Arthur C. Clarke Polvere di Luna

Titolo originale: A Fall of Moondust

Traduzione di Hilja Brinis

© 1961 Harcourt Brace

Urania n. 281 (6 maggio 1962)


Essere il capitano dell’unico battello della Luna era un onore di cui Pat Harris andava molto orgoglioso. Mentre i passeggeri salivano a bordo, tentando di accaparrarsi i posti accanto ai finestrini, Pat si domandava come sarebbe andato stavolta il viaggio. Nello specchio retrovisivo vedeva la signorina Wilkins, molto elegante nell’uniforme azzurra della Commissione per il Turismo Lunare, intenta a svolgere le sue mansioni di hostess. Cercava sempre di pensare a lei come alla «signorina Wilkins», e questo lo aiutava a non distrarsi dal suo lavoro. Ma, in realtà, gli sarebbe piaciuto sapere che opinione Sue avesse di lui.

Non c’era nessuna faccia nota; i passeggeri erano tutti novellini, ansiosi di intraprendere la loro prima crociera lunare. Per la maggior parte erano turisti tipici: persone anziane, venute a visitare un mondo che durante la loro gioventù rappresentava ancora il simbolo dell’inaccessibilità. Solo quattro o cinque erano sotto la trentina; probabilmente facevano parte del personale tecnico di una delle basi lunari, e al momento erano in vacanza. Pat aveva notato che in genere le persone più anziane venivano dalla Terra, mentre le più giovani avevano la residenza lunare.

Per tutti, comunque, il Mare della Sete era una novità. Oltre i finestrini panoramici del Selene, la sua grigia, polverosa superficie si stendeva ininterrotta fino a raggiungere le stelle. In alto, pendeva la falce calante della Terra, sospesa in eterno nel cielo. La vivida luce verdeazzurra del pianeta inondava lo strano paesaggio di un chiarore gelido; sulla superficie esposta, la temperatura era di centocinquanta gradi sotto zero.

A prima vista, nessuno avrebbe saputo dire se il Mare della Sete fosse solido o liquido. Era completamente piatto e uniforme, senza le innumerevoli crepe e fessure che si aprivano in ogni altra parte di quel mondo sterile.

Non un isolotto, uno scoglio o un sasso interrompevano quella monotona distesa. Nessun mare della Terra, e nemmeno un semplice stagno, aveva mai conosciuto un’immobilità così assoluta.

Era un mare di polvere, non d’acqua, e quindi esulava da tutte le esperienze degli uomini; proprio per questo li attirava e li affascinava. Quella polvere fine come talco, più asciutta delle sabbie riarse del Sahara, fluiva senza sforzo, con la stessa facilità di un liquido. Un oggetto pesante lasciato cadere sulla sua superficie sarebbe scomparso istantaneamente senza uno spruzzo, senza lasciare la minima traccia. Nulla poteva muoversi sopra quella insidiosa distesa, salvo le slitte da polvere biposto, e il Selene, una bizzarra combinazione di trattore e di autobus non dissimile dal «Gatto delle nevi» usato nell’Antartico mezzo secolo prima.

La designazione ufficiale del Selene era: imbarcazione da polvere, Modello I (sebbene, per quanto ne sapeva Pat, il Modello II non esistesse nemmeno in fase di progettazione). Era chiamata «nave», «battello» o «lunabus», secondo i gusti. Pat preferiva «battello», per evitare confusioni. Se usava la definizione battello, non rischiava di essere scambiato per un comandante di navi spaziali… e i capitani di navi spaziali, si sa, era gente comunissima.

«Benvenuti a bordo del Selene» disse la signorina Wilkins, quando tutti i passeggeri ebbero preso posto. «Il capitano Harris e io siamo lieti di avervi con noi. Il viaggio durerà quattro ore, e la prima tappa sarà Crater Lake, cento chilometri a est di qui, nelle Montagne Inaccessibili.»

Pat non prestava orecchio al consueto discorsetto di circostanza: era troppo occupato nei preparativi. In pratica, il Selene era una nave spaziale di terra; né poteva essere altrimenti, dato che viaggiava nel vuoto e doveva quindi proteggere il suo carico vivente dal mondo ostile che stava oltre lo scafo. Sebbene non lasciasse mai la superficie della Luna, e fosse azionata da motori elettrici invece che da razzi, era dotata di tutto l’equipaggiamento base di una regolare astronave, e ogni cosa andava controllata prima della partenza.

Ossigeno… a posto. Corrente… a posto. Radio… a posto («Pronto, Base Arcobaleno, qui Selene. Mi sentite?») Campo d’inerzia… a zero. Compartimento stagno… chiuso. Rivelatore di falle… a posto. Luci interne… a posto. Passerella… sganciata. E così via per più di cinquanta voci, per ognuna delle quali, in caso di guasto, si sarebbe accesa automaticamente una spia. Ma Pat Harris non si fidava mai dei segnali automatici, e potendo preferiva controllare di persona.

Finalmente era pronto. I motori, molto silenziosi, cominciarono a girare, ma le eliche non pescavano ancora e il Selene vibrava appena agli ormeggi. Poi Pat abbassò la leva di destra, aumentò il numero dei giri e il battello cominciò a virare lentamente. Appena il Selene si fu allontanato dall’imbarco, Pat lo raddrizzò e aumentò la velocità.

Il battello era molto maneggevole, specie se si considerava l’assoluta novità delle sue strutture. Non c’erano stati, qui, millenni di tentativi, errori e perfezionamenti, non occorreva risalire al primo uomo che aveva affidato un tronco alla corrente. Il Selene era la prima imbarcazione del suo tipo, ed era stata creata da zero da alcuni ingegneri che si erano seduti a tavolino e si erano posti la domanda: «Come dev’essere fatto un veicolo che possa galleggiare sopra un mare di polvere?»

La scelta dei mezzi di propulsione era caduta sulle eliche sommerse. Montate a poppa, perforavano la massa polverosa spingendo innanzi lo scafo, e lasciavano una scia che assomigliava a quella di una velocissima talpa; la scia, però, svaniva nel giro di pochi secondi, e sul Mare della Sete non restava traccia del passaggio dell’imbarcazione.

Ora le tozze cupole pressurizzate di Porto Roris già scendevano rapidamente sotto la linea dell’orizzonte. Dieci minuti dopo erano completamente scomparse: il Selene si trovava nella solitudine più assoluta, al centro di qualcosa per cui i molti linguaggi dell’umanità non hanno un termine adatto.

Pat spense i motori, poi aspettò, mentre l’imbarcazione si arrestava, che intorno a lui si stabilisse il silenzio. Accadeva sempre così; passava qualche istante prima che i passeggeri si rendessero conto della stranezza di ciò che si stendeva all’esterno del battello. Quella gente aveva attraversato lo spazio e aveva visto le stelle attorno a sé; aveva guardato all’insù, o all’ingiù, verso la faccia abbagliante della Terra, ma lì era molto diverso. Non era né terra né mare, né aria né spazio, ma un po’ di tutte queste cose.

Prima che il silenzio si facesse opprimente, Pat si alzò e si rivolse ai suoi passeggeri.

«Buona sera, signore e signori» esordì. «Spero che la signorina Wilkins sia riuscita a mettervi a vostro agio. Ci siamo fermati qui perché è un buon punto per farvi fare la conoscenza di questo Mare, per darvi modo, diciamo così, di coglierne l’atmosfera.» Indicò il grigiore spettrale che si stendeva oltre i finestrini. «A quale distanza immaginate che si trovi il nostro orizzonte?» chiese. «Vi farò la domanda in un altro modo: quanto grande vi apparirebbe un uomo, se stesse in piedi laggiù, dove pare che le stelle tocchino il suolo?»

Non era una domanda alla quale si potesse rispondere basandosi solo sulla propria vista. La logica diceva: «La Luna è un piccolo mondo… l’orizzonte deve essere molto vicino». Ma i sensi davano un verdetto totalmente diverso: questa terra, suggerivano, è assolutamente piatta, e si stende all’infinito. Divide l’universo in due, e continua così sotto le stelle, senza interruzione.

L’illusione restava, anche quando se ne conosceva la causa. L’occhio non ha modo di giudicare le distanze, quando non ha nulla su cui fissarsi, come appunto avveniva in quel liscio oceano di polvere. Non c’era nemmeno, come invece c’è sulla Terra, la foschia dell’atmosfera ad ammorbidire i contorni, dando qualche indicazione di vicinanza o di distanza. Le stelle erano punti luminosi di luce ferma, che scendevano fino al limite di quell’orizzonte indeterminato.

«Lo crediate o no» continuò Pat «potete vedere a non più di tre chilometri. Lo so che da qui all’orizzonte sembra che ci siano almeno un paio di anniluce, ma in realtà ci arrivereste in venti minuti, se si potesse camminare su questa roba.»

Tornò al suo posto e riaccese i motori.

«Non c’è molto da vedere per i prossimi sessanta chilometri» concluse, voltandosi verso i passeggeri «perciò, tanto vale che ci sbrighiamo.»

Il Selene riprese la corsa. Per la prima volta si cominciò ad avere la sensazione della velocità. La scia dello scafo divenne più lunga e più agitata, mentre le eliche mordevano violentemente la polvere. E la polvere si alzava ora da entrambi i lati dell’imbarcazione in due immensi pennacchi; visto da lontano, il Selene doveva assomigliare a uno spazzaneve che si apre la via in un paesaggio invernale sotto una gelida luna. Ma quelle due parabole grigie che ricadevano lentamente non erano neve, e l’astro che illuminava la loro traiettoria era il pianeta Terra.

I passeggeri si abbandonarono sui sedili, assaporando quella corsa silenziosa e senza scosse. Ognuno di loro aveva viaggiato centinaia di volte a velocità infinitamente maggiori, ma in una astronave lanciata nello spazio non si ha la sensazione del moto, e questa rapida slittata sulla polvere era molto più emozionante. Quando Pat fece descrivere al Selene una stretta curva, portandola quasi a girare su se stessa, l’imbarcazione mancò di poco la pioggia di polvere che le sue eliche avevano scagliato verso il cielo pochi istanti prima. Sembrava assurdo che quella polvere impalpabile dovesse sollevarsi e ricadere in curve così nitide, per nulla alterate dalla resistenza dell’aria. Sulla Terra avrebbe continuato a restare sospesa per ore… forse per giorni.

Non appena l’imbarcazione si fu stabilizzata su una rotta rettilinea, dato che non c’era più niente da vedere se non quella pianura deserta, i passeggeri si immersero nella lettura del materiale pubblicitario distribuito preventivamente dalla Commissione. Ognuno aveva ricevuto una busta con fotografie, cartine geografiche, souvenir (si certifica che il signor, la signora, la signorina… ha navigato sui mari della Luna a bordo del battello da polvere Selene) e un opuscolo informativo. Non dovevano fare altro che leggerli per apprendere tutto quanto desideravano sapere sul Mare della Sete, e forse qualcosa di più.

La quasi totalità della superficie lunare, lessero, era ricoperta da un sottile strato di polvere, alto in genere solo pochi millimetri. In parte si trattava di detriti stellari: meteoriti che avevano continuato a piovere sulla faccia esposta della Luna per almeno cinque miliardi di anni. In parte si era staccata dalle rocce lunari che si dilatavano e si contraevano a causa degli incredibili sbalzi di temperatura tra il giorno e la notte. Qualunque fosse la sua origine, comunque, quella polvere era così impalpabile che poteva fluire come liquido, anche in questa debole gravità.

Attraverso i millenni, aveva continuato a scorrere dalle montagne alle zone più basse, formando stagni e laghi. I primi esploratori si aspettavano già quel fenomeno, e si erano preparati ad affrontarlo. Ma il Mare della Sete era stato una sorpresa per tutti; nessuno aveva previsto l’esistenza di una conca di polvere con oltre cento chilometri di diametro.

A confronto degli altri «mari» della Luna, questo era molto piccolo; anzi, gli astronomi non gli avevano mai riconosciuto ufficialmente la qualifica di mare, obiettando che si trattava semplicemente di una minuscola sezione del Sinus Roris, il Golfo della Rugiada. Quando mai, protestavano, una parte di un golfo poteva essere chiamata mare? Ma il nome, inventato da un agente pubblicitario della Commissione per il Turismo Lunare, era rimasto nonostante le loro obiezioni. Del resto, non era meno appropriato dei nomi di tanti altri cosiddetti mari… il Mare delle Nubi, il Mare delle Piogge, il Mare della Serenità. Per non parlare del Mare del Nettare…

L’opuscolo conteneva inoltre alcune informazioni rassicuranti, studiate allo scopo di calmare i timori dei passeggeri più nervosi e di dimostrare che la Commissione Turismo aveva pensato proprio a tutto. «Tutte le precauzioni possibili per la vostra incolumità sono state prese» affermava l’opuscolo. «Il Selene trasporta una riserva di ossigeno sufficiente per oltre una settimana, e tutti i comandi essenziali sono doppi. Un segnale radio automatico precisa a intervalli regolari la vostra posizione, e nell’eventualità estremamente improbabile che l’energia motrice venisse a mancare completamente, una slitta da polvere partirebbe subito da Porto Roris e vi rimorchierebbe in porto con pochissimo ritardo sull’orario previsto. E soprattutto, non c’è motivo di preoccuparsi del cattivo tempo. Anche se siete dei pessimi marinai, sulla Luna non dovete temere il mal di mare. Sul Mare della Sete non ci sono mai tempeste: è sempre assolutamente immobile».

Queste ultime parole erano state scritte con assoluta buona fede. Chi avrebbe potuto immaginare, infatti, che presto si sarebbero dimostrate inesatte?

Mentre il Selene continuava la sua corsa silenziosa attraverso la notte illuminata dal chiarore terrestre, sulla Luna l’attività continuava come sempre. E ce n’era di attività, adesso, dopo millenni di sonno indisturbato. Erano accadute più cose in quell’ultimo mezzo secolo che nei cinque miliardi di anni precedenti, e altre ne dovevano ancora accadere.

Nella prima città costruita dall’uomo fuori del suo mondo, Olsen, l’amministratore capo, stava facendo una passeggiatina nel parco. Era molto orgoglioso di quel parco, come del resto lo erano i venticinquemila abitanti di Porto Clavius. Era piccolo, d’accordo, ma non piccolissimo, come aveva insinuato un antipatico commentatore della TV definendolo «un vaso da fiori che soffre di megalomania». E poi sulla Terra non c’erano certo né parchi, né giardini, né altro dove si potessero trovare dei girasoli che raggiungevano i dieci metri.

Molto in alto, piccoli cirri lievi vagavano nel cielo, o almeno, così sembrava. In realtà, erano solo immagini proiettate sull’interno della cupola, ma l’illusione era così perfetta che a volte l’A.C. si sentiva prendere dalla nostalgia della patria. La patria? L’A.C. si corresse subito: la sua patria era la Luna.

Eppure, in cuor suo, Olsen sapeva che non era così. Per i suoi figli, sarebbe forse stata la patria, ma per lui no. Lui era nato sulla Terra, a Stoccolma; loro, invece, erano nati a Porto Clavius. Loro erano cittadini della Luna, ma lui era legato alla Terra da vincoli che potevano forse indebolirsi con gli anni, ma mai allentarsi del tutto.

A meno di un chilometro di distanza, davanti alla cupola principale, il capo della Commissione per il Turismo Lunare passava in rassegna la lista degli ultimi arrivi, e si concedeva un lieve sorriso di soddisfazione. L’afflusso dei turisti, rispetto alla stagione precedente, era aumentato; non che sulla Luna ci fossero stagioni, ma era stato notato che i turisti aumentavano quando nell’emisfero settentrionale della Terra era inverno.

Come incoraggiare il turismo lunare? Quella era il suo problema principale: i turisti, infatti, volevano la varietà, e non si potevano offrire loro sempre le stesse cose. Il panorama inedito, la bassa gravità, la vista della Terra, i misteri dell’Altra Faccia, i cieli spettacolari, la colonia dei pionieri, dove i turisti, però, non erano affatto graditi, che altro aveva da offrire la Luna, oltre queste cose? Peccato davvero che non ci fossero dei Seleniti indigeni, dalle usanze bizzarre e dall’aspetto ancora più bizzarro, ai quali i visitatori potessero scattare le loro fotografie. Purtroppo la principale forma di vita che fosse stata scoperta sulla Luna era visibile solo al microscopio, e i suoi antenati erano arrivati lì col Lunik II solo dieci anni prima dell’uomo stesso.

Il commissario Davis riesaminò mentalmente le proposte arrivate con gli ultimi dispacci, domandandosi se non ci fosse per caso qualche idea buona in mezzo a tante assurdità. C’era, naturalmente, la solita richiesta da parte di una compagnia TV mai sentita nominare, che voleva girare un ennesimo documentario sulla Luna, purché tutte le spese fossero a carico della Commissione Turismo. La risposta sarebbe stata: no! Se avesse accettato tutte quelle cortesi offerte, la Commissione sarebbe fallita in quattro e quattr’otto.

Poi c’era una verbosa lettera di un collega, il direttore della Commissione Turistica di New Orleans, Inc. che proponeva uno scambio di personale. Non si capiva in che modo uno scambio simile potesse giovare alla Luna, o a New Orleans, ma non sarebbe costato nulla e alla lunga poteva produrre qualche risultato. Infine, ed era una richiesta molto più interessante, il campione australiano di sci acquatico voleva sapere se qualcuno avesse mai provato a praticare quello sport sul Mare della Sete.

Sì… questa poteva essere un’idea; anzi, strano che nessuno ci si fosse ancora provato. Valeva la pena di fare un piccolo esperimento. Davis era sempre alla ricerca di nuove forme di ricreazione lunare, e considerava il Mare della Sete il suo atout migliore. Ma quell’atout, nel giro di poche ore, doveva trasformarsi in un incubo.


Davanti al Selene, l’orizzonte non era più un arco perfetto e ininterrotto; proprio sull’orlo estremo, si stagliava ora un profilo frastagliato di monti. Via via che il battello si avvicinava, i rilievi sembravano arrampicarsi lentamente su per il cielo, come sollevati da un gigantesco ascensore.

«Le Montagne Inaccessibili» annunciò Sue Wilkins. «Così chiamate perché sono interamente circondate dal mare. Noterete, inoltre, che sono molto più ripide della maggior parte delle montagne lunari.»

Sue Wilkins non approfondì oltre quel concetto, dato che, purtroppo, la maggioranza dei picchi lunari! era una grande delusione. Gli enormi crateri che apparivano così imponenti sulle fotografie prese da Terra, visti da vicino si rivelavano niente di più che colline di modeste proporzioni, dalla pendenza meno ripida di quella di certe strade di San Francisco. Ben poche avrebbero potuto offrire un ostacolo serio a un ciclista di buona volontà. I dislivelli venivano enormemente esagerati dalle ombre che le montagne stesse proiettavano all’alba e al tramonto, ma la Commissione per il Turismo Lunare cercava, s’intende, di confondere un po’ le carte, e nei suoi opuscoli pubblicitari presentava solo i picchi e i canyon più spettacolari, fotografati con sapienti giochi di prospettiva.

«Finora non sono mai state esplorate» continuò la signorina Wilkins. «L’anno scorso accompagnammo fin là un gruppo di geologi, e li facemmo sbarcare su quel promontorio, ma riuscirono a spingersi nell’interno solo di pochi chilometri. Può darsi, perciò, che lassù in mezzo a quei monti ci sia chissà che cosa. Qualsiasi ipotesi è valida: non sappiamo niente.»

«Brava Sue» pensò Pat. Quella ragazza era una guida di prim’ordine. Sapeva che cosa andava lasciato alla fantasia, e che cosa andava spiegato nei particolari. Usava un tono tranquillo, disinvolto, senza quell’enfasi cantilenante che è la malattia professionale delle guide. Conosceva perfettamente l’argomento, ed era difficile che non sapesse rispondere a una domanda. Nel complesso era una ragazza molto in gamba. Pat, che pure la trattava con molta familiarità nelle sue fantasie erotiche, segretamente la temeva un pochino.

I passeggeri fissavano affascinati i picchi ormai incombenti. Su quell’astro tuttora misterioso, ecco un mistero ancora più fondo. Le Montagne Inaccessibili, che sorgevano come un’isola dallo strano mare che le circondava, restavano una sfida per le future generazioni di esploratori. Nonostante il loro nome, ormai era abbastanza facile raggiungerle, ma poiché milioni di chilometri quadrati meno impervi erano ancora inesplorati, quei monti avrebbero dovuto aspettare il loro turno.

Ora il Selene si stava insinuando nella loro ombra; prima che qualcuno si fosse reso conto di ciò che avveniva, la Terra, che splendeva bassa nel cielo, era scomparsa alla vista. La sua luce brillante scherzava ancora sulle sommità delle montagne, ma là sotto l’oscurità era totale.

«Spegnerò le luci della cabina» disse la hostess. «Così potrete vedere meglio.»

Quando la fioca illuminazione di luci rosse si spense, ogni passeggero si sentì completamente solo nella notte lunare. Perfino la luce della Terra riflessa sulle vette stava scomparendo, via via che l’imbarcazione si addentrava nell’ombra. Pochi minuti dopo, restavano solo le stelle: freddi, immobili punti di luce contro un’oscurità così completa che la mente quasi si ribellava. Era difficile riconoscere le costellazioni tra quella moltitudine di stelle. L’occhio si confondeva tra nuovi schemi mai visti dalla Terra, e si perdeva in una confusione scintillante di nebulose e di sciami ignoti. In quel risplendente panorama, spiccava soltanto una pietra miliare inconfondibile: il raggio abbagliante di Venere, che superava come splendore tutti gli altri corpi celesti, annunciando l’avvicinarsi dell’alba.

Passarono diversi minuti prima che i passeggeri si rendessero conto che non tutte le meraviglie stavano in cielo. Dietro la veloce imbarcazione si stendeva una lunga scia fosforescente, come se un dito magico avesse tracciato una striscia di luce attraverso la faccia buia e polverosa della Luna. Il Selene lasciava una coda di cometa dietro di sé, proprio come ogni nave che si apre la via attraverso gli oceani tropicali della Terra.

Tuttavia, qui non si trattava di microorganismi che accendessero il mare delle loro minuscole lampade. Si trattava solo di innumerevoli granelli di polvere, che scintillavano l’uno contro l’altro via via che le scariche provocate dal rapido passaggio del Selene si neutralizzavano. Pur conoscendone la spiegazione, lo spettacolo restava affascinante: il turista si voltava e vedeva nel buio quel luminoso nastro elettrico rinnovarsi continuamente, come se l’intera Via Lattea si riflettesse sulla superficie lunare.

La scia baluginante si perse nella luce improvvisa quando Pat accese uno dei grandi fari. Ora, minacciosamente vicina, si vedeva una grande parete di roccia scivolare via. In quel punto il fianco della montagna saliva quasi a picco dal mare di polvere, perdendosi ad altezze incalcolabili, poiché la parete rocciosa prendeva corpo solo nei punti illuminati un attimo dall’ovale del faro.

Quelle erano montagne al cui confronto le catene dell’Himalaya, delle Ande, delle Alpi facevano la figura di neonati. Sulla Terra, le forze dell’erosione avevano cominciato a logorare le montagne fin dal primo momento della loro formazione, così che, dopo alcuni milioni di anni, quelle cime solo erano un pallido ricordo di ciò che erano state all’origine. Ma la Luna non conosceva né vento né pioggia; non c’era nulla, lassù, che potesse consumare la roccia, salvo lo sfioccarsi infinitamente lento della finissima polvere quando gli strati superficiali si contraevano nel gelo notturno. Quelle montagne erano antiche come il mondo che le aveva generate.

Pat era molto orgoglioso della propria abilità di presentatore e aveva progettato il prossimo numero con molta cura. Sembrava pericoloso, mentre non lo era per nulla; il Selene aveva percorso quella rotta un centinaio di volte e la memoria elettronica del suo pilota automatico conosceva il percorso meglio di qualsiasi pilota umano. D’improvviso, Pat spense il faro, e i passeggeri, abbacinati fino a un momento prima dal chiarore che illuminava la roccia da un solo lato, si accorsero all’improvviso che le montagne si erano andate chiudendo intorno a loro anche dall’altro.

In un’oscurità quasi totale, il Selene stava correndo lungo uno strettissimo canyon, e la rotta non era nemmeno rettilinea: di tanto in tanto lo scafo faceva brusche virate per evitare un ostacolo invisibile. Molti di quegli ostacoli, in verità, non solo erano invisibili, ma addirittura inesistenti; Pat aveva tracciato quel à rotta metro per metro, a velocità ridotta e nella piena luce del giorno, studiandola in modo da creare la massima sensazione di suspense. Le esclamazioni che arrivavano dalla cabina buia alle sue spalle gli confermarono che il suo era stato un buon lavoro.

Su in alto, una stretta fascia di cielo stellato era tutto ciò che si poteva vedere del mondo esterno; la fascia descriveva curve pazzesche, da sinistra a destra e viceversa, ad ogni scarto del Selene. La Corsa Notturna, come Pat l’aveva battezzata segretamente, durava meno di cinque minuti, ma sembrava molto più lunga. Quando il pilota riaccese il faro, e il battello venne a trovarsi al centro di una grande chiazza luminosa, dai passeggeri si levò un sospiro generale di sollievo misto a disappunto. Ecco un’esperienza che nessuno di loro avrebbe dimenticato tanto presto.

Ora che la luce era tornata, i passeggeri scoprirono di essere sul fondo di una stretta valle, o gola, le cui pareti andavano lentamente scostandosi. E infine il canyon si allargò in una specie di anfiteatro ovale largo circa tre chilometri: il cuore di un vulcano estinto, apertosi milioni di anni prima, quando perfino la Luna era giovane.

Il cratere, rispetto alla media dei crateri lunari, poteva considerarsi piccolo, ma era unico nel suo genere. L’onnipresente polvere vi era confluita aprendosi pazientemente un varco attraverso la gola, e adesso i turisti potevano scorrazzare morbidamente molleggiati in quello che una volta era stato un calderone pieno di fuochi dell’inferno. Quei fuochi si erano estinti molto prima che la vita terrestre vedesse la sua alba, e non si sarebbero riaccesi mai più. Ma c’erano altre forze non ancora estinte che stavano solo aspettando il loro momento.

Senza fretta, Pat fece compiere due volte al battello il giro del lago, lasciando che le luci dei fari corressero su e giù lungo le pareti di roccia. Era il momento migliore per ammirarlo; di giorno, quando il sole lo incendiava di luce e di calore, il cratere perdeva molto del suo incanto. Di notte, invece, sembrava appartenere al regno della fantasia, pareva uscito dalla penna di Edgar Allan Poe. In ogni istante sembrava di scorgere strane forme in movimento proprio al margine del campo visivo, oltre la breve zona luminosa dei fari. Era solo uno scherzo dell’immaginazione, naturalmente; nulla si muoveva in quella terra, salvo le ombre del sole e della Terra. Non potevano esserci fantasmi in un mondo che non aveva mai conosciuto la vita.

Era tempo di tornare, di ripercorrere il canyon e riprendere il mare aperto. Pat diresse la prua del Selene verso la stretta gola tra le montagne, e le alte pareti di roccia si richiusero attorno allo scafo. I fari rimasero accesi, perché i passeggeri potessero osservare meglio il percorso; del resto, il trucco della Corsa Notturna perdeva d’effetto se ripetuto.

Molto più avanti, oltre la zona illuminata dal Selene, un altro chiarore andava affacciandosi e si diffondeva dolcemente sulle rocce e le fenditure. Perfino durante l’ultimo quarto, la Terra aveva lo splendore di una dozzina di lune piene, e adesso che il battello stava emergendo dall’ombra delle montagne, la vivida falce tornava a dominare il cielo. Ciascuno dei ventidue passeggeri del Selene aveva gli occhi rivolti all’astro verdeazzurro, ne ammirava la bellezza e si meravigliava di tanto fulgore.

Faceva un effetto strano pensare che fossero i campi e le foreste e i laghi della Terra a brillare di tanta gloria! Forse c’era una morale, in questo, forse nessuno sapeva apprezzare il proprio mondo finché non l’aveva visto dallo spazio.

Sulla Terra, intanto, molti occhi dovevano essere rivolti verso la Luna… ora più che mai, visto che la Luna era diventata così importante per l’umanità. Ed era possibile, per quanto poco probabile, che alcuni di quegli occhi stessero proprio fissando, attraverso potenti telescopi, il lieve barlume dei fari del Selene che correva nella notte lunare. Ma nessuno ci avrebbe fatto caso se quel barlume avesse tremolato e si fosse spento.

Per un milione di anni la bolla aveva continuato a crescere, come un gigantesco ascesso, proprio sotto la radice delle montagne. Attraverso tutta la storia dell’uomo, il gas racchiuso nel cuore non ancora completamente spento della Luna si era infiltrato nei punti più deboli della crosta lunare, accumulandosi in cavità che restavano a centinaia di metri sotto la superficie. Ora, l’ascesso era maturo e pronto per scoppiare.

Il capitano Harris aveva lasciato i comandi al pilota automatico e stava chiacchierando con i passeggeri della prima fila quando il primo tremito scosse l’imbarcazione. Per una frazione di secondo Pat Harris si domandò se uno dei ventilatori avesse urtato contro qualche ostacolo sommerso; poi, il suo mondo gli mancò letteralmente sotto i piedi.

Si spalancò lentamente, come va a rilento tutto ciò che accade sulla Luna. Davanti al Selene, in un cerchio che si estendeva per molte centinaia di metri, la liscia distesa si era contratta come un ombelico. Il Mare della Sete si era animato e si muoveva, sconvolto da forze destate da un sonno millenario. Il centro del movimento sismico era al fondo di una specie di imbuto, come se nella polvere si fosse formato un mulinello gigantesco. Ogni fase di quella agghiacciante metamorfosi fu spietatamente illuminata dal chiarore terrestre: in pochi istanti il cratere divenne così profondo che la parete opposta si perse nell’ombra, e sembrò a tutti che il Selene stesse precipitando in una sacca di assoluta oscurità, lungo un arco di annientamento.

La verità era quasi altrettanto tragica. Quando Pat raggiunse i comandi, il battello stava ormai precipitando giù per quella impossibile china, trascinato dal proprio slancio e spinto dal flusso della polvere che ricadeva verso il fondo del cratere. Pat non poté fare altro che tentare di mantenere lo scafo in equilibrio, e sperare che quella velocità li spingesse su per l’altro versante dell’imbuto prima che questo si richiudesse sopra di loro.

Forse i passeggeri urlarono atterriti, ma Pat non li udì. Era conscio unicamente di quello spaventoso precipitare e del proprio sforzo per impedire allo scafo di rovesciarsi.

Già il Selene cominciava a inerpicarsi su per l’altra parete, già il bordo del cratere pareva vicino, ma sotto lo scafo la sabbia cedeva, le eliche annaspavano come le zampe di un insetto. I motori spinti al massimo riuscivano a guadagnare un po’ di strada, ma non era sufficiente. La polvere scendeva sempre più rapida verso il fondo dell’imbuto e, quel che era peggio, cominciava a sommergere le paratie del battello. Ecco: aveva già raggiunto il bordo inferiore dei finestrini; ora stava salendo lungo le vetrate… le aveva coperte completamente. Harris spense i motori prima che andassero in pezzi, e subito la marea montante della polvere cancellò l’ultimo chiarore che ancora si intravedeva della falce di Terra. Nel buio e nel silenzio il Selene sprofondò nella Luna.


Nella Sala degli impianti elettronici per il Controllo del Traffico, dal Lato Terra una memoria elettronica si risvegliò inquieta. Le otto di sera, ora lunare, erano passate da un secondo, e uno schema di impulsi, che sarebbe dovuto arrivare automaticamente allo scoccare di ogni ora, non era comparso.

Con una rapidità inconcepibile per il pensiero umano, il piccolo insieme di cellule e di microscopici relais cercò istruzioni: «ASPETTARE CINQUE SECONDI» dissero gli ordini codificati «SE NON ACCADE NULLA, CHIUDERE IL CIRCUITO 10011001.»

La minutissima parte del sistema elettronico fin qui interessata al problema aspettò con pazienza che quell’enorme periodo di tempo trascorresse… una vera eternità, sufficiente per fare cento milioni di addizioni da venti cifre, o per stampare buona parte della Biblioteca del Congresso. Poi chiuse il circuito.

In alto, sopra la superficie della Luna, da un’antenna che era puntata direttamente verso la Terra, un impulso radio si lanciò nello spazio. In un sessantesimo di secondo aveva percorso i cinquantamila chilometri fino al satelliterelais noto sotto il nome di Lagrange II, direttamente in linea tra la Terra e la Luna. Un altro sessantesimo di secondo e l’impulso era di ritorno, sensibilmente amplificato, e investiva tutto il Lato Terra Nord della Luna, dal polo all’equatore.

In termini di linguaggio umano, portava un messaggio molto semplice: «PRONTO, SELENE, NON RICEVO IL VOSTRO SEGNALE. PREGO RISPONDERE SUBITO».

Il cervello elettronico aspettò per altri cinque secondi, poi trasmise una seconda volta. Per il mondo elettronico significava aspettare per un tempo interminabile, ma la macchina era infinitamente paziente. Dopo il terzo tentativo, la macchina consultò di nuovo le sue istruzioni. Ora dicevano: «CHIUDERE IL CIRCUITO 10101010». La calcolatrice obbedì. Nella sala di Controllo del Traffico, una luce verde si fece improvvisamente rossa, un ronzio cominciò a diffondere il suo grido d’allarme. Adesso anche gli uomini, oltre le macchine, venivano informati che qualcosa non andava, in qualche punto della Luna.

La notizia si sparse dapprima lentamente, perché l’amministratore capo Olsen non aveva nessuna simpatia per le esplosioni premature di panico. Lo stesso pensava Davis, il capo della Commissione per il Turismo, tanto più che spesso quegli allarmi si rivelavano infondati.

Trascorsero diversi minuti prima che Davis si rassegnasse ad ammettere che stavolta il guaio doveva essere serio. Altre volte il segnale automatico del Selene non era arrivato, ma Pat Harris aveva sempre risposto, appena sollecitato sulla sua normale lunghezza d’onda.

Stavolta, nessuna risposta, nemmeno a un estremo segnale trasmesso su una lunghezza d’onda riservata solo per i casi d’emergenza. Era stata quest’ultima notizia che aveva indotto Davis a precipitarsi fuori della sua Torre Turistica per infilare la sotterranea che emergeva a Clavius City.

All’ingresso del centro per il Controllo del Traffico, Davis incontrò Lawrence, l’ingegnere capo. Brutto segno, quello; significava che qualcun altro prevedeva necessarie le operazioni di salvataggio. I due uomini si guardarono, entrambi ossessionati dallo stesso pensiero.

«Spero che non abbiate bisogno di me» disse l’ingegnere. «Cos’è successo? Io so soltanto che un segnale d’emergenza è rimasto senza risposta. Di che astronave si tratta?»

«Non è un’astronave, è il Selene. Non risponde, ed è in crociera sul Mare della Sete.»

«Mio Dio… se il battello si è bloccato là in mezzo, possiamo raggiungerlo solo con le slitte da polvere. L’ho sempre detto che bisognava avere due battelli in funzione, prima di cominciare a portare a spasso i turisti.»

«Questo l’avevo detto anch’io… ma al ministero hanno messo il veto. Hanno risposto che non ce ne avrebbero concessa un’altra se prima il Selene non si dimostrava una iniziativa economicamente redditizia.»

«Purché non ci renda dei titoloni in prima pagina» osservò cupo Lawrence. «Sapete come la penso su questa faccenda dei turisti sulla Luna.»

Davis lo sapeva benissimo, era una loro vecchia divergenza di opinioni. Per la prima volta, si domandò se l’ingegnere non avesse ragione, tutto sommato.

Come sempre, tutto era molto tranquillo al Controllo del Traffico. Sulle grandi carte murali, le luci verde e ambra continuavano ad accendersi e spegnersi con regolarità, ma i loro rapporti avevano perso ogni importanza di fronte al segnale di quell’unica luce rossa. Davanti ai quadri di controllo dell’Aria, della Corrente e delle Radiazioni gli ufficiali di servizio sedevano come angeli custodi, vegliando sulla sicurezza di un intero quarto di mondo.

«Nessuna novità» riferì l’addetto al Traffico del suolo. «Sappiamo solo che si trovano in un punto non identificato del Mare della Sete.»

Tracciò un cerchio sulla carta.

«A meno che non siano andati completamente fuori rotta, dovrebbero trovarsi su per giù in questa zona. Alle diciannove si trovavano a un chilometro dalla loro rotta normale. Alle venti il segnale non è arrivato, perciò se è successo qualcosa non può essere accaduta che entro quei sessanta minuti.»

«Quanta strada fa il Selene in un’ora?»

«Ha una velocità massima di centoventi chilometri» rispose Davis. «Ma di solito va molto più adagio. È inutile andar forte quando si è in gita turistica.»

Davis fissava la carta, come se volesse cavarne informazioni con l’intensità del suo sguardo.

«Se sono sul Mare della Sete, non ci metteremo molto a trovarli. Avete mandato fuori le slitte?»

«No, signore, aspettavo l’autorizzazione.»

Davis guardò l’ingegnere capo, che sul lato della Luna rivolto verso la Terra aveva più autorità di qualsiasi altro, salvo l’amministratore capo Olsen. Lawrence assentì.

«Fateli uscire» disse «ma non illudetevi di avere notizie molto presto. Ci vuole tempo per perlustrare parecchie migliaia di chilometri quadrati, specie di notte. Dite agli uomini di seguire la linea di rotta partendo dall’ultima posizione ricevuta, una slitta da ciascun lato della linea, in modo da poter battere una striscia di mare abbastanza larga.»

L’ordine venne trasmesso. Davis, sconsolato, domandò: «Ingegnere, cosa può essere capitato, secondo voi?»

«Le possibilità non sono molte. L’incidente dev’essere stato improvviso, visto che non abbiamo ricevuto nessun segnale. Questo farebbe pensare a un’esplosione.»

Davis impallidì. C’era sempre il rischio di un sabotaggio. L’Argo, una astronave di linea TerraVenere, era stata distrutta con duecento persone a bordo, uomini, donne e bambini, solo perché un pazzo aveva un rancore personale contro un passeggero che sì e no lo conosceva.

«Oppure, potrebbe trattarsi di una collisione» continuò l’ingegnere. «Può avere urtato contro un ostacolo.»

«Harris è un pilota molto prudente, ha fatto quel percorso una quantità di volte, ormai.»

«Un errore possono commetterlo tutti; è facile calcolare male le distanze, quando si naviga al chiaro di Terra.»

Davis quasi non lo sentiva; stava pensando ai provvedimenti che doveva prendere se le cose si fossero messe al peggio. Intanto, era meglio avvertire l’ufficio legale ed esaminare bene tutte le modalità di indennizzo. Se i parenti delle vittime avessero fatto causa alla Commissione Turistica per qualche milione di dollari…

L’ufficiale addetto al traffico a terra diede un colpetto di tosse.

«Se posso permettermi un consiglio» disse all’ingegnere capo «direi di chiamare Lagrange. C’è caso che di lassù gli astronomi riescano a vedere qualcosa.»

«Di notte?» osservò Davis scettico. «Da cinquantamila chilometri?»

«Perché no, se i fari del Selene sono ancora accesi? Varrebbe la pena di tentare.»

«Ottima idea» approvò l’ingegnere capo. «Occupatevene subito. Si rimproverò di non averci pensato lui stesso, e si chiese se non avesse trascurato qualche altra possibilità. Non era la prima volta che gli capitava di doversi impegnare a fondo contro quel mondo così bello e così strano. La Luna non si sarebbe mai lasciata domare completamente, e forse il suo fascino stava proprio in questo, forse era proprio il richiamo di quel deserto ancora intatto, quella lieve ma onnipresente sensazione di pericolo, che adesso, oltre agli esploratori, induceva anche i turisti ad attraversare le immensità dello spazio.»

Era ancora possibile che la crisi si risolvesse, che il Selene rientrasse tranquillamente in porto, ignaro del trambusto che aveva provocato. Ma Lawrence non ci contava e anzi i suoi timori aumentavano col passare dei minuti. Decise di aspettare un’altra ora; poi avrebbe preso il trasporto suborbitale fino a Porto Roris e si sarebbe portato nella zona del nemico, in attesa: il Mare della Sete.


Quando il segnale rosso di CHIAMATA URGENTE raggiunse Lagrange, Thomas Lawson, dottore in fisica, dormiva profondamente. Lawson s’irritò di essere stato svegliato; va bene che a vivere sotto gravità zero bastavano due ore di sonno su ventiquattro, ma almeno quelle due erano un sacrosanto diritto. Poi comprese il significato del messaggio, e si svegliò del tutto. Finalmente si presentava la possibilità di fare qualcosa di utile.

Tom Lawson non era contento d’essere stato assegnato al Lagrange II: l’atmosfera a bordo del Lagrange non era abbastanza tranquilla per chi, come lui, voleva dedicarsi seriamente alla ricerca scientifica. In bilico lassù tra la Terra e la Luna, impegnato in un numero di equilibrismo cosmico reso possibile da una delle più oscure conseguenze della legge della gravitazione universale, il satellite era una specie di domestica tuttofare astronautica. Le spaziali in transito nelle due direzioni lo usavano come un ufficio telegrafico per smistare i loro messaggi, benché non fosse assolutamente vero che ci si fermassero a prendere i sacchi postali. Inoltre il Lagrange fungeva anche da relais per quasi tutto il traffico radio lunare, poiché ai propri piedi aveva, per così dire, l’intera faccia della Luna rivolta verso la Terra.

Il telescopio installato sul Lagrange per l’osservazione di oggetti che si trovavano miliardi di volte più lontani della Luna, era lo strumento ideale per una ricerca come quella che ora gli era stata affidata. A una distanza così breve, ogni minimo particolare inquadrato dalla lente di cento centimetri spiccava con straordinaria nitidezza. Tom aveva la sensazione di essere sospeso nello spazio immediatamente al di sopra del Mare delle Piogge. Sebbene avesse solo una conoscenza sommaria della geografia lunare, poteva riconoscere al primo sguardo i grandi crateri Archimedes e Plato, Aristillus ed Eudoxus, la scura cicatrice della Vallata delle Alpes, e la piramide solitaria di Pico che proiettava la sua lunga ombra sulla pianura.

Ma le regioni illuminate non lo riguardavano; ciò che doveva cercare si trovava nella parte oscura, dove il sole non si era ancora levato. Sotto un certo aspetto, questo facilitava il suo compito. Un segnale luminoso, fosse pure una lampadina tascabile, sarebbe stato più facilmente visibile nella zona oscura. Tom controllò le coordinate della carta e manovrò alcuni pulsanti. Le montagne incendiate dal sole slittarono via dal suo campo visivo, e non rimasero che le tenebre, mentre Tom frugava la notte lunare che aveva appena inghiottito più di venti persone tra uomini e donne.

Dapprima non vide nulla, o almeno nessuna luce di segnalazione che proiettasse il suo appello verso le stelle. Poi, via via che i suoi occhi diventavano più sensibili, si accorse che quella zona non era completamente buia. Baluginava di una fosforescenza spettrale, il chiarore terrestre, e più guardava, più i particolari si precisavano.

Ecco là le montagne a est del Golfo delle Iridi, in attesa dell’alba che tra poco le avrebbe raggiunte. E più in là… cos’era quella stella che scintillava nel buio?

Le sue speranze si accesero, ma subito tornarono a spegnersi. Erano solo le luci di Porto Roris, dove in quello stesso momento attendevano con ansia i risultati delle sue ricerche.

Nel giro di pochi minuti Tom Lawson si convinse che era inutile continuare quel tipo di ricognizione visiva. Non c’era la minima probabilità di scorgere un oggetto appena più grande di un autobus, sperso laggiù in quel paesaggio vagamente luminescente.

Di giorno, sarebbe stata un’altra cosa; avrebbe potuto individuare subito il Selene, grazie alla sua ombra lunghissima proiettata sul mare di polvere. Ma l’occhio umano non era abbastanza sensibile per condurre quelle ricerche alla pallida luce della Terra, soprattutto da un’altezza di cinquantamila chilometri.

Ma non c’era da preoccuparsi; Lawson non si era certo illuso di vedere qualcosa, in quella prima rapida perlustrazione. Già da un secolo e mezzo gli astronomi non avevano più bisogno di contare unicamente sulla propria vista; oggi avevano mezzi ben più precisi: un’intera serie di amplificatori di luce e di rivelatori di radiazioni. Uno di questi strumenti, Tom Lawson ne era certo, sarebbe riuscito a trovare il Selene.

Non sarebbe stato tanto sicuro del fatto suo, se avesse saputo che il Selene non si trovava più sopra la superficie della Luna.


Quando il Selene si arrestò, equipaggio e passeggeri erano ancora troppo stravolti per parlare. Il capitano Harris fu il primo a riaversi, forse perché era l’unico che avesse idea di ciò che era avvenuto.

Era un cedimento del terreno, naturalmente; non erano rari, sebbene nel Mare della Sete non ne fossero mai stati registrati. Giù, nelle profondità della Luna, era franato qualcosa; forse lo stesso peso infinitesimale del Selene aveva accelerato il fenomeno. Harris si alzò ancora tremante dal suo posto, domandandosi in che modo si poteva comunicare la notizia ai passeggeri. Certo non poteva dichiarare allegramente che tutto era sotto controllo, e che tra cinque minuti si sarebbero rimessi in viaggio; d’altra parte, se avesse rivelato tutta la gravità della situazione, non avrebbe fatto altro che diffondere il panico. Prima o poi la verità andava detta, ma per il. momento l’essenziale era di mantenere la calma.

Incontrò lo sguardo di Sue Wilkins, in piedi in fondo alla cabina, alle spalle dei passeggeri che aspettavano ansiosi. Sue era pallidissima, ma assolutamente padrona di sé; Pat sapeva di poter contare su di lei.

«A quanto pare, siamo ancora tutti interi» cominciò a dire, con la massima disinvoltura possibile. «Come avrete forse notato, abbiamo avuto un piccolo incidente, ma poteva andare peggio. («E come?» si domandò mentalmente. «Be’, lo scafo avrebbe potuto cedere… già, così invece prolunghiamo l’agonia, eh?» Poi, con uno sforzo, troncò il monologo interiore). C’è stato un cedimento improvviso del suolo… un lunamoto, se preferite, e noi ci siamo cascati in pieno. Comunque, non è il caso di allarmarsi; anche se non possiamo tornare con i nostri mezzi, Porto Roris ci manderà soccorsi al più presto. Nel frattempo, siccome la signorina Wilkins stava per servire i rinfreschi, vi consiglio di mettervi tranquilli intanto che io… ehm… prendo le misure del caso.»

Pareva che l’avessero presa bene. Con un sospiro di sollievo, Pat fece per tornare al quadro di comando. In quell’attimo, notò che uno dei passeggeri stava per accendere una sigaretta.

Era una reazione automatica, un gesto che lui stesso avrebbe voluto fare. Non disse niente, per non guastare l’atmosfera che il suo discorsetto era riuscito a creare, ma fissò il passeggero quanto bastava perché l’altro capisse. Prima che Harris raggiungesse il suo posto, la sigaretta era stata spenta.

Mentre accendeva la radio, Pat sentì il brusio delle conversazioni che si levavano alle sue spalle. Dal tono delle voci si indovinavano espressioni di irritazione, di eccitazione, perfino di divertita meraviglia… ma non, per il momento, di paura. Forse nessuno di quelli che parlavano si era ancora reso conto della gravità della situazione; gli altri tacevano.

E taceva anche l’etere. Pat passò in rassegna tutte le lunghezze d’onda, ma l’unica cosa che riusciva a captare era il lieve crepitio della polvere sotto la quale erano sepolti. Se l’aspettava, del resto; quella sostanza infernale, col suo alto contenuto metallico, formava uno scudo d’isolamento quasi perfetto. Non avrebbe lasciato passare né suoni né onde radio; tentare di trasmettere era lo stesso che urlare dal fondo di un pozzo completamente riempito di piume.

Pat spostò il segnale sulla lunghezza d’onda ad altissima frequenza che veniva usata solo nei casi disperati: avrebbe lanciato un S.O.S. a intervalli regolari. Forse sarebbe riuscito a passare, ma era poco probabile. Chiamare Porto Roris era assolutamente inutile, e i suoi tentativi infruttuosi sarebbero riusciti solo a spaventare i passeggeri. Lasciò il contatto ricevente in funzione sulla lunghezza d’onda assegnata al Selene, ma sapeva che non sarebbe giunta risposta. Nessuno poteva sentirli, nessuno poteva comunicare con loro. Per ciò che li riguardava, era come se la razza umana fosse completamente scomparsa.

Pat non perse tempo a meditare su quell’inconveniente; se l’era aspettato, e restavano tante altre cose da fare. Con la massima attenzione, controllò tutti gli strumenti e i contatori. Ogni cosa sembrava normale, salvo che la temperatura era lievemente aumentata. Anche questo era da prevedersi, ora che la polvere li isolava dal freddo dello spazio.

La sua preoccupazione maggiore riguardava lo spessore di quella coltre di polvere. Dovevano esserci migliaia di tonnellate di quella sostanza sopra il Selene, e lo scafo era stato progettato per resistere alla pressione dall’interno, non dall’esterno. Se avesse continuato a sprofondare, rischiava di venire schiacciato come una noce.

A che profondità si trovasse ora, Pat non lo sapeva con precisione. Quando aveva intravisto le stelle per l’ultima volta, il Selene era a circa dieci metri sotto la superficie, e forse era stato trascinato ancora più sotto dal risucchio della polvere. Era consigliabile intaccare la riserva di ossigeno e alzare un poco la pressione interna in modo da equilibrare in parte la spinta che lo scafo sopportava dall’esterno.

Molto lentamente, perché nessuno si allarmasse sentendosi ronzare le orecchie, Pat aumentò la pressione della cabina del venti per cento. Quando ebbe finito, si sentì un poco più tranquillo. E non era l’unico, perché, appena il contatore della pressione si fu stabilizzato sul nuovo livello, una voce pacata disse alle sue spalle:

«Credo sia stata un’ottima idea. Pat si girò di scatto per vedere chi fosse quel ficcanaso che lo stava a spiare, ma la protesta gli morì sulle labbra. Al primo sguardo, non aveva riconosciuto nessuno dei passeggeri; ora, però, guardando meglio, si accorse che c’era qualcosa di familiare nell’uomo robusto, dai capelli grigi, che si era avvicinato al posto di guida.»

«Non voglio immischiarmi, capitano, qui il comandante siete voi. Ma ho pensato di venire a presentarmi, nel caso che potessi esservi utile. Sono il commodoro Hansteen.»

A bocca aperta, Harris fissava l’uomo che aveva comandato la prima spedizione su Plutone, e che probabilmente aveva visto più pianeti e lune vergini di qualsiasi altro uomo della storia. Per esprimere la sua sorpresa, Pat non riuscì a dire altro che: «Ma, non eravate segnato sulla lista dei passeggeri!»

Il commodoro sorrise.

«Viaggio in incognito, col nome di Hanson. Dato che sono a riposo, ho voluto levarmi il gusto di vedere un po’ il mondo senza nessuna responsabilità. E siccome mi sono tagliato la barba, più nessuno mi riconosce.»

«Sono felicissimo di avervi qui» disse Harris con calore. Aveva già la sensazione di essersi scaricato buona parte dei suoi problemi dalle spalle; il commodoro sarebbe stato una forza nelle ore, o nelle giornate, difficili che aspettavano il Selene.

«Se non avete niente in contrario» continuò Hansteen, sempre nel tono di chi bada a rispettare l’autorità altrui «vorrei chiedervi la vostra opinione personale. Per dirla in parole povere: quanto tempo potremo resistere, secondo voi?»

«Come sempre, il fattore limite è l’ossigeno. Ne abbiamo a sufficienza per circa sette giorni, sempre che non si producano falle. Finora, però, non sembra che ce ne siano.»

«Bene, allora avremo tempo di riflettere. E quanto ai viveri e all’acqua?»

«Soffriremo un po’ la fame, ma non moriremo d’inedia. C’è una riserva d’emergenza di cibi compressi, e naturalmente l’impianto di purificazione dell’aria ci darà tutta l’acqua che ci serve. Perciò su quel lato siamo tranquilli.»

«Corrente?»

«Quanta ne vogliamo, ora che non usiamo i motori.»

«Ho notato che non avete tentato di chiamare la Base.»

«Niente da fare: la coltre di polvere ci isola. Ho messo in funzione la lunghezza d’onda di emergenza… È l’unica speranza di far passare un segnale, ma è una speranza molto debole.»

«Quindi, dovranno cercarci in qualche altro modo. Quanto ci metteranno, secondo voi?»

«Difficile dirlo. Le ricerche cominceranno alle venti, quando il nostro segnale non arriverà, ma probabilmente siamo sprofondati senza lasciare traccia.. come avrete notato, questa polvere fa sparire tutto. E poi, anche se ci trovano…»

«… come faranno a tirarci fuori?»

«Appunto.»

Il capitano del battello turistico e il commodoro dello spazio si guardarono in silenzio, fermi ai piedi dello stesso problema. Poi, sopra il brusio generale della conversazione, udirono una voce con uno spiccato accento inglese osservare: «Complimenti, signorina… è la prima tazza di tè decente che bevo sulla Luna. Finalmente qualcuno che sa preparare il tè. Brava!»

Il commodoro rise piano, suo malgrado.

«Dovrebbe ringraziare voi, non la hostess» osservò, indicando il contatore dell’ossigeno.

Anche Pat sorrise. Era vero; ora che aveva alzato la pressione della cabina, l’acqua bolliva quasi alla temperatura normale, come sulla Terra.

Se non altro, si potevano avere delle bevande calde, invece delle solite brodaglie appena tiepide. Ma sembrava un modo alquanto dispendioso di preparare il tè non dissimile dal famoso metodo cinese di arrostire il maiale dando fuoco alla casa.

«Il nostro problema più urgente» disse il commodoro (e Pat non si offese affatto di quel «nostro») «è tenere alto il morale. E un discorsetto del capitano sulle operazioni di ricerca che stanno per cominciare, farebbe buona impressione, credo. Ma non mostratevi troppo ottimista; non dovete dare l’impressione che tra una mezz’ora al massimo sentiremo bussare alla porta dello scafo. Uno stato d’animo del genere può avere conseguenze molto pericolose se… be’, se ci toccherà aspettare per diversi giorni.»

«Non ci metterò molto a descrivere l’organizzazione SoccorsiLunari» rispose Pat. «Che tra l’altro, resti tra noi, non è stata certo attrezzata per fronteggiare un incidente del genere. Quando una nave si guasta sopra la superficie lunare, può essere localizzata in brevissimo tempo da uno dei satelliti: o dal Lagrange II, che si trova dal lato Terra, o dal Lagrange I, che gravita dalla parte opposta. Però, nel nostro caso, dubito che possano aiutarci; come vi dicevo, probabilmente siamo sprofondati senza lasciare traccia.»

«Sembra impossibile. Sulla Terra, quando una nave affonda, qualche traccia prima o poi viene a galla.. non so, macchie d’olio, rottami…»

«Nel nostro caso non può succedere. E non so nemmeno immaginare in che modo potremmo mandare qualcosa alla superficie… anche se sapessimo quanto è distante da noi.»

«Insomma non possiamo fare altro che incrociare le braccia e aspettare.»

«Già» approvò Pat. Poi lanciò un’occhiata all’indicatore della riserva d’ossigeno. «E c’è una sola cosa di cui siamo sicuri: che non possiamo aspettare più di una settimana.»


Cinquantamila chilometri al di sopra della Luna, Tom Lawson posò l’ultima delle fotografie scattate. Aveva esaminato ogni millimetro quadrato di quelle foto con la lente d’ingrandimento; erano fotografie ottime. L’intensificatore elettronico di immagini, milioni di volte più sensibile dell’occhio umano, aveva rivelato con estrema chiarezza i più piccoli particolari, dato che laggiù, su quella distesa lievemente scintillante, era ormai giorno. Lawson aveva localizzato perfino una delle piccole slitte da polvere, o meglio, la lunga ombra che essa proiettava. Eppure, non c’era nessuna traccia del Selene; il Mare della Sete era liscio e calmo come sempre.

Tom non amava darsi per vinto nemmeno in cose meno importanti di questa. Era persuaso che tutti i problemi si possono risolvere, purché siano affrontati nel modo giusto e con gli strumenti adatti. Il ritrovamento del Selene era una sfida alla sua ingegnosità di scienziato; il fatto che da quel ritrovamento dipendessero molte vite umane contava fino a un certo punto per lui. Tom Lawson aveva poca considerazione per i suoi simili, mentre ne aveva moltissima per l’Universo. E qui si trattava di una lotta personale tra l’Universo e lui.

Considerò la situazione con intelligenza freddamente critica. In che modo il grande Sherlock Holmes avrebbe affrontato il problema? (Era caratteristico il fatto che uno dei pochi uomini ammirati da Lawson non fosse mai esistito.) Eliminato il mare aperto, restava una sola possibilità: il battello doveva essersi bloccato o lungo la costa o nei pressi delle montagne, probabilmente nella zona… (Tom confrontò la carta)… nella zona chiamata Lago del Cratere. Logico, del resto; un incidente, era più probabile che capitasse qui che sulla pacifica distesa del mare.

Tornò a guardare le fotografie, concentrandosi stavolta sulle montagne. Subito s’imbatté in una nuova difficoltà. C’erano massi e crepacci sparsi lungo tutte le coste del Mare… e ognuna di quelle ombre poteva essere il Selene. Non solo, ma c’erano molte zone che non poteva esaminare perché erano nascoste dalle montagne stesse: il Lago del Cratere, per esempio, chiuso com’era tra le pareti di roccia. Quell’area poteva essere battuta soltanto dalle slitte, operanti al livello del suolo; l’occhio onniveggente di Tom Lawson non penetrava oltre quello sbarramento.

Era meglio chiamare la stazione di Lato Terra e fare rapporto.

«Qui Lawson, da Lagrange II» disse, appena fu in contatto. «Ho esaminato tutto il Mare della Sete; non c’è assolutamente nulla. Il vostro Selene dev’essersi arenato vicino alla costa.»

«Grazie» gli rispose una voce avvilita. «Siete sicuro?»

«Sicurissimo. Vedo perfino le vostre slitte, e il Selene è almeno tre volte più grande.»

«Niente lungo le coste?»

«Ci sono troppi particolari di grandezza ridotta per stabilirlo. Vedo una cinquantina… forse un centinaio di oggetti che potrebbero essere il Selene. Appena si leverà il sole li studierò meglio. Purtroppo, adesso laggiù è notte.»

«Grazie lo stesso. Avvertiteci subito se trovate qualcos’altro.»

A Clavius City, Davis, il capo della Commissione Turismo, ascoltò rassegnato il rapporto di Lawson. Ormai, non restava altro che avvertire i parenti. Era pericoloso, oltre che impossibile, mantenere più a lungo il segreto.

Davis si rivolse all’ufficiale del Controllo Traffico e domandò: «È arrivato quell’elenco dei passeggeri?»

«Sta arrivando in questo momento da Porto Roris, per Telefax: eccolo.» L’ufficiale porse il foglio a Davis, e aggiunse incuriosito: «C’era qualche persona importante tra i passeggeri?»

«Tutti i turisti sono importanti» replicò gelido Davis, senza staccare gli occhi dal foglio. Poi, quasi senza fiato, aggiunse: «Santo Cielo!» Che succede?

«A bordo c’era il commodoro Hansteen.»

«Cosa? Non sapevo che si trovasse sulla Luna.»

«Nessuno doveva saperlo, era una cosa riservata. L’avevamo invitato a far parte della Commissione Turismo, ora che è in pensione. Ma lui voleva prima farsi un’idea, in incognito, e poi decidere.»

Seguì un silenzio penoso, mentre i due uomini consideravano l’ironia della situazione. Un uomo che era stato uno dei più famosi eroi dello spazio, scompariva ora come un turista qualsiasi in un banale incidente sulla Luna, il meschino retrobottega della Terra…

«Sarà una sfortuna per il commodoro» osservò l’ufficiale del Controllo Traffico. «Però è una gran fortuna per gli altri passeggeri, ammesso che siano ancora vivi…»

«E di fortuna ne hanno proprio bisogno, visto che nemmeno l’Osservatorio può aiutarci» sospirò Davis.

Aveva ragione sul primo punto, ma sul secondo si sbagliava in pieno. Il dottor Thomas Lawson aveva ancora diversi assi nella manica.

E ne aveva anche il Padre Vincent Ferraro, S.I., uno scienziato di tutt’altro tipo. Era un peccato che Padre Ferraro e Tom Lawson fossero destinati a non incontrarsi mai; si sarebbero visti dei fuochi d’artificio di prima grandezza. Padre Ferraro credeva in Dio e nell’uomo; Lawson non credeva né nell’uno né nell’altro.

Il prete aveva iniziato la sua carriera scientifica come geofisico, poi aveva deciso di cambiare mondo ed era diventato un selenofisico, termine che fortunatamente usava solo nei momenti di maggior pedanteria.

Nessuno conosceva meglio di lui l’interno della Luna, che veniva spiato da batterie di strumenti collocati strategicamente sopra tutta la superficie lunare.

Quegli strumenti avevano appena annunciato alcuni fenomeni piuttosto interessanti. Alle ore 19, 35’, 47» ora lunare, c’era stato un forte lunamoto più o meno nella zona del Golfo delle Iridi; fatto abbastanza singolare, dato che quell’area era particolarmente stabile perfino per un mondo tranquillo come la Luna. Padre Ferraro mise in azione i suoi strumenti perché accertassero l’epicentro della scossa e ogni altro dato possibile, poi li lasciò al loro lavoro per andarsene a pranzo. Fu allora che i colleghi gli parlarono del battello scomparso.

Nessuna calcolatrice elettronica può battere il cervello umano nell’associare fatti all’apparenza irrilevanti. Padre Ferraro non fece in tempo a portarsi alla bocca il primo cucchiaio di minestra che già il suo cervello aveva addizionato due più due arrivando a una conclusione perfettamente logica, ma disastrosamente errata.


«… e questa, signore e signori, è la situazione» concluse il commodoro Hansteen. «Non corriamo pericoli immediati, e io non ho il minimo dubbio che saremo localizzati al più presto. Fino a quel momento, dobbiamo affrontare la situazione nel migliore modo possibile.»

Tacque, e scrutò rapidamente le facce ansiose rivolte verso di lui.

Aveva già individuato le eventuali fonti di complicazione: l’omino col tic nervoso, la signora dall’espressione acida che continuava ad attorcigliare il fazzoletto… Forse, a metterli seduti vicini, si sarebbero neutralizzati a vicenda.

«Il capitano Harris e io abbiamo studiato un piano d’azione. Cibo semplice e razionato, ma in quantità sufficiente, tanto più che non avremo alcuna attività fisica da svolgere. Pregheremmo le signore di dare un po’ d’aiuto alla signorina Wilkins, che avrà molto lavoro… Il vero problema sarà quello di combattere la noia. A proposito, qualcuno ha con sé dei libri?»

Ci fu un gran frugare nelle valigie e nelle borse. La biblioteca che ne uscì era composta di guide lunari assortite, comprese sei di quelle fornite dalla Commissione Turistica; un bestseller in voga, L’arancia e la mela, il cui improbabile tema era un amore tra Nell Gwynn e Sir Isaac Newton (Nota: Libro inesistente, inventato da Clarke. Nell Gwynn (1650–1687) fu una delle prime attrici britanniche (fino ad allora, infatti, i ruoli femminili a teatro erano impersonati da uomini) e amante di lunga data di Carlo II d’Inghilterra. Non esistono prove che abbia mai incontrato Isaac Newton! (N.d.R.). Fine nota) un’edizione a cura della Harvard University Press de Il cavaliere della valle solitaria con dotte annotazioni di un professore d’inglese; un’introduzione al positivismo logico di Auguste Comte; e una copia della settimana precedente del «New York Times», edizione Terra. Non era molto, ma con un intelligente razionamento poteva servire ad affrontare le ore di attesa.

«Sarà bene creare una specie di Comitato Ricreativo che studi il modo migliore di sfruttare questo materiale, ma non so come la metteremo con Monsieur Comte. Nel frattempo, dato che ormai tutti conoscete la situazione, c’è qualcuno che desidera chiedere chiarimenti al capitano Harris o a me?»

«C’è una cosa che vorrei domandare» disse la voce inglese che si era complimentata per il tè. «Non c’è qualche probabilità che si risalga a galla? Voglio dire, se questa sostanza è simile all’acqua, non dovremmo balzare alla superficie, prima o poi, come farebbe un turacciolo?»

Il commodoro proprio non se l’aspettava. Guardò Pat e disse, piuttosto avvilito:

«La domanda è per voi, capitano. Avete spiegazioni da dare?»

Pat scosse la testa.

«Temo che non ce ne siano. D’accordo, l’aria dentro lo scafo dovrebbe renderci galleggiabili, ma la resistenza della polvere è enorme. Alla fine potremmo anche risalire in superficie.. ma tra qualche migliaio di anni.»

Il signore inglese, evidentemente, non era tipo da arrendersi facilmente.

«Nel compartimento stagno ho notato una tuta spaziale. Non potrebbe qualcuno infilarsela e nuotare fino alla superficie? Così le squadre di ricerca saprebbero dove ci troviamo.»

Il capitano Harris si mosse a disagio.

Era l’unico qualificato per indossare quella tuta, che del resto si trovava a bordo più che altro per la forma.

«È quasi sicuramente impossibile» rispose. «Non credo che un uomo riesca a vincere la resistenza della polvere; e naturalmente si muoverebbe alla cieca. Come potrebbe distinguere da che parte si va in su? E come chiuderebbe il portello stagno dietro di sé? Una volta che la polvere fosse entrata, non ci sarebbe modo di ricacciarla fuori. Non è che la si possa pompare come si fa con l’acqua.»

Pat avrebbe potuto aggiungere altro, ma preferì lasciar perdere. «Se non ci sono altre domande» suggerì pronto Hansteen «proporrei di fare un po’ di conoscenza. Ci piaccia o no, dovremo abituarci alla compagnia reciproca, quindi presentiamoci. Farò il giro della cabina, e ciascuno di voi a turno potrà dire il suo nome, indirizzo e professione. Cominciamo da voi, signore.»

«Robert Bryan, ingegnere civile, in pensione… Kingston, Jamaica.»

«Irving Schuster, avvocato, di Chicago. E questa è mia moglie, Myra.»

«Nihal Jayawardene, professore di zoologia, Università di Peradeniya, Ceylon.»

Mentre le presentazioni continuavano, Pat Harris si congratulò di nuovo con se stesso per la piccola fortuna capitatagli in quella situazione così disperata. Per carattere, educazione ed esperienza, il commodoro era un capo fatto e finito; già stava trasformando quella eterogenea collezione di persone in un’unità, già suscitava quell’indefinibile «spirito di corpo» che fa di una folla anonima una squadra. Quelle cose le aveva imparate mentre la sua piccola flotta, la prima che si fosse avventurata oltre l’orbita di Nettuno, a circa cinque miliardi di chilometri dal Sole, navigava per settimane e settimane nel vuoto che divideva i pianeti. A Pat Harris, che aveva trent’anni di meno e non si era mai allontanato dal sistema TerraLuna, quel tacito passaggio di consegne non dava nessun fastidio, anzi.

«Duncan McKenzie, fisico, Osservatorio di Mount Stromlo, Canberra.»

«Pierre Blanchard, commercialista, Clavius City, Lato Terra.»

«Phillis Morley, giornalista, Londra.»

«Karl Johansen, ingegnere nucleare, Base Tsiolkovski, LatoEsterno Luna…»

Una bella collezione di cervelli. Ma non era il caso di meravigliarsene: la gente che veniva sulla Luna era sempre un po’ fuori dell’ordinario..: sia pure soltanto perché aveva i quattrini per pagarsi il viaggio. Ma tanta esperienza e tanta abilità, ora imbottigliate nel Selene, erano impotenti, o almeno così sembrava ad Harris nella condizione attuale.

Questo, in realtà, non era del tutto vero, e il commodoro Hansteen stava per dimostrarlo. Sapeva meglio di chiunque altro che si sarebbe dovuto lottare contro la noia, oltre che contro la paura. In quell’era di passatempi universali e di comunicazioni interplanetarie, il loro piccolo gruppo doveva contare unicamente sulle proprie risorse. Erano tagliati fuori da tutto il resto della razza umana: radio, TV, giornali, cinema, telefoni, tutte queste cose non avevano più significato per loro, di quanto potevano averne per l’uomo delle caverne. Erano come una antica tribù radunata intorno ai fuochi da campo, in un deserto completamente disabitato. Nemmeno durante il viaggio verso Plutone, pensava il commodoro, le condizioni di solitudine erano state così complete. A bordo della sua astronave c’era un’ottima biblioteca, dischi, film, e si poteva comunicare con le stazioni radio dei pianeti vicini. Sul Selene, invece, non c’era nemmeno un mazzo di carte…

Ecco un’idea. «Signorina Morley! Siete giornalista, immagino che avrete un blocco per appunti.»

«Certo, commodoro.»

«Ci sono cinquantadue foglietti bianchi?»

«Penso di sì.»

«Allora devo pregarvi di sacrificarli. Tagliateli e disegnateci un mazzo di carte. Non occorre che siano molto artistiche, basta che si distinguano, ma che il disegno non traspaia dall’altra parte…»

«Come faremo per mescolarle?» obiettò qualcuno.

«Un bel problema! Lo risolverà il nostro comitato ricreativo. C’è qualcuno che s’intende di spettacoli?»

«Io ho lavorato in teatro» disse Myra Schuster, dopo una lieve esitazione. Il marito non parve entusiasta di quella rivelazione, ma il Commodoro si.

«Benissimo! È vero che siamo un po’ stretti, qui, ma forse potremmo mettere su una commediola.»

«Veramente è passato molto tempo» obiettò la signora che ora sembrava a disagio quanto suo marito. «E poi, io non parlavo molto, veramente…»

Vi fu qualche risatina, e perfino il commodoro stentò a mantenersi serio. La signora Schuster aveva passato la cinquantina e pesava circa un quintale: era difficile immaginarsela come «sospettava il commodoro» ballerina di fila.

«Non importa» disse Hansteen «è lo spirito che conta. Chi vuole aiutare la signora Schuster?»

«Io ho recitato un po’ come dilettante» disse il professor Jayawardene. «Soprattutto Brecht e Ibsen, però.»

Quel «però» indicava coscienza del fatto che, data la situazione, ci voleva qualcosa di più leggero.

Non si trovarono altri volontari per quel genere, e il commodoro trasferì la signora Schuster e il professore su due sedili vicini e li pregò di studiare un programma. Non era possibile che da una coppia così male assortita venisse fuori qualcosa di utile, ma non si poteva mai dire. L’importante era di tenere tutti occupati, in un modo o nell’altro.

«Questo è tutto, per il momento» concluse Hansteen. «Se a qualcuno venisse un’idea brillante, è pregato di comunicarla subito. Nel frattempo, vi propongo di mettervi comodi e di rompere un po’ il ghiaccio. Chissà quanti di voi avranno in comune conoscenze o interessi. Avrete una quantità di cose di cui parlare.» «E una quantità di tempo per parlarne», aggiunse in cuor suo.

Hansteen stava consultandosi con Pat nell’abitacolo del pilota, quando il dottor McKenzie li raggiunse: McKenzie era il fisico australiano. Sembrava preoccupatissimo, quasi più di quanto la situazione meritasse.

«Volevo parlarvi di una cosa, commodoro» disse in tono d’urgenza. «Se non vado errato, quella riserva di ossigeno per sette giorni non significa nulla. C’è un pericolo molto più grave.»

«E sarebbe?»

«Il calore.» L’australiano indicò verso l’esterno con un gesto della mano. «Siamo avvolti da quella roba, il miglior isolante che si possa immaginare. In superficie, il calore generato dalle macchine e dai nostri corpi si disperdeva nello spazio, mentre qui si accumula. Il che significa che diventeremo sempre più caldi… fino a cuocere addirittura.»

«Mio Dio!» esclamò il commodoro. «A questo non avrei mai pensato. Quanto ci vorrà, secondo voi?»

«Datemi una mezz’ora, e tenterò di fare qualche calcolo. Così a occhio direi… non più di un giorno.»

Il commodoro si sentì invadere da un senso di totale impotenza: non c’era niente da fare. Se McKenzie aveva ragione, tutte le loro iniziative erano inutili, tutte le loro speranze andavano in frantumi. Erano già scarse, d’accordo, ma con una settimana di tempo c’era forse modo di venirne fuori. Con un solo giorno a disposizione, non era nemmeno il caso di parlarne. Anche se fossero stati ritrovati in tempo, sarebbe mancato il margine necessario all’opera di salvataggio.

«Potete controllare la temperatura della cabina» disse McKenzie. «Così avremo una prima idea.»

Hansteen andò al quadro di comando e gettò un’occhiata a quel labirinto di spie e indicatori.

«Ho paura che abbiate ragione» disse. «La temperatura è già salita di due gradi.»

«Circa un grado all’ora. Come immaginavo.»

Il commodoro si rivolse a Harris, che aveva ascoltato la situazione con ansietà crescente.

«Non si può fare niente per aumentare il raffreddamento? Che potenza ha il nostro impianto d’aria condizionata?»

Prima che Harris potesse rispondere, il fisico intervenne. «È inutile» disse quasi con impazienza. «L’impianto non fa altro che pompare calore dalla cabina e disperderlo all’esterno. Ma è proprio quello che non può fare ora, per via della polvere che abbiamo intorno. Se lo forziamo al massimo non faremo che peggiorare le cose.»

Segui un silenzio lugubre. «Va bene» disse alla fine il commodoro «controllate quei calcoli e fateci sapere al più presto i dati che vi risultano. E, per amor del Cielo, fate in modo che questa scoperta rimanga fra noi.»


In quello stesso momento, sebbene nessuna delle due parti fosse a conoscenza del fatto, una delle slitte mandate in perlustrazione stava passando sopra il Selene. Progettate come unità veloci, efficienti ed economiche — e non per la comodità dei turisti — le slitte da polvere erano piccoli veicoli aperti, con un sedile per il pilota e uno per un passeggero, entrambi in tuta spaziale, e un telo in alto per dare riparo dal sole. Un quadro di comando ridotto all’essenziale, il motore e le due eliche posteriori, e lo scomparto per utensili ed equipaggiamento, completavano l’insieme. Di solito, quando una slitta svolgeva le sue normali funzioni, si trascinava appresso uno o due pattini da carico; ma stavolta non aveva rimorchi. Aveva percorso in ogni senso parecchie centinaia di chilometri quadrati di mare, e non aveva trovato assolutamente nulla.

Attraverso il telefono, il pilota stava parlando col compagno.

«Di’, che fine avranno fatto, George? Per me, qui non ci sono.» E dove vuoi che siano? Comunque, è meglio fare rapporto alla base. Abbiamo coperto tutta la zona assegnataci, ed è inutile ricominciare da capo, almeno finché non sorge Sole, Questo maledetto chiaro di Terra mi dà i brividi.

Accese la radio e chiamò la Base.

«Slitta Due chiama Controllo Traffico… passo.»

«Qui Controllo Traffico Porto Roris. Trovato niente?»

«Nemmeno una traccia. Nessuna notizia li da voi?»

«Pensiamo che non si trovasse in Mare aperto. L’ingegnere capo vuole parlarvi.»

«Bene, passatemelo.»

«Pronto, Slitta Due? Qui Lawrence. L’Osservatorio ha appena segnalato un movimento sismico nei pressi delle Montagne Inaccessibili. Ha avuto luogo alle 19,35, cioè all’ora in cui il Selene si sarebbe dovuto trovare al Lago del Cratere. All’Osservatorio pensano che sia stato travolto da una valanga da quelle parti. Dirigetevi verso le montagne e vedete se potete individuare qualche sfaldamento recente.»

«Ingegnere» s’informò preoccupato il pilota «che probabilità ci sono che si verifichino altre scosse?»

«Pochissime, secondo l’Osservatorio. Dicono che passeranno migliaia di anni prima che si ripeta un fenomeno del genere, ora che la scossa è avvenuta.»

«Speriamo che sia vero. Chiamerò quando sarò al Lago del Cratere, cioè tra venti minuti circa.»

Ma era passato soltanto un quarto d’ora quando la Slitta Due fece cadere le ultime speranze.

«Slitta Due chiama Base. Dev’essere proprio andata così, ho paura. Non ho ancora raggiunto il Lago del Cratere; sto ancora risalendo il canyon. Ma l’Osservatorio ha ragione; ci sono state parecchie frane, o abbiamo notevoli difficoltà per aggirarle. In questo momento ho davanti a me un masso di almeno diecimila tonnellate; se il Selene è finito lì sotto, non lo troveremo di certo. E non credo che valga la pena di cercarlo.»

Il silenzio al Controllo Traffico durò così a lungo che la slitta chiamò di nuovo. «Pronto, Base… mi sentite?»

«Vi sentiamo» rispose l’ingegnere capo con voce stanca. «Vedete se potete trovare qualche traccia del Selene; manderò la Slitta Uno a darvi una mano. Siete sicuro che non ci sia speranza di tirarli fuori?»

«Ci vorrebbero delle settimane, anche se si riuscisse a localizzare la posizione esatta. Ho visto un blocco di roccia lungo trecento metri. Se cercassimo di scavare, potrebbero verificarsi altri slittamenti.»

«State molto attento. Fate rapporto ogni quindici minuti, anche se non trovate niente.»

Lawrence, fisicamente e mentalmente esausto, si allontanò dal microfono. Non c’era più niente da fare, nessuno poteva fare niente. Cercando di riordinare le idee, si diresse verso la finestra d’osservazione che guardava a sud, e fissò il quarto di Terra che splendeva nel cielo, immobile sull’orizzonte. Perso nelle sue meditazioni, non si accorse che uno degli addetti alla radio stava cercando di richiamare la sua attenzione.

«Scusate, ingegnere… non avete chiamato la Slitta Uno. Devo farlo io?»

«Come? Ah, sì… chiamatela. Mandatela in aiuto alla Due, che è al Lago del Cratere, E dite al pilota che sospendiamo le ricerche nel Mare della Sete.»


La notizia che le ricerche erano state sospese raggiunse il Lagrange II proprio quando Tom Lawson, con gli occhi arrossati dalla fatica, aveva quasi terminato le modifiche al suo telescopio. Era stata una corsa contro il tempo, e adesso saltava fuori che i suoi sforzi erano stati inutili. Furibondo, lo scienziato si diede a smantellare il complicato congegno che aveva messo insieme prendendo a prestito pezzi diversi dagli altri strumenti del satellite. Tom non pensava alle vittime, pensava a quei bei titoloni: «GIOVANE ASTRONOMO RITROVA TURISTI DISPERSI…» che non sarebbero apparsi sui giornali dei vari mondi abitati.

Eppure il suo congegno avrebbe funzionato, ne era certo. La teoria era comprovatissima, basata su cento anni almeno di pratica. L’uso dei raggi infrarossi risaliva addirittura alla seconda guerra mondiale, quando venivano adoperati per individuare le fabbriche mimetizzate, tradite dal loro stesso calore.

Anche se il Selene non aveva lasciato tracce visibili sul Mare, una scia infrarossa doveva certamente essere rimasta. Le eliche avevano smosso la polvere relativamente calda a circa mezzo metro di profondità, sparpagliandola sopra lo strato molto più freddo di superficie. Un occhio capace di vedere le irradiazioni del calore avrebbe potuto seguirne la traccia per diverse ore dopo il suo passaggio. Ci sarebbe stato giusto il tempo, calcolava Tom, per seguire la perlustrazione a infrarossi prima che il sole sorgesse cancellando la pista calda lasciata attraverso la gelida notte lunare.

Ma, ovviamente, non valeva più la pena di tentare, ormai che si sapeva che il Selene era sepolto sotto migliaia di tonnellate di roccia.

Per fortuna, a bordo del Selene nessuno sospettava che le ricerche nel Mare della Sete erano state abbandonate, e che le slitte stavano concentrando i loro sforzi attorno al Lago del Cratere. Ed era inoltre una fortuna che nessuno fosse a conoscenza delle profezie del dottor McKenzie.

Date le circostanze, gli sforzi del commodoro Hansteen per tenere alto il morale sembravano privi di scopo. Avessero o no successo, nulla avrebbe potuto modificare la sorte che aspettava i passeggeri nel giro di ventiquattr’ore.

Ma erano poi così inutili quegli sforzi? Sebbene l’unica scelta stesse tra morire da uomini o morire da bestie, era pur sempre preferibile la prima soluzione. Il commodoro Hansteen ne era certo, mentre stendeva il programma per le poche ore vuote che ancora restavano.

Al momento, i passeggeri stavano chiacchierando allegramente tra loro, divisi in gruppetti. Quattro signori giocavano a poker, e la giornalista scriveva sui pochi foglietti rimasti nel suo taccuino: forse teneva un diario degli avvenimenti, un diario che nessuno avrebbe mai letto.

Hansteen guardò l’orologio e si stupì nel constatare com’era tardi. A quell’ora lui sarebbe dovuto essere già a Clavius City. L’indomani aveva un impegno a colazione al Lunar Hilton, poi doveva andare in gita a… ma era inutile pensare a un futuro che non esisteva più. Ormai, quel breve presente era l’unica cosa che lo riguardasse.

Tanto valeva tentare di dormire un po’, prima che la temperatura divenisse intollerabile. Il Selene non era stato progettato per servire da dormitorio, e nemmeno da tomba, del resto, ma adesso non c’era alternativa. Naturalmente bisognava organizzarsi un po’, ai danni, purtroppo, della Commissione Turismo.

Dopo essersi consultato col capitano Harris, il commodoro pregò i passeggeri di prestargli ascolto. «Signore e signori, abbiamo avuto una giornata faticosa e penso che molti di noi sentano il bisogno di riposare. Certo bisognerà arrangiarsi alla meglio, ma ho fatto qualche piccolo esperimento e ho scoperto che, con un po’ di buona volontà, il bracciolo di mezzo dei sedili viene via facilmente. Non bisognerebbe toglierlo, ma non credo che la Commissione Turismo ci farà causa per così poco. Questo significa che dieci di noi potranno sdraiarsi sui divani; gli altri dovranno sistemarsi sul pavimento.»

«Un’altra cosa. Come avrete notato, comincia a fare caldo, e per qualche tempo la temperatura continuerà ad aumentare. Vi consiglio perciò di togliervi tutti gli indumenti non indispensabili, dobbiamo cercare di stare comodi e non è il caso di fare complimenti. Spegneremo le luci principali della cabina e per non restare completamente al buio lasceremo accese le piccole spie di sicurezza. Uno di noi resterà in continuazione al posto del pilota; il capitano Harris sta studiando dei turni di guardia di due ore. Nessuna domanda?

Per fortuna, non ve ne furono. La signorina Wilkins, che cominciava a perdere un poco della sua efficienza professionale, servì qualche bibita a quelli che avevano sete. La maggior parte dei passeggeri aveva già cominciato a svestirsi; i più pudichi aspettarono che venissero spente le luci. Nel fioco chiarore rossastro l’interno del Selene aveva assunto un aspetto fantastico. Ventidue persone, vestite della sola biancheria, se ne stavano stese sui sedili o sul pavimento. Pochi fortunati dormivano già, ma per i più il sonno non sarebbe arrivato tanto presto.

Il capitano Harris si era sistemato proprio in fondo allo scafo, nel piccolo compartimento stagno riservato alla cucina. Era una posizione strategica; lasciando aperta la porta di comunicazione, Harris poteva vedere la cabina in tutta la sua lunghezza e tenere d’occhio tutti quanti.

Il capitano ripiegò la sua divisa per farne un cuscino e si sdraiò sull’impiantito. Il suo turno di guardia sarebbe venuto tra sei ore. Nel frattempo sperava di dormire un po’.

Dormire! Le ultime ore della sua vita stavano passando inesorabili, e lui non poteva fare niente di meglio che dormire. «Come dormono i condannati» si domandò «nella notte che precede l’esecuzione?»

Era così disperatamente esausto che nemmeno quel pensiero riuscì a suscitargli qualche emozione. L’ultima cosa che vide prima di scivolare nell’incoscienza fu il dottor McKenzie che faceva di nuovo il rilevamento della temperatura e l’annotava sul suo diagramma, come un astrologo intento a ricavare un oroscopo.


Quando Pat Harris si svegliò, faceva molto più caldo. Tuttavia, non era stato il calore ormai opprimente a interrompere il suo sonno un’ora prima che gli toccasse il turno di guardia.

Pat, pur non avendo mai trascorso una notte a bordo del Selene, conosceva tutti i rumori che l’imbarcazione poteva produrre. Quando i motori non giravano, il silenzio a bordo era quasi perfetto; bisognava ascoltare molto attentamente per captare il sussurro delle pompe dell’aria e il fioco ronzio dell’impianto di raffreddamento. Ora quei rumori si sentivano ancora, ma ad essi se n’era aggiunto un altro.

Era un fruscio appena avvertibile, così lieve che in certi momenti Pat aveva quasi il dubbio di averlo solo immaginato. Sembrava quasi incredibile che un suono così leggero fosse riuscito a penetrargli nella mente attraverso le barriere del sonno. Nemmeno adesso che era sveglio Pat riusciva a identificarlo e a stabilire da che direzione provenisse.

Poi, all’improvviso, il capitano comprese perché quel rumore lo aveva svegliato. In un attimo ogni traccia di sonno svanì dal suo cervello. Balzò in piedi, appoggiò l’orecchio contro il portello della nave; sì, quel rumore veniva dall’esterno dello scafo!

Ora lo sentiva benissimo, lieve ma distinto, e rabbrividì dalla testa ai piedi. Non c’era dubbio: era il rumore di innumerevoli granelli di polvere che sussurravano contro le paratie del Selene come una tempesta di sabbia. Che cosa significava? Forse il Mare della Sete era di nuovo in movimento? E in questo caso, stava trascinando il battello con sé? Eppure, dentro lo scafo non si avvertiva il minimo segno di movimento, né la più lieve vibrazione; solo il mondo esterno si muoveva frusciando contro l’imbarcazione…

In punta di piedi, attento a non disturbare i compagni che dormivano, Pat attraversò la cabina. Era il turno di guardia del dottor McKenzie. Lo scienziato se ne stava rannicchiato al posto del pilota, fissando attraverso i finestrini ciechi. All’avvicinarsi di Pat si volse e bisbigliò: «Qualche cosa che non va dalla vostra parte?»

«Non lo so… venite a sentire.»

Tornati nel compartimento dove era installata la piccola cucina, i due premettero l’orecchio contro il portello, e ascoltarono a lungo quel crepitio misterioso. A un tratto, McKenzie osservò: «La polvere si muove, non c’è dubbio, non capisco perché. Ora abbiamo un altro indovinello da risolvere.»

«Come sarebbe, un altro?»

«Già, non capisco cosa stia combinando la temperatura. Continua a salire, ma non con la rapidità che dicevo io.»

Il fisico sembrava molto seccato che i suoi calcoli si fossero rivelati inesatti, ma per Pat quella era la prima buona notizia dopo il disastro.

«Non fate quella faccia avvilita; tutti possiamo sbagliare. E se il vostro errore significa che abbiamo qualche giorno di vita in più, mi pare che non sia il caso di prendersela.»

«Ma non è possibile che mi sia sbagliato! Si tratta di un conto elementare: sappiamo quanto calore generano ventidue persone, e sappiamo che deve pure disperdersi da qualche parte.»

«Ma quando dormono ne producono meno; forse è questa la spiegazione.»

«E vi pare che avrei trascurato un elemento così ovvio?» replicò seccamente McKenzie. «No, non è questo il fattore determinante. C’è qualche altra ragione per la quale non ci stiamo riscaldando quanto dovremmo.»

«Be’, accettiamo il fatto come sta e ringraziamo il Cielo» disse Pat. «Piuttosto, che diavolo sarà questo rumore?»

Con evidente riluttanza, McKenzie riportò la sua attenzione sul nuovo enigma.

«La polvere si muove, noi invece no, quindi si tratta probabilmente di un effetto locale. Del resto, si verifica soltanto in coda allo scafo, a quanto sembra. Chissà se questo significa qualcosa.» Indicò la paratia dietro di sé. «Che c’è dall’altra parte?»

«I motori, la riserva di ossigeno, l’impianto di raffreddamento…» L’impianto di raffreddamento! Ma sicuro! Ricordo di averlo notato quando sono salito a bordo. Le alette del radiatore sono là dietro, vero? «Si.»

«Ora capisco cos’è accaduto. Si sono talmente arroventate che la polvere ha cominciato a circolare, come qualsiasi liquido che viene scaldato. All’esterno si è formata una fontana di polvere, e sta disperdendo l’eccedenza di calore interno. Non staremo proprio freschi, ma potremo sopravvivere.»

Nel chiarore rossastro, i due uomini si guardarono. Poi Pat disse:

«La spiegazione è questa. Non c’è dubbio. Forse la fortuna sta cambiando.» Guardò l’orologio e fece un rapido calcolo mentale. «A quest’ora il sole sta sorgendo sul Mare della Sete. La base avrà mandato le slitte a cercarci, e ormai conosceranno la nostra posizione quasi con esattezza. Scommetto dieci contro uno che entro poche ore ci trovano.»

«Dobbiamo dirlo al commodoro?»

«No, lasciamolo dormire. Ha avuto una giornata faticosa. Gli daranno la notizia quando si sveglia.»

Appena McKenzie l’ebbe lasciato, Pat cercò di riprendere il sonno interrotto. Ma non ci riuscì; giacque con gli occhi aperti nella fioca luce rossastra, riflettendo sulla strana svolta che aveva alterato il corso del destino. La polvere che li aveva inghiottiti e poi aveva minacciato di cuocerli vivi, adesso era venuta in loro aiuto: le sue correnti di convezione spingevano l’eccedenza di calore verso la superficie. Pat non sapeva, però, se quelle correnti avrebbero continuato a fluire anche col sole alto.

All’esterno, la polvere continuava a frusciare, e all’improvviso Pat si ricordò di una antica clessidra che gli avevano mostrato quand’era bambino. Prima dell’invenzione dell’orologio, le giornate di milioni di uomini erano state divise in ore dallo scorrere dei granelli di sabbia. Ma certo nessuno prima di quel momento aveva mai misurato l’intero arco della propria vita nell’intensità di un getto di polvere.


A Clavius City, l’amministratore capo Olsen e il commissario del Turismo Davis avevano appena terminato di conferire con l’Ufficio Legale. Non era stata una riunione allegra. Si era discusso soprattutto sulle dichiarazioni di scarico di responsabilità approvate dai turisti prima di salire a bordo del Selene. Davis, che era stato contrario a quelle clausole, per timore che spaventassero i turisti, adesso era ben contento che i legali avessero insistito, e meno male che le autorità di Porto Roris avevano rispettato scrupolosamente la procedura. Di solito quelle questioni venivano trattate come formalità senza importanza, e tranquillamente ignorate. Invece c’era l’elenco completo delle firme dei passeggeri del Selene, con una sola eccezione sulla quale i legali stavano ancora discutendo.

Il commodoro in incognito era stato messo in lista come R.S. Hanson, e ora pareva che avesse addirittura firmato con quel nome. D’altra parte, la firma era così illeggibile che poteva anche essere «Hansteen». Per decidere su quel punto, bisognava attendere che dalla Terra venisse spedito un facsimile della firma del commodoro. Comunque, la cosa aveva un’importanza secondaria; dato che il commodoro viaggiava per un incarico ufficiale, l’Amministrazione era tenuta ad accettare piena responsabilità nei suoi riguardi. Quanto agli altri passeggeri, c’era una responsabilità morale, se non legale.

Soprattutto, bisognava fare ogni sforzo per ritrovare i corpi e dare loro una sepoltura. Quel problemino era stato scaricato sulle braccia dell’ingegnere capo Lawrence, che si trovava ancora a Porto Roris.

Lawrence non aveva mai accettato un incarico con minore entusiasmo. Se ci fosse stata la più piccola speranza che i passeggeri del Selene fossero vivi, sarebbe stato disposto a smuovere cielo, terra e luna per salvarli. Ma dato che erano morti, non vedeva il motivo di rischiare altre vite per rintracciarli ed estrarre le salme. Tra l’altro, quei colli eterni gli sembravano una sepoltura degnissima per chiunque.

Che fossero morti, Lawrence non ne dubitava affatto. Il lunamoto si era verificato proprio nell’ora in cui il Selene avrebbe dovuto iniziare il percorso di ritorno dal Lago del Cratere, e la gola era interamente ostruita da enormi massi. Il più piccolo di quei macigni sarebbe stato sufficiente a schiacciare il battello come una nocciolina, e i passeggeri dovevano essere morti nel giro di pochi secondi, appena l’aria era sfuggita dallo scafo. Se, con una probabilità su un milione, il Selene non fosse rimasto schiacciato, la radio avrebbe continuato a trasmettere il suo segnale automatico. Ma siccome nemmeno quello arrivava, era evidente che il disastro era stato totale.

Con tutto il tatto possibile, perché l’amministratore capo non era tipo da accogliere un «no» col sorriso sulle labbra, Lawrence cominciò a stendere il suo rapporto. In sintesi, si sarebbe potuto riassumerlo così: A) l’impresa era quasi certamente impossibile. B) Ammesso che fosse possibile, sarebbe costata un centinaio di milioni e forse avrebbe compromesso altre vite umane. C) In ogni caso, non valeva la pena di tentarla.

Ma siccome tanta brutale franchezza gli avrebbe alienato le simpatie di tutti, e del resto le ragioni andavano illustrate e chiarite, venne fuori un rapporto di tremila parole.

Lawrence era intento a dettarlo quando il telefono squillò.

«C’è Lagrange II in linea, ingegnere» disse la centralinista. «Un certo dottor Lawson vuole parlare con voi.»

Lawson? E chi diavolo era? Poi l’ingegnere capo ricordò: era l’astronomo che stava facendo ricerche col telescopio. Eppure ormai doveva essere stato avvertito che…

L’ingegnere non aveva mai avuto la fortuna, o la sfortuna, di conoscere il dottor Lawson. Non sapeva perciò che l’astronomo era un giovanotto molto nevrastenico e molto intelligente, ma soprattutto molto ostinato.

Lawson aveva appena cominciato a smantellare il suo congegno, quando si era fermato per riflettere meglio. Già che, praticamente, quel toso complicatissimo era ormai montato, tanto valeva provare a usarlo, così, a titolo di semplice curiosità scientifica.

Lawson era talmente stanco che stava in piedi unicamente per caparbietà. Se l’apparecchio non avesse funzionato subito, avrebbe rimandato la prova a più tardi e sarebbe andato a farsi prima una buona dormita. Ma per uno di quei casi fortunati che talvolta premiano i lavoratori coscienziosi, la prova riuscì benissimo; qualche ritocco di poco conto fu sufficiente perché il Mare della Sete cominciasse ad apparire sullo schermo.

Ecco, le zone luminose indicavano le aree relativamente calde, quelle oscure le regioni fredde. Quasi tutto il Mare della Sete era buio, salvo una fascia che il sole aveva già cominciato a illuminare. Ma in quell’oscurità, osservando meglio, Lawson intravide alcune linee lievissime, che scintillavano come tracce di lumache in un giardino illuminato dalla Luna.

Si trattava senza alcun dubbio della scia di calore lasciata dal Selene, e si vedevano anche, molto più fioche, le tracce a zigzag delle due slitte che continuavano a cercare il battello. Tutte quelle linee convergevano verso le Montagne Inaccessibili, e là svanivano oltre il campo visivo di Lawson.

L’astronomo era troppo stanco per esaminarle meglio, e del resto non ne valeva la pena, perché quelle tracce confermavano ciò che già si sapeva. L’unica soddisfazione, che per lui contava moltissimo, era di constatare che un altro complicatissimo congegno di sua costruzione aveva obbedito alla sua volontà. Lawson fotografò lo schermo, per l’archivio; poi se ne andò a letto perché moriva dal sonno.

Tre ore più tardi si svegliò, con l’impressione di non aver riposato affatto. Qualcosa di indefinibile lo preoccupava, gli dava un senso d’inquietudine. Come il lieve fruscio della polvere in movimento aveva disturbato Pat Harris nel Selene sepolto, così, a cinquantamila chilometri di distanza, Tom Lawson era stato ridestato dalla sensazione di aver trascurato qualcosa. La mente umana ha molti cani da guardia; a volte abbaiano senza motivo, ma un uomo di buon senso non ignora mai i loro avvertimenti.

Ancora assonnato, Lawson lasciò la celletta che gli serviva da camera a bordo del Lagrange II, si agganciò alla più vicina cintura di sicurezza e fluttuò nei corridoi senza gravità fino a che ebbe raggiunto (‘Osservatorio. Là, felicissimo di constatare che non c’era nessuno dei colleghi, si sistemò davanti agli strumenti che erano l’unico suo amore.

Sfilò la lastra dalla macchina fotografica e per la prima volta la esaminò. Fu allora che scorse un moncone di traccia che si staccava dalle Montagne Inaccessibili e terminava poco più oltre, ma nel Mare della Sete.

Avrebbe dovuto notarlo già la sera prima, mentre guardava lo schermo, e invece gli era sfuggito completamente. Per uno scienziato quella era una mancanza grave, quasi imperdonabile, e Lawson si sentì molto irritato con se stesso. Aveva permesso a delle idee preconcette di influenzare il suo spirito di osservazione.

Che cosa significava quella traccia interrotta? Esaminò meglio il punto con la lente di ingrandimento. La traccia terminava in una piccola chiazza più diffusa, che a occhio e croce doveva corrispondere a un diametro di circa duecento metri. Era molto strano: come se il Selene, appena uscito dal canyon, si fosse sollevato nello spazio come un’astronave.

La prima conclusione di Tom fu che il battello doveva essere esploso e che quella chiazza di calore era il residuo della deflagrazione. Ma in tal caso tutt’intorno ci sarebbero stati dei rottami, alcuni dei quali abbastanza leggeri per galleggiare sulla polvere.

Le slitte non avrebbero mancato di notarli, nel corso della loro perlustrazione… e che quella zona l’avessero perlustrata a fondo lo dimostravano le loro tracce.

Doveva esserci un’altra spiegazione, eppure l’alternativa sembrava assurda. Era quasi impossibile immaginare che un oggetto delle dimensioni del Selene potesse affondare senza lasciare tracce nel Mare della Sete, e solo perché nelle vicinanze c’era stato un lunamoto. Certo lui non poteva chiamare la Luna, portando come prova una sola fotografia, e dichiarare: «State cercando dalla parte sbagliata». Sebbene affettasse la massima indifferenza per l’opinione altrui, Tom era atterrito all’idea di rendersi ridicolo. Prima di sbandierare quella teoria assurda, bisognava procurarsi altre prove.

Visto al telescopio, il Mare era una distesa luminosissima, piatta e uniforme. Tom regolò lo strumento sulla sensibilità massima, ed esaminò la zona dove la traccia terminava bruscamente. Forse qualche lieve chiazza di calore persisteva ancora, abbastanza forte da essere individuata perfino nel tepore della mattinata lunare. Il sole, infatti, era ancora basso, e i suoi raggi non avevano ancora la potenza infernale che avrebbero raggiunto a mezzogiorno.

Era uno scherzo della fantasia? Di tanto in tanto, proprio al limite delle possibilità di ricezione dello strumento, Tom aveva la sensazione di vedere un tremulo scintillio di calore, e proprio nell’area dove terminava la traccia fotografata durante la notte.

Era tutto terribilmente sconclusionato, ben diverso da quel solido complesso di prove irrefutabili di cui uno scienziato ha bisogno, specie prima di esporsi a una figuraccia. Se non avesse aperto bocca, nessuno avrebbe mai sospettato di nulla, ma lui sarebbe stato perseguitato dai dubbi per tutta la vita.

Parlando, rischiava invece di far nascere speranze infondate, di diventare lo zimbello del Sistema Solare o di essere accusato di volersi mettere in vista.

Eppure, una decisione andava presa, questo era indiscutibile. Molto a malincuore, sapendo di compiere un passo che non avrebbe più potuto cancellare, Tom andò al telefono dell’Osservatorio.

«Qui Lawson» disse. «Datemi Centrale Luna…»


A bordo del Selene, la prima colazione era stata sufficiente ma non certo appetitosa. C’erano state parecchie lagnanze da parte di quei passeggeri i quali ritenevano che galletta e carne compressa, una puntina di miele e un bicchiere d’acqua tiepida non costituissero un pasto prelibato. Ma il commodoro era stato irremovibile. «Non sappiamo per quanto tempo dovranno bastarci le scorte» decretò «e temo che bisognerà rinunciare ai pasti caldi. Non c’è modo di prepararli, e nella cabina fa già troppo caldo. Mi dispiace, ma niente più tè o caffè, per nessuno. Francamente, poi, penso che non ci farà male diminuire un po’ le calorie per qualche giorno.» L’osservazione gli era sfuggita prima di pensare alla signora Schuster, e sperò che l’ex attrice non la prendesse come un affronto personale. Liberata del busto, dopo lo spogliarello generale della sera prima, la povera signora assomigliava adesso a un benigno ippopotamo sdraiato placidamente su un sedile e mezzo.

«Il sole si è levato da poco» riprese Hansteen. «Le squadre di ricerca saranno già all’opera, ed è ormai solo questione di tempo. Proporrei, perciò, di discutere senz’altro il programma della giornata. Professor Jayawardene, volete dirci che cosa ha organizzato di bello il Comitato Ricreativo?»

Il professore era un omino minuto dai grandi occhi scuri e dolcissimi. Era chiaro che aveva preso il suo compito molto sul serio, perché le sue fragili mani tormentavano un’imponente lista di appunti.

«Come sapete» disse «la mia specialità è il teatro… ma ho paura che su questo punto non si possa fare nulla. Sarebbe stato divertente leggere una commedia, e pensavo già di scriverne alcune parti; ma non ci basterebbe la carta e quindi bisogna rinunciare e trovare qualche altra cosa. A bordo non c’è molto da leggere, ma abbiamo due romanzi: una edizione annotata di uno dei western classici: Il cavaliere della valle solitaria, e questo nuovo romanzo storico: L’arancia e la mela. Proporrei di affidare la lettura a diverse persone, a turno. Se qualcuno ha obiezioni, oppure ha qualcosa di meglio da proporre…»

«Noi vogliamo giocare a poker» dichiarò una voce decisa, dal fondo.

«Ma non vorrete giocare a poker sempre!» protestò il professore, mostrando una discreta ignoranza del mondo non accademico. Il commodoro gli venne subito in aiuto.

«La lettura non disturberà affatto il vostro poker» disse. «Del resto, vi consiglierei di fare un po’ di intervallo, ogni tanto. Tra poco quelle carte saranno ridotte in pezzi.»

«Bene, da quale cominciamo, allora? E chi si offre volontario per leggere? Io sono ben contento di farlo, ma penso che sia meglio cambiare voce ogni tanto, per evitare la monotonia…»

«Io mi oppongo alla lettura dell’Arancia e la mela» saltò su la giornalista. «È inutile buttar via il tempo con quella robaccia; quello è un libro pornografico, e nient’altro.»

«E voi come lo sapete?» domandò David Barrett, l’inglese che aveva fatto commenti sul tè. Per tutta risposta, ricevette un’alzata di spalle. Il professor Jayawardene sembrava molto a disagio, guardò il commodoro come per chiedere il suo intervento. Ma Hansteen, di proposito, s’era messo a guardare da un’altra parte: se i passeggeri si abituavano a contare su di lui per le più piccole cose, era finita. Nei limiti del possibile, dovevano cavarsela da soli.

«Benissimo» dichiarò il professore. «Per evitare ogni discussione, cominceremo dal Cavaliere della valle solitaria.»

Si levarono diverse esclamazioni di protesta. «Vogliamo l’altro!» Ma, con un’inaspettata dimostrazione di energia, il professore tenne duro. «L’altro è un libro lungo» disse. «Non credo che avremo tempo di finirlo. Questo è più breve.» Si schiarì la voce, si guardò attorno per vedere se c’erano ulteriori obiezioni, poi cominciò a leggere con voce gradevolissima, anche se un po’ cantilenante.

«Introduzione: l’importanza del Western nell’Era dello Spazio. Di Kar Adams, ordinario d’inglese all’università di Chicago. Basato sul seminario di critica letteraria tenuta da Kingsley Amis, nell’anno duemilatrentasette.»

I giocatori di poker erano indecisi; uno di loro osservava innervosito i logori foglietti che fungevano da carte da gioco. Il resto dei passeggeri si era disposto all’ascolto, chi con aria seccata, chi ansioso di sentire. La signorina Wilkins era nel compartimentocucina e faceva un inventario delle provviste. La voce melodiosa continuò: «Uno dei più inaspettati fenomeni letterari del nostro tempo è stato il ritorno in onore, dopo circa mezzo secolo di oblio, del romanzo cosiddetto «western». Questo genere narrativo, che come è noto aveva per sfondo un’epoca e un territorio estremamente limitati, vale a dire gli Stati Uniti d’America intorno al milleottocento e…»

«Le cose si mettono bene» pensò il commodoro. Il secondo giorno sotto la polvere era cominciato tranquillamente, in un’atmosfera abbastanza rosea. Ma quanti giorni dovevano ancora passare?

La risposta a quella domanda dipendeva da due uomini che avevano concepito, fin dal primo momento, una istintiva antipatia reciproca, pur trovandosi a cinquantamila chilometri l’uno dall’altro.


«Quello che dite è molto interessante» dichiarò a Lawson l’ingegnere capo Lawrence, dopo aver ascoltato. «Peccato che non abbiate continuato le vostre osservazioni dopo aver scattato la prima foto. Adesso avremmo in mano qualcosa di più conclusivo, vi pare?»

Tom s’inalberò immediatamente a quell’osservazione, per quanto fosse giusta… o forse proprio perché era giusta.

«Se pensate che qualcun altro avrebbe potuto far meglio di me…» scattò.

«Oh, non dico questo» lo placò Lawrence, ansioso di evitare uno scontro. «Il fatto è che sappiamo troppo poco. La zona che voi indicate è abbastanza circoscritta, ma la sua posizione è incerta di almeno mezzo chilometro. In superficie potrebbe non esserci nulla di visibile, nemmeno alla luce del giorno. Non ci sarebbe un mezzo di localizzare la zona con maggiore esattezza?»

«C’è un modo molto ovvio, direi. Usare la stessa tecnica a livello del suolo. Perlustrare tutta l’area con un rivelatore a infrarossi. Così si dovrebbe individuare ogni zona calda, anche se è una differenza di temperatura minima.»

«Ottima idea» disse Lawrence. «Vedrò di organizzare la cosa, e vi richiamerò se avrò bisogno di altre informazioni. Mille grazie, dottore.»

Lawrence riappese in fretta e si asciugò la fronte. Poi richiamò immediatamente il satellite.

«Lagrange II? Qui l’ingegnere capo, Lato Terra. Datemi il direttore, per favore… Professor Kotelnikov? Qui Lawrence, sto bene, grazie. Ho parlato col vostro dottor Lawson, il quale dice d’aver trovato le tracce d’una nostra nave scomparsa. Volevo domandarvi in confidenza… ci si può fidare di lui?»

Nei cinque minuti che seguirono, Lawrence apprese sul conto di Lawson molto più di quanto avesse diritto di sapere. Comunque, le referenze di Lawson, come scienziato, erano ottime. «Bene» concluse l’ingegnere, appena il direttore fece una pausa per riprendere fiato. «Vi capisco, sì… In ogni modo, avete detto che è un osservatore di prim’ordine, ed è quanto volevo sapere. Vi ringrazio molto… Farete una scappata da queste parti, un giorno o l’altro?»

Nella mezz’ora che seguì, Lawrence fece una dozzina di telefonate in vari punti della Luna. Alla fine aveva raccolto una discreta quantità d’informazioni; ora doveva agire in base a quelle.

Sull’altro Osservatorio, Padre Ferraro giudicò l’idea più che plausibile. Anzi, gli era già venuto il sospetto che l’epicentro del movimento sismico si trovasse sotto il Mare della Sete, e non sotto le Montagne Inaccessibili, ma non aveva potuto provarlo perché il mare aveva la caratteristica di soffocare tutte le vibrazioni. No, la profondità del lago non era mai stata misurata in modo esauriente. Lui stesso aveva fatto qualche sondaggio qua e là, un po’ a caso. La profondità media doveva essere meno di dieci metri. No, non aveva un rivelatore a infrarossi, ma forse gli astronomi dell’Altra Faccia erano in grado di dare una mano.

«Spiacenti» risposero da Dostoevskij. «Qui lavoriamo solo con gli ultravioletti. Provate Verne.»

«Oh, sì… li usavamo un paio d’anni fa; ma poi abbiamo visto che nel nostro campo di ricerche non servivano a nulla. Provate Lagrange…»

Fu a questo punto che Lawrence chiamò il Controllo Traffico per sapere l’orario delle astronavi in partenza dalla Terra e scoprì che almeno in questo era fortunato. Ma la prossima mossa sarebbe costata molto denaro, e solo Olsen poteva dare l’autorizzazione.

Olsen aveva una grande qualità; non discuteva mai col personale tecnico per le questioni di loro competenza. Ascoltò attentamente quello che Lawrence gli riferì, poi andò subito all’essenziale.

«Se questa teoria è esatta» disse «c’è una probabilità che siano ancora vivi.»

«Più di una probabilità. Direi che è quasi sicuro. Sappiamo che il Mare della Sete non è profondo, quindi non possono essere sotto di molti metri. La pressione sullo scafo dovrebbe essere tollerabile, e di conseguenza lo scafo dovrebbe essere ancora intatto.»

«E così, volete che questo Lawson vi aiuti nelle ricerche? L’ingegnere capo fece un gesto rassegnato.»

«È l’ultima persona con la quale vorrei lavorare» rispose. «Ma temo che dovrò rassegnarmi.»


Il Comandante del cargo spaziale Auriga era furibondo, e così il suo equipaggio, ma non c’era niente da fare. A dieci ore dalla Terra e a cinque dalla Luna, era arrivato l’ordine di far scalo a Lagrange, con tutta la perdita di velocità e la fatica di nuovi calcoli che quella fermata implicava. Per colmo di misura, venivano dirottati da Clavius City a quel miserabile buco di Porto Roris, praticamente sull’Altra Faccia della Luna.

Quasi tondo, il maculato disco argenteo della Luna faceva da abbacinante sfondo al Lagrange II, mentre l’Auriga andava ad arrestarsi a un centinaio di chilometri dalla stazione spaziale. L’astronave aveva l’obbligo di non avvicinarsi più di così; l’interferenza prodotta dalle sue attrezzature e il bagliore dei suoi getti avevano già influenzato i sensibilissimi strumenti di registrazione del satellite. Solo razzi antiquati a propulsione chimica avevano il permesso di operare nelle immediate vicinanze del Lagrange; la propulsione a plasma e gli impianti di fusione dovevano restare a distanza.

Con una valigetta di indumenti, e un cassone pieno di apparecchi di ogni genere, Tom Lawson salì a bordo del mercantile venti minuti dopo aver lasciato Lagrange. Il nuovo passeggero fu accolto senza eccessivo entusiasmo; l’accoglienza sarebbe stata diversa se si fosse saputo qual era la missione dello scienziato. L’amministratore capo, però, aveva ordinato che per il momento l’operazione fosse tenuta segreta, per evitare di far nascere speranze inutili tra i parenti dei passeggeri dispersi. Davis avrebbe voluto diffondere subito la notizia, ma Olsen era stato irremovibile, «Aspettate che Lawson ci dia dei dati sicuri… e «dopo» potrete dire qualcosa ai vostri amici delle agenzie stampa.»

L’ordine era arrivato troppo tardi. A bordo dell’Auriga, Maurice Spenser, capo dei servizi esteri dell’«Interplanet News», era diretto a Clavius City per assumere il suo nuovo incarico. Non sapeva se per la sua carriera quel trasferimento da Pechino significasse un regresso o un avanzamento, ma certo era un bel cambiamento. E, da buon giornalista, Spenser amava i cambiamenti. Per la stessa ragione, amava i misteri. Perché quel banalissimo mercantile sprecava diverse ore e una quantità inimmaginabile di energia per fare scalo a Lagrange? E chi era quel ragazzo imbronciato che era salito a bordo? E perché quel dirottamento da Clavius a Porto Roris? Spenser provò a indovinare e l’azzeccò in pieno, o quasi in pieno, immediatamente.

Doveva esserci sotto quel battello turistico che si era sperduto sulla Luna; sulla Terra, quando era partito, non si parlava d’altro. E sicuramente questo scienziato di Lagrange ne sapeva qualcosa, o andava a partecipare alle ricerche. Ma perché tanta segretezza? Forse uno scandalo, qualche gravissima responsabilità dell’Amministrazione, che ora si tentava di insabbiare: il vero e molto più semplice motivo non passò neppure per la testa di Spenser.

Non fu dunque un caso che il giornalista si trovasse seduto accanto a Lawson al momento di allacciare le cinture di sicurezza. Con altri quindici passeggeri, i due sedevano nella cabina oscurata, osservando la Luna che si avvicinava vertiginosamente. Proiettata su uno schermo attraverso una lente inserita nello scafo esterno, l’immagine sembrava più vivida e più brillante che vista a occhio nudo. Era uno spettacolo meraviglioso, indimenticabile, ma Spenser lo seguiva distrattamente, perché la sua attenzione era rivolta all’uomo che gli sedeva accanto, e il cui profilo aquilino era appena visibile nel chiarore riflesso dallo schermo.

«Non è più o meno in quella zona» osservò a un tratto, in tono quasi annoiato «che s’è perso quel battello pieno di turisti?»

«Sì» rispose Lawson, dopo un considerevole ritardo.

«Io di geografia lunare me ne intendo poco, per la verità. Avete un’idea, voi, di dove diavolo siano finiti quei poveracci?»

Perfino l’individuo più scorbutico, Spenser l’aveva scoperto da un pezzo, resiste difficilmente alla tentazione di dare schiarimenti, se gli vengono chiesti come un favore, e se gli consentono di affermare la propria superiorità. Il trucco funzionava nove volte su dieci. Funzionò anche con Lawson.

«Sono laggiù» disse Tom, indicando il centro dello schermo. «Quelle sono le Montagne Inaccessibili, e quello, tutt’attorno, è il Mare della Sete.»

Spenser guardava, con interesse autentico, i nettissimi contorni in bianco e nero delle montagne verso le quali stavano cadendo. Sperava che il pilota, umano o elettronico che fosse, conoscesse il suo mestiere. Poi si rese conto che si stavano dirigendo verso il territorio più pianeggiante, a sinistra dello schermo. I monti, e la curiosa zona grigiastra che li circondava, si allontanavano rapidamente dal centro dello schermo.

«Porto Roris» disse Tom, senza esserne richiesto, indicando un segno nero appena visibile all’estrema sinistra. «È là che dobbiamo atterrare.»

«Bene. Non mi entusiasmava molto l’idea di atterrare su quelle montagne» osservò Spenser, deciso a tenere la conversazione sul binario giusto. «Quei poveri diavoli… Non li troveranno di certo, se si sono smarriti in quel labirinto. Del resto, pare che siano stati sepolti da una valanga, no?»

Tom fece una risatina ironica. «Cosi si crede» commentò.

«Perché, non è vero?»

Troppo tardi, Tom ricordò le istruzioni ricevute. «Non posso dirvi di più» replicò.

Spenser lasciò cadere l’argomento. Ormai aveva saputo quanto bastava per convincersi di una cosa.

Clavius City avrebbe aspettato. Il punto focale doveva esser, Porto Roris, e gli conveniva fermarsi lì.

Ne fu ancora più convinto, quando, con un sospiro d’invidia, notò che il dottor Lawson sbrigava le formalità di quarantena, dogana, immigrazione e cambio in tre minuti esatti.


Se un ficcanaso avesse potuto origliare alla porta del Selene, sarebbe rimasto molto perplesso. Nella cabina, con effetto tutt’altro che melodioso, echeggiavano ventuno voci intente a cantare, in altrettanti toni dissonanti: «Tanti auguri a te! Tanti auguri a tee!».

Cessato quello strepito gaio e stonato, il commodoro giudicò che il compleanno della signora Williams era stato festeggiato abbastanza, e richiamò l’attenzione dei passeggeri.

«Signore e signori!» cominciò. «Proporrei di passare al prossimo numero del nostro programma. Sono lieto di annunciarvi che il Comitato Ricreativo, formato dalla signora Schuster e dal professor Iaya… ehm… e dal professore, ha avuto un’idea che dovrebbe riuscire divertente. Il Comitato propone che ognuno di noi si sottoponga, a turno, a un piccolo processo. La corte avrà il compito di trovare una risposta a questo interrogativo: qual è il vero motivo che ci ha portati sulla Luna? Naturalmente, qualcuno potrebbe anche trovarsi imbarazzato a rispondere. Non mi stupirei, se una buona metà dei presenti fosse venuta qui per sfuggire alla polizia, o magari alla moglie. Siete liberi di rifiutarvi di rispondere, ma poi non prendetevela se, dalla vostra reticenza, trarremo le conclusioni più nere. Che cosa ve ne pare della trovata?»

Alcuni l’accolsero con discreto entusiasmo, altri con ironiche risate di disapprovazione, ma nessuno si oppose in modo aperto. Quasi automaticamente, il commodoro venne eletto presidente del tribunale; altrettanto automatica fu l’elezione di Irving Schuster a pubblico ministero. Il doppio sedile di destra della prima fila era stato girato in modo da fronteggiare l’aula: sarebbe servito da cattedra per il giudice e il pubblico ministero. Appena tutti gli altri si furono sistemati, e il cancelliere (ossia Pat Harris) ebbe ordinato il silenzio, il presidente fece un piccolo discorso.

«Signori, voi non siete chiamati per stabilire la colpevolezza di nessuno» dichiarò, cercando di restare serio. «Questa è infatti una semplice istruttoria. Se qualcuno dei testi ha la sensazione che il mio dotto collega voglia intimorirlo, può chiedere l’intervento della corte. Cancelliere, chiamate il primo teste, per favore.»

«Ehm… Vostro Onore… e chi è il primo teste?» domandò il cancelliere.

Ci vollero dieci minuti di discussione tra la corte, il pubblico ministero e i membri più cavillosi del pubblico per stabilire quel punto importantissimo. Finalmente si decise di tirare a sorte, e la sorte designò come primo teste David Barrett.

Sorridendo, il teste avanzò dal fondo della cabina e andò a deporre nello stretto passaggio davanti al giudice. Irving Schuster, che in camicia e mutande non aveva un aspetto molto legale, si schiarì la voce.

«Vi chiamate David Barrett?»

«Esatto.»

«Qual è la vostra professione?»

«Ingegnere agricolo, in pensione.»

«Signor Barrett, dite a questa corte per quale motivo siete venuto sulla Luna.»

«Ero curioso di vedere com’era, e avevo il tempo e i quattrini necessari.»

Irving Schuster fissò Barrett obliquamente, attraverso le sue grosse lenti. Nella sua carriera aveva notato che quel modo di guardare metteva sempre in agitazione i testimoni. Portare occhiali era quasi un segno di eccentricità, in quell’era di lenti a contatto, ma i dottori e gli avvocati, specie i più vecchi, preferivano sfoggiare gli occhiali; anzi, gli occhiali erano diventati il simbolo delle professioni mediche e legali.

«Eravate curioso di vedere com’era» ripeté Schuster. «Questa non è una spiegazione. Perché eravate curioso?»

«La domanda mi pare formulata in modo così vago da non consentirmi di rispondere. La si può applicare a tutto.»

Il commodoro Hansteen sorrideva, soddisfatto. Proprio quello che lui voleva: indurre i passeggeri a chiacchierare e a discutere liberamente di argomenti che potessero essere di interesse generale, ma che non sollevassero accanite controversie, o malumori.

«Riconosco che la domanda poteva essere formulata con maggior pertinenza» ammise il pubblico ministero. «Cercherò di formularla in modo diverso. Sarebbe esatto dire che vi sentivate attratto dalle bellezze panoramiche della Luna?»

«Sì, il panorama faceva parte dell’attrattiva. Avevo visto film e volantini di propaganda, e mi domandavo se la realtà fosse davvero emozionante come veniva descritta.»

«E ora vi pare di poter dire che lo è?»

«Direi che abbia superato tutte le mie aspettative» fu l’asciutta risposta.

Dal resto del pubblico si levò una fragorosa risata. Il commodoro Hansteen si affrettò a battere sullo schienale del suo sedile.

«Silenzio!» gridò. «Se ci saranno altri schiamazzi, dovrò far sgomberare l’aula!»

Il che, come Hansteen si aspettava, venne accolto da una risata ancora più fragorosa. Il commodoro lasciò che tutti si sfogassero. Appena il baccano accennò a diminuire, Schuster riprese a parlare, usando il suo più bel tono da «terzo grado».

«Molto interessante, signor Barrett. Avete percorso tutta la strada tra la Terra e la Luna, sostenendo spese non indifferenti, solo per vedere il panorama. Dite, signor Barrett, avete visto il Gran Canyon del Colorado?»

«No. E voi?»

«Vostro Onore!» si appellò l’avvocato Schuster. «Il teste ostacola l’interrogatorio.»

Hansteen guardò severamente Barrett, il quale non sembrava per nulla mortificato.

«Non siete voi che conducete l’inchiesta, signor Barrett. Il vostro compito è quello di rispondere alle domande che vi vengono rivolte, non di farne a vostra volta.»

«Chiedo scusa alla corte, Vostro Onore.»

«Benissimo. Procediamo, avvocato.»

Schuster si rivolse di nuovo al teste.

«Vorrei sapere, signor Barrett, come mai avete sentito la necessità di visitare la Luna, quando ci sono tanti posti della Terra che non avete ancora visto.»

«Il nostro pianeta, per la verità, l’ho visto in lungo e in largo. Sono stato a tutt’e due i Poli, ho soggiornato all’albergo Everest, ho percorso il fondo degli oceani. Diciamo che la Terra non aveva più nulla di nuovo da offrirmi. Mentre la Luna era completamente nuova per me: un intero mondo da scoprire a meno di ventiquattr’ore di viaggio. Non ho saputo resistere alla tentazione.»

Hansteen ascoltava distratto la risposta di Barrett; in realtà, stava approfittando della chiacchierata del teste per esaminare il pubblico senza averne l’aria. Ormai si era formato un quadro abbastanza esatto dell’equipaggio e dei passeggeri e aveva capito su chi poteva contare quando fosse venuto il peggio, e da chi sarebbero venuti i guai.

Sull’equipaggio. si poteva contare senz’altro. Harris era un giovane in gamba, competente e poco ambizioso, soddisfatto del lavoro che faceva. Un uomo leale, coscienzioso e dotato di poca fantasia, che avrebbe fatto il suo dovere fino in fondo e sarebbe stato pronto a morire senza atteggiarsi a martire. Era una virtù che molti uomini più dotati di Harris non possedevano e che sarebbe stata preziosa a bordo del Selene, se tra cinque giorni le cose non fossero cambiate.

La signorina Wilkins, la hostess, era importante quasi quanto il capitano, sotto un certo punto di vista; Hansteen l’aveva già classificata come una ragazza intelligente, dal carattere forte e con un’istruzione superiore alla media. Hansteen sapeva per esperienza che si poteva sempre contare sulle hostess spaziali.

E i passeggeri? Naturalmente, si trattava di persone superiori alla media, e lo provava il fatto che si trovassero sulla Luna. C’era sicuramente un altissimo quoziente intellettuale rinchiuso dentro il Selene, ma l’ironia della sorte voleva che, in un simile frangente, il quoziente intellettuale non servisse a nulla. Ciò che occorreva era il carattere, la forza d’animo, o, per usare un termine più crudo, il coraggio.

Pochi uomini, ormai, sapevano cosa volesse dire il coraggio fisico. Dalla nascita alla morte, raramente si trovavano faccia a faccia col pericolo. Gli uomini e le donne a bordo del Selene non erano stati addestrati per affrontare le ore d’incubo che si preparavano, e lui non sarebbe riuscito ancora per molto a tenerli occupati con giochi e passatempi. Il commodoro Hansteen si guardò rapidamente attorno. A parte gli indumenti ridotti e l’aspetto un po’ disordinato, quelle ventuno persone erano ancora membri della società civile, ragionanti e dotati di autocontrollo. Quale di essi, si chiese il commodoro, sarebbe stato il primo a crollare?


Nel concetto dell’ingegner Lawrence, il dottor Lawson costituiva l’eccezione al vecchio adagio: «Sapere significa perdonare». L’avere scoperto, in via confidenziale, che l’astronomo aveva avuto un’infanzia infelice e tormentata e che era arrivato così in alto grazie unicamente al suo prodigioso intelletto, poteva servire a compatirlo, ma non a trovarlo simpatico. Era una vera sfortuna, sempre nel concetto dell’ingegner Lawrence, che Lawson fosse l’unico scienziato, in un raggio di trecentomila chilometri ad avere un rivelatore a raggi infrarossi e a saperlo usare.

In quel momento, Lawson era seduto al posto di guida nella Slitta Due, intento a dare gli ultimi ritocchi al congegno rudimentale ma efficacissimo che era riuscito a mettere insieme. Un treppiede da macchina fotografica era stato montato sul tetto del piccolo veicolo, e su questo era stato avvitato il rivelatore, in modo tale che l’apparecchio potesse operare in tutte le direzioni.

Pareva che il congegno funzionasse, ma era difficile stabilirlo all’interno del piccolo hangar pressurizzato che aveva fonti di calore dappertutto. La vera prova si sarebbe potuta fare soltanto al largo, nel Mare della Sete.

«È pronto» annunciò finalmente Lawson. «Vorrei solo dire due parole all’uomo che guiderà la slitta.»

L’ingegnere capo lo fissò con aria pensosa, ancora incerto sul da farsi. C’erano infatti molti «pro» e «contro» riguardo all’idea che gli era venuta, e Lawrence si sforzò di prendere la sua decisione senza tenere conto dei sentimenti personali. Ora non c’era tempo per certe sciocchezze.

«Siete capace di indossare una tuta spaziale, vero?» domandò a Lawson.

«Non l’ho mai fatto in vita mia. Si mettono solo per andare nel vuoto, all’esterno, e questo lo lasciamo fare agli ingegneri.»

«Bene, allora vi si presenta l’occasione di provare» disse Lawrence, ignorando la frecciata. (Ma era poi una frecciata? Forse la scortesia di Lawson non era calcolata, forse era solo indifferenza per le forme.) «P, una cosa da nulla, quando si sta sopra una slitta. Non dovete fare altro che stare seduto tranquillamente al posto del passeggero, e il regolatore automatico penserà lui all’ossigeno, alla temperatura e a tutto il resto. C’è un solo problema…»

«E sarebbe?»

«Soffrite per caso di claustrofobia?»

Tom esitò, non volendo ammettere di avere qualche debolezza. Certo, non ne soffriva in forma acuta, altrimenti non sarebbe potuto vivere a bordo di un satellite artificiale, o salire su una nave spaziale. Ma tra nave spaziale e tuta spaziale c’era una bella differenza.

«Posso farcela benissimo» rispose.

«Non forzatevi, se non ve la sentite» insistette Lawrence. «Sarei contento se veniste con noi, ma non voglio costringervi a eroismi inutili. Pensateci bene fin che siamo in tempo. Una volta usciti in mare aperto, potrebbe essere tardi per pentirsene.»

Tom guardò la slitta mordendosi le labbra. L’idea di andarsene a spasso su quell’infernale distesa di polvere, a bordo di quella trappola, gli pareva pura follia; eppure, quegli uomini lo facevano tutti i giorni. E se per caso il rivelatore si guastava, c’era almeno qualche speranza che lui potesse aggiustarlo.

«Qui c’è una tuta della vostra misura» disse Lawrence. «Provatela, prima di prendere una decisione.»

Tom s’infilò nell’indumento flaccido e al tempo stesso crocchiante, chiuse la cerniera sul davanti e rimase là, ancora senza il casco, con la sensazione d’essere un pagliaccio. La bombola d’ossigeno che faceva parte dell’insieme sembrava incredibilmente piccola, e Lawrence notò lo sguardo preoccupato dell’astronomo.

«Quella è solo la riserva; dura quattro ore, ma non ne avrete bisogno. Il serbatoio dell’ossigeno è sulla slitta. Attento al naso… ora vi infilo il casco.»

Tom comprese, dall’espressione con cui gli altri lo guardavano, che quello era il momento in cui si distinguevano gli uomini dai ragazzi. Fino a che quel casco non veniva chiuso, si faceva ancora parte della razza umana; dopo, si restava soli, in un piccolo mondo meccanico tutto proprio. Potevano esserci dei compagni a pochi centimetri di distanza, ma bisognava guardarli attraverso uno spesso visore di plastica, parlare con loro a mezzo radio. Non si poteva nemmeno toccarli, se non attraverso un doppio strato di pelle artificiale. Qualcuno aveva scritto che morire dentro una tuta spaziale voleva dire morire «più solo di un cane». Per la prima volta, Tom si rese conto che doveva essere proprio vero. La voce dell’ingegnere capo risuonò all’improvviso attraverso i piccoli altoparlanti sistemati all’interno del casco.

«L’unico comando che dovete imparare a usare è quello di comunicazione… quel pulsante alla vostra destra. Normalmente, sarete sempre in comunicazione col pilota; il circuito resterà sempre aperto, finché sarete entrambi a bordo, e potrete comunicare come vorrete. Ma quando il contatto cessa, bisogna usare la radio… come fate adesso mentre ascoltate me. Schiacciate quel pulsante con scritto Trasmissione e rispondetemi.»

«A che serve quel bottone rosso con su scritto Emergenza?» domandò Tom, dopo aver eseguito le istruzioni.

«Non vi servirà… spero. È un segnale d’allarme, perché dalla base vengano in vostro soccorso. Non toccate nient’altro senza prima ricevere istruzioni da noi, specialmente quel bottone rosso.»

«State tranquillo» promise Tom. «Possiamo andare.»

A passi un po’ incerti, perché non era abituato alla tuta né alla gravità della Luna, Tom prese posto a bordo della Slitta Due. Una specie di cordone ombelicale, innestato nel fianco destro della tuta, collegava la tuta spaziale alla corrente e al serbatoio d’ossigeno dell’imbarcazione. Il veicolo poteva tenere in vita un uomo, sia pure in modo un po’ scomodo, per tre o quattro giorni.

Il piccolo hangar era di dimensioni appena sufficienti a contenere le due slitte, e le pompe impiegarono pochi minuti ad aspirarne l’aria. Mentre la tuta s’irrigidiva intorno al suo corpo, Tom provò un istante di panico. L’ingegnere e i due piloti lo stavano osservando, e lui non voleva far vedere che aveva paura. Nessun uomo poteva fare a meno di sentirsi emozionato quando, per la prima volta in vita sua, affrontava il vuoto.

Le porte dell’hangar si aprirono; grigia e uniforme la piatta distesa del Mare della Sete si spalancò davanti agli occhi di Tom. La slitta vibrò sotto di lui, mentre le eliche cominciavano a girare; poi, in coda all’imbarcazione gemella, la Slitta Due scivolò lentamente fuori, sulla nuda superficie della Luna.

I raggi bassi del sole nascente investirono d’improvviso i quattro uomini appena le slitte emersero dalla lunga ombra degli edifici del porto. Nonostante la protezione dei filtri automatici, era pericoloso guardare verso il bagliore biancoazzurro che incendiava il cielo a oriente. No, si corresse Tom: questa è la Luna, non la Terra; qui il sole si leva a ovest. Quindi ci dirigiamo verso nordest, verso il Golfo della Rugiada, lungo la rotta che il Selene ha seguito e non ha più ripercorso.

Ora che le basse cupole del porto rimpicciolivano in distanza, Tom cominciò a provare l’eccitazione e l’ebbrezza della velocità. La sensazione durò solo pochi minuti, fino a che ogni punto di riferimento sparì e i quattro uomini vennero afferrati dall’illusione di trovarsi immobili al centro di un piano che si stendeva all’infinito.

Tom sapeva di viaggiare a una velocità che in un paio d’ore li avrebbe portati dalla parte opposta del Mare della Sete; eppure doveva lottare con l’allucinante sensazione di trovarsi a parecchi anniluce da qualsiasi speranza di salvezza. Fu in quel momento che, suo malgrado, Tom cominciò a nutrire un certo rispetto per gli uomini che lavoravano con lui.


Il capitano Anson, comandante dell’Auriga, si fece più trattabile dopo il secondo whisky; un uomo che sapeva trovare del buon whisky in un postaccio come Porto Roris meritava di essere preso sul serio. Anson domandò a Spenser come avesse fatto.

«Il potere della Stampa» rise l’altro. «Un cronista non rivela mai le sue fonti d’informazione, altrimenti non durerebbe a lungo nel suo mestiere.»

Spenser aprì la cartella e ne trasse un fascio di fogli e di fotografie.

«È stato molto più difficile procurarsi questa roba, e in così poco tempo. Vi sarei grato, capitano, se però non ne parlaste con nessuno. È estremamente confidenziale, almeno per il momento.»

«Certo, certo. Si tratta… del Selene?»

«L’avete capito subito, eh? Proprio così. Forse non ne caverò nulla, ma è bene prepararsi a ogni evenienza. Guardate questa foto, quell’ovale scuro è il Lago del Cratere…»

«Dov’è scomparso il Selene?»

«Dove «si crede» che sia scomparso; ma pare che la cosa non sia più tanto certa. L’amico che è salito a Lagrange pensa che sia sprofondato nel Mare della Sete, se ho capito bene… su per giù in quest’area. In questo caso, i passeggeri dovrebbero essere ancora vivi. E sempre in questo caso, capitano, ci sarà una spettacolosa operazione di salvataggio a un centinaio di chilometri da qui. Porto Roris diventerà il centro più importante di tutto il sistema solare.»

«Sarà! Be’, comunque è affare vostro. Io come c’entro?»

«C’entrate e come, capitano. Voglio noleggiare la vostra astronave. E voglio che mi scarichiate, con un operatore e duecento chili di attrezzature TV, proprio sulla parete occidentale delle Montagne Inaccessibili.»


«Non ho altre domande da fare, Vostro Onore» disse il pubblico ministero Schuster, mettendosi seduto.

«Benissimo» rispose il presidente Hansteen. «Devo ordinare al teste di non allontanarsi dalla giurisdizione della corte.»

Tra le risate generali, David Barrett ritornò al suo posto. Aveva fatto ottimamente la sua parte; le sue risposte erano state serie e ponderate, ma rallegrate da battute spiritose, e avevano tenuto avvinto l’interesse del pubblico. Se tutti gli altri fossero stati altrettanto arguti, il problema di come ammazzare il tempo sarebbe stato risolto, almeno finché ci fosse stato del tempo da ammazzare.

Hansteen guardò l’orologio; mancava ancora un’ora alla frugale colazione. Si poteva tornare alla lettura del Cavaliere della valle solitaria o incominciare (nonostante le obiezioni della signorina Morley) la lettura di quell’assurdo romanzo storico. Ma era un peccato interrompere il gioco, visto che tutti si divertivano.

«Se siete tutti d’accordo» propose il commodoro «chiamerò un altro teste alla sbarra.»

«Approvo» disse subito Barrett, che ormai si sentiva al sicuro da ulteriori indagini. Perfino i giocatori di poker erano favorevoli, e il cancelliere estrasse un altro nome dalla teiera che fungeva da urna.

Il cancelliere guardò il bigliettino con aria perplessa ed esitò prima di leggere il nome.

«Che c’è?» s’informò la corte. «È il vostro nome, per caso?»

«No, Vostro Onore» rispose il cancelliere, guardando il pubblico ministero con un sorrisetto malizioso. Poi si schiarì la gola e chiamò: «Signora Myra Schuster!»

«Vostro Onore… mi oppongo!» La signora si alzò lentamente, in tutta la sua mole. Poi indicò il marito, che pareva imbarazzato, e cercava di darsi un contegno disinvolto. «È giusto che sia proprio «lui» a farmi le domande?»

«Sono disposto a farmi sostituire» dichiarò Irving Schuster, prima ancora che la corte avesse il tempo di dire: «Obiezione accolta».

«Posso fare io le domande» disse il commodoro, ma non sembrava convinto. «A meno che non ci sia qualcun altro che si senta qualificato a sostituire il pubblico ministero.»

Seguì un breve silenzio; poi, con gran sollievo di Hansteen, uno dei giocatori di poker si alzò. «Non sono avvocato, Vostro Onore, ma ho qualche esperienza in materia legale. Mi metto a vostra disposizione.»

«Benissimo, signor Harding. A voi la teste.»

Harding prese il posto di Schuster di fianco ad Hansteen e passò in rassegna il pubblico. Era un uomo robusto e deciso, che in un certo senso sembrava poco tagliato per la professione dichiarata di funzionario di banca; Hansteen si domandò, fuggevolmente, se quella dichiarazione corrispondesse alla verità.

«Vi chiamate Myra Schuster?»

«Sì.»

«E come mai, signora Schuster, siete venuta sulla Luna?»

La teste sorrise. «La risposta è semplice. Mi hanno detto che quassù avrei pesato soltanto venti chili… e così ci sono venuta.»

«E perché mai, signora Schuster, volevate pesare solo venti chili? La signora guarda Harding come se avesse detto qualcosa di molto stupido.» Be’, un tempo ero ballerina «disse, e la sua voce divenne improvvisamente nostalgica, l’espressione assente.» Poi rinunciai, si capisce, quando sposai Irving Schuster.

«Perché avete detto «si capisce», signora Schuster?»

La teste guardò il marito, che parve a disagio e sul punto di sollevare un’obiezione, ma poi se ne astenne.

«Oh, diceva che non era dignitoso. E credo che avesse ragione, dato il tipo di ballo che facevo io.»

Era troppo per l’avvocato Schuster, che balzò in piedi e, ignorando completamente la corte, protestò: «Ma andiamo, Myra! Che bisogno c’era di…»

«Oh, smettila, Irv! Che importanza ha, ormai? Smettiamola di fare la commedia e siamo noi stessi! Non m’importa affatto che questa gente sappia che un tempo ballavo all’Asteroide, o che tu mi aiutasti a tagliare la corda quando la polizia fece irruzione nel locale.»

Irving si afflosciò, annaspando, mentre il pubblico scoppiava in una risata omerica che Suo Onore non fece nulla per arrestare. Quell’allentamento di tensione era proprio l’obiettivo che Hansteen perseguiva: quando la gente ride, non può avere paura. Poi Hansteen cominciò a riflettere più attentamente sul signor Harding, il cui interrogatorio logico e arguto aveva suscitato tanta allegria. Per essere un funzionario di banca, se la cavava molto bene. Sarebbe stato interessante vedere come se la sarebbe cavata sul banco dei testimoni, quando fosse venuto il suo turno.


Finalmente i picchi delle Montagne Inaccessibili si profilarono all’orizzonte, interrompendo la piatta uniformità del Mare della Sete.

Come al solito, non c’era modo di giudicare la distanza; potevano essere piccoli sassi a pochi metri… o non fare nemmeno parte della Luna, ma appartenere a un gigantesco mondo frastagliato, lontano milioni di chilometri. In realtà, distavano cinquanta chilometri; le slitte avrebbero coperto il percorso in mezz’ora.

Tom Lawson guardava le Montagne Inaccessibili con sollievo. Finalmente qualcosa su cui posare lo sguardo; sentiva che sarebbe impazzito, se avesse dovuto fissare quella distesa apparentemente infinita ancora per molto. Mise a fuoco il rivelatore puntandolo verso quelle cime e ottenne una reazione fortissima. Come si era aspettato, la parte di roccia già illuminata dal sole era quasi al punto di ebollizione; sebbene la giornata lunare fosse appena iniziata, le montagne scottavano già. Era molto più freddo quaggiù, a livello del «mare». La superficie di polvere avrebbe raggiunto la sua temperatura massima solo a mezzogiorno, ossia tra sette ore. Questa era una delle carte migliori che Tom avesse in mano: sebbene il giorno fosse già cominciato, gli restava ancora un buon margine per captare qualsiasi fonte di calore prima che la torrida temperatura diurna cancellasse tutto.

Venti minuti dopo, le montagne dominavano il cielo e le slitte dimezzavano la velocità.

«Non dobbiamo oltrepassare le tracce del Selene» spiegò Lawrence. «Se guardate proprio sotto quei due picchi a destra, vedrete una linea verticale scura. Ci siete?»

«Sì.»

«È la gola che conduce al Lago del Cratere. La chiazza di calore che avete rilevato 8 a tre chilometri a est di quel punto, e di qua non possiamo ancora vederla, perché resta al di sotto del nostro orizzonte. Da quale direzione preferite accostarla?»

Lawson rifletté. Bisognava accostarla da nord o da sud. Accostandola da ovest, quelle rocce ardenti avrebbero dominato il campo visivo; l’avvicinamento da est era ancor meno indicato, perché avrebbero avuto il sole nascente proprio di fronte.

«Portiamoci a nord» disse «e avvertitemi quando siamo a due chilometri dalla chiazza.»

Le slitte accelerarono di nuovo. Sebbene fosse ancora troppo presto, Tom cominciò a sondare col suo apparecchio la superficie del mare. L’intera missione era basata sul presupposto che gli strati superiori della polvere fossero normalmente a temperatura uniforme, e che ogni variazione termica fosse dovuta all’uomo. Se quell’ipotesi era sbagliata…

Era sbagliata. Tom era andato completamente fuori strada. Sullo schermo visivo, il Mare della Sete appariva come un’incessante successione di luce e di ombra, o meglio di punti caldi e freddi. Le differenze di temperatura erano appena di qualche frazione di grado, ma il quadro risultava spaventosamente confuso. Non era possibile localizzare una fonte di calore in quel labirinto termico.

Al colmo dell’avvilimento, Tom Lawson alzò gli occhi dallo schermo e fissò incredulo la polvere. A occhio nudo, si presentava perfettamente uniforme, del solito grigiore monotono. Ma vista ai raggi infrarossi, era variegata e striata come il mare durante una giornata nuvolosa sulla Terra, quando le acque sono coperte da continui giochi di luce e ombra.

Eppure, qui non c’erano nuvole; quelle lievi chiazze di calore e di freddo dovevano avere un’altra causa. Tom si sentiva troppo disorientato per cercare così su due piedi una spiegazione scientifica.

Un capriccio della natura aveva rovinato tutto il suo esperimento preparato con tanta cura. Era Sfortuna con la «esse» maiuscola, e Tom provò una profonda compassione per se stesso.

Parecchi minuti dopo, arrivò finalmente a sentire un po’ di compassione anche per la gente che si trovava a bordo del Selene!


«Dunque, voi» replicò il Comandante dell’Auriga con esagerata calma «vorreste atterrare sulle Montagne Inaccessibili. Un’idea molto interessante, non c’è che dire.»

Spenser capì che il capitano Anson non lo prendeva molto sul serio; forse pensava d’avere a che fare con un giornalista fanatico che non aveva nessuna idea dei problemi impliciti nel progetto. Dodici ore prima, Anson sarebbe stato nel giusto, quando il piano era ancora un sogno vago nel cervello di Spenser. Ma ora il giornalista aveva tutte le informazioni necessarie e sapeva esattamente che cosa doveva fare.

«Vi ho sentito dire, capitano, che sareste capace di atterrare con la vostra astronave entro un metro da un qualsiasi punto prestabilito. È vero?»

«Be’… se la calcolatrice mi dà una mano, credo di sì.»

«Benissimo. E allora guardate questa fotografia.»

«Cos’è… Glasgow vista in una piovosa sera di sabato?»

«È un ingrandimento mal riuscito, forse, ma ci dice tutto quello che vogliamo sapere. Rappresenta un punto che si trova sotto la cima occidentale. Tra qualche ora avremo una copia molto più chiara e una carta particolareggiata della zona. Quello che voglio mostrarvi è che qui c’è una cornice larga abbastanza per farci atterrare una dozzina di astronavi. Quindi l’atterraggio non sarà un problema, almeno dal punto di vista della manovra.»

«Non sarà un problema tecnico, d’accordo. Ma avete idea di quanto costerà?»

«Questi sono affari miei, capitano, o meglio della catena di giornali per cui lavoro. Noi pensiamo che ne valga la pena, se le mie previsioni sono esatte.»

Poteva essere un servizio sensazionale, addirittura senza precedenti: il primo salvataggio spaziale ripreso direttamente dalle telecamere. C’erano stati fin troppi incidenti e disastri, nello spazio, ma quello che era sempre mancato a tutti era l’elemento di dramma, di suspense. Le vittime erano morte all’istante, o si era saputo soltanto molto più tardi della tragica situazione in cui si erano trovate. Le più gravi catastrofi cosmiche erano state riportate in prima pagina con titoli cubitali, d’accordo, ma non avevano mai offerto materia per servizi «dal vivo», appassionanti e «umani» come quello che Spenser fiutava nel caso in questione.

«Non c’è solo il problema economico. Anche ammesso che i proprietari siano d’accordo, dovrete procurarvi il permesso del Controllo Traffico di Lato Terra.»

«Lo so… c’è già chi se ne sta occupando. Si può ottenere.»

«E il rischio? Le nostre polizze d’assicurazione non coprono le bravate di questo genere.»

Spenser si protese attraverso il tavolino e si preparò a dare una botta decisiva.

«Capitano, la «Interplanet News» è disposta a depositare una somma per il valore assicurato dell’astronave… Dalle mie informazioni, si tratta, e lo trovo un po’ esagerato, di sei milioni quattrocentoventicinquemila dollaristerline.»

Il capitano Anson batté la palpebre, e tutto il suo atteggiamento cambiò di punto in bianco. Poi, con aria pensosa, si versò un altro whisky.

«Non avrei mai immaginato di fare l’alpinista alla mia età» disse. «Ma se siete tanto pazzi da buttarci in grembo sei milioni di dollari… allora il mio cuore è sugli altipiani.»


Con grande sollievo del marito, la deposizione della signora Schuster era stata interrotta dall’arrivo della colazione. La grassona chiacchierava volentieri, ed era evidente che aveva accolto con gioia quell’occasione di sfogarsi un po’, dopo tanti anni di contegnoso riserbo. La carriera di danzatrice della signora Schuster non era stata certo quella di una stella di prima grandezza, quando il destino e la polizia di Chicago l’avevano troncata bruscamente, ma la donna aveva vissuto nell’ambiente artistico e aveva conosciuto molte celebrità dell’inizio del secolo. Alla maggior parte dei passeggeri più anziani, le reminiscenze della Schuster avevano riportato ricordi di gioventù, e l’eco di canzoni in voga verso il millenovecentonovanta. A un certo punto, senza alcuna obiezione da parte della corte, la signora aveva trascinato l’intera compagnia a cantare in coro un famoso successo: Spacesuit Blues. «Come animatrice dell’atmosfera» pensava il commodoro, «la signora Schuster vale tanto oro quanto pesa… e non è poco.»

Dopo colazione venne ripresa la lettura, e stavolta i fautori di L’arancia e la mela riuscirono a spuntarla. Poiché l’argomento era ambientato in Inghilterra, venne deciso all’unanimità che il lettore più adatto era il signor Barrett. Barrett protestò energicamente, ma alla fine dovette arrendersi.

«E va bene» si rassegnò, a malincuore. «Coraggio, allora. Capitolo primo. Drury Lane, milleseicentosessantacinque…»

L’autore non sprecava tempo in preamboli. Dopo tre pagine, Sir Isaac Newton stava già spiegando la legge di gravità alla signora Gwynn, la quale aveva già lasciato capire d’essere più che disposta a offrire qualcosa in cambio. Pat Harris immaginava già di che cosa potesse trattarsi, ma il dovere lo chiamava. Quella distrazione era per i passeggeri: l’equipaggio aveva da lavorare.

«C’è un armadietto di emergenza che non ho ancora aperto» disse Sue Wilkins, mentre la porta interna del compartimento stagno si chiudeva silenziosamente dietro di loro, tagliando fuori la voce e l’accento purissimo del signor Barrett. «Gallette e marmellata cominciano a scarseggiare, ma la carne compressa è sempre abbondante.»

«Lo credo» disse Pat. «Nessuno la può soffrire. Vediamo un po’ questi elenchi, allora.»

La hostess gli porse l’inventario, ora tutto coperto di segni a matita. «Cominciamo da questa scatola. Cosa c’è dentro?»

«Sapone e asciugamani di carta.»

«Roba che non si mangia; e in questa?»

«Dolci; li tenevo da parte per i festeggiamenti… quando ci troveranno.»

«Ottima idea, ma penso che si possa sacrificarne una parte stasera. Uno a testa, prima che vadano a letto. E in questa?»

«Mille sigarette.»

«Fa’ in modo che nessuno le veda. Preferirei che non me l’avessi detto.» Le sorrise e passò alla scatola seguente. I viveri non sarebbero stati il problema principale, ma bisognava tenere in ordine l’inventario. Pat conosceva bene la pignoleria dell’amministrazione; una volta che fossero stati tratti in salvo, qualche contabile umano o elettronico avrebbe presto o tardi preteso di sapere quale uso era stato fatto delle provviste di bordo.

Una volta che fossero stati tratti in salvo… Ma ci credeva davvero, lui, che sarebbe avvenuto quel miracolo? Ormai erano sepolti da più di due giorni, e finora non c’era stato segno che qualcuno li stesse cercando. Pat non sapeva quali segni doveva aspettarsi, però li aspettava.

Vedendolo silenzioso e assorto, Sue domandò, preoccupata: «Che c’è, Pat? Qualcosa che non va?»

«Oh, no» fece lui, ironico. «Tra cinque minuti attraccheremo al molo della Base. È stato un viaggetto piacevole, vero?»

Sue lo fissò incredula; poi arrossì e gli occhi le si riempirono di lacrime.

«Scusami» disse Pat, subito pentito. «Non volevo essere sgarbato… lo sforzo è terribile per tutti e due, e tu sei stata bravissima. Non so come avremmo fatto senza di te, Sue, dico sul serio.»

Lei si asciugò le lacrime e riuscì a sorridere: «Sì, capisco. Non è niente, Pat.» Tacquero entrambi per qualche momento, poi lei disse: «Credi davvero che usciremo vivi da questo buco?»

Lui ebbe un gesto scoraggiato. «E chi può dirlo? In ogni modo, per il bene dei passeggeri dobbiamo darci un tono disinvolto. L’unica cosa sicura è che tutta la Luna ci sta cercando. Ormai non dovrebbero metterci molto, a trovarci.»

«Ma anche se ci trovano… come faranno a tirarci fuori di qui?»

Gli occhi di Pat andarono automaticamente al portello del compartimento stagno. Al di là di quella sottile parete di metallo c’erano tonnellate e tonnellate di polvere che si sarebbe precipitata all’interno, come acqua in una nave che affonda, se solo avesse potuto trovare una piccola falla dalla quale introdursi. Quanto era distante la superficie? Quello era il problema che aveva assillato Pat fin dal primo istante, ma non c’era modo di risolverlo.

Né c’era modo di rispondere alla domanda di Sue. Il pensiero si arrestava all’istante del ritrovamento: se li scoprivano, avrebbero certamente escogitato qualcosa per salvarli. La razza umana non li avrebbe abbandonati, una volta accertato che erano vivi…

Ma quello era un pio desiderio, non un ragionamento dettato dalla logica. Centinaia di volte, nel passato, uomini e donne si erano trovati intrappolati in situazioni più o meno analoghe, e le risorse di tutte le grandi nazioni non erano state sufficienti a trarli in salvo. C’erano stati minatori prigionieri delle gallerie, marinai prigionieri dei sommergibili affondati e, soprattutto, astronauti deviati in orbite irraggiungibili, fuori di ogni possibilità d’intercettamento.

Pat si strappò a quelle riflessioni deprimenti. La fortuna non li aveva ancora abbandonati, e pensare troppo al lupo voleva dire, in un certo senso, invitarlo.

«Sbrighiamoci a finire quest’inventario: Voglio sentire come se la cava Nelly con Sir Isaac.»

Ecco un argomento molto più gradevole, specie trovandosi a contatto di gomito con una bella ragazza vestita in modo alquanto sommario. In certe situazioni, pensava Pat, le donne hanno molti punti di vantaggio sugli uomini. Sue, infatti, nonostante che in quel calore tropicale non le restasse più molto della sua uniforme, conservava il suo aspetto ordinato. Lui, invece, come tutti gli uomini a bordo del Selene, si sentiva terribilmente a disagio con quella barbaccia di tre giorni, e d’altra parte non poteva farci niente.

A Sue parve non importare, però, quando Pat, rinunciando a far finta di lavorare, le si accostò fino ad appoggiare la guancia a quella di lei. D’altra parte, non mostrò nessun entusiasmo per quella vicinanza. Si tenne ferma davanti all’armadietto semivuoto, come se si fosse aspettata quella mossa e non ne fosse affatto sorpresa. Era una reazione sconcertante, e dopo qualche secondo Pat si tirò indietro.

«Forse mi giudicherai un individuo senza scrupoli» disse «che cerca di approfittare della situazione.»

«No, affatto» rispose Sue. Poi diede in una risatina stanca. «Sono contenta di constatare che non ho ancora perso il mio fascino. Nessuna donna si offende quando un uomo «tenta». È quando «insiste» che la cosa diventa seccante.»

«E tu non vuoi che io insista?»

«Non siamo innamorati, Pat. E per me questo ha una certa importanza. Perfino adesso, in una simile situazione.»

«Sarebbe importante anche se tu sapessi con certezza che non usciremo vivi di qua?»

Lei rifletté, aggrottando la fronte.

«Non ne sono sicura… ma come tu stesso hai detto, dobbiamo partire dal principio che ne usciremo. Altrimenti, tanto varrebbe darci per vinti subito.»

«Scusami» disse Pat. «A queste condizioni non ti voglio. Mi sei troppo cara, prima di tutto.»

«Sono contenta di sentirtelo dire. Lo sai che mi è sempre piaciuto lavorare con te… c’erano tanti altri posti ai quali avrei potuto farmi trasferire.»

«Ed è stata una vera sfortuna, per te, non averlo fatto» rispose Pat. Quel breve impeto di desiderio, provocato dalla vicinanza, dalla solitudine, dall’abbigliamento succinto e soprattutto dalla stanchezza dei nervi, era già superato.

«Ecco che fai di nuovo il pessimista» disse Sue. «Sai, il tuo guaio è proprio qui. Ti lasci abbattere dalle cose. E non fai niente per importi… tutti possono comandarti a bacchetta.»

Pat la guardò più sorpreso che offeso. «Non sapevo che tu passassi il tempo a psicanalizzarmi» disse.

«Non è questo. Ma quando una persona ti interessa, e ci lavori insieme, non puoi. fare a meno di studiarla un po’, ti pare?»

«Be’, non mi risulta che la gente mi comandi a bacchetta.»

«No? Chi è, al momento, il comandante del Selene?»

«Se ti riferisci al commodoro, è un altro paio di maniche. Lui è mille volte più qualificato di me per prendere il comando. E del resto si è comportato in modo correttissimo: non ha mai fatto nulla senza chiedere il mio permesso.»

«Ora non te lo chiede più. In ogni modo, non è questo il punto. Tu sei contento che si sia assunto il comando, di’ la verità.»

Pat guardò Sue, imbronciato ma anche intimidito.

«Forse hai ragione. Non ci ho mai tenuto a far sentire la mia voce, o a imporre la mia autorità, ammesso che ne abbia. Forse è per questo che faccio il conducente di un battello lunare, invece che il pilota spaziale. Ma ormai è un po’ tardi per tornare indietro.»

«Non hai ancora trent’anni.»

«Grazie del complimento, ma ne ho trentadue. Nella mia famiglia conserviamo i colori dei vent’anni fino a tardissima età. E di solito è l’unica cosa che ci resta, da vecchi.»

«Trentadue anni… e non hai ancora una fidanzata?»

Pat non voleva confessare che non l’aveva perché una volta era rimasto scottato. «No. È meglio averne diverse e nessuna fissa. C’è meno rischio.» Poi aggiunse: «Uno di questi giorni me la farò.»

«Già, e lo starai ancora dicendo quando sarai arrivato a quarant’anni… o a cinquanta. Ci sono tanti uomini dello spazio che parlano così. Arrivano alla pensione senza essersi formati una famiglia, e dopo è troppo tardi. Guarda il commodoro, per esempio.»

«Ancora lui? Comincio ad averne abbastanza di quest’argomento.»

«Ha passato tutta la vita nello spazio. Non ha famiglia, non ha figli. Dev’essersi sentito molto solo quando ha raggiunto i limiti di età. Questo incidente è stato un dono del Cielo, per Hansteen! Lo vedo, io, che se la gode un mondo.»

«Buon per lui, se lo merita. Sarò felice se avrò fatto un decimo di quello che ha fatto lui, quando arriverò alla sua età, il che per il momento sembra molto poco probabile.»

Pat si accorse di avere ancora in mano i fogli dell’inventario; se n’era completamente dimenticato. Servivano solo a ricordargli che le provviste stavano calando, e li guardò con disgusto.

«Torniamo al lavoro» disse. «Dobbiamo pensare ai passeggeri.»

«Se restiamo chiusi qua dentro ancora un po’» osservò Sue «cominceranno a pensare male di noi. Era più vicina al vero di quanto immaginasse.»


Il silenzio di Tom Lawson era durato anche troppo. Lawrence si disse che era tempo di riprendere le comunicazioni.

«Tutto bene?» s’informò, studiandosi di rendere la voce molto cordiale.

In risposta udì un’esclamazione breve e irosa… ma quella collera era rivolta all’universo, non a lui.

«Non funziona» spiegò Lawson esasperato. «L’immagine del calore è troppo confusa. Ci sono una quantità di zone più calde, e non solo quella che io immaginavo.»

«Fermate la slitta. Vengo a dare un’occhiata.»

La Slitta Due si fermò lentamente. La Slitta Uno le si accostò fino a sfiorarla. Muovendosi con sorprendente agilità nonostante l’ingombro della tuta spaziale, Lawrence si trasferì da un’imbarcazione all’altra e andò a mettersi, aggrappandosi alla tettoia della slitta, alle spalle di Lawson. Poi scrutò l’immagine che appariva sul convertitore a infrarossi.

«Ah, vedo. Già, è un bel pasticcio. Ma come mai era uniforme quando avete scattato le foto?»

«Dipenderà dal sorgere del sole. Il mare si riscalda, e per qualche ragione non si riscalda in modo uniforme.»

«Bisognerebbe capire se c’è un senso coerente nella disposizione delle macchie. Ho notato che qua e là ci sono zone quasi completamente fredde. Una spiegazione logica deve esserci.»

Lawson fece forza a se stesso per seguire il ragionamento dell’altro. Era molto stanco, e quell’improvvisa complicazione l’aveva svuotato d’ogni energia. Da due giorni non aveva un attimo di respiro.

«Spiegazioni possono essercene mille» sospirò. «La polvere sembra uniforme, ma forse non è uniforme il suo grado di conduttività. E inoltre dev’essere più profonda in alcuni punti che in altri, il che probabilmente altera il flusso del calore.»

Lawrence continuava a fissare lo schermo, cercando di stabilire un nesso tra l’immagine e il paesaggio che lo circondava.

«Un momento» disse. «Forse ci siamo.» Parlò al pilota. «Quanto è profonda la polvere qua intorno?»

«Non sì sa con esattezza, ma comunque pochi centimetri, perché siamo vicini alla costa settentrionale. A volte le eliche si rompono contro la Ì scogliera.»

«Pochi centimetri? Ma allora dev’essere questa la ragione! Se a ‘‘ due dita sotto di noi c’è la roccia, è evidente ‘che le onde di calore possono fare le cose più strane. Scommetto quello che volete che appena saremo di nuovo al largo, la vostra immagine tornerà uniforme.»

«Forse avete ragione» disse Tom rincuorato. «Certo, se il Selene è affondato, dev’essere affondato in un’area dove la polvere era piuttosto profonda.»

«Naturale. Bene, partiamo subito. Direi di fare una puntata verso il canyon; secondo me quella gola continua anche in profondità, e in quel punto la polvere è certamente più fonda che dove siamo ora.»

Le slitte procedevano lentamente, per dar tempo a Lawson di analizzare l’immagine. Dopo circa due chilometri, Tom dovette ammettere che Lawrence aveva perfettamente ragione.

Il labirinto di macchie chiare e scure stava fondendosi in una uniformità quasi costante; quel grigiore stava a indicare che la polvere sotto di loro diventava sempre più profonda.

Tom avrebbe dovuto sentire un senso di conforto all’idea che la sua ingegnosa apparecchiatura era veramente efficace, ma il risultato fu tutto l’opposto. L’astronomo riusciva a pensare solo agli insondati abissi sui quali stava galleggiando, affidato al più instabile e al più traditore degli elementi. Sotto la slitta passavano forse in quello stesso istante voragini profonde fino al centro della Luna; da un momento all’altro potevano spalancarsi e inghiottirlo come avevano inghiottito il Selene.

Si sentiva come un funambulo che cammina su una corda sospesa nel vuoto, o come un individuo costretto a percorrere uno strettissimo sentiero tra le sabbie mobili. Tom non aveva mai saputo in vita sua che cosa fosse la fiducia, in se stessi o negli altri e aveva trovato sicurezza e stabilità solo per il tramite delle sue notevoli capacità tecniche, mai attraverso il contatto umano e personale. Ora la precarietà della sua situazione attuale ridestava tutti i suoi segreti timori, gli dava un bisogno disperato di aggrapparsi a qualcosa di solido.

Laggiù c’erano le montagne a soli tre chilometri di distanza, imponenti, eterne, saldamente ancorate al suolo. Con tutto il cuore, Tom si augurò che Lawrence desse ordine di lasciare quell’oceano infido e incorporeo per dirigersi verso la salvezza della terraferma. «Verso le montagne!» bisbigliava tra sé, senza accorgersene. «Verso quelle montagne!»

Non c’è segretezza in una tuta spaziale, specie quando il contatto radio è aperto. A cinquanta metri da lui, Lawrence senti quel bisbiglio e subito capì cosa significava.

Non si diventa ingegnere capo di mezzo mondo senza conoscere altrettanto bene gli uomini che le macchine. «Ho corso un rischio calcolato» pensò Lawrence, «e forse ho sbagliato. Ma non mi arrenderò senza lottare; forse posso ancora disinnescare questa bomba psicologica prima che scoppi.»

Tom Lawson non si accorse nemmeno che l’altra slitta accostava alla sua; era ormai completamente smarrito, in preda al proprio incubo. Ma all’improvviso si rese conto che qualcosa lo scuoteva con violenza, tanto da fargli battere la fronte contro l’orlo inferiore del casco. Per un attimo rimase accecato da lacrime di dolore. Poi si trovò a fissare con ira, ma anche con infinito sollievo, lo sguardo deciso e autoritario dell’ingegnere capo, e ad ascoltarne la voce che gli veniva rimandata dagli altoparlanti interni.

«Basta con queste sciocchezze» disse l’ingegnere capo. «E guai a voi se vi fate venire il mal di mare. Ogni volta che succede un incidente del genere ci costa cinquecento dollari per rimettere la tuta in ordine… e dopo non è più la stessa.»

«Ma non ho il mal di mare…» riuscì a mormorare Lawson. Poi si accorse che, in verità, le cose stavano molto peggio, e fu grato a Lawrence del tatto dimostrato.

Prima che potesse aggiungere altro, Lawrence riprese a parlare, sempre in tono fermo, ma più cordiale. «Tom, nessun altro può sentirci, stiamo comunicando sul circuito delle tute. Perciò statemi a sentire e non offendetevi per quello che dirò. So molte cose sul conto vostro, e so che la vita non è stata troppo generosa con voi. Ma avete un cervello, anzi un cervello di prim’ordine, e quindi non sprecatelo comportandovi come un bambino spaventato. Lo so, tutti siamo bambini spaventati in certi momenti, ma questo non è il momento adatto. Ventidue vite umane dipendono da voi. Tra cinque minuti, sapremo se possiamo salvarle o no, quindi tenete gli occhi su quello schermo e dimenticate tutto il resto. Vi porterò fuori di qua sano e salvo, su questo potete contarci.»

Lawrence dette un colpetto sulla tuta di Tom, affettuoso, stavolta, senza staccare gli occhi dalla faccia stravolta del giovane scienziato. Poi, con suo grande sollievo, vide che Lawson accennava a calmarsi.

Era una strana scena: le due slitte galleggiavano fianco a fianco sulle levigata distesa tra le Montagne Inaccessibili e il sole nascente. Sembravano velieri fermi su un mare troppo calmo, con i piloti immobili al loro posto, indifferenti, o ignari. Nessuno avrebbe potuto immaginare che in quella bonaccia, in quel grande silenzio, il destino di ventidue esseri umani era stato appeso al filo di uno scontro di due volontà, di due personalità, né, dal canto loro, Lawrence e Lawson avrebbero mai più parlato di quella crisi. Anzi, si stavano già occupando di tutt’altro: nello stesso istante, si erano accorti entrambi di una situazione quanto mai comica.

Lo schermo, infatti, mentre loro due dibattevano le loro questioni personali, aveva continuato a inquadrare pazientemente l’immagine tanto cercata.


Quando Pat e Sue, terminato l’inventario, uscirono dalla cucina stagna, i passeggeri erano ancora immersi in piena Restaurazione inglese. La breve conferenza di fisica di Sir Isaac Newton era stata seguita «secondo il previsto» da una lezione molto più lunga di Nell Gwynn sull’anatomia umana. Gli ascoltatori si divertivano un mondo, grazie anche all’accento purissimo ed enfatico del signor Barrett. Il signor Barrett era arrivato a un punto culminante.

««Avete dedicato la vostra vita alle cose della mente», disse arrossendo Nell Gwynn. «Ma avete dimenticato, Sir Isaac, che anche il corpo ha le sue leggi». «Chiamami «Ike»», disse con voce roca il sapiente, mentre con dita maldestre cercava di slacciarle il vestito. «Non qui… nel palazzo!» protestò Nell, senza far nulla per tenerlo a bada. «Tra poco tornerà il Re…»»

«Se mai usciremo vivi di qui» pensò Pat «dobbiamo mandare una lettera di ringraziamento alla scrittrice diciassettenne che si dice abbia escogitato tutte queste idiozie. È riuscita a farci divertire, e al momento è quello che conta.»

Si sbagliava; c’era chi non si divertiva affatto. Pat si accorse, con un certo disagio, che la signorina Morley stava cercando di incontrare il suo sguardo. Ricordandosi dei suoi doveri di comandante, la guardò e le rivolse un sorriso rassicurante ma un po’ forzato.

Lei non lo ricambiò; ai contrario, la sua espressione divenne ancora più severa. Lentamente, malignamente, spostò lo sguardo da lui a Sue Wilkins, poi tornò a fissare lui. Poi disse, con voce scandita e furente. «So benissimo cosa stavate facendo, voi due, chiusi nella cucina.»

Pat si senti salire le fiamme al viso per l’indignazione, tanto più che sapeva d’essere accusato ingiustamente. Per un attinto rimase inchiodato sul sedile, poi mormorò quasi tra sé: «Brutta strega, ti faccio vedere io!»

Si alzò in piedi, rivolse alla signorina Morley un sorriso carico di veleno, poi disse, a voce abbastanza forte perché la donna lo sentisse: «Signorina Wilkins! Mi pare che abbiamo dimenticato qualcosa. Volete, tornare in cucina con me, per favore?»

Come il portello si richiuse alle loro spalle, interrompendo la narrazione di un episodio che gettava forti dubbi sulla paternità del Duca di St. Alban, Sue Wilkins guardò Pat con aria sorpresa e perplessa.

«Hai sentito?» fece lui.

«Sentito cosa?»

«La Morley…»

«Ah» lo interruppe Susan. «Ma lasciala dire, povera diavola. Non ti ha mai staccato gli occhi di dosso da quando siamo partiti. Lo so io cos’ha.»

«Cos’ha?»

«È afflitta dal complesso della zitella. È un male abbastanza comune, e i sintomi sono sempre gli stessi. C’è un modo solo di curarlo.»

Le vie dell’amore sono strane e tortuose. Solo dieci minuti prima, Pat e Sue erano usciti insieme dalla cucinetta con l’intesa di restare buoni amici e basta. Ma adesso l’improbabile combinazione della signorina Morley e di Nell Gwynn, il pensiero dell’ingiustizia patita, ma soprattutto, forse, la certezza istintiva, fisiologica, che l’amore è in definitiva l’unica difesa contro la morte, si erano uniti per sopraffarli. Per un attimo rimasero immobili nel piccolo spazio del compartimento stagno; poi, senza sapere chi dei due si fosse mosso per primo, si trovarono l’uno nelle braccia dell’altra.

Sue ebbe tempo di mormorare solo una frase prima che Pat la baciasse.

«Non qui» bisbigliò. «Nel palazzo!»


Lawrence fissava lo schermo e cercava di decifrare il significato dell’immagine. A duecento metri di distanza, secondo il rivelatore a infrarossi, la superficie polverosa e deserta mostrava una zona lievemente più calda. La zona era di forma pressoché circolare, e assolutamente isolata; non c’era nessun’altra fonte di calore in tutta l’area circostante. Sebbene fosse più piccola rispetto alla macchia che Lawson aveva fotografato dal Lagrange, la posizione corrispondeva. Non c’era dubbio, quindi, che si trattasse della stessa.

Ma non era per nulla dimostrato che avesse origine dal Selene. Potevano esserci tante spiegazioni diverse; forse la chiazza indicava la presenza di un picco isolato che saliva dalle profondità fino a sfiorare la superficie del mare. C’era un solo modo di scoprirlo.

«Restate qui» disse Lawrence. «Io vado avanti con la Slitta Uno. Avvertitemi quando saremo al centro esatto della chiazza.»

«Pensate che sia pericoloso?»

«Veramente non credo, ma è inutile correre dei rischi in quattro.»

Lentamente la slitta dell’ingegnere si portò verso l’enigmatica zona luminosa… così appariscente sullo schermo del rivelatore, eppure completamente invisibile a occhio nudo.

«Un po’ a sinistra» ordinò Tom. «Ancora qualche metro… quasi ci siete… Là!»

Lawrence fissò la polvere grigia sulla quale la slitta galleggiava. A prima vista gli sembrò uniforme e neutra come ogni altra zona del mare; poi, guardandola meglio, vide qualcosa che gli fece venire la pelle d’oca. A un esame attento, la polvere mostrava un finissimo disegno color saleepepe. E quel disegno si muoveva; la superficie del Mare della Polvere avanzava lentissimamente verso di lui, come spinta da un vento invisibile.

A Lawrence quel fatto non piacque. Sulla Luna, s’imparava a diffidare di tutto ciò che si presentava misterioso e anormale; in genere voleva dire che qualcosa non andava… oppure che c’erano guai in vista.

«Meglio tenersi alla larga» avvertì. «Qui c’è qualcosa di strano, che non capisco.» Descrisse il fenomeno a Lawson che ci pensò su e rispose quasi subito: «Dite che sembra una fontana nella polvere? Ma lo è. Sappiamo già che lì sotto c’è una fonte di calore… si vede che è abbastanza forte da provocare una corrente di convezione.»

«Cosa può essere? Il Selene? Non credo.»

«Un momento… Un veicolo con ventidue passeggeri e parecchi macchinari… Be’, dovrebbe produrre una discreta quantità di calore. Tre o quattro kilowatts, come minimo. Se la polvere sta in equilibrio, potrebbero essere sufficienti a provocare una fontana.»

A Lawrence l’idea sembrava infondata, ma ormai era disposto ad aggrapparsi anche al filo più tenue. Prese la sottile sonda telescopica di metallo e la conficcò nella polvere. Dapprima lo strumento penetrò senza incontrare resistenza, ma via via che si allungava, l’operazione divenne sempre più ardua. Prima che la sonda fosse spiegata fino alla lunghezza massima di venti metri, si trovarono a doverla spingere con tutte le forze.

Infine l’estremità superiore sparì sotto la polvere; Lawrence non aveva incontrato nulla… ma non si aspettava certo di riuscire al primo tentativo. Avrebbe dovuto ripetere l’operazione scientificamente, seguendo uno schema ordinato.

A bordo della slitta percorsero la zona avanti e indietro, tracciando una rete di linee incrociate con strisce parallele di nastro bianco distanti cinque metri l’una dall’altra. Poi, come un antico piantatore di patate, Lawrence cominciò ad avanzare lungo la prima striscia, saggiando la polvere con la sonda. Era un lavoro lento, perché andava fatto scrupolosamente. Lawrence si sentiva come un cieco che scandagli le tenebre con una bacchetta sottile e flessibile. Se ciò che cercava si trovava oltre la portata della sua bacchetta, avrebbe dovuto studiare un altro sistema. Ma per adesso era inutile pensarci.

I sondaggi continuavano da una decina di minuti, quando avvenne un incidente. La resistenza della polvere costringeva Lawrence a far forza con le mani, specie quando la sonda giungeva al limite della sua estensione. Stava spingendo con ogni energia e si era sporto oltre il bordo della slitta: tutt’a un tratto perse l’equilibrio e finì lungo disteso nella polvere.


Appena uscì dal compartimento stagno, Pat si accorse che l’atmosfera era cambiata. La lettura di L’arancia e la mela era finita da qualche minuto, ed era in corso una discussione molto accesa. Le voci tacquero al suo apparire, e nel silenzio carico d’imbarazzo che seguì Pat fece correre lo sguardo lungo la cabina. Qualcuno dei passeggeri lo stava scrutando con la coda dell’occhio, altri fingevano di non badare a lui.

«Allora, commodoro» domandò Pat. «Che cosa succede?»

«Qualcuno afferma» spiegò il commodoro «che qui non si faccia tutto il possibile per uscire da questa situazione. Ho detto che non possiamo fare altro e che dobbiamo aspettare che ci trovino… ma non tutti sono d’accordo.»

Prima o poi doveva succedere, pensò Pat. Il tempo passava, non accadeva nulla e i nervi cominciavano a cedere. Nasceva la smania di agire, di fare qualcosa, qualunque cosa… La nostra natura non ci consente di restare a braccia conserte di fronte alla morte imminente.

«Abbiamo già detto e ridetto queste cose» replicò in tono stanco. «Siamo a dieci metri almeno di profondità, e anche se aprissimo il portello stagno nessuno potrebbe arrivare alla superficie vincendo la resistenza della polvere.»

«Ne siete proprio sicuro?» domandò qualcuno.

«Sicurissimo. Avete mai provato a nuotare attraverso la polvere? Non si fa molta strada.»

«E se tentassimo con i motori?»

«Non ci muoveremmo di un centimetro. E in ogni caso ci sposteremmo in avanti, non all’insù.»

«Potremmo radunarci tutti sul fondo; il peso a poppa farebbe sollevare la prua.»

«È la pressione contro lo scafo che mi preoccupa» spiegò Pat. «Ammettiamo che facessi girare al massimo i motori: sarebbe come picchiare contro una muraglia di mattoni. Lo sa il Cielo il danno che potrebbe derivarne allo scafo.»

«Ma può anche darsi che funzioni. Non vi pare che valga la pena di correre il rischio?»

Pat guardò il commodoro, un po’ seccato perché l’altro non si decideva a venirgli in aiuto. Hansteen lo fissò bene in faccia, come per dire: «Me la sono cavata fin qua… ora tocca a te». Be’, era giusto… specie alla luce di quello che gli aveva detto Sue. Era tempo di prendere posizione, o di dimostrare che era in grado di farlo.

«È un rischio troppo grande» dichiarò in tono perentorio. «Qui stiamo perfettamente al sicuro per almeno altri quattro giorni, e molto prima di quel termine ci avranno trovati. Quindi non c’è motivo di tentare un’operazione che ha una probabilità su un milione di riuscire. Se fosse la nostra ultima risorsa direi di sì… ma non lo è.»

Si guardò attorno, sfidando chiunque a contraddirlo: non poteva fare a meno di incontrare lo sguardo della signorina Morley, né tentò di evitarlo. Tuttavia, con sua grande sorpresa e imbarazzo, la sentì dichiarare: «Forse il capitano non ha troppa fretta di andarsene. Ho notato che ultimamente non l’abbiamo visto molto… e nemmeno la signorina Wilkins.»

«Brutta strega della malora» pensò Pat. «Solo perché non c’è mai stato un cane che…»

«Calma, Harris!» disse il commodoro, appena in tempo. «Questa me la sbrigo io.»

Era la prima volta che Hansteen faceva valere tutta la sua autorità; finora aveva sempre condotto le cose con calma e bonarietà, o si era tenuto nell’ombra lasciando che Pat desse lui le disposizioni. Ma ora la sua voce era quella del comando e squillò come una tromba su un campo di battaglia. Non era più un astronauta a riposo che parlava; era il commodoro dello Spazio.

«Signorina Morley» tuonò «questa osservazione è molto sciocca e assolutamente gratuita. Soltanto il fatto che ci troviamo tutti in preda a una grande tensione può almeno in parte giustificarla. Ritengo che dobbiate fare le vostre scuse al capitano…»

«Quello che ho detto è la pura verità» replicò ostinata la donna. «Che provi a negarlo, se osa.»

In trent’anni di servizio, il commodoro Hansteen non aveva mai perso il controllo di sé e non aveva nessuna intenzione di perderlo adesso. Ma sapeva come fingere d’averlo perso, e in questo caso la simulazione non gli sarebbe costata una gran fatica. Non solo era irritato con la Morley, ma anche con Pat. Certo, l’accusa della Morley poteva essere completamente infondata, ma non si poteva negare che Pat e Sue fossero rimasti per un bel pezzo chiusi in quel maledetto compartimento. Ci sono occasioni in cui sembrare innocenti è più importante che esserlo davvero; Hansteen ricordò un antico proverbio cinese: «Non chinarti ad allacciarti le scarpe nel campo di meloni del tuo vicino».

«Non me ne importa un corno» disse in tono sferzante «dei rapporti, ammesso che ce ne siano, tra la signorina Wilkins e il capitano… ammettiamolo pure! Sono affari loro, e finché continuano a fare il loro dovere noi non abbiamo nessun diritto di immischiarcene. Volete forse insinuare che il capitano Harris non fa il suo dovere?»

«Be’… non ho detto questo.»

«E allora non dite niente, che sarà meglio. Nella nostra situazione, non abbiamo davvero bisogno di crearci ulteriori problemi.»

Gli altri passeggeri avevano ascoltato con un misto di imbarazzo e di divertimento, come capita spesso a chi è semplice spettatore di un litigio. Eppure, in realtà, quello scontro riguardava tutti i passeggeri del Selene, perché era la prima sfida contro l’autorità costituita, il primo segno che la disciplina scricchiolava. Fino a quel momento, il gruppo era stato compatto e concorde; ma ora si era levata una voce contro gli Anziani della Tribù.

La signorina Morley era forse una zitellona nevrastenica, ma era anche una donna decisa e battagliera. Il commodoro capì, con comprensibile allarme, che l’altra si preparava a rispondergli.

Nessuno seppe mai che cosa la Morley avesse intenzione di ribattere; in quel preciso istante, la signora Schuster mandò un grido perfettamente proporzionato alle sue generose dimensioni.


Quando un uomo cade sulla Luna, di solito ha il tempo di aiutarsi in qualche modo, perché ha i nervi e i muscoli fatti per lottare contro una gravità sei volte maggiore. Ma quando l’ingegnere capo Lawrence precipitò dalla slitta, la distanza era così breve che il poveretto non ebbe tempo di reagire. Un attimo dopo toccava la polvere… e sprofondava nell’oscurità.

Non si vedeva nulla; salvo il lieve chiarore dei quadranti luminosi sistemati all’interno della tuta. Con estrema cautela, cominciò a brancolare nella sostanza semifluida e semiresistente in cui era piombato, cercando un appiglio al quale aggrapparsi. Non c’era nulla; Lawrence non sapeva più da che parte fosse la superficie.

Quasi subito la disperazione si impadronì di lui, annebbiandogli la mente e svuotandolo di tutte le sue forze. Il cuore gli martellava a colpi disordinati, annunciando il panico totale e la perdita di ogni capacità di ragionare. Aveva visto altri uomini trasformarsi in animali capaci solo di dibattersi urlando e sapeva che stava per diventare come loro. Riusciva ancora a ricordare che solo pochi minuti prima aveva salvato Lawson da una sorte analoga, ma non era certo in grado di apprezzare l’ironia della cosa. Doveva concentrare le poche forze che gli restavano per riprendere il dominio di sé e calmare i battiti frenetici del suo cuore. Poi, alto e chiaro, dagli altoparlanti del suo casco venne un suono così inaspettato che l’ondata di panico si smorzò di colpo. Era Tom Lawson che rideva a crepapelle.

La risata fu breve e seguita immediatamente da qualche parola di scusa. «Perdonate, ingegnere… non ho saputo trattenermi. Siete così buffo! Non fate altro che agitare le gambe in aria.»

In Lawrence la collera sostituì di colpo il panico. Ce l’aveva con Lawson, ma soprattutto ce l’aveva con se stesso.

Chissà perché si era agitato tanto: non correva proprio nessun pericolo. Dentro la tuta gonfia d’aria, era come un pallone galleggiante sull’acqua. Impossibile che affondasse. Ora che aveva capito com’era andata, era in grado di cavarsela da sé. Scalciò con decisione, remigò con le mani, roteò attorno al proprio centro di gravità, e subito il suo campo visivo tornò sgombro, mentre la polvere pioveva via dal casco. Era sprofondato di dieci centimetri al massimo, e la slitta era sempre lì a portata di mano.

Chiamando a raccolta tutta la sua dignità, Lawrence si aggrappò all’imbarcazione e si issò a bordo. Non si fidava di parlare, perché ansava ancora dopo tutti quegli sforzi inutili, e la voce poteva tradire lo spavento preso.

Tornato al suo posto, ricominciò a usare la sonda, e intanto la collera e i residui di terrore lasciavano lentamente il posto a una serie di riflessioni. Lawrence si rendeva conto che. gli piacesse o no, gli eventi dell’ultima mezz’ora l’avevano legato a Tom Lawson con vincoli d’amicizia. D’accordo, l’astronomo aveva riso vedendolo brancolare nella polvere, ma certo lui doveva aver offerto uno spettacolo buffo. E Lawson gli aveva fatto le sue scuse per quell’accesso di ilarità. Soltanto qualche ora prima, risata e scuse sarebbero state addirittura inconcepibili.

Poi Lawrence si dimenticò di tutto e di tutti. La sonda aveva urtato contro un ostacolo, a quindici metri di profondità.


Quando la signora Schuster gridò, la prima reazione del commodoro Hansteen fu: «Misericordia, ha un attacco isterico!». Mezzo secondo dopo, doveva fare appello a tutte le sue forze per non unire le sue grida a quelle della donna.

Dall’esterno dello scafo, dove da tre giorni non c’era stato altro suono che il fruscio lievissimo della polvere, era finalmente arrivato un rumore. Era inconfondibile, come natura e come significato. Qualcosa di metallico aveva urtato contro lo scafo.

«Ci hanno trovati» disse «ma forse non lo sanno ancora. Se ci mettiamo al lavoro tutti insieme, forse avranno maggiori probabilità di individuarci. Pat… voi alla radio. Il resto di noi batterà contro lo scafo usando il vecchio alfabeto Morse. Tre colpi brevi, uno lungo, e uno breve: ti ti ti ta ti, che significa: «Ho capito»… Forza, tutti insieme!»

Il Selene cominciò a echeggiare di una serie confusa di punti e di linee, che lentamente si fusero in un solo ritmo ordinato.

«Alt!» ordinò il commodoro dopo un minuto. «Ascoltiamo tutti attentamente!»

Dopo il rumore, il silenzio fu assoluto, quasi ossessionante, Pat aveva chiuso le pompe dell’aria e i ventilatori, così che l’unico suono a bordo era il battito di ventidue cuori.

Il silenzio si prolungava. Possibile che quel rumore non fosse stato altro che una contrazione o un’espansione dello scafo stesso? O forse la squadra di soccorso, se pure era una squadra di soccorso, non si era accorta di averli trovati e aveva tirato avanti senza fermarsi?

Bruscamente, lo sfregamento metallico ricominciò. Hansteen calmò le esclamazioni di entusiasmo facendo cenni disperati.

«Ascoltatemi, per amore del Cielo» pregò. «Vediamo se possiamo capire di cosa si tratta.»

Il rumore metallico durò solo pochi secondi, e venne seguito di nuovo da un silenzio di agonia. Poi qualcuno osservò tranquillamente, più per rompere la tensione che per dire qualcosa di utile: «Sembrava un cavo trascinato lungo lo scafo. Forse stanno cercando di imbragarci.»

«Impossibile» spiegò Pat. «La resistenza sarebbe troppo grande, specie a questa profondità. È più probabile che si tratti di una sonda.»

«In ogni modo» concluse il commodoro «c’è una squadra di soccorso a pochi metri da noi. Proviamo a battere di nuovo. Tutti insieme, via…»

Ti ti ti ta ti… ti ti ti ta ti…

Dal sedile del pilota, Pat Harris ripeteva all’infinito, con disperata urgenza: «Qui Selene… ci sentite? Passo.» E poi ascoltava per quindici secondi prima di ritornare a trasmettere. Ma l’etere rimaneva muto, come sempre da quando il mare di polvere li aveva inghiottiti.


A bordo dell’Auriga, Maurice Spenser guardava ansiosamente l’orologio.

«Maledizione, le slitte dovrebbero essere sul posto già da un pezzo. Quanto tempo è passato dalla loro ultima comunicazione?»

«Venticinque minuti» rispose il radiotelegrafista. «Tra poco dovrebbe esserci di nuovo il segnale che trasmettono ogni mezz’ora.»

«Siete sicuro di essere sulla lunghezza d’onda giusta?»

«Sentite, voi badate al vostro mestiere, che io bado al mio» replicò indignato il radiotelegrafista.

«Scusate. Ho i nervi a fiori di pelle» rispose Spenser.

Si alzò dal sedile e cominciò a muoversi per la minuscola cabina di comando dell’Auriga. Dopo aver urtato in malo modo contro uno strumento di astronavigazione «non riusciva proprio ad abituarsi alla gravità lunare e disperava di riuscirci mai» ritrovò il controllo dei nervi.

Questa era la parte peggiore dell’impresa: l’attesa prima di sapere se il servizio si sarebbe potuto fare o no. Finora, si era già speso un patrimonio, ma…

«Eccoli, stanno trasmettendo» avvertì l’addetto alla radio. «Sono in anticipo di due minuti. Sta succedendo qualcosa.»


«Ho urtato contro qualcosa» comunicò Lawrence «ma non posso dire di che si tratta.»

«A che profondità?» domandarono a una voce Lawson e i due piloti.

«Circa quindici metri. Spostiamoci due metri più in là… Lawrence ritirò la sonda, poi la immerse di nuovo appena la slitta ebbe raggiunto la nuova posizione.»

«Ancora» riferì l’ingegnere capo. «E alla stessa profondità. Spostiamoci di altri due metri.»

Ora l’ostacolo era scomparso oppure era troppo profondo perché la sonda potesse raggiungerlo.

«Qui non c’è niente… Proviamo nella direzione opposta.»

Sarebbe stato un lavoro lento e faticoso individuare i contorni dell’oggetto che giaceva là sotto. Proprio con quei sistemi, due secoli prima gli uomini avevano cominciato a scandagliare gli oceani terrestri, calando un cavo con un peso sul letto del mare e poi issandolo di nuovo a bordo.

Peccato, pensava Lawrence, non avere un ecometro. Però c’era da dubitare che le onde radio acustiche potessero penetrare nella polvere per più di qualche metro.

Che stupido: come non ci aveva pensato subito! Ecco cos’era accaduto ai segnali radio del Selene! La polvere, dopo averla inghiottita, aveva soffocato e assorbito le trasmissioni. Ma da quella distanza, e se lui si trovava proprio sopra il battello…

Lawrence sintonizzò la ricevente sulla lunghezza d’onda DISASTRI LUNA… ed ecco il Selene, che urlava con tutta la forza della sua vocerobot. Il segnale era incredibilmente acuto… Poi si accorse che la sua sonda metallica toccava ancora lo scafo sommerso: era quella che offriva alle onde radio uno sbocco in superficie.

Rimase ad ascoltare la serie di impulsi per circa quindici secondi, prima di raccogliere il coraggio per la mossa seguente. Fin dall’inizio, Lawrence era stato molto scettico e anche ora temeva che la nuova ricerca sarebbe stata vana. Il segnale automatico? Ma quello non contava: avrebbe continuato a chiamare per settimane intere, come una voce d’oltretomba, anche dopo la morte di tutti gli occupanti del Selene.

Infine, con un gesto impetuoso, Lawrence spostò la ricevente sulla lunghezza d’onda del battello da polvere, e rimase quasi assordato dalla voce di Pat Harris che urlava: «Qui Selene… qui Selene… Mi sentite? Passo.»

«Qui Slitta Uno» rispose. «Parla l’ingegnere capo. Sono a quindici metri sopra di voi. State tutti bene? Passo.»

Ci volle tempo prima di poter capire qualcosa, tanto era assordante lo strepito all’interno dello scafo. Quelle grida e quelle esclamazioni di giubilo erano sufficienti per garantire a Lawrence che tutti i passeggeri stavano bene ed erano di ottimo umore. Ascoltandole, si poteva quasi pensare che stessero facendo festa. Nella loro gioia di essere stati ritrovati, di essere tornati in contatto col resto della razza umana, credevano forse che tutti i loro guai fossero finiti.

«Slitta Uno chiama Controllo Traffico di Porto Roris» disse Lawrence, mentre aspettava che il tumulto si calmasse. «Abbiamo ritrovato il Selene e ristabilito il contatto radio. A giudicare dal baccano che fanno all’interno, si direbbe che tutti stiano magnificamente. Il battello è a, quindici metri di profondità, nel punto indicato dal dottor Lawson. Vi richiamerò tra qualche minuto. Chiudo.»

Alla velocità della luce, la felicità e il sollievo si sarebbero ora sparsi per tutta la Luna, sulla Terra, sugli altri pianeti, ridando la speranza e dissipando l’incubo di miliardi di persone. Per le vie e per le strade mobili, negli autobus e sulle navi spaziali, gente che non si conosceva affatto avrebbe scambiato sorrisi dicendo: «Avete sentito? Hanno ritrovato il Selene I.»

Nel Sistema Solare c’era però un uomo che non poteva partecipare a tutta quella gioia. Sedeva sulla sua slitta, ascoltando le grida che giungevano dalle profondità del Mare della Sete e osservando il movimento lievissimo nella polvere. In quel momento l’ingegnere capo Lawrence si sentiva molto più spaventato e impotente delle ventidue persone intrappolate nello scafo sepolto. Sapeva di dover affrontare la più tremenda battaglia della sua vita.


Per la prima volta in ventiquattro ore, Maurice Spenser si prendeva un po’ di riposo. Uomini ed equipaggiamento erano già in viaggio verso Porto Roris. (Per fortuna, Jules Braques era a Clavius City: era uno dei migliori operatori televisivi in circolazione, e aveva lavorato spesso con Spenser.) Il capitano Anson faceva calcoli e studiava pensoso i contorni delle montagne sulla carta. L’equipaggio era già stato avvertito di tenersi pronto a un nuovo cambiamento di programma. Sulla Terra, almeno una dozzina di contratti erano già stati firmati e spediti, e ingenti somme di danaro erano già passate da una mano all’altra. Gli stregoni finanziari della «Interplanet News» stavano già calcolando, con scientifica precisione, quanto dovevano far pagare alle altre agenzie per quel prezioso materiale giornalistico, senza spingersi al punto di indurle a noleggiare loro stesse un’astronave per recarsi sul posto. Del resto, diverse agenzie non ne avrebbero avuto la convenienza perché Spenser aveva un vantaggio troppo grande su tutti gli altri: nessun giornale concorrente poteva raggiungere le Montagne Inaccessibili in meno di quarantotto ore. Spenser poteva raggiungerle in sei ore precise.

Dalla piccola sala di osservazione dell’Ufficio d’Imbarco, il giornalista fissava l’orizzonte e consultava di tanto in tanto l’orologio. Qualche minuto dopo, un raggio di sole riflesso attirò la sua attenzione. Eccoli là, che spuntavano dall’orlo estremo della Luna. (Quello strano orizzonte: Spenser avrebbe giurato che fosse distante un centinaio di chilometri, e non solo due o tre ore.) Tra cinque minuti sarebbero arrivati all’imbarcadero, tra dieci sarebbero usciti dall’hangar pressurizzato. C’era tutto il tempo di mangiare ancora un panino.

Il dottor Lawson non mostrò affatto di riconoscere Spenser. Niente di strano, del resto, dato che la loro breve conversazione precedente era avvenuta nell’oscurità più assoluta.

«Dottor Lawson? Sono un inviato dell’«Interplanet News». Mi permettete di registrare l’intervista?»

«Un momento» interruppe Lawrence. «Conosco quello dell’«Interplanet». Voi non siete Joe Leonard…»

«Infatti, sono Maurice Spenser. Ho sostituito Joe la settimana scorsa. Joe deve riabituarsi alla gravità terrestre, altrimenti sarà condannato qui a vita.»

«Be’, siete stato molto svelto, perbacco. La notizia è stata trasmessa solo un’ora fa.»

Spenser si guardò bene dal dire che era lì da molto più di un’ora. «Vi chiedo scusa, ma vorrei il permesso di registrare l’intervista» ripeté.

Il giornalista era molto scrupoloso su quel punto; alcuni suoi colleghi si arrischiavano a registrare senza l’autorizzazione, ma c’era da rimetterci il posto, quindi non era consigliabile.

«Adesso no, se non vi dispiace» disse Lawrence. «Ho cento cose da organizzare, ma il dottor Lawson vi darà tutte le spiegazioni che vorrete. Ha fatto lui la maggior parte del lavoro, e tutto il merito del ritrovamento è suo. A questo riguardo potete citare le mie parole esatte.»

«Grazie… ingegnere» mormorò Tom, al colmo dell’imbarazzo. «È la verità. Bene, Tom, ci vediamo dopo. lo sarò nel mio ufficio, a divorare pillole per non crollare, ma voi potete andare a farvi una bella dormita.»

«Non prima di aver parlato con me» corresse Spenser e, agguantato Tom, lo sospinse in direzione dell’albergo. «So che siete molto stanco» attaccò subito il giornalista, appena ebbe trascinato l’astronomo nella sua stanza «ma vorrei farvi alcune domande. Non vi dispiace se registro la conversazione, vero?»

«No» rispose Tom, che ormai aveva oltrepassato lo stadio in cui si hanno ancora delle preferenze. Se ne stava abbandonato su una sedia, sorseggiando meccanicamente la bibita che Spenser gli aveva versato, ma senza gustarla.

«Qui è Maurice Spenser, dell’«Interplanet News», a colloquio col dottor Thomas Lawson. Bene, dottore, al momento sappiamo solo che voi e l’ingegnere capo di Lato Terra, signor Lawrence, avete trovato il Selene, e che i passeggeri sono salvi. Forse ci direte, senza addentrarvi in particolari troppo tecnici, in che modo voi e… oh, diavolo!»

Afferrò appena in tempo il bicchiere che cadeva lentamente al suolo, poi sdraiò sul divano l’astronomo addormentato. Be’, non poteva lamentarsi; quello era l’unico particolare che non fosse andato secondo i piani. Ma perfino quello poteva risolversi a suo vantaggio; infatti nessun altro avrebbe potuto trovare Lawson, e meno che mai intervistarlo, finché Lawson dormiva in quello che l’Hotel Roris (ottimo trattamento, impianto di pressurizzazione indipendente) definiva «l’appartamento di lusso».


A Clavius City, il capo della Commissione Turismo era finalmente riuscito a convincere tutti quanti che lui non aveva fatto favoritismi. Il suo sollievo nell’apprendere che il Selene era stato ritrovato aveva ricevuto una doccia fredda quando la «Reuter’s», la «TimeSpace», la «Triplanetary Publications» e la «Lunar News» avevano telefonato in rapida successione per domandargli come mai l’«Interplanet» era riuscita a impossessarsi subito della notizia. Grazie alla previdenza di Spenser che aveva ascoltato le trasmissioni radio delle slitte da polvere, la notizia infatti era arrivata all’Agenzia prima ancora di raggiungere l’amministrazione lunare.

Una volta messa in chiaro la cosa, i sospetti delle altre agenzie stampa si erano cambiati in schietta ammirazione per la fortuna e lo spirito d’iniziativa di Spenser.

Il Centro Comunicazioni di Clavius City aveva già vissuto momenti drammatici, ma mai di quella portata. «Sembra» pensava Davis «di ascoltare delle voci dall’oltretomba». Poche ore prima, quelle ventidue persone erano state date per morte, e adesso si affollavano al microfono del Selene per trasmettere messaggi a parenti e amici. Grazie alla sonda che Lawrence aveva lasciato come antenna radio e come punto di riferimento in mezzo al mare di polvere, il battello non era più tagliato fuori dal resto dell’umanità.

Finalmente, la tempesta dei messaggi terminò, e si senti la voce del capitano Harris. «Capitano Harris chiama Centrale. Passo.»

Davis prese il microfono. «Capitano Harris, sono Davis. Qui ci sono i rappresentanti di tutte le agenzie stampa. I giornalisti sono ansiosi di sentire qualche parola da voi. Prima di tutto, potete darmi una breve descrizione delle condizioni all’interno del Selene? Passo.»

«Be’, fa molto caldo, e abbiamo dovuto ridurre al minimo l’abbigliamento. Però dobbiamo benedirlo, questo calore, visto che vi ha permesso di trovarci. In ogni modo, ormai ci siamo abituati. L’aria è ancora respirabile, e abbiamo abbastanza cibo e acqua, anche se il menu è piuttosto monotono! Cos’altro volete sapere? Passo.»

«Domandategli come va il morale… come l’hanno presa i passeggeri… se danno segni di squilibrio…» suggerì il rappresentante della «Triplanetary Publications». Il capo della Commissione Turismo riferì le domande, formulandole con più tatto, ma ebbe subito l’impressione di aver causato un leggero imbarazzo dall’altra parte della linea.

«Si sono comportati tutti benissimo» disse Pat, forse un po’ precipitosamente. «Certo che ora ci domandiamo quanto tempo vi occorrerà per tirarci fuori. Potete darci qualche idea approssimativa in proposito? Passo.»

«L’ingegnere capo Lawrence è a Porto Roris e sta organizzando le operazioni di salvataggio» rispose Davis. «Appena ci comunicherà qualcosa, ve lo faremo sapere. Intanto, come trascorrete il tempo? Passo.»

Pat glielo spiegò, provocando un immediato aumento nella vendita di Il cavaliere della valle solitaria e decretando il successo di L’arancia e la mela. Diede anche un breve resoconto dei parodistici processi di bordo, ora sospesi sine die.

«Dev’essere stato un gioco interessante» disse Davis. «Ma ormai non avrete più bisogno di contare unicamente sulle vostre risorse. Possiamo trasmettervi tutto quello che desiderate: musica, commedie, dibattiti… Diteci solo cosa volete, ce ne occuperemo subito. Passo.»

Pat prese tempo prima di rispondere. Il collegamento radio aveva già trasformato la situazione a bordo del Selene, facendo rinascere la speranza e allacciando i contatti con le persone care. Eppure, in un certo senso, a Pat quasi spiaceva che quella reclusione fosse terminata. Quel caldo senso di solidarietà, che nemmeno la sfuriata della Morley aveva potuto infrangere, era già una sensazione che sbiadiva nel mondo dei ricordi. Ora non formavano più un gruppo compatto, unito dalla causa comune della sopravvivenza. Le loro vite tornavano a divergere lungo ventidue sentieri indipendenti.


L’ingegnere capo Lawrence era convinto che i comitati non concludessero mai niente, ma stavolta il caso era diverso. Il presidente era lui: non c’erano né segretarie né delegati né altro. E, soprattutto, poteva accogliere o respingere le proposte a suo piacere. Quel comitato si riuniva solo per fornire idee e competenza tecnica, era una specie di cooperativa di cervelli messa a sua disposizione.

Solo una dozzina di membri erano presenti fisicamente. Gli altri erano sparsi sulla Luna, sulla Terra e nello spazio. L’esperto di fisica del suolo, che stava sulla Terra, era in svantaggio, perché a causa della limitata velocità delle onde radio restava sempre indietro di un secondo e mezzo, quindi i suoi commenti arrivavano sulla Luna con tre secondi di ritardo. Era stato perciò pregato di prendere appunti durante la discussione e di comunicare il suo punto di vista solo alla fine, interrompendo soltanto quando lo credeva strettamente necessario.

«Il Selene» stava spiegando Lawrence ai colleghi vicini e lontani «si trova a tre chilometri di distanza dalla più vicina zona di terreno solido, ovvero dalle Montagne Inaccessibili. Sotto il battello potrebbero esserci centinaia di metri di polvere, ma non lo sappiamo con certezza. Né possiamo giurare che non si producano altri avvallamenti, anche se i geologi lo ritengono improbabile. L’unico mezzo per portarsi sul posto sono le slitte da polvere. Ne abbiamo due, e una terza sta arrivando dall’Altra Faccia. Le slitte possono rimorchiare o caricare fino a cinque tonnellate. Quindi non possiamo servirci di attrezzature pesanti. E, per finire, abbiamo solo novanta ore di tempo. Questa è la situazione. Qualcuno ha proposte da fare? Io ne avrei, ma preferisco sentire prima voi.»

Seguì un lungo silenzio mentre i componenti del comitato, scaglionati per circa quattrocentomila chilometri di spazio, si applicavano ognuno nel proprio campo alla soluzione del problema.

Poi l’ingegnere capo dell’Altra Faccia parlò da un punto nelle vicinanze di JoliotCurie.

«Ho l’impressione che in novanta ore non si possa combinare niente; bisognerà costruire un equipaggiamento speciale, e ci vuole tempo. Siccome non l’abbiamo, dovremo procurarcelo calando fino alla Selene un tubo per l’aria. Dov’è la connessione ombelicale?»

«Dietro, vicino al portello principale. Non vedo come si possa calare un tubo in quel punto e avvitarlo, pescando alla cieca nella polvere a quindici metri di profondità.»

«Ho un’idea migliore» intervenne un altro. «Far passare una tubazione attraverso il tetto del battello.»

«Ci vogliono due tubi» precisò un terzo. «Uno per immettere l’ossigeno, l’altro per aspirare l’aria viziata.»

«Un purificatore d’aria vero e proprio, in poche parole. Non ce ne sarebbe bisogno se potessimo liberare quei poveretti entro novanta ore.»

«È un rischio troppo grosso. Sistemato l’impianto di aerazione, invece, possiamo procedere senza l’assillo della fretta.»

«Sono di questo parere anch’io» concluse Lawrence. «Anzi, ho già messo parecchi uomini al lavoro per provvedere i pezzi necessari. L’altro problema è questo: cerchiamo di sollevare il Selene in superficie, o è meglio tirar fuori le persone una alla volta? Ricordate che a bordo c’è una sola tuta spaziale.»

«Non potremmo calare una specie di tunnel e collegarlo al portello stagno?»

«Presenta lo stesso problema del tubo di ventilazione. Più grave, anzi, dato che l’operazione per applicarlo si presenta ancora più difficile.»

«E se creassimo una specie di diga, abbastanza larga da circondare tutto lo scafo? Poi potremmo scavare via la polvere.»

«Già, ma accorrerebbero tonnellate di pali e di puntelli. E non dimenticate che la diga dovrebbe essere chiusa anche sul fondo, altrimenti la polvere tornerebbe a riempirla via via che venisse svuotata dall’alto.»

«È possibile pompare la polvere?» domandò qualcuno.

«Sì, ma non con pompe normali. Occorre un motore speciale, perché non è possibile aspirarla, bisogna sollevarla.»

«Questa maledetta polvere!» brontolò l’ingegnere assistente di Porto Roris. «Ha le proprietà peggiori dei liquidi e dei solidi e nessuno dei vantaggi. Non scorre quando vuoi che scorra, non sta ferma quando vorresti che ci stesse.»

«Vorrei fare una precisazione» disse Padre Ferraro, dal suo satellite. «La parola «polvere» non è esatta. In realtà si tratta di una sostanza che sulla Terra non esiste, quindi manchiamo del vocabolo per definirla. L’ultimo che ha parlato si è espresso bene; a volte va considerata come un liquido che non bagna, un po’ come il mercurio, ma più leggero. Altre volte è un solido fluido, come la resina, salvo che si muove con maggiore rapidità, s’intende.»

«In ogni modo, c’è un mezzo per renderla stabile?» domandò qualcuno.

«Credo che la domanda vada rivolta alla Terra» osservò Lawrence. «Dottor Evans, potete illuminarci in proposito?»

I tre secondi, come al solito, parvero durare un’eternità. Poi il fisico rispose, e la sua voce arrivò chiarissima: «Stavo appunto pensandoci. Si potrebbe ricorrere a dei collanti organici, sostanze che la rendano compatta e quindi maneggevole. Avete provato con l’acqua?»

«No, ma proveremo» rispose Lawrence, prendendo appunti. «Adesso pensiamo a come costruire una specie di piattaforma per gli uomini e il materiale, in modo da poterli lasciare sul posto. Chi ha idee sul materiale adatto?»

«Bidoni di combustibile vuoti?» propose qualcuno.

«Troppo ingombranti e fragili. Forse nel Magazzino Tecnico ci sarà qualcosa che…»

E così via. La Cooperativa Cervelli era in seduta.

Lawrence intendeva concedere un’altra mezz’ora ai colleghi, poi avrebbe cominciato a tracciare il suo piano d’azione.

Non si poteva perdere troppo tempo in discussioni, quando c’era in gioco la vita di ventidue persone. Però una decisione presa troppo in fretta e senza riflettere poteva fare più male che bene.

A prima vista, l’impresa si presentava chiara e ben definita.

A meno di cento chilometri da una base bene organizzata c’era il Selene. Se ne conosceva esattamente la posizione, e il battello si trovava a soli quindici metri di profondità. Ma quei quindici metri mettevano Lawrence di fronte ai problemi più spaventosi di tutta la sua carriera d’ingegnere.

Una carriera che poteva terminare molto bruscamente, perché sarebbe stato difficile spiegare le ragioni di un fallimento, se quelle ventidue persone fossero morte.


Per la seconda volta in ventiquattr’ore, Maurice Spenser era atterrato sulla Luna. Un primato che pochi potevano uguagliare.

Nella cabina di comando, situata a centocinquanta metri dalla base dell’astronave, c’erano gli unici oblò a visione diretta di tutta l’Auriga, e da lì la vista era superba. Verso nord, si stagliavano le cime più alte delle Montagne Inaccessibili. Nome poco appropriato, ormai, pensò Spenser: «lui» le aveva raggiunte, e finché l’astronave restava lì, si potevano compiere perfino delle ricerche scientifiche. Raccogliere campioni di roccia, ad esempio.

A sud si stendeva, per almeno quaranta chilometri, il Mare della Sete. Ma la cosa che interessava Spenser era a meno di cinque chilometri di distanza, e due chilometri al di sotto.

Con un potente binocolo, si poteva vedere la bacchetta di ferro lasciata da Lawrence come segno, unico collegamento del Selene col resto del mondo. Ottimo elemento per l’apertura, simboleggiava la solitudine dell’uomo nell’universo immenso e ostile che tentava di conquistare. Tra qualche ora, la vasta distesa avrebbe pullulato di attività, ma fino a quel momento la bacchetta sarebbe stata l’unico elemento della scena, mentre i commentatori discutevano il progetto di salvataggio e facevano le opportune interviste. Quanto a lui, non aveva problemi. Lui doveva solo starsene lì, in quel nido d’aquile, e preoccuparsi delle sequenze. Con gli obiettivi adatti, grazie alla assoluta purezza dell’atmosfera, avrebbe potuto scattare dei primi piani perfino da quella distanza, una volta che fossero cominciati i lavori.

Spenser guardò verso sudovest, dove il sole saliva lentamente nel cielo. Quasi due settimane di luce assicurata, calcolando il tempo secondo le proporzioni terrestri. Nessun bisogno di preoccuparsi dell’illuminazione. Il palcoscenico era già pronto.


Olsen, l’amministratore capo, raramente teneva discorsi ufficiali. Preferiva starsene dietro le quinte, ad amministrare la Luna in modo efficiente e discreto, lasciando l’incarico di cavarsela con la stampa ai tipi estroversi come Davis. Ecco perché i suoi discorsi facevano sempre una certa impressione.

Sebbene milioni di spettatori lo stessero guardando, le ventidue persone alle quali il discorso era dedicato non erano in grado di vederlo perché si era ritenuto superfluo collegare il Selene con i circuiti video. Ma anche la sola voce era rassicurante: Olsen stava dicendo proprio ciò che loro volevano sapere.

«… desidero comunicarvi che tutte le risorse della Luna sono state mobilitate per venirvi in aiuto. I lavori sono diretti dall’ingegnere capo Lawrence, nel quale ho la massima fiducia. Ora si trova a Porto Roris, dove si stanno radunando tutte le attrezzature necessarie. Il problema più urgente è quello di mantenere normale l’afflusso di ossigeno. Perciò abbiamo in progetto di calare dei tubi fino al Selene, un lavoro abbastanza svelto, che ci consentirà di pompare ossigeno, e anche cibo e acqua, se sarà necessario. Appena installati i tubi, non avrete più motivo di preoccuparvi. Dovrete solo aspettare tranquilli, e noi vi tireremo fuori. Ci vorranno un paio di giorni al massimo…»

Appena il discorso di Olsen terminò, a bordo del Selene la conversazione si fece animata. Il discorso aveva raggiunto lo scopo prefisso: i passeggeri stavano già considerando quell’episodio come una avventura che avrebbe fornito loro argomento di conversazione per tutto il resto della vita. Solo Pat Harris non sembrava soddisfatto.

«Avrei preferito che Olsen non si fosse mostrato così ottimista» osservò, rivolto ad Hansteen. «Sulla Luna certe affermazioni sono spesso una sfida al destino.»

«Vi capisco… ma lui doveva cercare di tenerci su di morale.»

«Il morale è alto, direi, soprattutto adesso che possiamo comunicare con i parenti e gli amici.»

«A proposito, Pat, c’è un passeggero che non ha ricevuto né trasmesso messaggi, e per di più sembra che la cosa non gli interessi affatto.»

«Chi è?»

Hansteen abbassò la voce. «Radley, il neozelandese. Non so il perché, ma mi preoccupa.»

«Forse non ha nessuno sulla Terra e non saprebbe con chi parlare.» Un uomo che ha abbastanza denaro per vivere sulla Luna non può essere senza amici «replicò Hansteen. Poi sorrise.» Non intendevo fare il cinico. Comunque vi consiglio solo di tenere d’occhio il signor Radley.

«Ne avete parlato con Sue… con la signorina Wilkins?»

«È stata lei a farmelo notare.»

«Dovevo immaginarlo» pensò, ammirato, Pat: «Non le sfugge mai niente». Ora che aveva ripreso a sperare di cavarsela, Pat pensava a Sue molto seriamente e pensava a ciò che lei gli aveva detto. In vita sua si era innamorato almeno cinque o sei volte, o così aveva creduto, ma stavolta era diverso. Conosceva Sue da oltre un anno e gli era sempre piaciuta. Adesso però si domandava anche quali fossero i veri sentimenti della ragazza. Forse quello che era accaduto dentro il portello stagno non aveva più nessuna importanza; era stato l’attimo di smarrimento di due persone che credevano di avere soltanto poche ore di vita.

Ma forse no, forse il vero Pat Harris e la vera Sue Wilkins erano finalmente usciti dal loro riserbo, spinti dalla tensione e dall’ansia di quegli ultimi giorni. Purtroppo, solo il tempo poteva dargli la risposta. Se anche esisteva una prova sicura, scientifica, per stabilire quando due persone erano innamorate, Pat non ne aveva mai sentito parlare.


La polvere che lambiva «ma era esatta la parola?» la banchina dalla quale il Selene si era staccata quattro giorni prima, era profonda soltanto un paio di metri, comunque sufficienti per la prova. Se le attrezzature messe insieme in gran fretta funzionavano lì, avrebbero funzionato anche in mare aperto.

La leggera impalcatura della piattaforma poggiava sopra una dozzina di grossi recipienti di metallo, sui quali si leggeva ancora la scritta: «Alcol Etilico. Si prega di restituire i vuoti allo Spaccio Generale n. 3 di Copernicus». Adesso però nei recipienti era stato fatto il vuoto ad altissimo grado, e ognuno poteva sostenere un peso di due tonnellate lunari senza affondare.

La piattaforma, costruita principalmente con lastre d’alluminio, come il novanta per cento delle strutture usate sulla Luna, stava prendendo forma rapidamente. Lawrence, che osservava i lavori della palazzina del porto, aveva già visto almeno sei bulloni cadere nella polvere, che li aveva inghiottiti immediatamente. Ecco… era sparita anche una chiave inglese. Sarebbe stato opportuno legare alla piattaforma tutti gli attrezzi, anche se ciò avrebbe reso scomodo il maneggiarli.

Quindici minuti esatti. Niente male, considerato che gli uomini lavoravano nel vuoto ed erano quindi impacciati dalle tute pressurizzate. La piattaforma poteva venire allungata da qualsiasi parte, ma per cominciare quella prima sezione sarebbe stata sufficiente. Poteva sostenere più di venti tonnellate di materiale, e ci voleva tempo prima di trasportare sul posto un peso così notevole.

Soddisfatto, Lawrence lasciò l’edificio mentre i suoi assistenti provvedevano a smontare di nuovo la piattaforma. Cinque minuti più tardi entrò nel deposito locale di attrezzature. Lì, invece, le cose non erano altrettanto soddisfacenti. Issato su un palo di cavalletti c’era un facsimile, grande due metri quadri, del tetto del Selene: una copia esatta di quello vero, ricavata nello stesso materiale. Mancava solo il rivestimento esterno di tessuto alluminato, che serviva di protezione contro il sole; ma quel foglio, leggero e inconsistente, non poteva infirmare i risultati delle prove.

L’esperimento era semplice fino all’assurdo, ed era affidato a tre soli mezzi: un punteruolo robusto, un martello, e un ingegnere avvilito che, nonostante ogni sforzo, non era ancora riuscito a far passare il punteruolo attraverso il tetto.

«Che cos’è che non va?» s’informò Lawrence.

«Il tetto è troppo elastico» spiegò l’ingegnere, asciugandosi la fronte. «Il punteruolo rimbalza senza penetrare.»

«Capisco. Ma quando useremo un vero tubo di quindici metri, col peso della polvere tutt’intorno, forse la spinta elastica verrà assorbita.»

«Può darsi… però guardate qua sotto.»

S’inginocchiarono sotto il modellino e ispezionarono la parte interna del tetto. Vi erano state tracciate delle linee col gesso per indicare la posizione dei fili elettrici, che bisognava assolutamente evitare.

«Il tetto è di fiberglass, una sostanza talmente dura da scheggiarsi quando si riesce a bucarla. Vedete, ci sono già le crepe. Ho paura che, se tentiamo di forarla con questo sistema spiccio, incrineremo il tetto.»

«È un rischio che non possiamo correre» convenne Lawrence. «Bene, si cambia idea. Bisognerà trapanare. Useremo un trapano, avvitato all’estremità del tubo, in modo che possa venire rimosso facilmente. Come andiamo col resto dell’impianto di tubi?»

«È quasi pronto. Tra due o tre ore sarà finito. Possiamo usare materiale comune, per fortuna.»

«Tra due ore sarò di ritorno» disse Lawrence. Non aggiunse, come avrebbero fatto altri: «Voglio trovarlo finito». Il suo personale stava già facendo miracoli, e sarebbe stato assurdo, e pericoloso, pretendere di più. Erano lavori accurati che richiedevano precisione, e la provvista di ossigeno del Selene aveva ancora un margine di tre giorni. Tra poche ore, se tutto andava bene, quel margine non avrebbe più avuto limiti.

Sfortunatamente, tutto andava malissimo.


Il commodoro Hansteen fu il primo ad accorgersi del pericolo lento e insidioso che li minacciava. L’aveva già corso una volta, quando su Ganimede si era trovato a indossare una tuta difettosa: un incidente del quale preferiva non parlare, ma che non aveva più dimenticato.

«Pat» disse sottovoce, per essere sicuro che nessun altro lo sentisse. «Non avete un po’ di difficoltà a respirare?»

Pat parve sorpreso, poi rispose: «Sì, ora che mi ci fate pensare, L’avevo attribuito al gran caldo.»

«Anch’io, sulle prime. Ma conosco questi sintomi… Rischiamo di avvelenarci con l’anidride carbonica.»

«Ma è assurdo! Abbiamo ossigeno sufficiente per altri tre giorni… A meno che non sia capitato qualcosa ai depuratori dell’aria.»

«Temo proprio che sia così. Che sistema usiamo per sbarazzarci dell’anidride carbonica?»

«Viene assorbita chimicamente. L’impianto non ci ha mai dato noie prima d’ora.»

«Già, ma non aveva mai funzionato in condizioni del genere. Temo che il calore abbia essiccato le sostanze reagenti. Non c’è modo d’assicurarsene?»

Pat scosse la testa. «No, il portello di accesso è nello scafo esterno.» Sue, mia cara «si lagnò una voce stanca, che non sembrava più quella della signora Schuster» avreste niente contro il mal di testa? «Anche per me, signorina» disse un altro passeggero.

Pat e il commodoro si guardarono preoccupati.

«Quanto tempo ci resta, secondo voi?» domandò Pat.

«Due o tre ore al massimo. E ce ne vorranno almeno sei prima che Lawrence e i suoi arrivino qui.»

Fu in quel momento che Pat comprese, senza possibilità di dubbio, di essere effettivamente innamorato di Susan. La sua prima reazione, infatti, non fu di timore per la propria vita, ma di rabbia e di dolore perché, dopo aver sopportato tanto, Sue sarebbe morta quando ormai la salvezza era vicina.


Quando Tom Lawson si svegliò in una stanza d’albergo che lui non ricordava affatto, ebbe dapprima qualche incertezza perforo sulla propria identità, e ancor meno riuscì a capire dove si trovava e perché. Il fatto di avvertire una certa gravità servi a fargli ricordare che non si trovava più su Lagrange. Però non pesava abbastanza per essere sulla Terra.

Dunque non era stato un sogno! Era proprio sulla Luna, ed era veramente uscito in barchetta su quell’infernale Mare della Sete.

E aveva contribuito al ritrovamento del Selene. Ventidue persone avevano ora la speranza di cavarsela, grazie alla sua abilità e al suo ingegno. Dopo tante delusioni e amarezze, i suoi sogni di gloria stavano per avverarsi. Il mondo avrebbe dovuto ricompensarlo di tanta indifferenza e cattiveria.

Tuttavia, quel mattino Tom si sentiva meno amaro verso la vita e meno cinico nei confronti dei suoi simili. Il successo e le lodi sono ottimi emollienti, e Tom stava per gustarli entrambi. Ma c’era di più: Tom aveva intravisto la possibilità di una soddisfazione anche più profonda. Là fuori, sul mare, quando i timori e le incertezze stavano per sopraffarlo, era venuto a contatto con un altro essere umano e aveva stabilito una relazione cordiale con un uomo del quale ammirava l’intelligenza e il coraggio.

Un legame ancora molto tenue che, come era accaduto altre volte in passato, poteva finire in niente. Ma il ghiaccio era rotto, anche se Tom avrebbe dovuto fare ancora molta strada prima di sentirsi veramente inserito nella società umana.

Aveva già fatto la doccia e si era vestito, quando notò il biglietto che Spenser gli aveva lasciato sul tavolino. «Fate come se foste a casa vostra» diceva. «Sono dovuto partire all’improvviso. Mike Graham continuerà l’intervista al mio posto. Chiamatelo al 3443 appena sarete sveglio.»

Certo non avrebbe potuto chiamarlo «prima» di essere sveglio, pensò Tom, la cui mente eccessivamente logica si compiaceva di notare certe espressioni inutili. Ma obbedì alla richiesta di Spenser, resistendo eroicamente all’impulso di ordinare prima la colazione.

Appena ebbe Graham in linea, scoprì di aver dormito durante le sei ore più drammatiche della storia di Porto Roris, venne a sapere che Spenser era ripartito con l’Auriga per il Mare della Sete e che la città pullulava di giornalisti, arrivati da tutta la Luna, che cercavano il dottor Lawson.

«Restate dove siete» disse Graham. «Vi raggiungo subito.»

«Ma io ho fame!» protestò Tom.

«Ordinate pure la colazione, e fatecela mettere in conto, naturalmente. Ma non lasciate la camera per nessun motivo.»

Con grande disappunto di Tom, Mike Graham arrivò prima della colazione.

Era un astronomo molto affermato quello che fissava la telecamera in miniatura di Mike e si sforzava di spiegare, a beneficio di almeno duecento milioni di spettatori, com’era avvenuto esattamente il ritrovamento del Selene.

Comunque Tom se la cavò benissimo. Qualche giorno prima, se qualcuno lo avesse trascinato dinanzi a una telecamera per fargli spiegare la tecnica della ricerca con i raggi infrarossi, si sarebbe lasciato ottenebrare dalle cognizioni scientifiche e avrebbe tenuto una noiosissima conferenza a base di dati tecnici.

Ora, invece, ignorando le proteste del suo stomaco, si sforzò di rispondere con precisione e pazienza alle domande di Mike Graham, usando un linguaggio alla portata di tutti. Per la vasta comunità astronomica, che Tom in varie occasioni aveva trattato dall’alto in basso, fu una vera rivelazione. Su Lagrange II, il professor Kotelnikov riassunse il parere di tutti i colleghi quando, al termine della trasmissione, fece su Tom Lawson un apprezzamento veramente lusinghiero. «Francamente» dichiarò il professore, in tono quasi incredulo «mi pareva quasi di non riconoscerlo. Non è più lui!»


Era stata un’impresa far entrare sette uomini nel compartimento stagno del Selene, ma come Pat aveva già dimostrato, quello era l’unico posto dove si poteva parlare in privato. Gli altri passeggeri si domandavano certamente che cosa stesse accadendo: tra poco lo avrebbero saputo.

Quando Hansteen ebbe finito, cinque passeggeri si guardarono con espressione preoccupata, ma non eccessivamente sorpresa; erano persone intelligenti, e da tempo avevano sospettato la verità.

«L’ho detto prima a voi» concluse il commodoro «perché il capitano e io vi riteniamo all’altezza della situazione e abbastanza decisi da venirci in aiuto, se ce ne sarà bisogno. Spero di no, ma potrebbero nascere guai quando avvertirò gli altri.»

«E se nascessero?» domandò Harris.

«Se qualcuno fa storie, saltargli addosso subito» rispose, sbrigativo, il commodoro. «Ma uscite di qua con aria disinvolta, come se tutto andasse bene. Il vostro compito è di soffocare il panico prima che dilaghi.»

«Vi sembra giusto» obiettò McKenzie «non lasciar trasmettere un ultimo messaggio?»

«Si perderebbe tempo. Più presto facciamo, tanto di guadagnato per tutti.»

«Pensate davvero che ci sia ancora speranza?» domandò Barrett.

«Sì» rispose il commodoro «ma non chiedetemi quanta. Nessun altro ha domande da fare? Bryan? Johanson? D’accordo. Usciamo, allora.»

Mentre tornavano nel salone principale e riprendevano i loro posti, gli altri li guardarono con curiosità e preoccupazione. Hansteen non li lasciò aspettare molto.

«Ho notizie molto gravi» disse. «Tutti avrete notato una certa difficoltà a respirare, e molti avvertono già male di testa. Dipende dall’aria. Ossigeno ne abbiamo a sufficienza, ma l’anidride carbonica che esaliamo si sta accumulando all’interno della cabina. Il perché non lo so, ma penso che si siano guastati gli assorbenti chimici. D’altra parte, non è la spiegazione che conta, tanto non possiamo far nulla ugualmente.» Dovette respirare a lungo prima di continuare. «Bisogna affrontare la situazione. Non voglio ingannarvi. Le squadre di salvataggio potranno raggiungerci solo tra sei ore, e noi non possiamo aspettare così a lungo.»

Nel silenzio che seguì, si udì il russare sostenuto della signora Schuster. In altri momenti avrebbe suscitato ilarità, ma ora no. La signora era tra i pochi fortunati: dormiva beatamente, all’oscuro del pericolo.

Il commodoro si riempì i polmoni; era faticoso parlare per molto tempo.

«Se non ci fosse stato modo di correre ai ripari, non vi avrei detto niente. Ma il modo c’è. Non sarà piacevole, ma l’alternativa è ancora peggio. Signorina Wilkins, per favore, datemi le fiale del sonnifero.»

In un silenzio tragico, la hostess porse al commodoro una scatoletta di metallo. Hansteen l’aprì e ne estrasse un cilindro bianco delle dimensioni di una sigaretta.

«Probabilmente sapete che tutti i veicoli spaziali hanno l’obbligo di tenere queste siringhe fra i medicinali di bordo. Si tratta di iniezioni assolutamente indolori che vi faranno restare privi di sensi per dieci ore. Da queste fiale può dipendere la vita o la morte di tutti, perché la respirazione di un uomo diminuisce del cinquanta per cento quando l’individuo è in stato d’incoscienza. Così, l’aria durerà il doppio e forse durerà quanto basta perché quelli di Porto Roris ci raggiungano. Naturalmente almeno una persona deve restare sveglia per mantenere il contatto con le squadre di soccorso. Per maggior sicurezza, ne lasceremo sveglie due. Una sarà il capitano, e credo che su questo nessuno farà obiezioni…»

«E, naturalmente, l’altro sarete voi, vero?» domandò una voce anche troppo conosciuta.

«Mi dispiace deludervi, signorina Morley» disse il commodoro, senza il minimo risentimento, anche perché era inutile, ormai, discutere su una questione già regolata in precedenza. «E tanto per togliervi il minimo dubbio…»

Prima che gli altri potessero rendersene conto, Hansteen si era iniettato il liquido nell’avambraccio.

«Spero di rivedervi tutti… tra dieci ore» disse, lentamente ma distintamente, avviandosi verso il sedile più vicino. L’aveva appena raggiunto, quando cadde nell’incoscienza completa.

«Adesso devi sbrigartela da solo» si disse Pat. Per un attimo ebbe la tentazione di rivolgere due parole pepate alla Morley; ma si rese conto che così facendo avrebbe sciupato la risposta dignitosa del commodoro.

«Sono il capitano di questo battello» dichiarò, con voce ferma e pacata. «D’ora in poi, tutti faranno quello che dirò io.»

«Io no» ribatté l’indomita signorina Morley. «Sono una passeggera che ha pagato il biglietto e ho i miei diritti. Non ho la minima intenzione di usare una di quelle fiale.»

Pat guardò i suoi aiutanti. Il più vicino alla signorina Morley era l’ingegnere giamaicano Robert Bryan. Sembrava pronto a scattare, ma Pat sperava ancora di poter evitare i mezzi drastici.

«Non discuto sul diritti, ma se volete controllare quei che c’è stampato sul vostro biglietto, scoprirete che in caso di emergenza mi viene devoluta la massima autorità. In ogni modo, il provvedimento viene preso per il vostro bene. Anch’io preferirei aspettare dormendo l’arrivo della squadra di soccorso, anziché sveglio.»

«Io sono dello stesso parere» dichiarò il professor Jayawardene. «Come il commodoro ha spiegato, l’aria. resterà più pura, quindi è l’unica speranza di salvezza che abbiamo. Signorina Wilkins, volete darmi una di quelle siringhe?»

La calma logica dei suo contegno servì ottimamente a placare il nervo sismo generale e anche la vista del professore che si addormentava placido nel giro di pochi secondi contribuì ad allentare la tensione. «Ne restano diciotto» pensò Pat.

«Non perdiamo tempo» disse a voce alta. «Come vedete, le iniezioni sono assolutamente indolori. C’è un’ipodermica a microgetto all’interno di quel piccolo cilindro. Non sentirete nemmeno una puntura di spillo.»

Sue stava già distribuendo i tubetti, e parecchi passeggeri li usarono immediatamente. Ora dormivano gli Schuster. L’avvocato, con tenera sollecitudine, aveva praticato, l’iniezione nel braccio della moglie già assopita. B dormiva anche l’enigmatico signor Radley. Ne restavano quindici. Chi sarebbe stato il prossimo?

Sue era accanto alla signorina Morley. «Stavolta basta» pensò Pat. «Se quella strega dice ancora una parola…»

«Credevo di avere spiegato una volta per tutte che non intendo usare quella roba, Portate via quel tubetto, per favore.»

Robert Bryan stava già per farsi avanti, ma furono l’accento oxfordiano e il tono ironico usato dal signor Barrett a risolvere la questione.

«Ciò che turba questa brava signorina, capitano» osservò Barrett «è il pensiero che possiate approfittare di lei durante il sonno.»

Per qualche istante, l’acida giornalista rimase senza parole per lo sdegno, mentre le sue guance diventavano cianotiche.

«Non ero mai stata insultata così in vita mia!» cominciò.

«Nemmeno «io», signorina» l’interruppe Pat, dandole il colpo di grazia. La donna guardò le facce che l’attorniavano: molte erano serie, ma altre avevano un’espressione divertita, perfino in un momento simile, e lei capì che le restava una sola via d’uscita.

Mentre la Morley si afflosciava sul sedile, Pat tirò un sospiro di sollievo. Ora le cose sarebbero andate molto meglio.


Erano due anni che Lawrence non metteva piede in un igloo, e da allora erano stati apportati molti miglioramenti. Un igloo era una specie di tenda pressurizzata, una vera casa spaziale.

Lawrence si chinò per passare attraverso il compartimento stagno, aspettò il segnale di pressione compensata, poi entrò nel grande locale emisferico.

Lawrence poteva vedere solo una parte dell’interno di quel mezzo pallone perché una delle novità era la suddivisione per mezzo di paratie mobili. In alto, sospese a sostegni elastici, c’erano le lampade e la griglia per il condizionamento dell’aria. Contro le pareti curve si vedevano delle scaffalature metalliche ribaltabili. Dall’altra parte della paratia più vicina arrivava una voce che leggeva un inventario. Un’altra voce rispondeva regolarmente: «Controllato».

Lawrence girò attorno alla parete e si trovò nella sezionedormitorio dell’igloo. Come gli scaffali, anche i letti erano ribaltabili. Due assistenti stavano effettuando gli ultimi controlli, dopo di che l’igloo sarebbe stato sgonfiato e spedito sul posto.

Lawrence aspettò che i due avessero finito, poi s’informò: «È questo il modello più grande che avete in magazzino?»

«È il più grande di quelli disponibili. Ne avremmo un altro per sei, ma c’è una lieve perdita nel telone esterno e bisognerebbe aggiustarla.»

«Quanto ci vuole?»

«Pochi minuti. Ma poi bisogna lasciar passare dodici ore per vedere se tiene. È il regolamento.»

Ci sono momenti in cui proprio colui che ha creato una regola si vede costretto a infrangerla.

«Non possiamo aspettare per la prova. Fate una riparazione rinforzata e controllate subito se perde ancora. Se la perdita eventuale rientra nei limiti di sicurezza, spedite immediatamente l’igloo sul posto. Vi autorizzo io.»

Il rischio era minimo, e poteva esserci bisogno di quella grande cupola al più presto possibile. In qualche modo, bisognava provvedere aria e riparo per i ventidue del Selene.

Dal comunicatore dietro l’orecchio sinistro di Lawrence arrivò un bipbip insistente. L’ingegnere premette il pulsante inserito nella cintura della sua tuta e stabili il contatto.

«Qui l’ingegnere capo.»

«Un messaggio urgente dal Selene, signore» annunciò una voce chiara. «Ci sono guai a bordo.»


Grazie al Cielo, tutti i passeggeri dormivano. Gli ultimi ribelli erano stati colti di sorpresa dai cinque aiutanti.

«E adesso non avete più bisogno di me» concluse Sue, con un sorriso coraggioso. «Arrivederci, Pat. Svegliami quando sarà il momento.»

«Certo» promise lui, sdraiandola gentilmente nello spazio tra due sedili. «O non ti sveglierò affatto» aggiunse, quando la vide con gli occhi chiusi.

Rimase chino sulla ragazza per alcuni secondi, prima di riuscire a dominare la propria emozione. Avrebbe voluto dirle tante cose, ma ormai l’occasione era sfumata, forse per sempre.

Si rialzò e guardò i cinque compagni ancora svegli. C’era ancora un problema da risolvere, e fu Barrett ad affrontarlo.

«E allora, capitano, non ci tenete in sospeso. Chi avete scelto per tenervi compagnia?»

Uno alla volta, Pat porse cinque tubetti.

«Grazie dell’aiuto che mi avete dato» disse. «Questo sistema vi sembrerà un po’ melodrammatico, ma è il più semplice: solo quattro di queste iniezioni faranno ‘effetto. Uno dei tubetti è vuoto.»

«Spero che non sia il mio» disse Barrett, praticandosi l’iniezione. Infatti si addormentò. Qualche secondo più tardi, Harding, Bryan e Johanson gli tenevano compagnia.

«Bene» commentò il dottor McKenzie. «A quanto pare è toccato a me. Sono lusingato della vostra scelta… o vi siete affidato alla sorte?»

«Prima di rispondere alla vostra domanda» replicò Pat «sarà meglio informare Porto Roris di quanto è successo.»

Andò fino alla radio e trasmise un breve resoconto della situazione. All’altra estremità ci fu qualche istante di silenzio; poi l’ingegnere capo Lawrence venne messo in contatto.

«Avete fatto benissimo» disse, quando Pat gli ebbe spiegato tutto con ricchezza di particolari. Anche nella migliore delle ipotesi, non potremo raggiungervi prima di cinque ore. Ce la farete a resistere?

«In due, sì» rispose Pat. «Possiamo usare a turno il respiratore della tuta spaziale. È dei passeggeri che mi preoccupo.»

«L’unica cosa da fare è controllare il loro respiro. Se vi sembrano in gravi difficoltà, date un po’ d’ossigeno. Dal canto nostro faremo tutto il possibile per arrivare presto. Avete altro da comunicare?»

Pat rifletté. «No» rispose poi. «Richiamerò ogni quarto d’ora. Chiudo.»

Si alzò, lentamente. La stanchezza e gli effetti dell’anidride carbonica cominciavano a farsi sentire. «Forza, dottore» disse a McKenzie «datemi una mano con quella tuta.»

«Oh, è vero. L’avevo completamente dimenticata!»

«E io temevo che gli altri passeggeri se ne ricordassero.»

Ci vollero cinque minuti esatti per staccare dalla tuta la provvista di ossigeno di 24 ore.

I due uomini ancora coscienti a bordo del Selene si guardarono al di sopra del grigio cilindro di metallo che conteneva un altro giorno di vita. Poi, contemporaneamente, esclamarono: «Prima voi!»

Avevano i polmoni indolenziti, ma risero ugualmente. Poi Pat rispose: «Non voglio discutere» e si portò la maschera al volto,

Un po’ di vento dopo una polverosa giornata d’estate, una folata d’aria di montagna venuta a spazzare l’atmosfera stagnante di una profonda vallata… Ecco cosa ricordò a Pat quella boccata d’ossigeno. Respirò quattro volte, profondamente, espirando ben bene per liberare i polmoni dall’anidride carbonica. Poi porse la maschera a McKenzie, come se fosse stata un calumet della pace.

Quei quattro profondi respiri erano stati sufficienti a rinvigorirlo e a spazzare via la nebbia che già offuscava il cervello. Forse quel sollievo era in parte dovuto a cause psicologiche, comunque si sentiva un uomo nuovo. Ora poteva affrontare con tranquillità le cinque ore di attesa.

Dieci minuti dopo, si concessero qualche altra boccata tonificante. I passeggeri respiravano tutti normalmente, in modo lento ma regolare. Pat richiamò la Base.

«Qui Selene. Parla il capitano Harris. Il dottor McKenzie e io siamo abbastanza in forma, e i passeggeri sembrano in condizioni soddisfacenti. Richiamerò tra un quarto d’ora. Lascio la ricevente sull’ascolto. Chiudo.»

«Capitano» disse pazientemente McKenzie «non avete risposto alla mia domanda.»

«Quale domanda? Ah, già… No, non mi sono affidato al caso. Il commodoro e io abbiamo pensato che voi foste il più adatto a restar sveglio. Siete uno scienziato, vi siete accorto del pericolo del surriscaldamento prima di chiunque altro e avete saputo tacere coi passeggeri.»

«Cercherò di mostrarmi all’altezza della fiducia. Certo adesso mi sento molto più in forma di prima. Dev’essere l’ossigeno. C’è un solo problema. Quante ore durerà?»

«Per noi due, dodici ore, cioè più che a sufficienza. Ma bisogna tener presente che una parte dovremo darla agli altri, se mostrano segni di malessere. Quindi temo che durerà molto meno.»

Sedettero entrambi a gambe incrociate sul pavimento, accanto al sedile del pilota, con la bombola dell’ossigeno in mezzo a loro. Ogni cinque minuti si accostavano alla maschera, ma solo per due respiri.


Lawrence si rendeva conto che non c’era più tempo per preoccuparsi degli igloo e delle altre comodità da offrire ai naufraghi. L’essenziale, adesso, era di far arrivare quei tubi dell’aria fino al battello. Tecnici e ingegneri avrebbero dovuto compiere miracoli. Se non ce la facevano in cinque o sei ore, tanto valeva piantar lì tutto e lasciare il Selene al suo destino.

Ma Lawrence non tentò nemmeno di fare premura ai suoi uomini; sapeva che non ce n’era bisogno. Si tenne fra le quinte, controllando l’arrivo di strumenti e attrezzature dai magazzini e il carico sulle slitte da polvere, e cercando di pensare a tutti i possibili contrattempi che potevano verificarsi. Di quali altri strumenti e attrezzi ci sarebbe stato bisogno? Ce n’erano a sufficienza? La piattaforma veniva caricata per ultima, in modo da poter essere scaricata per prima. Sarebbe stato prudente pompare ossigeno all’interno del Selene prima di collegare il tubo di scarico? Questi e altri cento particolari, alcuni importantissimi, altri di secondaria importanza, gli si affollavano nella mente. Diverse volte aveva chiamato Pat per chiedergli informazioni tecniche e consigli sui punti più adatti per trivellare il tetto. Ogni volta Pat aveva risposto con crescente lentezza e difficoltà.

Lawrence si era rifiutato di parlare con i giornalisti che ronzavano intorno a Porto Roris tenendo impegnate metà delle linee di comunicazione audio e video tra la Terra e la Luna. Aveva fatto solo una breve dichiarazione, spiegando come stavano le cose e ciò che intendeva fare. Il resto era compito dell’amministrazione. Dovevano pensarci loro a fare in modo che lui potesse svolgere il suo lavoro indisturbato; l’aveva detto chiaro e tondo al capo della Sezione Turistica e aveva tolto la comunicazione prima che Davis potesse replicare.

Non aveva tempo, naturalmente, nemmeno di dare un’occhiata al programma televisivo, sebbene avesse sentito dire che il dottor Lawson si stava facendo una reputazione di personaggio brillante. Tutto merito di quel tale delle Notizie Interplanetarie, che si era portato via l’astronomo, pensava Lawrence. Chissà, quel diavolo di giornalista, com’era ai sette cieli.

Ma quel diavolo di giornalista non era affatto ai sette cieli. Chiuso nell’astronave appollaiata sulle Montagne Inaccessibili, Maurice Spenser stava rischiando l’ulcera brillantemente evitata fino a quel momento. Aveva speso centomila dollari per portare l’Auriga lassù, e adesso tutto lasciava credere che non si sarebbe fatto proprio nessun servizio.

Se le slitte non arrivano in tempo, l’opera di salvataggio, che doveva incollare allo schermo miliardi di spettatori si sarebbe trasformata in una macabra esumazione che avrebbe interessato ben pochi.

Questo era il punto di vista di Spenser giornalista. Spenser uomo, poi, era altrettanto addolorato. Aveva quasi rimorso a respirare, sapendo che quei poveretti laggiù stavano soffocando.

Altre volte si era trovato presente a vere e proprie catastrofi; ma stavolta gli pareva d’essere una specie di avvoltoio.


Tutto era tranquillo, adesso, a bordo del Selene: c’era tanta pace che bisognava lottare per non cedere al sonno. «Sarebbe bello» pensava Pat «fare come gli altri, che sognano serenamente». Pat li invidiava. Poi respirava un po’ di ossigeno e subito tornava alla realtà e al pensiero del pericolo che li minacciava tutti.

Il tempo non passava mai. Incredibile che fossero trascorse solo quattro ore da quando lui e McKenzie avevano cominciato a far la guardia ai compagni addormentati. Avrebbe giurato d’essere lì da giorni e giorni, a parlare con McKenzie, a chiamare Porto Roris ogni quarto d’ora, a controllare il polso e la respirazione di venti persone in stato d’incoscienza e a somministrare ossigeno con estrema parsimonia.

Ma nulla dura in eterno. Attraverso la radio, da quel mondo che nessuno dei due uomini s’illudeva di rivedere più, arrivò la notizia sospirata.

«Siamo partiti» annunciò la voce stanca ma decisa di Lawrence. «Dovete tenere duro per un’altra ora, dopo di che saremo sul posto. Come vi sentite?»

«Stanchissimi» rispose lentamente Pat. «Ma possiamo farcela.»

«E i passeggeri?»

«Ce la faranno anche loro.»

«Bene. Chiamerò ogni dieci minuti. Lasciate aperta la ricevente a tutto volume. È una idea della Divisione Medica. Non vogliamo che rischiate di addormentarvi.»

Lo squillo degli ottoni risuonò attraverso la faccia della Luna, echeggiò sulla Terra e nei più lontani punti del Sistema Solare. Ettore Berlioz non avrebbe mai immaginato che, due secoli dopo averlo composto, il ritmo effervescente della sua Marcia Rakoczy avrebbe ridato forza e speranza a uomini in lotta per restare in vita su un altro mondo.

Mentre la musica riempiva la cabina, Pat guardò McKenzie con un pallido sorriso.

«Sarà antiquata» disse «ma funziona a meraviglia.»

Il sangue gli pulsava nelle vene, i piedi battevano il tempo.

Dal cielo lunare, dallo spazio, veniva il passo delle armate in marcia, il galoppo della cavalleria sui campi di battaglia, il suono dei corni che un tempo avevano chiamato a raccolta le nazioni. Erano cose passate, di tanto e tanto tempo fa, cose di un mondo che, per fortuna, era cambiato. Ma conservavano un senso di nobiltà e di bellezza: gli esempi di eroismo e di spirito di sacrificio, la prova che gli uomini sapevano ancora resistere, anche quando i loro corpi avevano ormai superato i limiti della sopportazione fisica.

Mentre i suoi polmoni si contraevano nell’aria avvelenata, Pat Harris capì che quella ispirazione venuta dal passato, se voleva, l’avrebbe aiutato a resistere nell’ora interminabile che lo aspettava.


A bordo del piccolo ponte affollato della Slitta Uno, l’ingegnere capo Lawrence ascoltava la stessa musica e reagiva nello stesso modo. La sua piccola flotta stava per entrare in battaglia, contro il nemico che l’uomo avrebbe dovuto affrontare fino all’eternità: il tempo.

Ogni slitta da polvere rimorchiava un solo traino sul quale si ammucchiava materiale che appariva più pesante e imponente di quanto fosse in realtà. Il carico era formato soprattutto dai recipienti vuoti sui quali doveva galleggiare la piattaforma. Tutto ciò che non era essenziale era stato lasciato a Porto Roris. Appena la Slitta Uno avesse scaricato, Lawrence l’avrebbe rispedita a Porto Roris per il carico successivo. Poi bisognava mantenere un servizio continuo tra la piattaforma e la Base, in modo che, se fosse servito qualcosa, si sarebbe dovuto aspettare al massimo un’ora. Questo, s’intende, volendo essere ottimisti; ma c’era sempre il pericolo che, una volta arrivati al Selene, non ci fosse più motivo di affrettarsi.

Mentre Porto Roris spariva in lontananza, Lawrence ripassava tutto il procedimento con i suoi uomini. Avrebbe voluto fare una prova generale prima di imbarcarsi, ma aveva dovuto abbandonare l’idea per mancanza di tempo.

«Jones, Sikorsky, Coleman, Matsui: appena arriviamo sul posto, scaricate i bidoni e li collocate nell’ordine stabilito. Fatto questo, Brute e Hodges fisseranno le liste incrociate. State molto attenti a non lasciar cadere dadi e bulloni, e tenete sempre legati i vostri attrezzi. Se per caso cascate in mare, niente paura; potete affondare al massimo di pochi centimetri. Lo so per esperienza. Sikorsky e Jones: voi darete una mano a stendere l’impalcatura, appena i sostegni saranno stati fissati. Coleman e Matsui cominceranno a disporre i tubi dell’aria e i raccordi. Greenwood e Renaldi si incaricheranno delle operazioni di trapano…»

E tosi via, punto per punto. Il pericolo maggiore, secondo Lawrence, era che gli uomini si ostacolassero a vicenda, lavorando in uno spazio limitato. Un banale incidente, e tutto lo sforzo sarebbe risultato inutile. Uno dei timori più assillanti di Lawrence, poi, era d’aver dimenticato qualche attrezzo d’importanza vitale. E c’era un incubo ancora peggiore, e cioè che ventidue persone potessero morire pochi istanti prima di essere salvate, solo perché l’unica chiave inglese adatta per stringere il raccordo finale era caduta fuori bordo.


Sulle Montagne Inaccessibili, Maurice Spenser non staccava il binocolo dagli occhi e ascoltava le voci che la radio trasportava attraverso il Mare della Sete. Ogni dieci minuti Lawrence chiamava il Selene, e ogni volta la risposta si faceva attendere un po’ più a lungo. Ma Harris e McKenzie riuscivano ancora a restare svegli, grazie alla loro forza di volontà e, forse, all’incoraggiamento musicale che arrivava da Clavius City.

«Cosa trasmette, adesso, quello psicologo che ha la fissazione dei dischi?» domandò Spenser. Dall’altra parte della cabina di comando, l’addetto alla radio alzò il volume. E le Valchirie cavalcarono per le Montagne Inaccessibili.

«Sarebbe tempo che chiamassero di nuovo» osservò l’addetto alla radio. La cabina divenne istantaneamente silenziosa.

Allo spaccare del secondo, si udì il segnale della slitta. La spedizione era ormai così vicina che l’Auriga poteva riceverla direttamente, senza beneficiare del raccordo con Lagrange.

«Lawrence chiama Selene. Saremo da voi tra dieci minuti. State bene?»

Di nuovo quella pausa orribile: stavolta di cinque secondi. Poi…

«Qui Selene. Nessun cambiamento.»

Nient’altro. Pat Harris non voleva sprecare il fiato che gli restava.

«Dieci minuti» disse Spenser. «Ormai dovrebbero già essere in vista. Si vede niente sullo schermo?»

«Non ancora» rispose Jules.

«Ma sì, eccoli!» urlò Spenser.

La sua voce rivelò tutta la tensione del giornalista. Abbassò il binocolo e guardò la telecamera. «Sei troppo spostato verso destra!»

Jules stava già aggiustando l’inquadratura. Sul monitor, la geometrica monotonia dell’orizzonte era stata finalmente interrotta: due piccole stelline luminose erano apparse sull’arco perfetto che divideva il Mare della Sete dallo spazio. Le slitte da polvere filavano veloci sulla faccia della Luna.


Le slitte si fermarono ai due lati della bacchetta metallica che spuntava dalla polvere e immediatamente incominciò una attività frenetica. Otto figure in tuta spaziale cominciarono a scaricare funi e recipienti cilindrici a grande velocità, secondo il piano prestabilito. Rapidamente, la piattaforma si delineò, mentre l’intelaiatura d’alluminio veniva fissata e coperta dal leggero ponte di fibreglass.

In tutta la storia della Luna, nessuna opera di ingegneria era stata compiuta così in pubblico come questa che veniva seguita dall’occhio della telecamera fissata in alto sulle montagne. Ma una volta iniziati i lavori, gli otto uomini delle slitte si dimenticarono completamente dei milioni di persone che li stavano osservando. Ora quello che importava era sistemare la piattaforma e fissare le piccole gru che avrebbero guidato i trapani salvatori fino al loro bersaglio.

Ogni cinque minuti circa, Lawrence parlava col Selene, tenendo Pat e McKenzie al corrente dei progressi. Il fatto di tenere informato, contemporaneamente, anche il mondo, non gli passava neppure per la mente.

Infine, dopo venti minuti febbrili, il trapano fu montato, e la prima sezione di cinque metri sembrava un arpione pronto a immergersi nel Mare della Sete. Ma un arpione fatto per portare la vita, non la morte.

«Stiamo arrivando» avvertì Lawrence. «La prima sezione scende ora.»

«Fate presto» bisbigliò Pat. «Non resisterò ancora per molto.»

Gli sembrava di muoversi nella nebbia. A parte i polmoni indolenziti, non soffriva molto. Era solo indicibilmente stanco. Gli pareva di essere un robot addetto a un compito di cui aveva dimenticato lo scopo, ammesso che l’avesse mai saputo. In mano stringeva una chiave inglese: l’aveva tolta dalla borsa dei ferri qualche ora prima, sapendo che gli sarebbe servita. Forse gli avrebbe ricordato che cosa doveva fare, quando fosse venuto il momento di usarla.

Da una grande distanza, o così gli parve, colse un brano di conversazione che non era destinato a lui; qualcuno aveva dimenticato di chiudere il circuito.

«Avremmo dovuto fare in modo che la punta perforante potesse essere svitata da questa parte. Può darsi che lui sia troppo debole per farlo.»

«Bisogna correre il rischio; gli accorgimenti extra avrebbero richiesto un’altra ora. Datemi quel…»

Il contatto venne tolto, ma Pat aveva udito abbastanza per andare in collera, ammesso che si potesse andare in collera in quelle condizioni disperate. Gliel’avrebbe fatto vedere lui… lui e il suo amico dottor Mac… Mac e poi? non se ne ricordava più.

Si girò lentamente e guardò lo spettacolo assurdo della cabina. Dapprima non riuscì a distinguere McKenzie, tra tutti quei corpi ammassati; poi lo vide inginocchiato accanto alla signora Williams. McKenzie le accostava la maschera dell’ossigeno al viso, completamente dimentico che il sibilo dell’ossigeno era cessato da un pezzo e che il contatore della bombola segnava lo zero.

«Quasi ci siamo» annunciò la radio. «Da un istante all’altro dovreste sentirci.»

Così presto? pensò Pat. Eh, certo, un tubo pesante sarebbe penetrato attraverso la polvere facilmente. Pat si sentì molto orgoglioso di quella riflessione.

Bang! Qualcosa aveva urtato il tetto. Ma dove?

«Vi sento» bisbigliò. «Ci avete raggiunti.»

«Sì, sentiamo il contatto» rispose la voce. «Ma il resto dovete farlo voi. Potete dirci in che punto tocca, il trapano? È in una parte sgombra del tetto o incontra i fili elettrici? Lo alzeremo e lo abbasseremo parecchie volte, per aiutarvi a localizzare la posizione.»

Pat si sentì più avvilito che mai, non era giusto che toccasse a lui decidere una questione così complicata.

Bang! Bang! faceva il trapano contro il tetto. Macché, nemmeno a costo della vita (perché quella frase gli sembrava così azzeccata?) avrebbe potuto localizzare l’esatta posizione del suono. Be’, tanto non c’era più niente da perdere…

«Coraggio» mormorò «è una zona libera.» Dovette ripetere due volte prima che gli altri potessero capire quel che diceva.

All’istante, ma come erano svelti lassù, il trapano cominciò a vibrare contro lo scafo esterno. Pat udiva il suono molto distintamente, era più bello di qualunque musica.

La punta perforante passò il primo ostacolo in un attimo. Pat la sentì girare a vuoto, poi fermarsi in attesa di venire abbassata di qualche centimetro, fino a raggiungere lo scafo interno, e ricominciare a ronzare.

Il rumore era molto più forte, adesso, e non si poteva individuarlo esattamente. Arrivava, notò Pat sconcertato, da un punto molto vicino al cavo principale della corrente, lungo il centro del tetto. Se bucava quello…

Si alzò, con gesti lenti e malfermi, e si trascinò fino alla fonte del rumore. C’era appena arrivato quando dal soffitto cadde una pioggia di polvere, poi di scintille elettriche… e le luci principali si spensero.

Per fortuna, quelle di emergenza restavano accese. Pat impiegò parecchi secondi per abituarsi al fioco chiarore rossastro; poi vide che un tubo di metallo cominciava a sporgere dal tetto. Il tubo continuò a scendere fino a penetrare nella cabina per mezzo metro e infine si fermò.

Là in fondo la radio parlava, dicendo qualcosa che doveva essere importante. Pat cercò di venirne a capo, mentre sistemava la chiave inglese attorno alla punta perforante e stringeva il dado che regolava l’attrezzo.

«Non togliete la punta perforante fino a che non ve lo diciamo noi» raccomandò la voce lontanissima. «Non abbiamo tempo di applicare una valvola di chiusura e da questa parte il tubo si apre nel vuoto! Ve lo diremo noi quando saremo pronti; Non svitate la punta perforante!»

Pat desiderava solo che quel tipo la piantasse di seccarlo, lui sapeva benissimo quel che doveva fare. Se spingeva con tutta la forza la chiave inglese, così, la punta del trapano sarebbe venuta via dal tubo e lui avrebbe potuto respirare.

Perché la chiave non si muoveva? Tentò di nuovo.

«Per carità» disse la radio «fermatevi! Non siamo pronti. Farete sfuggire tutta l’aria!»

«Un momento» pensò Pat, ignorando il seccatore. «Qui qualcosa non va. Una vite gira da una parte e dall’altra. Possibile che l’abbia stretta, credendo di allentarla?»

Che cosa complicata. Pat si guardò la mano destra, poi la sinistra; nessuna delle due gli venne in aiuto. (Oh, quello stupido che strepitava dentro la radio!) Be’, avrebbe tentato dall’altra parte per vedere se andava meglio.

Con grande dignità, fece tutto il giro del tubo, tenendovisi aggrappato con un braccio. Quando urtò contro la chiave inglese, l’afferrò con tutt’e due le mani per non cadere. Per un attimo vi restò appoggiato contro a testa china.

«Su il periscopio» mormorò. Che diavolo significava? Non lo sapeva, ma l’aveva sentito dire altre volte e gli sembrava una bella frase. Stava ancora meditandoci su quando il trapano cominciò a svitarsi sotto il suo peso, adagio adagio.

Quindici metri più in alto l’ingegnere capo Lawrence e i suoi assistenti rimasero per un istante paralizzati dall’orrore. Ecco una cosa che nessuno avrebbe mai immaginato. Avevano pensato a centinaia di contrattempi, ma non a questo.

«Coleman… Matsui!» scattò Lawrence. «Collegate quel tubo dell’ossigeno, per amor del Cielo!»

Mentre urlava l’ordine, sapeva che era già troppo tardi. C’erano ancora due connessioni da fare, prima dì chiudere il circuito dell’ossigeno. Ed erano raccordi da avvitare, non a pressione, quindi ci voleva tempo.

Come Sansone alla macina, Pat girava attorno al tubo, spingendo la chiave inglese davanti a sé. Perfino nelle sue deboli condizioni, non incontrava alcuna resistenza: ormai la punta perforante era svitata già di due centimetri, tra qualche secondo sarebbe caduta…

Ah, ecco! Pat udì un lieve sibilo, che crebbe via via che la punta si svitava. Doveva essere l’ossigeno che penetrava nella cabina, naturalmente. Tra pochi istanti, avrebbe potuto ricominciare a respirare, e i suoi guai sarebbero finiti.

Il sibilo era diventato un fischio lugubre, e per la prima volta Pat cominciò a domandarsi se non avesse sbagliato qualcosa.

Si fermò, guardò pensoso la chiave inglese e si grattò in testa. Se la radio gli avesse dato un ordine in quel momento, forse Pat avrebbe obbedito, ma dall’alto avevano rinunciato a farsi intendere.

«Torniamo al lavoro» si disse Pat.

Ricominciò a spingere la chiave… e finì lungo disteso sul pavimento mentre la punta perforante cadeva a terra.

Nello stesso istante, nella cabina echeggiò un fragore sibilante, e una specie di uragano fece svolazzare tutti i pezzi di carta che c’erano in giro, come fa il vento con le foglie d’autunno. Una nebbia di condensazione si andava formando rapidamente mentre l’aria, raggelata da quell’espansione improvvisa, condensava tutti i suoi vapori. Quando Pat si rigirò sulla schiena, conscio finalmente di ciò che era accaduto, fu quasi accecato dal vapore che l’attorniava.

Quel sibilo lacerante significava una cosa sola per un uomo dello spazio, e ormai Pat agiva mosso dalle sue reazioni automatiche. Doveva trovare un oggetto che potesse chiudere quel foro… qualsiasi cosa, purché fosse abbastanza forte.

Si guardò attorno disperatamente nella nebbia rossastra, che già diradava risucchiata nello spazio. Il rumore era assordante. Sembrava incredibile che un tubo così piccolo potesse provocare un sibilo tanto violento.

Barcollando sui corpi dei compagni privi di sensi, aggrappandosi ai sedili, stava già per abbandonare la speranza quando ebbe la risposta alle sue preghiere. Aveva visto un grosso volume, aperto a faccia in giù sul pavimento, dove era stato abbandonato.

«Non è così che si trattano i libri» pensò Pat, ma era contento che qualcuno fosse stato così disordinato. Altrimenti lui forse non avrebbe visto il volume.

Quando raggiunse l’orifizio sibilante che stava succhiando la vita dall’interno della cabina, il libro gli venne letteralmente strappato dalle mani e andò ad appiattirsi contro l’estremità del tubo. Il sibilo morì all’istante, e anche l’uragano si placò. Per un attimo Pat oscillò avanti e indietro come un ubriaco, poi si afflosciò sulle ginocchia e finì bocconi sul pavimento.


I momenti veramente indimenticabili nelle riprese televisive sono quelli che nessuno si aspetta, e per i quali né gli operatori, né i presentatori sono preparati. Negli ultimi trenta minuti, la piattaforma era stata teatro di un’attività intensa ma ordinata. Poi, d’improvviso, si era scatenato il pandemonio.

Per quanto la cosa fosse impossibile, era stato come se dal Mare della Sete fosse d’improvviso schizzato il getto di un geyser. Automaticamente, Jules aveva seguito con la telecamera l’ascendente colonna di vapore che puntava verso le stelle. Via via che saliva, il vapore si allargava, in una versione più sottile e più debole del fungo atomico che aveva terrorizzato due delle passate generazioni..

Era durato solo pochi secondi, ma in quegli istanti aveva tenuto milioni di telespettatori agghiacciati dinanzi agli schermi, a chiedersi come poteva, da quel mare, uscire un getto di umidità. Poi il getto si era estinto nello stesso silenzio dal quale era scaturito.

Anche per gli uomini della piattaforma quel geyser di aria carica di umidità era stato altrettanto silenzioso, ma le vibrazioni li avevano ostacolati proprio mentre si adoperavano strenuamente per riuscire ad avvitare l’ultimo raccordo. Ci sarebbero riusciti, prima o poi, anche se Pat non avesse interrotto il flusso. Ma quel «poi» avrebbe potuto essere fatale. Forse era già troppo tardi…

«Pronto, Selene! Pronto Selene!» urlava Lawrence. «Mi sentite?»

Nessuna risposta. La trasmittente del battello non era in funzione. Lawrence non sentiva nemmeno i rumori che il microfono avrebbe dovuto captare all’interno della cabina.

«Il collegamento è pronto, signore» disse Coleman. «Devo aprire il generatore dell’ossigeno?»

«Non servirà a niente, se Harris è riuscito a riavvitare quel maledetto trapano» pensò Lawrence. «Spero che abbia invece cacciato qualcosa nel tubo, e che si riesca a soffiarla via…»

«Sta bene» disse. «Aprite alla pressione massima.»

Con uno schizzo improvviso, la copia sconquassata di L’arancia e la mela venne sparata via dal tubo al quale aveva continuato ad aderire per il risucchio del vuoto. Dall’orifizio aperto sgorgò una fontana di gas, così freddo da essere visibile nelle volute del vapore acqueo che si condensava.

Per alcuni minuti la cascata di ossigeno irruppe con fragore senza produrre nessun effetto. Poi Pat Harris si mosse lentamente, cercò di rialzarsi e venne scagliato di nuovo sul pavimento dalla spinta del getto. Non era un getto di eccezionale potenza, ma sempre più forte di quanto lo fosse Pat al momento.

Pat giacque sotto il getto gelido che gli pioveva sul volto godendosi quella frescura tonificante e rigeneratrice. Pochi secondi dopo era completamente disintossicato e sveglio, a parte un orribile mal di testa, nonché perfettamente consapevole di quello che era accaduto nell’ultima mezz’ora.

Per poco non svenne di nuovo rendendosi conto di aver svitato il trapano e di aver lottato automaticamente contro l’aria che sfuggiva dallo scafo. Ma non era il momento di pentirsi degli errori passati; ora l’importante era di essere vivo… e di restare in vita, con un altro po’ di fortuna.

Tirò su McKenzie, ancora svenuto, come se fosse stato una bambola di stracci, e lo sdraiò sotto il getto d’ossigeno. Ora il getto era più debole, perché la pressione interna stava tornando normale; ancora qualche minuto e sarebbe diventato uno spiffero leggero.

Lo scienziato rinvenne quasi subito e si guardò attorno senza capire.

«Dove sono?» disse, con poca originalità. «Oh… ci hanno raggiunti in tempo. Grazie al Cielo posso respirare ancora. Cos’è successo alla luce?»

«Niente paura, adesso l’aggiusterò. Dobbiamo portare tutti gli altri sotto quel getto, più in fretta che possiamo. Siete capace di praticare la respirazione artificiale?»

«Non l’ho mai fatto.»

«È facilissimo. Aspettate, prendo la cassetta di pronto soccorso.»

Appena Pat riuscì a trovare quel che cercava, diede una dimostrazione sul primo soggetto a portata di mano. Per combinazione fu Irving Schuster.

«Ecco, spingete da parte la lingua, e fate scivolare questo tubetto giù per la gola. Poi premete questa piccola pompa… piano piano. Mantenete un ritmo regolare, come quello del respiro. Capito?»

«Sì, ma per quanto bisogna continuare?»

«Cinque o sei respiri profondi dovrebbero essere sufficienti, credo. In fondo non occorre che riprendano i sensi; l’importante è aspirare dai loro polmoni l’aria avvelenata. Cominciate da quelli sul davanti della cabina. Io comincerò da questi sul fondo.»

«Ma, c’è un apparecchio solo…»

«Non è necessario l’apparecchio» rispose, chinandosi su un paziente.

Questa volta non fu per caso che Pat scelse Sue. Ora le stava soffiando aria tra le labbra col metodo boccaabocca, antiquato, forse, ma sempre efficiente. Per essere giusti, però, Pat non perse più tempo del necessario con la ragazza. Stava praticando la respirazione al terzo passeggero, quando la radio tentò un altro appello disperato.

«Pronto, Selene! C’è nessuno che mi sente?»

In pochi balzi, Pat arrivò ad agguantare il microfono.

«Qui Harris… Stiamo bene. Ora pratichiamo la respirazione artificiale ai passeggeri. Non ho tempo di dire altro, chiamateci dopo, Lascio la ricevente in funzione, diteci come procedono le operazioni.»

«Grazie a Dio siete salvi, vi avevamo dati per spacciati. Ci avete fatto prendere uno spavento, quando avete svitato il trapano!»

La voce di Lawrence gli arrivò mentre era intento a soffiare aria nei polmoni del signor Radley, e Pat soffrì nel sentirsi ricordare quell’incidente. Sapeva che non avrebbe potuto perdonarselo mai più, anche se poi tutto si era risolto per il meglio. In quel tragico minuto di decompressione non prevista, infatti, buona parte dell’aria viziata era stata aspirata via dal Selene.

«Ascoltate» continuò Lawrence «siccome eravate surriscaldati, vi abbiamo mandato l’ossigeno a temperatura piuttosto bassa. Avvertiteci, però, se l’atmosfera diventa troppo fredda o troppo secca. Tra una decina di minuti vi caleremo il secondo tubo, così avremo stabilito il circuito completo e potremo provvedere al condizionamento dell’aria. Sistemeremo l’altro tubo verso il fondo della cabina, appena la piattaforma sarà stata spostata più in là… Ecco, ci stiamo muovendo. Vi richiamerò tra un minuto.»

Pat e McKenzie non si concessero riposo finché non ebbero pompato l’aria viziata dai polmoni di tutti i loro compagni addormentati. Poi, stanchissimi, ma con la calma serenità di chi ha visto una situazione da incubo risolversi in modo positivo, si sdraiarono sul pavimento e aspettarono che il secondo trapano cominciasse a intaccare il tetto.

Dieci minuti più tardi, lo sentirono urtare contro lo scafo esterno, nei pressi del compartimento stagno. Quando Lawrence chiamò per controllare la posizione del trapano, Pat poté confermargli che in quel punto non c’erano ostacoli. «E non preoccupatevi» aggiunse «stavolta non toccherò il trapano finché non me lo direte voi.»

Ora faceva talmente freddo che lui e McKenzie avevano dovuto rivestirsi ben bene e avevano steso delle coperte sopra i viaggiatori addormentati. Ma Pat non diede ancora l’alt; finché potevano resistere, più freddo faceva, tanto meglio. Bisognava rifarsi del calore spaventoso che aveva quasi minacciato di mandarli arrosto. Inoltre, cosa più importante ancora, forse i purificatori dell’aria avrebbero ripreso a funzionare, riattivati dall’abbassamento di temperatura.

Quando il secondo tubo fosse penetrato attraverso il tetto, sarebbero stati doppiamente al sicuro. Dalla piattaforma la provvista d’aria poteva essere rinnovata all’infinito, e ci sarebbe stato anche un margine di sicurezza all’interno della cabina. Forse l’attesa sarebbe stata ancora lunga, ma il pericolo era cessato.

A meno che, s’intende, la Luna non avesse in serbo qualche altra sorpresa.


«Be’, signor Spenser» osservò il capitano Anson «pare che, tutto sommato, siate riuscito a fare il vostro servizio.»

Spenser era esausto, dopo la tensione delle ultime ore, proprio come gli uomini della piattaforma che si trovavano due chilometri al di sotto. Li vedeva sul monitor, a distanza semiravvicinata. Era evidente che si stavano riposando, quanto ci si può riposare con indosso una tuta spaziale.

Cinque di loro, infatti, sembravano decisi a schiacciare un sonnellino e avevano risolto il problema in modo sconcertante ma praticissimo. Si erano sdraiati accanto alla piattaforma, semisommersi dalla polvere, come tante ciambelle di gomma. Spenser non aveva mai pensato che una tuta spaziale potesse galleggiare benissimo sulla superficie di polvere. Togliendosi dalla piattaforma, quegli uomini non solo si erano procurati un letto incredibilmente morbido, ma avevano lasciato più spazio libero ai compagni rimasti al lavoro per regolare l’emissione dell’ossigeno.

La scena calma e piena di pace offriva un contrasto stridente con quella di un’ora prima. Ma ormai non c’era altro da fare se non aspettare che arrivassero i nuovi contingenti di attrezzature. Entrambe le slitte erano tornate a Porto Roris, dove gli ingegneri stavano controllando e raccogliendo il materiale che, si sperava, li avrebbe messi in grado di scendere fino al Selene. Nel frattempo il Mare della Sete si stendeva placido sotto il sole mattutino, e la telecamera non aveva altro da proiettare attraverso gli spazi.

Dalla distanza di un anno luce e mezzo, la voce del direttore dei programmi echeggiò dentro la cabina di comando dell’Auriga.

«Maurice, Jules! Bravissimi! Continuiamo a registrare le immagini per il caso che si verifichi qualcosa, ma riprenderemo il collegamento diretto solo per il notiziario delle sei antimeridiane.»

«Come va l’indice di ascolto?»

«Una vera supernova, ragazzi! Ah, una novità. Non c’è barba di inventore che abbia cercato di brevettare almeno una nuova molletta per il bucato che non si sia precipitato qua per esporre delle idee preziose. Alle sei e un quarto ne intervisteremo qualcuno. Sarà divertente.»

«Chissà… forse uno di loro potrebbe suggerire qualcosa di utile.»

«Sarà, ma ne dubito. I più intelligenti si guardano bene dal venire, vedendo che specie di accoglienza ricevono gli altri.»

«Perché, cosa gli fate?»

«Le loro idee vengono analizzate dal tuo amico scienziato, il dottor Tom Lawson. Se li sta mangiando vivi, te l’assicuro.»

«Non è amico mio» protestò Spenser. «L’ho visto solo due volte. La prima gli ho cavato dieci parole, la seconda si è addormentato.»

«Be’, da allora ha fatto progressi, mi puoi credere. Lo vedrai tra quarantacinque minuti in trasmissione.»

«Non ci tengo. M’interessa di più Lawrence. Ha fatto qualche dichiarazione? Dovrebbe essere possibile avvicinarlo, ora che la tensione si è allentata.»

«È ancora occupatissimo e non vuole parlare. Per ora non si sa niente dei suoi progetti. Se salta fuori qualcosa, te lo faremo sapere.»

Spenser friggeva. Avrebbe voluto precipitarsi a Clavius City, dove il materiale giornalistico raccolto da lui e da Jules veniva montato e mandato in onda. Era impossibile, naturalmente e, del resto, se anche avesse potuto farlo, poi se ne sarebbe pentito. Quella, infatti, era l’occasione più importante e più interessante, di tutta la sua carriera. Spenser sapeva già che era l’ultima volta in cui poteva riprendere un servizio sul posto, come cronista. In seguito, grazie proprio al successo ottenuto, sarebbe stato inchiodato irrevocabilmente dietro una scrivania di dirigente… o, nella migliore delle ipotesi, dentro una comoda cabina di regia dietro gli schermi monitor di Clavius City.


C’era ancora una gran pace dentro il Selene, ma era una calma di sonno, non di morte. Tra non molto, tutte quelle persone si sarebbero svegliate, per salutare un nuovo giorno che pochi di loro avevano sperato di veder spuntare..

Pat Harris, in equilibrio instabile sullo schienale di un sedile, riparava il guasto ai fili della luce. Per fortuna il trapano non era penetrato mezzo centimetro più a sinistra, altrimenti avrebbe interrotto anche il contatto radio, e allora sì che sarebbe stato un affare serio.

Le luci principali si riaccesero, quasi accecanti dopo la penombra rossastra. Contemporaneamente, ci fu un fortissimo rumore improvviso, così inaspettato che Pat, per la sorpresa, perse l’equilibrio.

Prima di toccare terra, aveva capito cos’era: uno sternuto.

I passeggeri cominciavano a svegliarsi, e lui, forse, aveva esagerato con l’abbassamento di temperatura, perché adesso in cabina faceva un freddo diabolico.

Pat si domandò chi sarebbe stato il primo a riprendere conoscenza. Lui si augurava che fosse Sue, così avrebbero potuto parlare un po’ senza venire interrotti.

Sotto il riparo di indumenti e coperte, una prima figura si stava agitando. Pat si precipitò per offrire aiuto; poi si arrestò, e mormorò a fior di labbra: «Oh, no!»

Be’, non sempre poteva andar bene, e un capitano doveva fare il suo dovere, in qualunque caso. Si chinò sulla figura ossuta che tentava di rialzarsi e disse gentilmente: «Come vi sentite, signorina Morley?»


«Stanno arrivando le slitte, ingegnere.»

Lawrence si issò di nuovo a bordo della piattaforma, Sì, ecco là la Slitta Uno e anche la Tre, spedita di rinforzo dall’altro emisfero. Ciascuna rimorchiava due traini, carichi di attrezzature varie.

La prima cosa a essere scaricata fu la grossa scatola che conteneva l’igloo, Era sempre affascinante osservare un igloo che veniva gonfiato, e Lawrence non era mai stato tanto ansioso di rimirare lo spettacolo. Il processo era totalmente automatico; bastava rompere i sigilli, toccare due leve separate e poi aspettare.

L’attesa di Lawrence fu brevissima. I lati dello scatolone si aprirono rivelando un ammasso di tessuto argenteo strettamente ripiegato, e subito il tessuto si animò e si mosse come una creatura viva, espandendosi e irrigidendosi con strappi improvvisi via via che i generatori pompavano aria nell’intercapedine. Appena raggiunta la massima espansione orizzontale, l’igloo cominciò a crescere verso l’alto, e già il compartimento stagno si gonfiava separandosi dalla cupola principale. Sembrava quasi anormale che tutto avvenisse nel più assoluto silenzio, e in tre minuti esatti.

Ora la struttura aveva quasi raggiunto le sue dimensioni definitive e appariva evidente che il nome di igloo era il più indicato per definirla. Sebbene disegnati per offrire riparo contro un ambiente totalmente diverso, anche se altrettanto ostile, i ricoveri di neve degli antichi esquimesi avevano un tempo la stessa forma. Il problema tecnico da risolvere era stato analogo, e così la soluzione.

Ci voleva molto più tempo per installare le attrezzature necessarie che per gonfiare l’igloo; ogni pezzo, infatti (cuccette, sedie, tavoli, armadietti, apparecchi e impianti elettrici di vario genere), doveva essere trasportato all’interno attraverso il portello stagno. Ma, finalmente, dall’interno della cupola arrivò un messaggio radio. «Siamo pronti! Potete entrare, ingegnere!»

Lawrence non perse tempo. Era ancora nella sezione esterna del compartimento stagno e già cominciava a liberarsi dell’equipaggiamento della sua tuta. Appena udì le voci dall’interno, che ormai gli giungevano attraverso l’atmosfera quasi normale del compartimento, si tolse il casco.

Era meraviglioso tornare un uomo libero: potersi scuotere, grattare, muoversi senza l’ingombro dell’equipaggiamento spaziale, e parlare con gli altri faccia a faccia. Il minuscolo impiantodoccia l’aiutò a levarsi di dosso l’odore della tuta e a rendersi presentabile per tornare nel consorzio umano. Poi Lawrence si sedette a un tavolino per conferire con i suoi assistenti.

La maggior parte del materiale ordinato era arrivato con quella spedizione; il resto sarebbe arrivato tra poche ore con la Slitta Due. L’ossigeno era assicurato, il che scongiurava eventuali catastrofi. L’acqua del Selene cominciava a scarseggiare, ma si poteva fornirla facilmente. Per il cibo la questione era più complessa, ma in fondo si trattava più che altro di un problema di imballaggio. Già erano arrivati i campioni di cioccolata, di carne compressa, di formaggio e altro, il tutto incartato in piccoli cilindri del diametro di tre centimetri. Tra poco sarebbero stati lanciati dentro i tubi dell’aria, contribuendo a rialzare il morale a bordo del battello affondato.

Ma tutto questo era meno importante delle raccomandazioni pervenute dal suo «consorzio di cervelli». Raccomandazioni condensate in un conciso memorandum di sei pagine. Lawrence le lesse attentamente, approvando di tanto in tanto con la testa. Era già arrivato anche lui alle stesse conclusioni e non vedeva proprio nessun’altra soluzione.

Qualunque fosse il destino dei passeggeri, il Selene aveva fatto il suo ultimo viaggio.


L’uragano che per qualche istante aveva spazzato il Selene pareva aver trascinato con sé qualcosa di più dell’aria avvelenata. Riandando ai primi giorni trascorsi sotto la polvere, il commodoro Hansteen si rendeva conto che molto spesso, superata la sorpresa iniziale, lo stato d’animo generale a bordo del Selene aveva raggiunto il punto critico. Nel tentativo di mantenere alto il morale, tutti quanti si erano abbandonati a una falsa gaiezza e a un comportamento quasi infantile.

Adesso non era più così. Il cambiamento era dovuto in parte al fatto che le squadre di soccorso lavoravano a pochi metri di distanza, ma soprattutto dall’aver guardato in faccia la morte. Dopo quegli attimi, ognuno si era liberato da ogni residuo di vigliaccheria ed egoismo.

Hansteen aveva già osservato qual fenomeno tante volte, quando gli equipaggi delle sue navi spaziali si erano trovati in pericolo nelle più remote località del sistema solare. Pur non essendo incline alla speculazione, il commodoro aveva avuto tutto il tempo di riflettere, durante i suoi viaggi nello spazio. A volte si era domandato se la vera ragione per cui gli uomini cercavano il pericolo non fosse dovuta al desiderio inconscio di trovarsi finalmente affratellati veramente.

Gli sarebbe dispiaciuto separarsi da tutti i passeggeri, quando fosse giunto il momento. Perfino dalla signorina Morley che ora si mostrava amabile quanto glielo consentiva il carattere bisbetico.

Pensare al futuro era già prova di ottimismo. Nessuno poteva giurarlo, ma la situazione sembrava completamente sotto controllo. Non si sapeva quando l’ingegner Lawrence li avrebbe tirati fuori di lì, ma ormai il problema si era ridotto a una scelta tra diversi sistemi. La loro prigionia si era ridotta a una semplice seccatura, ma non era più un pericolo.

Anche i sacrifici erano diminuiti, da quando quei piccoli cilindri avevano cominciato a piovere dai tubi dell’aria. Anche parecchie centinaia di litri d’acqua erano stati pompati attraverso i tubi per rifornire i serbatoi quasi vuoti.

Era strano che il commodoro, il quale di solito pensava a tutto, non si fosse chiesto che fine avesse fatto tutta l’acqua di scorta.

Pat Harris e l’ingegnere capo erano da biasimare quanto lui per non averci pensato. Quella era l’unica pecca in un piano congegnato perfettamente. Ma spesso basta una pecca del genere per rovinare tutto.

Lawrence lavorava ancora con tutto se stesso, ma non più in lotta contro il tempo. Adesso, con tutta calma, si potevano costruire i modellini del Selene, affondarli nel porticciolo di Porto Roris e sperimentare i diversi sistemi per aprirsi un varco. Il procedimento comunque era già stato deciso nelle sue linee generali e non sarebbe stato più modificato, a meno di non incontrare ostacoli imprevisti.

E adesso Lawrence era dispostissimo a parlare, e Maurice Spenser a offrirgliene l’occasione.

Per quanto Spenser poteva ricordare, era la prima volta che un’intervista televisiva avveniva con cinque chilometri di distanza tra l’intervistato e la telecamera. A causa dell’ingrandimento addirittura fantastico, l’immagine era lievemente mossa e bastava la più lieve vibrazione all’interno dell’Auriga perché cominciasse a danzare sullo schermo. Per questo motivo, tutto, a bordo dell’astronave, era assolutamente immobile, e ogni impianto non essenziale era stato spento.

L’ingegnere capo Lawrence stava in piedi sull’orlo della piattaforma, e la sua figura in tuta spaziale si stagliava contro la gru che era stata rimorchiata sul posto. Dalla gru pendeva un grosso cilindro di cemento, aperto alle due estremità: la prima sezione del gigantesco tubo che stava per essere calato nella polvere.

«Dopo molti studi» spiegò Lawrence, a beneficio della lontanissima telecamera, ma soprattutto a beneficio delle ventidue persone sepolte quindici metri sotto di lui «abbiamo deciso che il modo migliore per risolvere il problema è questo. Il cilindro che potete vedere alle mie spalle si chiama «cassone». S’immergerà facilmente grazie al proprio peso. L’orlo inferiore, molto tagliente, affonderà nella polvere come un coltello nel burro. Una volta venuti in contatto col Selene, e chiuso il fondo del cassone stesso contro il tetto del battello, cominceremo a vuotarlo dalla polvere. Fatto questo, avremo una specie di piccolo pozzo che scenderà direttamente fino al Selene.»

«A questo punto metà della battaglia sarà vinta, ma solo metà. Poi dovremo collegare il pozzo a uno dei nostri igloo pressurizzati, in modo che quando praticheremo l’apertura nel tetto dell’imbarcazione non ci saranno perdite d’aria. Mi auguro che tutto proceda nel migliore dei modi.»

Lawrence tacque, incerto se aggiungere o no ulteriori particolari; poi preferì rinunciare. Tutta quella pubblicità (circa mezzo miliardo di persone seguiva la telecronaca, secondo le statistiche della Commissione Turistica) non lo preoccupava finché le cose andavano bene. Ma se fossero cominciati i guai…

Alzò le braccia e fece un cenno all’operatore della gru.

«Abbassare!»

Lentamente, il cilindro, lungo quattro metri, affondò nella polvere fino a immergersi completamente, salvo un piccolo anello che ancora sporgeva dalla superficie. Era andato giù con facilità estrema.

Lawrence sperava che la seconda sezione si mostrasse altrettanto docile.

Uno degli ingegneri girò attorno all’orlo del cassone con una livella ad alcol, per controllare che la sezione fosse affondata in modo assolutamente verticale.

Poi segnalò col pollice verso l’alto, e Lawrence rispose con lo stesso sistema.

«Pronti la seconda sezione!» ordinò.

La resistenza della polvere aumentava, ma il cassone continuava ad affondare senza sforzo spinto dal proprio peso.

«Otto metri guadagnati» disse Lawrence. «Questo significa che abbiamo già superato metà della distanza. Adesso scenderà la terza sezione.»

Dopo di che, ne restava da calare una sola, anche se Lawrence ne aveva fatta venire una di scorta, tanto per prudenza. Lawrence teneva in gran considerazione la capacità del Mare della Sete di far sparire materiale. Finora erano andati persi solo pochi bulloni e qualche vite, ma se un pezzo del cassone si staccava dal gancio, la polvere l’avrebbe inghiottito in un lampo. Magari non sarebbe affondato molto, specie se cadeva in senso orizzontale, ma non c’era tempo di mettersi a salvare anche il materiale di salvataggio.

La terza sezione era stata sistemata. Tra qualche minuto, con un po’ di fortuna, il cassone avrebbe raggiunto il tetto del «Selene.

«Dodici metri» annunciò Lawrence. «Siamo a soli tre metri sopra di voi, Selene. Da un momento all’altro dovreste sentirci.»

Infatti a bordo sentivano, e quel rumore era meravigliosamente rassicurante. Circa cinque minuti prima, Hansteen aveva notato la vibrazione del tubo di immissione dell’ossigeno, mentre il cassone vi premeva contro. Ci si accorgeva di quando il cassone si fermava e di quando ricominciava a muoversi.

La vibrazione si ripeté, accompagnata stavolta da una lieve caduta di polvere dal soffitto. I due tubi dell’aria erano stati tirati un po’ più in su, in modo che adesso solo venti centimetri di lunghezza sporgevano dal soffitto, e il cemento a essiccazione immediata che faceva parte della cassetta di attrezzi di ogni veicolo spaziale era stato applicato con cura attorno ai due fori di entrata. Non teneva molto bene, per la verità, ma l’impalpabile pioggia di polvere che penetrava era troppo insignificante per causare allarme. Tuttavia Hansteen pensò che fosse meglio parlarne al capitano.

«Strano» disse Pat, guardando in alto, verso i tubi che si protendevano verso l’interno. «Quel cemento dovrebbe tenere, anche se il tubo vibra un po’.»

Salì sul sedile ed esaminò il tubo dell’aria più da vicino.

Per un momento non disse nulla; poi scese, e aveva un’espressione perplessa, ma anche preoccupata.

«Che succede?» s’informò Hansteen.

Conosceva abbastanza bene Pat, ormai, per leggergli in faccia come in un libro aperto.

«Quel tubo strappa all’insù. Forse qualcuno, sulla piattaforma, l’avrà maneggiato sbadatamente, fatto sta che si è accorciato di un altro centimetro, da quando ho fissato il cemento.»

Poi Pat s’interruppe, improvvisamente stravolto. «Misericordia» bisbigliò. «E se fosse colpa nostra… Se fossimo noi che stiamo affondando!»

«E con questo?» replicò il commodoro, senza scomporsi. «C’è da aspettarselo, che la polvere continui ad assestarsi sotto il nostro peso. Questo significa che siamo in pericolo. A giudicare da quel tubo, saremmo scesi di un centimetro in ventiquattro ore. Eventualmente, possono calarci ancora un po’ di, tubo.»

Pat rise, un po’ mortificato.

«Dev’essere così. Avrei dovuto pensarci subito. Probabilmente abbiamo continuato ad affondare lentamente fin dal primo istante, solo che prima non potevamo accorgercene. Comunque, è meglio che faccia rapporto all’ingegnere. Gli servirà saperlo per i suoi calcoli.»

Pat fece per avviarsi verso l’attrezzatura radio, ma non poté arrivarci.


La natura aveva impiegato un milione di anni a preparare la trappola che aveva inghiottito il Selene trascinandolo sotto la polvere del Mare della Sete. La seconda trappola il Selene se l’era preparata da sé, e in brevissimo tempo.

Il battello, progettato per compiere solo brevi percorsi di poche ore, non era stato corredato degli impianti ingegnosi grazie ai quali le navi spaziali rimettono in ciclo tutta la loro provvista d’acqua. Il Selene non aveva bisogno di conservare le sue risorse, come fanno le navi spaziali; il piccolo quantitativo d’acqua, normalmente usato e prodotto a bordo, veniva tranquillamente espulso.

In quei cinque giorni, parecchie centinaia di chili di liquido e di vapore erano stati scaricati dal Selene, per venire immediatamente assorbiti dalla polvere che lo circondava. Già da molte ore la polvere nelle immediate vicinanze dei tubi di scarico si era saturata ed era diventata fango. Sgocciolando all’ingiù attraverso una quantità di piccoli canali, quell’acqua aveva irrigato il mare circostante. Silenziosamente, metodicamente, il battello aveva lavato via le proprie fondamenta. La leggera spinta del cassone in arrivo aveva fatto il resto.

Sulla piattaforma il primo segnale di disastro fu l’ammiccare improvviso di una luce rossa nell’impianto depuratore, sincronizzata con l’ululato di un radioclacson su tutte le lunghezze d’onda delle tute spaziali. L’ululato cessò appena il tecnico addetto schiacciò il bottone di arresto, ma la luce rossa continuò a lampeggiare.

A Lawrence bastò un’occhiata ai quadranti per capire cos’era successo. I due tubi dell’aria non erano più collegati al Selene. Il depuratore soffiava ossigeno nel mare e, quel che era peggio, aspirava polvere. Lawrence si domandò quanto tempo ci sarebbe voluto per ripulire i filtri, ma accantonò subito quel problema. Era troppo occupato a chiamare il battello.

Nessuna risposta. Lawrence tentò inutilmente su tutte le lunghezze d’onda usate dal Selene. Il Mare della Sete era tornato totalmente silenzioso.

«È finita» pensò Lawrence, «non c’è più niente da fare. Ormai era questione di poco, ma non ce l’abbiamo fatta. E ci bastava un’ora soltanto…».

Cosa poteva essere successo? Forse lo scafo aveva ceduto sotto il peso della polvere. No… impossibile, la pressione interna dell’aria l’avrebbe impedito. La causa doveva essere un’altra.

Lawrence non ne era certo, ma gli era sembrato di aver sentito tremare la piattaforma sotto di sé.

Mentre il Selene sprofondava, Pat aveva capito che si trattava di un fenomeno molto diverso dal primo avvallamento. Era molto più lento, e dall’esterno dello scafo arrivavano rumori e crepitii che la polvere non poteva produrre.

In alto, i tubi dell’ossigeno venivano lentamente divelti. Non uscirono di colpo, perché lo scafo stava scivolando di poppa, e adesso la cabina era in pendenza. Con un rumore secco di fibreglass che si frantumava, il tubo di poppa venne strappato dal tetto e sparì.

Immediatamente un denso getto di sabbia irruppe nella cabina e si sparse in una nube soffocante.

Il commodoro Hansteen era il più vicino e fu il primo a correre ai ripari. Strappatosi via la camicia, l’appallottolò rapidamente e la ficcò nell’apertura. La polvere schizzava in tutte le direzioni mentre Hansteen lottava per arrestare il flusso; c’era quasi riuscito quando si sfilò il tubo di prua, e le luci principali si spensero mentre, per la seconda volta, il cavo principale veniva divelto.

«Ci penso io!» urlò Pat. Un attimo dopo, anche lui senza camicia, stava adoperandosi per fermare il torrente di sabbia che si riversava dentro attraverso il secondo foro.

Pat aveva solcato il Mare della Sete un centinaio di volte, ma mai prima d’ora era venuto a contatto della strana sostanza con la pelle nuda. La polvere grigia gli entrò negli occhi e nel naso, soffocandolo mezzo e accecandolo quasi del tutto. La sostanza dava una sensazione viscida, come di sapone. Mentre lottava, Pat si accorse di pensare: «Se c’è una morte peggiore dell’annegamento, è quella di venire sepolto vivo!»

Quando il getto si ridusse a un semplice rivolo, Pat capi che per il momento il pericolo era scongiurato. La pressione prodotta da quindici metri di polvere, sotto la bassa gravità lunare, non era difficile da tenere a bada… certo, se il foro fosse stato più largo, sarebbe stata una faccenda molto più seria.

Pat si scosse la polvere dalla testa e dalle spalle, poi aprì cautamente gli occhi. Benedette quelle luci di emergenza, anche se un po’ fioche. Il commodoro aveva già tappato l’altra falla, e adesso stava spruzzando acqua attorno per far depositare la polvere.

La sua tecnica era efficacissima, e le poche nuvole che restavano si trasformavano ben presto in macchie di fango sul ponte.

Hansteen incontrò lo sguardo di Pat.

«Ebbene, capitano, avete qualche teoria in proposito?»

«In certi momenti» pensò Pat, «l’autocontrollo del commodoro è addirittura irritante.» Ma subito si vergognò di quel sentimento, dettato unicamente dall’invidia.

«Non so cosa possa essere accaduto. Forse ce lo spiegheranno quelli lassù.»

C’era una bella salita fino al posto di comando, perché lo scafo era inclinato di oltre trenta gradi. Pat, mentre si sistemava davanti alla radio provava una specie di torpore disperato, che superava ogni altra sensazione provata fino a quel momento. Era una specie di rassegnazione, il convincimento quasi superstizioso che gli dei fossero contro di loro, e che ogni sforzo fosse inutile.

Ne fu più che mai sicuro quando mise in funzione la radio e scoprì che era assolutamente muta. La corrente era staccata; quando il tubo di immissione aveva strappato il cavo dei fili principali, aveva fatto un lavoretto completo.

Pat si girò lentamente sul sedile. Ventun persone lo guardavano ansiose, aspettando notizie, ma di queste, venti Pat non le vide, perché Susan lo fissava, e lui era conscio soltanto dell’espressione di lei. Era l’espressione di chi si prepara ad affrontare il peggio, ma nemmeno ora tradiva alcun segno di paura. Nel guardare Sue, Pat sentì che la sua disperazione si dissolveva. Provò una forza nuova, quasi un senso di speranza.

«Che il diavolo mi porti se ci capisco qualcosa» disse. «Ma di un solo fatto sono sicuro: non siamo ancora perduti. Saremo forse affondati di un altro tratto, ma i nostri amici sulla piattaforma torneranno a raggiungerci. Pazienza, si tratterà di un nuovo ritardo, ma non c’è ragione di preoccuparsi.»

«Non voglio fare il corvo del malaugurio, capitano» osservò Barrett «ma… e se fosse affondata anche la piattaforma?»

«Questo lo sapremo appena avrò riparato la radio» replicò Pat, guardando preoccupato i fili che sfuggivano dal cavo strappato. «E finché non sarò venuto a capo di quegli spaghi lassù, dovrete rassegnarvi all’illuminazione di emergenza.»

«A me non dispiace» disse la signora Schuster. «Anzi, è intima. «Dio vi benedica, signora Schuster» pensò Pat tra sé. Si guardò attorno; era difficile distinguere bene le facce in quel chiarore fioco, ma i passeggeri sembravano calmi.»

Lo erano molto meno un minuto dopo.

Pat, infatti, impiegò solo un minuto per capire che non poteva far niente per riparare le luci e la radio. I fili erano stati strappati in un punto all’interno del cavo principale e mancavano i ferri adatti per raggiungere l’interruzione.

«Il guaio è più serio di quel che credevo» riferì Pat. «Non potremo più comunicare, a meno che non ci calino un microfono per ristabilire il contatto.»

«Il che significa» osservò Barrett, che pareva portato a scovare il lato nero delle cose «che al momento il contatto non c’è. Non capiranno perché non rispondiamo. E se ne deducessero che siamo morti tutti? E abbandonassero le operazioni di soccorso?»

Quell’idea era venuta anche a Pat, ma l’aveva scacciata immediatamente.

«Avete sentito come parla l’ingegner Lawrence, no?» replicò. «Non è certo il tipo che rinuncia alla lotta prima d’avere la certezza assoluta che non ci sia più niente da salvare. Su questo punto, non avete nessun motivo per preoccuparvi.»

«E per l’aria?» domandò angosciato Jayawardene. «Ora siamo rimasti di nuovo senza rifornimento.»

«Dovrebbe durare per parecchie ore, ora che i filtri sono stati rigenerati. E, nel frattempo, quei tubi verranno rimessi a posto» lo rassicurò Pat, mostrando una fiducia che non provava. «Nell’attesa cerchiamo di passare il tempo come possiamo; l’abbiamo fatto per tre giorni, possiamo farlo ancora per qualche ora.»

Si guardò attorno, cercando eventuali segni di disaccordo, e vide uno dei passeggeri alzarsi in piedi. L’ultima persona alla quale Pat avrebbe pensato: il taciturno, solitario signor Radley, che aveva forse detto dieci parole in tutto da quando il viaggio era cominciato.

Sul conto suo, Pat sapeva soltanto che era un amministratore e che veniva dalla Nuova Zelanda: l’unico Paese della Terra ancora un po’ isolato dal resto del mondo, in virtù della propria posizione geografica.

«Volevate dire qualche cosa, signor Radley?» domandò Pat.

«Sì, capitano» rispose Radley. «Ho una confessione da fare. Temo che tutto questo stia succedendo per colpa mia.»


Quando l’ingegnere capo interruppe il suo commento ai lavori, tutti i telespettatori in ascolto compresero che qualcosa non andava. Che cosa, però, nessuno fu in grado di stabilirlo, almeno basandosi sulle immagini. Dopo alcuni secondi di attività fattasi improvvisamente frenetica, le figure in tuta spaziale si erano riunite in gruppo, certo a consulto, e con i circuiti telefonici isolati, in modo che nessuno potesse sentire cosa si stavano dicendo. Era avvilente osservare quella discussione silenziosa e non avere idea di quale fosse l’argomento.

Durante quei lunghi minuti di attesa, mentre lo studio della centrale stava tentando di sapere che cos’era successo, Jules fece del suo meglio per tenere viva l’immagine. Ma era un’impresa rendere interessante la scena statica da tanta distanza e con una sola telecamera. jules aveva perfino domandato se era possibile spostare l’astronave, ma il capitano Anson era stato esplicito. «Non ho nessuna intenzione di saltellare su e giù per le montagne» aveva dichiarato. «Questa è un’astronave, non un camoscio.»

Finalmente l’adunanza si sciolse e gli uomini della piattaforma ristabilirono il contatto telefonico. Ora, forse, Lawrence avrebbe risposto alle chiamate radio che lo stavano bombardando da ben cinque minuti…

«Signore Iddio!» esclamò Spenser. «Non posso crederci! Ma lo vedete cosa stanno facendo?»

«Già» fece il capitano Anson. «E nemmeno io riesco a crederci. Mi pare proprio che stiano sgomberando il campo.»

Come scialuppe che si allontanano da una nave che affonda, le slitte da polvere, cariche di uomini, si stavano scostando dalla piattaforma,


Forse era un bene che il Selene fosse rimasto senza il contatto radio. Sarebbe stato tutt’altro che producente, per il morale dei passeggeri, sapere che le slitte stavano abbandonando il luogo dell’affondamento. Ma al momento nessuno, a bordo, pensava alle squadre di soccorso: Radley era al centro della scena debolmente illuminata.

«Cosa significa: «è tutta colpa mia»?» domandò Pat nell’attonito silenzio che seguì la dichiarazione del neozelandese. Attonito ma non ostile, perché nessuno l’aveva presa sul serio.

«È una storia lunga, capitano» disse Radley, in tono stranamente impersonale. Era come ascoltare un robot, e Pat provava una strana sensazione di malessere. «Non dico d’averlo provocato io, volontariamente. Ma temo che l’incidente sia stato provocato di proposito, e mi dispiace che siate rimasti implicati anche voi. Vedete… loro danno la caccia a me.»

«Non ci mancava altro» pensò Pat. «Abbiamo proprio tutto contro. Ora ci voleva anche un maniaco!»

Poi si rese conto dell’ingiustizia di quel pensiero. Per quanto riguardava i suoi passeggeri era stato proprio fortunato. Solo la Morley gli aveva dato qualche fastidio, ma il commodoro, il dottor McKenzie, gli Schuster, il professor Jayawardene, David Barrett… e tutti gli altri, avevano sempre obbedito senza fare storie.

E poi c’era Sue, che già si stava dando da fare, tranquillamente intenta ai suoi doveri. Solo Pat si accorse che la ragazza apriva l’armadietto dei medicinali e nascondeva nel palmo uno di quei piccoli cilindri che davano la calma del sonno.

Se Radley avesse dato segni di agitazione, Sue sarebbe stata pronta a intervenire.

Al momento, però, il signor Radley pareva calmissimo, in pieno possesso del proprio equilibrio e perfettamente razionale. Sembrava esattamente quello che era: un piccolo contabile di mezz’età che si era preso una vacanza sulla Luna.

«Molto interessante quello che dite, signor Radley» osservò il commodoro, in tono disinvolto «ma perdonate la mia ignoranza: chi sarebbero «loro», e perché dovrebbero avercela con voi?»

«Sono sicurissimo, commodoro, che avrete già sentito parlare dei dischi volanti.»

«Sì, certo» rispose il commodoro. «Ho letto qualcosa su certi vecchi manuali di astronautica. Circa ottant’anni fa erano una specie di fissazione, vero?»

«Oh, se è per questo risalgono a molto tempo prima, ma solo nel secolo scorso la gente cominciò a notarli. C’è un vecchio manoscritto trovato in una abbazia inglese, del milleduecentonovanta, che ne descrive uno in tutti i particolari…»

«Un momento, scusate» interruppe Pat. «Che diavolo significa «disco volante»? Io non li ho mai sentiti nominare.»

«Temo, capitano, che la vostra istruzione sia stata parecchio trascurata» commentò Radley in tono addolorato. «Il termine «disco volante» entrò nell’uso generale dopo il millenovecentoquarantasette, per descrivere gli strani, insoliti veicoli spaziali a forma di piatto che da secoli compivano missioni di ricognizione sul nostro pianeta. Alcuni preferivano usare la definizione di «oggetti volanti non identificati».»

«Ma credete davvero che attorno alla Terra si aggirino visitatori venuti dallo spazio?» intervenne uno dei passeggeri, con fare scettico.

«Credo qualcosa di più» ribatté Radley. «Spesso quei dischi sono atterrati e hanno preso contatto con gli esseri umani. Prima che noi arrivassimo qui, avevano una base sull’altra faccia della Luna, poi la distrussero quando i primi razzi cominciarono a fotografare il satellite.»

«Ma voi come lo sapete?» domandò un altro. Radley sembrava indifferente allo scetticismo degli ascoltatori; doveva essere abituato a quell’atteggiamento. Lui però irradiava una specie di fede interna che, per infondata che fosse, riusciva stranamente convincente. Il poveretto spaziava nelle sfere oltre la ragione, e quello. stato di esaltazione lo rendeva felice.

«Abbiamo dei contatti» rispose, con importanza. «Alcune persone sono riuscite a stabilire una comunicazione telepatica con quelli dei dischi. E così sappiamo molte cose sul loro conto.»

«E come mai nessun altro è al corrente?» osservò qualcuno incredulo. «Se davvero nello spazio vivono altre creature, come mai i nostri astronomi e i nostri piloti spaziali non li hanno mai visti?»

«Prego! Li hanno visti benissimo» rispose Radley, con un sorrisetto di compatimento. «Ma si guardano bene dal parlarne. C’è una specie di congiura del silenzio tra gli scienziati; non vogliono ammettere che esistano intelligenze superiori alla nostra. Perciò, quando un pilota riferisce di aver visto un disco volante, viene trattato da visionario. Ormai ogni astronauta che ne incontra qualcuno se ne guarda bene dal parlarne.»

«Voi, commodoro, ne avete mai incontrati?» domandò la signora Schuster, evidentemente incline a crederci. «Oppure fate parte anche voi di… come l’ha chiamata il signor Radley? Ah, già… della congiura del silenzio?»

«Spiacente di deludervi» rispose Hansteen «ma tutte le astronavi che ho incontrato erano regolarmente iscritte alla Società di Navigazione.»

Hansteen incontrò lo sguardo di Pat e fece un piccolo cenno che significava: «Andiamo a discutere nel compartimento stagno». Adesso, convinto che Radley era innocuo, il commodoro era quasi contento di quel diversivo che aveva distratto l’attenzione dei passeggeri dalla situazione in cui si trovavano.

«E allora» disse Hansteen, appena il portello stagno li isolò dal resto della compagnia «che cosa ne pensate di quel tipo?»

«Ma lui crede davvero a quelle storie, secondo voi?»

«Certamente. Ho già incontrato tipi come Radley.»

«Be’, la situazione è strana» commentò Pat. «In un momento così drammatico, i passeggeri si mettono a discutere di dischi che volano!»

«Secondo me è un’ottima cosa» osservò il commodoro. «Tanto, cosa volete che facciano? Parliamoci chiaro, Pat: non ci resta che aspettare, finché Lawrence non ricomincerà a battere sul tetto.»

«Se è ancora quassù. Ma, e se avesse ragione Barrett? Forse è affondata anche la piattaforma.»

«Mi sembra poco probabile, la scossa è stata leggerissima. Di quanto credete che siamo sprofondati?»

Pat rifletté. Ripensando all’incidente, gli sembrava che fosse durato un bel pezzo. Ma in quel momento lui, accecato dalla polvere, stava lottando per tappare il buco, quindi aveva i ricordi piuttosto confusi.

«Non saprei… dieci metri, forse.»

«Macché! Tutto è durato due secondi al massimo. Per me, non ci siamo abbassati più di due o tre metri.»

Pat sperò che avesse ragione il commodoro. Sapeva che è estremamente difficile giudicare le deboli accelerazioni, specie nei momenti di tensione. Hansteen era l’unico a bordo che poteva averne una certa pratica; il suo verdetto era probabilmente esatto, e certamente incoraggiante.

«Forse in superficie non se ne sono nemmeno accorti» continuò Hansteen «e probabilmente si domandano come mai non rispondiamo. Siete sicuro che non si possa far niente per riparare la radio?»

«Sicurissimo. I fili si sono spezzati proprio a un’estremità del cavo conduttore. Non c’è modo di raggiungere il punto di rottura.»

«Be’, allora tanto vale tornare da Radley e passare il tempo offrendogli la possibilità di convertirci… se ci riesce.»


Jules aveva ripreso la corsa delle slitte affollate per circa cento metri, quando si rese conto che non tutti gli uomini si trovavano a bordo. Infatti su ogni slitta c’erano sette persone invece di otto.

Ripuntò la telecamera verso la piattaforma e la inquadrò proprio mentre Lawrence metteva fine al suo lungo silenzio.

«Qui l’ingegnere capo» disse Lawrence, in tono stanco. Il tono di chi ha visto crollare tutti i suoi sforzi. «Scusate l’interruzione, ma come avrete capito c’è stato un incidente. Pare che si sia prodotto un altro avvallamento. Non sappiamo quanto sia profondo, comunque abbiamo perso il contatto col Selene che non risponde più alle nostre chiamate. Nella eventualità di una seconda scossa, ho ordinato ai miei uomini di portarsi a qualche centinaio di metri dà qui. Il pericolo non è grave, la scossa non l’abbiamo nemmeno avvertita tutti, ma non è il caso di correre rischi inutili. Per il momento, posso provvedere al necessario senza nessun aiuto.»

Sotto gli sguardi di milioni e milioni di persone, Lawrence si accoccolò sull’orlo della piattaforma, riprendendo la sonda che era servita per localizzare il battello. Aveva venti metri di sonda a disposizione; se non bastavano, avrebbe dovuto escogitare qualcos’altro.

La bacchetta affondò nella polvere. Il segno precedente era già scomparso nella sostanza impalpabile, e la sonda continuava a frugare, come un bisturi affondato nel corpo della Luna. Nel silenzio carico di mormorii della sua tuta spaziale, Lawrence si domandò quanto fosse sprofondato il battello.

La risposta lo fece quasi ridere, ammesso che si potesse ridere in un momento simile. La sonda era penetrata solo di un altro metro e mezzo: una distanza del tutto trascurabile.

Molto più serio era il fatto che il Selene non fosse affondato in modo pari, come Lawrence scoprì dopo altri sondaggi. L’imbarcazione era molto più bassa a poppavia, con un’inclinazione di circa quaranta gradi. Bastava questo a mandare all’aria il suo piano. Lui faceva affidamento sul fatto che il cassone aderisse perfettamente al tetto orizzontale.

Ma per il momento l’ingegnere pensò di accantonare il problema; ce n’era un altro, più urgente. Ora che la radio del Selene era muta, e c’era da sperare che si trattasse solo di un guasto alla corrente, come si poteva stabilire se i passeggeri erano ancora vivi? Forse avevano sentito la sua sonda, ma non potevano comunicarglielo in nessun modo.

Ma sì! Un modo c’era. Il più semplice e primitivo di tutti. Facile dimenticarselo dopo un secolo e mezzo di elettronica.

Lawrence si rialzò e chiamò le slitte in attesa.

«Potete tornare» disse. «Non c’è pericolo. È affondato solo di un paio di metri.»

Aveva dimenticato i milioni di telespettatori. Il nuovo piano d’azione non era ancora delineato, ma Lawrence si stava già rimettendo al lavoro.


Pat e il commodoro ritornarono nella cabina dove ferveva la discussione. Radley, che era stato il passeggero più silenzioso, si stava rifacendo. Una sua molla segreta era scattata, o forse il neozelandese si sentiva sciolto da un giuramento. Forse la spiegazione era questa: convinto che la sua missione fosse stata scoperta, Radley era fin troppo contento di parlarne.

Il commodoro aveva già incontrato degli adepti come Radley. Gli altri passeggeri invece non avevano mai fatto esperienze simili. Perforo Schuster, nonostante la sua abilità, nel contraddittorio non riusciva a metterlo con le spalle al muro.

«Ma vi sembra ragionevole?» stava dicendo Schuster. «Vi pare che, se migliaia di scienziati lo sapessero, nessuno di loro vuoterebbe il sacco? Non si può tener nascosto un segreto di tale importanza. Sarebbe come cercare di nascondere il monumento a Washington!»

«Oh, c’è stato qualche tentativo di rivelare la verità» rispose Radley. «Ma ogni indizio viene regolarmente distrutto, insieme agli uomini che l’hanno rivelato. «Loro» sanno essere spietati, quando è necessario.»

«Ma voi avete detto che «loro» si sono messi in contatto con esseri umani. Non vi sembra una contraddizione?»

«Affatto. Vedete, le forze del bene e del male sono al lavoro in tutto l’universo, proprio come sulla Terra. Alcuni di quelli dei dischi vogliono aiutarci, altri vogliono distruggerci. I due gruppi lottano tra loro da migliaia di anni. A volte il conflitto coinvolge anche la Terra. Fu così che venne distrutta l’Atlantide.»

Hansteen non poté reprimere un sorriso. L’Atlantide, prima o poi, c’entrava sempre.

La teoria dei dischi volanti aveva prosperato tra le menti più balzane dell’umanità per circa dieci anni; poi si era spenta bruscamente, come una epidemia che ha fatto il suo corso. Due fattori, secondo gli psicologi, avevano determinato quell’inaridirsi: la noia e la conquista dello spazio da parte dell’uomo.

È raro, tuttavia, che una teoria muoia del tutto, e un piccolo gruppo di fanatici aveva tenuto vivo il culto con «rivelazioni» fantastiche e l’asserzione di mantenere contatti telepatici con gli «extraterrestri».

«Però non ci avete ancora spiegato» ribatté Schuster «perché quelli dei dischi dovrebbero avercela con voi. Cosa avete fatto per irritarli?»

«Stavo per scoprire alcuni dei loro segreti, e così hanno approfittato di questa occasione per eliminarmi.»

«Avrebbero potuto trovare un modo meno complicato!»

«É sciocco credere che le nostre menti limitate possano capire il loro modo di pensare. Questo incidente aveva tutte le caratteristiche della fatalità. Nessuno avrebbe sospettato che fosse stato provocato ad arte.»

«Ah, capisco. E dato che ormai la cosa non ha più importanza, ci vorreste dire di quali segreti stavate per impadronirvi? Sono sicuro che qui muoiono tutti dalla voglia di saperlo.»

Hansteen diede una rapida occhiata a Irving Schuster. L’avvocato gli era sembrato un tipo solenne, privo di senso dell’umorismo. Quell’ironia sembrava stranamente fuori posto.

«Ma soprattutto» interruppe la signora Schuster, che invece aveva tutta l’aria di prendere Radley sul serio «vorremmo sapere che cosa ci faranno.»

«Vorrei saperlo anch’io, signora» replicò il neozelandese. «Sappiamo solo che hanno delle caverne, giù nelle profondità della Luna, e quasi certamente è là che vogliono trascinarci. Appena vedono che le squadre di soccorso stanno per raggiungerci, colpiscono di nuovo. Ormai temo che siamo precipitati troppo in giù perché i salvatori possano aiutarci.»

«Basta con queste scemenze» pensò Pat. «Finora abbiamo avuto un po’ di distrazione, ma adesso questo mentecatto minaccia di deprimere il morale di tutti. Come si fa per farlo tacere?». La risposta venne da un altro passeggero, sotto forma di un impercettibile cenno.

Harding si alzò dal suo sedile abbastanza vicino a quello di Radley. L’uomo si limitò a starsene in piedi, in silenzio, fissando il neozelandese con espressione indecifrabile. Forse era addirittura di pietà, ma con quella luce fioca Pat non poteva giurarci.

«Mi pare tempo che dica qualcosa anch’io» cominciò Harding. «Almeno una, delle cose che il nostro amico stava dicendo, è esatta. Il signor Radley è stato seguito. Ma non da quelli dei dischi volanti: da me. Per essere un dilettante, signor Wilfred George Radley» continuò Harding, rivolgendosi al neozelandese «meritate le mie congratulazioni. È stata una bella caccia: da Christchurch ad Astrograd, a Clavius City, a Tycho, a Ptolemy, a Plato, a Porto Roris… e infine qui, dove immagino che, in un modo o nell’altro, la vostra fuga abbia termine. Come avrete già capito, sono un investigatore, signor Radley. Per lo più mi occupo di truffe. Un lavoro interessantissimo, anche se, in genere, non posso parlarne con nessuno. Sono proprio contento che mi si presenti un’occasione come questa.»

«Non m’interessano, almeno professionalmente, le strane convinzioni del signor Radley. Vere o no che siano, questo non toglie che Radley fosse un ottimo contabile, il quale nella Nuova Zelanda si guadagnava anche un ottimo stipendio. Non abbastanza alto, però, da consentirgli un viaggio sulla Luna. Ma questo, evidentemente, non era un problema per lui. Dovete sapere che il signor Radley era capo contabile alla filiale di Christchurch della Società Anonima Viaggi Universali. Non si sa ancora come, ma il signor Radley è riuscito a procurarsi un biglietto di Categoria Q, valido per viaggi illimitati in qualunque parte del Sistema Solare, per alloggiare gratuitamente negli alberghi e nei ristoranti, per incassare assegni a vista fino a cinquecentomila dollari. Non ce ne sono molti, in giro, di questi biglietti, e vengono concessi con la massima cautela, neanche fossero di plutonio.

«Già altri avevano tentato qualche piccolo trucco del genere. Spesso i clienti smarriscono la tessera, e qualche intraprendente si diverte per qualche giorno prima di venire acciuffato. Ma solo per pochi giorni; il sistema di controllo della S.A.V.U. è molto efficiente, e fino a ora il più fortunato l’ha fatta franca per una sola settimana.»

«Nove giorni» corresse subito il signor Radley.

«Scusate… voi siete certo meglio informato di tutti. Bene, nove giorni. Ma Radley se l’è spassata per tre settimane prima che riuscissimo a scoprire dov’era. Si era preso le ferie annuali e in ufficio aveva detto che andava in vacanza nell’Islanda del Nord. Invece è andato ad Astrograd, e di là è partito per la Luna, segnando un precedente nella storia. Infatti Radley è il primo uomo, e speriamo anche l’ultimo, che sia riuscito a lasciare la Terra senza spendere un soldo di tasca sua. Ora, noi vogliamo sapere come ha fatto a eludere i controlli automatici per il rilascio del documento. Aveva un complice nell’ufficio di programmazione della calcolatrice elettronica? Spero, Radley, che vorrete avere la bontà di raccontarmi tutto. E il minimo che possiate fare, viste le circostanze, non fosse altro che per soddisfare la mia curiosità.»

«Mi dispiace» rispose Radley, non senza dignità. «La Ditta mi ha sempre trattato bene, e mi è dispiaciuto truffarla. Ma si trattava di una buona causa, e se avessi potuto raccogliere le prove che cercavo…»

In quel momento, tutti, salvo l’investigatore Harding, persero ogni interesse per Radley e per i suoi dischi volanti. Il rumore atteso con ansia si era fatto finalmente sentire.

La sonda di Lawrence aveva urtato contro il tetto del Selene.


«Mi sembra di essere qui da un’eternità» pensava Maurice Spenser «eppure il sole è ancora basso all’ovest, da dove nasce su questo mondo strano. E mancano ancora tre giorni a mezzogiorno! Quanto tempo dovrò restare appollaiato quassù, ad ascoltare i racconti spaziali del capitano Anson e a contemplare quella piattaforma laggiù, con i suoi due igloo gemelli?»

Domanda senza risposta. E d’altra parte sarebbe stato assurdo abbandonare il campo. Prima o poi, ci sarebbe stata ancora una scena da riprendere: drammatica, se tutto andava bene, tragica, se le cose si mettevano al peggio. Le slitte da polvere dovevano pur tornare a Porto Roris, con o senza i ventidue del Selene. Nel frattempo bisognava aspettare, perché ora l’attività più interessante si svolgeva all’interno di un igloo, e Lawrence rifiutava ostinatamente di ospitare una telecamera sulla piattaforma. Dopo quello che era successo, Spenser non osava dargli torto.

Appena ritrovata l’esatta collocazione del Selene, Lawrence aveva ricominciato a perforare. Sul monitor, Spenser vedeva il piccolo tubo dell’ossigeno compiere la sua seconda discesa nella polvere. «Perché Lawrence perde tempo con l’ossigeno» si domandava Spenser «se non sa nemmeno se quelli laggiù sono vivi o morti? E come farà a saperlo, ora che la radio non funziona?»

Anche i telespettatori si ponevano la stessa domanda, e forse qualcuno conosceva la risposta. Eppure, la trovata di Lawrence non sarebbe mai venuta in mente a quelli del Selene, nemmeno allo stesso commodoro.

Appena si udirono i pesanti tonfi sul tetto, a bordo tutti capirono che stavolta non si trattava dello scandaglio. E quando, circa un minuto più tardi, sentirono l’inconfondibile ronzio della punta perforante, si sentirono come condannati che hanno ricevuto la grazia all’ultimo istante.

I passeggeri guardavano, quasi ipnotizzati, mentre le prime scaglie cadevano dal soffitto. Appena la punta del trapano apparve, e il tubo discese per venti centimetri all’interno della cabina, si levò un’esclamazione di gioia.

«E adesso?» si domandò Pat. «Non possiamo comunicare, quindi come faccio a sapere quando è il momento di svitare il trapano? Non voglio commettere lo stesso errore per la seconda volta…»

Incredibilmente forte, nel silenzio teso e assoluto, risonò quel ti ta ti ta che nessuno di quelli del Selene avrebbe dimenticato per tutto il resto della vita. Era il segnale di chiamata precedente l’inizio di una trasmissione in codice Morse. Pat rispose immediatamente, battendo sul tubo con un paio di pinze i cinque segnali corrispondenti alla frase «ho capito». Non aveva mai creduto che Lawrence li avesse abbandonati, tuttavia adesso era più tranquillo.

Il tubo trasmise di nuovo, stavolta più lentamente.

Era una seccatura dovere imparare il Morse: in quei tempi sembrava un vero anacronismo, e tra i piloti e i navigatori spaziali c’erano state molte proteste, contro quell’inutile perdita di tempo. In tutta una vita, il Morse poteva servire sì e no una volta.

Ma qui stava il punto: «quella volta» poteva essere decisiva.

Ti ti ti, trasmetteva il tubo, ti ti ti ta, una pausa, ti ti, pausa, ta, pausa, ti ta, pausa, ti ta ti, pausa, ti.

Pat e il commodoro, sebbene giù di esercizio, avevano capito il messaggio.

«Ci avvertono che possiamo svitare il trapano» disse Pat. «Bene, ecco fatto.»

La breve perdita d’aria comunicò a tutti un istante di panico. Poi la pressione si stabilizzò. Ora il tubo si apriva sul mondo su in alto, e ventidue persone aspettavano ansiose che arrivasse la prima ventata di ossigeno.

Invece, il tubo parlò. Dall’orifizio aperto arrivò una voce, rimbombante e sepolcrale ma perfettamente chiara. Risonò così forte e inaspettata, che tutti, a bordo del Selene, sobbalzarono. Quella gente, salvo poche eccezioni, non aveva mai sentito un tubo parlare. Erano cresciuti nella convinzione che solo grazie all’elettronica le voci potessero venire trasmesse attraverso lo spazio. La rimessa in uso di quel sistema antiquato era per loro una vera novità, come lo sarebbe stata un telefono per gli. antichi greci.

«Qui parla l’ingegnere capo. Mi sentite?»

Pat chiuse le mani a coppa intorno all’apertura e rispose lentamente:

«Vi sentiamo forte e chiaro e voi ci sentite?»

«Perfettamente. State bene?» Sì. Cos’è successo?

«Siete sprofondati di un paio di metri, non di più. Qui ce ne siamo accorti solo perché i tubi si sono staccati. Come va l’aria?»

«È ancora respirabile, ma più presto comincerete a rifornirci, meglio sarà.»

«State tranquilli, ricominceremo a pompare appena avremo ripulito i filtri e appena arriverà un altro trapano da Porto Roris. Quello che avete appena svitato era l’unico di scorta, ed è stata una fortuna che l’avessimo portato.»

«Dunque ci vorrà un’altra ora prima che il rifornimento d’aria possa essere assicurato» pensò Pat, Ma non era quello il problema che lo preoccupava. Sapeva che Lawrence aveva progettato di liberarli, ma capiva anche che adesso quel piano non era più realizzabile perché il Selene aveva perso la sua posizione orizzontale.

«Come farete a raggiungerci?» domandò, trattenendo il respiro.

Ci fu solo una breve esitazione da parte di Lawrence.

«Non ho ancora studiato i particolari, comunque aggiungeremo un’altra sezione al cassone e continueremo a farlo scendere finché vi avrà raggiunto. Poi cominceremo a vuotarlo dalla polvere finché arriveremo sul fondo. Questo ci porterà a pochi centimetri da voi; in un modo 0 nell’altro, elimineremo anche quel dislivello. Però, prima dovete fare una cosa.»

«Sì?»

«Sono sicuro al novanta per cento che ormai siete stabilizzati, ma se per caso doveste assestarvi ulteriormente, preferisco che lo facciate subito. Dovete mettervi a saltare tutti insieme, per un paio di minuti.»

«E non sarà pericoloso?» obiettò Pat. «Se poi il tubo venisse strappato via di nuovo?»

«Tapperete il buco come avete fatto prima. Un forellino di più non conta, ma un altro spostamento conterebbe, e come, se si verificasse mentre stiamo aprendo un passaggio nel tetto per farvi uscire.»

Il Selene aveva già assistito a molti spettacoli strani, ma quello fu indubbiamente il più strano. Ventidue persone, uomini e donne, si misero a saltare con aria serissima, su e giù, all’unisono, sollevandosi fino al tetto e tornando giù con tutta la violenza possibile. Pat, intanto, non perdeva di vista il tubo che comunicava col mondo esterno; dopo un minuto di quella faticosa ginnastica da parte dei passeggeri, il Selene era affondato per meno di due centimetri.

Pat fece rapporto a Lawrence, che sospirò di sollievo. Ora poteva dirsi ragionevolmente sicuro dell’assestamento definitivo del battello, cominciava a sperare di poter tirar fuori quella gente.

Come, non lo sapeva ancora con esattezza, ma già il piano prendeva forma nella sua mente.

Nelle dodici ore che seguirono, il progetto venne perfezionato nei minimi particolari, con l’aiuto del Consorzio Cervelli e gli esperimenti nel porticciolo di Porto Roris.


«È un bel problema» disse Tom Lawson. «La parte inferiore del cassone è aperta alla polvere, perché l’inclinazione del tetto gli impedisce di combaciare totalmente. Prima di aspirare la polvere, dovremo chiudere quell’apertura, se no il grosso tubo tornerebbe a riempirsi dal basso via via che noi procedessimo a vuotarlo.»

Tom s’interruppe e sorrise con aria maliziosa ai milioni di telespettatori, quasi sfidandoli a risolvere il problema presentato. Lasciò che il pubblico in ascolto si lambiccasse ben bene, poi mostrò il modellino posato sul tavolo dello studio televisivo. Era un modellino semplicissimo, ma Lawson ne era molto orgoglioso, perché l’aveva fatto lui. Nessuno avrebbe immaginato che si trattava di un semplice pezzo di cartone dipinto con vernice argentea.

«Questo tubo» spiegò «rappresenta una sezione del cassone che al momento conduce fino al Selene e che, come vi dicevo, è pieno di polvere. Questo, invece» e con l’altra mano Lawson prese un altro cilindro, chiuso a una delle estremità «entra giusto giusto dentro il primo, come un pistone. È molto pesante e tenderà ad affondare sotto il proprio peso. Ma non potrà, naturalmente, finché la polvere al di sotto farà resistenza.»

Tom girò il pistone finché la parte chiusa fu rivolta verso la telecamera. Col dito premette nel centro della superficie circolare, aprendo in essa una piccola botola.

«Questa agisce da valvola. Quando è aperta, la polvere vi può fluire attraverso, e il pistone può affondare giù per il cilindro esterno. Appena il pistone toccherà il fondo, la valvola verrà chiusa per mezzo di un comando dall’alto. Così, il cassone resterà chiuso e noi potremo estrarne la polvere. Sembra una sciocchezza, vero? E invece non lo è. Esistono almeno una cinquantina di problemi marginali, di cui non ho parlato. Per esempio: il cassone, una volta vuotato, tenterà di balzare alla superficie grazie a una spinta dal basso di parecchie tonnellate. L’ingegnere capo Lawrence ha ovviato l’inconveniente studiando un ottimo sistema di ancoraggio.»

«Vi rendete conto, naturalmente, che quando questo cilindro sarà stato vuotato dalla polvere, ci sarà ancora quella breve distanza da coprire tra la sua estremità inferiore e il tetto inclinato del Selene. Come l’ingegner Lawrence pensi di risolvere il problema, proprio non so. Però vi prego di non inviarci altri consigli. Ne abbiamo ricevuti a sufficienza da bastare per una vita intera!

«Bene, signori. Se ho interpretato correttamente i segnali che mi stanno facendo, siamo in partenza per il Mare della Sete, per vedere come vanno le cose sulla piattaforma e se il pistone funziona.»

Lo studio provvisorio installato nell’albergo di Porto Roris svanì dallo schermo, e al suo posto apparve un’immagine ormai nota a tutta la razza umana.

Ora c’erano tre igloo accanto alla piattaforma, e il sole che si rifletteva sulle lucide superfici esterne li faceva sembrare tre gigantesche gocce di mercurio. Una delle slitte era ferma accanto al più grande; le altre due facevano la spola, continuando a trasportare materiale da Porto Roris.

Il cassone sporgeva dal mare come la bocca di un pozzo. La sua estremità sporgeva dalla polvere di soli venti centimetri, e l’apertura sembrava troppo stretta perché un uomo potesse entrarvi. In effetti, sarebbe stato quasi impossibile a un uomo in tuta spaziale, ma la parte cruciale di questa operazione andava eseguita senza tuta.

A intervalli regolari, una benna spariva nel pozzo e veniva poi issata alla superficie da una piccola gru molto robusta. A ogni viaggio, la benna veniva spostata dall’apertura e scaricava il suo contenuto nel mare. Per un istante il piccolo tumulo grigiastro restava in provvisorio equilibrio sulla distesa piatta del mare, poi si abbassava lentamente, svanendo del tutto prima che il carico seguente emergesse dalla bocca del pozzo. Con più efficacia di qualsiasi descrizione, quel fenomeno spiegava ai telespettatori tutto ciò che bisognava sapere sul Mare della Sete.

Ora la benna impiegava maggior tempo per i suoi viaggi, perché pescava sempre più in giù. E venne finalmente il momento in cui risaliva mezza vuota. La via per il Selene era aperta… salvo quel piccolo ostacolo, proprio al termine.


«Siamo ancora di ottimo umore» disse Pat, nel microfono che era stato calato lungo il tubo dell’aria. «Certo, abbiamo preso un brutto spavento quando c’è stato quel secondo avvallamento, ma adesso siamo sicuri che in breve ci tirerete fuori di qua. Non dimenticheremo mai» aggiunse, un po’ commosso e imbarazzato «gli sforzi fatti da tutti per aiutarci. Comunque vadano le cose, desideriamo ringraziarvi. Siamo sicuri che sia stato tentato tutto il possibile. E adesso, cederò il microfono, perché molti di noi desiderano inviare messaggi. Con un po’ di fortuna, questa sarà l’ultima trasmissione dal Selene.»

Dall’alto, arrivò un tonfo sordo. Poteva significare una sola cosa: la benna aveva raggiunto il fondo del pozzo, e il cassone era vuoto. Ora poteva venire collegato a uno degli igloo ed essere riempito d’aria.

Ci volle più di un’ora per completare l’operazione ed effettuare tutte le prove necessarie. Uno degli igloo appositamente modificato aveva nel pavimento un foro abbastanza largo per lasciar passare l’estremità sporgente del cassone. La vita dei passeggeri del Selene, nonché quella degli uomini addetti alle operazioni di soccorso, poteva dipendere dalla perfetta tenuta di quel raccordo.

L’ingegnere capo Lawrence si assicurò della messa in opera, poi si tolse la tuta e si avvicinò alla bocca del pozzo. Tenendo una torcia elettrica sospesa sull’apertura, scrutò nel tubo che sembrava sprofondare all’infinito. Invece, il fondo era a soli diciassette metri. Perfino con la bassa gravità lunare, un oggetto avrebbe impiegato solo pochi secondi ad arrivare al battello.

Lawrence si girò verso gli assistenti: erano in tuta, ma con la piastra facciale abbassata. Se qualcosa andava male, quelle piastre potevano essere richiuse in una frazione di secondo, e gli uomini dentro la tuta avrebbero avuto buone probabilità di salvarsi. Ma per Lawrence non ci sarebbe stata speranza. Né per le ventidue persone a bordo del Selene.

«Sapete quel che dovete fare» disse Lawrence. «Se mi serve risalire in fretta, isserete la scala di corda tutti insieme. Nessuna domanda?»

Nessuna. Tutto era stato già studiato fin nei minimi particolari. Un cenno ai suoi uomini, un coro di «Buona fortuna» in risposta, e Lawrence si calò dentro l’imboccatura del pozzo.

Si lasciò cadere per un buon tratto, aggrappandosi di tanto in tanto alla scala di corda per frenare la caduta. Sulla Luna si poteva scendere a quel modo quasi senza pericolo, data la bassa gravità, ma era meglio essere prudenti. Infine toccò il fondo con un lieve rimbalzo. Là si accoccolò sulla piccola piattaforma di metallo, non più larga del coperchio di un tombino, e la esaminò attentamente.

Sotto i suoi piedi, a pochi centimetri di distanza, c’era il tetto inclinato del battello. Il problema era di far combaciare l’estremità orizzontale del pozzo con il tetto in pendenza dell’imbarcazione in maniera che il contatto fosse a perfetta tenuta.

Lawrence non vedeva nessuna pecca nel piano architettato dai migliori ingegneri della Terra e della Luna. Ma la teoria è una cosa, la pratica è un’altra.

C’erano dei grossi galletti scaglionati lungo la circonferenza del disco metallico sul quale Lawrence poggiava. L’ingegnere cominciò ad avvitarli uno alla volta, come un suonatore di tamburo intento ad accordare lo strumento. Connessa alla parte inferiore della piattaforma c’era una breve sezione di tubo pieghevole, largo quasi quanto il cassone, e ora completamente ripiegato. Costituiva un raccordo flessibile, abbastanza largo perché un uomo potesse passarvi, e si stava estendendo lentamente, via via che Lawrence regolava le viti. Una parte del tubo pieghevole doveva tendersi per quarantacinque centimetri, prima di raggiungere il tetto in pendenza; l’altra doveva tendersi di pochi centimetri. La preoccupazione principale di Lawrence era che la resistenza della polvere impedisse alla fisarmonica di aprirsi, ma le viti stavano avendola vinta sulla pressione contraria.

Ora erano tutte strette al massimo. L’estremità inferiore del raccordo a fisarmonica doveva essere giunta a contatto del tetto del Selene, al quale aderiva, almeno così si augurava Lawrence, per mezzo del rivestimento in gomma concava che correva tutto intorno all’orlo. Fino a che punto quella gomma tenesse, lo si sarebbe visto presto.

Lawrence guardò in su, lungo la colonna del pozzo. Non vedeva niente oltre il chiarore della lampada portatile che dondolava a due metri sopra la sua testa, ma la scala di corda che si stendeva verso l’alto bastava a rassicurarlo.

«Ho abbassato il raccordo pieghevole» urlò ai suoi invisibili assistenti. «Pare che aderisca al tetto. Ora apro la valvola.»

Un piccolo errore a questo punto, e l’intero pozzo sarebbe stato inondato dalla polvere, forse in modo irreparabile.

Con la massima cautela, Lawrence sbloccò la botola che aveva permesso alla polvere di fluire attraverso il pistone durante la discesa. Non ci fu nessun segno di inondazione. Il tubo pieghevole sotto i suoi piedi riusciva egregiamente a tenere indietro il Mare della Sete.

Lawrence allungò una mano attraverso la botola, e le sue dita toccarono il tetto del battello, ancora nascosto da un leggero strato di polvere, ma ormai a una sola spanna di distanza. Pochi risultati, in tutta la sua carriera, gli avevano procurato la soddisfazione di questo. L’impresa non poteva dirsi compiuta, ma il disgraziato Selene era stato raggiunto!

L’ingegnere batté tre volte sul tetto; immediatamente ricevette la risposta. Era inutile iniziare una conversazione Morse, perché volendo si poteva benissimo comunicare direttamente, attraverso il circuito radio; ma Lawrence sapeva che quei colpi avrebbero avuto un effetto psicologico molto più forte. Era la prova, per le persone prigioniere dentro lo scafo, che la salvezza era ormai a pochi centimetri.

Ma c’erano altri ostacoli importantissimi da eliminare. Prima di tutto, la piattaforma che chiudeva il pistone. Ormai aveva servito allo scopo, che era quello di trattenere la polvere mentre il cassone veniva vuotato, e doveva essere rimosso per poter liberare i passeggeri del Selene Questo però andava fatto senza compromettere la stabilità del raccordo flessibile.

A questo scopo, il fondo circolare del pistone era stato costruito in modo da poter essere sollevato, come un coperchio di casseruola, svitando otto grossi bulloni. Lawrence impiegò pochi minuti per svitare i bulloni e assicurare un cavo al disco ormai staccato, poi gridò: «Tiratelo su!»

Un uomo più grasso di lui si sarebbe dovuto arrampicare su per il pozzo fino in cima per permettere al disco di risalire, Lawrence invece si limitò ad appiattirsi contro la parete circolare mentre la piastra di metallo, muovendosi un po’ di traverso, passava. «Se ne va l’ultima linea di difesa» pensò l’ingegnere, guardando il disco sparire verso l’alto. Ora sarebbe stato impossibile sigillare di nuovo il pozzo, nel caso che il raccordo avesse ceduto lasciando via libera alla polvere.

«Secchio!» gridò. Il secchio stava già scendendo.

«Quarant’anni fa» pensò Lawrence «giocavo su una spiaggia della California col secchiello e la paletta, facendo castelli di sabbia. Ora sono sulla Luna, sono nientedimeno che l’ingegnere capo del Lato Terra, e sto qui a spalare la polvere con la massima serietà, mentre l’umanità intera segue quello che faccio.»

Quando il primo secchio venne issato, Lawrence aveva messo allo scoperto una parte considerevole del tetto del Selene. La quantità di polvere intrappolata all’interno del raccordo pieghevole era trascurabile, e bastarono due secchi a sgomberarla.

Ora davanti a lui c’era il tessuto alluminato dello schermo solare, tutto accartocciato sotto la pressione della polvere. Lawrence lo tagliò via senza difficoltà, mettendo allo scoperto la superficie ruvida dello scafo esterno. Tagliare anche quella con una piccola sega elettrica sarebbe stato facilissimo. Purtroppo sarebbe stato anche fatale. Quando il tetto era rimasto danneggiato dalla seconda scossa, la polvere doveva essersi accumulata nell’intercapedine tra i due strati. Prima di poter entrare nel Selene, quel deposito sottile ma pericoloso di polvere andava in qualche modo neutralizzato.

Lawrence batté contro il tetto. Come immaginava, il suono era attutito dalla polvere. Ciò che non immaginava, era di ricevere in risposta un tamburellare frenetico e atterrito.

Questo, Lawrence lo comprese subito, non era il rassicurante segnale di «Tutto bene». Prima ancora che gli uomini dall’alto potessero comunicargli la notizia, l’ingegnere aveva già intuito che il Mare della Sete stava facendo un ennesimo tentativo per trattenere la sua preda.


Karl Johanson, ingegnere nucleare, aveva un olfatto finissimo. Fu lui ad accorgersi che c’era in arrivo un’altra catastrofe. Rimase immobile per alcuni secondi, poi disse al suo vicino:

«Permettete un istante» e si avviò senza fretta verso la toilette. Non voleva causare il panico senza che ce ne fosse bisogno, specialmente ora che i salvatori erano così vicini. Ma l’esperienza professionale gli aveva insegnato a non ignorare l’odore di bruciato.

Rimase nella toilette meno di quindici secondi. Quando ne uscì camminava con passo spedito, ma non tanto da causare l’allarme. Si avvicinò a Pat Harris, che stava parlando col commodoro, e interruppe la conversazione senza cerimonie.

«Capitano, andiamo a fuoco. Controllate nella toilette. Non l’ho detto a nessun altro.»

Un istante dopo, Pat era sparito, e Hansteen con lui. Nello spazio, come sul mare, nessuno perde tempo a discutere quanto sente la parola «fuoco».

La toilette era come tutte le altre installate sui veicoli di terra, di aria o di mare; senza cambiare posizione si riusciva a toccarne tutte le pareti. Ma la parete posteriore, proprio sopra il lavandino, non era più possibile toccarla. La fibreglass era incenerita dal calore, e si stava sgretolando sotto lo sguardo atterrito dei due spettatori.

«Tra un minuto sarà bell’e andata» disse il commodoro. «Cosa sarà successo?»

Ma Pat era già scomparso. Tornò dopo pochi secondi, con due piccoli estintori.

«Commodoro, andate a comunicarlo alla piattaforma. Dite loro che forse ci restano solo pochi minuti. Resterò qui, in caso che la parete ceda.»

Hansteen obbedì senza perdere tempo.

Un momento dopo Pat lo senti trasmettere il messaggio nel microfono, e senti l’improvviso tumulto che si levava tra i passeggeri. Subito dopo la porta si aprì e apparve McKenzie.

«Posso essere utile?»

«Non credo» rispose Pat, tenendo pronto l’estintore. Sentiva un curioso intorpidimento, come se tutto questo non stesse capitando a lui, ma fosse un sogno dal quale presto si sarebbe svegliato. Forse ormai era al di là della paura. Ne aveva passate tante che era incapace di provare emozioni. Poteva ancora sopportare, ma non poteva più reagire.

«Che c’è dietro quella parete?» domandò McKenzie.

«Il generatore principale di corrente.»

«Allora si spiega. La nostra scorta di energia se ne va in calore. Probabilmente sta bruciando fin da quando i fili si sono strappati.»

La spiegazione sembrava logica. L’imbarcazione era a prova d’incendio, quindi non c’era pericolo di una combustione normale. Ma gli accumulatori producevano energia sufficiente a farla viaggiare per ore e ore alla massima velocità, e se quell’energia si consumava in calore puro, i risultati potevano essere catastrofici.

Eppure era impossibile! Un sovraccarico simile avrebbe immediatamente messo in funzione gli interruttori automatici di sicurezza. A meno che, per qualche misteriosa ragione, non si fossero guastati.

Ma non erano guasti, come McKenzie riferì dopo aver controllato.

Hansteen tornò per fare rapporto. «Dice Lawrence che il passaggio sarà pronto tra dieci minuti. Possiamo aspettare?»

«Lo sa il Cielo» rispose Pat. «Dipende da come dilaga il fuoco.»

«Ma non ci sono dispositivi antiincendio nel compartimento?»

«Non servirebbero… Questa è la nostra paratia a pressione, e normalmente dall’altra parte c’è il vuoto, il miglior elemento antiincendio che esista.»

«Ora ci sono!» esclamò McKenzie. «Il compartimento è allagato. Quando il tetto è stato forato e sono saltati via i» tubi, la polvere è penetrata nell’intercapedine. p la polvere che ha creato il corto circuito.

McKenzie aveva ragione. Purtroppo Pat sapeva che il contenuto di ferro meteorico della polvere era buon conduttore di elettricità. Al di là della paratia dovevano esserci veri e propri fuochi d’artificio.

«Qui non possiamo fare niente» osservò il commodoro. «Nemmeno gli estintori servono a molto. Faremmo meglio a uscire e a bloccare l’intero compartimento. La porta farà da isolante e ci concederà un po’ di vantaggio.»

Pat esitò.

Il calore era quasi intollerabile, ormai, ma gli sembrava una viltà abbandonare il campo. D’altra parte, Hansteen non aveva torto; se lui fosse rimasto lì finché il fuoco riusciva a passare, probabilmente sarebbe rimasto asfissiato dal fumo.

«D’accordo… usciamo» acconsentì. «Vedremo se ci riuscirà di costruire una specie di barricata al di là di questa porta.»

Era sicuro che non ci sarebbe stato molto tempo per pensarci; già poteva sentire il crepitio del fuoco dietro la paratia che ancora teneva a bada quell’inferno.


La notizia che il Selene era in fiamme non alterò il comportamento di Lawrence. Più in fretta di così non poteva procedere. Poteva solo non arrendersi e sperare di precedere l’incendio.

L’apparato che ora scendeva dall’alto sembrava una versione ingrandita di quelle siringhe che si usavano una volta per decorare le torte. Ed era realmente una specie di enorme siringa. Conteneva un composto di silicio a pressione altissima. Al momento il composto era allo stato liquido, ma non lo sarebbe rimasto per molto.

Il primo problema di Lawrence era di introdurre il liquido nell’intercapedine dello scafo senza lasciar sfuggire la polvere.

Usando una piccola pistola sparachiodi, infilò sette bulloni cavi nello scafo esterno del Selene: uno al centro della sezione circolare scoperta, gli altri sei scaglionati lungo la circonferenza.

Applicò la siringa al bullone centrale e schiacciò lo stantuffo.

Poi, con la massima rapidità, ripeté l’operazione negli altri sei. Ora la sostanza si sarebbe espansa in modo quasi uniforme tra i due scafi, formando una specie di torta del diametro di circa un metro. No… non una torta, un soufflé, perché la sostanza si sarebbe trasformata in spuma nell’attimo in cui usciva dalla siringa. Pochi secondi dopo avrebbe cominciato a solidificarsi.

Lawrence guardò l’orologio. In cinque minuti quella spuma sarebbe diventata solida come roccia, ma porosa come pomice.

Non si poteva far niente per abbreviare quei cinque minuti; tutto dipendeva dal fatto che la sostanza prendesse la consistenza voluta. Un errore suo di tempo o di dose, o un errore dei chimici alla Base, e quelli del Selene sarebbero stati spacciati.

Usò i cinque minuti per rimettere ordine nel pozzo e rimandare su tutto il materiale usato, finché sul fondo rimase solo lui, senza altro attrezzo che le sue mani. Se Maurice Spenser avesse potuto affacciare una telecamera in quel piccolo spazio, e per poterlo fare avrebbe fumato perfino un patto col diavolo, i telespettatori sarebbero stati assolutamente incapaci di predire la prossima mossa dell’ingegnere capo.

Ancora più sconcertati sarebbero rimasti, poi, se avessero visto che nel pozzo veniva calato una specie di cerchio per bambini. Ma non si trattava di un giocattolo: era la chiave che avrebbe aperto il Selene.


Sue aveva già raggruppato i passeggeri a prua, e cioè nel punto in cui la cabina era maggiormente inclinata. Tutti stavano là in formazione serrata, fissando il soffitto e sperando di captare qualche rumore incoraggiante.

Pat pensava che ne avessero tutti molto bisogno. Anche lui ne aveva bisogno, perché era l’unico a sapere, oltre forse ad Hansteen e McKenzie, la portata del pericolo che incombeva su di loro.

Il Selene ormai era una bomba già innescata. Vero che il processo di trasformazione dell’energia in calore era lento, e che il calore non poteva scoppiare, ma purtroppo non si poteva dire la stessa cosa dei serbatoi di ossigeno liquido. Quando l’aumento del calore avesse fuso i serbatoi, l’esplosione ci sarebbe stata. Piccola forse, ma sufficiente a mandare in pezzi il Selene.

Pat non vedeva motivo di parlarne con Hansteen, il quale stava già erigendo le sue barricate. I sedili, svitati dal loro posto, venivano ammucchiati tra l’ultima fila e la porta della toilette. Pareva che il commodoro si preparasse ad affrontare un’invasione, invece che un incendio. E infatti era così: appena quella parete avesse ceduto, la polvere si sarebbe riversata nella cabina.

«Mentre voi continuate lì, io comincerò a organizzare i passeggeri» disse Pat. «Altrimenti avremo venti persone che cercano di uscire tutte insieme.» E, rivolgendosi ai passeggeri, il capitano prosegui: «Tra poco saremo fuori da questa trappola. Appena il soffitto si aprirà, ci verrà calata una scala di corda. Prima saliranno le signore, poi gli uomini: tutti in ordine alfabetico. Andate su più presto che potete, ricordatevi che qui pesate pochissimo, e non ostacolate i compagni. Avrete tutto il tempo, bastano pochi secondi per arrivare in cima..»

Non finì la frase. Si udì un’esplosione soffocata, non più forte dello scoppio di un sacchetto di carta, ma significava che la parete era crollata. E nel soffitto, purtroppo, non era ancora stata aperta la breccia dalla quale fuggire.

Dall’altra parte del tetto, Lawrence posò il cerchio sulla superficie di fibreglass e cominciò a fissarlo con il cemento. Sebbene non fosse necessario, usava la massima precauzione, perché non era mai riuscito a familiarizzarsi con gli esplosivi.

La carica a forma di anello ora semplicissima. Avrebbe prodotto un taglio dell’ampiezza e dello spessore desiderati, facendo in un secondo quello che una sega elettrica avrebbe fatto in un quarto d’ora.

In quel momento, una voce dall’alto gridò: «L’incendio ha raggiunto la cabina!»

Lawrence guardò l’orologio. La schiuma sarebbe stata dura come roccia tra altri trenta secondi. Meglio aspettare, piuttosto che rischiare di agire troppo presto.

Cominciò a risalire la scala di corda, senza fretta, trascinandosi dietro i sottili fili del detonatore. Quando emerse dal pozzo e cominciò a collegare i fili al dispositivo che avrebbe fatto saltare la carica, mancavano dieci secondi esatti.

«Avvertite il Selene che cominciamo il conteggio alla rovescia partendo da dieci» disse Lawrence.


Mentre correva in aiuto del commodoro «come avrebbe potuto aiutarlo però non lo sapeva» Pat senti Sue che chiamava con voce calma: «Signorina Morley, signora Schuster, signora Williams…» Ironia della sorte, proprio la Morley sarebbe stata la prima, in grazia dell’ordine alfabetico. Stavolta non poteva lamentarsi del trattamento!

Un secondo pensiero passò per la mente di Pat. E se la signora Schuster fosse rimasta incastrata nel tubo? Ma no, probabilmente si era tenuto conto della sua mole nel costruire il cassone, e poi la moglie dell’avvocato in quei giorni aveva perso parecchi chili.

La porta esterna della toilette resisteva ancora. Per un momento Pat provò un senso di sollievo. Forse la combustione avrebbe impiegato un’altra mezz’ora prima di sgretolare lo spessore della fibreglass, e nel frattempo…

Qualcosa scricchiolò sotto i suoi piedi. Il capitano abbassò lo sguardo. Sebbene i suoi occhi si fossero ormai abituati alle fioche luci di emergenza, impiegò alcuni secondi prima di rendersi conto che una grigia marea filtrava attraverso la porta barricata e che i due battenti stavano già cedendo sotto la pressione della polvere. Potevano resistere forse per qualche minuto ancora, ma già la marea silenziosa gli era arrivata alle caviglie mentre lui guardava, immobile.

Pat non si mosse. Non parlò. Per la prima volta in vita sua, e forse per l’ultima, provò che cosa fosse l’odio assoluto, accecante. In quel momento, mentre milioni di particelle strisciavano contro le sue gambe, parve a Pat che il Mare della Sete fosse un’entità consapevole e maligna che giocasse con loro come il gatto col topo. Forse Radley aveva ragione…

L’altoparlante che pendeva dal tubo dell’aria lo strappò alle sue fantasticherie fatalistiche.

«Siamo pronti! Radunatevi a prua e copritevi la faccia. Incomincia il conteggio… Dieci…»

«Non c’è tempo», pensava Pat. «Non c’è tempo…»

«Nove…»

«Il Mare della Sete non lo permetterà…»

«Otto…»

«Peccato, però, dopo tanti sforzi…»

«Sette…»

«Forse ce la faremo, almeno qualcuno…»

«Sei.»

«Proviamo a fare un po’ di calcoli. Ammettiamo che bastino quindici secondi per bucare il tetto…»

«Cinque…»

«… e per calare di nuovo la scala… l’avranno tirata su, naturalmente, per sicurezza…»

«Quattro…»

«… e calcolando che salga una persona ogni tre secondi… facciamo cinque…»

«Tre…»

«… farà ventidue volte cinque, cioè mille… ma no, cosa dico… non so più contare…»

«Due…»

«… diciamo cento secondi e qualcosa, il che significa quasi due minuti. C’è tutto il tempo perché quei serbatoi saltino…»

«Uno.»

«Uno! E non mi sono nemmeno coperto la faccia, forse dovrei buttarmi a terra a costo di mangiare quella maledetta polvere…»

Si udì uno schianto improvviso e ci fu un breve sbuffo di aria: tutto qui. L’energia della carica era stata calcolata e messa a punto al millesimo. Quell’esplosione era stata appena sufficiente a increspare la polvere che ormai copriva la metà più bassa del pavimento.

Il tempo parve fermarsi. Per un’eternità, non accadde niente. Poi il miracolo si verificò, inaspettato, cogliendo tutti di sorpresa, sebbene tutti se lo aspettassero.

Un anello di luce vivida era apparso tra le ombre rossastre del soffitto. Diventava sempre più fermo e brillante, poi, di colpo, si allargò in un cerchio completo e perfetto mentre la sezione del tetto si staccò e cadde. La luce che pioveva nel Selene era solo quella di una lampada posta circa venti metri più in su, ma per occhi che da ore e ore non avevano visto altro che un chiarore rossastro era più abbagliante di un’aurora.

La scala scivolò dentro quasi nell’attimo in cui il cerchio di tetto toccò il suolo. La signorina Morley, che già si teneva pronta a balzare, sparì in un lampo. La signora Schuster la seguì, un po’ più lentamente, ma sempre a una velocità lodevolissima. Un secondo dopo saliva la signora Williams. Ora toccava agli uomini… Prima Baldur, probabilmente, per via dell’ordine alfabetico.

Restavano solo una dozzina di persone nella cabina, quando la porta barricata venne divelta dai cardini e la valanga di polvere irruppe con violenza.

La prima ondata investì Pat mentre tentava di risalire il pendio della cabina. Leggera e impalpabile coma era, rallentava i movimenti, tanto che pareva di muoversi in un mare di colla. Pat tossiva ed era mezzo accecato, ma poteva ancora respirare.

Nell’oscurità, sentiva ancora Sue che contava… «Quindici, sedici, diciassette… diciotto, diciannove…» mentre guidava i passeggeri verso la salvezza. Lui avrebbe voluto farla salire con le altre donne, ma Sue era ancora al suo posto, per proteggere i passeggeri. Mentre lottava con la polvere che ormai gli arrivava quasi al, la vita, Pat sentì per Sue un amore così grande che quasi gli sembrò che il suo cuore scoppiasse. Ora non aveva più dubbi. Il vero amore era un perfetto equilibrio tra il desiderio e la tenerezza. Il primo esisteva già da molto, e adesso la seconda si rivelava in pieno.

«Venti… tocca a voi, commodoro… svelto!»

«Salite voi, Susan!» ordinò il commodoro. «Subito, sul» Pat non vide quel che avveniva, perché era ancora semiaccecato dalla polvere e dall’oscurità, ma immaginò che Hansteen avesse addirittura scagliato la ragazza attraverso l’apertura.

«Ci siete, Pat?» chiamò Hansteen. «Io sono già sulla scala.»

«Non aspettatemi… vengo.»

Era più facile dirlo, che farlo. Gli sembrava che un milione di dita soffici ma decise si aggrappassero a lui, trascinandolo indietro. Si aggrappò allo schienale di un sedile, ormai nascosto sotto la polvere e si diede una spinta verso la luce tremolante che pioveva dall’alto.

Qualcosa gli frustò la faccia. Istintivamente alzò una mano, poi si rese conto che era l’estremità della scala di corda. Si issò con tutta la forza che aveva: piano piano, quasi con riluttanza, il Mare della Sete allentò la presa su di lui.

Prima di risalire il pozzo, diede un’ultima occhiata alla cabina. La parte posteriore era completamente sommersa dalla grigia marea; sembrava innaturale, e doppiamente sinistro, che la polvere salisse mantenendo un piano così perfettamente geometrico, senza un solo mulinello sulla superficie. Un bicchiere di carta galleggiava solitario, come la barchetta di un bimbo su un lago tranquillo. Tra qualche minuto avrebbe raggiunto il tetto e sarebbe rimasto schiacciato, ma per ora continuava a sfidare coraggiosamente la polvere.

E così facevano le luci di emergenza; avrebbero continuato ad ardere per giorni, anche incapsulate nell’oscurità più totale.

Ora il pozzo era intorno a lui. Stava arrampicandosi con tutta la rapidità che i muscoli gli consentivano, ma non poteva raggiungere il commodoro. Arrivò un improvviso fiotto di luce dall’alto, mentre Hansteen sgombrava la bocca del pozzo, e Pat guardò istintivamente in giù per difendersi dalla luce. La polvere saliva rapidamente dietro di lui, sempre liscia e calma, e inesorabile.

Poi si trovò a scavalcare la bocca del cassone, nel centro di un igloo incredibilmente affollato. Attorno a lui c’erano gli. altri del Selene, e quattro figure in tuta spaziale si stavano prendendo cura di loro. C’era anche un uomo senza tuta, Pat capì che doveva essere l’ingegnere capo. Era strano vedere una faccia nuova, dopo tanti giorni.

«Sono saliti tutti?» domandò Lawrence.

«Sì» rispose Pat. «lo sono l’ultimo.» Poi aggiunse: «Lo spero.» Si era reso conto che, tra il buio e la confusione, qualcuno poteva essere stato dimenticato. Forse Radley aveva deciso di non affrontare ciò che l’aspettava nella Nuova Zelanda… No, era con gli altri. Pat si accingeva a fare il conto delle teste quando il pavimento di plastica diede uno scossone, e dalla bocca del pozzo uscì una colonna di polvere.

«Che diavolo è stato?» domandò Lawrence.

«I nostri serbatoi di ossigeno liquido» rispose Pat. «Povero Selene… ha resistito fino all’ultimo.»

Poi, senza poterlo evitare, il capitano del Selene scoppiò in singhiozzi.


«Proprio non capisco l’idea delle bandiere» disse Pat, mentre il battello da polvere si staccava dalla banchina di Porto Roris. «Sono chiaramente inutili nel vuoto.»

Eppure doveva ammettere che l’illusione era perfetta, perché le bandiere che sventolavano sulla palazzina del porto si muovevano e fluttuavano in una brezza artificiale. L’impressione era creata da molle e da motori elettrici, naturalmente, ma per gli spettatori che osservavano da Terra l’effetto sarebbe stato quanto mai sconcertante.

Era un gran giorno, quello, per Porto Roris, e per tutta la Luna. Pat avrebbe voluto che ci fosse anche Sue, ma lei non era in condizioni di fare viaggi. Quel mattino, quando l’aveva salutata prima di uscire, Sue aveva detto: «Io non so come facciano le donne a mettere al mondo un bambino sulla Terra. Dev’essere orribile sentire tutto quel peso, con una gravità sei volte superiore alla nostra.»

Pat cercò di non pensare alla sua famigliola in aumento, e diede pieni giri al Selene II. Dalla cabina alle sue spalle venivano le esclamazioni di trentadue passeggeri, mentre le grigie parabole di polvere si alzavano contro il sole come arcobaleni monocromi. Il viaggio di inaugurazione del nuovo battello avveniva in pieno giorno. I viaggiatori avrebbero perso la magica fosforescenza del mare, la corsa notturna nel canyon, lo splendore verdastro della luce terrestre. Ma la novità e l’emozione del viaggio restavano: grazie alla fine leggendaria dell’altra imbarcazione, il Selene II era uno dei mezzi da trasporto più famosi di tutto il Sistema Solare.

«Mantieni la rotta» disse Pat al secondo ilota. «Io vado a parlare con i passeggeri.»

Pat era ancora abbastanza giovane, e abbastanza vanitoso, da gioire per le occhiate di ammirazione che gli venivano rivolte mentre percorreva il salone. Tutti, a bordo, dovevano aver letto la sua storia o averlo visto alla TV. Del resto, il semplice fatto che quella gente partecipasse alla crociera di inaugurazione era già una prova di fiducia nei suoi confronti. Pat sapeva bene che anche altri avevano diviso il merito, ma non aveva false modestie a proposito della parte sostenuta durante le ultime ore del Selene I. La cosa più preziosa che possedeva era un modellino del battello da polvere in oro massiccio, dono di nozze per lui e Sue. «Dai passeggeri dell’ultimo viaggio, con infinita ammirazione.» Quella era l’unica testimonianza che contava, e Pat non ne desiderava altre.

Era arrivato circa a metà della cabina, scambiando qualche parola qua e là, quando si fermò di colpo.

«Salve, capitano» disse una voce indimenticabile. «Sembrate sorpreso di vedermi.»

Pat si dominò in tempo e sfoderò il suo sorriso più smagliante.

«Ma che piacere, signorina Morley! Non sapevo che foste sulla Luna.»

«Non pensavo neanch’io di venirci. Lo devo al servizio che ho scritto sul Selene I. Ora faccio il viaggio d’inaugurazione per conto di Life Interplanetary.»

«Speriamo» osservò Pat «che la gita ci riservi meno emozioni dell’ultima volta. A proposito, siete in contatto con qualcuno degli altri? McKenzie e gli Schuster mi hanno scritto, qualche settimana fa, ma mi sono sempre domandato che sorte è toccata al povero Radley, dopo che Harding se l’è portato via.»

«Niente, ha solo perso l’impiego. La S.A.V.U. ha deciso di sospendere l’azione legale. Ora Radley si guadagna da vivere tenendo conferenze su «Ciò che ho visto sulla Luna». E sono convinta di una cosa.»

«Quale?»

«Un giorno o l’altro Radley tornerà qui.»

«Lo spero. In fondo non siamo riusciti a sapere che cosa cercava. Risero entrambi. Poi la Morley osservò:» Ho sentito che cambiate attività.

Pat parve imbarazzato. «E vero» confessò. «Ho chiesto il trasferimento. Farò il pilota spaziale, se riuscirò a superare gli esami, s’intende.»

Pat non era affatto certo di riuscirci, ma sapeva che doveva fare quello sforzo. Guidare un battello lunare era un lavoro divertente ed emozionante, ma non c’era speranza di avanzamento. Sue e il commodoro erano riusciti a convincerlo, ma c’era anche un’altra ragione…

Spesso Pat si era domandato quante altre vite avessero subito un cambiamento da quando il Mare della Sete aveva sbadigliato sotto le stelle. Nessuno di quelli che erano stati a bordo del Selene era uscito indenne da quell’esperienza, e in molti casi l’effetto era stato positivo. Ne era una prova il fatto che si potesse conversare così piacevolmente con la signorina Morley.

Anche le persone che si erano adoperate per le operazioni di soccorso ne avevano risentito, specialmente il dottor Lawson e l’ingegnere capo Lawrence. Pat aveva visto Lawson molte volte, quando lo scienziato teneva le sue conferenze scientifiche alla TV. Era grato all’astronomo, ma non riusciva a trovarlo simpatico. Eppure, Lawson era all’apice della popolarità.

Quanto a Lawrence, lavorava con impegno alle sue memorie, provvisoriamente intitolate Un uomo parla della Luna, e malediceva il giorno che aveva firmato il contratto con l’editore. Pat l’aveva aiutato per il capitolo che riguardava il Selene, e Sue, in attesa del bambino, leggeva il manoscritto.

«Se volete scusarmi» disse Pat, ricordando i suoi doveri di capitano «devo occuparmi degli altri passeggeri. Ma vi prego, venite a trovarci la prossima volta che capiterete a Clavius City.»

«Non mancherò» «promise la Morley, incredibilmente compiaciuta.»

Pat continuò il suo giro fino in fondo al salone, scambiando saluti e rispondendo a qualche domanda. Poi raggiunse il compartimento adiacente la cucina, entrò e chiuse la porta dietro di sé, ritrovandosi immediatamente solo.

C’era più posto, lì, che nel piccolo compartimento del Selene I, ma la disposizione era la medesima. Subito i ricordi lo assalirono, evocati dall’ambiente. Quella sarebbe potuta essere la tuta spaziale che aveva fornito ossigeno a lui e a McKenzie mentre gli altri dormivano, e quella, la parete contro la quale aveva premuto l’orecchio e aveva sentito il fruscio della polvere che si muoveva all’esterno. E l’intero locale sarebbe potuto essere quello in cui per la prima volta lui e Sue si erano amati.

C’era un’innovazione nel nuovo battello: una finestrina nel portello esterno del compartimento stagno. Pat premette il viso contro la superficie trasparente, e fissò la distesa del Mare della Sete.

Lui si trovava dalla parte in ombra, a fissare nella notte buia dello spazio. Il suo sguardo si abituò all’oscurità, e riuscì a distinguere le stelle. Solo le più luminose, perché arrivava abbastanza luce obliqua per impedirgli di vedere bene, ma erano là… C’era anche Giove, il più luminoso di tutti i pianeti dopo Venere.

Ben presto sarebbe andato lassù, lontano dal suo mondo natale. Il pensiero lo esaltava e lo atterriva, ma sapeva che doveva andarci.

Amava la Luna, ma la Luna aveva tentato di ucciderlo; mai più si sarebbe sentito completamente a suo agio su quella superficie nuda. Lo spazio aperto poteva essere ancora più ostile, ma non gli aveva ancora dichiarato guerra. Col suo stesso mondo, d’ora in poi, non poteva esserci invece che una neutralità armata.

La porta della cucina si apri, e la hostess entrò con un vassoio di tazze vuote. Pat si staccò dall’oblò e dalle stelle. La prossima volta che le avrebbe viste, sarebbero state un milione di volte più luminose.

Sorrise alla ragazza e abbracciò in un gesto il piccolo locale.

«È tutto vostro, signorina Johnson» disse. «Abbiatene cura.»

Poi ritornò verso la cabina di comando per guidare il Selene II nel viaggio che per lui era l’ultimo, per la nave il primo, attraverso il Mare della Sete.


FINE

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