Roger Jerome Phlutter, per il cui assurdo nome non offro giustificazione alcuna, se non il fatto che è genuino, era, all’epoca degli avvenimenti qui narrati, un impiegato che sgobbava parecchio all’Osservatorio Cole.
Era un giovanotto non particolarmente brillante, anche se sbrigava i suoi compiti quotidiani con impegno ed efficienza. Studiava calcolo a casa, un’ora ogni sera, e sperava, un giorno, di diventare astronomo capo in qualche importante osservatorio.
Comunque sia, il nostro resoconto degli avvenimenti sulla fine di marzo dell’anno 1987 deve cominciare proprio con Roger Phlutter, per l’ottima e sufficiente ragione che lui, fra tutti gli uomini della Terra, fu il primo ad osservare l’aberrazione stellare.
Vi presento Roger Phlutter.
Alto, piuttosto pallido perché passava troppo tempo al chiuso, lenti spesse con montatura di tartaruga, capelli scuri tagliati corti alla maniera degli anni Ottanta, abbigliato né troppo bene né troppo male, fumava un po’ troppe sigarette…
Alle cinque meno un quarto di quel pomeriggio, Roger era impegnato in due operazioni simultanee. Una consisteva nell’esaminare con un microcomparatore a sfarfallio una lastra fotografica presa la sera prima, d’una porzione della costellazione dei Gemelli; l’altra, nel valutare se, coi tre dollari che gli restavano della paga della settimana prima, poteva osare una telefonata a Elsie per chiederle di uscire con lui da qualche parte.
Non c’è dubbio che un qualunque giovanotto normale abbia condiviso in qualche momento della sua vita la seconda occupazione di Roger Phlutter, ma non tutti certamente avranno saputo non dico il funzionamento, ma l’esistenza stessa d’un microcomparatore a sfarfallio. Perciò distogliamo il nostro sguardo da Elsie e puntiamolo sui Gemelli.
Un microcompratore a sfarfallio, dunque, è un dispositivo ottico in cui s’inseriscono due lastre fotografiche dell’identica porzione di cielo, scattate in tempi diversi. Queste lastre vengono sovrapposte con grande attenzione, e l’operatore può mettere a fuoco nell’oculare, prima l’una e poi l’altra, alternativamente, a gran velocità, grazie a un otturatore. Se le due lastre sono identiche, questa manovra con l’otturatore non rivelerà niente, ma se uno dei punti sulla seconda lastra ha una posizione anche poco diversa da quella che occupava sulla prima, richiamerà l’attenzione su di sé dando l’impressione di saltare avanti e indietro ad ogni scatto dell’otturatore.
Roger, dunque, azionò l’otturatore, e uno dei punti diede un balzo. Anche Roger diede un balzo. Provò di nuovo, dimenticandosi del tutto per il momento — come anche noi — di Elsie, e il punto fece un altro balzo. Balzò di quasi un decimo di secondo d’arco.
Roger si raddrizzò e si grattò la testa. Accese una sigaretta, la mise giù nel portacenere, e guardò di nuovo nell’oculare. Il punto tornò a balzare avanti e indietro, quando azionò l’otturatore.
Harry Wasson, che faceva il turno serale, era appena entrato nello studio e stava appendendo il soprabito.
— Ehi, Harry! — esclamò Roger. — C’è qualcosa che non va con questo acchiappafarfalle.
— Sì? — fece Harry.
— Sì. Polluce si è spostata d’un decimo di secondo.
— Sì, — annuì Harry. — È giusto l’effetto di parallasse. Trentadue anni-luce — la parallasse di Polluce è giusto zero virgola uno zero uno. Poco più di un decimo di secondo. Così, se la tua lastra di paragone è stata presa all’incirca sei mesi fa, quando la Terra era sul lato opposto dell’orbita, è press’a poco giusto.
— Ma, Harry, la lastra di paragone è stata presa l’altra sera. Le due lastre sono separate soltanto da ventiquattr’ore.
— Sei matto.
— Guarda tu stesso.
Non erano ancora le cinque di sera, ma Harry Wasson passò sopra, magnanimo, alla piccola questione di principio e si sedette davanti al microcomparatore. Manipolò l’otturatore, e Polluce compiacente fece il balzo.
Non c’era alcun dubbio che si trattasse di Polluce, poiché era di gran lunga il punto più luminoso sulla lastra. Polluce è una stella di magnitudo 1,2, una delle stelle più luminose del cielo, e senz’altro la più brillante dei Gemelli. E nessuna delle stelle più deboli intorno ad essa si era minima mente mossa.
— Uhm, — disse Harry Wasson. Si accigliò, e tornò a guardare. — Una di queste due lastre ha la data sbagliata, ecco tutto… Controllerò subito, per prima cosa.
— Queste lastre non hanno la data sbagliata, — ribatté, cocciuto, Roger. — Le ho datate io stesso.
— Questa è la miglior prova, — gli disse Harry. — Vai a casa. Sono le cinque. Se Polluce si è spostata di un decimò di secondo da ieri sera, io la rimetterò al suo posto per te.
Così, Roger se ne andò.
Per qualche ragione si sentiva a disagio, come se non avesse dovuto farlo. Qualcosa l’inquietava, anche se non riusciva a inquadrare il problema… Decise di tornare a casa a piedi, invece di prendere l’autobus.
Polluce era una stella fissa, non poteva essersi spostata d’un decimo di secondo in ventiquattro ore.
— Vediamo… trentadue anni-luce, — disse Roger tra sé. — Un decimo di secondo d’arco… Diamine, sarebbe un movimento di parecchie volte più veloce della luce. Il che é, senza alcun dubbio, una sciocchezza!
Ma lo era davvero?
Stasera non se la sentiva di studiare o di leggere. Ma bastavano tre dollari per portar fuori Elsie?
Le tre palle d’un negozio di pegni si stagliavano davanti a lui, e Roger cedette alla tentazione. Impegnò l’orologio, poi telefonò a Elsie. Cena e spettacolo?
— Ma si, certo, Roger.
Così, fino a quando non la riaccompagnò a casa, all’una e trenta, riuscì a dimenticarsi dell’astronomia. Niente di strano in ciò. Sarebbe stato assai strano se fosse riuscito a ricordarsela.
Ma l’inquietudine che l’aveva agitato qualche ora prima, subito tornò a invaderlo non appena restò solo. Sulle prime, non ricordò il perché. Sapeva che proprio non se la sentiva di tornarsene a casa, non ancora.
Il bar all’angolo era ancora aperto, così entrò a bere qualcosa. Si stava scolando il secondo bicchiere, quando ricordò. Ne ordinò un terzo.
— Hank, — disse, rivolto al barman. — Conosci Polluce?
— Polluce chi? — chiese Hank.
— Lascia perdere, — disse Roger. Bevve un altro bicchiere e riprese a scervellarsi. Sì, aveva commesso un errore da qualche parte. Polluce non poteva essersi mossa.
Uscì dal bar e s’incamminò verso casa. C’era quasi arrivato quando gli venne in mente di alzare gli occhi su Polluce, non che ad occhio nudo sarebbe riuscito a cogliere uno spostamento d’un decimo di secondo, ma era curioso.
Alzò lo sguardo, si orientò col Leone, poi trovò i Gemelli — Castore e Polluce erano le uniche stelle visibili, dei Gemelli, poiché non era una notte particolarmente favorevole per osservare il cielo. Erano lassù, non c’era dubbio, ma gli sembrò che fossero un po’ più staccate del solito. Assurdo, perché sarebbe stato uno spostamento di gradi, non di minuti o di secondi.
Le fissò per parecchi istanti, poi si voltò e fissò l’Orsa Maggiore sul lato opposto. Smise di camminare e si arrestò. Chiuse gli occhi e li riaprì lentamente, con cautela. L’Orsa non gli appariva affatto giusta. Era storta. Pareva che ci fosse più spazio fra Alioth e Mizar, nel timone del carro, che fra Mizar e Alkaid. Phecda e Merak, in fondo all’Orsa, erano molto più vicine, rendendo più acuto l’angolo tra il fondo e il labbro. Assai più acuto.
Incredulo, tracciò una linea immaginaria dalle indicatrici, Merak e Dubhè, fino alla Polare. La linea s’incurvava. Doveva incurvarsi: se fosse andata dritta, avrebbe mancato la Polare di quattro o cinque gradi addirittura.
Il respiro un po’ affannoso, Roger si tolse gli occhiali e li ripulì con molta cura col fazzoletto. Se li reinfilò sul naso, ma l’Orsa era sempre storta.
E anche il Leone, quando tornò a guardarlo. Regolo, in particolare, distava d’un grado o due dalla sua normale posizione.
Un grado o due! E alla distanza di Regolo! Non erano sessantacinque anni-luce o giù di li?
Poi, appena in tempo per salvare la sua salute mentale, si ricordò che aveva bevuto. Tornò a casa senza più azzardare una sola occhiata in alto. Andò a letto, ma non riuscì a dormire.
Non si sentiva sbronzo. Era sempre più eccitato, e del tutto sveglio.
Si chiese se avrebbe osato telefonare all’osservatorio. Sarebbe parso ubriaco al telefono? Mandando al diavolo ciò che sarebbe sembrato, alla fine decise. Andò al telefono in pigiama.
— Mi spiace, — disse la centralinista.
— Cosa intende dire… mi spiace?
— Non posso darle quel numero, — spiegò la centralinista, con voce melodiosa. — Mi spiace proprio. Non…
Si fece passare la capo-centralinista. L’Osservatorio Cole era stato talmente inondato di chiamate da parte di astronomi dilettanti, che aveva trovato necessario chiedere alla compagnia telefonica di bloccare tutte le telefonate in arrivo, salvo quelle interurbane o intercontinentali provenienti da altri osservatori.
— Grazie, — disse Roger. — Vuol chiamarmi un tassì?
Era una richiesta insolita, ma la capo-centralinista gli fece il favore e glielo chiamò.
Trovò l’Osservatorio Cole praticamente ridotto a un manicomio.
La mattina dopo, la maggior parte dei giornali riportava la notizia. Per lo più, le dedicavano quattro o cinque righe in una pagina interna. Comunque, la notizia c’era.
Un certo numero di stelle, diceva la notizia, per lo più quelle più luminose, nel corso delle ultime quarantott’ore avevano sviluppato dei movimenti propri percepibili a occhio nudo.
— Questo non significa, — diceva il New York Spotlight, in un pietoso tentativo di far dello spirito, — che i loro movimenti siano stati in qualche modo impropri, in passato. Per un astronomo, “movimento proprio” significa il moto di una stella attraverso la sfera celeste, relativo ad altre stelle. Fino ad oggi, la “stella di Barnard”, nella costellazione di Ofiuco, ha mostrato un moto proprio più grande di qualunque altra stella conosciuta, spostandosi alla velocità di dieci secondi e un quarto all’anno. La “stella di Barnard” non è visibile a occhio nudo.
È probabile che la notte successiva nessun astronomo in tutta la Terra abbia dormito. Gli osservatori sprangarono le porte, con dentro il personale al gran completo, senza far entrare nessun altro, salvo qualche occasionale cronista che, dopo essere rimasto un po’, se ne andava via, il volto perplesso, finalmente convinto che stesse accadendo davvero qualcosa di strano.
Gli “acchiappafarfalle” sfarfalleggiavano, e gli astronomi ammiccavano. Furono consumati ettolitri di caffé. Le squadre antidimostranti della polizia furono chiamate d’urgenza da sei osservatori degli Stati Uniti. Due di queste chiamate furono provocate da tentativi d’irruzione da parte di dilettanti e pazzoidi. Le altre quattro da scazzottate accesesi, dopo violente discussioni, tra il personale stesso degli osservatori. Uffici e laboratori dell’osservatorio di Lick furono devastati, e James Truwell, astronomo reale, fu ricoverato al London Hospital con una lieve commozione cerebrale, dopo che una massiccia lastra fotografica gli era stata spaccata in testa da un dipendente infuriato.
Ma questi incidenti furono eccezioni. In generale gli osservatori erano manicomi bene ordinati.
Il centro dell’attenzione, nei più intraprendenti, era l’altoparlante, attraverso il quale si apprendevano le notizie che provenivano continuamente dall’emisfero orientale. Praticamente tutti gli osservatori tenevano continui contatti telefonici col lato notturno della Terra, dove i fenomeni astronomici continuavano ad esser tenuti sotto osservazione.
In pratica, gli astronomi sotto i cieli notturni di Singapore, Shangai e Sidney snocciolavano i dati delle loro osservazioni direttamente agli apparecchi telefonici posti all’estremità di linee lunghe mezzo pianeta o più.
Di particolare interesse erano i rapporti provenienti da Sidney e Melbourne, che descrivevano i cieli del sud, non visibili — neppure di notte — dall’Europa o dagli Stati Uniti. In base a quei rapporti, la Croce del Sud non era più una croce, con le due stelle più brillanti spostate verso nord. Alfa e Beta Centauri, Canopo e Achernar mostravano anch’esse dei considerevoli moti propri — tutte, in generale, verso nord. Il Triangolo Australe e le Nubi di Magellano erano rimasti inalterati. Sigma Octanis, la debole stella polare meridionale, non si era minimamente mossa.
Quindi le perturbazioni del cielo meridionale erano assai inferiori di quelle del cielo settentrionale, come numero di stelle spostate. Tuttavia, i moti propri relativi delle stelle perturbate erano assai maggiori. E anche se la direzione generale delle poche stelle che si muovevano era il nord, le loro traiettorie non puntavano direttamente a nord, né convergevano tutte verso un unico punto dello spazio.
Gli astronomi degli Stati Uniti e dell’Europa digerirono questi fatti e bevettero dell’altro caffé.
I giornali della sera, in particolare in America, mostrarono di essersi finalmente accorti che qualcosa d’insolito e sconvolgente stava accadendo nei cieli. La maggior parte di essi spostarono il servizio in prima pagina — ma non ancora fra i titoli di testa — dandogli mezza colonna di testo, e magari anche un “continua in… pagina”, la cui lunghezza dipendeva dal fatto che il direttore avesse avuto oppure no la fortuna di strappare una qualche dichiarazione a un astronomo.
E le dichiarazioni, quand’erano ottenute, si limitavano a esporre i fatti, ma non le opinioni. Già i fatti in sé, dicevano quei signori, erano abbastanza sorprendenti, ed esprimere opinioni sarebbe stato prematuro. Aspettate e vedrete. Qualunque cosa stia accadendo, accade in fretta.
— Quanto in fretta? — chiese un direttore.
— Più in fretta di quanto sia possibile, — fu la risposta.
Ma forse non è del tutto esatto dire che nessun direttore riuscì a ottenere delle opinioni così presto. Charles Wagren, l’intraprendente direttore del Chicago Blade, spese una piccola fortuna in telefonate interurbane e intercontinentali. Su una sessantina di tentativi, alla fine riuscì a raggiungere i direttori di cinque osservatori. E fece a tutti la stessa domanda:
— Qual è la sua opinione sulla possibile causa, qualunque essa sia, dei vistosi spostamenti esibiti dalle stelle in queste due ultime notti?
Trascrisse le risposte una sotto l’altra:
— Vorrei tanto saperlo. — Geo F. Stubbs, Osservatorio Tripp, Long Island.
— Qualcuno o qualcosa è impazzito, e spero di non essere io… io in persona. — Henry Collister McAdams, Osservatorio Lloyd, Boston.
— Ciò che sta accadendo è impossibile. Non può esserci nessuna causa. — Letton Tischauer Tinney, Osservatorio Burgoyne, Albuquerque.
— Sto cercando un esperto in astrologia. Ne conosce qualcuno? — Patrick R. Whitaker, Osservatorio Lucas, Vermont.
— Follie! — Giles Mathew Frazier, Osservatorio Grant, Richmond.
Studiando con aria afflitta quest’elenco, che gli era costato 187,35 dollari, tasse comprese, il direttore Wangren firmò il modulo giustificativo della spesa, poi lasciò cadere l’elenco nel cestino della carta straccia. Telefonò all’esperto scientifico che lavorava per il giornale come collaboratore esterno.
— Puoi farmi una serie di articoli — due-tremila parole l’uno — su tutta questa confusione astronomica?
— Certo, — gli rispose il pubblicista. — Ma quale confusione? — Risultò che era appena tornato da una partita di pesca e non aveva letto i giornali né gli era mai capitato di alzare io sguardo al cielo. Ma scrisse gli articoli. Ci mise perfino del sex-appeal, illustrando gli articoli con antiche carte stellari che mostravano le costellazioni in deshabillé, riproducendo certi famosi dipinti quali — L’Origine della Via Lattea — ed utilizzando altresì la fotografia di una ragazza, in costume da bagno che puntava un telescopio portatile in direzione di una delle stelle erranti, o così almeno si poteva presumere. La tiratura del Chicago Blade aumentò del 21,7 per cento.
Erano di nuovo le cinque in quello studio dell’Osservatorio Cole, giusto ventiquattr’ore e un quarto dopo l’inizio di tutta quell’agitazione. Roger Phlutter — sì, siamo tornati da lui — si svegliò di colpo quando una mano gli si appoggiò sulla spalla.
— Vai a casa, Roger, — gli disse Mervin Ambruster, il suo capo, con voce gentile.
Roger si rizzò di scatto a sedere.
— Signor Ambruster, — esclamò, — mi spiace essermi addormentato.
— Sciocchezze, — disse Ambruster. — Non puoi restare qui per sempre, nessuno di noi può farlo. Vai a casa.
Roger Phlutter andò a casa. Ma quand’ebbe fatto un bagno, si sentì molto più inquieto che assonnato. Erano soltanto le sei e un quarto. Telefonò a Elsie.
— Mi spiace tanto, Roger, ma ho un altro appuntamento. Cosa sta succedendo, Roger? Voglio dire, con le stelle?
— Oh, Elsie. si stanno muovendo… e nessuno sa perché.
— Ma io pensavo che tutte le stelle si stessero muovendo, — protestò Elsie. — Il Sole è una stella, non è vero? Una volta mi hai detto che il Sole si sta muovendo verso un punto in Sansone.
— Ercole.
— D’accordo, Ercole. E visto che, come mi hai detto, tutte le stelle si muovono, perché mai la gente si eccita tanto?
— Questa è una cosa diversa, — replicò Roger. — Prendi Canopo, ad esempio. Ha cominciato a muoversi alla velocità di sette anni-luce al giorno. Non può farlo!
— Perché no?
— Perché, — le spiegò, paziente, Roger, — niente può muoversi più veloce della luce.
— Ma se si muove così in fretta, allora vuol dire che può, — obbiettó Elsie. — Oppure è il tuo telescopio che non funziona, o qualcosa del genere. Ad ogni modo, è molto lontana, non è vero?
— Centosessanta anni-luce. Così lontana che la vediamo com’era centosessanta anni fa.
— Allora può darsi che non si stia muovendo affatto, — disse Elsie. — Voglio dire, forse ha smesso di muoversi centocinquant’anni fa, e voi vi state eccitando per qualcosa che non ha più importanza perché è già finito. Mi ami sempre?
— Certo, tesoro. Non puoi mollare quell’appuntamento?
— Temo di no, Roger. Ma vorrei tanto poterlo fare.
Doveva accontentarsi di questo. Decise di andare in centro a mangiare.
Erano le prime ore della sera, troppo presto per vedere le stelle, anche se il limpido cielo azzurro aveva incominciato a imbrunire. Roger sapeva che, quando le stelle fossero comparse quella sera, poche costellazioni sarebbero state ancora riconoscibili.
Mentre camminava, ripensò ai commenti di Elsie e decise che erano intelligenti almeno quanto tutti quelli che aveva ascoltato all’Osservatorio Cole. In un certo senso, Elsie aveva presentato il problema da un’angolatura alla quale lui non aveva pensato prima, e ciò rendeva la cosa ancora più incomprensibile.
Tutti quei movimenti dovevano essere incominciati la stessa notte… eppure non era così.
Il Centauro doveva aver cominciato a muoversi all’incirca quattro anni prima, e Rigel cinquecentoquaranta anni prima, quando Cristoforo Colombo portava ancora i calzoncini corti, sempre che a quell’epoca si usassero, e Vega doveva aver cominciato a muoversi in quel modo nell’anno in cui lui, Roger, non Vega, era nato, ventisei anni prima. Ogni stella, di quelle centinaia, doveva aver cominciato a muoversi a un dato istante, in esatta dipendenza dalla sua distanza dalla Terra. Una dipendenza esatta al secondo-luce, poiché il controllo di tutte le lastre fotografiche prese la penultima notte indicavano che tutti i movimenti stellari avevano avuto inizio alle 4 e 10 antimeridiane, ora di Greenwich. Che pasticcio!
A meno che tutto ciò non significasse che, dopotutto, la luce aveva una velocità infinita.
E se non l’aveva — ed è sintomatico della perplessità di Roger il fatto che avesse postulato quell’incredibile “se” — allora… allora cosa? Tutto restava sconcertante come, o peggio, di prima.
Soprattutto, si sentiva offeso che potessero accadere cose come quelle.
Entrò in un ristorante e si sedette. Una radio stava urlando l’ultima composizione disaritmica, la nuova musica da ballo in quarti di tono, un sottofondo di strumenti a corda e a fiato per una folle melodia battuta su tam-tam di varie dimensioni. Fra un numero e l’altro, un esagitato speaker vantava le qualità di questo o quel prodotto.
Masticando un sandwich, Roger si godette il disaritmo, cercando di ignorare la pubblicità. La maggior parte delle persone intelligenti degli anni Ottanta avevano sviluppato un’efficace sordità radiofonica che consentiva loro di non udire la voce umana che usciva dagli altoparlanti, pur continuando a udire e a godersi gli allora infrequenti interludi musicali, fra un annuncio e l’altro. In un’epoca in cui la concorrenza pubblicitaria era così acuta, non c’era in pratica un solo muro vuoto o un appezzamento di terreno senza manifesti o cartelloni pubblicitari, per un raggio di molte miglia intorno a un qualunque centro abitato. Per questo, la gente con un briciolo di criterio poteva conservare una normale prospettiva di vita solo se coltivava con molta cura una parziale cecità e sordità che consentiva loro d’ignorare la continua, massiccia aggressione portata ai loro sensi.
Per questo motivo, buona parte del notiziario che seguì il programma di musica disaritmica entrò in un orecchio di Roger e uscì dall’altro, come si dice, prima che si rendesse conto che non stava ascoltando uno sbrodoso panegirico di qualche alimento per la prima colazione.
Gli parve di riconoscere la voce, e dopo un attimo o due fu certo che si trattava di Milton Hale, l’eminente fisico, la cui nuova teoria sul principio d’indeterminazione aveva negli ultimi tempi sollevato tante controversie nel mondo scientifico. A quanto pareva, il professor Hale veniva intervistato da un radiocronista.
— … perciò un corpo celeste può avere una posizione o una velocità, ma non si può dire che le abbia ambedue contemporaneamente, in relazione a una data struttura spaziotemporale.
— Dottor Hale, può ripeterlo in un linguaggio un po’ meno… In un linguaggio comune, insomma? — disse la voce sciropposa dell’intervistatore.
— Questo è linguaggio comune, signore. Espresso in termini scientifici, secondo il principio di contrazione di Heisenberg, n elevato alla settimana, tra parentesi, rappresenta la pseudo-posizione d’un quantum-integrale di Diedrich in rapporto al settimo coefficiente della curvatura di massa…
— Grazie, dottor Hale, ma temo che lei sia un po’ al di sopra dei cervelli dei nostri ascoltatori…
— E del tuo, — pensò Roger Phlutter.
— Sono certo, professor Hale, che la domanda che più interessa i nostri ascoltatori sia questa: tali movimenti stellari, finora senza precedenti, sono reali o illusori?
— Entrambe le cose. Sono reali in rapporto alla struttura spaziale, ma non in rapporto alla struttura dello spazio-tempo.
— Potrebbe chiarire la cosa, professore?
— Credo di si. La difficoltà è puramente epistemologica. In stretta casualità, l’impatto d’una macroscopica…
— The slithy tove did gyre and gimble in the wabe, — pensò Roger Phlutter[1].
— … sul parallelismo del gradiente entropico.
— Bah! — esclamò Roger, a voce alta.
— Ha detto qualcosa, signore? — chiese la cameriera. Roger l’osservò per la prima volta. Era piccola, bionda e rotondetta. Roger le sorrise.
— Dipende dalla struttura spaziotemporale in base alla quale si considera la cosa, — dichiarò, in tono grave. — La difficoltà è puramente epistemologica.
Per compensarla, diede alla cameriera una mancia superiore al dovuto, e se ne andò.
Si rese conto che il fisico più eminente che c’era al mondo ne sapeva, di ciò che stava accadendo, ancora meno della gente della strada. La gente sapeva che le stelle fisse si muovevano, o non si muovevano. Era ovvio che il professor Hate non sapeva neppure questo. Sotto una cortina fumogena di definizioni concettose, Hale aveva lasciato intendere che le stelle facevano, invece, tutte e due le cose.
Roger alzò gli occhi al cielo, ma solo poche stelle, fioche nella luce del primo crepuscolo, erano visibili attraverso l’alone creato dalla miriade di insegne al neon e di finestre illuminate. Decise che era ancora troppo presto.
Si fece un drink in un bar vicino, ma non gli parve che avesse il giusto sapore, per cui non lo finì. Non avrebbe saputo dire cosa c’era che non andava, ma era stordito dalla mancanza di sonno. Ma era troppo nervoso ed eccitato per aver voglia di andare a dormire, perciò decise di continuare a camminare finché le gambe non gli fossero letteralmente piegate per la stanchezza. Chiunque l’avesse colpito in testa con uno sfollagente gli avrebbe reso un segnalato servizio, ma nessuno se ne prese la briga.
Roger continuò a camminare, e dopo un po’ s’infilò nell’atrio d’uno sfarzoso cinematografo, vividamente illuminato, e si sedette appena in tempo per vedere le sequenze finali dell’ultimo dei tre lungometraggi in programma. Seguirono parecchi annunci pubblicitari che riuscì a guardare senza vederli.
— Ora, — disse una voce dallo schermo, — vi presentiamo una speciale trasmissione via cavo, in diretta, del cielo di Londra, dove adesso sono le tre di notte.
Lo schermo si oscurò e vi comparve una miriade di puntolini che erano le stelle. Roger si sporse in avanti per guardare e ascoltare attentamente. Quella si annunciava come una trasmissione di fatti concreti, non di vuote e pompose parole.
— La freccia, — disse lo schermo, quando una freccia comparve su di esso, — sta indicando la Stella Polare… la quale, adesso, si trova a dieci gradi di distanza dal polo celeste, in direzione dell’Orsa Maggiore. La stessa Orsa Maggiore, il Gran Carro, non è più riconoscibile come un carro, ma adesso la freccia indicherà le stelle che prima lo formavano.
Roger seguì senza fiato la freccia e la voce.
— Alkaid e Dubhè, — spiegò la voce. — Le stelle fisse non sono più fisse, ma… — L’immagine cambiò all’improvviso mostrando l’interno d’una cucina moderna, — … la qualità e l’eccellenza dei Forni Stella non cambia. I cibi cucinati col sistema dell’induzione supervibratoria hanno come sempre un eccellente sapore. I Forni Stella sono insuperati.
Con calma, Roger Phlutter si alzò, raggiunse la corsia, e s’incamminò verso lo schermo tirando fuori di tasca il temperino. Saltò agilmente sul basso palcoscenico. I colpi coi quali squarciò lo schermo non furono rabbiosi, bensì attenti e metodici, concepiti per fare il massimo danno col minimo sforzo. Quando due robusti usceri l’afferrarono, il danno era già fatto, e completo. Non fece nessuna resistenza né a loro, né alla polizia alla quale lo consegnarono. Un’ora più tardi, al tribunale notturno, ascoltò senza scomporsi le accuse contro di lui.
— Colpevole o non colpevole? — chiese il magistrato che presiedeva la corte.
— Vostro Onore, questa è una pura questione di epistemologia, — rispose Roger, in tutta serietà. — Le stelle fisse si muovono, ma Fiocchini Tostati, la miglior prima colazione del mondo, rappresenta ancora la pseudo-posizione d’un quantum-integrale di Diedrich in rapporto al settimo coefficiente di curvatura!
Dieci minuti più tardi dormiva come un ghiro. In una cella, è vero, ma pur sempre come un ghiro. La polizia lo lasciò li, poiché si erano resi conto che aveva bisogno di dormire…
Fra le altre tragedie di minor portata di quella notte, si può menzionare il caso dello schooner Ransagansett, al largo della costa californiana. Molto al largo della costa californiana! Un’improvvisa burrasca l’aveva spinto molte miglia fuori rotta, ma quante miglia fossero il comandante poteva soltanto indovinarlo.
Il Ransagansett era un vascello americano con un equipaggio tedesco, battente bandiera venezuelana, affittato per trasportare alcoolici da Ensenada, nella Bassa California, fin su alla costa canadese, naturalmente di contrabbando. Il Ransagansett era un vecchio vascello, con quattro motori e una bussola assai poco affidabile. Durante i due giorni di tempesta, il suo apparato radio — anno 1955 — era impazzito e Gross, il secondo, malgrado le sue indubbie capacità, non era stato in grado di ripararlo.
Ma adesso, a ricordare la tempesta era rimasta soltanto una leggera foschia che le ultime raffiche di vento stavano portando via. Hans Gross, impugnando un antico astrolabio, se ne stava in attesa sul ponte. Intorno a lui c’era la più totale oscurità, poiché la nave procedeva senza luci per evitare le pattuglie costiere.
— Si sta schiarendo, signor Gross? — chiamò il capitano da sotto.
— Zi, zignore. Zi sda sghiarendo in fredda.
Nella cabina, il capitano Randall tornò alla sua partita di blackjack col terzo ufficiale e l’addetto alle macchine. L’equipaggio — un vecchio tedesco chiamato Weiss, con una gamba di legno — era addormentato a poppa del serbatoio dell’acqua, dovunque questo si trovasse.
Passò una mezz’ora. Un’ora. Il capitano stava perdendo forte con Helmstadt, l’addetto alle macchine.
— Signor Gross! — chiamò.
Non vi fu nessuna risposta. Il capitano chiamò di nuovo, e di nuovo, e continuò a non ottenere risposta.
— Solo un attimo, miei cari amici, — disse al terzo ufficiale e al macchinista, e salì la scaletta del boccaporto fino al ponte.
Gross era là in piedi, immobile, gli occhi al cielo e la bocca spalancata. La foschia era del tutto scomparsa.
— Signor Gross, — ripeté il capitano Randall.
Il primo ufficiale non rispose. Davanti agli occhi del capitano, si limitò a ruotare lentamente sui tacchi, prima a destra e poi a sinistra.
— Hans! — latrò il capitano Randall. — Cosa diavolo le sta succedendo? — Poi anche lui alzò lo sguardo.
A prima vista, il cielo appariva del tutto normale. Niente angeli in volo, né il ronzio dei motori di un aereo. Il Carro, si disse il capitano, girando lentamente su se stesso, proprio come Gross, dov’era il Gran Carro?
Ma d’altra parte, dov’era anche tutto il resto? Non gli riuscì di riconoscere una sola costellazione, pur voltandosi da ogni lato. Niente falce del Leone. Niente cintura di Orione. Niente corona del Toro.
Cosa anche peggiore, c’era un gruppo di otto stelle luminosissime che potevano anche essere una costellazione, poiché erano disposte, grosso modo, a formare un ottagono. Soltanto che… una simile costellazione non era mai esistita, lo sapeva poiché aveva viaggiato anche intorno al Capo di Buona Speranza e al Capo Horn. Forse… ma no! Non c’era nessuna Croce del Sud! Stordito, il capitano Randall tornò ad avvicinarsi alla scaletta del boccaporto.
— Signor Weisskopf, — chiamò. — Signor Halmstadt. Venite sul ponte.
Salirono e guardarono. Nessuno disse niente per un po’.
— Spenga i motori, signor Halmstadt, — disse il capitano. Halmstadt fece il saluto — prima non l’aveva mai fatto — e scese di sotto.
— Kapitano, defo sfegliare Weiss? — chiese Weisskopf.
— Per cosa?
— Non so.
Il capitano rifletté. — Lo svegli, — disse poi.
— Gredo ghe ziamo sul pianeda Marde, — disse Gross.
Il capitano ci aveva pensato, ma aveva respinto l’idea.
— No, — replicò con fermezza. — Da qualunque pianeta del sistema solare le costellazioni avrebbero più o meno lo stesso aspetto.
— Fuol dire che ziamo fuori del cozmo?
Il fremito dei motori cessò all’improvviso e vi fu soltanto il familiare sciabordio delle onde contro lo scafo, e il pigro dondolio della nave.
Weisskopf tornò su con Weiss, anche Halmstadt risalì sul ponte e rifece il saluto al capitano.
— Dunque, kapitano?
Il capitano fece un gesto verso il ponte di poppa, dov’erano ammucchiate le casse di alcoolici, sotto dei teli catramati. — Liquidate il carico, — ordinò.
La partita di blackjack non fu più ripresa. All’alba, sotto un sole che non si erano aspettati di rivedere mai più — e se è per questo, neanche in quel momento lo vedevano — i cinque uomini, privi di sensi, furono trasferiti dalla nave alla prigione del porto di San Francisco, da membri perplessi della guardia costiera. Durante la notte, la Ransagansett era andata alla deriva di traverso al Golden Gate, andando a urtare di striscio contro la banchina del ferry-boat per Berkeley.
Un gran telo catramato era a rimorchio a poppa dello schooner, trafitto da un arpione la cui corda era assicurata all’albero di poppa. La sua presenza, là dietro, non ebbe mai una spiegazione ufficiale, anche se al capitano Randall parve vagamente di ricordare, alcuni giorni dopo, di aver arpionato un capodoglio durante la notte. A sua volta, il vecchio ed esperto marinaio Weiss non riuscì mai a scoprire cos’era successo alla sua gamba di legno, il che, forse, era ancora peggio.
Milton Hale, fisico emerito, aveva concluso l’intervista, e si stava congedando.
— Grazie molte, professor Hale, — gli disse l’intervistatore. Una luce gialla si era accesa, indicando che il microfono era spento. — E… si, troverà il suo assegno giù, alla cassa. Lei… uh… sa dove.
— So dove, — annuì il fisico. Era un ometto rotondo, dall’aria gioviale. Con la sua barbetta cespugliosa, sembrava un’edizione tascabile di Babbo Natale. Gli occhi gli luccicavano e fumava una pipa corta e mozza.
Lasciò lo studio insonorizzato, e con passo spigliato proseguì fino allo sportello della cassiera. — Ciao, dolcezza, — disse all’impiegata in servizio. — Dovrebbero esserci due assegni per il professor Hale.
— Lei è il professor Hale?
— A volte me lo chiedo, — disse l’ometto. — Ma ho qui dei documenti che sembrano dimostrarlo.
— Due assegni?
— Due assegni. Tutti e due per la stessa trasmissione, per uno speciale accordo. A proposito, questa sera danno un’ottima rivista al teatro Mabry.
— Davvero? Sì, ecco i suoi due assegni, professor Hale. Uno per settantacinque dollari e uno per venticinque. È giusto?
— Piacevolmente giusto. Adesso, che ne dice della rivista al Mabry?
— Se vuole, chiamo mio marito e glielo chiedo, — disse la ragazza. — È il portiere, laggiù.
Il professor Hale esalò un profondo sospiro, ma i suoi occhi vispi continuarono a brillare. — Credo che sarà senz’altro d’accordo, — dichiarò. — Eccole i biglietti, cara. Ci vada con lui. Mi sono ricordato di avere del lavoro importante, stasera.
La ragazza sgranò gli occhi, ma prese i biglietti.
Il professor Hale entrò nella più vicina cabina telefonica e chiamò la sua sorella maggiore. — Agatha, devo restare in ufficio stasera, — le disse.
— Milton, lo sai che puoi lavorare altrettanto bene nel tuo studio qui a casa. Ho sentito la tua trasmissione, Milton. È stata meravigliosa.
— Erano pure sciocchezze, Agatha. Completa spazzatura. Cosa ho detto?
— Diamine, hai detto che… sì… che le stelle sono… voglio dire, che tu non…
— Proprio così, Agatha. La mia intenzione era quella d’impedire che il panico si diffondesse tra il popolino. Se gli avessi detto la verità, si sarebbero tutti spaventati. Ma mostrandomi pomposo e molto scientifico, gli ho lasciato credere che tutto fosse… uh… sotto controllo. Sai, Agatha, cosa vuol dire parallelismo di gradiente entropico?
— Be’… non esattamente.
— Neppure io.
— Milton, hai bevuto?
— Non… No, non ho bevuto. Ma, Agatha, non posso proprio venire a lavorare a casa stasera. Userò il mio studio all’università, perché devo consultare parecchi testi che sono là. E anche le carte stellari.
— Ma, Milton, quei soldi che hai ricevuto per la tua trasmissione? Sai che non è prudente che tu vada in giro con dei soldi in tasca, quando ti senti… così.
— Non è contante, Agatha. È un assegno, e te lo spedirò per posta prima di andare all’università. Non lo incasserò lo stesso. Che ne dici?
— Be’… se devi consultare la biblioteca, suppongo che tu debba farlo. Arrivederci, Milton.
Il professor Hale attraversò la strada fino al più vicino emporio. Qui acquistò un francobollo e una busta, e incassò l’assegno da venticinque dollari. Poi infilò l’assegno da settantacinque dollari nella busta, la chiuse e la spedì.
Quando fu accanto alla cassetta delle lettere, alzò lo sguardo al cielo della prima sera… rabbrividì e abbassò in fretta gli occhi. Prese la strada per il bar più vicino e ordinò un doppio scotch.
— È un bel po’ che non la si vede, professor Hale, — gli disse Mike, il barman.
— Infatti, Mike. Versamene un altro.
— Certo. Offre la casa, stavolta. Eravamo sintonizzati sulla sua trasmissione proprio un momento fa. È stata splendida.
— Sì.
— Proprio così. Ero un po’ preoccupato per ciò che sta succedendo là in alto, con mio figlio aviatore e tutto il resto. Ma fintanto che voi gente di scienza sapete di che cosa si tratta, immagino che tutto sia a posto. È stato proprio un bel discorso, professore. Ma c’è una domanda che vorrei farle.
— Lo temevo, — disse il professor Hale.
— Queste stelle… Si muovono, vanno da qualche parte. Ma dove? Voglio dire, come ha detto lei, se si muovono…
— Non c’è modo di saperlo con esattezza, Mike.
— Non si muovono tutte in linea retta?
L’illustre scienziato ebbe un impercettibile istante di esitazione.
— Be’… si e no, Mike. Stando alle analisi spettroscopiche, esse mantengono la stessa distanza da noi, tutte. Perciò si muovono… se si muovono… in cerchio intorno a noi. Ma questi cerchi ci appaiono tutti dritti, in prospettiva. Voglio dire, sembra che noi siamo nel centro esatto di tutti questi cerchi, perciò le stelle che si muovono non si avvicinano né si allontanano dalla Terra.
— Si potrebbero disegnare quelle linee… cioè quei cerchi?
— Su un mappamondo celeste, si. Lo si sta già facendo. Sembrano dirigersi tutte verso una certa zona del cielo, ma non verso un unico punto. In altre parole, le loro traiettorie non si intersecano.
— Verso quale zona del cielo stanno andando?
— All’incirca fra l’Orsa Maggiore e il Leone, Mike. Quelle più lontane da quella zona si muovono più in fretta, quelle più vicine con più lentezza. Ma. dannazione, Mike, sono venuto qui per dimenticare le stelle, non per parlarne. Dammene un altro.
— Tra un attimo, professore. E una volta arrivate là, si fermeranno oppure continueranno a muoversi?
— Come diavolo faccio a saperlo, Mike? Se si sono messe in movimento tutte al medesimo istante, e tutte già in piena velocità… voglio dire, se sono partite con la stessa velocità che hanno adesso, senza accelerare strada facendo… suppongo che allo stesso modo potrebbero fermarsi tutte nel medesimo istante, senza preavviso.
Si arrestò all’improvviso, allo stesso modo in cui avrebbero potuto fare le stelle. Fissò la sua immagine riflessa nello specchio dietro al bar, come se non l’avesse mai vista prima.
— Cosa succede, professore?
— Mike!
— Sì, professore?
— Mike, sei un genio.
— Io? Lei sta scherzando.
Il professor Hale gemette: — Mike, devo andare all’università a studiare la cosa. Per avere accesso alla biblioteca e al mappamondo celeste che vi si trovano. Stai facendo di me un uomo onesto, Mike. Su, impacchettami una bottiglia di questo scotch, di qualunque marca sia.
— È Tartan Plaid. Un quartino?
— Un quartino. E fai in fretta. Devo vedere un tizio a proposito d’una stella-cane.
— Parla sul serio, professore?
Il professor Hale emise un fragoroso sospiro. — La colpa è tua, Mike. Sì, la stella-cane… Sirio. Vorrei non essere mai entrato qui, Mike. La mia prima notte fuori casa dopo tanti anni, e tu me la rovini.
Prese un tassì per recarsi all’università, entrò con la sua chiave e accese la luce nel suo studio privato e nella biblioteca. Poi ingollò una robusta sorsata di Tartan Plaid e si tuffò nel lavoro.
Per prima cosa si qualificò con la capo-centralinista, e dopo una breve, energica discussione ottenne un collegamento con l’astronomo capo dell’Osservatorio Cole.
— Sono Hale, Ambruster, — disse. — Ho un’idea, ma voglio controllare i miei dati prima di cominciare a lavorarci sopra. Secondo le ultime informazioni che ho ricevuto, c’erano quattrocentosessantotto stelle che mostravano un moto proprio. La cifra è ancora questa?
— Sì, Milton. Sono all’opera sempre le stesse stelle, non altre.
— Bene. Ho la lista completa, allora. C’è stato qualche cambiamento nella velocità di spostamento di qualcuna di esse?
— No. Per quanto sembri impossibile, resta costante. Qual’è la sua idea?
— Prima voglio controllare la mia teoria. Se dovesse funzionare, in un modo o nell’altro, la richiamerò. — Ma si dimenticò di farlo.
Fu un lavoro lungo e noioso. Prima di tutto, Hale disegnò una carta stellare dettagliata della zona del cielo fra l’Orsa Maggiore e il Leone. Attraverso quella zona, tracciò 468 linee diritte che rappresentavano la proiezione delle traiettorie di ogni stella aberrante. Ai bordi di quella mappa, nei punti in cui ognuna di quelle traiettorie vi penetrava, annotò la velocità apparente della stella — non in anni-luce all’ora, bensì in gradi all’ora — con l’approssimazione fino al quinto decimale.
Poi fece qualche ragionamento.
— Postulando che il movimento, iniziatosi contemporaneamente per tutte, s’interrompa simultaneamente, — si disse, — proviamo a indovinare quale l’istante… Facciamo, ad esempio, le dieci di domani sera.
Ci provò, e fissò il complesso delle estrapolazioni sulla carta. Niente.
Provò allora con l’una del mattino. Sembrò quasi… che avesse senso!
Tornò indietro a mezzanotte.
Funzionava. In ogni caso, c’era vicino, ormai. I calcoli potevano avere discrepanze di qualche minuto, al più, e non valeva la pena, adesso, andare a cercare l’istante esatto. Soprattutto adesso che conosceva quell’incredibile fatto.
Trangugiò un altro drink e fissò la carta con sguardo truce.
Una capatina in biblioteca diede al professor Hale l’ulteriore informazione che gli serviva: l’indirizzo!
Così, ebbe inizio la saga del viaggio del professor Hale. Un viaggio inutile, è vero, ma un viaggio che poteva ben annoverarsi alla pari di quello del dottor Livingstone.
Lo iniziò con un drink. Poi, conoscendo la combinazione, aprì e saccheggiò la cassaforte nell’ufficio del rettore. L’appunto che lasciò nella cassaforte era un capolavoro di concisione. Diceva:
Presi soldi. Spiegherò dopo.
Poi trangugiò un altro sorso e s’infilò la bottiglia in tasca. Uscì e chiamò un tassi.
Ci s’infilò dentro.
— Dove, signore? — chiese il tassista.
Il professor Hale gli diede un indirizzo.
— Fremont Street? — chiese il tassista. — Scusi, signore, ma non so dove si trova.
— A Boston, — disse il professor Hale. — Avrei dovuto dirglielo… a Boston.
— Boston? Vuol dire Boston, Massachusetts? È parecchio lontano da qui.
— Perciò, sarà meglio partire subito, — disse il professor Hale, a fil di logica. Una breve discussione d’ordine finanziario e il trasferimento d’una consistente porzione del denaro prelevato dalla cassaforte dell’università, ridiedero una completa tranquillità di spirito al tassista. Si misero in viaggio.
Era una notte d’un gelo pungente, per il mese di marzo, e il riscaldamento del tassì non funzionava molto bene. Ma il Tartan Plaid funzionò in modo superlativo sia per il professor Hale che per il tassista, e quando ebbero raggiunto New Haven ambedue cantavano a gran voce le canzoni dei vecchi tempi.
— Via ce ne andiamo, nell’ampia selva al di làaaa… — ruggivano le loro voci.
Si racconta, per quanto, data l’incresciosità della cosa, sia con ogni probabilità un parto della fantasia, che a Hartford il professor Hale si sia rivolto sfrontatamente a una giovane donna in attesa d’un tram notturno, sporgendosi dal finestrino, chiedendole se volesse andare a Boston. Comunque, a quanto pare, la giovane donna non andò a Boston poiché, alle cinque del mattino, quando la macchina si arrestò davanti al 614 di Fremont Street, Boston, soltanto il professor Hale e il tassista si trovavano al suo interno.
Il professor Hale scese dal tassì e guardò la casa. Era la dimora d’un milionario, ed era circondata da un’alta cancellata di ferro con del filo spinato in cima. Il cancello era chiuso a chiave e non c’era nessun campanello visibile.
Ma la casa si trovava a un solo tiro di sasso dal marciapiede e il professor Hale non si lasciò scoraggiare. Tirò un sasso. Poi un altro. Alla fine riuscì a fracassare un vetro.
Dopo un breve intervallo, un uomo comparve alla finestra. Un maggiordomo, decise il professor Hale.
— Sono il dottor Milton Hale, — gridò. — Voglio vedere subito Rutherford R. Sniveley. È importante.
— Il signor Sniveley non è in casa, signore, — rispose il maggiordomo. — In quanto alla finestra…
— Al diavolo la finestra? — urlò il professor Hale.
— Dov’è Sniveley?
— A pescare.
— Dove?
— Ho ordini precisi di non dare quest’informazione.
Forse il professor Hale era un po’ ubriaco. — Me la darà lo stesso, — ruggì. — Per ordine del Presidente degli Stati Uniti.
Il maggiordomo scoppiò a ridere: — Non lo vedo proprio.
— Lo vedrà, — ribadì Hale.
Tornò al tassi. Il conducente si era addormentato, ma Hale lo svegliò a scossoni.
— La Casa Bianca, — gli ordinò il professor Hale.
— Uh?
— La Casa Bianca, a Washington, — ripeté il professor Hale. — E in fretta! — Tirò fuori di tasca un altro biglietto da cento dollari. Il tassista lo fissò e cacciò un gemito. Poi s’infilò la banconota in tasca e mise in moto l’auto.
Cominciava a cadere una spolverata di neve.
Mentre la macchina si allontanava, Rutherford R. Sniveiey, sogghignando, si allontanò dalla finestra. Il signor Sniveiey non aveva mai avuto un maggiordomo.
Se il professor Hale avesse conosciuto il bizzarro carattere dell’eccentrico signor Sniveiey, avrebbe capito subito che Sniveiey non teneva mai servitori durante la notte, ma viveva solo nella grande casa al 641 di Fremont Street. Ogni mattina, alle dieci, un piccolo esercito di servitori invadeva la casa, facevano tutti i lavori il più rapidamente possibile, e se ne andavano tutti prima dell’ora fatidica, mezzogiorno. A parte quelle due ore, ogni giorno, il signor Sniveiey viveva in solitario splendore. Aveva pochissimi contatti sociali, se pur ne aveva.
A parte le poche ore del giorno che passava ad amministrare i suoi vasti interessi (era uno dei più grandi industriali del paese), il tempo del signor Sniveiey apparteneva a lui solo, e lui lo passava praticamente tutto nel suo laboratorio a fabbricare marchingegni.
Sniveiey possedeva, perciò, un portasigari che gli porgeva un sigaro acceso tutte le volte che gliel’ordinava in tono brusco, e un radioricevitore così ben regolato che si accendeva automaticamente sui programmi sponsorizzati da Sniveiey, per spegnersi subito non appena erano finiti. Aveva una vasca da bagno che gli forniva un completo accompagnamento orchestrale quando lui c’era dentro e cantava, e aveva un congegno che gli leggeva ad alta voce qualunque libro posto sul suo leggio.
La vita del signor Sniveiey poteva anche essere solitaria, ma non difettava certo di simili comodità materiali. Eccentrico, si, il signor Sniveiey poteva permettersi di essere eccentrico, con un reddito netto di quattro milioni di dollari l’anno. Niente male per un uomo che aveva iniziato la sua esistenza come figlio d’un comune impiegato d’una compagnia di trasporti marittimi.
Il signor Sniveiey ridacchiò, mentre guardava il tassì che si allontanava, e poi tornò a letto, per il sonno dei giusti.
«Così, qualcuno c’è arrivato con diciannove ore di anticipo», pensò. «Be’, gli servirà davvero tanto!»
Non c’era alcuna legge che potesse punirlo per ciò che aveva fatto…
Quel giorno, le librerie fecero affari d’oro vendendo testi di astronomia. Il pubblico, a tutta prima apatico, adesso si mostrava tremendamente interessato. Perfino antichi e muffiti esemplari dei Principia di Newton andarono venduti a peso d’oro. L’etere era un continuo intrecciarsi di roboanti commenti sulla nuova meraviglia dei cieli. Assai pochi di questi commenti erano professionali, o anche soltanto intelligenti. Poiché quel giorno la maggior parte degli astronomi dormiva. Erano riusciti a restare svegli per quarantott’ore filate, da quando era iniziato il fenomeno, ma il terzo giorno li aveva trovati esausti di mente e di corpo, e inclini a lasciare che le stelle se la sbrigassero da sole mentre loro — gli astronomi, non le stelle — si rifacevano del sonno perduto.
Offerte astronomiche da parte degli studi radiofonici e televisivi indussero alcuni di loro a tentare delle conferenze, ma i loro sforzi furono cose orrende che è meglio dimenticare. Il dottor Carver Blake, trasmettendo alla KNB, cadde addormentato tra un apogeo e un perigeo.
Anche i fisici erano molto richiesti. Tuttavia, il più eminente tra i fisici fu cercato invano. L’unico, solitario indizio della scomparsa del dottor Milton Hale, «Presi soldi. Spiegherò dopo», non fu di molto aiuto. Sua sorella Agatha temeva il peggio.
Per la prima volta nella storia, notizie di astronomia occupavano i titoli di testa dei giornali.
La neve aveva cominciato a cadere quella mattina, sul presto, lungo lo zoccolo continentale dell’Atlantico del Nord, e adesso la situazione meteorologica stava peggiorando continuamente. Proprio appena fuori di Waterbury, Connecticut, il conducente del tassì del professor Hale comincio a dar segni di cedimento.
Non era umano, pensò, che ci si aspettasse che un uomo guidasse fino a Boston e poi, senza praticamente fermarsi, da Boston a Washington. Neppure per cento dollari.
Comunque, non con una bufera di neve come quella. Diamine, riusciva a vedere si e no per una dozzina di metri davanti a sé, nel turbinio, anche quando riusciva a tenere gli occhi aperti. Il suo passeggero se la dormiva sonoramente sul sedile posteriore. Forse, si, avrebbe potuto fermarsi per un’ora qui, lungo la strada, per rifarsi d’un po’ di sonno perduto. Il suo passeggero non si sarebbe neppure accorto della differenza. Quel tizio doveva esser proprio uno svitato, pensò, altrimenti perché non aveva preso un treno o un aereo?
Il professor Hale avrebbe anche potuto farlo. Ma non era abituato a viaggiare, e inoltre c’era il Tartan Plaid. Un tassì gli era parso il modo più facile per arrivare dappertutto — niente preoccupazioni per i biglietti, le coincidenze, le stazioni. Non era questione di soldi, e le condizioni della sua mente sotto l’influsso del Tartan gli avevano fatto trascurare il fattore umano che fatalmente sarebbe entrato in gioco in un viaggio in tassì di quella lunghezza.
Quando si svegliò, quasi congelato, nel tassì parcheggiato, quel fattore umano non poté più essere trascurato. Il tassista era addormentato così profondamente che non si svegliò neppure ai più energici scrolloni. L’orologio del professor Hale si era fermato, così non aveva la minima idea di dov’era e che ora fosse.
Inoltre, per sua sfortuna, non aveva nessuna idea di come guidare un tassì. Inghiottì una rapida sorsata di Tartan per non congelarsi del tutto, poi scivolò fuori dal tassì, e mentre faceva questo una macchina gli si fermò accanto.
Era un poliziotto — e per di più il poliziotto giusto su un milione.
Urlando sopra il frastuono della bufera, Hale si appellò a lui.
— Sono il professor Hale, — gridò. — Ci siamo perduti. Dove mi trovo?
Entri qui prima di gelare, — gli intimò il poliziotto. — Vuol dire il professor Milton Hale, per caso?
— Sì.
— Ho letto tutti i suoi libri, professor Hale, — dichiarò il poliziotto. — La fisica è il mio hobby, e ho sempre desiderato incontrarla. Volevo chiederle appunto del valore revisionato del quantum…
— È una questione di vita o di morte, — l’interruppe il professor Hale. — Mi può portare in fretta al più vicino aeroporto?
— E, senta… c’è un tassista, dentro quella macchina. Congelerà, se non gli manderemo aiuto.
— Lo metterò sul sedile posteriore della mia auto, e poi spingerò il tassì fuori della carreggiata. Ci occuperemo poi dei particolari.
— Faccia presto, per favore.
Il compiacente poliziotto si affrettò. Poi tornò dentro e mise in moto.
— A proposito del valore revisione del quantum, professor Hale, — ricominciò il poliziotto, ma subito s’interruppe.
Il professor Hale era piombato in un sonno profondo. Il poliziotto guidò fino all’aeroporto di Waterbury, uno dei più grandi del mondo da quando lo sviluppo di New York City verso nord, negli anni Sessanta e Settanta, gli aveva conferito una posizione centrale. Svegliò con delicatezza il professor Hale, quando si trovò davanti alla biglietteria.
— L’aeroporto, signore, — gli annunciò.
Il professor Hale era già balzato fuori dell’auto prima ancora che avesse finito di pronunciare queste parole, e correva incespicando verso l’edificio, gridando — Grazie!, — voltandosi a salutarlo e quasi cadendo a terra nel farlo.
Il ruggito dei motori di un superstratosferico che si stavano scaldando, là fuori nel campo, aggiunse ali ai suoi piedi, mentre si precipitava verso lo sportello dei biglietti.
— Che aereo è quello? — urlò.
— Il Washington Special. Parte tra un minuto. Ma non credo che ce la farà a prenderlo.
Il professor Hale sbatté una banconota da cento dollari sul banco. — Biglietto, — rantolò. — Tenga il resto.
Ghermì il biglietto e si precipitò di corsa, acchiappando l’aereo proprio nell’istante in cui le porte si chiudevano. Ansando, si lasciò cadere su un sedile, col biglietto ancora stretto tra le dita. Dormiva come un ghiro prima ancora che l’hostess, a tentoni, riuscisse ad agganciargli la cinghia.
Un po’ più tardi, l’hostess lo svegliò. I passeggeri stavano scendendo.
Il professor Hale si precipitò fuori dall’aereo e attraversò di corsa il campo fino agli edifici dell’aeroporto. Un grosso orologio appeso nell’atrio l’informò che erano le nove, e cacciò un sospiro di sollievo mentre correva verso un’uscita contrassegnata taxi.
Sali su quello più vicino.
— Casa Bianca, — disse al tassista. — Quanto ci vuole?
— Dieci minuti.
Il professor Hale cacciò un nuovo sospiro di sollievo e si lasciò andare contro i cuscini. Stavolta non ripiombò nel sonno. Adesso era del tutto sveglio. Ma chiuse gli occhi, per riflettere sulle parole più adatte a spiegar chiaramente le cose.
— Ci siamo, signore.
Il professor Hale cacciò tra le mani del tassista una banconota e balzò fuori dalla macchina, infilandosi nell’edificio. Non era come si aspettava. Ma c’era un banco e corse lì.
— Devo vedere il Presidente, presto. È d’importanza vitale!
Il professor Hale sgranò gli occhi. — Il Presidente degli… ehi, dica, che edificio è questo? E di che città?
L’impiegato inarcò ancora di più le sopracciglia. — Questo è l’Hotel Casa Bianca, Seattle, Washington.
Il professor Hale svenne. Si svegliò in un ospedale tre ore più tardi. Allora era mezzanotte, ora del Pacifico. E questo significava che erano le tre del mattino sulla costa orientale. In effetti, era stata mezzanotte esatta a Boston e a Washington, D.C., quand’era disceso di corsa dal Washington Special a Seattle. Il professor Hale corse alla finestra e agitò i pugni, tutti e due, contro il cielo. Un gesto futile.
A oriente, tuttavia, la tempesta di neve era cessata al cader della notte, lasciando una leggera bruma nell’aria. Al che il pubblico, ormai sensibilizzato alle stelle, tempestò gli uffici meteorologici per chiedere quanto sarebbe durata la nebbia.
— È prevista una brezza dall’oceano, — si sentirono rispondere. Anzi, è già cominciata. Nel giro di un’ora o due avrà spazzato via la nebbiolina.
Alle undici e dieci il cielo di Boston era perfettamente sgombro.
Migliaia e migliaia di persone affrontarono il gelo pungente e si riversarono fuori, fissando col naso all’insù la sfilata di quelle stelle non più eterne. Ciò che videro… era del tutto incredibile.
Cominciò a udirsi un mormorio sbalordito, che lentamente crebbe d’intensità, finché, un quarto a mezzanotte, la cosa fu certa, al di là di ogni dubbio. Il mormorio tacque per un attimo, poi crebbe, sempre più fragoroso, raggiungendo l’apice a mezzanotte. Gente diversa reagisce in modo diverso, naturalmente, come ci si può aspettare. Vi furono risate, come pure indignazione, cinico divertimento come pure uno sconvolto orrore. Vi fu perfino ammirazione.
Ben presto, in certi punti della città, vi fu un movimento concertato da parte di coloro che conoscevano un certo indirizzo di Fremont Street. Un movimento convergente, in parte a piedi, in parte su veicoli pubblici.
Cinque minuti prima di mezzanotte, Rutherford R. Sniveley se ne stava seduto, in attesa, dentro la sua casa. Si negava il piacere di guardare fino a quando, all’ultimo momento, la cosa non fosse stata completata. Sentì urlare il suo nome. Ma continuò ad attendere, cocciutamente, fino a quando l’orologio non ebbe battuto il dodicesimo rintocco. Poi uscì sul terrazzo. Per quanto bramasse guardare in alto, per prima cosa si costrinse ad appuntare lo sguardo giù in strada. La folla turbinante si accalcava laggiù, rabbiosa. Ma lui, per quella folla, provava soltanto disprezzo.
Anche le macchine della polizia, arrivate a gran velocità, si stavano fermando laggiù, e riconobbe il sindaco di Boston che usciva da una di esse, insieme al capo della polizia. E con ciò? Non c’era nessuna legge che prevedesse quel caso. Poi, dopo essersi negato il supremo piacere abbastanza a lungo, girò gli occhi verso il cielo silenzioso, ed eccola là. Le quattrocentosessantotto stelle più luminose che formavano, in cielo, la scritta
USATE
IL SAPONE
SNIVELY
La sua soddisfazione durò soltanto un secondo. Poi il suo volto cominciò ad assumere una tinta purpurea apoplettica.
— Mio Dio! — farfugliò il signor Sniveley. — C’è un errore di ortografia!
Il suo volto divenne ancora più purpureo, poi, come un albero schiantato dal fulmine, crollo all’indietro attraverso la portafinestra.
Un’ambulanza portò in fretta il magnate caduto al più vicino ospedale, ma qui si accertò subito che era già morto — per apoplessia.
Ma, ortografia sbagliata o no, le stelle tornate fisse mantennero la posizione che avevano assunto a mezzanotte in punto. Il movimento aberrante era cessato, e le stelle tornate immobili compitavano: usate il sapone snively!
Fra le molte spiegazioni offerte da tutti i più svariati personaggi che professavano una qualche conoscenza di astronomia o di fisica, nessuna fu più acuta — o più vicina alla verità — di quella avanzata da Wendell Mehan, presidente dell’emerita Società Astronomica di New York.
— È ovvio che il fenomeno è un gioco della rifrazione, — disse il dottor Mehan. — È del tutto impossibile che una qualunque forza concepita da un uomo possa muovere una stella. Perciò le stelle occupano ancora il loro vecchio posto nel firmamento.
— La mia ipotesi è che Sniveley abbia elaborato un modo per rifrangere la luce delle stelle, in qualche punto all’interno dell’atmosfera terrestre, o appena sopra ad essa, così da fornire l’impressione che abbiano cambiato la loro posizione. Con ogni probabilità ciò è ottenuto grazie alle onde radio o qualcosa di simile — forse non con una sola trasmittente, ma con quattrocentosessantotto singoli apparecchi disseminati sulla superficie di tutta la Terra. Anche se non riusciamo a capire come ciò possa esser fatto, non è impossibile che i raggi luminosi possano venir deviati da un campo d’onde allo stesso modo in cui opera un prisma, o le forze gravitazionali.
«Dal momento che Sniveley non era un grande scienziato, immagino che la sua scoperta sia stata empirica, più che secondo logica — una scoperta accidentale, insomma. È anche possibile che, se il suo proiettore verrà scoperto, ciò non consenta agli scienziati di capirne il segreto, non più di quanto un selvaggio sia in grado di comprendere il funzionamento d’un semplice apparecchio radio, smontandolo.
«Dico questo perché mi sembra ovvio il fatto che questa particolare rifrazione è un fenomeno tetradimensionale, altrimenti i suoi effetti sarebbero puramente locali e limitati a una sola porzione del globo. Soltanto nella quarta dimensione e possibile che la luce venga rifratta in questo modo…
C’erano molte altre cose, ma è meglio saltare all’ultimo paragrafo:
— Non è possibile che questo effetto sia permanente… in altre parole, che duri anche quando avrà cessato di funzionare il proiettore di onde che lo causa. Presto o tardi la macchina di Sniveley verrà trovata e spenta, oppure si consumerà e si guasterà da sola. Senza dubbio contiene parti delicate che un giorno si bruceranno, come fanno le valvole delle nostre radio…
La bontà dell’analisi del dottor Mehan fu dimostrata, due mesi e otto giorni più tardi, quando la Compagnia dell’Energia Elettrica di Boston interruppe, per il mancato pagamento della bolletta, l’erogazione della corrente a una casa situata al 901 di West Rogers Street, a dieci isolati di distanza dalla dimora di Sniveley. Nel medesimo istante dello spegnimento, eccitatissimi resoconti dall’emisfero notturno della Terra portarono la notizia che le stelle erano ritornate, di colpo, alle loro precedenti posizioni.
Si condussero indagini in base alle quali si appurò che un certo Elmer Smith, il quale aveva comperato quella casa sei mesi prima, corrispondeva perfettamente alla descrizione di Rutherford R. Sniveley: senza alcun dubbio, perciò, Elmer Smith e Rutherford R. Sniveley erano la stessa persona.
All’ultimo piano di quella casa fu trovato un complicatissimo impianto comprendente 468 antenne radio, ognuna di diversa lunghezza, e tutte rivolte in differenti direzioni. Cosa strana, la macchina alla quale erano collegate non era più grande d’una trasmittente da radioamatore anche se, in base ai dati della compagnia elettrica, consumava una quantità esorbitante di corrente.
Per precisa disposizione del Presidente degli Stati Uniti, il proiettore fu distrutto senza esaminarne la struttura interna. Da molte parti si levarono chiassose proteste contro una decisione così arbitraria dell’esecutivo. Ma, dal momento che ormai il proiettore era stato fatto a pezzi, le proteste non servirono a nulla.
Cosa ancor più sorprendente, tutta la faccenda non ebbe serie ripercussioni.
Roger Phlutter uscì di prigione e sposò Elsie. Il professor Milton Hale sì accorse che Seattle gli piaceva, e vi restò. Anche perché aveva scoperto che, a una distanza di duemila miglia da sua sorella Agatha gli era possibile, per la prima volta, sfidarla apertamente. Oggi, Milton Hale si sta godendo assai di più la vita ma, si teme, scriverà assai meno libri.
Rimane un ultimo fatto, che è assai più penoso da considerare, dal momento che esso si riflette assai profondamente sul reale livello dell’intelligenza umana. E consente di provare, altresì, che l’ordine tassativo impartito dal Presidente era più che giustificato, malgrado le proteste degli scienziati.
Il fatto è umiliante, e allo stesso tempo illuminante. Durante i due mesi e otto giorni che videro in funzione il proiettore di Sniveley, le vendite del Sapone Sniveley aumentarono del 915 per cento.