratori» riprese il capo del personale. «Sono molto suscettibili, quando si nomina la polizia.»

Baley disse: «Che ci vuol fare, è dura. Questo Clousarr si trova qui o no?».

«Sì, agente.»

«Ci procuri una bacchetta magica, allora. E se non trovo Clousarr al suo posto, verrò a ripescare lei.»

Il sorriso dell’altro era scomparso. Borbottò: «Le prendo la bacchetta, agente».


La bacchetta magica venne puntata sul settore CG, divisione 2. Che cosa questo significasse nel linguaggio delle fattorie Baley non lo sapeva, né era suo compito saperlo. La bacchetta era un affanno che si poteva tenere nella palma di una mano la punta si scaldava dolcemente quando era in linea con la direzione prestabilita, si raffreddava quando ne era deviata. Il calore cresceva man mano che ci si avvicinava alla meta.

Per un dilettante la bacchetta sarebbe stata inutile, visto che gli sbalzi di temperatura erano sfumati ma continui; tuttavia, ben pochi abitanti della Città erano dilettanti a quel gioco particolare. Fra i bambini uno dei divertimenti preferiti era sempre l’universale nascondino, che si giocava nei corridoi scolastici con l’aiuto di bacchette-giocattolo. ("Caldo o no, può trovare chi vuole. Le Bussole Termiche sono precise!")

Baley si era sbrogliato da più di una situazione complicata grazie all’aiuto delle bacchette; con l’esperienza riusciva a servirsene in modo perfetto, e a trovare la strada più breve per raggiungere qualsiasi punto.

Dopo dieci minuti sbucò in una stanza grande e molto illuminata; la punta della bacchetta era decisamente calda.

Baley chiese all’operaio davanti alla porta: «Francis Clousarr è qui?».

L’operaio fece un cenno con la testa, indicando la direzione. Baley si avviò da quella parte. L’odore di lievito era pesante, nonostante l’azione delle pompe che cambiavano l’aria e il cui ronzio formava un caratteristico rumore di fondo.

Un uomo era uscito dall’altra estremità della stanza e si stava togliendo il grembiule. Era di altezza modesta, la faccia incisa di rughe nonostante l’età non molto avanzata e i capelli che cominciavano a ingrigire. Le mani erano grandi e nodose, e l’uomo le pulì più volte su un foglio di celltex.

«Sono Francis Clousarr.»

Baley dette una rapida occhiata a R. Daneel e il robot annuì.

«Okay» disse Baley. «C’è un posto dove possiamo parlare?»

«Forse» disse Clousarr lentamente «ma il mio turno è quasi finito. Perché non ripassate domani?»

«Troppe ore, fino a domani. Parleremo adesso.»

Baley aprì il pprtafoglio e mostrò il distintivo al coltivatore.

Le mani di Clousarr, che era ancora intento a pulirsele, non tradirono alcun segno di nervosismo. L’uomo disse, freddamente: «Non so come vi regolate al Dipartimento di polizia, ma qui non abbiamo l’orario elastico. Per mangiare ho un intervallo preciso, dalle 17 alle 17,45, o salto il pasto».

«Non preoccuparti di questo, ti farò portare il pranzo qui.»

«Bene, bene» disse Clousarr senza entusiasmo. «Come un aristocratico o un poliziotto di classe C. Qual è il prossimo passo, un bagno privato?»

«Limitati a rispondere alle domande, Clousarr» disse Baley «e risparmia le grandi freddure per quando esci con la ragazza. Dove possiamo parlare?»

«Se volete parlare, che ne dite della stanza delle bilance? Dovrebbe andarvi bene, ma vi avverto che io non ho niente da dire.»

Baley spinse Clousarr nella stanza delle bilance, quadrata e asettica, dipinta di bianco e con il condizionamento autonomo: in effetti funzionava meglio che nella stanza più grande. Lungo le pareti erano allineate una serie di bilance elettroniche, chiuse in bacheche di vetro e azionabili solo da campi di forza. Quando andava a scuola Baley ne aveva usato dei modelli più economici. Un modello, che riconobbe, poteva pesare un solo miliardo di atomi.

Clousarr disse: «Qui per un po’ non verrà nessuno».

Baley borbottò qualcosa, poi disse a Daneel: «Ti dispiace andare a chiedere il pranzo di questo signore? E magari aspetta che te lo portino».

Guardò il robot che usciva, poi cominciò con Clousarr. «Sei un chimico?»

«Un enzimologo, se non ti dispiace.»

«Che differenza c’è?»

Clousarr si dette un’aria d’importanza. «Un chimico è uno che mescola la zuppa, che aggiunge gli odori. Un enzimologo è quello che mantiene in vita le persone. Qualche miliardo di persone. Sono uno specialista di colture.»

«Sta bene» disse Baley.

Ma Clousarr continuò: «Il mio laboratorio è quello che tiene su la Lieviti Newyorchesi. Non c’è giorno, non c’è ora che non facciamo crescere nelle nostre campane migliaia di speci di lievito, e tutte servono alla società. Controlliamo e correggiamo i fattori dietetici, ci assicuriamo che i nuovi ceppi abbiano le caratteristiche richieste, modifichiamo i fattori genetici creando nuove specie e poi estirpandole, ma dopo averne isolato le proprietà.

«Quando i newyorchesi ebbero la gradita sorpresa di trovare fragole fuori stagione, un paio d’anni fa, quelle non erano fragole. Erano una speciale coltura di lieviti zuccherati, con colore naturale e un minimo di additivi. La progettammo qui, in questo reparto.

«Vent’anni fa la Saccharomyces olei Benedictae era solo una porcheria dal sapore disgustoso e buona a niente; quando la si mangiava si aveva l’impressione di masticare sego. Il sapore di sego è rimasto, ma il contenuto di grassi è salito dal 15% all’87%. Se oggi prenderai la strada celere, amico, ricordati che è oliata con S.O. Benedictae, ceppo AG-7. Creato qui, in questo reparto.

«Quindi non chiamarmi chimico. Io sono un enzimologo.»

Baley, suo malgrado, fu impressionato. Chiese bruscamente: «Dove ti trovavi, ieri sera, fra le diciotto e le venti?».

Clousarr si strinse nelle spalle. «Passeggiavo. Mi piace fare una passeggiatina dopo pranzo.»

«Sei andato a trovare amici? Hai guardato la subeterica?»

«No, ho solo passeggiato.»

Baley strinse le labbra. Se fosse andato alla subeterica la piastra avrebbe recato il contrassegno della razione consumata. Se avesse fatto visita ad amici, Baley avrebbe chiesto i nomi e controllato. «Non ti ha visto nessuno, quindi.»

«Forse sì, non lo so. Non che io sappia.»

«E la sera prima?»

«Lo stesso.»

«Vuoi dire che non hai un alibi né per ieri né per l’altro ieri?»

«Se avessi fatto qualcosa di male, agente, ce l’avrei. Ma a che mi serve un alibi?»

Baley non rispose e consultò il suo taccuino. «Sei già comparso una volta davanti al magistrato. Incitamento alla sedizione.»

«E va bene, uno di quei maledetti R. mi ha dato uno spintone e io gli ho fatto lo sgambetto. È sedizione, questa?»

«La corte ha deciso di sì. Sei stato condannato e multato.»

«Il che estingue il mio debito. O vuoi farmi la multa di nuovo?»

«L’altro ieri sera c’è stata una mezza sommossa, in un negozio di scarpe del Bronx. Sei stato visto là.»

«Da chi?»

Baley ignorò la domanda. «A quell’ora avresti dovuto essere qui a mangiare. L’hai fatto?»

Clousarr esitò, poi scosse la testa. «Mi faceva male lo stomaco. Sai, a volte il lievito combina di questi scherzi anche a chi ci lavora da anni.»

«Ieri sera c’è stato un incidente a Williamsburg. Sei stato visto anche lì.»

«Da chi?»

«Neghi di essere stato sul posto in queste due occasioni?»

«Non ho nemmeno bisogno di negare. Vuoi dirmi dove sono successi esattamente questi fatti e chi dice di avermi visto?»

Baley dette un’occhiata penetrante all’enzimologo. «Penso che tu sappia molto bene di che sto parlando. Penso che sei un pezzo grosso di un’associazione medievalista clandestina.»

«Non posso impedirti di pensare, amico, ma le tue congetture nop sono prove. Questo lo saprai.» Clousarr sorrideva.

«Forse» disse Baley con la lunga faccia impassibile. «Ma io conosco il sistema di tirarti fuori la verità. Ora.»

Baley aprì la porta della stanza e disse R. Daneel, che aspettava ubbidiente all’esterno: «Il pranzo del nostro amico non è arrivato?».

«Lo stanno portando, Elijah.»

«Allora appena arriva vieni, d’accordo?»

R. Daneel entrò qualche secondo dopo con un vassoio di metallo.

«Mettilo davanti al signor Clousarr, Daneel.» Baley sedette su uno degli sgabelli allineati lungo il muro, con le gambe incrociate, una scarpa che ondeggiava ritmicamente. Mentre R. Daneel gli metteva davanti il vassoio, l’enzimologo si ritrasse con un gesto brusco che non sfuggì a Baley.

«Voglio presentarti il mio collega, Clousarr. Daneel Olivaw.»

Daneel tese la mano e disse: «Come va, Francis».

Clousarr non disse niente; non prese la mano di Daneel, che continuò a tenerla tesa, e dopo un po’ arrossì.

«Vedo che fai lo sgarbato, signor Clousarr» disse piano Baley. «O sei troppo orgoglioso per stringere la mano a un poliziotto?»

«Se non vi dispace, io ho fame» borbottò l’enzimologo. Pescò in tasca un temperino milleusi e ne ricavò una forchetta. Da quel momento in poi tenne gli occhi bassi e si concentrò sul pasto.

«Daneel, credo che il nostro amico sia offeso dai tuoi modi un po’ freddi» disse Baley. «Ma tu non sei arrabbiato con lui, vero?»

«Nient’affatto, Elijah.»

«Allora fagli vedere che non c’è rancore. Mettigli un braccio intorno alla spalla.»

«Con piacere» disse R. Daneel, e fece un passo avanti.

Clousarr mise giù la forchetta. «Come sarebbe? Che storia è questa?»

R. Daneel, imperturbabile, allungò il braccio.

Clousarr si spostò violentemente, scansando il braccio del robot. «Maledizione, non toccarmi!»

Il vassoio con il pranzo cadde sul pavimento con un gran fracasso.

Baley, implacabile, fece un cenno a Daneel che continuò ad avanzare con il braccio teso, mentre l’enzimologo non sapeva più dove ripararsi. Baley si era piazzato fra lui e la porta.

Clousarr gridò: «Levami quell’affare di torno!».

«Non è modo di parlare» disse Baley. «Quest’uomo è il mio collega.»

«È un maledetto robot!» urlò Clousarr.

«Allontanati da lui, Daneel.»

R. Daneel obbedì e si mise davanti alla porta, qualche centimetro dietro Baley. Clousarr, con il fiatone e i pugni stretti, si parò davanti all’agente.

«Va bene, furbo» disse Baley. «Cosa ti fa credere che Daneel sia un robot?»

«Lo capirebbe chiunque!»

«Lasceremo che sia il giudice a decidere se è così. Nel frattempo, Clousarr, ti porteremo alla centrale. Dovrai spiegarci come facevi a sapere che Daneel era un robot. E molte cose ancora. Daneel, vai fuori e chiama il questore: sarà a casa, a quest’ora. Digli di venire in ufficio, ho un tipo che non può aspettare di essere interrogato.»

R. Daneel uscì.

«A che cosa miri, Clousarr? Chi sei?» chiese Baley.

«Voglio un avvocato.»

«L’avrai. Ma nel frattempo, perché non mi dici cosa volete voi medievalisti?»

Clousarr evitò di guardarlo e si chiuse in un silenzio impenetrabile.

Baley disse: «Perdinci, sappiamo tutto su di voi e la vostra organizzione. Non sto bluffando. È solo che vorrei sentirlo con le mie orecchie, per curiosità: dove volete arrivare?»

«Noi vogliamo tornare alla terra» rispose l’enzimologo con voce soffocata. «È semplice, non ti pare?»

«È semplice a parole» ribatté Baley. «Ma nei fatti è diverso. Come farà, la terra, a sfamare otto miliardi di persone?»

«Ho detto che bisogna tornarci in un giorno? O in un anno? O in cento anni? Gradatamente, signor poliziotto. Non importa quanto tempo ci vorrà, quello che conta è cominciare a mettere la testa fuori dalle caverne in cui viviamo. Prendere una boccata di aria.»

«Tu hai mai preso una boccata d’aria?»

Clousarr rabbrividì. «D’accordo, io sono rovinato. Ma i bambini non sono condizionati ancora da questo sistema, e ne nascono continuamente. Portateli all’aria aperta, per l’amor di Dio. Portateli fuori di qui, dove c’è sole a spazio. Se sarà necessario ridurremo poco a poco la popolazione.»

«In altri termini, vuoi tornare a un passato impossibile.» Baley non sapeva perché si fosse messo a discutere, ma nelle vene gli bruciava una strana febbre. «Tornare al seme, all’uovo, al grembo. Perché non muoversi in avanti, invece? Non riduciamo la popolazione del pianeta, esportiamola. Torniamo alla terra, d’accordo, ma a quella di altri mondi. Trasformiamoci in coloni!»

Clousarr fece un’aspra risata. «Per creare altri Mondi Esterni? Altri Spaziali?»

«No. I Mondi Esterni furono colonizzati da terrestri che venivano da un pianeta dove le Città erano un fatto ancora sconosciuto, terrestri individualisti e materialisti. Queste qualità sono state esasperate e portate all’estremo, come noi abbiamo spinto troppo un modello di società fondato sulla cooperazione. Il nuovo ambiente e la tradizione che ci portiamo alle spalle si amalgameranno e daranno un sistema nuovo, la giusta via di mezzo fra la Terra e i Mondi Esterni. E saremo diversi sia dall’una che dagli altri! Saremo qualcosa di nuovo e di migliore.»

Ripeteva a pappagallo le parole del dottor Fastolfe, e lo sapeva; ma in un certo senso era come se fossero sue ed esprimessero un desiderio covato da anni.

Clousarr disse: «Balle! Colonizzare mondi esterni quando ne abbiamo uno nostro a disposizione, sotto i piedi! Solo dei pazzi tenterebbero».

«Forse ce ne sono molti, di quei pazzi. E molti uomini normali andrebbero con loro. Con i robot a dare una mano.»

«No» disse Clousarr, fermo. «Robot mai!»

«Perché no, per l’amor del cielo? Non piacciono neanche a me, ma non sono disposto a suicidarmi per un pregiudizio. Che cosa temiamo nei robot? Se vuoi la mia teoria, abbiamo tutti un complesso d’inferiorità nei loro confronti, come l’abbiamo nei confronti degli Spaziali. Per compensarlo dobbiamo convincerci di essere superiori, ma per il nostro orgoglio è un colpo mortale dover dimostrare d’essere superiori a una… macchina! E la maledetta ironia è che sembrano superiori, ma non lo sono.»

Baley s’accalorava sempre di più. «Prendi questo Daneel, ci lavoro insieme da due giorni. È più alto di me, più forte, più bello. Sembra uno Spaziale. Ha una memoria migliore della mia e sa più cose, non ha bisogno di dormire o di mangiare. Non è tormentato dal mal di pancia, dal panico, dall’amore o dal senso di colpa.

«Però è una macchina. Posso fargli quello che voglio, proprio come se fosse una di quelle microbilance. Se do uno schiaffo a una bilancia non me lo restituisce, giusto? Nemmeno Daneel. Posso ordinargli di puntarsi addosso un fulmine e lo farà.

«Non siamo capaci di costruire robot che valgano quanto un essere umano, nelle cose che contano. Figuriamoci migliori! Non siamo capaci di costruire robot con il senso della bellezza, dell’etica o della religione. Non c’è modo di elevare il cervello positronico di un centimetro sopra il perfetto materialismo.

«L’ho detto, non siamo capaci. E continuerà ad essere così finché non capiremo cos’è che muove il nostro cervello, finché esisteranno cose che la scienza non può misurare. Che cos’è la bellezza, o la bontà, o l’arte, o l’amore, o Dio? Ci muoviamo sulla frontiera dell’inconoscibile e cerchiamo di capire ciò che non può essere capito. È questo che ci fa uomini.

«Il cervello di un automa dev’essere finito, limitato, o non potremo costruirlo. Dev’essere tutto prevedibile, tutto calcolabile. Quindi, di che hai paura? Un robot può essere bello come Daneel, bello come un dio, e non essere più umano di un mucchio di legna. Non riesci a capire?»

Clousarr aveva tentato di interromperlo parecchie volte ma aveva fallito davanti al torrente di Baley. Quando il poliziotto tacque, esausto, l’enzimologo disse debolmente: «Un piedipiatti diventato filosofo. Vai a capire!».


R. Daneel rientrò.

Baley gli dette un’occhiata e si fece scuro, in parte per la foga non del tutto placata e in parte per le brutte notizie che presagiva.

«Come mai ci hai messo tanto?»

«Ho avuto qualche problema nel rintracciare il questore, Elijah. Poi ho scoperto che era ancora in ufficio.»

Baley guardò l’orologio: «A quest’ora? E perché?».

«C’è una certa confusione, al momento. È stato trovato un cadavere alla centrale.»

«Cosa? Per l’amor di Dio, e chi è?»

«Il fattorino, R. Sammy.»

Baley spalancò gli occhi, poi disse, infuriato: «Credevo che avessi detto un cadavere».

R. Daneel si scusò affabilmente: «Un robot con il cervello completamente disattivato, se preferisci».

Clousarr scoppiò a ridere e Baley si voltò verso di lui, minaccioso: «Non farti scappare neppure una parola di tutto questo, capito?». E tolse la sicura al fulminatore, deliberatamente. Clousarr piombò in un improvviso silenzio.

«Bene, e allora? A Sammy sono saltate le valvole. Che ci possiamo fare?»

«Il questore è stato evasivo, Elijah, ma anche se non l’ha detto esplicitamente la mia impressione è che R. Sammy sia stato disattivato di proposito.»

Poi, mentre Baley assorbiva la notizia in silenzio, R. Daneel aggiunse con gravità: «O, se preferisci… È stato assassinato».

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