Accordatura
Quando Christian Haroldsen, all’età di soli sei mesi, venne sottoposto ai test preliminari, essi mostrarono una predisposizione al ritmo ed un’acuta consapevolezza del tono. C’erano naturalmente altri test e molte altre erano le strade che ancora si aprivano davanti a lui. Ma il ritmo e il tono erano i segni dominanti del suo zodiaco privato, e cominciò subito il processo di rafforzamento. Al signore e alla signora Haroldsen vennero dati molti nastri e venne loro consigliato di suonarli continuamente, sia mentre il figlio era sveglio che durante il sonno.
Quando Christian Haroldsen compì sette anni, un’altra raffica di test indicò con certezza il futuro che inevitabilmente avrebbe seguito. La sua creatività era eccezionale, la sua curiosità insaziabile, la sua comprensione della musica così intensa, che tutti i test lo definirono «prodigio».
Prodigio fu la parola che lo tolse dalla casa dei suoi genitori e lo costrinse a trasferirsi in una casa nel folto di una foresta decidua dove l’inverno era selvaggio e violento e l’estate una breve e disperata eruzione di verde. Crebbe accudito da servi che non riusciva mai a vedere e l’unica musica che gli era permesso di ascoltare era il canto degli uccelli, lo spirare del vento e lo scricchiolio dei rami d’inverno; e poi il tuono, ed il lieve fruscio delle foglie dorate che cadevano al suolo; la pioggia sul tetto e lo sgocciolio del ghiaccio che si scioglieva; il brusio degli scoiattoli e il silenzio profondo della neve che cadeva nelle notti senza luna.
Questi suoni erano la sola musica cosciente di Christian; crescendo, le sinfonie dei suoi primi anni non furono che un ricordo distante ed impossibile da ricatturare. E così imparò a sentire la musica di oggetti che non erano musicali… perché lui doveva trovare la musica anche dove non c’era.
Scoprì che i colori creavano suoni nella sua mente: il sole d’estate come un accordo squillante: il chiaro di luna d’inverno un sottile e triste lamento; il tenero verde della primavera un basso mormorio che seguiva un ritmo quasi (ma non del tutto) casuale; il guizzo di una volpe rossa tra il fogliame un sospiro di meraviglia.
Ed imparò a riprodurre tutti questi suoni sul suo Strumento.
Nel mondo c’erano violini, trombe, clarinetti e corni, ed erano esistiti da secoli. Christian non li conosceva. Lui aveva solo il suo Strumento. Ed era sufficiente.
Christian viveva, quasi sempre solo, in una delle stanze della casa: in essa vi era un letto, non troppo soffice, un tavolo con una sedia, una macchina silenziosa che provvedeva alla sua igiene personale e lavava i suoi abiti, ed una lampadina elettrica.
L’altra stanza conteneva solo lo Strumento. Era una consolle con una quantità di chiavi, listelli, leve, sbarre e ogni volta che lui ne toccava una parte, usciva un suono. Ogni chiave dava un suono diverso, ogni punto dei listelli ne modificava l’altezza; ogni leva trasformava il tono; ogni barra alterava la struttura del suono.
I primi tempi in cui si trovò in quella casa, Christian giocò (come fanno i bambini) con lo Strumento, traendone rumori strani e divertenti. Era il suo unico compagno di gioco; divenne esperto, e alla fine riuscì a produrre qualunque suono volesse. Dapprima si divertì con suoni alti e squillanti. Più tardi imparò il piacere dei silenzi e dei ritmi. Poi imparò a suonare con i bassi e con gli alti e a produrre due suoni per volta, e ad unirli per creare una nuova sonorità, e infine a ripetere una sequenza di suoni che aveva già eseguito in precedenza.
Gradualmente, i suoni della foresta al di fuori della sua casa cominciarono a farsi strada nella musica che lui eseguiva. Imparò a far suonare il vento attraverso il suo Strumento; imparò a fare dell’estate una delle canzoni che poteva eseguire a suo piacimento; il verde, con le sue infinite variazioni, era la sua armonia più sottile; la voce degli uccelli usciva dallo Strumento con tutta la passione della solitudine di Christian.
E la voce giunse agli Ascoltatori autorizzati:
— C’è un nuovo suono a nord di qui, ad est di qui; Christian Haroldsen, e ti spezzerà il cuore con le sue canzoni.
Gli Ascoltatori alla fine giunsero, dapprima coloro per i quali la varietà era la cosa più importante, poi coloro che erano interessati solo alla novità e alla moda, e per ultimi coloro che valutavano la bellezza e la passione sopra ogni altra cosa. Vennero e rimasero nel bosco della casa di Christian, ed ascoltarono la musica diffusa da perfetti altoparlanti collocati sul tetto della casa. Quando la musica terminò, Christian uscì dalla casa, e poté vedere gli Ascoltatori che se ne andavano. Domandò, e gli venne spiegato perché erano venuti; lui si meravigliò che le cose che faceva per amore del suo Strumento potessero interessare ad altra gente.
Stranamente, si sentì ancor più solo quando seppe che lui poteva cantare per gli Ascoltatori ma non avrebbe mai potuto udire le loro canzoni.
— Ma loro non hanno canzoni — disse la donna che veniva tutti i giorni a portargli il cibo. — Loro sono Ascoltatori. Tu sei un Compositore. Tu hai le canzoni e loro ascoltano.
— Perché? — chiese ingenuamente Christian.
La donna sembrò sorpresa. — Ma perché questa è la cosa che più amano fare. Sono stati sottoposti ai test, e sono più felici come Ascoltatori. Tu sei più felice come Compositore. Non sei felice?
— Sì — rispose Christian, e stava dicendo la verità. La sua vita era perfetta e non avrebbe voluto cambiare nulla, nemmeno le schiene, dolcemente malinconiche, degli Ascoltatori che se ne andavano alla fine delle sue canzoni.
Christian aveva sette anni.
Primo Movimento
Per la terza volta l’uomo basso con gli occhiali e un paio di baffi del tutto inappropriati osò aspettare nel sottobosco che Christian uscisse. Per la terza volta fu sopraffatto dalla bellezza della canzone appena terminata, una sinfonia triste che fece percepire all’omino con gli occhiali la pressione delle foglie che lo sovrastavano, anche se si era in estate e ci sarebbero voluti mesi prima che cominciassero a cadere. La loro caduta era inevitabile, diceva la canzone di Christian, per tutta la loro vita le foglie serbavano dentro di sé il potere di morire ed era questo che dava colore alla loro esistenza. L’omino con gli occhiali pianse… ma quando la canzone finì e gli altri Ascoltatori se ne andarono, lui si nascose nei cespugli ed aspettò.
Questa volta la sua attesa venne ricompensata. Christian uscì dalla casa e camminò tra gli alberi e si diresse verso il luogo in cui l’omino con gli occhiali era in attesa. Egli ammirò il modo semplice e disinvolto con cui Christian camminava. Il compositore doveva avere trent’anni, eppure c’era qualcosa di infantile nel modo in cui si guardava attorno, nel modo in cui camminava senza meta pronto a fermarsi per sfiorare con la punta delle dita (senza romperlo) un ramoscello caduto.
— Christian — disse l’omino con gli occhiali.
Christian si voltò, sorpreso. In tutti quegli anni nessun Ascoltatore gli aveva mai parlato. Era proibito. Christian conosceva la legge.
— È proibito — disse Christian.
— Ecco — disse l’omino con gli occhiali, porgendogli un piccolo oggetto nero.
— Che cos’è?
L’omino fece una smorfia. — Prendilo. Appena schiacci il bottone, suona.
— Suona?
— Musica.
Christian spalancò gli occhi. — Ma questo è proibito. Non posso permettere che la mia creatività venga inquinata dall’ascolto del lavoro di un altro musicista. Questo mi renderebbe imitativo, non sarei più originale.
— Stai recitando — disse l’ometto. — Stai solo recitando quelle parole. Questa è musica di Bach. — C’era venerazione nella sua voce.
— Non posso — disse Christian.
Allora l’ometto scosse la testa. — Tu non sai. Tu non sai che cosa perdi. Ma io l’ho sentito nelle tue canzoni quando sono venuto qui anni fa: tu vuoi questo.
— È proibito — ripeté Christian; per lui, il fatto che un uomo volesse compiere un atto, pur sapendo che era proibito, era sconvolgente, e non riusciva a scuotersi da quell’evento inaudito, e quindi non capì che ci si aspettava che lui facesse qualcosa.
Si udirono alcune voci e passi in lontananza e l’omino ebbe improvvisamente paura. Corse verso Christian, gli cacciò a forza il registratore nelle mani e poi sparì in direzione dei cancelli della riserva.
Christian prese il registratore e lo sollevò in una chiazza di luce che filtrava dagli alberi. Emanava un brillio opaco. — Bach, — disse Christian. E poi: — Chi diavolo è Bach?
Ma non si liberò del registratore. Né lo diede alla donna che venne a chiedergli per quale ragione l’omino con gli occhiali si fosse trattenuto. — È rimasto per almeno dieci minuti.
— Io l’ho visto solo per trenta secondi — rispose Christian.
— Ebbene?
— Voleva che ascoltassi dell’altra musica. Aveva un registratore.
— Te l’ha dato?
— No. Ma non l’ha ancora con sé? — chiese Christian.
— Deve averlo lasciato cadere nel bosco.
— Ha detto che era Bach.
— È proibito. Questo è tutto quello che devi sapere. Se trovassi il registratore, Christian, conosci la legge.
— Lo darò a lei.
Lei lo guardò attentamente. — Lo sai cosa succederebbe se ascoltassi quelle cose.
Christian annuì.
— Molto bene. Lo cercherò anch’io. Ci vediamo domani, Christian. E la prossima volta che qualcuno resta, non parlargli. Limitati a tornare a casa e a chiudere a chiave le porte.
— Lo farò — disse Christian.
Quando lei se ne andò, suonò per ore lo Strumento. Vennero altri Ascoltatori e quelli che già avevano sentito Christian furono sorpresi dalla confusione della sua canzone.
Quella notte vi fu un temporale estivo, vento, pioggia e tuoni, e Christian scoprì che non riusciva a dormire. Non a causa della musica del temporale… aveva dormito durante centinaia di questi. Era colpa del registratore appoggiato dietro lo Strumento contro la parete. Christian aveva vissuto per circa trent’anni circondato solo da questo luogo bello e selvaggio, e dalla musica da lui stesso composta. Ma ora…
Ora non poteva fare a meno di porsi delle domande. Chi era Bach? Chi è Bach? Com’è la sua musica? In che cosa è diversa dalla mia? Ha scoperto cose che io non conosco?
Com’è la sua musica?
Com’è la sua musica?
Com’è la sua musica?
Finché all’alba, quando il temporale si era ormai calmato e il vento era cessato, Christian si alzò dal letto in cui non aveva dormito, ma dove si era solo rigirato per tutta la notte, prese il registratore dal suo nascondiglio e lo accese.
Dapprima udì qualcosa di strano, come un rumore, sonorità bizzarre che non avevano niente a che fare con i suoni della vita di Christian. Ma la struttura era chiara, e alla fine della registrazione, che durò meno di mezzora, Christian aveva padroneggiato l’idea della fuga e il suono del clavicembalo gli rodeva la mente.
Ed ogni notte, per molte notti, ascoltò la registrazione, imparando sempre di più finché arrivò l’Osservatore.
L’Osservatore era cieco ed un cane lo guidava. Venne alla porta e poiché era un’Osservatore la porta si aprì davanti a lui senza bisogno che bussasse.
— Christian Haroldsen, dov’è il registratore? — chiese l’Osservatore.
— Il registratore? — domandò Christian; poi capì che era inutile, prese l’apparecchio e lo diede all’Osservatore.
— Oh, Christian! — disse l’Osservatore, e la sua voce era triste e dolce. — Perché non l’hai restituito senza ascoltarlo?
— Volevo farlo — ripeté Christian. — Ma lei come ha fatto a saperlo?
— Perché all’improvviso le fughe sono scomparse dalle tue opere. All’improvviso le tue canzoni hanno perso quell’unico elemento bachiano. E hai smesso di sperimentare nuovi suoni. Che cosa stavi cercando di evitare?
— Questo — disse Christian; si sedette allo strumento e al primo tentativo riprodusse il suono del clavicembalo.
— Eppure non hai mai provato a farlo fino ad ora, vero?
— Pensavo che l’avrebbe notato.
— Fughe e clavicembalo… le prime cose che hai notato… e le sole cose che non hai assorbito nella tua musica. Tutte le tue altre canzoni di queste ultime settimane sono permeate e influenzate da Bach, in ogni possibile sfumatura. Solo che non c’erano né fughe né clavicembali. Tu hai infranto la legge. Eri stato messo qui perché eri un genio, capace di creare cose nuove con la natura come unica ispiratrice. Ora, naturalmente, tu imiti, derivi le tue idee e ogni autentica innovazione creativa ti è impossibile. Devi andartene.
— Lo so — disse Christian, spaventato, ma senza capire effettivamente come sarebbe stata la vita al di fuori di quella casa.
— Ti addestreremo per il tipo di lavoro che ora sei in grado di fare. Non morirai di fame. Non morirai di noia. Ma poiché hai infranto la legge, d’ora in poi una cosa ti è proibita.
— La musica.
— Non tutta la musica. C’è un genere di musica, Christian, che la gente comune, quelli che non sono Ascoltatori, possono avere. La musica della radio e della televisione, e quella dei dischi. Ma la nuova musica, e quella dal vivo… ti sono proibite. Non puoi cantare. Non puoi suonare uno strumento. Non puoi battere il ritmo.
— Perché no?
L’Osservatore scosse la testa. — Il mondo è troppo perfetto, troppo pacifico, troppo felice perché possiamo permettere ad uno spostato che ha infranto la legge di andare in giro a seminare scontento. La gente comune si affida ad un certo genere di musica casuale, e non conosce niente di meglio perché non è portata ad imparare. Ma se tu… lasciamo perdere. È la legge. E se tu creerai ancora musica, Christian, verrai punito severamente. Severamente.
Christian annuì, e quando l’Osservatore gli disse di andare, lui andò, lasciandosi alle spalle la casa, i boschi e lo Strumento. Dapprincipio la prese con tranquillità, come un’inevitabile punizione per la sua infrazione; ma lui non sapeva niente di punizioni o di quello che significasse l’esilio dal suo Strumento.
Dopo cinque ore, gridava e colpiva chiunque tentasse di avvicinarsi a lui, perché le sue dita bruciavano dal desiderio di toccare le chiavi, le leve, le barre e i tasti dello Strumento, e non potevano farlo, e allora capì che prima non era mai stato solo.
Ci vollero sei mesi prima che fosse pronto per la vita normale. E quando lasciò il centro di Riabilitazione (un edificio piccolo, perché veniva usato molto raramente), aveva un aspetto stanco, sembrava molto invecchiato e non sorrideva a nessuno. Divenne autista per una ditta di trasporti, perché i test avevano indicato che questo era il lavoro che meno gli sarebbe pesato, e gli avrebbe ricordato il meno possibile ciò che aveva perso, e in più avrebbe stimolato quelle poche attitudini ed interessi che ancora gli rimanevano.
Consegnava noccioline alle drogherie.
E di notte scoprì i misteri dell’alcool, e l’alcool, le noccioline, il camion ed i suoi sogni erano sufficienti a rendergli la vita accettabile. Non serbava rancore. Avrebbe potuto vivere così per il resto della sua vita, senza amarezza.
Consegnava noccioline fresche e ritirava quelle stantie.
Secondo Movimento
— Con un nome come il mio, — diceva sempre Joe — dovevo aprire un bar con tavola calda. Solo così avrei potuto appendere l’insegna Bar e Tavola Calda da Joe. — E rideva, rideva, perché dopo tutto, Bar e Tavola Calda da Joe era una cosa buffa per quei tempi.
Ma Joe era un ottimo barista e gli Osservatori l’avevano messo nel posto giusto. Non in una grande città, ma in una molto più piccola; una città appena fuori dall’autostrada, dove spesso si fermavano i camionisti; una cittadina non lontana da una grande metropoli, in modo che le cose interessanti fossero a portata di mano e se ne potesse parlare, preoccuparsene, spettegolarci e divertirsi.
Per cui il bar e tavola calda di Joe era un posto simpatico e molto frequentato. Ma non da gente alla moda e neppure da ubriaconi, ma da gente sola e alla mano, in giusta proporzione. — I miei clienti sono come un buon drink, un po’ di questo e un po’ di quello, per creare un gusto nuovo con un sapore migliore di ciascuno degli ingredienti. — Oh, Joe era un poeta, era un poeta dell’alcool e, come molta gente in quei giorni, lui era solito dire: — Mio padre era avvocato e ai suoi tempi anch’io avrei finito con il fare l’avvocato e non avrei mai saputo quello che perdevo.
Joe aveva ragione. Ed era davvero un ottimo barista e non avrebbe voluto essere in nessun altro posto e così era felice.
Ma una notte arrivò un tizio che non si era mai visto, un uomo con un camion per la consegna delle noccioline, con il nome di una fabbrica di noccioline sull’uniforme. Joe lo notò perché il silenzio circondava quell’uomo come un odore… dovunque andasse la gente lo notava e, benché lo guardassero appena, abbassavano la voce o smettevano del tutto di parlare, diventavano pensosi e guardavano le pareti e lo specchio dietro il bar. L’uomo che consegnava le noccioline era seduto in un angolo, con una bevanda allungata con acqua, il che significava che aveva intenzione di restare a lungo, e non voleva ingerire l’alcool troppo in fretta per non essere costretto ad andarsene troppo presto.
Joe era un acuto osservatore e notò che quell’uomo continuava a fissare l’angolo buio in cui si trovava il pianoforte. Era una vecchia mostruosità scordata, un cimelio dei tempi andati (perché quel bar esisteva da molto tempo), e Joe si domandò perché quell’uomo ne fosse affascinato. Certo, molti dei clienti di Joe se ne erano interessati, ma si erano limitati ad avvicinarsi e toccare i tasti, cercando una melodia senza riuscirci, perché il piano era scordato, e alla fine avevano rinunciato. Ma quest’uomo, invece, sembrava quasi spaventato dal piano e non osava avvicinarsi.
All’ora di chiusura, l’uomo era ancora lì e allora, d’impulso, invece di farlo uscire, Joe abbassò la musica di sottofondo, spense quasi tutte le luci, e poi andò ad alzare il coperchio, scoprendo i tasti grigi.
L’uomo che consegnava noccioline si avvicinò. Chris, c’era scritto sulla targhetta. Si sedette e sfiorò un tasto. Il suono non fu gradevole. Ma l’uomo toccò tutti i tasti ad uno ad uno, poi di nuovo in ordine diverso, e per tutto il tempo Joe lo osservò, domandandosi perché l’uomo provasse una tale emozione.
— Chris — disse Joe.
Chris lo guardò.
— Conosci qualche canzone?
La faccia di Chris assunse una strana espressione.
— Voglio dire, una vecchia canzone, non una di quelle stupide canzonette della radio. «In una piccola città spagnola». Mia madre me la cantava sempre. — E Joe cominciò a cantare: — «In una piccola città spagnola, era una notte come questa. Giocavano le stelle a nascondino, in una notte come questa».
Chris cominciò a suonare mentre la debole voce stonata e baritonale di Joe continuava la canzone. Ma non era un accompagnamento; non era qualcosa che Joe avrebbe chiamato un accompagnamento. Era invece un contrappunto alla melodia, un forte contrasto, e i suoni che uscivano dal piano erano strani e disarmonici e, per Dio, bellissimi. Joe smise di cantare ed ascoltò. Rimase ad ascoltare per due ore e, quando tutto finì, versò con grande rispetto un drink per l’uomo ed un altro per sé e brindò con Chris, l’uomo che consegnava le noccioline, e che era in grado di prendere quel vecchio piano malandato e di farlo cantare sul serio.
Tre sere più tardi Chris ritornò, con un’espressione circospetta e tormentata. Ma questa volta Joe sapeva quello che sarebbe successo (che doveva succedere) ed invece di aspettare l’ora di chiusura, spense la musica con dieci minuti di anticipo. Chris lo guardò implorante. Joe fraintese… andò al piano e sollevò il coperchio della tastiera, sorridendo. Chris si avvicinò rigido allo sgabello e, con una certa riluttanza, si sedette.
— Ehi, Joe — disse uno degli ultimi cinque avventori, — chiudi prima, stasera?
Joe non rispose. Si limitò a guardare mentre Chris cominciava a suonare. Nessun preliminare, questa volta: niente scale e digressioni sui tasti. Solo potenza, e il piano fu suonato come non si era mai inteso che un piano dovesse suonare; le note sbagliate, quelle stonate, si adattarono alla musica tanto da risultare perfette, e sembrava che le dita di Chris, ignorando la restrizione di una scala a dodici toni, suonassero, almeno così parve a Joe, nelle fenditure fra un tasto e l’altro.
Nessuno dei clienti se ne andò prima che Chris avesse finito, un’ora e mezzo più tardi. Tutti accettarono l’ultimo goccio e tornarono a casa scossi da quell’esperienza.
La sera seguente Chris tornò, e anche quella dopo, e quella dopo ancora. Qualunque fosse la battaglia privata che l’aveva tenuto lontano per qualche giorno dopo la prima notte in cui aveva suonato, evidentemente era stata vinta o persa. Non erano affari di Joe. Quello che gli importava era che quando Chris suonava il piano, riusciva a provare sensazioni che la musica non gli aveva mai regalato, ed era questo che lui voleva.
E sembrava che fosse così anche per i clienti. Verso l’ora di chiusura la gente affollava il locale, apparentemente solo per sentire Chris suonare. Joe cominciò ad anticipare sempre più l’inizio della sua esibizione e dovette smettere di offrire da bere dopo il concerto perché la gente era troppa, e la cosa lo avrebbe mandato in rovina.
Continuò così per due lunghi e strani mesi. Il furgone delle consegne si fermava davanti al locale e la gente si faceva da parte per far entrare Chris. Nessuno gli diceva niente, ma tutti aspettavano che cominciasse a suonare. Lui non beveva. Suonava e basta. E tra una canzone e l’altra, le centinaia di persone nel Bar e Tavola Calda da Joe mangiavano e bevevano.
Ma l’allegria era svanita. Le risa, le chiacchiere, l’affiatamento in breve tempo cessarono, e dopo un po’ Joe si stancò della musica, e cominciò a desiderare di riavere il suo bar come era stato prima. Accarezzò l’idea di sbarazzarsi del piano, ma i clienti se la sarebbero presa con lui. Pensò di chiedere a Chris di non venire più, ma non aveva il coraggio di parlare a quell’uomo così strano e silenzioso.
E finalmente fece quello che avrebbe dovuto far fin dal principio. Chiamò gli Osservatori.
Arrivarono nel bel mezzo di una esibizione, un Osservatore cieco che teneva un cane al guinzaglio, ed un Osservatore senza orecchi che camminava con passo malfermo, appoggiandosi qua e là per mantenersi in equilibrio. Arrivarono nel mezzo di una canzone e non aspettarono che finisse. Andarono al piano e chiusero dolcemente il coperchio; Chris tolse le dita e guardò il coperchio chiuso.
— Oh, Christian — disse l’uomo che aveva un cane come guida.
— Mi dispiace — rispose Christian, — ho cercato di non farlo.
— Oh, Christian, come posso sopportare di farti ciò che deve essere fatto?
— Lo faccia — disse Christian.
E così l’uomo senza orecchi prese un coltello laser dalla tasca del suo cappotto e tagliò le dita di Christian, proprio nel punto in cui erano unite al palmo. Il laser cauterizzò e sterilitzzò la ferita nel momento stesso in cui recideva, ma qualche goccia di sangue si sparse ugualmente sull’uniforme di Christian. E Christian, con il palmo delle mani e le nocche ormai inutili, si alzò e uscì dal Bar e Tavola Calda di Joe. La gente si spostò ancora per farlo passare ed ascoltò con attenzione le parole dell’Osservatore cieco: — Quello è un uomo che ha infranto la legge, e a cui era stato proibito di essere un Compositore. Lui ha infranto la legge una seconda volta e la legge vuole che lui smetta di sovvertire un sistema che vi rende tutti felici.
Tutti compresero. Ne furono addolorati, e si sentirono a disagio per alcune ore, ma quando furono tornati a casa, la casa-giusta-per-loro, e furono tornati al lavoro, che era quello-giusto-per-loro, la semplice soddisfazione per la loro vita cancellò il momentaneo dolore per Chris. Dopotutto, Chris aveva infranto la legge. Ed era la legge che li manteneva al sicuro e soddisfatti.
Persino Joe. Persino Joe dimenticò presto Chris e la sua musica. Sapeva di aver agito per il meglio. Ma non riuscì ad immaginare perché un uomo come Chris avesse voluto infrangere la legge, e soprattutto quale legge avesse infranto. Non c’era una legge in questo mondo che non fosse intesa a rendere felice la gente… e non c’era alcuna legge che Joe potesse pensare anche solo lontanamente di voler infrangere.
Eppure. Una volta Joe si avvicinò al pianoforte, sollevò il coperchio e suonò tutti i tasti. E quando lo ebbe fatto, appoggiò il capo sulla tastiera e pianse, pianse perché sapeva che quando Chris aveva perso quel piano, aveva perso anche le sue dita, così da non poter mai più suonare… come se Joe avesse perso il suo bar. E se mai Joe avesse dovuto perdere il suo bar, la vita non avrebbe più avuto alcun significato.
Per quel che riguardava Chris, qualcun altro cominciò a frequentare il bar, guidando lo stesso furgone delle consegne, e nessuno vide mai più Chris in quella parte del mondo.
Terzo Movimento
— Oh, che meravigliosa mattina! — cantò uno della squadra addetta alla costruzione della strada, un tipo che aveva visto Oklahoma! per quattro volte nella sua città.
— Culla la mia anima nel grembo di Abramo! — cantò un altro che aveva imparato a cantare quando la sua famiglia era solita riunirsi a suonare la chitarra.
— Guidami, luce gentile, nel buio che mi circonda! — disse uno della squadra che aveva fede.
Ma un altro di essi, l’uomo senza mani che reggeva i segnali che indicavano al traffico di Fermarsi o di Rallentare, ascoltava, senza mai cantare.
— Perché non canti mai? — chiese l’uomo che amava Rodgers e Hammerstein. Lo chiedeva a tutti, prima o poi.
E l’uomo che chiamavano Sugar si limitò a scrollare le spalle: — Non mi va di cantare — diceva, quando diceva qualcosa.
— Perché lo chiamano Sugar? — chiese una volta un nuovo arrivato. — A me non sembra per niente dolce.
E l’uomo che aveva fede rispose: — Le sue iniziali sono C.H. Come lo zucchero. C H, sai. — E il nuovo arrivato rise. Un gioco di parole stupido, ma quel genere di battute rendevano la vita sopportabile alla squadra addetta alla costruzione della strada.
Non che la vita fosse così dura. Perché anche questi uomini erano stati sottoposti ai test ed avevano il lavoro che più li rendeva felici. Essi erano orgogliosi della pelle bruciata dal sole e della fatica che indolenziva i muscoli, e la strada che si allungava e si assottigliava dietro di loro era la cosa più bella al mondo. E così cantavano tutto il giorno, sapendo che non avrebbero potuto essere più felici di quanto lo erano quel giorno.
Tranne Sugar.
Poi arrivò Guillermo. Un messicano tozzo che parlava con un accento marcato; Guillermo ripeteva a tutti quelli che glielo chiedevano: — Posso anche venire da Sonora, ma il mio cuore è a Milano! — e quando qualcuno gli domandava perché (e anche quando nessuno glielo domandava), lui spiegava: — Io sono un tenore italiano in un corpo messicano — e ne dava la prova cantando ogni nota scritta da Verdi e da Puccini. — Caruso non era nessuno — si vantava Guillermo. — Acoltate questo!
Guillermo aveva dei dischi e cantava insieme ad essi, e quando lavorava con la squadra si univa a qualunque canzone e cantava in coro oppure intonava un assolo ben al di sopra della melodia, con una ruggente voce tenorile che scoperchiava i tetti e riempiva le nuvole. — Io so cantare — diceva Guillermo, e subito gli altri della squadra rispondevano: — Maledettamente vero, Guillermo! Canta ancora!
Ma una sera, Guillermo volle essere sincero e raccontò la verità. — Ah, amici miei, io non sono un cantante.
— Che cosa dici? Certo che lo sei! — fu la risposta unanime.
— Sciocchezze! — gridò Guillermo con tono teatrale. — Se sono davvero un grande cantante, perché non mi avete mai visto registrare delle canzoni? Eh? Questo sarebbe un grande cantante! Sciocchezze! I grandi cantanti sono allevati per essere dei grandi cantanti. Io sono solo un tipo a cui piace cantare, ma che non ha talento! Io sono un tipo a cui piace lavorare nei cantieri stradali con uomini come voi e cantare a squarciagola. Ma all’opera non potrei mai cantare! Mai!
Non lo disse con tristezza. Lo disse con fervore, con sicurezza: — Io appartengo a questo luogo! Posso cantare per voi, che vi divertite ad ascoltarmi! Posso cantare in sintonia con voi quando sento l’armonia nel mio cuore. Ma non pensate che Guillermo sia un grande cantante, perché non lo è!
Era una serata di sincerità ed ognuno spiegò perché era felice nella squadra di costruzione delle strade e perché non avrebbe voluto essere in nessun altro luogo. Tutti, tranne Sugar.
— Avanti, Sugar. Non sei felice qui?
Sugar sorrise. — Sono felice, mi piace qui. Questo è un buon lavoro per me. E mi piace sentirvi cantare.
— E allora perché non canti con noi?
Sugar scosse il capo. — Non sono un cantante.
Ma Guillermo lo guardò con aria saputa. — Non sei un cantante! Ah! Non sai cantare. Un uomo senza mani che rifiuta di cantare non è un uomo che non sa cantare, eh?
— Che cosa diavolo vuoi dire? — chiese l’uomo che amava le canzoni popolari.
— Voglio dire che quest’uomo che chiamate Sugar è un’impostore. Non è un cantante! Guardategli le mani. Non ha più le dita! Chi taglia le dita agli uomini?
La squadra non cercò di indovinare. C’erano molti modi in cui un uomo poteva perdere le dita e nessuno di questi erano affari loro.
— Ha perso le dita perché ha infranto la legge, e gli Osservatori gliele hanno tagliate! Ecco come un uomo perde le dita! Che cosa faceva con le dita, che gli Osservatori volevano che non facesse più? Stava infrangendo la legge, vero?
— Basta — disse Sugar.
— Come vuoi — rispose Guillermo, ma per una volta gli altri non rispettarono l’intimità di Sugar.
— Raccontacelo — chiesero tutti. Sugar uscì dalla stanza.
— Raccontacelo — e Guillermo si decise. Sugar doveva essere stato un Compositore che aveva infranto la legge, e a cui era stato impedito di comporre la musica. Il solo pensiero che un Compositore lavorasse nella loro squadra, addirittura uno che aveva infranto la legge, riempì gli uomini di meraviglia. I Compositori erano rari, ed erano tra gli uomini e le donne più venerati.
— Ma perché le dita?
— Perché — disse Guillermo — deve aver tentato ugualmente di fare musica. E quando si infrange la legge una seconda volta, ti viene tolto il potere di infrangerla una terza. — Guillermo parlava con un tono molto serio, e cosi agli uomini della squadra di costruzione la storia di Sugar suonò maestosa e terribile come un’opera. Si affollarono nella camera di Sugar e lo trovarono con lo sguardo fisso sulla parete.
— Eri un Compositore? — chiese l’uomo che aveva fede.
— È vero, Sugar? — chiese l’uomo che amava Rodgers e Hammerstein.
— Sì — disse Sugar.
— Ma Sugar — disse l’uomo che aveva fede, — Dio non può volere che un uomo smetta di fare musica, anche se ha infranto la legge.
Sugar sorrise. — Nessuno l’ha chiesto a Dio.
— Sugar — disse Guillermo — siamo nove in questa squadra, nove, e non c’è nessun altro per molte miglia qui intorno. Tu ci conosci, Sugar. Giuriamo sulla tomba di nostra madre, tutti noi, che non lo diremo mai ad anima viva. Perché dovremmo? Sei uno di noi! Ma canta, maledizione, canta!
— Non posso — disse Sugar. — Tu non capisci.
— Non è questo che Dio intendeva — disse l’uomo che aveva fede. — Tutti noi facciamo ciò che più ci piace ed ecco che arrivi tu, che ami la musica, e non puoi cantare una sola nota. Canta per noi! Canta con noi! E solo tu, noi e Dio lo sapremo!
Tutti promisero. Tutti pregarono.
E il giorno seguente, quando l’uomo che amava Rodgers e Mammerstein intonò «Love, Look Away», Sugar cominciò a cantare senza parole. Quando l’uomo che aveva fede cantò «God of our Fathers», Sugar cantò sottovoce con lui. E quando l’uomo che amava le canzoni popolari cantò «Swing Low, Sweet Chariot», Sugar si unì a loro con una strana voce acuta, e tutti gli uomini risero, si rallegrarono e diedero il benvenuto alla voce di Sugar nella canzone.
Inevitabilmente Sugar cominciò ad improvvisare. Prima le armonie, naturalmente, strane armonie che stupirono Guillermo, il quale poi si unì a lui con un sorriso, mentre cercava di intuire ciò che Sugar stava facendo con la musica.
E dopo le armonie, Sugar cominciò a cantare le proprie melodie, con parole sue. Erano di natura ripetitiva, con parole semplici e con melodie ancora più semplici. Eppure le ideò secondo strane strutture e ne fece delle canzoni che non si erano mai udite prima, che suonavano sbagliate, ma che pure erano assolutamente perfette. Non ci volle molto perché l’uomo che amava Rodgers e Hammerstein, l’uomo che aveva fede e quello che amava le canzoni popolari imparassero le canzoni di Sugar e le cantassero con gioia o con tristezza, con rabbia o con allegria, mentre lavoravano sulla strada.
Anche Guillermo imparò le canzoni, ed esse mutarono il suo forte registro di tenore al punto che la sua voce, che dopo tutto era stata assolutamente normale, divenne qualcosa di mirabile e di insolito. Un giorno Guillermo disse a Sugar: — Ehi, Sugar, la tua musica è tutta sbagliata, ragazzo. Ma mi piace il modo in cui la sento nel naso! E lo sai, mi piace anche come me la sento in bocca!
Alcune delle canzoni erano inni: — Lasciami affamato, Signore! — cantava Sugar, e la squadra si univa a lui.
Alcune erano canzoni d’amore: — Trovati qualcun altro, — cantava Sugar con rabbia; — Ho sentito la tua voce al mattino, — cantava Sugar teneramente; — È già estate? — cantava triste Sugar, e anche la squadra cantava con lui.
Con il passare dei mesi la squadra cambiò, un uomo se ne andava al mercoledì e un altro prendeva il suo posto al giovedì, a seconda degli operai specializzati che erano richiesti nei vari cantieri. Ogni volta che c’era un nuovo arrivato, Sugar rimaneva zitto, finché questi non avesse dato la sua parola, e così il segreto era al sicuro.
Ciò che alla fine distrusse Sugar fu il semplice fatto che le sue canzoni erano indimenticabili. Gli uomini che se ne andavano, proponevano le canzoni ai componenti della loro nuova squadra; questi ultimi le imparavano e le insegnavano ad altre squadre. Gli uomini insegnavano le canzoni nei bar e nelle strade; la gente imparava in fretta ad amarle; e un giorno un’Osservatore cieco udì le canzoni e comprese immediatamente chi per primo le avesse cantate. La musica era di Christian Haroldsen, perché in quelle melodie, per quanto semplici, soffiava il vento delle foreste del nord e la caduta delle foglie aleggiava oppressiva in ogni nota e… l’Osservatore sospirò. Prese un attrezzo speciale dal suo corredo, salì a bordo di un aereo e volò fino alla città più vicina al luogo dove lavorava una certa squadra. E l’Osservatore cieco prese una macchina della compagnia con autista, raggiunse la strada e dove essa finiva, nel punto in cui stava cominciando ad inghiottire una striscia di terra selvaggia, l’Osservatore cieco uscì dalla macchina e udì cantare. Una voce acuta stava cantando una melodia che avrebbe potuto far piangere anche un uomo senza occhi.
— Christian — disse l’Osservatore e la canzone si interruppe.
— Lei — disse Christian.
— Christian, anche dopo che hai perso le dita?
Gli altri uomini non capirono… tutti gli altri, cioè, tranne Guillermo.
— Osservatore — disse Guillermo. — Osservatore, non ha fatto nulla di male.
L’Osservatore fece un sorriso forzato. — Nessuno ha detto che l’abbia fatto. Ma ha infranto la legge. Tu Guillermo, ti piacerebbe lavorare come servitore nella casa di un uomo ricco? Ti piacerebbe fare l’impiegato di banca?
— Non mi tolga dalla squadra della strada, la prego — disse Guillermo.
— È la legge che indica dove gli uomini saranno felici. Ma Christian Haroldsen ha infranto la legge. E se ne è andato in giro facendo sentire alla gente musica che non avrebbe mai dovuto ascoltare.
Guillermo capì di aver perso la battaglia ancor prima di cominciare, ma non riuscì a trattenersi. — Non gli faccia del male, amico. Io ero nato per ascoltare la sua musica. Lo giuro su Dio, mi ha reso più felice.
L’Osservatore scosse tristemente il capo. — Sii sincero, Guillermo. Tu sei un uomo sincero. La sua musica ti ha reso infelice, vero? Tu hai tutto ciò che puoi desiderare dalla vita, eppure la sua musica ti rende triste. Ogni volta, triste.
Guillermo cercò di ribattere, ma era sincero, guardò in fondo al suo cuore e seppe che quella musica era piena di dolore. Anche le canzoni allegre contenevano un lamento; anche quelle rabbiose piangevano; persino quelle d’amore sembravano dire che tutto muore e che la contentezza è la cosa più passeggera. Guillermo guardò in fondo al suo cuore e tutta la musica di Sugar ricambiò il suo sguardo e Guillermo pianse.
— Solo non gli faccia del male, la prego — mormorò Guillermo, tra le lacrime.
— Non gliene farò — disse l’Osservatore cieco. Poi camminò verso Christian che se ne stava passivamente in attesa e mise l’attrezzo speciale davanti alla gola di Christian. Christian boccheggiò.
— No — disse Christian, ma la parola si formò solo con la lingua e con le labbra. Non uscì alcun suono. Solo un sibilo d’aria. — No.
— Sì — disse l’Osservatore.
La squadra guardò in silenzio l’Osservatore che portava via Christian. Non cantarono per giorni. Ma poi Guillermo dimenticò il suo dolore e un giorno cantò un’aria dalla Bohéme, e da allora le canzoni ricominciarono. Ogni tanto cantavano una delle canzoni di Sugar, perché le canzoni non potevano venir dimenticate.
In città, l’Osservatore cieco diede a Christian un pezzo di carta ed una matita, e Christian immediatamente prese la matita nelle pieghe del palmo della mano e scrisse: — Che cosa farò ora?
L’Osservatore cieco rise. — Abbiamo un lavoro per te! Oh, Christian, se abbiamo un lavoro per te! — Il cane abbaiò forte sentendo il suo padrone ridere.
Applauso
In tutto il mondo c’erano solo due dozzine di Osservatori. Erano uomini riservati, che sorvegliavano un sistema che necessitava di poca sorveglianza perché in effetti rendeva felici quasi tutti. Era un buon sistema, ma come la macchina più perfetta, qua e là si rompeva. Qua e là qualcuno agiva da folle danneggiando se stesso, e per proteggere tutti ed anche quella persona, un Osservatore doveva accorgersi della follia ed andare a porvi rimedio.
Per molti anni il migliore degli Osservatori fu un uomo senza dita e senza voce. Arrivava in silenzio, vestendo un uniforme che lo designava con il solo nome di cui avesse bisogno: Autorità. E lui trovava il modo più facile, più gentile, eppure il più efficace, per risolvere i problemi, curare la follia e preservare il sistema che rendeva il mondo, per la prima volta nella storia, un luogo bellissimo in cui vivere. Praticamente per tutti.
Perché vi erano ancora alcune persone, una o due ogni anno, che cadevano vittime di un circolo vizioso creato da loro stessi, persone che non riuscivano ad adattarsi al sistema né a danneggiarlo, persone che continuavano a violare la legge anche se sapevano che questo le avrebbe distrutte.
Alla fine, quando le gentili mutilazioni e privazioni non riuscivano a curare la loro follia e a reintegrarli nel sistema, veniva loro data un’uniforme ed anch’essi andavano fuori. Ad Osservare.
Le chiavi del potere erano affidate alle mani di coloro che più avevano ragione di odiare il sistema che erano chiamati a conservare. Erano infelici?
— Sì — rispondeva Christian nei momenti in cui osava porsi questa domanda.
Nel dolore compiva il suo dovere. Nel dolore invecchiava. E alla fine gli altri Osservatori, che onoravano l’uomo silenzioso (perché sapevano che una volta aveva cantato canzoni magnifiche), gli dissero che era libero. — Il tuo servizio è finito — gli disse l’Osservatore senza gambe, e sorrise.
Christian alzò un sopracciglio come per dire: — E allora?
— Allora puoi andare.
Christian se ne andò. Si tolse l’uniforme, ma poiché non gli mancava né il tempo né il danaro, poche porte rimasero chiuse per lui. Andò dove aveva vissuto nelle sue vite precedenti. Una strada tra le montagne. Una città dove una volta aveva conosciuto ogni ingresso di servizio di drogherie, caffè e ristoranti. E infine andò in un luogo nei boschi dove una casa stava cadendo e pezzi perché nessuno l’aveva più abitata per quarant’anni.
Christian era vecchio. Il fragore del tuono gli suggerì solo che stava per piovere. Tutte le vecchie canzoni. Tutte le vecchie canzoni, pianse dentro di sé, ma solo perché non riusciva a ricordarsele e non perché la sua vita fosse stata particolarmente triste.
Mentre era seduto in un caffè nella città vicina per ripararsi dalla pioggia, sentì quattro ragazzi che strimpellavano la chitarra cantando una canzone che lui conosceva. Era una canzone che aveva inventato mentre l’asfalto colava in un torrido giorno d’estate. I ragazzi non erano musicisti, e certo non Compositori, ma cantavano con il cuore ed anche se le parole erano allegre, la canzone riusciva a commuovere tutti quelli che la ascoltavano.
Christian scrisse sul taccuino che portava sempre con sé e mostrò ai ragazzi la domanda: — Da dove viene quella canzone?
— È una canzone di Sugar — disse il capo del gruppo. — È una canzone composta da Sugar.
Christian alzò un sopracciglio, facendo un gesto noncurante.
— Sugar era un tizio che lavorava in una squadra che costruiva strade, e componeva canzoni. Ma è morto, ora.
— Sono le canzoni migliori del mondo — disse un altro ragazzo, e tutti annuirono.
Christian sorrise. Poi scrisse (ed i ragazzi aspettavano con impazienza che il vecchio se ne andasse); — Non siete felici? Perché cantate canzoni tristi?
I ragazzi non seppero cosa rispondere. Ma il capo saltò su e disse: — Certo che sono felice. Ho un buon lavoro, una ragazza che mi piace, e non potrei chiedere di più. Ho la mia chitarra. Ho le mie canzoni. I miei amici.
E un altro ragazzo disse: — Queste canzoni non sono tristi, signore. Certo, fanno piangere la gente, ma non sono tristi.
— Sì — disse un altro. — È solo che sono state scritte da un uomo che sapeva.
Christian scribacchiò: — Sapeva cosa?
— Sapeva. Sapeva e basta. Sapeva tutto.
E poi i ragazzi ritornarono alle loro chitarre e alle loro voci giovani e inesperte. Christian si avviò verso la porta perché aveva smesso di piovere, e perché sapeva quando era ora di abbandonare la scena. Si voltò e fece un lieve inchino verso i cantanti. Loro non se ne accorsero, ma le loro voci erano tutto l’applauso di cui aveva bisogno. Si allontanò dall’ovazione e uscì all’aperto, dove le foglie stavano appena cambiando colore e dove presto, con un piccolo suono inudibile, si sarebbero staccate e poi sarebbero cadute a terra.
Per un attimo credette di aver udito se stesso cantare. Ma era solo un’ultima folata di vento, che si infilava tra i cavi al di sopra della strada. Era una canzone carica di frenesia, e Christian pensò di aver riconosciuto la propria voce.