Spider e Jeanne Robinson Stardance

Non posso dire che la conoscevo veramente, e certo non nel modo in cui Seroff conosceva Isadora. Tutto ciò che conosco della sua infanzia e della sua adolescenza sono gli aneddoti che raccontava per caso mentre potevo sentirla… quanto bastava per darmi la certezza che tutte e tre le biografie contraddittorie attualmente nell’elenco del best-seller sono fittizie. Tutto ciò che conosco della sua vita di adulta sono le ore che passò in presenza mia e dei mie monitor… più che sufficienti per rivelarmi che tutti i resoconti da me letti sui giornali sono fittizi. Carrington probabilmente la conosceva meglio di me, e in un certo senso limitato aveva ragione… ma non avrebbe mai scritto una parola sull’argomento, e adesso è morto.

Ma io ero il suo video-man, fin dai tempi in cui si manovrava la telecamera con le mani, e la conoscevo fuori dalla scena: un tipo di rapporto come non ce n’era un altro sulla Terra o lontano dalla Terra. Non credo che sia possibile descriverlo a qualcuno che non appartiene alla professione… penso si possa dire che è una via di mezzo tra compagni di lavoro e compagni d’armi. Ero con lei il giorno che arrivò allo Skyfac, atterrita ma decisa, per giocarsi la vita puntando su un sogno. La guardai lavorare e lavorai con lei per tutti quei due mesi, durante innumerevoli prove, e ho conservato tutte le registrazioni. E non sono in vendita.

E naturalmente vidi Stardance. C’ero, e la registrai.

Credo di potervi raccontare qualcosa di lei.


Tanto per incominciare non fu affatto, contrariamente a ciò che affermano Shara di Cahill e La danza senza confini — La creazione del neomoderno di Von Derski, l’amore innato per lo spazio e i viaggi spaziali che la spinsero a diventare la prima danzatrice a gravità zero della nostra razza. Per lei lo spazio era un mezzo, non un fine, e all’inizio la sua immensità vuota le faceva paura. E non era neppure vero, come sostiene La vera Shara Drummond di Melberg, che le mancasse il talento per imporsi come ballerina sulla Terra. Se credete che la danza in condizioni d’imponderabilità sia più facile della danza tradizionale, provateci voi. E non dimenticate il sacchetto impermeabile per vomitarci dentro.

Ma nella calunnia di Melberg c’è un pizzico di verità, come c’è in tutte le calunnie migliori. Lei non avrebbe potuto affermarsi sulla Terra: non per mancanza di talento, però.

La vidi per la prima volta a Toronto nel luglio del 1984. A quel tempo dirigevo il dipartimento video del Toronto Dance Theater, e non mi piaceva neppure un po’. A quel tempo non c’era niente che mi piacesse. Quel giorno, il programma prevedeva un interno pomeriggio dedicato a registrare le esibizioni degli allievi, uno spreco di tempo e di nastri che detestavo più di qualunque altra cosa al mondo eccettuata l’azienda dei telefoni. Non avevo ancora visto la nuova messe di quell’anno, e non ero ansioso di vederla. Mi piace assistere a una danza eseguita bene… e di solito gli sforzi di un tirocinante mi sono graditi quanto lo è per voi un vicino di casa che studia il primo anno di violino.

La gamba mi dava fastidio più del solito quando entrai nello studio. Norrey mi guardò in faccia e lasciò un gruppo di giovani speranzosi per correre da me. — Charlie…?

— Lo so, lo so. Sono teneri virgulti, Charlie, con personalità fragili come uova di Pasqua in dicembre. Non morderli, Charlie. Non abbaiare neppure, se ci riesci, Charlie.

Lei sorrise. — Qualcosa del genere. La gamba?

— La gamba.

Norrey Drummond è una ballerina che può permettersi di sembrare una donna perché è piccolina. Pesa circa cinquanta chili, e quasi tutto quel peso è costituito dal cuore. È alta un metro e sessantadue, ed è perfettamente capace di aver l’aria di torreggiare sull’allievo più alto. Ha più energia della Rete Elettrica Nordamericana, e la usa con la stessa efficienza di una pompa a vento. (Avete mai studiato il principio di una normale pompa a pistoni? Andate a controllare il principio di una pompa a vento. Mi domando quale dovette essere la concezione originale di quella nozione, come esperienza emotiva.) La sua danza ha un’unicità che è come una firma, e secondo me è l’unica ragione per cui aveva avuto così poche parti davvero importanti nelle produzioni collettive fino a quando il Moderno ha lasciato il posto al Neomoderno. Mi era simpatica perché non mi commiserava.

— Non è soltanto la gamba — ammisi. — Non mi piace vedere i teneri virgulti che massacrano la tua coreografia.

— Allora non devi preoccuparti. Quello che dovrai registrare oggi è una creazione di… una dei miei allievi.

— Oh, magnifico. Sapevo che avrei dovuto darmi malato. — Lei fece una smorfia. — Dov’è il trucco?

— Eh?

— Perché hai usato quello strano tono di voce quando hai detto una dei miei allievi?

Norrey arrossì.

— Accidenti, è mia sorella.

Io inarcai le sopracciglia.

— Allora dev’essere brava.

— Oh, grazie, Charlie.

— Fesserie. Faccio complimenti sinceri, o non li faccio per niente… e non sto parlando delle leggi dell’ereditarietà. Voglio dire che sei così devota all’etica professionale che faresti i salti mortali pur di non piegarti al nepotismo. Perché abbia lasciato a tua sorella un compito del genere, dev’essere straordinaria.

— Charlie, lo è davvero — disse Norrey, semplicemente.

— Vedremo. Come si chiama?

— Shara. — Norrey me la indicò, e io capii il resto del trucco. Shara Drummond era di dieci anni più giovane della sorella… e più alta di diciassette centimetri, con dodici-quindici chili in più. Notai distrattamente che era di una bellezza sensazionale, ma questo non attenuò il mio sgomento… nei suoi anni migliori, Sophia Loren non avrebbe mai potuto diventare una ballerina moderna. Dove Norrey era piccola, Shara non lo era, e dove Norrey era tornita, Shara lo era molto di più. Se l’avessi vista per strada avrei zufolato con ammirazione… ma nello studio aggrottai la fronte.

— Mio Dio, Norrey, è colossale.

— Il secondo marito di mia madre era un giocatore di football americano — disse Norrey in tono malinconico. — È spaventosamente brava.

— Se è brava, è spaventoso davvero. Povera ragazza. Bene, che cosa vuoi che faccia?

— Cosa ti fa pensare che io voglia che tu faccia qualcosa?

— Sei ancora qui.

— Oh, già. Ecco… vieni a pranzo con noi, Charlie?

— Perché? — Sapevo benissimo il perché, ma mi aspettavo un’educata menzogna.

Ma non era il caso di aspettarla, da parte di Norrey Drummond. — Perché voi due avete qualcosa in comune, credo.

Onestamente, le feci il complimento di non rabbrividire. — Sì, penso di sì.

— Allora verrai?

— Subito dopo le riprese.

Norrey mi guardò con uno scintillio negli occhi e se ne andò. In pochissimo tempo, aveva organizzato lo studio pieno di giovani che vagavano e chiacchieravano in qualcosa che sembrava un collettivo di danza, se si guardava bene. Eseguirono gli esercizi di riscaldamento durante i venti minuti che io impiegai a piazzare e a controllare l’equipaggiamento. Misi una telecamera davanti a loro, una dietro, e ne tenni una in mano, per i primi piani: ma non l’usai.

C’è un gioco che si gioca nella mente. Ogni volta che qualcuno colpisce la vostra attenzione, incominciate a cercare d’indovinare qualcosa sul suo conto. Cercate di estrapolare il suo carattere e le sue abitudini basandovi sul suo aspetto. Quello? Antipatico, disorganizzato… non rimette mai il tappo al tubetto del dentifricio e beve porcherie. Quella là? Il tipo della studentessa d’arte, che probabilmente usa il diaframma e scrive lettere in una calligrafia stilizzata di sua invenzione. Loro? Sembrano insegnanti di Miami, probabilmente venuti qui per vedere la neve o partecipare a un congresso. Certe volte ci vado molto vicino. Non so come inquadrai Shara Drummond, in quei primi venti minuti. Nel momento in cui incominciò a ballare, tutti i preconcetti fuggirono dalla mia mente. Diventò qualcosa di elementare, qualcosa d’inconoscibile, un ponte vivente tra il nostro mondo e quello in cui vivono le Muse.

Conosco, su un piano intellettuale e accademico, tutto quel che c’è da sapere sulla danza, ma non potevo categorizzare o classificare e neppure comprendere veramente la danza che lei eseguì quel pomeriggio. La vidi. L’apprezzai, anche, ma non ero in grado di capirla. Tenevo la telecamera a mano abbandonata fra le dita, e la bocca spalancata. I ballerini parlano del loro «centro», il punto intorno al quale s’incentrano i loro movimenti, e che spesso è vicinissimo al centro di gravità fisico. Si cerca di «ballare al centro», e l’idea «contrazione-e-distensione» che sta alla base di tanta danza moderna dipende da questo centro quale punto focale dell’energia. Il centro di Shara pareva muoversi intorno allo studio, con un moto proprio, trascinandosi dietro gli arti che vi stavano legati più per scelta che per necessità. Qual è la parola per indicare la parte più esterna del sole, la parte che si vede anche in un’eclisse? Corona? Ecco che cos’erano i suoi arti: quattro lingue di fiamma che seguivano il centro nella sua orbita eccentrica e vorticosa, fluendo intorno alla superficie. Il fatto che i due arti inferiori fossero frequentemente a contatto con il pavimento sembrava coincidentale… per la verità anche gli altri due lo toccavano quasi con la stessa regolarità.

C’erano anche altri allievi che ballavano. Questo lo so perché le due telecamere automatiche, diversamente da me, facevano il loro lavoro e registravano il pezzo nella sua integrità. Si chiamava Nascita, e rappresentava la formazione di una galassia che finiva per somigliare a quella di Andromeda. La precisione lasciava abbastanza a desiderare da un punto di vista letterale: ma sinceramente si sentiva che era la nascita di una galassia.

In retrospettiva. Al momento io mi accorgevo soltanto del cuore della galassia: Shara. Gli altri allievi l’eclissavano di tanto in tanto e io, semplicemente, non me ne accorgevo. Mi faceva soffrire guardarla.

Se v’intendente un po’ di danza, questo dovrà sembrarvi orribile. Una danza imperniata su una nebulosa? Lo so, lo so. È una nozione ridicola. E funzionava. Funzionava al livello più viscerale e cellulare… a parte il fatto che Shara era troppo brava in confronto a quelli che l’attorniavano. Non apparteneva a quel branco di apprendisti goffi e zelanti. Era come ascoltare il fu Stephen Wonder che cercasse di lavorare con un’orchestrina raccogliticcia in un bar di Montreal.

Ma non era questo che mi faceva soffrire.


Le Maintenant era un posto abbastanza squallido, ma si mangiava bene e l’erba della casa era eccellente. Se uno avesse presentato la tessera del Diner’s Club, lì dentro, l’avrebbero mandato in cucina a lavare i piatti. Adesso non esiste più. Norrey e Shara rifiutarono uno spinello, ma nel mio lavoro è utile. E poi, avevo bisogno di trovare il coraggio. Come si fa a dire a una donna incantevole che il suo sogno più caro è irrealizzabile?

Non era necessario che interrogassi Shara per sapere che il suo sogno più caro era ballare. Anzi, ballare come professione. Spesso mi sono chiesto quali sono le motivazioni dell’artista professionista. Alcuni cercano la soddisfazione narcisista di sapere che altri pagheranno per vederli o ascoltarli. Alcuni sono così inefficienti o disorganizzati che non sono capaci di mantenersi in nessun altro modo. Certuni hanno un messaggio che ritengono di dover esprimere. Credo che in quasi tutti gli artisti ci sia una combinazione di tutti e tre i fattori. Non è una critica… ciò che fanno per noi è necessario. Dovremmo essere grati al cielo perché le motivazioni ci sono.

Ma Shara era una delle rare eccezioni. Ballava perché per lei era necessario. Sentiva il bisogno di dire cose che non si potevano esprimere in nessun altro modo, e di trarre il significato della sua vita dal fatto che le esprimeva. Qualunque altra cosa avrebbe sminuito e svalutato l’affermazione essenziale della sua danza. E questo lo so semplicemente perché assistetti a quella danza.

Tra gli spinelli e tenere la bocca piena e poi altri spinelli (non tanto, giusto quel che bastava per controbilanciare l’effetto deprimente che causa sempre il mangiare), passò mezz’ora prima che dovessi dire qualcosa, a parte gli occasionali borbottii in risposta alle consuete chiacchiere delle signore a pranzo. Quando arrivò il caffé, Shara mi guardò direttamente negli occhi e chiese: — Lei parla, Charlie?

Senza dubbio era propriola sorella di Norrey.

— Dico solo banalità.

— Non esistono. Forse esiste gente banale.

— Le piace ballare, Miss Drummond?

Lei rispose con la massima serietà. — Definisca cosa intende per le piace.

Aprii la bocca e la richiusi, due o tre volte. Provateci un po’ voi.

— E per l’amor di Dio, mi dica perché sta facendo di tutto per non parlarmi. Comincio a preoccuparmi.

— Shara! — Norrey era allibita.

— Zitta. Voglio sapere.

Mi buttai. — Shara, prima che morisse, ebbi il privilegio di conoscere Bertram Ross. L’avevo appena visto ballare. Un produttore che mi conosceva e mi aveva in simpatia mi portò dietro le quinte, come si potrebbe portare un bambino a conoscere Papà Natale. Mi aspettavo che fuori dal palcoscenico, in riposo, sembrasse più vecchio. Sembrava più giovane, come se tentasse di tenere a freno quella sua incredibile capacità di movimento. Lui mi parlò. Dopo un po’, io smisi di aprire la bocca, perché non ne usciva una parola.

Lei taceva, aspettando il resto. Solo gradualmente comprese l’enormità del complimento. Io avevo pensato che fosse ovvio. Moltissimi artisti esigono di ricevere complimenti. Quando lei capi, non arrossì e non fece smancerie. Non inclinò la testa e non disse: — Oh, suvvia. — Non disse: — Mi sta adulando. — Non distolse gli occhi.

Annuì lentamente e disse: — Grazie, Charlie. Vale molto di più di tante chiacchiere oziose. — C’era una sfumatura di tristezza nel suo sorriso, come se ci fossimo scambiati una battuta amara.

— Prego.

— Per amor del cielo, Norrey, perché sei così sconvolta?

Il gatto, adesso, aveva mangiato la lingua a Norrey.

— È delusa per colpa mia — commentai. — Ho detto una cosa sbagliata.

— Quale cosa sbagliata?

— Avrei dovuto dire: Miss Drummond, credo che lei dovrebbe rinunciare alla danza.

— Caso mai: Shara, credo che tu dovresti… Che cosa?

— Charlie… — incominciò Norrey.

— Avrei dovuto dirle che non tutti possiamo essere ballerini professionisti. Shara, dovevo dirti di mollare la danza… prima che sia la danza a mollare te.

Spinto dalla necessità di essere onesto con lei, ero stato più brutale di quanto dovessi, pensai. Ma avrei scoperto che la franchezza non sgomentava mai Shara. Lei la esigeva.

— Perché proprio tu? — Fu tutto quel che disse.

— Siamo nella stessa barca, io e te. Abbiamo entrambi un prurito che i nostri corpi non ci permettono di grattare.

I suoi occhi si raddolcirono. — Qual è il tuo prurito?

— È identico al tuo.

— Eh?

— Il tecnico doveva venire a riparare il telefono il giovedì. Io e la mia compagna di stanza, Karen, avevamo una prova che durava tutto il giorno. Lasciammo un biglietto. Signor tecnico dei telefoni, siamo dovuti uscire e non potevamo certo chiamarla, eh, eh. Per favore, si faccia dare la chiave dal portiere ed entri: il telefono è in camera da letto. Il tecnico non si fece vedere. Non si fanno mai vedere. — Mi sembrava che mi tremassero le mani. — Tornammo a casa dalla scala sul retro, dal vicolo. Il telefono non funzionava, ma non pensai di togliere il biglietto appeso alla porta principale. La mattina dopo mi sentii male. Crampi. Vomito. Io e Karen eravamo soltanto buoni amici, ma lei restò a casa per curarmi. Immagino che un venerdì sera un biglietto come quello sembrasse ancora più plausibile. Questo tizio aprì la serratura con un pezzo di plastica, e Karen uscì dalla cucina mentre stava staccando lo stereo. S’infuriò tanto che le sparò. Due colpi. Il chiasso gli mise paura: quando arrivai io, stava già uscendo dalla porta. Ebbe giusto il tempo di spararmi una pallottola nella giuntura dell’anca, e poi scappò. Non lo presero mai. E non vennero mai a riparare il telefono. — Adesso le mani non mi tremavano più. — Karen era una brava ballerina, ma io ero ancora più bravo. Nella mia mente, lo sono ancora.

Shara aveva sgranato gli occhi. — Non sei Charlie… Charles Armstead?

Annuii.

— Oh, mio Dio. Dunque ecco dove sei finito.

Fui scosso dalla sua espressione: mi strappò via dal confine freddo e ventoso dell’autocommiserazione. Incominciai, un po’, a commiserare lei. Avrei dovuto intuire la profondità della sua empatia. E nel senso che contava di più, ci somigliavamo troppo… avevamo in comune lo stesso scherzo amaro. Mi chiesi perché avevo voluto turbarla.

— Non potevano ricostruire l’articolazione? — chiese a voce bassa.

— Posso camminare splendidamente. Se ho un motivo abbastanza forte, posso addirittura correre per brevi distanze. Ma non posso ballare in modo decente.

— E così sei diventato un video-man.

— Tre anni fa. Quelli che conoscono bene il video e la danza, al giorno d’oggi, sono più o meno comuni come i reggicalze. Oh, sì, registrano i balletti fin dagli Anni Settanta… con l’immaginazione di un cameramen del telegiornale. Se filmi una commedia con due telecamere piazzate nella buca dell’orchestra, è un film?

— Tu fai per la danza ciò che la macchina da presa ha fatto per il teatro?

— Un’analogia abbastanza azzeccata. Ma non quadra, nel senso che la danza è più vicina alla musica che al dramma. Non puoi interromperla e ricominciare, o tornare indietro e girare daccapo una scena che non è venuta bene, e neppure invertire i tempi per ottenere un programma di riprese comodo. L’evento si svolge, e tu lo registri. Sono l’equivalente di quello per cui l’industria discografica paga il massimo… una specie di mix-man abbastanza competente per sapere quale strumento suona in modo più fievole al momento e per alzargli il microfono… e con tanto buon senso da aver dato i microfoni migliori ai grossi calibri. Ce ne sono pochissimi, come me. E io sono il migliore.

Shara l’accettò come aveva preso il complimento rivolto a lei… al valore facciale. Di solito, quando dico così, non m’importa niente della reazione o meglio spero che l’ascoltatore si scandalizzi. Ma ero compiaciuto del modo in cui l’aveva accettato: tanto compiaciuto, anzi, da sentirmi turbato. Una vaga irritazione mi fece ridiventare brutale, sebbene sapessi che non sarebbe servito a niente. — E tutto questo porta al fatto che Norrey sperava che ti avrei suggerito una simile forma di sublimazione. Perché nel mondo della danza, sarà più facile che la spunti io, anziché tu.

Lei s’impuntò. — Questo non lo credo, Charlie. So di cosa stai parlando, non sono tanto stupida; ma credo di potercela fare.

— Sicuro. Sei troppo grossa, ragazza mia. Hai due tette che sembrano le due metà di un melone da esposizione, e un didietro che per averlo qualunque attrice di Hollywood si venderebbe i genitori. E nella danza moderna, questo ti spaccia. Ti spaccia. Credi di potercela fare? Ti ci spaccherai la testa, come sto facendo io. Norrey?

— Per l’amor di Dio, Charlie!

Mi raddolcii. Non posso far indispettire Norrey… le voglio troppo bene. — Scusami, tesoro. La gamba mi tormenta e sono arrabbiato. Lei dovrebbe farcela… e non ce la farà. È tua sorella, e quindi la cosa ti rattrista. Bene, io sono un estraneo, e mi fa infuriare.

— E come credete che mi senta io? — scattò Shara, facendoci sussultare tutti e due. Non immaginavo che avesse una voce così potente. — Allora tu vorresti che rinunciassi e prendessi a nolo una telecamera, eh, Charlie? O magari che mi mettessi a vender mele davanti allo studio? — Strinse i denti. — Bene, che tutti gli dei della California meridionale mi maledicano, se smetterò. Dio mi ha dato un formato grande, ma non c’è un chilo di troppo, e mi calza come un guanto e, Cristo, so farlo ballare e ballerò. Forse hai ragione… può darsi che prima mi ci spacchi la testa. Ma ce la farò. — Trasse un profondo respiro. — Adesso, grazie per le gentili intenzioni, Char… Mister Armst… oh, merda. — Le lacrime le riempirono gli occhi e lei scappò via in fretta, rovesciando addosso a Norrey una mezza tazza di caffé freddo.

— Charlie — disse Norrey a denti stretti, — perché mi sei tanto simpatico?

— Le ballerine sono stupide. — Le porsi il mio fazzoletto.

— Oh. — Per un po’, Norrey continuò ad asciugarsi il vestito. — Come mai sono simpatica a te?

— I video-man sono intelligenti.

— Oh.


Passai il pomeriggio nel mio appartamento a rivedere il materiale registrato quella mattina, e più lo guardavo e più mi arrabbiavo.

La danza richiede una motivazione intensa in età tenerissima… una devozione cieca, un investimento puntato sul potenziale non ancora realizzato dell’ereditarietà e dell’alimentazione. Puoi incominciare a studiare danza classica, poniamo, a sei anni… e a quattordici ti ritrovi con le spalle troppo larghe, e tutti quegli anni d’impegno totale sono completamente sprecati. Shara aveva messo gli occhi sulla danza moderna… e troppo tardi aveva scoperto che Dio le aveva dato un corpo di donna.

Non era grassa… l’avete vista, no? Era alta, con l’ossatura robusta, e su quella struttura era costruito un fiorente corpo femminile. Mentre guardavo e riguardavo la registrazione di Nascita, la sofferenza diventò così forte che dimenticai persino il dolore onnipresente alla gamba. Era come osservare un giocatore di pallacanestro straordinariamente dotato ma alto un metro e venti.

Per riuscire nella danza moderna, è indispensabile entrare in una compagnia. Non puoi farti vedere se non sei visibile. Mentre tornavamo allo studio, Norrey mi aveva parlato dei tentativi compiuti da Shara per entrare in una compagnia… e io avrei potuto predire ogni parola.

— L’ha vista ballare Merce Cunningham, Charlie. L’ha vista ballare Martha Graham, poco prima di morire. Grandi lodi, per la sua coreografia non meno che per la sua tecnica. Ma non le hanno offerto un posto in compagnia. Non sono neppure sicura che avessero tutti i torti… credo di capire.

Norrey capiva benissimo. Era il suo difetto moltiplicato per cento: l’unicità. Quando una fa parte d’una compagnia, dev’essere capace di lavorare in modo eccellente come solista… ma deve anche sapersi fondere nell’impegno di gruppo, nel lavoro d’insieme. L’unicità di Shara la rendeva virtualmente inutile in una compagnia. Era inevitabile che attirasse l’occhio.

E quando l’aveva attirato, l’occhio (almeno quello maschile) non si staccava più da lei. Le interpreti della danza moderna, di questi tempi, a volte devono lavorare nude, e quindi devono avere un corpo da ragazza quattordicenne. Possono esserci donne che ballano con poco o niente addosso; ma per Dio, è Arte. Un’attrice, una musicista, una cantante o una pittrice può essere riccamente dotata e deliziosamente tornita… ma una ballerina dev’essere quasi asessuata quanto un’indossatrice d’alta moda. Forse Dio sa perché Shara non avrebbe potuto purificare la sua danza dalla sessualità neppure se avesse pensato di farlo; e mentre la guardavo danzare sul mio monitor e nella mia mente, sapevo che non ci pensava affatto.

Perché il suo genio doveva consistere nell’unica specializzazione, oltre a quelle delle indossatrici e delle suore, in cui essere sexy è uno svantaggio? Mi spezzava il cuore, per analogia empatica.

— È inutile, vero?

Mi voltai e latrai: — Accidenti, mi hai fatto mordere la lingua.

— Scusa. — Lei entrò nel mio soggiorno. — Norrey mi ha detto dove potevo trovarti. La porta era socchiusa.

— Ho dimenticato di chiuderla quando sono tornato a casa.

— La lasci aperta?

— Ho imparato la lezione della storia. Nessun drogato, per quanto sia partito, entrerà in un appartamento con la porta socchiusa e la radio accesa. È evidente che c’è qualcuno in casa. E hai ragione, è proprio inutile. Siediti.

Sedette sul divano. Adesso aveva i capelli sciolti, e così mi piaceva di più. Spensi il monitor ed estrassi il nastro. Lo buttai su uno scaffale.

— Sono venuta a scusarmi. Non avrei dovuto scattare così, a pranzo. Tu stavi cercando d’aiutarmi.

— Era inevitabile. Immagino che a quest’ora ne avrai fin qui.

— Cinque anni. Avevo pensato d’incominciare negli Stati Uniti anziché nel Canada. Per andare più lontano e più in fretta. Adesso sono tornata a Toronto, e non credo che ce la farò neppure qui. Hai ragione. Sono troppo grossa. Le amazzoni non ballano.

— Senti, c’è qualcosa che voglio chiederti. Quell’ultimo gesto, nel finale di Nascita… che cos’era? Mi è sembrato che fosse un gesto di richiamo. Norrey dice che era un addio, e adesso che ho riesaminato il nastro mi sembra un’espressione di nostralgia e di desiderio.

— Allora ha funzionato.

— Prego?

— Mi sembrava che la nascita d’una galassia richiedesse tutti e tre. Sono così vicini, nello spirito, che mi pareva sciocco assegnare a ciascuno un movimento separato.

— Uhm. — Di male in peggio. Supponete che Einstein soffrisse di afasia. — Perché non potevi essere una ballerina mediocre? Sarebbe stata soltanto un’ironia. Quella, — e indicai il nastro, — è una grande tragedia.

— Non avrai intenzione di dirmi che posso continuare a ballare per me stessa?

— No. Per te sarebbe peggio che non ballare affatto.

— Mio Dio, come sei acuto. Oppure è tanto facile capirmi? Alzai le spalle.

— Oh, Charlie — proruppe lei. — Che cosa devo fare?

— È meglio che non lo chieda a me. — La mia voce aveva un tono stano.

— Perché?

— Perché sono già per due terzi innamorato di te. E perché tu non sei innamorta di me e non lo sarai mai. E quindi è il genere di domanda che non devi rivolgermi.

Quelle parole la scossero un po’, ma si riprese prontamente. I suoi occhi si addolcirono. Scosse la testa, adagio. — E sai persino perché non lo sono, vero?

— E perché non lo sarai mai.

Avevo una paura tremenda che stesse per dire: — Charlie, mi dispiace. — Ma mi soprese di nuovo. Disse: — Posso contare sulle dita di un piede il numero di uomini adulti che ho conosciuto. Sono contenta di aver incontrato te. Immagino che le tragedie ironiche arrivino sempre in coppia.

— Qualche volta succede.

— Bene, allora non mi resta altro che cercare di decidere cosa fare della mia vita. Dovrebbe essere sufficiente per far passare il weekend.

— Continuerai le lezioni?

— Tanto vale che lo faccia. Studiare non è mai una perdita di tempo. Norrey m’insegna molte cose.

All’improvviso la mia mente incominciò a bollire. L’uomo è un animale razionale, giusto? Giusto? — E se io avessi un’idea migliore?

— Se hai un’altra idea, è migliore senz’altro. Parla.

— È necessario che tu abbia un pubblico? Voglio dire, dev’essere dal vivo?

— Come sarebbe?

— Forse c’è un modo per rientrare dalla finestra. I videoregistratori s’incominciano a vendere bene… quando la gente ha capito che poteva collezionare vecchi film e cose del genere come prima collezionava i dischi, è stato solo questione di renderlo abbastanza economico. E quasi ci siamo… sai, il TDT sta pensando di entrare nel mercato, e la compagnia Graham l’ha già fatto.

— Quindi?

— Quindi, supponiamo che incominciassimo una produzione indipendente, io e te. Tu balli e io registro: una onesta proposta d’affari. Ho qualche amicizia e forse potrò combinare qualcosa. Potrei citarti dieci complessi che sono nel giro della musica e non fanno mai una tournée… registrano e registrano e bastano. Perché non tagli fuori la struttura delle compagnie di danza e non ti rivolgi direttamente al pubblico? Forse così…

Il suo viso stava incominciando a illuminarsi. — Charlie, credi che funzionerebbe? Lo credi davvero?…

— Non credo che abbia la possibilità di ottenere un effetto valanga. — Attraversai il soggiorno, aprii il frigo della birra, tirai fuori la palla di neve che tengo lì dentro durante l’estate, e gliela lanciai. L’afferrò al volo, appena appena, e quando vide che cos’era scoppiò a ridere. — Ho solo abbastanza fiducia nell’idea per lasciare il TDT e occuparmene a tempo pieno. Investirò il mio tempo, i miei nastri, il mio equipaggiamento e i miei risparmi. E avanti.

Lei cercò di ritornare seria, ma la palla di neve le gelava le dita e scoppiò a ridere di nuovo. — Una palla di neve a luglio. Che matto! Conta su di me. Ho un po’ di denaro da parte. E… e credo di non avere molte possibilità di scelta, vero?

— Credo di no.


I tre anni che seguirono furono i più esaltanti della mia vita, delle nostre due vita. Mentre io guardavo e registravo, Shara si trasformava: la ballerina potenzialmente grande diventò qualcosa di veramente sensazionale. Fece qualcosa che non sono sicuro di poter spiegare.

Diventò, per la danza, quello che il jazzista è per la musica.

La danza, per Shara, era l’auto-espressione, pura e semplice, sempre. Appena rinunciò al tentativo d’inserirsi nel mondo delle compagnie di danza, prese a considerare la coreografia in se stessa come un ostacolo alla sua autoespressione, come solco pre-programmato, inesorabile come un copione e altrettanto limitativo. E quindi lo svalutò.

Un jazzista può suonare Night in Tunisia per dodici serate consecutive, e ogni sera sarà un’esperienza diversa, dato che interpreta e reinterpreta la melodia secondo lo stato d’animo del momento. È l’unità totale dell’artista e della sua arte: la creazione spontanea. Il punto di partenza melodico distingue il risultato dall’anarchia pura.

E proprio in questo modo Shara ridusse la coreografia prestabilita a un punto di partenza, una base sulla quale costruire ciò che richiedeva il momento, per poi improvvisare. In quei tre anni attivissimi imparò a smantellare l’interfaccia tra se stessa e la sua danza. I ballerini hanno sempre avuto la tendenza a disprezzare la danza improvvisata, persino quando la praticano, nello studio, perché conferisce scioltezza. Non capivano che l’improvvisazione pianificata, l’improvvisazione intorno a un tema profondamente pensato in anticipo, era il nuovo, naturale passo avanti nella danza. Shara compì quel passo avanti. È necessario essere molto, molto bravi per cavarsela con una simile libertà. Lei lo era.

È inutile che riferisca dettagliatamente le nostre fortune professionali di quei tre anni. Lavoravamo con impegno, realizzavamo alcune registrazioni magnifiche, e non riuscivamo a venderle neppure come fermacarte. S’era effettivamente formata un’industria per la produzione delle videocassette… ma quelli conoscevano la danza moderna più o meno quanto l’industria discografica conosceva i blues, al suo inizio. Le grosse organizzazioni pretendevano credenziali, e quelle piccole volevano talento a poco prezzo. Finalmente, per disperazione, ci rivolgemmo alle organizzazioni piccolissime… e scoprimmo quello che sapevamo già. Non avevano la distribuzione, non avevano il prestigio né i requisiti tecnici perché i critici le degnassero della loro attenzione. La pubblicità «a voce» è come il pool genico… se non è di una grandezza sufficiente per incominciare, non approda a niente. «Spider» John Koerner è un musicista e compositore di canzoni incredibilmente dotato che dal 1972 incide e vende i propri dischi. Quanti di voi lo hanno sentito nominare?

Nel maggio del 1987 aprii la mia cassetta della posta nell’atrio, e trovai una lettera della Visu Ent Inc. che mettava fine alla nostra opzione con infinito rammarico e senza risarcimento. Andai subito all’appartamento di Shara, ed ebbi la sensazione che il midollo della mia gamba fosse stato sostituito con la termite incendiata. Fu una camminata lunghissima.

Quando arrivai, lei stava lavorando a Peso è un verbo. Trasformare in studio il suo grande soggiorno era costato tempo, energia, ingegno, e una bella somma per far star buono il padrone di casa, ma costava sempre meno che affittare uno studio vero, considerando gli scenari che volevamo noi. Quel giorno sembrava alta montagna, e quando entrai appesi il cappello a un falso ontano.

Shara mi lanciò un sorriso e continuò a muoversi, spiccando balzi sempre più alti. Sembrava la più bella capra di montagna che avessi mai visto. Io ero di pessimo umore e volevo spegnere la musica (McLaughlin e Miles insieme, e anche loro spiccavano balzi notevoli), ma non sarei mai stato capace d’interrompere Shara quando ballava. Costruiva la sua danza gradualmente, con un contrappunto direzionale, fino a che sembrava lanciarsi nell’aria, restarci fino a quando era pronta, e poi lanciarsi di nuovo giù. Qualche volta rotolava, quando toccava il pavimento, e qualche volta atterrava sulle mani, e ogni volta l’energia della caduta si trasformava in qualcosa, anziché venire assorbita. Era un output d’energia totale; e quando lei ebbe finito, io mi ero calmato abbastanza per prendermela quasi con filosofia per la nostra comune rovina professionale.

Lei finì accasciata su se stessa, con la testa china, squisitamente umiliata nel tentativo di sfidare la gravità. Non potei fare a meno di applaudirla.

Era banale, ma non seppi trattenermi.

— Grazie, Charlie.

— Che mi venga un colpo. Il peso è un verbo. Pensavo che fossi matta quando mi hai detto il titolo.

— È uno dei verbi più forti della danza… e puoi usarlo per fare qualunque cosa.

— O quasi.

— Eh?

— La Visu Ent ha sciolto il nostro contratto.

— Oh. — Nei suoi occhi non si vedeva nulla, ma io sapevo che cosa pensava. — Bene, qual è il prossimo nell’elenco?

— Non c’è più nessuno.

Oh. — Questa volta si vedeva. — Oh.

— Avremmo dovuto ricordarlo. I grandi artisti non vengono mai apprezzati in vita. Avremmo dovuto crepare… allora sarebbe andato tutto bene.

A modo mio cercavo di essere forte per lei, e lei lo capiva e cercava d’essere forte per me.

— Forse dovremmo occuparci di assicurazioni sulla morte per gli artisti — disse. — Paghiamo al cliente un premio in cambio del controllo della maggioranza della sua futura eredità, e poi facciamo in modo che muoia.

— Sarebbe infallibile. E se diventasse famoso in vita, potrebbe riscattare la polizza.

— Grandioso. Smettiamola prima che io muoia dal ridere.

— Già.

Restò in silenzio a lungo. La mia mente funzionava con efficienza, ma sembrava che la trasmissione fosse saltata… non concludeva niente. Alla fine lei si alzò e spense il registratore che aveva continuato a gemere in sordina da quando era finita la musica. Si sentì un clic.

— Norrey ha un po’ di terra nell’Isola Prince Edward — disse lei, evitando di guardarmi negli occhi. — C’è una casa.

Cercai di distrarla con la battuta finale della vecchia barzelletta sul ragazzo che pulisce la gabbia degli elefanti nel circo, quando il padre gli propone di riprenderselo e gli offre un buon lavoro. — Cosa? Abbandonare il mondo dello spettacolo?

— Al diavolo il mondo dello spettacolo — disse lei sottovoce. — Se andassi all’isola adesso, forse riuscirei a ripulire la terra e ad ararla in tempo per piantare un orto. — Poi cambiò espressione. — E tu?

— Io? Me la caverò benissimo. Il TDT mi ha invitato a tornare.

— Ma è stato sei mesi fa.

— Me l’hanno chiesto di nuovo. La settimana scorsa.

— E tu hai detto di no. Idiota.

— Può darsi, può darsi.

— È tutto tempo perso. Tutto quel tempo. Tutta quell’energia. Tutto quel lavoro. Sarebbe stato meglio che fossi andata a coltivare la terra all’isola. A quest’ora, almeno, avrebbe incominciato a rendere. Che spreco, Charlie, che spreco schifoso.

— No, non credo, Shara. Ti sembrerà una frase fatta dire niente è sprecato, ma… ecco, è come la danza che hai appena eseguito. Forse non puoi vincere la gravità… ma sicuramente tentare è molto bello.

— Già, lo so. Ricorda la Brigata Leggera a Balaclava. Ricorda Alamo. Anche quelli tentarono. — Rise, una risata amara.

— Sì, e anche Gesù di Nazareth. L’hai fatto per il ricavo materiale o perché sentivi che era necessario? Se non altro, abbiamo registrato centinaia e centinaia di metri delle danze più belle: valore commerciale zero, valore reale incalcolabile, e per me non è uno spreco. Adesso è finita, e tutti e due faremo qualcosa d’altro, ma non è stato uno spreco. — Scoprii che stavo gridando, e m’interruppi.

Lei chiuse la bocca. Dopo un po’ cercò di sorridere. — Hai ragione, Charlie. Non è stato uno spreco. Adesso sono una ballerina molto migliore di prima.

— Verissimo. Hai trasceso la coreografia.

Shara sorrise malinconicamente. — Sì. E persino Norrey pensa che sia un vicolo cieco.

Non è un vicolo cieco. La poesia non è soltanto haiku e sonetti. Non è necessario che i ballerini siano robot che recitano con il loro corpo le battute imparate a memoria.

— Lo fanno, invece, se vogliono guadagnarsi da vivere.

— Ritenteremo fra qualche anno. Forse allora il pubblico sarà pronto.

— Sicuro. Aspetta, preparo qualcosa da bere.

Quella notte dormii con lei, per la prima e l’ultima volta. La mattina dopo smontai la scena in soggiorno mentre lei faceva i bagagli. Promisi di scriverle. Promisi che sarei andato a trovarla appena avessi potuto. Portai le sue valigie alla macchina e le caricai a bordo. La baciai e mi sbracciai per salutarla. Andai in cerca di qualcosa da bere, e l’indomani mattina alle quattro un rapinatore pensò che dovevo essere abbastanza ubriaco, e gli spaccai la mascella, il naso e due costole, poi mi sedetti addosso a lui e piansi. Il lunedì mattina mi presentai allo studio con il cappello in mano e la bocca che sembrava il portacenere d’una stazione d’autobus e riebbi il mio vecchio lavoro. Norrey non fece domande. Con i prezzi degli alimentari che salivano, rinunciai a nutrirmi d’altro che di bourbon, e meno di sei mesi dopo fui licenziato. M’impantanavo sempre dopo «Carissima Shara…»

Quando mi ridussi al punto di vendere la mia attrezzatura video per pagarmi da bere, un relay scattò da qualche parte e cominciai a riflettere. Quella roba era tutta la vita che avevo lasciato, e perciò anziché andare al banco dei pegni andai alla sede locale degli Alcolisti Anonimi e ridiventai sobrio. Dopo un po’ la mia anima s’intorpidì, e io smisi di rabbrividire quando mi svegliavo. Cento volte incominciai a cancellare i nastri di Shara che avevo ancora (lei aveva le sue copie); ma non ne ero capace. Ogni tanto mi domandavo cosa stava facendo lei, e non sopportavo l’idea di scoprirlo. Se Norrey aveva sue notizie, a me non diceva niente. Cercò persino di farmi riavere il mio posto per la terza volta, ma non ci fu niente da fare. La reputazione può essere una cosa tremenda, una volta che te la sei rovinata. Fu una fortuna, per me, riuscire a trovare un lavoro presso una stazione educativa TV a New Brunswick.

Furono due anni molto lunghi.

Prima del 1990 incominciarono a diffondersi i videotelefoni, e io ne avevo congegnato uno all’insaputa e senza il consenso della società dei telefoni, che continuavo a odiare più di qualunque altra cosa al mondo. Quando la piccola spia luminosa che avevo sostituito alla soneria incominciò a lampeggiare una sera di giugno, misi il ricevitore sul pickup audio ed energizzai il tubo catodico, nell’eventualità che anche chi chiamava avesse il video. — Pronto?

Aveva il video. Quando apparve la faccia di Shara, sentii un nodo freddo di paura alla bocca dello stomaco, perché avevo smesso di vedere dappertutto la sua faccia quando avevo smesso di bere, e ultimamente avevo pensato di ricominciare. Quando battei le palpebre e lei non sparì, mi sentii un po’ meglio e cercai di parlare. Fu inutile.

— Ciao, Charlie. È passato tanto tempo.

La seconda volta riuscii a parlare. — Mi sembra ieri. L’ieri di qualcun altro.

— Sì, è vero. Ho impiegato giorni e giorni per trovarti. Norrey è a Parigi e nessun altro sapeva dov’eri andato.

— Già. Come va l’agricoltura?

— Io… ci ho rinunciato, Charlie. È anche più creativa della danza, ma non è la stessa cosa.

— Allora che cosa fai?

— Lavoro.

Balli?

— Sì. Charlie, ho bisogno di te. Voglio dire, ho bisogno di te. Ho bisogno delle tue telecamere e del tuo occhio.

— Lascia stare le precisazioni. Basta che abbia bisogno di me. Dove sei? Qual è il primo aereo per raggiungerti? Che telecamere devo portare?

— New York, fra un’ora, e nessuna. Non intendevo «le tue telecamere» alla lettera… a meno che adesso tu usi le GLX-5000 e un’Hamilton Board.

Fischiai. Mi fece male la bocca. — Non posso permettermelo. E del resto sono un tipo all’antica. Le telecamere mi piace tenerle in mano.

— Per questo lavoro userai un’Hamilton, e sarà una Masterchrome a venti input nuova di zecca.

— Ci coltivavi papaveri da oppio, in quella fattoria? O semplicemente hai trovato un filone di diamanti mentre aravi il campo?

— Verrai pagato da Bryce Carrington.

Io sbattei gli occhi.

— Allora, prenderai l’aereo, così potrò raccontarti tutto? Al New Age. Chiedi dell’appartamento presidenziale.

— Al diavolo l’aereo. Verrò a piedi. Farò prima. — Riattaccai.

Secondo la rivista Time che avevo letto nell’anticamera del mio dentista, Bryce Carrington era il genio che era diventato multimilionario in dollari convincendo parecchi colossi dell’industria a finanziare lo Skyfac, il grande complesso orbitante che aveva sfondato nel mercato dei cristalli. Se non ricordavo male, una rara malattia simile alla polio gli aveva immobilizzato le gambe inchiodandolo su una poltrona a rotelle. Ma le sue gambe avevano perduto le forze, non la funzione… nella gravità ridotta, andavano abbastanza bene. Perciò aveva creato le Skyfac, inviando squadre di minatori sulla Luna per rifornirlo di materie prime a poco prezzo, e viveva in orbita a gravità ridotta. In fotografia sembrava un autore d’un certo successo. A parte questo, di lui non sapevo niente. Prestavo poca attenzione alle notizie, soprattutto a quelle spaziali.

A quei tempi il New Age era l’albergo più alla moda di New York. Era stato costruito sulle rovine dello Sheraton. Sicurezza ultraefficiente, vetri antiproiettile, moquette morbidissime, e un atrio di una linea architettonica che una volta John D. MacDonald aveva chiamato «Dentiera Primitiva». Puzzava di quattrini. Ero contento di aver fatto lo sforzo di trovare una cravatta, e rimpiangevo di non essermi lucidato le scarpe. Quando entrai passando dalla camera di compensazione, un uomo incredibile mi bloccò la strada. Sembrava il buttafuori da night più svelto e più duro che avessi mai visto, e si comportava come se fosse il maggiordomo del Padreterno. Disse che si chiamava Perry e mi chiese se poteva aiutarmi… lo chiese come se non lo pensasse affatto.

— Sì, Perry. Le dispiacerebbe alzare un piede?

— Perché?

— Scommetto venti dollari che si è lucidato anche le suole. Sorrise a mezza bocca e non si spostò d’un centimetro. — Chi desidera vedere?

— Shara Drummond.

— Non è registrata.

— Appartamento presidenziale.

— Oh. — Perry capì. — L’amica di Mr. Carrington. Avrebbe dovuto dirmelo. Aspetti qui, prego. — Mentre telefonava per assicurarsi che ero atteso, e teneva gli occhi su di me e una mano vicino alla tasca,io trangugiai il cuore che mi era balzato in gola e cambiai espressione. Ci volle un po’. Dunque era così. Bene. Era così e basta.

Perry tornò e mi consegnò la piccola trasmittente a distintivo che mi avrebbe permesso di percorrere i corridoi del New Age senza venir falciato dal fuoco laser automatico e mi spiegò meticolosamente che sarei scoppiato se avessi cercato di uscire dall’albergo senza restituirlo. Dal suo modo di fare, capii che ai suoi occhi avevo saltato d’un colpo quattro gradini della scala sociale. Lo ringraziai, anche se non sapevo proprio perché.

Seguii le frecce verdi fluorescenti che apparivano sul soffitto privo di lampadine, e dopo una lunga passeggiata panoramica arrivai all’appartamento presidenziale. Shara mi aspettava sulla porta, e indossava qualcosa che sembrava il pigiama di un angelo. Faceva sembrare delicata la sua figura imponente. — Ciao, Charlie.

Io mi mostrai gioviale ed allegro. — Salve, pupa. Che bel posticino.

— Entra, Charlie.

Entrai. Era un appartamento dove la regina avrebbe potuto alloggiare con sua piena soddisfazione quando fosse venuta in città. Avreste potuto far atterrare un aereo nel soggiorno senza svegliare nessuno in stanza da letto. C’erano due pianoforti, ma un solo camino, e grande appena appena per arrostirci un bisonte… immagino che dovessero risparmiare un po’ sullo spazio. C’era Roger Kellaway al quadio, e per un momento pensai che fosse davvero nell’appartamento e stesse suonando un terzo pianoforte invisibile. Dunque era così.

— Posso offrirti qualcosa, Charlie?

— Oh, sicuro. Olio d’hashish, Tangier Supreme. E Dom Perignon per riempire la pipa.

Senza neppure sorridere Shara andò a uno stipo che sembrava una cattedrale lillipuziana, e tirò fuori esattamente ciò che avevo chiesto. Io restai impassibile e accesi. Le bollicine mi facevano solletico nella gola, e l’hashish era squisito. Incominciai a rilassarmi, e quando ci fummo passati il bocchino del narghilé per diverse volte, sentii che si rilassava anche lei. Allora ci guardammo, ci guardammo veramente, voglio dire, poi ci guardammo intorno e tornammo a guardarci. Scoppiammo a ridere simultaneamente, una risata che gettava fuori dalla stanza tutta la ricchezza e ne faceva entrare un’altra, di quelle che non sono costituite dai dollari. La sua risata era la stessa che ricordavo così bene, viscerale e fragorosa, libera e sfrenata; mi rassicurò immensamente. Ero così sollevato che non riuscivo a smettere di ridere, e questo faceva ridere lei; e ogni volta che stavamo per smettere Shara sporgeva le labbra e scoppiava in una specie di arpeggio balbettante d’ilarità. C’è un vecchio disco, Spike Jones Laughing Record, dove il suonatore di tuba cerca di suonare «Il volo del calabrone», e scoppia a ridere, e tutta l’orchestra crolla e sghignazza per due minuti buoni, e ogni volta che gli orchestrali restano senza fiato il suonatore di tuba tenta di ricominciare e quelli giù a ridere di nuovo; e una volta, quando Shara era giù di corda, avevo scommesso con lei dieci dollari che non sarebbe stata capace di ascoltare quel disco senza ridere e avevo vinto. Quando capii, adesso, che lo stava ricordando, rabbrividii e scoppiai in altre risate fragorose, e dopo un minuto arrivammo letteralmente al punto di cadere dalle poltroncine e di finire sul pavimento, sopraffatti dall’ilarità, a battere fiaccamente i pugni e a sghignazzare. Ogni tanto, tiro fuori quelle risate dalla mia memoria e le riascolto… ma non molto spesso, perché sono registrazioni che si rovinano in fretta.

Alla fine ripiegammo su grandi sorrisi ansanti, e io l’aiutai a rialzarsi in piedi.

— Che posto orribile — dissi, ridacchiando ancora.

Lei si guardò intorno e rabbrividì. — Oh, Dio, è vero, Charlie. Dev’essere spaventoso, aver bisogno di una facciata del genere.

— Per un momento ho pensato che ne avessi bisogno tu.

Shara ridiventò seria e mi guardò negli occhi. — Charlie, vorrei essere capace di offendermi di quel che hai detto. In un certo senso ne ho bisogno.

Socchiusi le palpebre. — Cosa vorresti dire?

— Ho bisogno di Bryce Carrington.

— Questa volta puoi aggiungere le precisazioni. In che senso hai bisogno di lui?

— Ho bisogno del suo denaro — gridò lei.

Com’è possibile essere rilassati e tesi nello stesso istante? — Oh, accidenti, Shara! È così che otterrai di ballare? È il modo per pagarti un biglietto d’accesso? Quanto pretendono i critici, di questi tempi?

— Charlie, smettila. Ho bisogno di Carrington per farmi vedere. Mi affitterà una sala, ecco tutto.

— Se è tutto qui, usciamo subito da questa topaia. Posso farmi prest… posso disporre del denaro sufficiente per affittarti qualunque sala del mondo, e sono dispostissimo a rischiare.

— Puoi procurarmi le Skyfac?

Uh?

Non riuscivo assolutamente a immaginare perché si proponesse di andare a ballare allo Skyfac. Perché non nell’Antartide, allora?

— Shara, dello spazio ne sai anche meno di me, ma dovresti sapere che non è necessario che una trasmissione via satellite venga realizzata su un satellite.

— Idiota. È l’ambiente che mi serve.

Ci pensai sopra. — La Luna sarebbe meglio, visualmente. Le montagne. La luce. Il contrasto.

— L’aspetto visuale è secondario. Non voglio una gravità d’un sesto, Charlie. Voglio la gravità zero.

La guardai a bocca aperta.

— E voglio che tu sia il mio video-man.

Dio, era incredibile. Sentivo il bisogno di restare cosi a bocca aperta e di riflettere per parecchi minuti. Lei mi lasciò fare, e aspettò pazientemente che avessi finito.

— Il peso non è più un verbo, Charlie — mi disse poi. — Quella danza si concludeva con l’affermazione che non si può vincere la gravità… lo dicesti tu stesso. Bene, quell’affermazione è inesatta… superata. La danza del ventunesimo secolo dovrà prenderne atto.

— Ed è appunto ciò che ti occorre per farcela. Un nuovo tipo di danza per una ballerina di tipo nuovo. Unico. Colpirà il pubblico, e tu dovresti avere per anni l’intero campo tutto per te. Mi piace, Shara. Mi piace. Ma potrai farcela?

— Ho pensato a quel che dicesti tu: non puoi battere la forza di gravità, ma è bello tentare. Mi è rimasto nella mente per mesi, e poi un giorno sono andata a trovare un vicino che aveva la TV e ho visto un servizio su una squadra al lavoro allo Skyfac Due. Sono rimasta sveglia tutta la notte a pensarci, e l’indomani mattina sono venuta negli Stati Uniti e ho trovato un posto allo Skyfac Uno. Sono stata lassù per quasi un anno, per avvicinarmi a Carrington. Posso farcela, Charlie, posso farcela. — Aveva stretto i denti in un modo che avevo visto già una volta… quella volta che mi aveva risposto male a Le Maintenant. Era un segno di decisione incrollabile.

Comunque, io aggrottai la fronte. — Con l’appoggio di Carrington. Shara distolse gli occhi. — I pranzi gratis non esistono…

— Lui quanto si fa pagare?

Rimase zitta abbastanza a lungo perché quel silenzio fosse una risposta. In quel momento ricominciai a credere in Dio per la prima volta dopo tanti anni, solo per poterlo odiare.

Però tenni la bocca chiusa. Lei era abbastanza grande per amministrare da sola le sue finanze. Il prezzo d’un sogno continua a salire ogni anno. Diavolo, me l’ero quasi aspettato fin dal momento che mi aveva chiamato.

Ma solo quasi.

— Charlie, non startene lì con quella faccia contratta. Di’ qualcosa. Urla, dammi della puttana, qualcosa.

— Sciocchezze. Non sono la tua coscienza: faccio già fatica ad essere la mia. Vuoi ballare, hai uno sponsor. E adesso hai un video-man.

Quell’ultima frase non avevo nessuna intenzione di dirla.

Stranamente, all’inizio sembrò quasi che la deludesse. Ma poi si rilassò e sorrise. — Grazie, Charlie. Puoi liberarti subito di quello che stai facendo?

— Lavoro per una stazione TV educativa di Shediac. Ho persino dovuto registrare un servizio sulla danza. Un orso ballerino dello Zoo di Londra. La cosa sorprendente è che ballava bene. — Shara sorrise. — Posso liberarmi.

— Benissimo. Non credo che potrei farcela senza il tuo aiuto.

— Ma lavorerò per te. Non per Carrington.

— D’accordo.

— Dov’è il grand’uomo, comunque? A fare il sommozzatore nella vasca da bagno?

— No — disse una voce tranquilla, dalla porta. — Ero a fare i lanci col paracadute nell’atrio.

La poltrona a rotelle era un trono mobile. Lui aveva addosso un abito da quattrocento dollari color gelato alla fragola, un maglione azzurro-polvere e un orecchino d’oro. Le scarpe erano di vero cuoio. L’orologio era quel modello nuovo senza cinturino che ti dice l’ora, letteralmente. Non era abbastanza alto per Shara e aveva le spalle assurdamente larghe, sebbene il vestito cercasse di nascondere l’uno e l’altro. Gli occhi sembravano due mirtilli. Il sorriso era quello d’uno squalo che si chiede quale parte sarà più saporita. Avrei voluto schiacciargli la testa fra due macigni.

Shara si alzò. — Bryce, questo è Charles Armstead. Ti ho detto…

— Oh, sì. Quello del video. — Lui avanzò con la poltrona a rotelle e mi porse una mano curatissima. — Sono Bryce Carrington, Armstead.

Io rimasi seduto, con le mani sulle ginocchia. — Oh, sì. Quello ricco.

Alzò educamente un sopracciglio. — Ah, un altro tipo maleducato.

Bene, se è bravo quanto dice Shara, ha il diritto di esserlo.

— Sono un cane.

Il sorriso sparì. — Finiamola con queste schermaglie, Armstead. Non pretendo belle maniere dalla gente creativa, ma se è necessario ho una riserva di disprezzo più significativa della sua. Ora sono stanco di questa maledetta gravità e ho passato una giornata faticosa testimoniando per un amico, e a quanto sembra hanno intenzione di richiamarmi anche domani. Vuole questo lavoro o no?

Mi aveva messo con le spalle al muro. Lo volevo. — Già.

— Allora d’accordo. La sua stanza è la 2772. Fra due giorni torneremo allo Skyfac. Si trovi qui alle otto del mattino.

— Avrò bisogno di parlarti del materiale che ti servirà, Charlie — disse Shara. — Chiamami domani.

Mi girai di scatto verso di lei, e Shara evitò il mio sguardo.

Carrington non se ne accorse. — Sì, prepari un elenco di tutto il materiale che le occorre, prima di domani, così lo porteremo con noi. Non badi a spese… Se non chiede qualcosa, dovrà farne a meno. Buonanotte, Armstead.

Mi voltai verso di lui. — Buonanotte, Mr. Carrington. — Signore.

Carrington guardò il narghilé e Shara si affrettò a riempirlo di nuovo. Girai sui tacchi e mi avviai alla porta. La gamba mi faceva tanto male che per poco non caddi, ma strinsi i denti e ce la feci. Quando arrivai alla porta, dissi a me stesso: adesso l’aprirai e uscirai, e invece girai di nuovo sui tacchi. — Carrington!

Sbatté le palpebre, sorpreso di scoprire che esistevo ancora. — Sì?

— Si rende conto che Shara non l’ama affatto? Non le importa niente? — Avevo alzato la voce e senza dubbio stringevo i pugni.

— Oh — disse lui, e poi ripeté: — Oh. Dunque è così. Immaginavo che il successo, da solo, non bastasse a spiegare tanto disprezzo. — Posò il bocchino del narghilé e intrecciò le dita. — Mi permetta di dirle una cosa, Armstead. Nessuno mi ha mai amato, che io sappia. Questo appartamento non mi ama. — Per la prima volta la sua voce assunse un tono umano. — Ma è mio. Ora se ne vada.

Aprii la bocca per dirgli cosa poteva farsene del lavoro che mi era stato offerto, ma poi vidi la faccia di Shara e la sua espressione addolorata mi riempì di vergogna. Me ne andai subito e quando la porta si chiuse dietro di me vomitai su un tappeto che valeva poco meno di un’Hamilton Masterchrome Board. Mi pentii di aver messo la cravatta.


Il viaggio fino al Pike’s Peak Spaceport, almeno, fu esteticamente piacevole. Mi piace viaggiare in aereo, scivolare tra le nubi maestose, guardare la processione ondulata delle montagne e delle pianure con il mosaico dei campi e dei sobborghi che si rivela sotto di me.

Ma il tragitto fino allo Skyfac a bordo dello shuttle personale di Car-rington, That First Step, sembrava una replica di un vecchio telefilm dei Commandos Spaziali. Lo so che non possono mettere oblò nelle navi spaziali… ma accidenti, un televisore a circuito chiuso non offre risoluzione, valori cromatici e presenza più della TV di casa vostra. Le uniche differenze sono che le stelle non si «muovono» per dare l’illusione del viaggio, e non c’è un regista che effettui il montaggio della registrazione per offrire scene sensazionali.

Esteticamente parlando. La differenza esperienziale è che quando guardate i Commandos Spaziali non vi vendono rimedi contro le emorroidi, non vi legano a un divano, non vi aggrediscono con i tuoni, non vi fanno pesare più di mezza tonnellata per un tempo irragionevolmente lungo e poi non vi lanciano dall’orlo del mondo in condizioni d’imponderabilità. Io quasi mi aspettavo la nausea, ma quello che venne fu ancora più sconvolgente: l’improvvisa, inattesa, totale assenza di dolore alla gamba. In quanto a questo, Shara stava peggio di me: riuscì appena in tempo ad aprire il sacchetto per vomitarci dentro. Carrington si slegò e le fece un’iniezione antinausea con movimenti sicuri. Sembrò passare un’eternità prima che le facesse effetto; ma quando lo fece il cambiamento fu enorme… il colore e la forza ritornarono rapidamente, e Shara si era ripresa completamente quando il pilota annunciò che stavamo per attraccare e pregò tutti di allacciare le cinture di sicurezza e di star zitti. Quasi mi aspettavo che Carrington latrasse per ricordargli le buone maniere, ma evidentemente il magnate non era tanto stupido. Stette zitto e si legò.

La gamba non mi faceva male. Neppure un po’.

Il complesso Skyfac sembrava un mucchio disordinato di pneumatici per bicicletta e di palloni da spiaggia di varie grandezze. Quello verso cui si diresse il nostro pilota era piuttosto una gomma per trattori. Abbinammo la rotta, diventammo il suo assale e appaiammo la rotazione, e quel coso maledetto estromise una specie di tubo che ci prese direttamente nella camera di compensazione. La camera era «sopra» i nostri divani, ma vi entrammo e ne uscimmo con i piedi in avanti. Dopo qualche metro all’interno del tubo, la direzione in cui ci muovevamo divenne «giù», e le maniglie divennero una scaletta. Il peso aumentava ad ogni passo; ma anche quando arrivammo in un compartimento cubico piuttosto grande, rimase molto inferiore a quella normale della Terra. La mia gamba, comunque, ricominciò a darmi fastidio.

La camera cercava d’essere una sala da ricevimento di tipo classico (— Si accomodi, prego. Sua Maestà la vedrà tra poco. —) ma la bassa gravità e le tute pressurizzate appese lungo due pareti rovinavano l’effetto. Diversamente dalle armature dei Commandos Spaziali, una vera tuta pressurizzata sembra un sacco di forma umana e, vuota, ha un’aria particolarmente comica. Un giovane bruno in tweed si alzò da una scrivania attrezzatissima e sorrise. — È un piacere rivederla, Mr. Carrington. Spero che abbia fatto buon viaggio.

— Ottimo, Tom. Ricorda Shara, naturalmente. Questo è Charles Armstead. Tom McGillicuddy. — Tutti e due mostrammo i denti e dicemmo che eravamo lieti di far conoscenza. Ma capivo che, nonostante i convenevoli, McGillicuddy era agitato.

— Nils e Mr. Longmire la stanno aspettando nel suo ufficio, signore. C’è… c’è stato un altro avvistamento.

Maledizione — cominciò Carrington, e s’interruppe. Lo fissai. Tutta la forza del mio sarcasmo migliore non era riuscita a farlo infuriare. — Sta bene. Si occupi dei miei ospiti mentre vado a sentire cos’ha da dirmi Longmire. — Si avviò verso la porta, muovendosi come un pallone da spiaggia al rallentatore, ma con le sue gambe. — Oh, sì… lo Step è carico di materiale ingombrante, Tom. Lo faccia portare alle rimesse, e faccia mettere l’equipaggiamento nel Magazzino Sei. — Se ne andò. Sembrava preoccupato. McGillicuddy mise in funzione la scrivania e diede gli ordini necessari.

— Cosa sta succedendo, Tom? — chiese Shara quando lui ebbe finito.

Lui mi guardò, prima di rispondere. — Scusi la domanda, Mr. Armstead, ma… lei è giornalista?

— Charlie. No, non lo sono. Sono un video-man, ma lavoro per Shara.

— Mmmm. Be’, verrà a saperlo comunque, prima o poi. Un paio di settimane fa, sul radar è apparso un oggetto all’interno dell’orbita di Nettuno. Come se fosse apparso dal nulla. C’erano… certe altre anomalie. È rimasto fermo per mezza giornata e poi è sparito di nuovo. Il Comando Spaziale ha imposto il segreto, ma sullo Skyfac lo sanno tutti.

— E l’oggetto è stato avvistato di nuovo? — chiese Shara.

— Appena al di là dell’orbita di Giove.

Il mio interesse era molto relativo. Senza dubbio il fenomeno aveva una spiegazione, e dato che non avevo a portata di mano Isaac Asimov, senza dubbio non ne avrei capito neppure una parola. In maggioranza avevamo rinunciato a credere agli esseri intelligenti non umani quando era ritornata a mani vuote l’ultima sonda intersistema. — Gli ometti verdi, immagino. Può mostrarci il Salone, Tom? Mi sembra di aver capito che è identico a quello dove lavoreremo.

McGillicuddy sembrava soddisfatto di poter cambiare discorso. — Sicuro.

Ci fece passare da una porta pressurizzata di fronte a quella da cui era uscito Carrington, e per lunghi corridoi con il pavimento che saliva incurvandosi davanti a noi e dietro di noi. Ognuno era attrezzato in modo diverso, ognuno era pieno di gente indaffarata, e ognuno mi ricordava un po’ l’atrio del New Age, o forse il vecchio film 2001. Opulenza Futuribile, così discreta che quasi urlava. Wall Street portata in orbita… e gli orologi, infatti, segnavano l’ora di Wall Street. Cercavo di convincermi che lo spazio freddo e vuoto era a pochissima distanza in ogni direzione, ma era impossibile. Pensai che era un bene che le navi spaziali non avessero oblò… quando si abituava alla bassa gravità, un uomo avrebbe potuto dimenticare e aprirne uno per buttar via un sigaro.

Studiai McGillicuddy, mentre camminavamo. Era immacolato sotto ogni punto di vista, dalla cravatta alle unghie smaltate, e non portava gioielli. I capelli erano corti e neri, la barba inibita, e gli occhi sorprendentemente calorosi in una faccia professionalmente asettica. Mi chiedevo per quanto aveva venduto l’anima. Mi auguravo che avesse spuntato il prezzo richiesto.

Dovemmo scendere due livelli per raggiungere il Salone. La gravità al livello superiore veniva mantenuta a un sesto del normale, un po’ per comodità del personale lunare che faceva regolarmente la spola, e soprattutto (ovviamente) per comodità di Carrington. Ma la discesa portò un sottile aumento del peso, fin quasi a un quarto del normale. La mia gamba protestava rabbiosamente, ma scoprii, con mia sorpresa, che preferivo il dolore alla sua assenza. Fa un po’ paura, quando un vecchio amico vi abbandona così.

Il Salone era molto più grande di quanto mi aspettassi: era abbastanza grande per i nostri scopi. Abbracciava tutti e tre i livelli, e una parete intera era un immenso teleschermo sul quale le stelle turbinavano vertiginosamente, e ogni tanto vi appariva una fetta della Madre Terra. Sul pavimento erano distribuiti gruppi di poltrone e tavolini, ma era facile capire che, togliendoli, Shara avrebbe avuto tutto lo spazio necessario per ballare; e cosa non meno importante, i miei piedi mi dicevano che la superficie sarebbe stata adattissima alla danza. Poi ricordai che il pavimento non sarebbe servito a molto.

— Bene — mi disse Shara con un sorriso, — per i prossimi sei mesi, staremo in un ambiente come questo. Il salone del Due è identico.

— Sei mesi? — disse McGillicuddy. — Impossibile.

Come sarebbe a dire? — esclamammo contemporaneamente io e Shara.

Lui batté le palpebre, sconcertato. — Ecco, lei potrebbe farcela per tutto quel tempo, Charlie. Ma Shara è già stata più di un anno in condizioni di bassa gravità, quando faceva la dattilografa.

— E con questo?

— Senta, prevede di restare in condizioni d’imponderabilità per molto tempo, vero, se non ho capito male?

— Dodici ore al giorno — disse Shara.

McGillicuddy fece una smorfia. — Shara, mi dispiace dirglielo… ma mi sorprenderebbe se resistesse un mese. Un organismo creato per un ambiente a una gravità non funziona a dovere a gravità zero.

— Ma si adatterà, no?

Lui rise, amaramente. — Sicuro. È per questo che ogni quattordici mesi rimandiamo tutto il personale sulla Terra. Il suo organismo si adatterebbe. A senso unico. Senza possibilità di ritorno. Quando sarà completamente adattata, il ritorno sulla Terra le causerà un arresto cardiaco… se non si verificherà prima qualche altro grosso guasto organico. Senta, è stata sulla Terra per tre giorni… non ha notato dolori al petto? Vertigine? Disturbi intestinali? Nausea durante il viaggio di ritorno?

— Tutti quanti — ammise Shara.

— Ecco. Quando è partita, era ormai vicina al limite nominale di quattordici mesi. E il suo organismo si adatterà ancora più rapidamente alle condizioni di gravità zero. Il primato di resistenza all’imponderabilità è di novanta giorni: lo stabilì l’equipaggio del primo Skykab… e loro, prima, non avevano passato un anno a un sesto di gravità, e non si affaticavano il cuore come invece farà lei. Diavolo, adesso sulla Luna ci sono quattro uomini, dei dodici della prima squadra mineraria, che non rivedranno più la Terra. Otto dei loro compagni ci provarono. Voi due non sapete niente dello Spazio?

— Ma io devo restare almeno quattro mesi. Quattro mesi di lavoro continuo, tutti i giorni. Devo. — Shara era sgomenta, ma si sforzava di controllarsi.

McGillicuddy fece per scuotere la testa, poi cambiò idea. Scrutava il viso di Shara. Sapevo esattamente cosa stava pensando, e questo me lo rendeva simpatico.

Stava pensando: come si fa a dire a una donna incantevole che il suo sogno più caro è irrealizzabile?

E lui non sapeva tutto. Io sapevo che cosa aveva già investito irrevocabilmente Shara in quel sogno: e qualcosa urlava, dentro di me.

E poi la vidi stringere i denti, ed osai sperare.


Il dottor Panzarella era un vecchio magro e solido con le sopracciglia che sembravano due bruchi pelosi. Portava una salopette aderente che non si sarebbe impigliata nelle chiusure ermetiche di una tuta pressurizzata se avesse dovuto indossarla in fretta e furia. I capelli lunghi fino alle spalle, che avrebbero formato una criniera intorno alla grossa testa, erano legati strettamente all’indietro, nell’eventualità che la gravità venisse a mancare all’improvviso. Un tipo prudente. Per usare una metafora antiquata, era quel tipo d’uomo che porta le bretelle e la cintura. Visitò Shara, fece esami ed analisi, e le diede poco meno di un mese e mezzo. Shara gli parlò. Io gli parlai. McGillicuddy gli parlò. Panzarella scrollò le spalle, fece altri esami ancora più meticolosi e, con molta riluttanza, rinunciò alle bretelle. Due mesi. Non un giorno di più. Forse meno, a seconda dei successivi controlli delle reazioni dell’organismo di Shara all’imponderabilità protratta. Poi un anno sulla Terra prima che potesse tentare di nuovo. Shara sembrava soddisfatta.

Non capivo come avremmo potuto farcela.

McGillicuddy ci aveva assicurato che Shara avrebbe impiegato almeno un mese solo per imparare a muoversi con efficienza in gravità zero, figurarsi poi a ballare. La familiarità con un sesto di gravità, disse, sarebbe stata un inconveniente anziché un vantaggio. Poi bisognava calcolare tre settimane per la coreografia e le prove, una settimana di registrazione e forse forse saremmo riusciti a trasmettere una danza prima che Shara dovesse tornare sulla Terra. Non bastava. Io e lei avevamo calcolato che sarebbero stati necessari tre spettacoli successivi, e tutti ben accolti dal pubblico, per schiuderle davvero il mondo della danza. Un anno era troppo… e chi sapeva fra quanto Carrington si sarebbe stancato di lei? Perciò aggredii Panzarella.

— Mr. Armstead — ribatté lui, arrabbiatissimo, — il mio contratto mi vieta espressamente di permettere che questa signorina si suicidi. — Fece una smorfia acida. — Mi risulta che sia disastroso per le pubbliche relazioni.

— Charlie, va bene così — insistette Shara. — Posso farci stare tre danze. Magari perderemo un po’ di sonno, ma possiamo riuscire.

— Una volta dissi a un tale che non c’è niente d’impossibile. E lui mi chiese se ero capace di passare da una porta girevole con gli sci ai piedi. Tu non hai…

La mia mente innestò l’hyperdrive, considerò la situazione, si prese varie volte a calci nel sedere, e tornò nel tempo reale in tempo per sentire la mia bocca che diceva, senza interruzioni: — … molte possibilità di scelta. Bene, Tom, faccia sgombrare quel Maledetto Salone Due. Lo voglio nudo e immacolato. E bisognerà dire a qualcuno che dipinga lo stramaledetto schermo video, della stessa tinta delle altre tre pareti, e voglio dire proprio la stessa. Shara, togliti quei vestiti e metti la calzamaglia. Dottore, ci vedremo fra dodici ore. Tom, la smetta di star lì a bocca aperta e vada… andremo subito là. Dove diavolo sono le mie telecamere?

McGillicuddy balbettò.

— Mi dia una squadra armata di fiamme ossidriche… voglio che aprano fori nelle pareti, e mettano le telecamere dietro, con finti specchi, in sei posti diversi; voglio una stanza adiacente al Salone per mettere il banco mixer, e una macchina per il caffé imbullonato vicino alla poltroncina. Ho bisogno di un’altra stanza per il montaggio, con privacy completa e oscurità totale, della grandezza di una cucina efficiente, con un’altra macchina per il caffé.

Finalmente McGillicuddy mi investì con un torrente di parole. — Mr. Armstead, questo è l’Anello Principale del complesso Skyfac Uno. gli uffici amministrativi di una delle società più ricche che esistano. Se crede che l’intero Anello si metta capovolto per far piacere a lei…

E così sottoponemmo il problema a Carrington. Lui disse a McGillicuddy che d’ora in poi l’Anello Due era nostro e che dovevamo avere tutta l’assistenza richiesta. McGillicuddy cercò di dirgli che questo avrebbe ritardato di parecchie settimane l’apertura del complesso Skyfac Due. Carrington rispose, senza alzare la voce, che le addizioni e le sottrazioni sapeva farle anche lui, grazie, e McGillicuddy diventò pallido e stette zitto.

Questo devo riconoscerlo, a Carrington. Ci lasciò mano libera.

Panzarella si trasferì allo Skyfac Due con noi. Ci scarrozzarono certi tipi d’astronauti a bordo dei veicoli che, figuratevi, sembravano scope gravide. Per fortuna avevamo il dottore… Shara svenne, durante il trasferimento. Poco mancò che svenissi anch’io, e sono sicuro che ancora oggi il manico di scopa conserva l’impronta delle mie cosce… la prima volta, l’esperienza di precipitare nello spazio è spaventosa. Shara reagì magnificamente quando la riportammo al chiuso, e per fortuna non le tornò la nausea… la nausea può essere una seccatura in caduta libera, e un disastro in una tuta pressurizzata. Quando arrivarono le mie telecamere e il banco mixer, lei era di nuovo in piedi e aveva l’aria di vergognarsi un po’. E mentre io assediavo una squadra di tecnici sudati perché installassero tutto più in fretta di quanto non fosse umanamente impossibile Shara incominciò ad imparare a muoversi in gravità zero.

Dopo tre settimane eravamo pronti per la prima registrazione.

Nell’Anello Due ci avevano preparato l’alloggio e un impianto di supporto vitale ridotto al minimo, in modo che potevamo lavorare ventiquattr’ore su ventiquattro, se volevamo; ma noi passavamo nello Skyfac Uno la metà delle nostre «ore libere» nominali. Ogni settimana, Shara doveva passare tre mezze giornate là con Carrington, e trascorreva gran parte del presunto periodo di riposo fuori nello spazio, con una tuta pressurizzata. All’inizio fu un tentativo voluto di vincere la paura viscerale di tutto quel vuoto. Presto diventò la sua meditazione, il suo rifugio, la sua fantasticheria artificiale, e il tentativo di ricavare dalla contemplazione dei freddi abissi neri una intuizione del significato dell’esistenza extraterrestre abbastanza vivida per poterla esprimere con la danza.

Io passavo il tempo litigando con gli ingegneri, gli elettricisti, i tecnici e un imbecille di rappresentante sindacale il quale insisteva che il secondo Salone, finito o non finito, apparteneva al futuro e ipotetico personale. Per ottenere da lui il permesso di lavorare lì mi logorai la gola e i nervi. Passavo troppe notti in uno stato di torpore anziché di sonno. Un piccolo esempio: tutte le pareti interne del maledetto Secondo Anello erano dipinte della stessa identica sfumatura di turchese… e non riuscivo a riprodurla per coprire quel dannatissimo megaschermo video nel Salone. Fu McGillicuddy a salvarmi dall’apoplessia: seguendo il suo suggerimento feci staccare il terzo strato di lattice, togliere la telecamera esterna che metteva in funzione lo schermo, portarla dentro e fissarla in modo che inquadrasse la parete interna di una stanza adiacente. E così ridiventammo amici.

Era sempre così: arrangiarsi, improvvisare, limare e verniciare. Se una telecamera si guastava, passavo le ore che avrei dovuto riservare al sonno parlando con gli ingegneri che non erano di turno, per scoprire quali dei pezzi di ricambio esistenti in magazzeno si potevano utilizzare. Sarebbe costato troppo far spedire qualcosa dall’immenso pozzo di gravità della Terra, e sulla Luna quello che mi serviva non esisteva.

Shara, comunque, lavorava anche più duramente di me. Un corpo umano deve ricondizionarsi totalmente per funzionare in condizioni d’imponderabilità: lei doveva dimenticare, letteralmente, tutto ciò che aveva saputo o imparato sulla danza, e acquisire capacità completamente nuove. Fu ancora più difficile di quanto ci aspettassimo. McGillicudy aveva avuto ragione: ciò che Shara aveva imparato durante l’anno trascorso in un sesto di gravità era un tentativo esagerato di conservare modelli terrestri di coordinazione… accantonarli completamente risultò effettivamente più facile per me.

Ma non riuscivo a starle dietro… Dovetti abbandonare l’idea di lavorare con una telecamera a mano, e basare interamente i miei piani sulle sei telecamere fisse. Fortunatamente le GLX-5000 hanno una montatura a snodo: anche dietro quei meledetti finti specchi avevo circa quaranta gradi di mobilità per ciascuna. Imparare a coordinarle simultaneamente tutte e sei sull’Hamilton Board mi fece un effetto straordinario: mi portò all’unità con la mia arte. L’ultimo, grande passo. Scoprii che potevo seguire tutti e sei i monitor con l’occhio della mente e avere una percezione quasi sferica, non dividere l’attenzione ma abbracciarli tutti, vedere come un essere a sei occhi da molte angolazioni diverse. L’occhio della mia mente diventò olografico, la mia sensibilità divenne multistrati. Incominciai a comprendere veramente, per la prima volta, la tridimensionalità.

Il problema era la quarta dimensione. Shara impiegò due giorni per rendersi conto che non poteva diventare abbastanza efficiente nelle manovre in imponderabilità per reggere un pezzo di mezz’ora nel tempo richiesto. Perciò revisionò il suo piano di lavoro, adattando la sua coreografia alle esigenze pratiche. Incluse sei giorni in condizioni di peso normale della Terra.

E anche nel suo caso, lo sforzo la portò avanti di quell’ultimo passo verso l’apoteosi.

Il lunedì della quarta settimana incominciammo a registrare Liberazione.


Inquadratura di presentazione:

Una grande scatola turchese vista dall’interno. Dimensioni sconosciute: ma il colore crea un’impressione d’immensità, di distanze immani. Contro la parete, di fondo, un pendolo oscillante attesta che si tratta di un ambiente a gravità normale: ma il pendolo oscilla così lentamente ed ha linee così essenziali che è impossibile stimarne le dimensioni e quindi estrapolare quelle dell’ambiente.

Grazie all’effetto trompe-l’oeil, la stanza sembra alquanto più piccola di quel che è in realtà quando la telecamera arretra e noi veniamo posti nella giusta prospettiva dell’apparizione di Shara, prona, inerte, a faccia in giù sul pavimento, rivolta verso di noi.

Indossa una calzamaglia beige. I capelli, d’uno splendido color mogano, sono pettinati all’indietro in una coda di cavallo che si apre a ventaglio su una scapola. Sembra che non respiri. Sembra che non sia viva.

Incomincia la musica. Il vecchio Mahavishnu, su un antiquato acusticon di nylon, stabilisce senza fretta un mi minore. Due piccole candele, nelle semplici bugie di bronzo, appaiono inserite ai due lati della camera. Sono più grandi del normale, sebbene siano piccole in confronto a Shara. Sono spente.

Il suo corpo… non ci sono parole per descriverlo. Non si muove, nel senso in cui s’intende l’attività motoria. Si potrebbe dire che vi scorre un fremito, ma il movimento si irradia dal centro verso l’esterno. È come un’onda, appunto, come se tutto il suo corpo traesse il primo respiro della vita. È viva.

I due stoppini incominciano a brillare, oh, dolcemente. La musica assume una tranquilla concitazione.

Shara solleva la testa verso di noi. I suoi occhi si fissano su qualcosa che sta al di là della telecamera e tuttavia non è l’infinito. Il suo corpo freme, ondeggia, e gli stoppini delle candele sono braci (non ci si accorge che questo ravvivarsi della luce avviene al rallentatore.)

Una contrazione violenta la fa sollevare, acquattata, e la coda di cavallo si rovescia sulla spalla. Mahavishnu inizia una cascata ciclica di note, accelerando il tempo. Lingue incerte di fiamma giallo-arancio incominciano a fiorire verso il basso dagli stoppini gemelli, mentre le braci diventano azzurre.

Lo scatto della contrazione la scaglia in piedi. Le due gore gemelle delle fiamme intorno agii stoppini si avvolgono su se stesse, si attorcono furiosamente per diventare fiamme convenzionali di candele, che guizzano nuove nel tempo normale. Tablas, tambouras e una chitarra basso si uniscono alla chitarra, e la seguono in un energico intreccio intorno a una settima minore che continua a tentare, invano, di trovare una risoluzione nella sesta. Le candele rimangono in prospettiva, ma rimpiccioliscono fino a scomparire.

Shara incomincia a esplorare le possibilità del movimento. Dapprima si muove solo perpendicolarmente alla linea visuale della telecamera, ed esplora quella dimensione. Ogni movimento delle braccia, delle gambe e della testa appare chiaramente come una sfida alla gravità, ad una forza inesorabile come il decadimento radioattivo, l’entropia stessa. Gli slanci più violenti d’energia riescono solo per qualche tempo… le gambe protese ricadono, il braccio proteso si abbassa. Deve lottare o cadere. Indugia, pensosa.

Le braccia e le mani si tendono verso la telecamera, e in quel momento tagliamo e passiamo ad una inquadratura da sinistra. Vista da destra, Shara si protende in questa nuova dimensione, e presto incomincia a muoversi in essa. (Mentre arretra uscendo dal campo della telecamera, l’immagine si sposta a destra sul nostro schermo, scacciata dall’immagine di una seconda telecamera, che la inquadra mentre la prima la perde, senza suture visibili.)

Anche la nuova dimensione non soddisfa in Shara il desiderio di liberarsi dalla gravità. Tuttavia combinarle entrambe offre tante permutazioni di movimento che per qualche tempo, inebriata, si slancia nella sperimentazione. Per quindici minuti, Shara ricapitola la sua storia nella danza, in un tour de force accecante che incorpora elementi di jazz, danza moderna e gli aspetti più eleganti della ginnastica a corpo libero delle Olimpiadi. Cinque telecamere funzionano, singolarmente o a coppie sullo schermo diviso, mentre tutti i «trucchi» accumulati in un’intera vita di studio e d’improvvisazione vengono riscoperti ed eseguiti da un corpo superbamente addestrato e versatile, in un’esplosione pirotecnica che sarebbe un grido di gioia se la sua espressione non rimanesse distaccata, quasi arrogante. Questa è l’offerta, sembra dire Shara, che voi non avete voluto accettare. Questa, in se stessa, non bastava.

E non basta. Anche nell’energia divampante e nel controllo totale, il corpo di Shara ritorna continuamente al compromesso finale della semplice postura eretta, l’ultimo rifiuto di cadere.

Serrando i denti, esegue una serie di balzi, sempre più lunghi e sempre più alti. Alla fine sembra librata per interi secondi, e si sforza di volare. Quando, inevitabilmente, ricade, lo fa con riluttanza, e solo all’ultimo istante possibile torna a posare i piedi. I musicisti sembrano presi da una frenesia in crescendo. Ora la vediamo soltanto attraverso la prima telecamera, e le candele gemelle sono riapparse, piccole ma luminose.

I balzi diminuiscono d’intensità e d’altezza, e Shara impiega più tempo per preparare ognuno di essi. Sta danzando da quasi venti minuti: mentre le fiammelle delle candele cominciano a impallidire, si dilegua anche la sua forza. Finalmente si ritira sotto il pendolo indifferente, si raccoglie con disperazione e si slancia a corsa verso di noi. Raggiunge un’incredibile velocità in quel tratto brevissimo, si avventa roteando due volte su se stessa e balza in aria su di un piede solo, e un secondo più tardi sembra premere contro l’aria vuota per guadagnare qualche altro centimetro di altezza. Il suo corpo s’irrigidisce, gli occhi e la bocca si spalancano, le fiamme raggiungono il massimo fulgore, la musica culmina nel gemito tormentato della chitarra elettrica e… e Shara ricade, rotolando appena in tempo, e si rialza soltanto a mezzo. Resta così per un lungo momento, e gradualmente abbandona la testa e le spalle verso il pavimento, sconfitta. Le fiamme delle candele si restringono curiosamente e sembrano sul punto di spegnersi. La chitarra basso continua a suonare, modulando verso un re.

Muscolo per muscolo, il corpo di Shara rinuncia alla lotta. L’aria sembra tremolare intorno agli stoppini delle candele, che adesso sono divenute alte quasi quanto la sua figura accasciata.

Shara leva il viso verso la telecamera, con uno sforzo evidente. L’espressione è angosciata, gli occhi socchiusi. Un lungo rullo di tamburo.

All’improvviso spalanca gli occhi, raddrizza le spalle e si contrae. È la contrazione più squisita e totale mai sognata, registrata a tempo reale ma tale da dar l’impressione di svolgersi al rallentatore. La continua. Mahavishnu riattacca con la chitarra, in un crescendo costruito partendo da una corda di basso a un re con la quarta bemolle. Shara resta immobile.

Per la prima volta passiamo a una telecamera in alto, e la guardiamo da una grande altezza. Mentre il pizzicato di Mahavishnu cresce fino a quando l’accordo sembra un ronzio sordo e prolungato, Shara alza lentamente la testa, continuando a mantenere la contrazione, fino a che guarda direttamente verso di noi. Rimane così per l’eternità, come una molla pronta a scattare, caricata al massimo…

… ed esplode verso l’alto, verso di noi, sollevandosi sempre di più, e più rapidamente di quanto potrebbe, in un volo che adesso è al rallentatore, e si avvicina, si avvicina fino a quando le mani spariscono ai lati e il suo viso riempie lo schermo, fiancheggiato da due candele che in un momento sono sbocciate in sprazzi di fiamma gialla. La chitarra e la chitarra basso vengono sommerse in un’orchestra.

Quasi immediatamente, lei piroetta allontanandosi da noi, e l’inquadratura torna alla prima telecamera: la vediamo slanciarsi dall’altezza di dietri metri verso il pavimento, invertire l’assetto a mezz’aria e guizzare. Esce dall’avvolgimento in una traiettoria assolutamente piatta che la porta attraverso l’intera lunghezza della sala. Urta la parete di fondo con un tonfo che si ode nonostante la musica, e frantuma il pendolo immobile. Le sue cosce assorbono l’energia cinetica e poi la liberano, e ancora una volta corre verso di noi, con i capelli distesi orizzontalmente dietro di lei e un gran sorriso di trionfo che ingigantisce sullo schermo.

Nei cinque minuti successivi tutte e sei le telecamere tentano invano di seguirla mentre sfreccia nella sala immensa come un colibrì che cerca di uscire da una gabbia, usando le pareti, il pavimento e il soffitto come un maestro di jai alai, esistendo in tre dimensioni. La gravità è vinta. L’assunto fondamentale d’ogni forma di danza è spezzato.

Shara è trasformata.

Finalmente si ferma nel centro verticale, in primo piano entro il cubo di turchese, con le braccia, le gambe, le dita, i piedi, il viso protesi verso l’esterno, girando dolcemente su se stessa. Le quattro telecamere puntate su di lei si spartiscono lo schermo, l’orchestra si risolve nel mi maggiore finale e… si dissolve.


Non avevo il tempo né l’attrezzatura per creare gli effetti speciali che voleva Shara. Perciò inventai vari modi per piegare la realtà alle mie esigenze. Il mio segmento delle candele era l’inquadratura sdoppiata d’una candela sola che veniva spenta dall’alto… all’ultrarallentatore e a rovescio. Il secondo segmento era una semplice registrazione della realtà. Avevo acceso la candela, avevo incominciato a registrare… e avevo fatto arrestare la rotazione dell’Anello. Una candela si comporta in modo strano, a gravità zero. I gas della combustione a bassa densità non di sollevano dalla fiamma, permettendo all’aria di raggiungerla dal basso. La fiamma non si spegne: si addormenta. Basta ristabilire la gravità dopo un minuto o due, perché sbocci e riprenda vita. Non feci altro che giocare un po’ con le velocità in modo da armonizzarle con la musica e la danza di Shara. Avevo avuto l’idea da un capo-operaio dell’officina di metallurgia dove stavamo realizzando le cose di cui Shara avrebbe avuto bisogno per la sua prossima danza.

Montai uno schermo nel Salone dell’Anello Uno, e tutti quelli dello Skyfac che potevano abbandonare il lavoro si affollarono per assistere alla trasmissione. Videro esattamente ciò che veniva irradiato in collegamento mondiale via satellite (Carrington aveva abbastanza influenza per ottenere venticinque minuti filati senza interruzioni per gli spot pubblicitari) circa mezzo secondo prima che il mondo lo vedesse.

Per tutto il tempo della trasmissione rimasi in Sala Comunicazioni a rodermi le unghie. Ma andò tutto liscio, e spensi il banco e arrivai nel Salone in tempo per assistere all’ultima metà dell’ovazione. Shara era in piedi davanti allo schermo, con Carrington seduto a fianco, e pensai che la diversità delle loro espressioni era istruttiva. Il viso di lei non rivelava sorpresa o modestia. Aveva sempre avuto fiducia in se stessa, aveva approvato quel nastro per la trasmissione… sapeva, con il distacco incredibile di cui sono capaci pochissimi artisti, che quell’applauso frenetico era pienamente meritato. Ma il suo volto mostrava che era profondamente sorpresa, e profondamente grata, di ricevere ciò che le spettava.

Carrington, invece, rivelava un trionfo stranamente misto a sollievo. Anche lui aveva avuto fiducia in Shara, e l’aveva appoggiata con un cospicuo investimento… ma la sua fiducia era quella di un uomo d’affari in una speculazione che può rendere bene, e mentre gli osservavo gli occhi e la fronte sudata, mi resi conto che nessun uomo d’affari corre un rischio dispendioso senza temere che possa essere il fiasco dal quale avrà inizio la perdita dell’unica cosa essenziale per lui: la faccia.

Vedere quel tipo di trionfo accanto al trionfo di Shara mi rovinò il momento; e anziché tripudiare per Shara mi accorsi che quasi la odiavo. Lei mi scorse e si sbracciò per segnalarmi di raggiungerla di fronte alla folla plaudente, ma io girai sui tacchi e mi lanciai letteralmente fuori dalla sala. Mi feci prestare una bottiglia dal capo-operaio dell’officina metallurgica e presi una sbronza memorabile.

L’indomani mattina mi sentivo la testa come se fosse un fusibile da quindici ampere in un circuito da quaranta, e mi sembrava che soltanto la tensione superficiale riuscisse a tenermi insieme. I movimenti improvvisi mi facevano paura. È una brutta caduta, da quel carro, anche in un sesto di gravità.

Il telefono squillò (non avevo avuto il tempo di modificarlo) e un giovane che non conoscevo annunciò compitamente che Mr. Carrington voleva vedermi nel suo ufficio. Subito. Io risposi alludendo a una supposta di filo spinato e spiegando come poteva usarla, subito, Mr. Carrington. Senza cambiare espressione, il giovane ripeté il messaggio e tolse la comunicazione.

Perciò m’infilai nei vestiti, decisi di farmi crescere la barba, e uscii. Lungo il percorso mi domandai per che cosa avevo barattato la mia indipendenza, e perché.

L’ufficio di Carrington era d’un buon gusto opprimente, ma almeno l’illuminazione era smorzata. La cosa migliore era che il sistema di filtraggio assorbiva il fumo… nell’aria c’era l’odore dolce e muschiato della marijuana. Accettai da Carrington un microspinello di «Maoi-Zowie» quasi con gratitudine e incominciai a liberarmi dei postumi della sbronza.

Shara era seduta accanto alla scrivania, e portava una calzamaglia a un velo di sudore. Evidentemente aveva passato la mattina a provare la prossima danza. Mi vergognai, e quindi mi stizzii, ed evitai i suoi occhi e il suo saluto. Panzarella e McGillicuddy entrarono dietro di me, parlando del più recente avvistamento dell’oggetto venuto dallo spazio, che stavolta era ricomparso nelle vicinanze di Mercurio. Stavano discutendo se aveva dato o no segno di intelligenza senziente, e io avrei tanto desiderato che stessero zitti.

Carrington attese fino a quando tutti ci fummo seduti e avemmo acceso gli spinelli, poi si appoggiò alla scrivania e sorrise. — Allora, Tom?

McGillicuddy sorrise. — Meglio del previsto, signore. Secondo tutte le stime, abbiamo avuto circa il 74% del pubblico mondiale…

— Al diavolo le stime — scattai io. — Che cos’hanno detto i critici?

McGillicuddy sbatté gli occhi. — Ecco, finora la reazione generale è che Shara è uno schianto, il Times…

L’interruppi di nuovo. — Qual è stata la reazione men che generale?

— Ecco, non c’è mai un’unanimità assoluta.

— Sia più preciso. I critici della danza? Liz Zimmer? Migdalski?

— Uh. Non proprio entusiasti. Elogi, certo… solo un cieco avrebbe potuto stroncare lo spettacolo. Ma elogi guardinghi. Uh, la Zimmer l’ha definita una danza magnifica rovinata dal trucco finale.

— E Migdalski? — insistetti.

— Ha intitolato la recensione: «Che cosa non si farebbe per un bis?» — ammise McGillicuddy. — La sua tesi fondamentale è che si è trattato di un affascinante caso unico. Ma il Times…

— Grazie, Tom — disse Carrington senza alzare la voce. — È più o meno quello che ci aspettavamo, no, mia cara? Molto chiasso, ma nessuno è ancora disposto a parlare di una marea travolgente.

Shara annuì. — Ma lo faranno, Bryce. Le prossime due danze saranno decisive.

Panzarella intervenne. — Miss Drummond, posso chiederle perché ha fatto così? Ha usato l’interludio a gravità zero solo come un breve epilogo aggiunto a una danza convenzionale… doveva aspettarsi che i critici avrebbero parlato di un trucco.

Shara sorrise: — Per essere sincera, dottore, non avevo scelta. Sto imparando a servirmi del mio corpo in condizioni d’imponderabilità, ma si tratta ancora d’uno sforzo voluto, quasi una pantomina. Ho bisogno di qualche altra settimana perché diventi una seconda natura, ed è necessario, se voglio reggere un intero pezzo in quelle condizioni. Perciò ho tirato fuori dal baule una danza convenzionale, ho aggiunto un finale di cinque minuti sfruttando tutti i movimenti in gravità zero che conoscevo e con immenso sollievo mi sono accorta che, insieme, avevano un senso tematico. Ho detto a Charlie la mia nozione, e lui l’ha resa operante visualmente e drammaticamente… l’idea delle candele è stata sua, e sottolineava ciò che stavo cercando di esprimere meglio di qualunque set che avremmo potuto creare.

— Quindi non ha ancora completato ciò che è venuta a fare quassù? — chiese Panzarella.

— Oh, no. No, assolutamente. La prossima registrazione mostrerà al mondo che la danza è qualcosa di più di una caduta controllata. E la terza… la terza sarà il culmine. — Il viso di Shara era luminoso, animato. — La terza danza sarà quella che ho desiderato ballare per tutta la mia vita. Ancora non riesco a immaginarla interamente… ma so che quando sarò capace di eseguirla, la creerò, e sarà la mia danza più grande.

Panzarella si schiarì la gola. — Quanto tempo richiederà?

— Non molto — rispose lei. — Sarò pronta a registrare la prossima danza fra due settimane, e potrò incominciare l’ultima quasi subito. Con un po’ di fortuna, finiremo di registrarla prima che scada il mese.

— Miss Drummond — disse Panzarella in tono solenne, — temo che lei non abbia a disposizione un altro mese.

Shara diventò bianca come la neve, e io mi alzai a metà dalla sedia. Carrington sembrava incuriosito.

— Quanto tempo? — chiese Shara.

— Gli ultimi esami non sono molto incoraggianti. Avevo presunto che lo sforzo continuativo delle prove e della danza tendesse a rallentare l’adattamento del suo organismo. Ma lei ha lavorato quasi sempre in condizioni d’imponderabilità totale, e non avevo immaginato fino a che punto il suo organismo sia abituato agli sforzi prolungati… in un ambiente terrestre.

Quanto tempo?

— Due settimane. Forse tre, se passerà tre ore ogni giorno a esercitarsi in due gravità.

— È ridicolo — sbottai. — Non possiamo fermare e rimettere in moto l’Anello sei volte al giorno, e anche se potessimo Shara rischierebbe di fratturarsi una gamba, in due g.

— Ho bisogno di quattro settimane — disse Shara.

— Mi dispiace, Miss Drummond.

— Ho bisogno di quattro settimane.

Panzarella aveva la stessa aria di sofferenza impotente che a tempo debito avevamo avuto anch’io e McGillicuddy, e io ne avevo abbastanza di un universo in cui la gente doveva continuare a guardare Shara in quel modo. — Maledizione — ruggii. — Ha bisogno di quattro settimane!

Panzarella scrollò la testa lungichiomata. — Se rimane in gravità zero per quattro settimane di lavoro, può morire.

Shara si alzò di scatto dalla sedia. — Allora morirò — esclamò. — Sono disposta a correre il rischio. Devo farlo.

Carrington tossì. — Purtroppo non posso permettertelo, tesoro.

Lei si voltò di scatto, furiosamente.

— La tua danza è un’eccellente pubblicità per lo Skyfac — disse Carrington con calma. — Ma se dovesse ucciderti avrebbe un effetto boomerang, non credi?

Lei mosse le labbra, lottando disperatamente per dominarsi. A me girava la testa. Morire? Shara?

— Inoltre — soggiunse Carrington, — mi sono affezionato a te.

— Allora resterò quassù, in condizioni di bassa gravità — sbottò lei.

— Dove? L’unica area dove l’imponderabilità è continua è quella delle fabbriche, e tu non sei qualificata per lavorarci.

— Allora, per amor di Dio, assegnami una delle piccole sfere nuove, Bryce, ti renderò per il tuo investimento molto più di una fabbrica e… Shara cambiò tono. — E sarò sempre disponibile per te.

Lui sorrise pigramente. — Sì, ma potrebbe darsi che io non ti volessi per sempre, tesoro. Mia madre mi ha sconsigliato di prendere decisioni irrevocabili per quanto riguarda le donne. Soprattutto nei legami non ufficiali. Inoltre, ho notato che il sesso a gravità zero è troppo sfibrante, come dieta invariabile.

Io avevo quasi ritrovato la voce, ma a questo punto la persi di nuovo. Ero contento che Carrington la rifiutasse… ma il modo in cui lo faceva mi metteva addosso la voglia di bere il suo sangue.

Anche Shara restò ammutolita per un po’. Quando parlò, lo fece a voce bassa e intensa, quasi supplichevole. — Bryce, è questione di tempismo. Se trasmetto altre due danze nelle prossime quattro settimane, avrò un mondo al quale potrò tornare. Se dovrò trasferirmi sulla Terra e attendere un anno o due, la terza danza affonderà senza lasciar traccia… nessuno la guarderà, e nessuno ricorderà le prime due. È la mia unica possibilità, Bryce… lascia che corra il rischio. Panzarella non può garantire che quattro settimane mi uccideranno.

— Non posso garantirle che sopravviverà — disse il dottore.

— Non può garantire che nessuno di noi arriverà vivo fino a sera — ribatte lei. Si voltò di nuovo verso Carrington, l’inchiodò con gli occhi. — Bryce, lasciami rischiare. — Con uno sforzo immenso sfoggiò un sorriso che mi trafisse il cuore come una coltellata. — Farò in modo che non debba pentirtene.

Carrington assaporò quel sorriso e quella resa totale come se stesse assaggiando un ottimo Boredaux. Io avrei voluto ammazzarlo con le mani e coi denti, e pregavo che aggiungesse la crudeltà finale di un rifiuto. Ma avevo sottovalutato la sua vera capacità di essere crudele.

— Continua le prove, mia cara — disse finalmente lui. — Prenderemo una decisione definitiva quando verrà il momento. Dovrò pensarci sopra.

Non credo d’essermi mai sentito così disperato, così impotente in tutta la mia esistenza. Sebbene sapessi che era inutile, dissi: — Shara, non posso lasciare che rischi la vita…

— Lo farò, Charlie — m’interruppe. — Con te o senza di te. Nessun altro conosce abbastanza bene il mio lavoro per registrarlo come si deve, ma se vuoi chiamarti fuori non posso fermarti. — Carrington mi osservava con distaccato interesse. — Dunque?

Io dissi una parolaccia. — Conosci già la risposta.

— Allora mettiamoci al lavoro.


I novellini vengono trasportati sulle scope gravide. I veterani si aggrappano fuori dalla camera di compensazione, tenendosi appesi per le maniglie alla superficie esterna dell’Anello rotante. Stanno rivolti nella direzione della rotazione e, quando la loro meta compare sotto l’orizzonte, si lasciano andare. I razzi di spinta inseriti nei guanti e negli stivali servono per effettuare le necessarie correzioni di rotta. Non si tratta di grandi distanze. Io e Shara, dopo aver trascorso nell’imponderabilità più ore di tanti tecnici che erano allo Skyfac da anni, eravamo veterani. Facevamo un uso sobrio ed efficiente dei razzi di spinta, soprattutto per controbilanciare l’energia impartitaci dalla rotazione dell’Anello quando l’abbandonavamo. Avevamo microfoni a gola e ricevitori auricolari, ma non conversammo durante la traversata del vuoto. Io impiegai il tragitto contemplando il vuoto stellato attraverso il quale cadevo (avevo finito per capire il fascino del paracadutismo) e domandandomi se mi sarei mai abituato all’interruzione del dolore alla gamba. In quei giorni, sembrava che dolesse meno persino sotto l’effetto della rotazione.

Atterrammo, con molta meno forza di un paracadutista, sulla superficie del nuovo studio. Era un enorme globo d’acciaio, costellato di pannelli solari e di congegni per la dispersione del calore, legato ad altre tre sfere in diversi stadi di costruzione, sulle quali stavano lavorando già adesso innumerevoli figure in tuta pressurizzata. McGillicuddy mi aveva detto che il complesso, una volta completato, sarebbe stato usato per «lavorazioni a densità controllata», e quando io avevo commentato «Che bellezza», lui aveva soggiunto: — Polistirolo espanso dispersivo e fusioni a densità variabile, — Come se questo chiarisse tutto. E forse era così. Al momento, comunque, era lo studio di Shara.

La camera di compensazione conduceva in un ambiente da lavoro piuttosto piccolo, intorno a una sfera interna d’una cinquantina di metri di diametro. Era pressurizzata anche quella, ed era destinata a contenere il vuoto, ma i portelli stagni erano aperti. Ci togliemmo le tute, e Shara prese i bracciali a razzo da un supporto e li mise, tenendosi appesa alla trave per i piedi. Poi mise le cavigliere. Come gioielli erano un po’ ingombranti… ma ognuno di essi aveva un’autonomia di venti minuti, e il loro funzionamento non era visibile in condizioni di atmosfera e d’illuminazione normali. Senza quelli, la danza a gravità zero sarebbe stata molto più difficile.

Mentre stava affibbiando l’ultimo cinturino, mi lanciai davanti a lei e mi aggrappai alla trave. — Shara…

— Charlie, posso farcela. Sono disposta a far ginnastica in tre gravità, e dormirò in due, e il mio organismo durerà. So di potercela fare.

— Potresti saltare Massa è un verbo e passare direttamente a Stardance.

Scrollò la testa. — Non sono ancora pronta… e non lo è neppure il pubblico. Devo guidare me stessa e gli spettatori, attraverso una danza in una sfera, in uno spazio chiuso, prima di essere pronta a ballare nello spazio vuoto e prima che loro riescano ad apprezzarlo. Devo liberare la mia mente e la loro da quasi tutti i pregiudizi sulla danza, devo cambiare i postulati. Già due stadi sono pochi… ma sono il minimo irriducibile. — I suoi occhi si addolcirono. — Charlie, devo farlo.

— Lo so — dissi in tono burbero, e mi voltai dall’altra parte. Le lacrime sono una scocciatura, in condizioni d’imponderabilità… non vanno da nessuna parte. Incominciai a trascinarmi intorno alla superficie della sfera interna, verso la postazione della telecamera sulla quale stavo lavorando, e Shara entrò nella sfera e incominciò le prove.

Io pregavo, mentre lavoravo con il mio equipaggiamento, snodando i cavi fra le travi di supporto e collegandoli ai terminal fluttuanti. Per la prima volta dopo tanti anni pregavo, pregavo che Shara ce la facesse. Che ce la facessimo tutti e due.

I dodici giorni che seguirono furono i più duri della mia vita. Shara lavorava il doppio di me. Passava metà della giornata nello studio, parte del resto a far ginnastica in due gravità e un quarto (il massimo consentito dal dottor Panzarella) e l’altra parte nel letto di Carrington, cercando di farlo contento perché le permettesse di protrarre il tempo limite. Forse, nelle poche ore che rimanevano, dormiva. So soltanto che non aveva mai l’aria stanca, non smarriva mai la compostezza e la sua decisione ostinata. Cocciutamente, con riluttanza, il suo corpo perdeva la goffaggine, acquistava eleganza persino in un ambiente dove la grazia richiedeva una concentrazione enorme. Come un bambino impara a camminare, Shara imparava a volare.

Io incominciavo ad abituarmi all’assenza del dolore alla gamba.


Che cosa posso dirvi di Massa, se non l’avete vista? È impossibile descriverla, anche male, in termini meccanici, così com’è impossibile scrivere a parole una sinfonia. La terminologia convenzionale della danza, a causa dei suoi assunti insiti, è peggio che inutile, e se conoscete un po’ la nuova nomenclatura dovete conoscere Massa è un verbo, dalla quale i suoi assunti.

Non posso dir molto degli aspetti tecnici di Massa. Non c’erano effetti speciali: non c’era neppure la musica. Il superbo spartito di Brindle fu composto ispirandosi alla danza, e fu aggiunto alla registrazione, con il mio consenso, due anni dopo; ma il Premio Emmy lo vinsi per la versione originale, muta. Il mio contributo, a parte il montaggio e l’installazione dei due trampolini, consistette nel camuffare le batterie di sorgenti luminose ad ampia dispersione in grappoli intorno all’occhio d’ogni telecamera, e nel collegarle in modo che si energizzassero soltanto quando erano fuori campo della camera in funzione al momento… in modo che Shara fosse sempre illuminata di fronte e presentasse due ombre, non sempre congruenti. Non tentai neppure di ricorrere ad acrobazie con le telecamere: registrai semplicemente Shara che danzava, cambiando soggettiva solo quando la cambiava lei.

No, Massa è un verbo può essere descritta solo in termini simbolici, e comunque male. Posso dire che Shata dimostrava che la massa e l’inerzia possono, come la gravità, offrire il conflitto dinamico indispensabile alla danza. Posso dirvi che da esse lei distillava una specie di danza che poteva essere stata immaginata soltanto da un gruppo formato da un acrobata, un cascatore, uno scrittore e una ballerina subacquea. Posso dirvi che Shara abbatteva l’ultimo diaframma tra se stessa e la totale libertà di movimento, piegando il suo corpo alla sua volontà, e lo spazio alle sue esigenze.

E anche così, vi avrò detto ben poco. Perché Shara cercava qualcosa di più della libertà… cercava il significato. Massa era, dopotutto, un evento spirituale. Shara faceva diventare il confronto umano con l’esistenza un atto transitivo, un andare letteralmente incontro a Dio. Non voglio dire che la sua danza si rivolgeva a un Dio esteriore, a un’entità separata con o senza la barba bianca. La sua danza si rivolgeva alla realtà, dava espressione successivamente ai Tre Interrogativi Eterni formulati da ogni essere umano che mai sia vissuto.

La sua danza osservava il suo io e chiedeva: — Come sono qui?

La sua danza osservava l’universo nel quale esisteva l’io e chiedeva: — Come mai tutto questo è qui con me?

E infine, osservando il suo io in relazione all’universo: — Perché sono così sola?

E dopo aver formulato questi interrogativi, dopo averli formulati ardentemente con ogni muscolo e ogni tendine, si soffermava, librata al centro della sfera, con il corpo e l’anima spalancati all’universo: e quando non giungeva nessuna risposta, si contraeva. Non nello stesso modo drammatico di Liberazione; non era una compressione dell’energia e della tensione. Fisicamente era simile, ma era un fenomeno completamente diverso. Era una messa a fuoco interiore, un atto d’introspezione, un volgersi dell’occhio della mente (dell’anima?) verso se stesso, per cercare risposte che altrove non c’erano. Perciò anche il suo corpo sembrava ripiegarsi su se stesso, compattare la propria massa, con tanta perfezione che la sua posizione nello spazio non ne risultava turbata.

E cercando in se stessa, Shara si chiudeva su un vuoto. C’era la dissolvenza della telecamera che la lasciava sola, rigida, incapsulata, smaniosa. La danza finiva, senza dare risposta ai tre interrogativi, senza risolvere la tensione. Solo l’espressione d’attesa paziente sul suo viso smussava il filo tagliente della non-conclusione, la rendeva sopportabile: un piccolo segnale benedetto che sussurrava: — Il seguito alla prossima puntata.

Il diciottesimo giorno finimmo di registrare, nella forma grezza. Immediatamente, Shara non ci pensò più e incominciò a preparare la coreografia di Stardance, ma io passai due giornatacce al montaggio prima d’essere pronto a dare il benestare per la trasmissione. Mancavano quattro giorni alla mezz’ora in prima serata che Carrington s’era procurato… ma non era quella, la scadenza che mi ossessionava.

McGillicuddy venne nella stanza dove stavo lavorando al montaggio, e non disse una parola, sebbene vedesse le lacrime che mi scorrevano sulla faccia. Feci girare il nastro e lui guardò in silenzio, e presto incominciò a piangere anche lui. Quando il nastro aveva finito di girare ormai da un pezzo disse, a voce bassa: — Uno di questi giorni dovrò abbandonare questo lavoro schifoso.

Io tacqui.

— Facevo l’istruttore di karaté. Ero bravo. Potrei riprendere a insegnare e magari fare qualche esibizione, e guadagnare il dieci per cento di quel che guadagno adesso.

Io tacqui.

— Tutto il maledetto Anello è pieno di microfoni nascosti, Charlie. Dalla scrivania del mio ufficio si può attivare e spiare tutti i videotelefoni dello Skyfac. Quattro alla volta, anzi.

Io tacqui.

— Vi ho visti tutti e due nella camera di compensazione, quando siete rientrati l’ultima volta. Ho visto che lei è crollata. Ho visto che tu la portavi di peso. L’ho sentita quando ti ha fatto promettere di non dirlo al dottor Panzarella.

Attendevo. Incominciava a spuntare una speranza.

McGillicuddy si asciugò le lacrime. — Ero venuto ad avvertirti che stavo andando da Panzarella per riferirgli quello che ho visto. Lui convincerebbe Carrington a rimandarla immediatamente a casa.

— E adesso? — chiesi.

— Adesso ho visto la registrazione.

— E sai che probabilmente Stardance la ucciderà?

— Sì.

— E sai che dobbiamo lasciarla fare?

— Sì.

La speranza si spense. — Allora vattene e lasciami lavorare.

Se ne andò.


A Wall Street e nello Skyfac era pomeriggio inoltrato quando finii il montaggio in modo soddisfacente. Chiamai Carrington, gli dissi di aspettarmi tra mezz’ora, mi feci la doccia e la barba, mi vestii e andai.

Quando arrivai da lui era in compagnia di un maggiore del Comando Spaziale, ma non lo presentò e quindi lo ignorai. C’era anche Shara: indossava qualcosa che sembrava fatto di fumo arancione e che le lasciava scoperti i seni. Evidentemente era stato Carrington a farglielo mettere, con lo stesso spirito con cui un monello scrive parolacce oscene su un altare, ma lei lo portava con una strana dignità che, lo intuivo, doveva indispettirlo. La guardai negli occhi e sorrisi. — Salve, piccola. La registrazione è venuta bene.

— Vediamo — disse Carrington. Lui e il maggiore sedettero dietro la scrivania, e Shara sedette accanto.

Misi il nastro nel proiettore video incorporato nella parete dell’ufficio, abbassai le luci e sedetti di fronte a Shara. La registrazione andò avanti per venti minuti, ininterrottamente, senza sonoro.

Era grandiosa.

«Sgomento» è una parola strana. Per sgomentarvi, una cosa deve colpirvi in un punto non ancora corazzato dal cinismo. Sembra che io sia nato cinico: mi sono sgomentato tre volte, a quanto ricordo. La prima volta fu quando, a tre anni, scoprii che c’era gente capace di far volutamente del male ai gattini. La seconda fu quando, a diciassette anni, scoprii che c’era gente capace di prendere l’LSD e di far del male ad altri per divertimento. La terza volta fu quando finì Massa è un verbo e Carrington disse, in normalissimo tono decisivo: — Molto piacevole; molto elegante. Mi piace, — e io scoprii, a quarantacinque anni, che c’erano uomini, uomini intelligenti, non cretini, che erano capaci di veder danzare Shara Drummond senza capire. Tutti noi, anche i più cinici, abbiamo sempre qualche illusione che ci è cara.

Shara, non so come, lasciò che quel commento le rimbalzasse addosso; ma vidi che il maggiore era sgomento quanto me, e si dominava con un visibile sforzo.

Approfittando di quell’occasione per distrarmi dall’orrore e dallo sbigottimento, lo studiai con più attenzione, e per la prima volta mi domandai cosa ci faceva lì. Aveva la mia età, era magro e più solido di me, con i capellli cortissimi e argentei e un paio di baffetti ben curati. L’avevo preso per un amico di Carrington, ma tre cose mi fecero cambiare idea. Qualcosa di indefinibile, nei suoi occhi, mi diceva che era un militare con una lunga esperienza in combattimento. Qualcosa di altrettanto indefinibile nel portamento mi diceva che era in servizio. E qualcosa di molto definibile nella piega della sua bocca mi diceva che era disgustato del dovere che doveva compiere.

Quando Carrington continuò — Che ne pensa, maggiore? — in toni educati, il maggiore indugiò un momento, raccogliendo i pensieri e scegliendo le parole. Parlò, ma non si rivolse a Carrington.

— Miss Drummond — disse, — io sono il maggiore William Cox, comandante della S.C. Champion, e sono onorato di conoscerla. È la cosa più commovente ed esaltante che abbia mai visto.

Shara lo ringraziò, seria. — Questo è Charles Armstead, maggiore Cox. Ha effettuato la registrazione.

Cox mi guardò con un rispetto nuovo. — Un lavoro magnifico, Mr. Armstead. — Mi tese la mano e gliela strinsi.

Carrington incominciò a rendersi conto che noi tre avevamo in comune qualcosa che lo escludeva. — Sono contento che le sia piaciuto, maggiore — disse senza la minima traccia di sincerità. — Potrà rivederlo sul suo televisore domani sera, se sarà fuori servizio. E naturalmente, a tempo debito saranno disponibili le cassette. Adesso, forse, possiamo tornare al nostro problema.

La faccia di Cox si chiuse di colpo, divenne rigida e formale. — Come vuole, signore.

Ero perplesso, e cominciai a parlare di quello che pensavo fosse il problema. — Vorrei che questa volta alla trasmissione provvedesse il suo capo delle comunicazioni, Mr. Carrington. Io e Shara saremo troppo occupati per…

— Il mio capo delle comunicazioni provvederà alla trasmissione Armstead — m’interruppe Carrington. — Ma non credo che sarete particolarmente occupati.

Io ero intontito per il sonno perduto: ci misi un po’ di tempo a capire.

Carrington toccò la scrivania: — McGillicuddy, venga subito qui — disse ritirando la mano. — Vede, Armstead, lei tornerà immediatamente sulla Terra con Shara. Immediatamente.

Cosa?

— Bryce, non puoi — gridò Shara. — Hai promesso.

— Ho promesso che ci avrei pensato, mia cara — la corresse lui.

— Un accidente. È stato varie settimane fa. Ieri notte hai promesso.

— Davvero? Mia cara, non c’erano testimoni presenti stanotte. Ed era meglio così, non sei d’accordo?

Io ero ammutolito per la rabbia.

Entrò McGillicuddy. — Salve, Tom — disse gentilmente Carrington. — Lei è licenziato. Tornerà immediatamente sulla Terra con Miss Drummond e Mr. Armstead, a bordo della nave del maggiore Cox. La partenza avverrà tra un’ora, e non dimentichi niente cui è affezionato. — Girò gli occhi da McGillicuddy a me. — Dalla scrivania di Tom si può controllare tutti i videotelefoni di Skyfac. Dalla mia scrivania si può controllare quella di Tom.

Shara parlò a voce bassa. — Bryce, due giorni. Maledizione, di qualcosa è il tuo prezzo.

Carrington sorrise lievemente. — Mi dispiace, tesoro. Quando è stato informato del tuo svenimento, il dottor Panzarella si è espresso in termini molto precisi. Neppure un giorno. Viva, rappresenti un notevole vantaggio per l’immagine dello Skyfac… sei il mio dono al mondo. Morta, saresti un peso pericoloso. Non posso permetterti di morire nella mia proprietà. Prevedevo che ti saresti opposta all’idea di partire, e quindi… — Lanciò un’occhiata a Cox. — Quindi ho parlato con un amico nelle alte sfere del Comando Spaziale, che mi ha fatto la cortesia di mandare qui il maggiore per accompagnarti a casa. Non sei in arresto nel senso legale del termine… ma ti assicuro che non hai scelta. Vale qualcosa di simile al principio della custodia protettiva. Addio, Shara. — Fece per prendere dalla scrivania un fascio di rapporti, e io feci qualcosa che mi meravigliò moltissimo.

Scavalcai d’un balzo la scrivania e abbassai la testa per centrarlo in pieno allo sterno. La sua poltroncina era imbullonata al pavimento, e si spezzò di netto. Io mi ripresi così magnificamente che ebbi il tempo di sferrargli uno splendido destro. Sapete che, quando colpite secco un pallone da basket, rimbalza sul pavimento? È quello che fece la testa di Carrington, al rallentatore per via della bassa gravità.

Poi Cox mi rimise in piedi di peso e mi spinse nell’angolo più lontano della stanza. — No — mi disse, e la sua voce doveva essere satura di quell’«abitudine al comando» di cui parlano tanto perché mi bloccò di colpo. Rimasi lì ad ansimare mentre Cox aiutava Carrington a rialzarsi.

Il milionario si tastò il naso fracassato, si guardò le dita sporche di sangue e mi fissò con occhi pieni d’odio. — Lei non lavorerà mai più in televisione, Armstead. È finito. Finito. Di-soc-cu-pa-to, ha capito?

Cox gli batté la mano sulla spalla, e Carrington si voltò di scatto. — Cosa diavolo vuole? — latrò.

Cox sorrise. — Carrington, una volta il mio povero padre disse: Bill, fatti i nemici per scelta, non per caso. In tutti questi anni, ho avuto modo di scoprire che è un ottimo consiglio. Lei mi fa schifo.

— Ed è ancora poco — confermò Shara.

Carrington sbatté le palpebre. Poi gonfiò quelle spalle assurdamente larghe e ruggì: — Fuori, tutti quanti! Fuori subito dalla mia proprietà!

Per tacito consenso, attendemmo che parlasse anche McGillicuddy. — Mr. Carrington, è un privilegio e un onore essere stato licenziato da lei. La considererò sempre una vittoria di Pirro da parte sua. — Gli rivolse un mezzo inchino, e uscimmo, tutti euforici per una sensazione adolescenziale di trionfo che durò circa dieci secondi.


L’impressione di precipitare che si ha in gravità zero è vera, letteralmente, ma l’organismo impara presto a trattarla come un’illusione. Adesso, a gravità zero per l’ultima volta, per quell’ultima mezz’ora prima di ritornare nel campo gravitazionale della Terra, sentivo di cadere. Precipitavo in un pozzo di gravità senza fondo, trascinato giù da un’incudine che era il mio cuore, mentre sopra di me fluttuavano i brandelli di un sogno che avrebbe dovuto sostenermi.

La Champion era tre volte più grande dello yacht di Carrington, e questo mi diede una soddisfazione puerile fino a che ricordai che Carrington l’aveva fatta venire lì senza dover pagare il combustibile e l’equipaggio. Una sentinella, nella camera di compensazione, ci salutò militarmente quando entrammo. Cox ci portò in uno scompartimento a poppa e ci disse di allacciarci le cinture. Notò il modo in cui usavo soltanto la mano sinistra per aggrapparmi e darmi la spinta, e quando ci fermammo disse: — Mr. Armstead, il mio povero padre mi disse anche questo: «Colpisci le parti molli con la mano. Le parti dure colpiscile con un corpo contundente.» A parte questo, non trovo nulla da criticare nella sua tecnica. Mi dispiace di non poterle stringere la mano.

Mi sforzai di sorridere, ma non me la sentivo. Dissi: — Ammiro il suo gusto in fatto di nemici, maggiore.

— Non si può pretendere di più. Purtroppo non avrò la possibilità di far dare una controllata alla sua mano fino a che non saremo atterrati. Il rientro avrà inizio immediatamente.

— Lasci perdere.

S’inchinò a Shara, non le disse che era profondamente addolorato eccetera, augurò buon viaggio a tutti e ci lasciò. Ci legammo sui divani antiaccelerazione per attendere l’accensione. Vi fu un lungo, pesante silenzio, carico di una tristezza condivisa che la spavalderia avrebbe solo contribuito a sottolineare. Non ci guardavamo, come se temessimo che la somma de! nostro dispiacere potesse raggiungere una specie di massa critica. L’angoscia ci ammutoliva, e credo che in quell’angoscia vi fosse ben poca autocommiserazione.

Ma poi sembrò che fosse passato parecchio tempo. Dallo scompartimento vicino giungeva fioco il parlottare dell’intercom, ma il nostro non era inserito nel circuito. Alla fine ci mettemmo a discutere le probabili reazioni della critica a Massa è un verbo, e se l’analisi era una cosa seria e se il teatro era veramente morto: di tutto, tranne che dei nostri progetti per il futuro. Poi non ci fu più niente di cui parlare, e così stemmo zitti di nuovo. Credo si potrebbe dire che eravamo in stato di shock.

Non so perché, ma fui il primo a uscirne. — Perché diavolo ci mettono tanto? — esclamai irritato.

McGillicuddy fece per dire qualcosa per calmarmi, poi diede un’occhiata al suo orologio e gemette. — Hai ragione. È quasi un’ora.

Guardai l’orologio sulla parete, mi confusi fino a quando capii che era regolato sull’ora di Greenwich anziché su quella di Wall Street, e capii che aveva ragione lui. — Cristo! — gridai. — Lo scopo di questa storia è proteggere Shara dall’eccessiva esposizione all’imponderabilità! Vado a vedere cosa succede.

— Aspetta, Charlie. — McGillicuddy, che aveva tutte e due le mani in buono stato, si sganciò più in fretta. — Accidenti, resta qui e sbollisci. Vado a sentire la causa del ritardo.

Tornò pochi minuti dopo, stravolto. — Non andiamo da nessuna parte. Cox ha ricevuto l’ordine di non partire.

— Cosa? Tom, di cosa diavolo stai parlando?

Lui aveva un tono strano. — Lucciole rosse. Per la verità, sembrano piuttosto api. Dentro un pallone.

Non era possibile che stesse scherzando, e quindi voleva dire che doveva avergli dato completamente di volta il cervello, il che significava che ero piombato nel mio incubo preferito, nel quale tutti impazziscono tranne me e incominciano a straparlare. Perciò abbassai la testa come un toro infuriato e uscii alla carica, così in fretta che la porta ebbe appena il tempo di togliersi di mezzo.

Ma fu anche peggio. Quando arrivai sulla soglia della sala comando, andavo troppo in fretta perché qualcosa potesse fermarmi, a meno di una barriera di corpi umani, e quelli dell’equipaggio che erano presenti furono colti alla sprovvista. Ci fu un po’ di scompiglio alla porta, e poi piombai in sala comando, e allora decisi che ero impazzito anch’io, e quindi tutto, in un certo senso, andava a posto.

La paratia anteriore della sala comando era un televisore enorme… e abbastanza fuori centro per irritarmi, nitido sullo sfondo nero come una quantità di sigarette accese in una stanza buia, c’era davvero uno sciame di lucciole rosse.


La convinzione dell’irrealtà lo rendeva plausibile. Ma poi Cox mi richiamò alla realtà abbaiandomi: — Via dalla sala comando! — Se fossi stato in condizioni di spirito normali, sarebbe bastato per farmi scappare a rintanarmi nell’angolo più lontano della nave: ma nello stato in cui ero servì soltanto a farmi accettare la situazione impossibile. Rabbrividii come un cane bagnato e mi girai verso di lui.

— Maggiore — chiesi disperatamente, — cosa succede?

Come un re può divertirsi nei vedere un villico insolente che rifiuta d’inginocchiarsi, Cox rimase colpito dal fenomeno di qualcuno che rifiutava di obbedirgli. Questo mi fruttò una risposta. — Ci troviamo di fronte ad alieni intelligenti — disse laconicamente. — Credo che siano plasmoidi.

Non avevo mai creduto, neppure per un momento, che l’oggetto misterioso che aveva saltabeccato di qua e di là da quando ero arrivato allo Skyfac fosse vivo. Cercai di assorbirlo, poi abbandonai l’impresa e tornai alla cosa che mi stava più a cuore. — Non m’importa neppure se quelli hanno otto renne come Papà Natale: lei deve riportare immediatamente sulla Terra questa bagnarola.

— Signore, la nave è in Allarme Rosso e in Attesa di Combattimento. In questo momento si sta raffreddando la cena di tutti quanti, nell’America del Nord. Mi riterrò fortunato se riuscirò a rivedere la Terra. E adesso lasci la mia sala comando.

— Ma non capisce? L’imponderabilità prolungata potrebbe uccidere Shara. E lei è venuto quassù per impedirlo, maledizione…

Mr. Armstead! Questa è una nave militare. Ci troviamo di fronte a una dozzina di esseri intelligenti che sono apparsi dall’iperspazio circa venti minuti fa, esseri che quindi usano un motore privo di parti visibili e tale da trascendere la mia comprensione. Se questo può farla sentire meglio, so perfettamente di avere a bordo una passeggera che ha per la specie un valore intrinseco molto superiore a quello della nave e di tutti gli altri che vi si trovano, e se questo può consolarla, è una consapevolezza che causa una distrazione del tutto inutile, e non posso lasciare quest’orbita come non posso farmi spuntare le ali. E adesso, vuol lasciare la sala comando o devo farla trascinare via?

Non ebbi la possibilità di decidere: mi trascinarono via.

D’altra parte, quando tornai nel nostro scompartimento, Cox aveva inserito il nostro schermo in circuito, e Shara e McGillicuddy lo osservavano con attenzione estatica. Feci altrettanto, dato che non avevo niente di meglio da fare.

McGillicuddy non aveva sbagliato. Si comportavano davvero in modo simile alle api, nella rapidità dei movimenti. Mi ci volle un po’ prima che potessi contarli tutti: erano dieci. Ed erano davvero entro un pallone… una cosa indistinta, appena tangibile, al confine fra il trasparente e il traslucido. Sebbene sfrecciassero come furiosi moscerini rossi, lo facevano soltano entro i confini del loro sferoide… non lo lasciavano mai e sembrava che non ne toccassero mai la superficie interna.

Mentre li guardavo, gli ultimi avanzi dell’adrenalina smisero di farmi effetto, lasciando un senso d’energia frustrata. Cercai di rendermi conto che quegli effetti speciali tipo Commandos Spaziali rappresentavano qualcosa che era… più importante di Shara. Era una nozione sconvolgente, ma non potevo respingerla.

Nella mia mente c’erano due voci, ed entrambe urlavano domande a pieni polmoni, e ognuna ignorava quel che chiedeva l’altra. Una gridava: «Quei cosi sono amichevoli? Oppure ostili? Conoscono questi concetti? Quanto sono grossi? Quanto sono lontani? Da dove vengono?» L’altra voce era meno ambiziosa, ma altrettanto energica: e ripeteva sempre la stessa domanda: «Per quanto tempo ancora Shara potrà restare in condizioni d’imponderabilità senza morire?»

La voce di Shara era piena di meraviglia. — Stanno… stanno danzando.

Guardai meglio. Se c’era uno schema, un disegno, in quel brulichio da mosche sull’immondizia, io non lo riconoscevo. — A me sembrano movimenti casuali.

— Charlie, guarda. Tutta quell’attività furiosa, eppure non si urtano e non urtano le pareti del loro involucro. Devono essere in orbite coreografate con la precisione di quelle degli elettroni.

— Gli atomi danzano?

Shara mi lanciò un’occhiata strana. — No, Charlie?

— Raggio laser — disse McGillicuddy.

Lo guardammo.

— Quei cosi devono essere plasmoidi… l’uomo con cui ho parlato ha detto che li hanno avvistati sul radar. Questo significa che sono gas ionizzati… quel genere di cose che produceva le segnalazioni degli UFO. — Ridacchiò, poi si trattenne. — Se poteste tagliare quell’involucro con il laser, scommetto che si potrebbe deionizzarli benissimo… e poi quell’involucro deve contenere il supporto vitale, qualunque cosa metabolizzino.

Mi girava la testa. — Allora non siamo indifesi?

— State parlando tutti e due come militari — esclamò Shara. — Vi dico che stanno danzando. I danzatori non sono combattenti.

— Andiamo Shara — gridai. — Anche se quei cosi fossero lontanamente simili a noi, quello che dici non può essere vero. Pensa ai combattimenti dei samurai, al karaté, al kung fu… sono danze. — Indicai lo schermo con la testa. — Tutto ciò che sappiamo di quelle braci animati è che viaggiano nello spazio interstellare. E questo basta per spaventarmi.

— Charlie, guardali — ordinò lei.

Li guardai.

Per Dio, non avevano l’aspetto minaccioso. Più li guardavo e più sembrava che si muovessero in una specie di danza, volteggiando in folli adagio troppo svelti perché l’occhio li seguisse. Non era una danza convenzionale… era più analoga a ciò che Shara aveva incominciato con Massa è un verbo. Avrei voluto mettere in funzione un’altra telecamera per creare il contrasto della prospettiva: e questo, finalmente, mi svegliò. Due idee mi affiorarono nella mente, e la seconda era necessaria per convincere Cox ad accettare la prima.

— Quanto pensi che siamo lontani dallo Skyfac? — chiesi a McGillicuddy.

Lui sporse le labbra. — Non siamo lontani. Non c’è stato altro che l’accelerazione di manovra. Probabilmente quei maledetti cosi sono stati attratti dallo Skyfac… dev’essere il segno di vita intelligente più visibile nel sistema. — Fece una smorfia. — Forse loro non vivono sui pianeti.

Mi tesi e attivai il circuito audio. — Maggiore Cox.

Si tolga dal circuito.

— Le piacerebbe vedere quei cosi più da vicino?

— Dobbiamo restare dove siamo. E adesso la smetta di prendermi in giro e si tolga dal circuito altrimenti…

— Vuole ascoltarmi? Ho quattro telecamere mobili con telecomando, fonte d’energia autonoma e risoluzioni migliori delle sue. Sono nello spazio. Erano state preparate per registrare la prossima danza di Shara.

Cox cambiò subito marcia. — Può collegarle con la mia nave?

— Credo di sì. Ma dovrò tornare al banco centrale nell’Anello Uno.

— Allora non c’è niente da fre. Non posso legarmi a una trottola… e se dovessi combattere o fuggire?

— Maggiore… è molto lontano, ad arrivarci a piedi?

La domanda lo scosse un po’. — Un miglio o due, a volo d’uccello. Ma lei non è abituato a spostarsi nello spazio.

— Ho vissuto in condizioni d’imponderabilità per quasi due mesi. Mi dia un radar portatile e sono capace di atterrare su Phobos.

— Mmmm. Lei è un civile… ma, accidenti, ho bisogno di immagini video migliori. Permesso accordato.

E adesso, la prima idea. — Aspetti… c’è un’altra cosa. Shara e Tom devono venire con me.

— Assurdo. Non è una gita in comitiva.

— Maggiore Cox… Shara deve tornare al più presto possibile in un campo di gravità. L’Anello Uno andrà bene… anzi, sarebbe l’ideale, se entriamo dal «raggio» centrale. Shara può scendere molto lentamente e acclimatarsi a poco a poco, come un sub effettua la decompressine a gradi, ma all’incontrario. McGillicuddy dovrà venire per stare con lei… se Shara sviene e cade lungo il tubo, può rompersi una gamba anche in un sesto di gravità. E del resto, in fatto di attività extra-veicolari è più abile di noi due.

Cox ci pensò sopra. — Andate pure.

Andammo.

Il tragitto di ritorno all’Anello Uno fu molto più lungo di tutti quelli che avevamo effettuato io e Shara, ma con la guida di McGillicuddy lo compimmo con un minimo di manovre. L’Anello, la Champion e gli alieni formavano un triangolo equiangolo con i lati di circa un miglio e mezzo. Visti in prospettiva, gli alieni occupavano all’incirca il volume dello Shea Stadium. Non si fermarono e non rallentarono nelle loro pazze giravolte, ma sembrava che ci osservassero mentre attraversavamo l’abisso per raggiungere lo Skyfac. Ebbi la sensazione che un biologo studiasse gli strani movimenti d’una specie nuova. Noi tenevamo spente le radio delle tute per non distrarci, e questo mi rendeva un po’ più sensibile alla suggestione.

Lasciai McGillicuddy con Shara e scesi lungo il tubo a sei anelli per volta. Carrington mi stava aspettando nella sala d’ingresso, con due scagnozzi. Era facile capire che era spaventato a morte e cercava di nasconderlo con la rabbia. — Maledizione, Armstead, quelle telecamere sono mie!

— La pianti, Carrington. Se mette quelle telecamere nelle mani del miglior tecnico disponibile, che sono io, e se io metto i loro dati nelle mani del miglior statega dello spazio, Cox, può darsi che riusciamo a salvare la sua stramaledetta fabbrica. E la razza umana. — Mi mossi e lui si scostò per lasciarmi passare. Era prevedibile. Mettere in pericolo tutta l’umanità poteva essere dannoso per le pubbliche relazioni.


Dopo tutte le prove che avevo fatto non fu difficile dirigere a occhio quattro telecamere nello spazio, simultaneamente. Gli alieni ignorarono il loro avvicinarsi. La squadra comunicazioni dello Skyfac passava i miei segnali alla Champion e mi teneva collegato con Cox via audio. Seguendo le sue istruzioni inquadrai il pallone fra le telecamere e spostai la soggettiva come mi chiedeva lui. Il Quartier Generale del Comando Spaziale doveva registrare il video, ma non potevo sentire la loro conversazione con Cox, per fortuna. Gli trasmisi replay al rallentatore, primi piani, schermi divisi… tutto quello che potevo fare. I movimenti delle singole lucciole non sembravano particolarmente simmetrici, ma gli schemi incominciavano a ripetersi. Al rallentatore, l’impressione che danzassero era ancora più forte, e per quanto non potessi essere sicuro, mi sembrava che accelerassero il tempo. In un certo senso, pareva che la tensione drammatica della loro danza s’intensificasse.

E poi passai la soggettiva alla telecamera che includeva lo Skyfac sullo sfondo, e il mio cuore si svuotò, e urlai per il terrore primordiale… a metà strada fra l’Anello Uno e lo sciame di alieni, avanzava lentamente ma inesorabilmente una figura in tuta pressurizzata che doveva essere Shara.

Con tempismo teatrale, McGillicuddy apparve sulla soglia, appoggiandosi pesantemente all’ingegnere capo. Aveva la faccia stravolta dal dolore. Si reggeva su un piede solo. L’altra gamba era fratturata.

— Credo che non potrò… tornare alle esibizioni… dopotutto, — ansimò. — Ha detto… Scusami, Tom… sapevo che stava per darmi uno spintone… mi ha messo fuori uso. Oh, maledizione, Charlie, mi dispiace. — Si lasciò cadere su una sedia.

Mi arrivò la voce incalzante di Cox. — Cosa diavolo sta succedendo? Quello chi è?

Lei doveva essere inserita sulla nostra frequenza. — Shara! — urlai. — Torna qui!

— Non posso, Charlie. — La voce era sorprendentemente alta, e calmissima. — A metà del tubo mi sono incominciate le fitte al petto.

— Miss Drummond — urlò Cox, — se si avvicina di più agli alieni, l’ammazzo.

Lei rise, un suono allegro che mi gelò il sangue. — Sciocchezze, maggiore. Non si azzarderà a usare i raggi laser nelle vicinanze di quegli esseri. E poi ha bisogno di me come ha bisogno di Charlie.

— Sarebbe a dire?

— Questi esseri comunicano per mezzo della danza. È il loro equivalente della favella: dev’essere una specie di linguaggio dei segni sofisticato, come l’hula.

— Non può saperlo.

— Lo sento. Lo so. Diavolo, come si comunica, altrimenti, nello spazio privo d’aria? Maggiore Cox, io sono l’unica interprete qualificata che la razza umana abbia al momento. Quindi adesso, per favore, stia zitto in modo che io possa cercare d’imparare il loro «linguaggio».

— Io non ho l’autorità per…

Io feci una cosa straordinaria. Avrei dovuto piagnucolare e implorare Shara perché tornasse indietro, forse avrei dovuto indossare una tuta pressurizzata e volare per riportarla indietro. Invece dissi: — Ha ragione. Chiuda il becco, Cox.

— Cosa sta cercando di fare?

— Maledizione, non sprechi l’ultimo sforzo di Shara.

Cox se ne stesse zitto.

Panzarella arrivò, fece a McGillicuddy un’iniezione analgesica e gli ridusse la frattura alla gamba lì in quella stanza, ma io non vi badai. Per più di un’ora rimasi a guardare Shara che osservava gli alieni. Li osservavo anch’io, nel silenzio della disperazione, e non riuscivo assolutamente a seguire la loro danza. Mi sforzavo, cercavo di assorbire un significato dal loro volteggio pazzesco, ma non ci riuscivo. Il massimo che potevo fare per aiutare Shara era registrare tutto quel che succedeva, per una posterità ipotetica. Più volte lei proruppe in esclamazioni soffocate, e io avrei voluto chiamarla, ma non lo feci. Con un’ultima esclamazione, mise in funzione i razzi di spinta per portarsi più vicina allo sciame degli alieni, e rimase librata là molto a lungo.

Finalmente la sua voce arrivò attraverso l’altoparlante, dapprima impastata e confusa, come se parlasse nel sonno. — Dio, Charlie. È strano. Così strano. Sto incominciando a capirli.

— Come?

— Ogni volta che incomincio a comprendere una parte della danza, ci… ci porta un po’ più vicini. Non è esattamente telepatia. Ma io… li conosco meglio, ecco. Danzano ciò che sentono, gli imprimono una intensità sufficiente per farmi capire il significato. Sto afferrando all’incirca un concetto su tre. Da vicino è più forte.

La voce di Cox era gentile ma ferma. — Che cos’ha appreso, Shara?

— Che avevano ragione Tom e Charlie. Sono bellicosi. C’è una sfumatura d’arroganza, in loro… una convinzione di superiorità. La loro danza è una sfida. Dica a Tom che usano i pianeti.

— Cosa?

— Credo che in una fase del loro sviluppo siano corporei e legati ai pianeti. Poi, quando sono maturi… diventano queste lucciole, come i bruchi si trasformano in farfalle, e si dirigono nello spazio.

— Perché? — chiese Cox.

— Per trovare terreni da riproduzione. Vogliono la Terra.

Vi fu un silenzio che durò forse dieci secondi. Poi Cox parlò, senza alzare la voce. — Si allontani da loro, Shara. Voglio vedere cosa si può fare con i laser.

— No! — gridò lei, abbastanza forte per causare una distorsione di prim’ordine nell’altoparlante.

— Shara, come mi ha fatto notare Charlie, lei non è soltanto sacrificabile, ma è già sacrificata a tutti gli effetti pratici.

— No! — Questa volta fui io a gridare.

— Maggiore — disse Shara, in tono concitato, — non è il sistema giusto. Mi creda, loro sono in grado di sfuggire o di resistere a tutti i mezzi che la Terra può usare. Lo so.

— Morte e dannazione — disse Cox, — che cosa vuole che faccia? Lasciare che siano loro a tirare il primo colpo? In questo momento stanno venendo qui navi spaziali di quattro paesi.

— Maggiore, attenda. Mi dia tempo.

Cox incominciò a bestemmiare, poi s’interruppe. — Quanto?

Lei non rispose direttamente: — Se questa specie di telepatia funzionasse anche nell’altro senso… dev’essere cosi. Per loro non sono più strana di quanto lo siano loro per me. Probabilmente lo sono anche meno: ho la sensazione che abbiano viaggiato e visto molte cose. Charlie?

— Sì?

— Incomincia le riprese.

Lo sapevo. L’avevo capito dal primo momento che l’avevo vista nello spazio, sul monitor. E sapevo di che cosa aveva bisogno, adesso, lo capivo dal leggero tremito della sua voce. Era necessaria tutta la mia forza d’animo, ed ero contento di poterlo fare. Con allegria estremamente realistica le dissi: — In bocca al lupo, piccola, — e spensi il microfono prima che lei potesse sentire il mio singhiozzo.

E Shara danzò.

Incominciò adagio, l’equivalente di un esercizio al pianoforte con un solo dito, mentre cercava di stabilire un vocabolario di movimenti che gli esseri potessero comprendere. «Potete vedere», sembrava dire, «che questo movimento è una tensione di desiderio? Vedete che questo è una ripulsa, questo una rivelazione, e questo un’elisione graduata d’energia? Sentite l’ambiguità nel modo in cui distorco questo arabesque, sentite che la tensione si può risolvere così?»

E sembrava che Shara avesse ragione, che quelli avessero un’esperienza in fatto di culture disparate infinitamente maggiore della nostra, perché erano superbi linguisti del moto. Più tardi pensai che forse avevano scelto il moto come mezzo di comunicazione a causa della sua universalità. Comunque, mentre la danza di Shara incominciava ad intensificarsi, la loro prese a rallentare percettibilmente, fino a che rimasero librati nello spazio, immobili, ad osservarla.

Poco dopo, Shara dovette concludere che aveva definito i suoi termini in modo sufficiente almeno per una comunicazione rudimentale, perché incominciò a danzare veramente. Prima aveva usato soltanto i suoi muscoli e le masse degli arti. Ora aggiunse i razzi di spinta, uno alla volta o in combinazione. La sua danza divenne una danza vera: più di una collezione di movimenti, una cosa che aveva sostanza e significato. Era indiscutibilmente Stardance come l’aveva pre-coreografata, come aveva sempre avuto intenzione di eseguirla. Non era una coincidenza che avesse qualcosa da dire a esseri assolutamente alieni, qualcosa dell’uomo e della sua natura: era l’essenziale e suprema espressione della più grande artista della sua epoca, e aveva qualcosa da dire a Dio stesso.

Le luci delle telecamete facevano balenare d’argento la tuta pressurizzata, d’oro le bombole dell’aria sulle sue spalle. Si muoveva sullo sfondo nero dello spazio, intessendo la danza intricata in un movimento agevole che sembrava lasciarsi dietro un’eco. E il significato di quei volteggi e di quelle piroette divenne a poco a poco chiaro, e io mi sentivo la gola arida e stringevo i denti.

Perché la sua danza parlava né più né meno che della tragedia di essere vivi e di essere umani. Parlava, con estrema eloquenza, del dolore. Parlava, con profonda conoscenza, della disperazione. Parlava della crudele ironia dell’ambizione sconfinata legata alla capacità limitata, dell’eterna speranza investita in un’esistenza effimera, della smania di cercare di creare un futuro inesorabilmente predeterminato. Parlava di paura e di fame e, chiaramente, della fondamentale solitudine e dell’alienazione dell’animale umano. Descriveva l’universo visto attraverso gli occhi dell’uomo: un ambiente ostile, la materializzazione dell’entropia in cui tutti veniamo scagliati, soli, impediti dalla nostra natura dal toccare un’altra mente se non in modo indiretto, per procura. Parlava del cieco spirito di contraddizione che costringe l’uomo a lottare enormemente per una pace che, una volta ottenuta, diventa noia. E parlava della follia, del terribile paradosso in forza del quale l’uomo è simultaneamente capace di ragionare e sragionare, perpetuamente incapace di collaborare persino con se stesso.

Parlava di Shara e della sua vita.

Si ripetevano continuamente le affermazioni cicliche di una speranza che crollava nella confusione e nella rovina. Continuamente, gli slanci d’energia cercavano una risoluzione e trovavano soltanto frustrazione. All’improvviso Shara si lanciò in una serie di movimenti che mi sembrava familiare, e quasi subito la riconobbi: era la parte conclusiva di Massa è un verbo, ricapitolata… non ripetuta, bensì ripresa, echeggiata, e i Tre Interrogativi ricevevano un’urgenza più terribile dal nuovo altare su cui venivano ammucchiati. E come prima, veniva quella contrazione finale e implacabile, quell’ultimo ritrarsi di tutte le energie. Il suo corpo si abbandonò, alla deriva nello spazio, e l’essenza del suo essere si rinchiuse nel suo centro, invisibile.

Per la prima volta gli alieni si mossero.

E all’improvviso Shara parve esplodere, sbocciando dalla contrazione non come una molla che scatta, ma come un fiore che nasce da un seme. La forza di quello slancio la scagliò attraverso il vuoto come se fosse un gabbiano, travolto da un uragano di venti galattici. Il suo centro pareva scagliarsi attraverso lo spazio e il tempo, trascinando il suo corpo in una nuova danza.

E la nuova danza diceva: «Questo è ciò che significa essere umani: capire l’essenziale futilità di ogni azione, di ogni lotta… e agire e lottare. Questo è ciò che significa essere umani: cercare sempre di afferrare qualcosa d’inafferrabile. Questo è ciò che significa essere umani: vivere in eterno o morire nel tentativo. Questo è ciò che significa essere umani: formulare perpetuamente gli interrogativi senza risposta, nella speranza che, formulandoli, si affretti in qualche modo il momento in cui troveranno una risposta. Questo è ciò che significa essere umani: lottare nonostante la certezza del fallimento.

«Questo è ciò che significa essere umani: perseverare.»

La sua danza diceva tutto questo con una serie di movimenti ciclici che avevano tutta la maestà solenne delle grandi sinfonie, diversi l’uno dall’altro come i fiocchi di neve, e altrettanto simili. E la nuova danza rideva, rideva del domani come rideva di ieri, e soprattutto rideva dell’oggi.

«Perché questo è ciò che significa essere umani: ridere di ciò che un altro chiamerebbe tragedia.»

Gli alieni sembravano ritrarsi da quell’energia feroce, sbalorditi, reverenti, un po’ atterriti dallo spirito indomabile di Shara. Sembravano attendere che la danza finisse, che lei si esaurisse, e la sua risata risuonava nel mio altoparlante mentre lei raddoppiava i suoi sforzi e diventava una girandola, un fuoco d’artificio. Cambiò il punto focale della sua danza: incominciò a danzare intorno a loro, in sprazzi pirotecnici di movimento che si avvicinavano sempre di più allo sferoide intangibile nel quale erano racchiusi. Gli alieni si rattrappivano per allontanarsi da lei, si ammucchiavano insieme al centro dell’involucro, non tanto minacciati fisicamente quanto intimoriti.

«Questo,» diceva il corpo di Shara, «è ciò che significa essere umani: suicidarsi con un sorriso, se diviene necessario.»

E di fronte a quella terribile sicurezza, gli alieni cedettero. Di colpo le lucciole e il pallone sparirono, altrove.


So che Cox e McGillicuddy erano ancora vivi, perché più tardi li vidi, e questo significa che probabilmente stavano dicendo e facendo qualcosa in mia presenza, ma io non li sentivo e non li vedevo, allora: per me erano morti come tutto era morto eccettuato Shara. Chiamai il suo nome, e lei si avvicinò alla telecamera accesa, fino a quando potei scorgere il suo viso dietro il cappuccio di plastica della tuta pressurizzata.

— Forse saremo trascurabili, Charlie — disse, ansimando per prendere fiato. — Ma, per Dio, siamo duri.

— Shara… adesso rientra.

— Sai che non posso.

— Adesso Carrington dovrà darti un posto a gravità zero per viverci.

— Una vita d’esilio? Per cosa? Per danzare? Charlie, non ho più nulla da esprimere.

— Allora verrò fuori io.

— Non essere sciocco. Perché? Per abbracciare una tuta pressurizzata? Per toccarci teneramente i cappucci per l’ultima volta? Balle. Finora è un bel finale… non roviniamolo.

Shara! — Crollai completamente, mi accasciai e incominciai a singultare.

— Charlie, ascoltami — disse lei, a voce bassa, ma con una concitazione che mi toccò nonostante l’angoscia. — Ascoltami, perché non ho molto tempo. Ho qualcosa da darti. Speravo che l’avresti scoperto da solo, ma… mi ascolti?

— S-sì.

— Charlie, la danza a gravità zero diventerà di colpo popolarissima. Io ho aperto la porta. Ma sai come sono le mode: rovineranno tutto, se non agirai in fretta. La lascio nelle tue mani.

— Cosa… cosa stai dicendo?

— Sto parlando di te, Charlie. Riprenderai a ballare.

Era la carenza d’ossigeno, pensai. Ma non aveva ancora esaurito l’aria fino a quel punto. — D’accordo. Sicuro.

— Per amor di Dio, smettila di fingere di assecondarmi… non sono impazzita, te lo garantisco. L’avresti capito anche tu, se non fossi così maledettamente stupido. Non capisci? In condizioni d’imponderabilità la tua gamba non ha niente!

Restai a bocca aperta.

— Mi senti, Charlie? Potrai ricominciare a ballare!

— No — dissi, e cercai una ragione per giustificare quel «no». — Io… non puoi… è… accidenti, la gamba non è abbastanza forte per lavorare all’interno.

— Dimentica per un momento che il lavoro all’interno sarà meno della metà di quel che farai. Dimenticalo, e ricorda il pugno sul naso che hai dato a Carrington, Charlie, quando hai scavalcato la scrivania, ti sei dato la spinta con la gamba destra.

Balbettai per un po’, e poi stetti zitto.

— Ecco, Charlie. Il mio dono d’addio. Lo sai, non sono mai stata innamorata di te… ma devi sapere che ti ho sempre voluto bene. Te ne voglio ancora.

— Ti amo, Shara.

— Addio, Charlie. Fai come ti ho detto.

Tutti e quattro i razzi di spinta si accesero contemporaneamente. La guardai discendere. Poco dopo che arrivò troppo lontana perché potessi vederla, ci fu una lunga fiamma dorata che s’inarcò sulla faccia del globo, svanì, e poi divampò di nuovo quando esplosero le bombole dell’aria.


C’è un vecchio tema banale per i telefilm: la minaccia dell’invasione aliena unifica l’umanità da un giorno all’altro. È realistico quanto l’idea «l’amore troverà la soluzione»… se quelle maledette lucciole dovessero ritornare, ci troveranno disorganizzati come lo eravamo l’ultima volta. È così.

Carrington, naturalmente, cercò di arraffare tutte le registrazioni e tutto il denaro… ma io e Shara non avevamo mai firmato un contratto, e il testamento di lei era molto esplicito. Allora cercò di corrompere il giudice, ma sbagliò la scelta, e quando la storia finì sui giornali e si rese conto dell’atteggiamento dell’opinione pubblica e privata, lasciò lo Skyfac con una tuta pressurizzata senza razzi di spinta. Credo che volesse finire com’era finita Shara, ma non era abituato alle attività extraveicolari e si mosse troppo tardi. L’ultima volta che lo videro, era diretto verso Betelgeuse. Il consiglio d’amministrazione dello Skyfac elesse un tizio che era molto ansioso di cancellare le macchie, e lui mi offrì l’uso continuativo di tutti gli impianti.

E così ne parlai con Norrey, e lei era libera: e fu così che si formò la Shara Drummond Company di Danza Neomoderna. Ci occupiamo dei bravi ballerini che sulla Terra non possono farcela per una ragione o per l’altra, ed è sorprendente che siano tanto numerosi.

Mi piace ballare con Norrey. Anche insieme, non siamo formidabili come lo era Shara da sola… ma ci armonizziamo bene. Nonostante le evidenti controindicazioni, credo che il nostro sarà un matrimonio riuscito.

È questa la cosa più straordinaria di noi umani: perseveriamo.

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