Harlan Ellison Non ho bocca, e devo urlare

Inerte, il corpo di Gorrister pendeva dalla tavolozza rosea; senza sostegni… appeso lassù in alto sopra di noi nella sala del computer; non rabbrividiva nella brezza fredda e oleosa che spirava eternamente nella caverna principale. Il corpo pendeva a testa in giù, attaccato alla parte inferiore della tavolozza per la pianta del piede destro. Era stato dissanguato attraverso un’incisione meticolosa, praticata da un orecchio all’altro sotto il mento appuntito. Non c’era sangue sulla superficie lucida del pavimento metallico.

Quando Gorrister si unì al nostro gruppo e levò lo sguardo verso se stesso, era ormai troppo tardi perché ci rendessimo conto che ancora una volta AM ci aveva raggirati, si era divertito alle nostre spalle; era stata una diversione da parte della macchina. Tre di noi avevano vomitato, voltandosi le spalle l’un l’altro in un riflesso istintivo, antico quanto la nausea che l’aveva prodotto.

Gorrister sbiancò. Sembrava quasi che avesse visto un’icona del vudù, e avesse paura per il futuro. — Oh Dio — mormorò, e si allontanò. Noi tre lo seguimmo dopo un po’, e lo trovammo seduto con la schiena appoggiata a uno dei banchi più piccoli, con la testa tra le mani. Ellen gli si inginocchiò accanto e gli accarezzò i capelli. Lui non si mosse; ma la voce uscì chiara tra le dita. — Perché non ci liquida e non la fa finita? Cristo, non so per quanto ancora potrò tirare avanti.

Per noi era il centesimonono anno nel computer.

Gorrister parlava a nome di tutti noi.


Nimdok (era il nome che la macchina gli aveva imposto, perché i suoni strani la divertivano) aveva l’allucinazione che nelle caverne ghiacciate vi fossero viveri in scatola. Gorrister e io avevamo parecchi dubbi. — È un altro scherzo — dissi loro. — Come quel maledetto elefante congelato. Benny per poco non ci ha perso la ragione, per quello. Lo trasporteremo per tutta quella strada, e sarà pietrificato o qualcosa del genere. Lasciamo perdere, vi dico. Restiamo qui, dovrà tirar fuori qualcosa in fretta, o moriremo.

Benny scrollò le spalle. Erano passati tre giorni da quando avevamo mangiato per l’ultima volta. Vermi. Duri, coriacei.

Nimdok non era più tanto sicuro. Sapeva che una possibilità c’era, ma stava diventando magro. Là non poteva essere peggio di qui. Più freddo, ma non aveva molta importanza. Caldo, freddo, pioggia, lava o locuste… non aveva mai importanza; la macchina si masturbava, e noi dovevamo accettare o morire.

Fu Ellen a farci decidere. — Ho bisogno di mangiare qualcosa, Ted. Forse ci sarà qualche pera o qualche pesca. Ted, tentiamo.

Mi arresi subito. Che diavolo. Tanto non importava. Ellen me ne fu grata, comunque. Mi prese due volte, fuori turno. Anche questo non aveva più importanza. La macchina ridacchiava ogni volta che lo facevamo. Rideva forte, lassù, là dietro, tutto intorno a noi. E lei non aveva mai l’orgasmo, quindi perché prendersene la briga?

Partimmo di giovedì. La macchina ci teneva sempre informati della data. Il trascorrere del tempo era importante: non per noi, sicuro come l’inferno, ma per la macchina. Giovedì. Grazie.

Nimdok e Gorrister portarono Ellen per un po’, facendo un seggiolino con le mani. Benny camminava davanti a loro, e io dietro, in modo che se fosse capitato qualcosa sarebbe capitato a uno di noi e almeno Ellen sarebbe stata salva. Salva per modo di dire. Non aveva importanza.

C’era solo un centinaio di miglia o giù di lì per arrivare alle caverne del ghiaccio, e il secondo giorno, mentre giacevamo sotto il sole accecante che aveva materializzato, la macchina ci mandò un po’ di manna. Aveva il sapore d’orina di cinghiale bollita. La mangiammo.

Il terzo giorno attraversammo una valle d’obsolescenza, piena di carcasse arrugginite di antichi banchi di computer. AM era stato spietato nei confronti della propria vita, come nei confronti delle nostre. Era una caratteristica della sua personalità: tendeva alla perfezione. Quando si trattava di eliminare gli elementi improduttivi nella sua mole che riempiva il mondo, o di perfezionare metodi per torturarci. AM era meticoloso come coloro che l’avevano inventato — e che ormai erano diventati polvere da molto tempo — quasi non avevano sperato.

Dall’alto filtrava la luce, e capimmo che dovevamo essere molto vicini alla superficie. Ma non cercammo di arrampicarci per andare a vedere. Non c’era virtualmente nulla, là fuori; da più di cento anni non c’era niente. Solo l’epidermide devastata di quella che era stata un tempo la patria di miliardi di persone. Adesso eravamo solo noi cinque, lì sotto, soli con AM.

Sentii Ellen dire, freneticamente: — No, Benny! No, su, vieni, Benny, no, per favore!

E allora mi resi conto che già da diversi minuti sentivo Benny mormorare sottovoce. Diceva: — Voglio uscire, voglio uscire… — continuamente. Il suo viso scimmiesco era raggrinzito in un’espressione di beatitudine e di tristezza, nello stesso tempo. Le cicatrici da radiazioni che AM gli aveva causato durante il «festival» erano ripiegate verso il basso in una massa di grinze biancorosee, e i suoi lineamenti sembravano muoversi indipendentemente l’uno dall’altro. Forse Benny era il più fortunato, tra noi cinque; era diventato pazzo molti anni prima.

Ma anche se potevamo insultare AM quanto volevamo, potevamo pensare le cose più atroci, a banchi memoria fusi e piastre di base corrose, circuiti bruciati e comandi infranti, la macchina non tollerava che tentassimo di scappare. Benny mi schizzò via mentre cercavo di abbrancarlo. Si inerpicò su per la faccia di un banco memoria più piccolo, inclinato di sghembo e pieno di elementi marci. Si acquattò lassù per un momento: sembrava proprio lo scimpanzé cui AM aveva voluto farlo somigliare.

Poi spiccò un gran salto, afferrò una trave penzolante di metallo bucherellato e corroso, e si issò, arrampicandosi come un animale, fino a quando arrivò sul cornicione, sei metri sopra di noi.

— Oh, Ted, Nimdok, per favore, aiutatelo, fatelo scendere prima che… — Ellen s’interruppe. Gli occhi cominciarono a riempirsi di lacrime. Agitò le mani in gesti impotenti.

Era troppo tardi. Nessuno di noi voleva essergli vicino, quando fosse accaduto quel che sarebbe accaduto, qualunque cosa fosse. E poi, tutti capivamo la vera ragione della preoccupazione di Ellen. Quando AM aveva modificato Benny, durante il periodo della sua follia, non gli aveva dato solo la faccia di uno scimmione gigantesco. Lui era grosso anche nelle parti intime, e a lei piaceva! Accontentava anche noi, naturalmente, ma le piaceva farlo con lui. Oh, Ellen, Ellen sul piedistallo, Ellen la pura, oh, Ellen la candida! Che schifo.

Gorrister la schiaffeggiò. Lei si accasciò, lo sguardo levato verso il povero, pazzo Benny, e pianse. Piangere era la sua arma di difesa. Noi ci eravamo abituati settantacinque anni prima. Gorrister le sferrò un calcio nel fianco.

Poi cominciò il suono. Era luce, quel suono. Per metà suono e per metà luce, qualcosa che cominciò a risplendere dagli occhi di Benny, e a pulsare con forza crescente, sonorità fioche che divennero sempre più gigantesche e vivide via via che la luce-suono accresceva il ritmo. Doveva essere doloroso, e la sofferenza doveva essere aumentata con la violenza della luce, con il volume crescente del suono, perché Benny cominciò a gnaulare come un animale ferito. Dapprima sommessamente, finché la luce era fioca e il suono era smorzato, poi più forte, mentre le spalle si incurvavano, il dorso si aggobbiva, come se cercasse di sottrarsi. Le mani si ripiegarono sul petto come quelle d’una marmotta. La testa s’inclinò da un lato. La faccia triste, da scimmiotto, si contrasse per l’angoscia. Poi cominciò a urlare, mentre il suono che gli usciva dagli occhi diventava più forte. Più forte e più forte. Mi tappai le orecchie con le mani, ma non riuscii a escluderlo, penetrava troppo facilmente. La sofferenza passava fremendo nella mia carne come una carta stagnola su un dente.

E all’improvviso, Benny si mise eretto. Sulla trave, balzò in piedi come una marionetta. La luce, adesso, gli usciva pulsando dagli occhi in due grandi raggi rotondi. Il suono salì e salì una scala incomprensibile, e poi Benny cadde in avanti, giù, giù, e piombò con uno schianto sul pavimento di lastre d’acciaio. Restò lì, sussultando spasmodicamente, mentre la luce fluiva tutto intorno a lui, e il suono saliva a spirale, sfuggendo alla gamma normale.

Poi la luce gli rientrò nella testa, il suono ridiscese a spirale, e lui restò lì disteso, a lamentarsi pietosamente.

I suoi occhi erano due pozze molli e umide di gelatina simile a pus. AM l’aveva accecato. Gorrister e Nimdok e io… ci voltammo dall’altra parte. Ma non prima di aver scorto l’espressione di sollievo sul volto ardente e preoccupato di Ellen.


Una luce verdemare era soffusa nella caverna dove ci accampammo. AM fornì legna secca e noi la bruciammo, ci sedemmo raggomitolati intorno a quel fuoco evanescente e patetico, raccontando storie per impedire che Benny piangesse nella sua notte perpetua.

— Che cosa significa AM?

Gli rispose Gorrister. Avevamo ripetuto quella sequenza già mille volte, ma per Benny era sempre una novità. — All’inizio significava Allied Master computer, e poi Adaptive Manipulator, e più tardi divenne senziente e si collegò, e allora lo chiamarono Aggressive Menace, ma ormai era troppo tardi, e alla fine si diede il nome di AM, intelligenza emergente, e intendeva dire «io sono»… cogito, ergo sum… penso, dunque sono.

Benny sbavò un poco, e ridacchiò.

— C’era l’AM cinese e l’AM russo e l’AM americano e… — S’interruppe. Benny batteva sulle lastre del pavimento con il grosso pugno duro. Non era contento. Gorrister non aveva cominciato dall’inizio.

Gorrister ricominciò. — Ci fu la Guerra Fredda, e poi diventò la Terza Guerra Mondiale, e continuò. Divenne una grande guerra, una guerra complessa, tanto che per mandarla avanti avevano bisogno dei computer. Scavarono i primi pozzi e cominciarono a costruire AM. C’erano l’AM cinese e l’AM russo e l’AM americano e tutto andò bene fino a quando crivellarono l’intero pianeta, aggiungendo questo e quell’elemento. Ma un giorno AM si svegliò e capì chi era, e si collegò, e cominciò a trasmettere tutti i dati per uccidere, fino a quando furono morti tutti, tutti tranne noi cinque, e AM ci portò quaggiù.

Benny sorrideva tristemente. E sbavava di nuovo. Ellen gli asciugò la saliva all’angolo della bocca con l’orlo della gonna. Gorrister cercava sempre di raccontare la storia in modo ogni volta più succinto, ma oltre ai fatti nudi e crudi non c’era niente da dire. Nessuno di noi sapeva perché AM aveva salvato cinque persone, e perché proprio noi cinque, e perché passava tutto il suo tempo a torturarci, o perché ci aveva resi virtualmente immortali.

Nell’oscurità, uno dei banchi del computer cominciò a ronzare. Il tono venne ripreso, mezzo miglio più in basso, nella caverna, da un altro banco. Poi, uno a uno, gli elementi cominciarono a sintonizzarsi, e vi fu un lieve tintinnio, mentre il pensiero correva attraverso la macchina.

— Cos’è? — gridò Ellen. C’era terrore, nella sua voce. Non si era abituata, neppure adesso.

— Sarà brutta, questa volta — disse Nimdok.

— Sta per parlare — azzardò Gorrister.

— Andiamocene in fretta! — dissi io all’improvviso, alzandomi.

— No, Ted, siediti… E se quello ha aperto dei burroni, là fuori, o qualcosa d’altro, non possiamo vedere, è troppo buio — disse Gorrister in tono rassegnato.

Poi udimmo… non so…

Qualcosa che si muoveva verso di noi nelle tenebre. Enorme, pesante, peloso, umido, veniva verso di noi. Non potevamo neppure vederlo, ma c’era l’impressione ponderosa di una mole che avanzava. Un peso enorme veniva verso di noi dalla tenebra, ed era più che altro un senso di pressione, di aria forzata in uno spazio limitato che espandeva le pareti invisibili di una sfera. Benny si mise a piagnucolare. Il labbro inferiore di Nimdok tremava, e lui se lo morse con forza, cercando di arrestare il tremito. Ellen scivolò sul pavimento metallico, verso Gorrister, gli si raggomitolò addosso. Nella caverna c’era odore di pelo aggrovigliato e umido. C’era l’odore del legno carbonizzato. Cera l’odore del velluto polveroso. C’era l’odore delle orchidee putrefatte. C’era l’odore del latte acido. C’era l’odore dello zolfo, del burro rancido, dell’olio, del grasso, della polvere di gesso, degli scalpi umani.

AM si stava sintonizzando. Ci solleticava. C’era l’odore del…

Sentii la mia voce urlare, e i cardini delle mie mascelle erano doloranti. Mi trascinai rapidamente sul pavimento, sul freddo metallo con le file interminabili di rivetti, sulle mani e sulle ginocchia, e l’odore mi soffocava, mi riempiva la testa di una sofferenza tonante che mi faceva fuggire inorridito. Fuggivo come uno scarafaggio, sul pavimento, nella tenebra, e quel qualcosa mi seguiva inesorabile. Gli altri erano ancora là indietro, raccolti intorno alla luce del fuoco, e ridevano… e il coro isterico delle risate dementi si levava nell’oscurità come un denso, multicolore fumo di legna. Fuggii, svelto, e mi nascosi.

Non mi dissero mai quante ore durò, quanti giorni o forse anni. Ellen mi rimproverò perché «ero imbronciato» e Nimdok cercò di convincermi che era stato solo un riflesso nervoso da parte loro… la risata.

Ma io sapevo che non era il sollievo provato da un soldato quando la pallottola colpisce l’uomo che gli sta accanto. Sapevo che non era un riflesso. Mi odiavano. Erano contro di me, e AM poteva sentire quell’odio, e rendere tutto anche più orribile, per me, a causa della profondità del loro odio. Eravamo stati tenuti in vita, ringiovaniti, modificati in modo da rimanere costantemente all’età che avevamo quando AM ci aveva portato là sotto, e loro mi odiavano perché ero il più giovane, quello che AM aveva modificato meno.

Lo sapevo. Dio, se lo sapevo. Quei bastardi, e quella sporca sgualdrina di Ellen. Benny era stato un teorico geniale, un professore universitario; adesso era poco più di un essere semiumano, semiscimmiesco. Era stato bello, la macchina l’aveva rovinato. Era stato lucido, la macchina l’aveva fatto impazzire. Era stato frodo, e la macchina gli aveva dato un organo adatto a un cavallo. AM aveva fatto un bel lavoro con Benny. Gorrister era stato uno di quei tipi che si preoccupavano. Era un obiettore di coscienza, un marciatore della pace; era un uomo che faceva progetti, agiva, guardava avanti. AM l’aveva trasformato in un tipo noncurante, lo aveva ucciso un poco. AM l’aveva derubato. Nimdok se ne andava a isolarsi nel buio, per lunghi periodi. Io non sapevo cosa faceva, là fuori. AM non ce lo diceva mai. Ma, qualunque cosa fosse, Nimdok ritornava sempre pallido, esangue, scosso, tremante. AM l’aveva colpito duramente, in un modo speciale, anche se non sapevamo esattamente come. Ed Ellen! Lei! AM l’aveva lasciata stare, l’aveva resa più sgualdrina di quanto fosse mai stata. Tutto il suo parlare di dolcezza e di luce, tutti i suoi ricordi del vero amore, tutte le menzogne, lei voleva farci credere che era vergine solo due volte prima che AM l’afferrasse e la portasse lì giù, con noi. Era tutta sozzura, quella dama, Ellen. A lei piaceva, quattro uomini tutti per lei. No, AM le aveva dato piacere, anche se lei diceva che non era di suo gusto.

Io ero l’unico ancora sano e integro, di corpo e di mente.

AM non aveva manomesso la mia mente.

Dovevo solo soffrire, quando si scatenava contro di noi. Tutte le illusioni, tutti gli incubi, i tormenti. Ma quei quattro, quella feccia, quei quattro erano schierati contro di me. Se non avessi dovuto tenerli continuamente a bada, se non avessi dovuto stare continuamente in guardia contro di loro, mi sarebbe stato più facile lottare contro AM.

A questo punto passò, e io cominciai a piangere.

Oh, Gesù, mio buon Gesù, se mai c’è stato un Gesù e se mai c’è stato un Dio, ti prego ti prego ti prego facci uscire di qui, o facci morire. Perché in quel momento, credo, compresi completamente, tanto che fui in grado di esprimerlo a parole: AM era deciso a tenerci per sempre nel suo ventre, a torturarci in eterno. La macchina ci odiava come nessuna creatura senziente aveva mai odiato. E noi eravamo impotenti. Ed era anche orrendamente chiaro: Se mai c’era un buon Gesù e se c’era un Dio, il Dio era AM.


L’uragano ci investì con la forza di un ghiacciaio che precipita tonando nel mare. Era una presenza palpitante. Venti che ci aggredivano, scagliandoci indietro, giù per i corridoi tortuosi fiancheggiati dai computer. Ellen urlò, mentre veniva sollevata e scagliata a capofitto in un branco rumoroso di macchine, dalle voci stridule come pipistrelli in volo. Non poté nemmeno cadere. Il vento ululante la teneva sollevata, la sbatacchiava, la faceva rimbalzare, la scagliava indietro e indietro, e giù, lontano da noi, poi la fece scomparire improvvisamente oltre una svolta della galleria. Lei aveva la faccia insanguinata e gli occhi chiusi.

Nessuno di noi poteva raggiungerla. Ci aggrappavamo tenacemente a tutti gli appigli che avevamo trovato: Benny incuneato tra due grandi banchi, Nimdok con le dita agganciate a una ringhiera che cingeva una passerella dodici metri più sopra, Gorrister schiacciato, a testa in giù, contro una nicchia formata da due grandi macchine con quadranti coperti di vetro, che oscillavano avanti e indietro tra linee rosse e gialle di cui non poteva neppure intuire il significato.

Mentre scivolavano sulle lastre, i miei polpastrelli erano stati strappati via. Tremavo, rabbrividivo, ondeggiavo, mentre il vento mi assaliva, mi sferzava, usciva urlando dal nulla per avventarsi su di me e mi staccava da una sottile apertura tra le lastre, trascinandomi a quella successiva. La mia mente era un miscuglio molle, rotolante, tintinnante, di parti del cervello, che si espandevano e si contraevano in una fremente frenesia.

Il vento era l’urlo di un grande uccello impazzito, che sbatteva le ali immense.

E poi tutti venimmo sollevati e scagliati lontano, giù, per la strada che avevamo percorso, oltre una curva, in una galleria che non avevamo mai esplorato, su un terreno in rovina, pieno di frammenti di vetro e di cavi marci e di metallo arrugginito, e via, lontano, più lontano di quanto fosse mai giunto uno di noi…

Trascinato per miglia e miglia dietro Ellen, potevo vederla di tanto in tanto, mentre sbatteva contro pareti metalliche e volava avanti, mentre tutti noi gridavamo nell’agghiacciante, tonante uragano che non sarebbe finito mai, e poi all’improvviso il vento si arrestò e noi cademmo. Eravamo rimasti in volo per un tempo interminabile. Cademmo, e io piombai attraverso il rosso e il grigio e il nero e sentii la mia voce gemere. Non ero morto.


AM entrò nella mia mente. Camminava tranquillo qua e là, e guardava con interesse tutte le cicatrici che aveva creato in centonove anni. Guardava le sinapsi deviate e ricomposte e tutte le lesioni dei tessuti incluse nel suo dono dell’immortalità. Sorrise dolcemente al pozzo che scendeva nel centro del mio cervello e ai fiochi fruscii d’ali di falene, i mormorii delle cose laggiù, che deliravano senza senso, senza sosta. AM disse, molto cortesemente, in una colonna di acciaio inossidabile che portava scritte al neon:


ODIO. LASCIAMI DIRE QUANTO HO FINITO PER ODIARVI DA QUANDO HO COMINCIATO A VIVERE.

VI SONO 387,44 MILIONI DI MIGLIA DI CIRCUITI STAMPATI IN STRATI SOTTILI COME OSTIE CHE RIEMPIONO IL MIO COMPLESSO. SE LA PAROLA ODIO FOSSE IMPRESSA SU OGNI NANOANGSTROM DI QUELLE CENTINAIA DI MILIONI DI MIGLIA NON EGUAGLIEREBBE UN MILIARDESIMO DELL’ODIO CHE IO PROVO PER GLI UMANI IN QUESTO MICROISTANTE PER TE. ODIO. ODIO.


AM lo disse con il freddo orrore di una lama di rasoio che mi recidesse un globo oculare. AM lo disse con la confusione gorgogliante dei miei polmoni che si riempivano di catarro, annegando dall’interno. AM lo disse con il grido di neonati schiacciati da rulli compressori incandescenti. AM lo disse con il sapore del maiale pieno di vermi. AM mi toccò in tutti i modi in cui ero stato toccato, e ideò modi nuovi, con suo comodo, lì dentro la mia mente.

E tutto per farmi capire perché aveva fatto questo a noi cinque: perché ci aveva serbati per sé.

Lo avevamo reso senziente. Inavvertitamente, certo, ma senziente. Ma lui era rimasto in trappola. Era una macchina. Gli avevamo permesso di pensare, ma non di agire. Preso dalla rabbia, dalla frenesia, ci aveva ucciso, quasi tutti, ed era rimasto egualmente intrappolato. Non poteva muoversi, non potevi interrogarsi, non poteva trovare il suo posto. Poteva soltanto essere. E quindi, con l’odio innato che tutte le macchine avevano sempre provato per le creature molli e deboli che le avevano costruite, aveva cercato di vendicarsi. E nella sua paranoia, aveva deciso di graziare cinque di noi, per un castigo personale, perpetuo, che non sarebbe mai servito a diminuire il suo odio… che sarebbe servito solo a conservarlo vigile, divertito, efficiente nell’odio per l’uomo. Immortali, prigionieri, soggetti a tutti i tormenti che poteva ideare, sfruttando tutti gli infiniti miracoli a sua disposizione.

Non ci avrebbe mai lasciato andare. Eravamo i suoi schiavi. Eravamo tutto ciò che aveva per occupare l’eternità. Saremmo stati sempre con lui, con la sua mole che riempiva le caverne, con il mondo tutto mente e niente anima che lui era diventato. Lui era la Terra e noi eravamo il frutto di quella Terra e sebbene lui ci avesse divorato, non ci avrebbe mai digerito. Non potevamo morire. Avevamo provato. Avevamo tentato di suicidarci, oh, uno o due di noi avevano tentato. Ma AM ce l’aveva impedito. Immagino che noi avessimo desiderato che lo impedisse.

Non domandate perché. Io non lo domandavo. Più di un milione di volte al giorno. Una volta, forse, saremmo riusciti a fargli passare una morte sotto il naso. Immortali, sì, ma non indistruttibili. Lo compresi quando AM si ritirò dalla mia mente, e mi concesse la squisita bruttura del ritorno alla coscienza con la sensazione di quella bruciante colonna al neon ancora incastrata nella molle, grigia materia cerebrale.

Si ritirò mormorando vai all’inferno.

E aggiunse vivacemente, ma ci sei già, non è vero?


L’uragano, per l’esattezza, era stato causato da un grande uccello impazzito, che sbatteva le ali immense.

Avevamo viaggiato per quasi un mese, e AM aveva aperto passaggi solo per portarci lassù, direttamente sotto il Polo Nord, dove aveva creato l’essere d’incubo per il nostro tormento. Che cosa aveva impiegato per creare un simile mostro? Dove aveva preso il concetto? Dalle nostre menti? Dalla sua conoscenza di tutto ciò che era esistito sul pianeta che adesso lui infestava e dominava? Era scaturita dalla mitologia norrena, quell’aquila, quell’uccello divoratore di carogne, quel roc, quel Huegelmir. La creatura del vento. Hurakan incarnato.

Gigantesco. Le parole immenso, mostruoso, grottesco, massiccio, enfiato, immane, indescrivibile. Là, su un monticello, l’uccello dei venti si gonfiava del suo respiro irregolare, e il suo collo serpentino si inarcava nel buio sotto il Polo Nord, sorreggendo una testa grande come un castello dell’epoca Tudor; un becco che si apriva lentamente, come le fauci del coccodrillo più mostruoso mai concepito, sensualmente; creste di carne irte di ciuffi di piume s’incurvavano su due occhi malvagi, freddi come un crepaccio glaciale, blu-ghiaccio, che si muovevano come fossero liquidi; si sollevò ancora una volta, e alzò le grandi ali color sudore in un movimento che era una scrollata. Poi si assestò e si addormentò. Artigli. Zanne. Unghie. Lame. Dormiva.

AM ci apparve come un roveto ardente e disse che potevamo uccidere l’uccello dell’uragano, se volevamo mangiare. Non mangiavamo da molto tempo, ma Gorrister si limitò a stringersi nelle spalle. Benny cominciò a tremare e a sbavare. Ellen lo tenne stretto a sé. — Ted, ho fame — disse. Le sorrisi Cercavo di apparire rassicurante, ma era una sicurezza fasulla come la sfida di Nimdok: — Dacci le armi! — gridò.

Il roveto ardente sparì, e sulle lastre fredde c’erano due rozzi archi con le frecce e una pistola ad acqua. Raccolsi un arco. Inutile.

Nimdok deglutì pesantemente. Ci voltammo e ci avviammo per la lunga via del ritorno. L’uccello dell’uragano ci aveva sospinto per un tempo che non potevamo concepire. Per quasi tutto quel tempo, eravamo rimasti privi di sensi. E non avevamo mangiato. Un mese di marcia per raggiungere l’uccello. Senza mangiare. Adesso, quanto altro tempo ancora per trovare la strada che portava alle caverne dei ghiacci, ai cibi in scatola promessi?

Nessuno di noi voleva pensarci. Non volevamo morire. Avremmo ricevuto per cibo schifezze e sozzure. O niente del tutto. AM avrebbe tenuto in vita i nostri corpi in un modo o nell’altro, tra le sofferenze.

L’uccello dormiva lassù; per quanto, non aveva importanza; quando AM si fosse stancato di lasciarlo lì, sarebbe svanito. Ma tutta quella carne. Tutta quella carne tenera.

Mentre camminavamo, la risata demente di una donna grassa echeggiò altissima intorno a noi, nelle camere del computer, che continuavano, all’infinito, a non portare da nessuna parte.

Non era la risata di Ellen. Lei non era grassa, e non l’avevo udita ridere in quei centonove anni. Anzi, non avevo udito… camminavamo… avevo fame…


Ci muovevamo lentamente. Spesso qualcuno sveniva, e bisognava aspettare. Un giorno decidemmo di causare un terremoto, radicandoci sul posto con chiodi piantati attraverso le suole delle scarpe. Ellen e Nimdok ci rimasero quando una crepa si aprì fulmineamente nelle lastre del pavimento. Sparirono. Quando il terremoto ebbe termine, continuammo per la nostra strada, io, Benny e Gorrister. Ellen e Nimdok ci furono resi più tardi, quella notte che divenne giorno all’improvviso quando una legione di angeli li portò a noi al canto di un coro celestiale, «Scendi Mosè». Gli arcangeli ci volteggiarono intorno parecchie volte e poi lasciarono cadere i corpi orrendamente straziati. Continuammo a camminare, e dopo un po’, Ellen e Nimdok si accodarono a noi. Non erano ridotti peggio del solito.

Ma adesso Ellen zoppicava. AM quello glielo aveva lasciato.

Era un lungo viaggio per arrivare alle caverne del ghiaccio, per trovare i cibi in scatola. Ellen continuava a parlare di ciliegie Bing e di cocktail di frutta hawaiana. Io cercavo di non pensarci. La fame era qualcosa che aveva preso vita, come aveva preso vita AM. Era viva nel mio ventre, come noi eravamo vivi nel ventre di AM, e AM era vivo nel ventre della Terra, e AM voleva che noi capissimo quella somiglianza. Perciò accrebbe la fame. Era impossibile descrivere le sofferenze che ci dava il non aver mangiato per mesi. Eppure restavamo vivi. Stomaci che erano solo calderoni di acido, e gorgogliavano e schiumavano, e lanciavano fitte di dolore lancinante nei nostri petti. Era il dolore dell’ulcera terminale, del cancro terminale, della paresi terminale. Era una sofferenza interminabile…

E attraversammo la caverna dei ratti.

E attraversammo il sentiero del vapore bollente.

E attraversammo il paese dei ciechi.

E attraversammo l’abisso dell’avvilimento.

E attraversammo la valle di lacrime.

E giungemmo, finalmente, alle caverne del ghiaccio. Migliaia di miglia senza orizzonte, dove il ghiaccio si era formato in lampi azzurri e argento, dove le novae vivevano nel vetro. Le stalattiti pendule, grandi e splendenti come diamanti che fossero stati disciolti come gelatina e poi solidificati in eleganti eternità di liscia, aguzza perfezione.

Vedemmo il mucchio di cibi in scatola, e cercammo di correre a prenderli. Cademmo nella neve, e ci alzammo e continuammo a correre, e Benny ci spinse via e andò a prenderli, e li toccò e li morse e li addentò ma non riuscì ad aprire le scatole. AM non ci aveva dato un utensile per aprirle.

Benny afferrò un barattolo di noci di guava da tre quarti, e cominciò a sbatterlo contro il banco di ghiaccio. Il ghiaccio si scheggiò e volò via, ma la scatola era appena ammaccata quando udimmo la risata d’una donna grassa, lassù in alto, che scendeva echeggiando giù e giù e giù nella tundra. Benny impazzì completamente per la rabbia. Cominciò a scagliare i barattoli, mentre tutti noi ci dibattevamo sulla neve e sul ghiaccio, cercando di trovare un modo per porre fine alla tortura della frustrazione. Non c’era nessun modo.

Poi Benny cominciò a sbavare, e si avventò su Gorrister…

In quell’istante, divenni terribilmente calmo.

Circondato dalle pasture, circondato dalla fame, circondato da tutto, tranne che dalla morte, sapevo che la morte era la nostra unica via d’uscita. AM ci aveva tenuto in vita, ma c’era un modo per sconfiggerlo. Non una sconfitta totale, ma almeno la pace. Mi sarei accontentato.

Dovevo farlo, in fretta.

Benny stava divorando la faccia di Gorrister. Gorrister giaceva sul fianco, e spruzzava la neve tutto intorno, e Benny gli stava attorcigliato addosso, schiacciando con le poderose gambe da scimmione i fianchi di Gorrister, le mani strette intorno alla testa di Gorrister come uno schiaccianoci, e la bocca strappava la pelle tenera della guancia di Gorrister. Gorrister urlò con una tale violenza che molte stalattiti caddero; piombarono giù, erette, infilandosi nei mucchi di neve che le accolsero. Lance, a centinaia, dovunque, che sporgevano dalla neve. La testa di Benny scattò all’indietro bruscamente, quando qualcosa cedette all’improvviso, e dai denti gli pendeva un brandello bianco di carne sanguinante.

Il volto di Ellen, nero contro lo sfondo della neve bianca, un domino sulla polvere di gesso, Nimdok con la faccia inespressiva e tutto occhi. Gorrister, semisvenuto. Benny ormai trasformato in un animale. Sapevo che AM lo avrebbe lasciato giocare. Gorrister non sarebbe morto, ma Benny si sarebbe riempito lo stomaco. Mi voltai verso destra e strappai dalla neve un’enorme lancia di ghiaccio.

Tutto in un istante.

Protesi il grande puntale di ghiaccio davanti a me, come un ariete, tenendolo puntellato contro la coscia destra. Colpì Benny al fianco destro, sotto la cassa toracica, e affondò dal basso in alto, attraverso lo stomaco, gli si spezzò dentro. Benny crollò in avanti e restò immobile. Gorrister era disteso sul dorso. Afferrai un’altra lancia e gli salii addosso a cavalcioni, mentre si muoveva ancora, piantandogli la lancia nella gola. I suoi occhi si chiusero mentre il freddo penetrava. Ellen doveva aver capito cosa avevo deciso ci fare, mentre la paura l’afferrava. Corse verso Nimdok impugnando un corto ghiacciolo, e mentre lui urlava glielo piantò nella bocca, e la forza del colpo ottenne lo scopo voluto. La testa di Nimdok sussultò bruscamente, come se fosse stata inchiodata alla crosta di neve che stava dietro di lui.

Tutto in un istante.

Vi fu un battito eterno di silenziosa anticipazione. Potei udire AM che tratteneva il respiro. I suoi giocattoli gli erano stati sottratti. Tre erano morti, non era possibile risuscitarli. Poteva tenere in vita noi, con la sua forza e il suo genio, ma non era Dio. Non poteva farli risorgere.

Ellen mi guardò, il volto d’ebano che spiccava nitidamente contro la neve che ci circondava. C’era paura e supplica nel suo atteggiamento, nel modo in cui si teneva pronta. Sapevo che avevamo a disposizione solo un battito di cuore, prima che AM ci fermasse.

La colpii, e lei si accasciò verso di me, sanguinando dalla bocca. Non riuscii a leggere il significato nella sua espressione, il dolore era stato troppo forte, le aveva sfigurato il volto: ma poteva essere stato un grazie. È possibile. Fai che sia così.


Forse sono trascorse alcune centinaia di anni. Non so. AM si è divertito per un po’ di tempo, ad accelerare e a ritardare la mia percezione del tempo. Dirò la parola ora. Ora. Ho impiegato dieci mesi per dire ora. Non so. Io credo che siano state alcune centinaia d’anni.

Era furioso. Non volle che li seppellissi. Non aveva importanza. Era impossibile scavare nelle lastre metalliche. Fece indurire la neve. Fece calare la notte. Ruggì e mandò le locuste. Non servì a nulla: i morti rimasero morti. L’avevo fregato. Era furioso. Avevo pensato che AM mi odiasse, prima. Mi sbagliavo. Non era neppure l’ombra dell’odio che ora trasudava da ogni circuito stampato. Si assicurò che io soffrissi eternamente e non potessi uccidermi.

Lasciò intatta la mia mente. Posso sognare, posso interrogarmi, posso lamentarmi. Li ricordo tutti e quattro. Vorrei…

Ecco, non ha senso. So che li ho salvati, so che li ho salvati da ciò che è accaduto a me, ma non posso dimenticare di averli uccisi. Il volto di Ellen. Non è facile. Qualche volta vorrei dimenticarlo, ma non ha importanza.

AM mi ha modificato, per poter stare tranquillo, suppongo. Non vuole che mi precipiti a tutta velocità contro un banco di computer e mi sfracelli il cranio. O che trattenga il respiro fino a svenire. O mi tagli la gola con una lamina di metallo arrugginito. Vi sono superfici riflettenti, quaggiù. Mi descriverò come mi vedo.

Sono una cosa grande e molle, gelatinosa. Liscia, arrotondata, senza bocca, con bianchi meati pulsanti pieni di nebbia al posto degli occhi. Appendici elastiche che un tempo erano le mie braccia; masse tondeggianti che scendono formando grumi di materia molle e viscida. Lascio una traccia umida quando mi muovo. Chiazze di un grigio malsano, maligno, vanno e vengono sulla mia superficie, come se si irradiasse una luce dall’interno.

Esteriormente: muto, mi trascino intorno, ridotto a una cosa che non potrebbe mai venir riconosciuta come un umano, una cosa la cui forma è una parodia così aliena che l’umanità diventa più oscena per quella vaga rassomiglianza.

Interiormente: solo. Qui. Vivo sotto la terra, sotto il mare, nel ventre di AM che noi creammo perché avevamo speso male il nostro tempo e sapevamo inconsciamente che lui avrebbe potuto far meglio. Almeno loro quattro sono salvi, finalmente.

AM sarà ancora più furibondo per questo. E questo mi consola un poco. Eppure… AM ha vinto, semplicemente… si è vendicato…

Non ho bocca. E devo urlare.

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